DEAN KOONTZ NEL LABIRINTO DELLE OMBRE (Forever Odd, 2005) Questo libro è per Trixie, anche se non lo leggerà mai. Nei gi...
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DEAN KOONTZ NEL LABIRINTO DELLE OMBRE (Forever Odd, 2005) Questo libro è per Trixie, anche se non lo leggerà mai. Nei giorni più difficili trascorsi davanti alla tastiera, quando ero disperato, riusciva sempre a farmi ridere. Le parole «un bravo cane» sono inadeguate, nel suo caso. Lei ha un cuore generoso, è un'anima gentile e un angelo a quattro zampe. «La sofferenza immeritata redime.» MARTIN LUTHER KING JR. «Guarda quelle mani, o Signore, quelle mani hanno lavorato duro per allevarmi.» ELVIS PRESLEY davanti alla bara della madre 1 Svegliandomi, udii un vento tiepido arpeggiare la zanzariera della finestra aperta e pensai a Stormy, ma non era lei. L'aria del deserto odorava leggermente di rose, che non erano in fiore, e di polvere, che nel Mojave abbonda dodici mesi all'anno. Sulla città di Pico Mundo le precipitazioni cadono solo durante il nostro breve inverno. Quella mite notte di febbraio, però, non era addolcita dal profumo di pioggia. Sperai di sentire gli ultimi brontolii del tuono. Se mi aveva svegliato un fragore particolarmente forte, doveva essere stato il tuono in un sogno. Trattenendo il respiro, rimasi disteso ad ascoltare il silenzio, e sentii che il silenzio ascoltava me. La sveglia sul comodino tracciava numeri luminosi nel buio: 02.41. Per un momento pensai di rimanere a letto. Ma di questi tempi non dormo bene come quando ero giovane. Ho ventun anni e sono molto più vecchio di quando ne avevo venti. Sicuro di avere compagnia, aspettandomi di trovare due Elvis che mi osservavano, uno con un sorriso arrogante e l'altro crucciato e triste, mi tirai su a sedere e accesi la lampada. In un angolo si ergeva un solo Elvis: una sagoma di cartone a grandezza
naturale che era stata esposta nell'atrio di un cinema per Blue Hawaii. In camicia hawaiana e ghirlanda di fiori, appariva sicuro di sé e felice. Nel 1961, effettivamente, aveva avuto molto di cui essere felice. Blue Hawaii era un film di successo e il disco era primo nelle classifiche. Quell'anno aveva conquistato sei dischi d'oro, compreso Can't Help Falling in Love, e si stava innamorando di Priscilla Beaulieu. Meno felicemente, dietro insistenza del suo agente, Tom Parker, aveva rifiutato il ruolo di protagonista in West Side Story, preferendo film mediocri come Lo sceriffo scalzo. Gladys Presley, la sua adorata madre, era morta da tre anni e lui continuava a sentirne una grande mancanza. A soli ventisei anni, aveva cominciato ad avere problemi di peso. L'Elvis di cartone sorrideva in eterno, per sempre giovane, incapace di errori o rimpianti, immune al dolore, ignaro della disperazione. Lo invidio. Non esiste una mia replica in cartone di com'ero un tempo e come non sarò mai più. La luce della lampada rivelò un'altra presenza, paziente quanto disperata. Era evidente che era stato lì a guardarmi dormire, aspettando che mi svegliassi. «Salve, dottor Jessup», salutai. Il dottor Wilbur Jessup non poteva rispondere. Il volto era pervaso dall'angoscia. Gli occhi erano pozze desolate; tutta la speranza era colata via in quelle solitarie profondità. «Mi spiace vederla qui», aggiunsi. Strinse le mani a pugno, non con l'intenzione di colpire qualcosa, ma per mostrare frustrazione. Si premette le nocche contro il petto. Il dottor Jessup non aveva mai visitato il mio appartamento prima di allora e nel mio cuore sapevo che non apparteneva più a Pico Mundo. Però gli parlai di nuovo mentre mi alzavo dal letto. «Ho lasciato la porta aperta?» Lui scosse la testa. Aveva gli occhi colmi di lacrime, però non gemeva. Mentre afferravo un paio di jeans dal guardaroba e me li infilavo, aggiunsi: «Ultimamente sono sbadato». Lui aprì i pugni e si guardò i palmi. Gli tremavano le mani. Vi seppellì il viso. «Ci sono talmente tante cose che vorrei dimenticare», continuai, mentre mi mettevo i calzini e le scarpe, «ma mi sfuggono di mente soltanto quelle banali: dove ho lasciato le chiavi, se ho chiuso la porta, se sono rimasto senza latte...»
Il dottor Jessup, radiologo al County General Hospital, era un uomo gentile e quieto, anche se non era mai stato così quieto. Dato che a letto non portavo magliette, ne presi una bianca dal cassetto. Ne avevo qualcuna nera, ma soprattutto bianche. Oltre a un assortimento di blue jeans, avevo due paia di pantaloni bianchi di cotone. Questo appartamento ha solo un armadio a muro piuttosto piccolo. Per metà è vuoto, così pure gli ultimi cassetti del cassettone. Non possiedo un completo. O una cravatta. O scarpe che hanno bisogno di essere lucidate. Per quando fa freddo ho due maglioni girocollo. Una volta ho comperato un gilet di maglia. Pazzia temporanea. Rendendomi conto di aver reso impensabilmente complesso il mio guardaroba, l'ho riportato al negozio il giorno dopo. Il mio amico e mentore, due quintali di peso, P. Oswald Boone (Ozzie), mi ha avvertito che il mio stile nel vestirmi rappresenta una seria minaccia all'industria dell'abbigliamento. Più di una volta ho notato che i capi nel guardaroba di Ozzie hanno dimensioni talmente enormi da mantenere in attivo le fabbriche che io metterei a rischio. Il dottor Jessup era a piedi nudi e indossava un pigiama spiegazzato, a causa del sonno irrequieto. «Signore, vorrei che diceste qualcosa. Lo vorrei davvero.» Invece di fare come gli chiedevo, il radiologo abbassò le mani dal viso, si voltò e uscì dalla stanza. Guardai la parete sopra il letto. Incorniciato e protetto da un vetro vi è un bigliettino della macchina che prevede il futuro al luna park. Promette: SIETE DESTINATI A STARE INSIEME PER SEMPRE. Ogni mattina, inizio la mia giornata leggendo quelle sette parole. Ogni sera le rileggo, spesso più di una volta, finché non arriva il sonno (se arriva). Mi sostiene la certezza che la vita ha un significato. Come lo ha la morte. Dal comodino presi il mio cellulare. Il primo numero a chiamata rapida corrisponde all'ufficio di Wyatt Porter, capo del dipartimento di polizia di Pico Mundo. Il secondo è il numero di casa sua. Il terzo è quello del suo cellulare. Era molto probabile che, prima dell'alba, avrei chiamato Porter, in un posto o nell'altro. Nel soggiorno accesi la luce e scoprii che il dottor Jessup era rimasto lì
in piedi al buio, fra i tesori acquistati nei negozi dell'usato con cui è arredata quella stanza. Quando arrivai alla porta d'ingresso e la aprii, lui non mi seguì. Anche se aveva chiesto la mia assistenza, non trovava il coraggio per ciò che ci aspettava. Nella luce rossastra che proveniva da una vecchia lampada di bronzo con il paralume in seta e le frange di perline, l'arredamento eclettico - poltrone Stickley, sgabelli vittoriani imbottiti, stampe neoclassiche, vasi di vetro colorato - evidentemente gli piaceva. «Senza offesa, signore, ma lei non ha niente a che fare con questo posto.» Il dottor Jessup mi osservò in silenzio, con uno sguardo che poteva essere di supplica. «Qui dentro è pieno di passato fino all'orlo. C'è spazio per Elvis e me, e per i ricordi, ma non per qualcun altro.» Uscii nell'atrio e mi tirai dietro la porta. Il mio appartamento si trova, assieme a un altro, al pianterreno di una villetta vittoriana ristrutturata. Un tempo era la dimora di un'unica famiglia e, con la sua forma irregolare, ha ancora un notevole fascino. Ho vissuto per anni in una stanza d'affitto sopra un garage. Il letto era a pochi passi dal frigorifero. La vita allora era più semplice, e il futuro chiaro. Ho cambiato quel posto con questo non perché mi servisse più spazio, ma perché adesso il mio cuore è qui, e per sempre. Nel portone d'ingresso della casa era inserito un ovale in vetro piombato oltre il quale la notte appariva sfaccettata e ricomposta in un disegno che chiunque poteva intuire. Quando uscii sulla veranda, la notte si rivelò uguale a tutte le altre: profonda, misteriosa, vibrante di potenziale caos. Dai gradini della veranda al vialetto lastricato, al marciapiede, mi guardai attorno alla ricerca del dottor Jessup, ma non lo vidi. Nel deserto che si stende a un'altitudine elevata a una certa distanza da Pico Mundo, a est, l'inverno può essere gelido, mentre le nostre notti, tipiche del deserto di pianura, rimangono miti perfino a febbraio. Gli allori indiani che decoravano il ciglio del marciapiede sospiravano e sussurravano nel vento fragrante e le falene si libravano verso i lampioni stradali. Le case attorno erano silenziose e avevano le finestre buie. Nessun cane abbaiava. Nessuna civetta emetteva il suo grido.
Niente pedoni in giro, niente traffico per le strade. La cittadina pareva essere vittima di un incantesimo, come se soltanto io fossi rimasto lì a sopportare l'inferno in terra. Quando arrivai all'angolo, il dottor Jessup mi raggiunse. Il pigiama e l'ora tarda suggerivano che era venuto da me direttamente da casa sua in Jacaranda Way, in un quartiere migliore del mio. Ora mi guidò in quella direzione. Poteva volare, ma si muoveva lentamente. Io correvo, precedendolo. Anche se temevo ciò che avrei trovato, non meno di quanto lui temeva di rivelarmelo, volevo arrivarci in fretta. Per quanto ne sapevo, poteva ancora esserci una vita in pericolo. Arrivato a metà strada, mi resi conto che avrei potuto prendere la Chevy. Da quando ho la patente, per molto tempo non ho avuto un'auto mia e me ne facevo prestare una di volta in volta dagli amici, quando mi serviva. L'autunno precedente avevo ereditato una Chevrolet Camaro berlinetta coupé. Certi giorni continuo a comportarmi come se non avessi un mezzo di trasporto. Possedere un veicolo che pesa parecchi quintali mi opprime, se ci penso troppo spesso. E visto che cerco di non pensarci, a volte mi dimentico di averlo. Sotto la faccia bucherellata della luna, correvo. La residenza di Jessup è una dimora georgiana in mattoni bianchi con decorazioni eleganti. È situata fra una deliziosa casa in stile vittoriano americano con tante modanature decorative da sembrare una torta di nozze e un'altra in stile barocco nell'accezione più deleteria del termine. Nessuno di questi stili sembra andar bene per il deserto, con le palme che fanno da schermo e le buganvillee che si arrampicano vivaci sui muri. La nostra cittadina è stata fondata nel 1900 da nuovi arrivati provenienti dalla East Coast, che fuggivano dagli inverni rigidi ma portavano con sé un'architettura adatta ai climi freddi. Terri Stambaugh, mia amica e datrice di lavoro, proprietaria del Pico Mundo Grille, mi dice che questo stile importato da fuori è sempre meglio delle tremende decorazioni a stucco e dei tetti coperti di ghiaia che si vedono in molte cittadine del deserto californiano. Presumo che abbia ragione. Raramente ho messo piede fuori da Pico Mundo e non ho mai oltrepassato il confine della contea di Maravilla. La mia vita è troppo piena per permettermi una gita o un viaggio. Non guardo nemmeno i documentari sui viaggi.
Le gioie dell'esistenza si possono trovare ovunque. I luoghi lontani offrono solo modi esotici di soffrire. Inoltre, il mondo oltre Pico Mundo è infestato di estranei e io trovo già abbastanza difficile avere a che fare con i morti che conoscevo da vivi. Al pianterreno e a quello superiore, qualche finestra della casa di Jessup era illuminata da luci soffuse. Per il resto erano buie. Quando arrivai ai gradini della veranda anteriore, trovai il dottore in attesa. Il vento gli arruffava i capelli e scompigliava il pigiama, anche se non so perché lui fosse soggetto al vento. Anche il chiarore lunare si imbatteva in lui, e creava l'ombra. Il radiologo aveva bisogno di essere confortato prima di poter raccogliere le forze quel tanto da condurmi dentro casa, dove senza dubbio giaceva morto, forse con qualcun altro. Lo abbracciai. Era solo un fantasma, invisibile a chiunque tranne a me, eppure era tiepido e solido. Forse vedo i morti soggetti alle manifestazioni climatiche di questo mondo, li vedo soggetti alla luce e all'ombra e li trovo caldi come i vivi non perché loro sono così, ma perché io desidero che lo siano. Forse, in questo modo intendo negare il potere della morte. Il mio dono soprannaturale potrebbe risiedere non nella mente ma nel cuore. Il cuore è un artista che ridipinge nascondendo ciò che lo disturba profondamente, lasciando sulla tela una versione meno cupa, meno aspra della verità. Il dottor Jessup non aveva sostanza, ma mi si appoggiava addosso e io ne sentivo il peso. Era scosso da singhiozzi che non poteva emettere con la voce. I morti non parlano. Forse sanno cose sulla morte che ai vivi non è dato apprendere da loro. In quel momento, la facoltà di parlare non mi dava alcun vantaggio. Le parole non lo avrebbero calmato. Niente se non la giustizia avrebbe potuto alleviare la sua angoscia. Forse nemmeno questa. Quando era vivo, mi aveva conosciuto come Odd Thomas, un personaggio locale. Da alcune persone sono considerato, a torto, un eroe, da quasi tutti un eccentrico. Odd, «Strano», non è un soprannome, è il mio vero nome. La storia del mio nome è interessante, suppongo, ma l'ho già raccontata.
Si riduce al fatto che i miei genitori sono degli squilibrati. Il massimo. Credo che da vivo il dottor Jessup mi trovasse interessante, divertente, sconcertante. Penso di essergli stato simpatico. Solo da defunto mi ha conosciuto per ciò che sono: un compagno dei morti che non se ne vogliono andare. Li vedo e vorrei non vederli. Ho troppo a cuore la vita, però, per respingerli, perché si meritano la mia compassione grazie al fatto di aver sofferto in questo mondo. Quando il dottor Jessup si staccò da me era cambiato. Adesso le sue ferite erano evidenti. Era stato colpito al volto con un oggetto non affilato, forse un pezzo di tubo o un martello. Ripetutamente. Il cranio era fracassato, i lineamenti distorti. Lacerate, escoriate, la pelle ridotta a brandelli, le sue mani facevano pensare che avesse tentato disperatamente di difendersi, oppure che fosse intervenuto per proteggere qualcuno. L'unica persona che viveva con lui era suo figlio Danny. La mia compassione fu rapidamente superata da una rabbia colma di indignazione, emozione pericolosa che offusca il giudizio e preclude la cautela. In tali condizioni, che non cerco, che mi spaventano, che si impadroniscono di me come se fossi posseduto, non posso voltare le spalle a ciò che dev'essere fatto. Mi butto. I miei amici, quei pochi che conoscono i miei segreti, pensano che il mio impulso irresistibile abbia qualcosa di divino. Forse è solo follia momentanea. Un passo dopo l'altro, mentre salivo i gradini e poi attraversavo la veranda, presi in considerazione l'idea di telefonare a Wyatt Porter. Però mi preoccupavo che Danny potesse morire mentre telefonavo e aspettavo le autorità. La porta d'ingresso era semiaperta. Mi voltai e vidi che il dottor Jessup preferiva manifestarsi in cortile piuttosto che in casa. Indugiava nell'erba. Le sue ferite erano scomparse. Aveva lo stesso aspetto di prima che la Morte lo trovasse e pareva spaventato. Finché non se ne vanno definitivamente da questo mondo, anche i morti possono conoscere la paura. Pensereste che non hanno nulla da perdere ma a volte sono assillati dall'ansia, non per ciò che può attenderli Oltre, ma per
coloro che si sono lasciati alle spalle. Spinsi la porta. Si aprì con la stessa facilità e lo stesso silenzio del meccanismo di una trappola a molla ben congegnata. 2 Le lampadine smerigliate a forma di fiamma dentro le applique in silverplated rivelavano lungo il corridoio alcune porte bianche a riquadri, tutte chiuse, e le scale che salivano nell'oscurità. Il pavimento di marmo bianco dell'ingresso era levigato e dava l'impressione di èssere soffice come le nuvole. Il tappeto persiano color rubino, verde e zaffiro sembrava fluttuare come un taxi magico in attesa di un passeggero che avesse il gusto per l'avventura. Oltrepassai la soglia e il pavimento di nuvole mi sostenne. Il tappeto oziava sotto i miei piedi. In situazioni simili le porte chiuse, in genere, mi attraggono. Nel corso degli anni, a volte mi sono sorbito un sogno in cui, durante una perlustrazione, apro una porta bianca a riquadri e mi ritrovo con la gola trapassata da parte a parte con qualcosa di affilato, freddo e spesso come il paletto in ferro di un recinto. Mi sveglio sempre prima di morire, in preda ai conati come se avessi ancora il palo in gola. Dopodiché mi alzo dal letto e non ci ritorno, anche se l'alba è ancora molto lontana. I miei sogni non sono affidabili, come sogni profetici. Per esempio, non ho mai cavalcato a pelo un elefante mentre ero nudo e contemporaneamente impegnato in un rapporto sessuale con Jennifer Aniston. Sono passati sette anni da quella memorabile fantasia notturna, quando ero un ragazzetto quattordicenne. Dopo così tanto tempo, non mi aspetto più che il sogno sulla Aniston si riveli premonitore. Sono sicuro che la scena della porta bianca a riquadri accadrà. Non so dire se rimarrò semplicemente ferito, invalido a vita o ucciso. Pensereste che, quando mi trovo davanti a simili porte bianche, le eviti. E lo farei... se non avessi imparato che non si può eludere il destino, o superarlo in velocità. Il prezzo che ho pagato per questa lezione ha lasciato il mio cuore come un borsellino quasi vuoto, con solo due o tre monetine a tintinnare sul fondo. Preferisco spalancare ogni porta con un calcio e affrontare ciò che mi aspetta piuttosto di voltare le spalle e in seguito dover rimanere all'erta, co-
stantemente, per il cigolio di una maniglia che gira, per il tenue stridore dei cardini alle mie spalle. In questa occasione, le porte non mi dissero nulla. L'intuito mi spingeva su per le scale, e rapidamente. Il corridoio del primo piano era illuminato solo da pallidi fiotti di luce provenienti da due stanze con la porta spalancata. Non avevo sognato porte aperte. Entrai senza esitazione nella prima stanza e mi ritrovai in una camera da letto. Il sangue della violenza sconvolge anche chi ne ha grande esperienza. Le chiazze, gli spruzzi, il colare e il gocciolare creano infinite macchie Rorschach nelle quali ognuno degli osservatori legge lo stesso significato: la fragilità della sua esistenza, la verità del suo essere mortale. Una disperazione di impronte di mani cremisi su una parete erano il linguaggio dei segni della vittima: risparmiami, aiutami, ricordami, vendicami. Sul pavimento, ai piedi del letto, giaceva il corpo del dottor Wilbur Jessup, selvaggiamente percosso. Anche per chi sa che il corpo non è che l'involucro e lo spirito è l'essenza, un cadavere brutalizzato deprime, offende. Questo mondo, che ha il potenziale per essere il Paradiso Terrestre, è invece l'inferno sotto l'Inferno. Nella nostra arroganza, noi lo abbiamo fatto così. La porta che dava sul bagno adiacente era semiaperta. La spinsi con un piede. Anche se oscurata da una macchia di sangue, la lampada della camera da letto mandava la sua luce fin lì, a rivelare che non c'erano sorprese. Alcuni credono che sia l'avidità la radice dell'omicidio. Ma di rado è l'avidità a motivare un assassino. La maggior parte dei crimini ha la stessa terribile causa: i sanguinari uccidono coloro che invidiano, e per ciò che bramano. Questa non è soltanto una tragedia centrale dell'umana esistenza: è anche la storia politica del mondo. Il buon senso, non il mio potere, mi diceva che in questo caso l'assassino bramava il matrimonio felice di cui aveva goduto fino a poco prima il dottor Jessup. Quattordici anni prima il radiologo aveva sposato Carol Makepeace. Erano perfetti l'uno per l'altra. Carol aveva già un figlio di sette anni, Danny. Il dottor Jessup lo aveva adottato.
Danny era mio amico dall'età di sei anni, quando avevamo scoperto il nostro comune interesse per le figurine Monster Gum. Io gli avevo dato un centopiedi marziano divoratore di cervelli, scambiandolo con una belva venusiana di fanghiglia gassosa, il che ci aveva legati sin dal primo incontro, assicurandoci un affetto fraterno per tutta la vita. Ci unisce anche il fatto che siamo diversi, ognuno a suo modo, dall'altra gente. Io vedo i morti che non trovano pace, Danny ha l'osteopsatirosi, una malattia chiamata comunemente «ossa di vetro». Le nostre vite sono state definite (e deformate) dalle nostre afflizioni. Le mie deformazioni sono soprattutto sociali, le sue fisiche. Un anno prima, Carol era morta di cancro. Adesso se n'era andato anche il dottor Jessup, e Danny era solo. Lasciai la camera da letto e mi affrettai silenziosamente lungo il corridoio che portava sul retro della casa. Passando davanti a due stanze chiuse, diretto verso la porta da cui arrivava l'altra fonte di luce, mi preoccupai per gli spazi che mi ero lasciato alle spalle senza averli controllati. Una volta, dopo aver commesso l'errore di guardare il telegiornale, mi ero preoccupato per un asteroide che avrebbe colpito la terra, spazzando via la civiltà umana. L'annunciatrice aveva detto che non era solo possibile, ma probabile. Alla fine del servizio, aveva sorriso. Mi ero preoccupato per un po' di quell'asteroide finché mi resi conto che non potevo fare nulla per fermarlo. Non sono Superman. Sono un cuoco da tavola calda momentaneamente lontano dal grill e dalla piastra. Per un altro po' mi ero preoccupato per l'annunciatrice delle news. Che tipo di persona poteva dare notizie così terrificanti e poi sorridere? Se mai dovessi aprire una porta bianca a riquadri e trovarmi la gola trafitta da un paletto di ferro, o da qualsiasi altro oggetto appuntito, probabilmente sarebbe brandito da quell'annunciatrice. Raggiunsi la porta aperta, entrai nel cono di luce e oltrepassai la soglia. Niente vittime, niente assassino. Le cose per le quali ci preoccupiamo di più non sono mai quelle che ci morderanno. I denti più affilati affondano sempre nella nostra carne quando stiamo guardando da un'altra parte. Senza dubbio, quella era la camera di Danny. Sulla parete dietro il letto disfatto era appeso un poster di John Merrick, il vero Elephant Man. Danny aveva un senso dell'umorismo riguardo alle deformità, soprattutto degli arti, dovuto alle sue condizioni. Non aveva affatto l'aspetto di Merrick, ma Elephant Man era il suo eroe.
«Lo esibivano come un mostro», mi aveva spiegato una volta. «Le donne svenivano solo a vederlo, i bambini piangevano, gli uomini duri indietreggiavano. Era detestato e ingiuriato. Eppure, un secolo dopo è uscito un film basato sulla sua vita e noi conosciamo il suo nome. Chi sa il nome del bastardo che lo schiavizzava e lo esibiva, o i nomi di chi sveniva o piangeva o indietreggiava? Loro sono polvere, lui è immortale. Inoltre, quando usciva in pubblico, quel mantello con il cappuccio che indossava era davvero forte.» Sulle altre pareti c'erano quattro poster dell'intramontabile dea del sesso Demi Moore, al momento più affascinante che mai in una serie di foto pubblicitarie per Versace. Ventunenne, cinque centimetri più basso dei centocinquantadue dichiarati, storpiato dalle ossa deformi per essersi mal risaldate dopo le frequenti fratture, Danny viveva in piccolo ma sognava in grande. Nessuno mi trafisse quando rimisi piede nel corridoio. Non me lo aspettavo, ma è proprio quando è più probabile che accada. Se il vento del Mojave continuava a fustigare la notte, non potevo udirlo, dentro quell'edificio in stile georgiano dai muri spessi, che sembrava una tomba per il silenzio, il freddo dovuto all'impianto di condizionamento e il leggero odore di sangue nell'aria. Non osavo rimandare oltre la telefonata a Porter. Ancora nel corridoio del primo piano, premetti 2 sulla tastiera del mio cellulare e partì la chiamata per casa sua. Quando rispose al secondo squillo, sembrava ben sveglio. Stando in allerta per l'avvicinarsi di un'annunciatrice pazza o peggio, parlai a bassa voce. «Signore, mi spiace se l'ho svegliata.» «Non dormivo. Stavo qui seduto con Louis L'Amour.» «Lo scrittore? Pensavo che fosse morto.» «Morto e defunto quanto Dickens. Dimmi che ti senti solo, figliolo, e non che sei di nuovo nei guai.» «Non li ho chiesti io i guai, signore. Ma farà meglio a venire a casa del dottor Jessup.» «Spero che sia un semplice furto con scasso.» «Omicidio. Wilbur Jessup è per terra in camera sua. Una cosa orribile.» «Dov'è Danny?» «Credo sia stato rapito.» «Simon», disse il Capo. Simon Makepeace, il primo marito di Carol e padre di Danny, era stato
rilasciato dal carcere quattro mesi prima, dopo esserci rimasto sedici anni per omicidio colposo. «Meglio che venga con un po' di uomini», dissi. «E senza sirene.» «C'è ancora qualcuno lì?» «Ne ho la sensazione.» «Tu tieniti da parte, Odd.» «Lo sa che non ci riesco.» «Non capisco il tuo impulso.» «Nemmeno io, signore.» Premetti FINE e rimisi in tasca il cellulare. 3 Presumendo che Danny fosse ancora nei paraggi e in cattività, e che si trovasse con maggiori probabilità al pianterreno, mi diressi verso le scale. Prima di cominciare a scendere, feci dietro-front e a tornai sui miei passi. Mi aspettavo che mi sarei diretto verso le due porte chiuse, sul lato destro del corridoio, tra la camera da letto principale e quella di Danny, e che avrei scoperto che cosa si nascondeva dietro di esse. Come mi era appena accaduto, però, feci diversamente. Sul lato sinistro c'erano altre tre porte chiuse. Nemmeno quelle mi attiravano. Oltre alla capacità di vedere i fantasmi, un dono che scambierei volentieri con la bravura al pianoforte o con il talento nel disporre i fiori, ho ricevuto il «magnetismo psichico», ciò che io chiamo sindrome da MP. Quando qualcuno non è nel posto dove mi aspetto di trovarlo, posso andare a fare una passeggiata o un giro in bici o in macchina, tenendo a mente il suo nome o la sua faccia e passando a caso da una strada all'altra; a volte entro pochi minuti, a volte entro un'ora, incontro chi sto cercando. È come mettere sul tavolo un paio di quelle calamite con i cagnolini e vederle scivolare inesorabilmente l'una verso l'altra. La parola chiave è a volte. In certe occasioni, il mio MP funziona come il miglior orologio di Cartier. In altre, assomiglia a un contaminuti da cucina comprato in qualche svendita di un discount che chiude bottega: lo carichi per fare l'uovo in camicia e ti ritrovi con un uovo sodo. L'inaffidabilità di questo dono non è la prova che Dio sia crudele o indifferente, però potrebbe perlomeno dimostrare che sia dotato di senso
dell'umorismo. L'errore sta in me. Non riesco a rimanere abbastanza rilassato perché il dono funzioni. Mi distraggo: in questo caso, dalla possibilità che Simon Makepeace, fregandosene del cognome da pacificatore, spalanchi una porta, balzi nel corridoio e mi randelli a morte. Continuai, oltrepassando il cono di luce che usciva dalla stanza di Danny, dove Demi Moore appariva splendida ed Elephant Man continuava a sembrare un pachiderma. Mi fermai nel buio all'incrocio con un secondo corridoio, più corto. Quella era una casa grande. Era stata costruita nel 1910 da un immigrato da Philadelphia che aveva fatto fortuna con il formaggio cremoso o con la gelignite, non ricordo mai quale dei due. La gelignite è un esplosivo ad alto potenziale consistente in una massa gelatinosa di nitroglicerina a cui è aggiunto del nitrato di cellulosa. Nel primo decennio del secolo precedente la chiamavano gelatina esplosiva e andava alla grande in quegli ambienti dove avevano un interesse speciale nel far saltare in aria le cose. Il formaggio cremoso è formaggio cremoso. È una delizia in un'ampia varietà di piatti, ma raramente esplode. Mi piacerebbe saperne di più sulla storia locale, ma non sono mai riuscito a dedicare al suo studio tutto il tempo che avrei desiderato. I morti continuano a distrarmi. Ora svoltai a sinistra nel secondo corridoio, avvolto dall'oscurità ma non buio pesto. Alla sua estremità, un pallido chiarore rivelava la porta aperta che dava sulla scala posteriore. Non era accesa la luce delle scale. Il chiarore proveniva dal pianterreno. Oltre a stanze e armadi a muro su entrambi i lati che non avevo l'impulso di controllare, oltrepassai un ascensore. Funzionava a stantuffo idraulico ed era stato installato prima del matrimonio di Wilbur e Carol, quando ancora Danny (che allora aveva sette anni) non era andato ad abitare lì. Se si è affetti da osteopsatirosi, ci si può di tanto in tanto rompere un osso con una facilità estrema. A sei anni Danny si era fratturato il polso destro distribuendo le carte durante una partita a Uomo Nero. Quindi i gradini costituiscono un grosso rischio. Soprattutto quando era bambino, se fosse caduto giù da una rampa di scale sarebbe probabilmente morto per diverse fratture al cranio. Anche se io non avevo paura di cadere, quella scala posteriore mi terrorizzava. Era a chiocciola e tutta chiusa, quindi non potevo vedere se non
due o tre scalini sotto di me. L'intuito mi diceva che laggiù qualcuno mi stava aspettando. Come alternativa alle scale, l'ascensore sarebbe stato troppo rumoroso. Messo in allarme, Simon Makepeace mi avrebbe aspettato al mio arrivo. Non potevo tirarmi indietro. Ero spinto a scendere, e velocemente, nelle stanze sul retro del pianterreno. Prima di rendermi conto in pieno di ciò che facevo, premetti il tasto per la chiamata. Ritrassi il dito con uno scatto, come se me lo fossi punto su uno spillo. Le porte non si aprirono immediatamente. L'ascensore si trovava al pianterreno. Mentre il motore cominciava a ronzare, mentre il meccanismo idraulico sospirava, mentre la cabina saliva dal pozzo con un fruscio leggero, mi resi conto di avere un piano. Buon per me. Il realtà, la parola «piano» era un po' eccessiva. Ciò che avevo in mente era più che altro un trucco, una diversione. L'ascensore arrivò con un dling talmente forte nella casa silenziosa che trasalii, anche se mi ero aspettato quel suono. Quando le ante scorrevoli si aprirono ero in tensione, ma nessuno si gettò su di me. Mi sporsi all'interno della cabina e premetti il tasto per rimandarlo al pianterreno. Mentre ancora le ante si stavano richiudendo, corsi verso la scala a chiocciola e mi precipitai giù alla cieca. Il valore della diversione si sarebbe ridotto a zero nel momento in cui la cabina fosse arrivata di sotto, perché allora Simon avrebbe scoperto che non ero a bordo. La scala claustrofobica portava in un locale, esterno alla cucina, dal pavimento in pietra dove togliersi stivali e scarponi infangati e tenere appesi i pastrani. Una «stanza degli stivali» sarebbe stata utilissima a Philadelphia, città dalle sicure piogge primaverili e dagli inverni nevosi, ma in un'abitazione nel Mojave cotto dal sole non era più necessaria di una rastrelliera per scarponi da sci. Per lo meno non era un ripostiglio pieno di gelignite. Da quella stanza, una porta conduceva al garage, una al cortile posteriore. Una terza dava sulla cucina. In origine, la casa non era stata progettata per avere un ascensore. Chi aveva eseguito il lavoro era stato costretto a collocarlo in un angolo dell'ampia cucina, una sistemazione non ideale. Non appena arrivai nella stanza degli stivali, in preda alle vertigini per la
velocità con cui avevo affrontato la stretta curva della scala a chiocciola, un dling annunciò che l'ascensore era sceso al piano terra. Afferrai una scopa, come se potesse servirmi a spazzare via un assassino psicopatico. Al meglio, sfregandogli le setole contro il viso, avrei potuto danneggiargli gli occhi e spaventarlo, facendogli perdere l'equilibrio. La scopa non dava la sicurezza che avrebbe procurato un lanciafiamme, ma era meglio di uno spazzolone a filacce per lavare i pavimenti e di sicuro più minacciosa di un piumino per la polvere. Mettendomi accanto alla porta della cucina, mi preparai a dare il benservito a Simon, appena si fosse precipitato nella stanza degli stivali alla mia ricerca. Non si precipitò. Dopo ciò che mi sembrò un tempo bastevole a ridipingere le pareti grigie in un colore più allegro, ma che in realtà potevano essere stati solo quindici secondi, guardai la porta che dava sul garage. Poi quella che dava sul cortile posteriore. Mi chiedevo se Simon Makepeace avesse già costretto Danny a uscire di casa. Potevano essere nel garage, Simon al volante dell'auto del dottor Jessup, Danny legato e impotente nel sedile posteriore. O magari avevano attraversato il cortile, diretti al cancello dello steccato. Simon poteva avere un veicolo suo nel vialetto dietro la proprietà. Però mi sentivo incline a spingere la porta a battente ed entrare in cucina. Erano accese soltanto le luci sotto i pensili e illuminavano i ripiani dei mobiletti che correvano lungo il perimetro delle pareti. Mi bastavano per vedere che ero solo. Incurante di ciò che vedevo, però, intuii una presenza. Qualcuno poteva starsene accucciato, nascondendosi dietro l'estremità del grande blocco a isola al centro della stanza. Battagliero con la mia scopa, impugnandola come fosse un randello, iniziai cautamente a girarle attorno. Il lucente pavimento di mogano emise deboli squittii sotto le mie scarpe dalla suola di gomma. Quando avevo girato attorno a tre quarti dell'isola, udii le porte dell'ascensore aprirsi alle mie spalle. Girai rapidamente su me stesso per scoprire non Simon, ma uno sconosciuto. Aveva aspettato che scendessi con l'ascensore e, visto che invece non c'ero, aveva capito che si trattava di un trucco. Aveva avuto presenza di spirito, nascondendosi nella cabina immediatamente prima che io entrassi in cucina.
Era flessuoso e colmo di un'energia trattenuta. Il suo sguardo verde riluceva di tremenda consapevolezza; quelli erano gli occhi di uno che conosceva molti modi per uscire dal Paradiso Terrestre. Le labbra squamose descrivevano la curva di una bugia perfetta: un sorriso nel quale la malizia cercava di passare per intento amichevole, nel quale il divertimento lasciava di fatto gocciolare veleno. Prima che potessi pensare a una metafora per descrivere il naso, il perfido bastardo colpì. Premette il grilletto di un Taser sparando due frecce che, trascinandosi dietro due fili sottili, mi bucarono la maglietta e mi procurarono una scossa elettrica debilitante. Caddi come una strega in volo, a cui all'improvviso viene tolta la sua magia: duramente, e con una scopa inutile. 4 Quando si beccano forse cinquantamila volt da quel simpatico aggeggio che sembra una pistola giocattolo, chiamato Taser, deve passare un po' di tempo prima che ci si senta in vena di ballare. Per terra, intento all'imitazione di uno scarafaggio acciaccato, in preda a contorcimenti violenti, privato del minimo controllo motorio, cercai di urlare, invece rantolai. Un lampo di dolore e una pulsazione intensa e persistente percorsero ogni via nervosa del mio corpo con una tale autorità che potevo vederli con gli occhi della mente, con la stessa chiarezza con cui avrei individuato le superstrade su una cartina. Maledissi il mio aggressore, ma l'invettiva uscì trasformata nel gemito di un gerbillo in ansia. Lui torreggiava su di me e mi aspettavo di essere preso a calci. Era un tipo che si sarebbe divertito a prendermi a calci. Se non portava scarponi chiodati era solo perché li aveva mandati a far mettere spuntoni aguzzi sul davanti. Le braccia sbatacchiavano, le mani erano in preda agli spasmi. Non riuscivo a coprirmi il volto. Lui parlò, ma le sue parole non significavano niente, sembravano il crepitio di fili elettrici in cortocircuito. Quando raccolse la scopa, seppi dal modo in cui la impugnava che intendeva colpirmi ripetutamente sulla faccia con il manico di metallo, fino a che Elephant Man, al mio confronto, sarebbe parso un modello di GQ.
Sollevò in alto quell'arma da strega. Prima che me la sbattesse sulla faccia, però, si voltò all'improvviso, guardando verso la parte anteriore della casa. Evidentemente aveva udito qualcosa che gli aveva fatto cambiare l'ordine delle sue priorità, perché gettò la scopa da parte. Se la squagliò attraverso la stanza degli stivali e senza dubbio lasciò la casa dalla porta posteriore. Un ronzio persistente nelle orecchie mi impediva di sentire ciò che aveva udito il mio assalitore, ma presumevo che fosse arrivato Porter con i suoi agenti. Gli avevo detto che il dottor Jessup giaceva morto nella camera da letto principale al primo piano, ma lui avrebbe ordinato una perquisizione dell'intera casa secondo le regole. Ero ansioso di non essere trovato lì. Nel dipartimento di polizia di Pico Mundo, soltanto il Capo sa del mio dono. Se mi trovassero di nuovo per primo sulla scena di un crimine, un sacco di agenti si farebbero delle domande su di me più di quante già se ne facciano. La probabilità che qualcuno di loro salti alla conclusione che a volte i morti vengono da me a chiedere giustizia sarebbe talmente minima da essere inesistente. Però non voglio correre rischi. La mia esistenza è già muy strana e così complessa che mi tengo attaccato alla sanità mentale solo mantenendo uno stile di vita minimalista. Non viaggio. Vado quasi ovunque a piedi. Non partecipo a feste. Non seguo le notizie né la moda. Non mi interesso di politica. Non faccio progetti per il futuro. Il mio unico lavoro è stato quello di cuoco in una tavola calda da quando, a sedici anni, ho lasciato casa mia. Di recente ho preso un'aspettativa dal lavoro perché perfino la sfida di fare frittelle abbastanza soffici e sandwich con pancetta, lattuga e pomodoro che crocchino nel modo giusto sembrava troppo ardua, aggiunta ai miei altri problemi. Se il mondo sapesse che cosa sono, che cosa posso vedere e fare, domattina alla mia porta ci sarebbero migliaia di persone. Chi soffre per un lutto. Chi ha rimorsi. I sospettosi. Gli speranzosi. I fiduciosi. Gli scettici. Vorrebbero che servissi da medium tra loro e le persone care che hanno perduto, insisterebbero che mi mettessi a fare il detective per ogni caso di omicidio irrisolto. Alcuni mi vorrebbero venerare, altri cercherebbero di provare che sono un ciarlatano. Non so come riuscirei a voltare le spalle a chi si sente solo e abbandonato, a chi nutre delle speranze. Nel caso ci riuscissi, non so se mi piacerebbe
la persona che diventerei. Però, se non riuscissi a voltare le spalle a nessuno, sarei distrutto dal loro amore e dal loro odio. Mi stritolerebbero fra gli ingranaggi del loro bisogno e io sarei ridotto in polvere. Adesso, temendo di essere trovato nella casa del dottor Jessup, sbatacchiavo le braccia, mi dimenavo e strisciavo sul pavimento. Non ero più in preda a un dolore fortissimo, però non avevo nemmeno ripreso il pieno controllo dei movimenti. Ho un lungo elenco di cose che non so come ho fatto a fare. Alla fine, si tratta sempre di perseveranza. Una volta nella dispensa, mi richiusi la porta alle spalle. Quello spazio chiuso puzzava di penetranti odori chimici che non mi era mai capitato di annusare in vita mia. Il sapore di alluminio bruciato mi fece quasi venire la nausea. Non avevo mai sentito prima il gusto di alluminio bruciato, quindi non so come l'ho riconosciuto, ma ero sicuro che si trattasse di quello. All'interno del mio cranio, crocchiava e sfrigolava un laboratorio di Frankenstein percorso da scariche di corrente elettrica. Resistori sovraccarichi ronzavano. Molto probabilmente i miei sensi del gusto e dell'odorato non erano affidabili. Il Taser li aveva momentaneamente messi fuori uso. Sentendomi bagnato sul mento pensai che fosse sangue. Dopo averci pensato ulteriormente, mi resi conto di sbavare. Durante un'accurata perquisizione della casa, non avrebbero escluso la dispensa. Avevo solo guadagnato un minuto o due per avvertire il Capo. Mai prima di allora la funzione di una semplice tasca nei pantaloni si era dimostrata per me tanto complicata da capire. Ci metti le cose, le togli. Adesso non riuscivo a infilare la mano nella tasca dei miei jeans; sembrava che qualcuno l'avesse cucita. Una volta che finalmente la feci entrare, non ce la facevo a tirarla fuori. Alla fine ci riuscii, però mi accorsi che non avevo preso il cellulare. Proprio quando le strane puzze chimiche cominciavano a trasformarsi nei familiari odori di patate è cipolle, ripresi il possesso del telefonino e lo aprii. Sempre sbavando, ma con orgoglio, pigiai e tenni premuto il tasto 3, che mi metteva in contatto con il cellulare di Porter. Se fosse stato impegnato personalmente nella perquisizione, molto probabilmente non si sarebbe fermato per rispondere al telefono. «Presumo che sia tu», disse.
«Sì, signore, sono proprio qui.» «Hai una voce buffa.» «Io non mi sento buffo. Mi sento taserizzato.» «Eh?» «Colpito con il Taser. Il cattivo mi ha elettrizzato.» «Dove sei?» «Nascosto nella dispensa.» «Non va bene.» «È meglio che dover spiegare un po' di cosette.» Il Capo è protettivo nei miei confronti. Si preoccupa quanto me che io eviti la disgrazia di espormi al pubblico. «Qui la scena è tremenda», disse. «Sì.» «Tremenda. Il dottor Jessup era un brav'uomo. Tu aspetta lì.» «Signore, Simon potrebbe portare Danny fuori città in questo momento.» «Ho messo dei blocchi alle due superstrade.» C'erano solo due strade per uscire da Pico Mundo, tre, se si contava anche la morte. «Signore, che succede se qualcuno apre la porta della dispensa?» «Cerca di sembrare una confezione di cibo in scatola.» Lui riattacco e io spensi il mio cellulare. Rimasi seduto lì al buio per un po', cercando di non pensare, ma questo non funziona mai. Mi veniva in mente Danny. Poteva essere morto, ormai, ma ovunque fosse non si trovava in nessun posto gradevole. Com'era stato per sua madre, aveva qualcosa che lo metteva in pericolo: Danny le ossa di vetro, sua madre la bellezza. Simon Makepeace molto probabilmente non sarebbe stato ossessionato da Carol se lei fosse stata brutta o anche solo insignificante. Non avrebbe certamente ucciso un uomo per lei. Contando il dottor Jessup, due uomini. Fino a quel momento ero rimasto solo nella dispensa. Anche se la porta non si era aperta, all'improvviso avevo compagnia. Una mano mi afferrò la spalla, ma questo non mi spaventò. Sapevo che il visitatore doveva essere il dottor Jessup, morto e senza pace. 5 Il dottor Jessup non aveva costituito una minaccia per me quando era in
vita, e nemmeno adesso. Di tanto in tanto i poltergeist, i fantasmi in grado di dare energia alla propria rabbia, possono fare danni, in genere però sono solo frustrati, non malvagi. Sentono di avere delle faccende in sospeso in questo mondo e sono persone cui la morte non ha diminuito la testardaggine che le caratterizzava in vita. Gli spiriti delle persone profondamente cattive non se ne stanno in giro per lunghi periodi di tempo, facendo il diavolo a quattro e uccidendo i vivi. Questa è Hollywood. Gli spiriti dei cattivi in genere se ne vanno in fretta, come se avessero un appuntamento, in seguito alla morte, con qualcuno che non osano far aspettare. Il dottor Jessup, probabilmente, era passato attraverso la porta della dispensa con la stessa facilità della pioggia attraverso il fumo. Perfino i muri non costituivano più una barriera per lui. Quando tolse la mano dalla mia spalla, pensai che si sarebbe seduto sul pavimento a gambe incrociate, come un santone indiano, nella posizione in cui ero io, e così fece. Stava di fronte a me nel buio, cosa che capii quando tese le sue mani per afferrare le mie. Se non poteva riavere indietro la sua vita, voleva essere rassicurato. Non occorreva che mi parlasse per farmi capire ciò di cui aveva bisogno. «Farò del mio meglio per Danny», sussurrai a voce bassissima, per non farmi udire fuori della dispensa. Non ritenevo che le mie parole sarebbero state prese come oro colato. Non mi sono guadagnato da parte di nessuno un tale livello di fiducia. «La dura verità», continuai, «è che il mio meglio potrebbe non essere sufficiente. Non sempre lo è stato, in precedenza.» La sua stretta sulle mie mani si rafforzò. Ci tenevo talmente tanto a lui che volevo incoraggiarlo a lasciare andare questo mondo e accettare la grazia che la morte gli offriva. «Signore, tutti sanno che è stato un bravo marito per Carol. Ma potrebbero non rendersi conto di che bravo padre è stato per Danny.» Più a lungo uno spirito indugia, maggiori probabilità ha di rimanere incastrato qui. «È stato così disponibile a prendersi cura di un bambino di sette anni con tanti problemi. E gli ha sempre fatto sentire che era fiero di lui, fiero di quanto soffrisse senza lamentarsi, del suo coraggio.» Grazie al modo in cui aveva vissuto, il dottor Jessup non aveva motivo
di temere il trapasso. Rimanere qui, d'altra parte, muto osservatore incapace di influenzare i fatti, gli garantiva la sofferenza. «Lui le vuole bene, dottor Jessup. Pensa a lei come al suo vero padre, all'unico padre.» Ero grato al buio assoluto e al suo silenzio spettrale. Ormai dovrei essere corazzato contro il dolore altrui e il rimpianto lacerante di coloro che muoiono prematuramente e devono andarsene senza l'addio dei loro cari, ma anno dopo anno divento sempre più vulnerabile a entrambi. «Lo sa com'è fatto Danny», continuai. «Un tipetto difficile. Sempre con la battuta pronta. Ma io so ciò che prova realmente. E di certo lei sa che cosa provava Carol per lei. Sembrava risplendere d'amore.» Per un po' rimasi in silenzio assieme a lui. Se li si spinge eccessivamente, tendono ad aggrapparsi ancora di più, perfino a farsi prendere dal panico. In quelle condizioni non riescono a vedere il percorso da qui a lì, il ponte, la porta, quello che è. Gli lasciai il tempo di assimilare quanto avevo detto. Poi aggiunsi: «Lei ha fatto talmente tanto di ciò che era stato messo qui a compiere, e lo ha fatto bene, a puntino. È tutto quello che possiamo aspettarci: la possibilità di farlo bene». Ancora un silenzio da parte di entrambi, poi mi lasciò andare le mani. Proprio mentre perdevo il contatto con il dottor Jessup, si aprì la porta della dispensa. La luce della cucina dissolse l'oscurità e Wyatt Porter giganteggiò sopra di me. È grosso, con le spalle arrotondate e il viso allungato. Le persone che non sono in grado di leggergli negli occhi la sua vera natura potrebbero pensare che è incline alla tristezza. Nell'alzarmi in piedi mi accorsi che gli effetti residui del Taser non erano passati del tutto. Mi sfrigolarono ancora nella testa dei suoni elettrici. Il dottor Jessup se n'era andato. Forse si era diretto verso il mondo successivo. Forse era ritornato ad apparire nel cortile anteriore. «Come ti senti?» mi domandò il Capo, indietreggiando dalla dispensa. «Arrostito.» «I Taser non procurano veri danni.» «Senti puzza di capelli bruciati?» «No. Era Makepeace?» «Non era lui», risposi, trasferendomi in cucina. «Un tipo sinuoso come un serpente. Avete trovato Danny?»
«Non è qui.» «Non pensavo che ci fosse.» «La strada è sgombra. Va' nel vicolo.» «Andrò nel vicolo.» «Aspetta all'albero della morte.» «Aspetterò all'albero della morte.» «Figliolo, stai bene?» «Mi prude la lingua.» «Puoi grattarla, mentre mi aspetti.» «Grazie, signore.» «Odd?» «Sì?» «Vai!» 6 L'albero della morte sta dall'altra parte del vicolo, in fondo all'isolato dove si trova la casa di Jessup, nel cortile posteriore della famiglia Ying. D'estate e d'autunno la brugmansia alta una decina di metri è ornata da fiori gialli penduli a forma di campanule, chiamati anche «tromboni d'angelo». A volte più di cento, forse duecento, ognuno lungo dai venticinque ai trenta centimetri, a seconda dei rami. Il signor Ying adora dare lezioni sulla natura mortale della graziosa brugmansia. Ogni parte dell'albero (radici, legno, corteccia, foglie, calici, petali) è tossica. Forse è un'esagerazione. La prima volta che il signor Ying mi raccontò dell'albero, io avevo otto anni e quella fu l'impressione che ricevetti dalla sua disquisizione sulle doti velenose della pianta. Perché il signor Ying, e anche sua moglie, si sentissero tanto fieri di aver piantato e fatto crescere un albero della morte non lo so. Ernie e Pooka Ying sono americani asiatici, ma non hanno niente in comune con Fu Manchu. Sono troppo amabili per dedicare del tempo a esperimenti scientifici in un ampio laboratorio segreto scavato in profondità sotto la loro casa. Gli Ying partecipano alla messa nella chiesa di St. Bartholomew. Lui è membro dei Cavalieri di Columbus. Lei dedica dieci ore a settimana al negozietto di oggetti usati della parrocchia. Vanno molto al cinema ed Ernie è notoriamente un sentimentale, che
piange alle scene in cui muore qualcuno, alle scene d'amore, alle scene patriottiche. Una volta ha pianto perfino quando Bruce Willis si è sparato inaspettatamente in un braccio. Eppure, anno dopo anno, per tre decenni di matrimonio, mentre adottavano e allevavano due orfani, hanno concimato diligentemente l'albero della morte, lo hanno annaffiato, potato, irrorato per tenere lontani gli acari e le cocciniglie. Hanno sostituito la veranda posteriore con una piattaforma più larga, in legno di sequoia, che hanno arredato in modo da avere diversi punti panoramici, dove possono sedere assieme a colazione o durante una calda sera del deserto, ammirando quella magnifica opera letale della natura. Volendo evitare di essere visto dalle autorità che sarebbero entrate e uscite dalla casa di Jessup durante il resto della notte, oltrepassai il cancello nello steccato di paletti sul retro della proprietà Ying. Dato che accomodarmi a sedere in un posto sulla piattaforma senza essere invitato mi sembrava maleducato, sedetti nel cortile, sotto la brugmansia. Il bambino di otto anni che era in me si chiese se l'erba potesse aver assorbito il veleno dall'albero. Se era abbastanza potente, la tossina poteva passare attraverso la stoffa dei miei pantaloni. Mi squillò il cellulare. «Pronto?» Una donna disse: «Ciao». «Chi è?» «Io.» «Penso che abbia sbagliato numero.» «Davvero?» «Sì, penso di sì.» «Sono delusa», borbottò lei. «Succede.» «La conosci la prima regola?» «Come ho detto...» «Vieni da solo», mi interruppe. «... ha un numero sbagliato.» «Sono così delusa da te!» «Da me?» chiesi. «Moltissimo.» «Perché ho il numero sbagliato?» «Questo è patetico», concluse lei chiudendo la telefonata.
L'identificatore della donna era bloccato. Sul mio display non era apparso alcun numero. La rivoluzione nel campo della telefonia non sempre facilita la comunicazione. Fissai il telefono, in attesa che la donna sbagliasse di nuovo numero, ma non suonò più. Lo richiusi. Il vento sembrava essere stato risucchiato via da un buco nel deserto. Oltre i rami immobili della brugmansia che erano pieni di foglie ma sarebbero stati senza fiori fino a primavera inoltrata, nella volta del cielo le stelle luccicavano vivide e la luna era di un argento opaco. Quando controllai l'orologio rimasi sorpreso: le 3.17. Erano trascorsi solo trentasei minuti da quando mi ero svegliato trovando il dottor Jessup in camera mia. Avevo perso la nozione del tempo, presumendo che l'alba fosse vicina. Cinquantamila volt potevano aver messo fuori uso il mio orologio, ma di fatto avevano messo fuori uso la mia capacità di valutare il passare del tempo. Se i rami non avessero occupato così tanto spazio, avrei cercato di trovare Cassiopea, una costellazione che per me aveva un significato particolare. Nella mitologia classica, Cassiopea era la madre di Andromeda. Un'altra Cassiopea, ma questa senza mito, era la madre di una bambina che aveva chiamato Bronwen. E Bronwen è la persona migliore che abbia mai conosciuto, e che mai conoscerò. Quando la costellazione di Cassiopea si trova in questo emisfero e io riesco a individuarla, mi sento meno solo. Questa non è una reazione ragionata a una configurazione di stelle, ma il cuore non può star bene solo con la logica. L'irragionevolezza è una medicina essenziale, purché non ci si faccia un'overdose. Nel vicolo, un'auto della polizia si fermò al cancello. Aveva i fari spenti. Mi alzai da sotto l'albero della morte e, se il mio sedere era stato avvelenato, per lo meno non era ancora caduto a terra. Quando mi sedetti sul sedile del passeggero e chiusi la porta, Porter mi chiese: «Come va la lingua?» «Prego?» «Ti prude ancora?» «Ah! No, ha smesso. Non lo avevo notato.» «Funzionerebbe meglio se prendessi tu il volante, vero?» «Già. Ma sarebbe difficile da spiegare, dato che questa è un'auto della
polizia e io sono solo un cuoco da tavola calda.» Mentre percorrevamo il vicolo, il Capo accese i fari e propose: «Che ne dici se io vago dove mi pare e quando tu senti che dovrei svoltare a destra o a sinistra me lo dici?» «Proviamo.» Visto che aveva spento la radio della polizia, gli domandai: «Non vorranno raggiungerla?» «Lì alla casa di Jessup? È già tutto accaduto. I ragazzi della scientifica sono più bravi di me in questo. Dimmi del tizio con il Taser.» «Occhi verdi e cattivi. Snello e veloce. Come un serpente.» «Adesso ti stai concentrando su di lui?» «No. L'ho solo visto di sfuggita prima che mi fulminasse. Perché questo funzioni, dovrei avere una migliore immagine mentale... oppure un nome.» «Simon?» «Non sappiamo per certo che è coinvolto Simon.» «Ci scommetto gli occhi contro un dollaro che si tratta di lui», replicò il Capo. «L'assassino ha infierito su Wilbur Jessup a lungo dopo che era morto. È stato un omicidio passionale. Secondo me non era solo. Aveva un compagno, magari qualcuno che ha incontrato in prigione.» «È lo stesso. Cercherò di rintracciare Danny.» Proseguimmo in silenzio per un paio di isolati. I finestrini erano abbassati. L'aria appariva nitida, eppure recava l'odore di silice del vasto Mojave dal quale è contornata la nostra città. Le foglie cadute dagli allori indiani scricchiolavano sotto gli pneumatici. Pico Mundo sembrava essere stata evacuata. Il Capo mi guardò di sbieco un paio di volte. «Pensi di tornare a lavorare al Grille?» «Sì. Prima o poi.» «Prima sarebbe meglio. La gente sente la mancanza delle tue patatine fritte.» «Poke le fa buone», replicai, riferendomi a Poke Barnett, l'altro cuoco del Pico Mundo Grille. «Non sono poi così male da doverle mandare giù a forza», ammise lui, «però non hanno niente a che fare con le tue. O le frittelle.» «Nessuno può eguagliare la leggerezza delle mie frittelle», concordai. «È qualche segreto culinario?» «No, è un istinto innato.» «Un dono per le frittelle.» «Sì, a quanto pare.»
«Ti senti già magnetizzato o quel che è?» «No, non ancora. E sarebbe meglio non parlarne, solo lasciare che accada.» Il Capo sospirò. «Non so se mi abituerò mai a questa roba psichica.» «Io non mi ci sono mai abituato», ammisi. «Né mi aspetto che succeda.» Appeso fra due palme davanti alla scuola secondaria di Pico Mundo, un grande striscione dichiarava: ANDATEVENE, MOSTRI! Quando avevo frequentato quella scuola, le squadre sportive erano chiamate i Guerrieri Indiani. Ogni ragazza pompon portava sulla fronte una fascia con una penna. Questo venne considerato un insulto verso le locali tribù di nativi, sebbene nessuno di loro si fosse mai lamentato. Gli amministratori della scuola orchestrarono la sostituzione di Guerrieri Indiani con Mostri di Gila. Si disse che i rettili erano una scelta ideale perché simboleggiavano l'ambiente del Mojave messo a rischio. Nel football, nel basket, nel baseball, nell'atletica su pista, nel nuoto, i Mostri non hanno mai eguagliato i record di vittoria dei Guerrieri Indiani. Quasi tutti hanno dato la colpa agli allenatori. Io credevo che tutta la gente istruita sapesse che un giorno un asteroide avrebbe potuto colpire la terra, distruggendo la civiltà umana. Ma forse molti di loro non ne avevano ancora sentito parlare. Come se mi leggesse nel pensiero, il Capo disse: «Poteva andar peggio. La cimice delle piante del Mojave a strisce gialle è una specie in pericolo. Potevano chiamare la squadra Cimice delle piante». «A sinistra», suggerii, e lui voltò al primo incrocio. «Mi immaginavo che, se Simon fosse mai ritornato qui, lo avrebbe fatto quattro mesi fa», osservò Porter, «quando lo hanno rilasciato da Folsom. Abbiamo messo delle ronde speciali nel quartiere di Jessup per tutto ottobre e novembre.» «Danny ha detto che avevano preso delle precauzioni anche in casa. Serrature migliori alle porte. Un sistema di allarme più sofisticato.» «Così, Simon è stato abbastanza scaltro da aspettare. Un po' alla volta, tutti hanno abbassato la guardia. Il fatto è, però, che quando il cancro si è portato via Carol, non mi aspettavo che Simon tornasse a Pico Mundo.» Diciassette anni prima, geloso al punto dell'ossessione, Simon Makepeace si era convinto che la sua giovane moglie avesse una storia. Si sbagliava. Sicuro che gli incontri fossero avvenuti nella sua stessa casa, quando lui era al lavoro, aveva cercato di farsi dire dal figlio di quattro anni il nome di
qualsiasi visitatore maschio. Dato che non c'era alcun visitatore da identificare, Danny non aveva potuto accontentarlo. Allora Simon aveva tirato su il bambino per le spalle e aveva cercato di fargli uscir fuori il nome scuotendolo. Le fragili ossa del bambino si erano spezzate. Danny aveva riportato fratture a due costole, alla clavicola sinistra, all'omero destro, all'omero sinistro, al radio destro, all'ulna destra e a tre metacarpi nella mano destra. Visto che non riusciva a tirar fuori un nome dal figlio, Simon lo aveva gettato a terra disgustato, rompendogli il femore destro, la tibia destra e tutte le ossa tarsali del piede destro. Carol in quel momento era a fare la spesa dal droghiere. Tornata a casa, aveva trovato Danny da solo, svenuto, sanguinante, con un omero spezzato che usciva dalla pelle del braccio destro. Sapendo che sarebbe stato accusato di maltrattamento di minore, Simon era fuggito. Capiva che la sua libertà aveva le ore contate. Non avendo niente da perdere e nessun limite che lo trattenesse, aveva intenzione di vendicarsi sull'uomo che sospettava maggiormente di essere l'amante di sua moglie. Dato che non esisteva alcun amante, anche il suo secondo atto di violenza era stato assolutamente insensato. Il sospettato principale era Lewis Hallman, con il quale Carol era uscita qualche volta prima del matrimonio. Alla guida del suo Ford Explorer, Simon lo aveva seguito e, aspettato che fosse a piedi, lo aveva investito, uccidendolo. In tribunale dichiarò che aveva intenzione di spaventarlo, non di ammazzarlo. Questo pareva contraddetto dal fatto che, dopo aver investito la sua vittima, Simon aveva fatto manovra e gli era passato sopra un'altra volta. Si dichiarò pentito. Disse che si detestava. Pianse. Non offrì altra difesa se non l'immaturità emotiva. Più di una volta si mise a pregare mentre si trovava nel banco degli imputati. L'accusa non riuscì ad appioppagli l'omicidio di secondo grado. Fu condannato per omicidio preterintenzionale. Se si fosse potuta ricostituire quella giuria e farla votare, senza dubbio avrebbe appoggiato il cambiamento da Guerrieri Indiani a Mostri di Gila. «Volti a sinistra», avvertii il Capo. In conseguenza di una condanna per aggressione seguita a un violento alterco in carcere, Simon Makepeace era rimasto dentro per tutto il periodo dovuto all'omicidio preterintenzionale, più un altro po' per il secondo rea-
to. Non era stato messo fuori sulla parola, quindi, dal momento in cui era uscito, era stato libero di andare dove gli pareva e frequentare chi voleva. Se era tornato a Pico Mundo, adesso teneva prigioniero suo figlio. Nelle lettere scritte dalla prigione, aveva giudicato il divorzio e il secondo matrimonio di Carol come infedeltà e tradimento. Gli uomini con il suo profilo psicologico giungono spesso alla conclusione che, se non possono avere la donna che vogliono, allora non la deve avere nessun altro. Il cancro aveva sottratto Carol a Wilbur Jessup e a Simon; ma Simon poteva aver sentito egualmente l'impulso di punire l'uomo che gli aveva sottratto il suo ruolo di amante. In qualunque modo Danny si trovasse, era un luogo disperato. Per quanto non fosse più vulnerabile psicologicamente né fisicamente come diciassette anni fa, Danny non poteva competere con Simon Makepeace. Non era in grado di proteggersi. «Attraversiamo Camps's End», suggerii.» Camp's End è un quartiere in sfacelo, devastato, dove vanno a morire i sogni luminosi e troppo spesso nascono incubi tenebrosi. Altre sventure mi hanno già condotto per quelle strade, più di una volta. Mentre il Capo accelerava e guidava con impegno accresciuto, commentai: «Se si tratta di Simon, non sopporterà Danny a lungo. Mi sorprende che non lo abbia ucciso in casa, quando ha fatto fuori il dottor Jessup». «Perché dici così?» «Simon non ha mai accettato di aver generato un figlio con un difetto di nascita. L'osteopsatirosi gli ha fatto pensare che Carol lo abbia imbrogliato.» «Così, ogni volta che guarda Danny...» Il Capo non ebbe bisogno di completare la frase. «Il ragazzo fa un po' troppo lo spiritoso, però mi è sempre piaciuto.» Scendendo verso ovest, la luna era diventata gialla. Presto sarebbe stata arancio, una lanterna di Halloween fuori stagione. 7 A Camp's End, nemmeno i lampioni dai vetri ingialliti dal tempo, nemmeno il chiarore lunare riuscivano a stendere una patina di romanticismo sulle decorazioni a stucco che si sbriciolavano, sui rivestimenti dalle assicelle imbarcate, sulla pittura esterna delle case che si sfaldava. Il tetto di una veranda stava cedendo. Un nastro adesivo appiccicato a zigzag sul ve-
tro copriva la ferita di una finestra. Mentre aspettavo l'ispirazione, il Capo andava su e giù per le strade come se stesse facendo una ronda abituale. «Da quando non lavori più al Grille, come riempi le ore, in questo periodo?» «Leggo parecchio.» «I libri sono una benedizione.» «E penso molto più di quanto facessi prima.» «Non consiglierei di pensare troppo.» «Non mi spingo fino a rimuginare.» «Anche riflettere, a volte, è troppo.» Dopo un praticello infestato dalle erbacce ce n'era uno morto, il quale si trovava a sua volta prima di un altro in cui l'erba era stata sostituita da tempo con il ghiaino. Gli architetti paesaggisti hanno toccato raramente gli alberi in questo quartiere. Quello che non era stato massacrato in modo permanente da potature sbagliate aveva avuto il permesso di crescere incontrollato. «Vorrei poter credere nella reincarnazione», dissi. «Io no. Fare il percorso una volta sola mi basta, come prova. Promuovimi o bocciami, Signore, ma non farmi ripetere la scuola.» Io ribattei: «Se c'è qualcosa che desideriamo tantissimo in questa vita ma non possiamo averla, magari potremmo averla la prossima volta». «O magari non averla per niente. Accettare senza amarezza di avere meno ed essere grati per ciò che abbiamo fa parte di ciò che siamo qui a imparare.» «Una volta lei mi ha detto che siamo qui per mangiare tutto il buon cibo messicano che riusciamo», gli rammentai, «e quando siamo sazi è ora di andarcene.» «Non mi ricordo che me lo abbiano insegnato alla scuola domenicale», replicò il Capo. «Così può darsi che abbia fatto fuori due o tre bottiglie di Negra Modelo prima di avere questa pensata teologica.» «Sarebbe difficile accettare una vita qui a Camp's End senza un po' di amarezza.» Pico Mundo è una città prosperosa. Ma nessun grado di prosperità può bastare a eliminare tutte le sventure e l'indolenza non facilita le opportunità. Dove un proprietario mostrava di essere fiero della propria casa, la vernice fresca, la recinzione con i pali diritti, i cespugli ben potati servivano
solo a sottolineare i rifiuti, la rovina, lo sfacelo di quelle circostanti. Ogni isola di ordine non offriva la speranza di una trasformazione allargata a tutta la comunità, sembrava invece una diga non in grado di trattenere l'inevitabile ondata di caos. Quelle strade squallide mi mettevano a disagio, ma anche se le percorremmo avanti e indietro per un po' di tempo non sentivo di essere vicino a Danny e a Simon. Seguendo il mio suggerimento, ci dirigemmo verso un quartiere più accogliente e il Capo disse: «Ci sono vite peggiori di quelle a Camp's End. Alcuni sono perfino contenti qui. Probabilmente qualche abitante di Camp's End potrebbe insegnarci una cosetta o due sulla felicità». «Io sono felice», gli assicurai. Per un isolato o due non disse nulla. Poi: «Sei in pace, figliolo. C'è una grossa differenza». «Quale sarebbe?» «Se stai fermo e se non speri troppo, la pace verrà da te. È una grazia. Ma la felicità devi sceglierla.» «È così facile, eh? Solo scegliere?» «Prendere la decisione di scegliere non è sempre così facile.» Io dissi: «Questo mi suona come se lei stesse pensando troppo». «A volte ci rifugiamo nell'afflizione, uno strano tipo di consolazione.» Sebbene lui facesse una pausa, io non replicai nulla. Continuò: «Ma, non importa ciò che accade nella vita, la felicità è lì per noi, in attesa di essere abbracciata». «Signore, questo le è venuto dopo tre bottiglie di Negra Modelo, oppure erano quattro?» «Devono essere state tre. Non ne bevo mai quattro.» Dopo aver fatto vari giri nel cuore della città, avevo deciso che, per qualche motivo, il mio magnetismo psichico non stava funzionando. Forse avevo bisogno di guidare io. Forse lo choc della scarica elettrica mi aveva creato dei cortocircuiti psichici temporanei. O forse Danny era già morto, e io nel mio subconscio facevo resistenza a lasciarmi attirare verso di lui, solo per trovarlo brutalizzato. Dietro mia richiesta, alle 4.04 secondo l'orologio della Bank of America, Porter accostò al marciapiedi e mi lasciò giù all'estremità nord del Memorial Park, attorno al quale le strade formano una piazza cittadina. «A quanto pare, stavolta non sarò di nessun aiuto», commentai. In passato ho avuto motivo di sospettare che, quando una situazione
coinvolge persone che mi sono particolarmente vicine, verso le quali provo forti sentimenti personali, i miei doni non mi sono utili come quando c'è un leggero grado di distacco emotivo. Forse i sentimenti interferiscono con le funzioni psichiche, come un'emicrania o l'ubriachezza. Danny Jessup mi era vicino come avrebbe potuto essere un fratello. Gli volevo bene. Presumendo che le mie doti paranormali abbiano una fonte più elevata di una semplice mutazione genetica, forse la spiegazione per un funzionamento ineguale è più profonda. Questa limitazione potrebbe avere lo scopo di impedire lo sfruttamento di tali doni per finalità egoistiche; più probabilmente, però, la fallibilità ha lo scopo di mantenermi umile. Se la lezione è l'umiltà, l'ho imparata bene. Più di un giorno è sorto in cui la consapevolezza dei miei limiti mi ha riempito con una delicata rassegnazione che, fino al pomeriggio o anche al crepuscolo, mi ha tenuto a letto con la stessa efficacia delle catene con palle di piombo da cento chili. Quando aprii la portiera, Porter disse: «Sei sicuro, non vuoi che ti porti a casa?» «No, signore. Sono sveglio, pieno di energie e affamato. Sarò il primo a varcare la porta del Grille per fare colazione.» «Non aprono fino alle sei.» Scesi dall'auto, mi chinai e guardai dentro. «Me ne starò seduto nel parco per un po' e darò da mangiare ai piccioni.» «Non abbiamo piccioni.» «Allora darò da mangiare agli pterodattili.» «Ciò che farai sarà stare seduto nel parco a pensare.» «No, signore. Prometto, non lo farò.» Richiusi la portiera. L'auto si staccò dal marciapiede. Dopo aver guardato il Capo che si allontanava fino a scomparire alla vista, entrai nel parco, mi sedetti su una panchina e infransi la promessa. 8 Attorno alla piazza, i lampioni in ferro battuto, verniciati di nero, erano sovrastati ognuno da tre globi. Al centro del Memorial Park, una bella statua di bronzo con tre soldati risalente alla seconda guerra mondiale e solitamente illuminata, si ergeva nell'oscurità. Probabilmente il faretto aveva subito qualche atto di vandalismo.
Di recente, un gruppo piccolo ma risoluto di cittadini aveva chiesto che la statua venisse sostituita, sostenendo che era militarista. Volevano che il Memorial Park rammentasse un uomo di pace. I suggerimenti per il nuovo monumento andavano da Gandhi a Woodrow Wilson a Yasser Arafat. Qualcuno aveva proposto che una statua di Gandhi dovesse avere le sembianze di Ben Kingsley, che aveva interpretato il grande uomo nel film. Allora forse l'attore sarebbe stato convinto a presenziare all'inaugurazione. Questo aveva spinto Terri Stambaug, mia amica e proprietaria del Grille, a suggerire che la statua di Gandhi dovesse assomigliare a Brad Pitt, così almeno sarebbe stato lui a partecipare alla cerimonia, il che sarebbe stato qualcosa di eccezionale, per gli standard di Pico Mundo. Alla stessa riunione cittadina, Ozzie Boone si era proposto come soggetto del monumento. «Gli uomini con un diametro addominale fuori della norma non vengono mai spediti in guerra», aveva asserito, «e se tutti fossero grassi come me non ci sarebbero eserciti.» Alcuni l'avevano considerato uno scherzo, altri avevano trovato nell'idea qualcosa di positivo. Forse un giorno l'attuale statua sarà sostituita da quella di un Gandhi molto grasso con le sembianze di Johnny Depp, ma per il momento rimangono i soldati. Al buio. Le jacarande, che a primavera si ammantano di fiori purpurei, costeggiano le vecchie strade principali del centro, ma il Memorial Park vanta magnifiche palme Phoenix canadensis; la panca sulla quale stavo seduto era sotto le fronde di una di queste palme ed era rivolta verso la strada. Il lampione più prossimo non era tanto vicino e l'albero mi proteggeva dal chiarore lunare che si faceva sempre più rossastro. Anche se me ne stavo seduto al buio, Elvis mi trovò. Si materializzò mentre si sedeva accanto a me. Indossava una divisa militare che risaliva alla fine degli anni Cinquanta. Non saprei dire con certezza se fosse realmente la sua divisa del servizio militare oppure un costume che aveva usato per Café Europa, che era stato girato, montato e messo in circolazione entro cinque mesi dal suo congedo, nel 1960. Tutti gli altri fantasmi di mia conoscenza appaiono nelle vesti che indossavano al momento della morte. Solo Elvis compare abbigliato di volta in volta come più gli piace.
Forse intendeva esprimere solidarietà a chi voleva preservare la statua dei soldati. Oppure pensava semplicemente di star bene in cachi, ed era vero. Poche persone hanno vissuto così esposte al pubblico che la loro vita può essere rammentata giorno per giorno. Elvis è una di queste. Poiché anche le sue attività più comuni sono state documentate accuratamente, possiamo essere del tutto certi che non ha mai visitato Pico Mundo da vivo. Non ci è mai passato durante un viaggio in treno, non è mai uscito con una ragazza di qui, e non ha altri collegamenti di alcun tipo con la nostra città. Perché avesse deciso di apparire in questo angolo ben arrostito del Mojave invece che a Graceland, dove è morto, non lo sapevo. Gliel'ho domandato, ma la regola del silenzio fra i defunti era fra quelle che non voleva infrangere. Di tanto in tanto, in genere di sera, quando siamo seduti nel mio soggiorno e ascoltiamo la sua musica migliore, cosa che ultimamente facciamo spesso, cerco di coinvolgerlo nella conversazione. Gli ho suggerito di usare una specie di linguaggio dei segni per rispondermi: pollice alzato per sì, pollice verso per no... Lui si limita a guardarmi con quegli occhi mezzo pesti e dalle palpebre spesse, ancora più azzurri di come appaiono nei film, e mantiene i suoi segreti. Spesso mi sorride e mi fa l'occhiolino. Oppure mi dà un pugno scherzoso sul braccio. O una pacca sul ginocchio. È un'apparizione affabile. Qui sulla panchina del parco scosse la testa, come a dire che la mia propensione a ficcarmi nei guai non smetteva mai di meravigliarlo. Un tempo pensavo che fosse riluttante a lasciare questo mondo perché la gente qui era stata tanto buona con lui, erano stati moltissimi a volergli bene. Anche se si era perso per strada come artista e si era assuefatto a numerosi farmaci, quando era morto era ancora all'apice della fama, e aveva solo quarantadue anni. Ultimamente ho sviluppato un'altra teoria. Quando avrò il coraggio, gliene parlerò. Se ci ho visto giusto, penso che piangerà nel sentirla. A volte piange. Adesso il Re del rock'n'roll si chinò in avanti sulla panchina, guardando a ovest, e inclinò la testa come per ascoltare. Io non sentivo niente se non il flebile battito di ali mentre i pipistrelli pescavano nell'aria sopra di noi in cerca di falene.
Sempre guardando lungo la strada vuota, Elvis sollevò entrambe le mani con i palmi in alto e fece dei gesti come per invitare qualcuno a unirsi a noi. Sentii un motore in lontananza, di un veicolo più grosso di un'auto, che si stava avvicinando. Elvis mi fece l'occhiolino, come a dirmi che ero impegnato nel mio MP anche se non me ne accorgevo. Invece di andare in giro a cercare, forse mi ero seduto dove sapevo (in qualche modo) che la mia preda mi sarebbe venuta incontro. A due isolati di distanza svoltò l'angolo un polveroso furgone Ford bianco. Veniva verso di noi lentamente, come se l'autista cercasse qualcosa. Elvis mi mise una mano sul braccio, avvertendomi di rimanere seduto nell'ampia ombra della palma. La luce di un lampione inondò il parabrezza e si infilò all'interno del furgone in movimento. Al volante c'era l'uomo che mi aveva sparato con il Taser. Senza rendermi conto che mi muovevo, saltai in piedi per la sorpresa. Il mio movimento non attirò l'attenzione del guidatore. Mi oltrepassò e svoltò a sinistra. Corsi nella strada, lasciando il sergente Presley sulla panchina e i pipistrelli al loro banchetto sospeso per aria. 9 Il furgone sparì dietro l'angolo e io corsi nella sua scia senza vento, non perché sono coraggioso, cosa che non è, e nemmeno perché sono assuefatto al pericolo, anche questo non è vero, ma perché l'inattività non è la madre della redenzione. Raggiunto l'incrocio, lo vidi svanire in un vicolo a mezzo isolato di distanza. Avevo perso terreno. Feci una volata. Quando raggiunsi l'imboccatura del vicolo, lo spazio davanti a me era buio, la strada alle mie spalle illuminata, con la conseguenza che ero bene in vista, come una sagoma in un poligono di tiro, però non era una trappola. Nessuno mi sparò. Prima che io arrivassi, il furgone aveva svoltato a sinistra ed era svanito in un passaggio trasversale. Sapevo dov'era andato solo perché la parete dell'edificio d'angolo rosseggiava per il riverbero dei fanalini di coda. Correndo dietro quella traccia rossa che andava svanendo, sicuro che a-
desso stavo guadagnando terreno perché loro dovevano rallentare per prendere la curva molto stretta, armeggiai con il cellulare che avevo in tasca. Quando arrivai dove il vicolo ne incrociava un altro, il furgone era sparito, e anche qualsiasi luccichio o luce rossastra che ne emanava. Sorpreso, sollevai lo sguardo, aspettandomi quasi di vederlo levitare nel cielo deserto. Pigiai il numero della chiamata rapida per il cellulare di Porter... e scoprii di avere la batteria scarica. Quella notte non avevo attaccato la spina. Bidoni della spazzatura massicci e olezzanti facevano la guardia agli ingressi posteriori di negozi e ristoranti. Le lampade protette da maglie di ferro e azionate dai timer erano quasi tutte spente in quell'ora che precedeva di poco l'alba. Alcuni degli edifici a due e tre piani avevano le saracinesche. Dietro c'erano sicuramente piccoli magazzini dove stivare merci e rifornimenti; solo alcune potevano celare dei garage, ma non avevo modo di stabilire quali. Rimettendo in tasca l'inutile cellulare, proseguii in fretta di qualche passo. Poi mi fermai: incerto, scombussolato. Trattenni il respiro e ascoltai. Udivo solo il mio cuore battere all'impazzata, lo scorrere fragoroso del mio sangue; niente motori, nemmeno al minimo o in lontananza, niente porte che si aprivano o si chiudevano, niente voci. Avevo corso. Non potevo trattenere a lungo il respiro. L'eco della mia espirazione riempì lo stretto passaggio del vicolo. Misi l'orecchio destro contro l'acciaio scanalato della saracinesca più vicina. Lo spazio dall'altra parte sembrava muto come il vuoto. Attraversando e riattraversando il vicolo, da una saracinesca all'altra, non udii e non vidi alcun indizio, ma sentii la speranza consumarsi. Pensai al l'uomo-serpente dietro al volante. Danny doveva essere dietro, assieme a Simon. Mi ritrovai a correre ancora. Fuori del vicolo, nella strada successiva, fino all'incrocio, a sinistra su Palomino Avenue, prima di capire appieno che mi ero immerso di nuovo nel magnetismo psichico, o meglio, che ne ero stato afferrato. Come un piccione viaggiatore ritorna alla sua piccionaia, un cavallo da tiro alla sua stalla, un'ape al suo alveare, io non mi dirigevo a una casa e a un focolare, ma ero in cerca di guai. Lasciai Palomino Avenue per un altro vicolo e sorpresi tre gatti che lottavano soffiando.
Il colpo d'arma da fuoco mi spaventò più di quanto io avessi spaventato i gatti. Rischiai di ruzzolare a terra, invece riuscii a nascondermi fra due bidoni della spazzatura, la schiena contro un muro di mattoni. Le eco ripetute ingannavano l'orecchio, nascondendo la fonte del rumore. Lo sparo era stato forte, faceva pensare a un fucile a pallettoni. Però non riuscivo a determinare da dove fosse partito. Non avevo armi a portata di mano. Un cellulare spento non è un granché. Nella mia vita strana e pericolosa, solo una volta sono ricorso a una pistola. Ho sparato a un uomo. Lui stava uccidendo delle persone con un fucile d'assalto. Sparargli ha salvato delle vite. Dal punto di vista intellettuale o morale, non ho da ridire sull'uso delle armi da fuoco più di quanto ne abbia sull'uso dei cucchiai o delle chiavi inglesi. Il mio problema con le pistole è emotivo. Hanno sempre affascinato mia madre. Nella mia infanzia faceva un uso perverso della pistola, come ho già detto un'altra volta. Non riesco a separare con facilità il giusto uso di una pistola dallo scopo crudele con cui lei usava la sua. In mano mia, un'arma da fuoco sembra avere una vita propria, un tipo di vita freddo e squamoso, e anche un intento malvagio troppo subdolo da controllare. Un giorno, l'avversione che provo per le armi da fuoco potrebbe significare la mia morte. Ma non ho mai avuto l'illusione di vivere per sempre. Se non sarà una pistola, mi farà fuori un germe, un veleno o un piccone. Dopo essere rimasto rannicchiato fra i bidoni per un minuto, forse due, giunsi alla conclusione che lo sparo non era destinato a me. Se mi avesse visto e avesse voluto ammazzarmi, chi aveva sparato si sarebbe avvicinato senza indugio, spingendo un altro proiettile nella camera di scoppio e poi dentro di me. Sopra ad alcuni di quei fondi destinati ad attività economiche, c'erano degli appartamenti. In alcuni di essi si erano accese le luci, infatti lo sparo aveva sostituito le sveglie. Di nuovo in movimento, mi sentii attirare verso il successivo incrocio di viuzze secondarie, poi a sinistra, senza esitazione. A meno di mezzo isolato di distanza c'era il furgone bianco, vicino all'ingresso della cucina del Blue Moon Café. Accanto al Blue Moon c'è un parcheggio che corre attraverso la via principale. Il furgone sembrava essere stato abbandonato sulla parte posteriore
del parcheggio, con il muso rivolto verso il vicolo. Entrambe le portiere anteriori erano aperte e ne usciva la luce dell'abitacolo; oltre il parabrezza non si vedeva nessuno. Mentre mi avvicinavo cauto, udii il ronzio del rumore al minimo. Questo faceva pensare che fossero fuggiti in tutta fretta. Oppure che intendevano ritornare e filar via senza perdere tempo. Il Blue Moon non serve la colazione, soltanto pranzo e cena. Gli addetti alle cucine cominciano ad arrivare solo un paio d'ore dopo l'alba. Il caffè doveva essere chiuso. Avevo i miei dubbi che Simon ne avesse aperto la porta a colpi di pistola per fare razzia nei frigoriferi. Ci sono modi più facili per arraffare una coscia di pollo fredda, anche se magari nessuno altrettanto rapido. Non riuscivo a immaginare dove potevano essere andati, oppure perché avevano abbandonato il furgone se di fatto non ritornavano. Dalla finestra illuminata di un appartamento al primo piano, un'anziana donna in vestaglia azzurra guardò giù. Appariva meno allarmata che curiosa. Mi avvicinai al lato del passeggero e girai lentamente attorno al veicolo. Anche i due battenti della portiera posteriore erano aperti. La luce interna non rivelava la presenza di nessuno. Nella notte si sentivano le sirene avvicinarsi. Mi chiesi chi avesse sparato, a chi e perché. Deforme e vulnerabile com'era, Danny non poteva aver strappato l'arma ai suoi tormentatori. Anche se avesse cercato di usarla, il rinculo gli avrebbe fratturato la spalla, se non il braccio. Girando in cerchio, perplesso, mi domandai che cos'era accaduto al mio amico dalle ossa di vetro. 10 P. Oswald Boone, cintura nera culinaria da due quintali, che avevo da poco svegliato si muoveva in cucina, in pigiama di seta bianca, con la grazia e la rapidità di un maestro di dojo mentre sbatteva le uova per la colazione, nella casa fatta costruire a misura della propria stazza. A volte il suo peso mi spaventa, e mi preoccupo del suo cuore sofferente. Quando cucina, però, sembra senza peso, fluttuante, come quei guerrieri che sfidano la forza di gravità in La tigre e il dragone anche se lui, in realtà, non salta sopra l'isola del piano-cottura.
Guardandolo, quella mattina di febbraio, pensai che, se aveva passato la sua vita a uccidersi con il cibo, poteva anche essere vero che, senza il conforto e il rifugio del cibo, poteva già essere morto da tempo. Ogni vita è complicata, ogni mente è un regno di misteri privi di una mappa che li rappresenti, e quella di Ozzie più di qualsiasi altra. Sebbene lui non parli mai del come o del perché, so che la sua infanzia è stata difficile, che i suoi genitori gli hanno spezzato il cuore. I libri e l'eccesso di peso sono il suo isolamento contro la sofferenza. È uno scrittore, con due serie di romanzi gialli alle spalle, oltre a numerosi saggi. È talmente produttivo che potrebbe arrivare il giorno in cui, mettendo su una bilancia una copia di ogni libro che ha scritto, si potrebbe superare il suo peso. Poiché mi ha assicurato che scrivere sarebbe stato una chemioterapia psichica contro i tumori di origine psicologica, avevo scritto la mia storia vera di perdita e perseveranza e l'avevo messa in un cassetto, in pace se non felice. Con suo sgomento, gli avevo detto di aver chiuso con la scrittura. Lo credevo anch'io. Adesso eccomi qui di nuovo a mettere parole sulla carta, agendo da psico-oncologo di me stesso. Forse, con il tempo seguirò tutti gli esempi di Ozzie e peserò due quintali. Non sarò più capace di correre con i fantasmi e sgattaiolare lungo i vicoli bui con la rapidità e la segretezza che adesso mi riescono tanto bene; ma forse i bambini si divertiranno con le mie bravate da ippopotamo e nessuno avrà da ridire sul fatto che far ridere i bambini in un mondo tetro sia ammirevole. Mentre Ozzie cucinava, gli raccontai del dottor Jessup e di tutto ciò che era accaduto da quando il radiologo defunto era venuto da me in piena notte. Nel raccontare quegli avvenimenti mi preoccupavo per Danny, però mi preoccupavo anche per Terrible Chester. Sebbene Terrible Chester non mi abbia mai graffiato con la ferocia di cui sono convinto sia capace, più di una volta mi ha pisciato sulle scarpe. Ozzie dice che è un'espressione di affetto. Questa teoria sostiene che il gatto mi marca con il suo odore per identificarmi come un membro da lui accettato della famiglia. Ho notato che quando Terrible Chester desidera esprimere il suo affetto per Ozzie, lo fa acciambellandosi e facendo le fusa. Da quando Ozzie mi aveva aperto la porta d'ingresso, mentre attraversavamo la casa e durante il tempo che ero rimasto seduto in cucina, non ave-
vo visto Terrible Chester. Questo mi rendeva nervoso. Avevo delle scarpe nuove. È un gatto grosso, talmente impavido e sicuro di sé che disdegna di muoversi furtivamente. Lui non si intrufola mai in una stanza, ma entra in scena. Anche se si aspetta di essere al centro dell'attenzione, affetta un'aria di indifferenza, perfino di disprezzo, che mette in chiaro come desideri per lo più essere adorato da lontano. Sebbene non si avvicini furtivamente, può comparire vicino alle tue scarpe all'improvviso, cogliendoti di sorpresa. La prima indicazione che qualcosa non va può essere un tepore umido alla punta dei piedi, che ti lascia sconcertato. Fino a che Ozzie io ci spostammo nella veranda posteriore per far colazione, tenni i piedi sollevati da terra, sulla traversa di una sedia. La veranda dà su un prato e un boschetto di allori, podocarpi e graziose piante di pepe della California. Nella luce dorata del mattino, gli uccelli cantavano e la morte sembrava appartenere al mito. Se la tavola non fosse stata costruita con robusto legno di sequoia, si sarebbe lamentata sotto i vassoi di frittatine all'aragosta, ciotole di patate al gratin, montagne di toast, formaggio danese, panini alla cannella, brocche di succo d'arancia e di latte, bricchi di caffè e di cioccolata... «'Ciò che per uno è cibo, per altri è amaro veleno'», citò Ozzie tutto felice, sollevando una forchettata di frittata con il gesto di chi fa un brindisi. «Shakespeare?» domandai. «Lucrezio. Ragazzo, te lo prometto: non sarò mai uno di quei salutisti cacasotto che guardano una pinta di panna densa con lo stesso orrore che uomini più savi riserverebbero alle armi atomiche.» «Sa, quelli di noi che si preoccupano per lei suggerirebbero che il latte di soia alla vaniglia non è quell'abominio che lei dice.» «Alla mia tavola non permetto bestemmie, parolacce o oscenità come 'latte di soia'. Considerati rimproverato.» «L'altro giorno sono passato al Gelato italiano. Adesso hanno dei gusti con metà grassi.» Lui replicò: «I cavalli del nostro ippodromo producono tonnellate di letame alla settimana, e io non mi riempio il frigo nemmeno di quello. Allora, Wyatt Porter dove pensa che potrebbe essere Danny?» «Molto probabilmente Simon si era premunito lasciando un'auto di riserva nel parcheggio vicino al Blue Moon, nel caso la faccenda si mettesse male a casa di Jessup e qualcuno lo vedesse con il furgone.»
«Ma nessuno lo ha visto a casa di Jessup, quindi non era un veicolo che scottava.» «No.» «Però ha cambiato lo stesso macchina al Blue Moon.» «Sì.» «Questo ti sembra avere un senso?» «Ha più senso di qualsiasi altra cosa.» «Per sedici anni, è rimasto ossessionato da Carol, talmente ossessionato da volere Jessup morto per averla sposata.» «Così pare.» «Che cosa vuole fare con Danny?» «Non lo so.» «Simon non mi sembra il tipo che brama un rapporto padre-figlio emotivamente soddisfacente.» «Non corrisponde al profilo», ammisi. «Com'è la tua frittata?» «Fantastica.» «C'è dentro la panna, e il burro.» «Sì, signore.» «Anche il prezzemolo. Non sono contrario a una porzione di verdure, di tanto in tanto. I blocchi stradali non saranno efficaci se Simon ha un veicolo a quattro ruote motrici e se ne va via terra.» «Il dipartimento dello sceriffo fornisce assistenza con pattugliamenti aerei.» «Tu hai qualche percezione su Danny, se è ancora a Pico Mundo?» «Ho questa strana sensazione.» «Strana... come?» «Qualcosa di sbagliato.» «Qualcosa di sbagliato?» «Sì.» «Ah, adesso tutto è lampante.» «Scusi. Non so. Non riesco a essere specifico.» «Non è... morto?» Scossi la testa. «Non penso che sia così semplice.» «Altro succo d'arancia? È appena spremuto.» Mentre Ozzie versava, dissi: «Mi stavo domandando... dov'è Terrible Chester?» «Ti sta osservando», rispose lui, indicandolo.
Quando mi voltai nella poltroncina, vidi il gatto a circa tre metri da me, appollaiato su una trave sporgente del soffitto che sosteneva il tetto della veranda. È rosso-arancio, con delle macchie nere. Gli occhi sono verdi come smeraldi illuminati dal sole. Generalmente, Terrible Chester degna me e chiunque altro solo di un'occhiata distratta, come se gli esseri umani lo annoiassero oltre ogni limite. Con lo sguardo e l'atteggiamento riesce a esprimere un giudizio sprezzante dell'umanità, un disprezzo, che perfino uno scrittore minimalista come Cormac McCarthy avrebbe bisogno di venti pagine per descrivere. Mai prima di allora ero stato oggetto di un interesse così intenso da parte di Chester. Adesso sosteneva il mio sguardo, non distoglieva il suo, non sbatteva le palpebre, e sembrava trovarmi affascinante come un extraterrestre a tre teste. Sebbene non fosse nella posizione che precede un salto, non mi sentivo a mio agio nel dare le spalle a un gatto talmente formidabile; però mi sentivo ancor meno a mio agio nell'instaurare una gara a chi distoglie prima lo sguardo. Lui non lo avrebbe fatto. Quando mi voltai nuovamente verso la tavola, Ozzie si stava prendendo la libertà di mettermi nel piatto un'altra porzione di patate. «Non mi ha mai fissato in questo modo», commentai. «Ti ha fissato così per tutto il tempo che siamo rimasti in cucina.» «Non l'ho visto in cucina.» «Mentre non guardavi, si è intrufolato dentro quatto quatto, ha aperto con la zampa lo sportello di un mobiletto e si è nascosto sotto il lavello.» «Deve aver fatto in fretta.» «Oh, Odd, ha agito come un principe dei gatti, rapido come il lampo e silenzioso. Sono stato così fiero di lui. Una volta dentro il mobiletto, ha tenuto la porta socchiusa e ti ha osservato dal suo nascondiglio.» «Perché non mi ha detto niente?» «Perché volevo vedere che cosa avrebbe fatto.» «Con ogni probabilità, ha a che fare con le scarpe e con la pipì.» «Non penso», mi contraddisse Ozzie. «Questa è una cosa nuova.» «Sta ancora lassù sul trave?» «Sì.» «E continua a osservarmi?» «Intensamente. Ti va un formaggio danese?» «Ho perso l'appetito.»
«Non essere sciocco, ragazzo. A causa di Chester?» «Ha qualcosa a che fare con lui, sì. Mi viene in mente quell'unica volta in cui mi guardava in modo così intenso.» «Rinfrescami la memoria.» Non potei fare a meno di contrarre la gola. «Agosto... e tutto ciò che è accaduto.» Ozzie menò una forchettata nell'aria. «Ah, intendi il fantasma.» L'agosto precedente avevo scoperto che, come me, Terrible Chester è in grado di vedere le anime in pena che indugiano da questo lato della morte. Aveva guardato quello spirito con la stessa intensità con cui ora fissava me. «Non sei morto», mi assicurò Ozzie. «Sei solido come questa tavola di sequoia, anche se non solido quanto me.» «Magari Chester sa qualcosa che io non so.» «Caro Odd, dato che per tanti versi sei un tale giovane ingenuo, sono certo che lui sa un sacco di cose che tu non sai. Che cosa avevi in mente?» «Che il mio tempo sta per finire.» «Sono sicuro che è una cosa meno apocalittica.» «Tipo?» «Hai in tasca qualche topo morto?» «Solo un cellulare morto.» Ozzie mi studiò con gravità. Era sinceramente preoccupato. Allo stesso tempo, è troppo un buon amico per tenermi nella bambagia. «Ebbene», sentenziò, «se il tuo tempo sta per finire, un motivo in più per mangiare un formaggio danese. Quello con i pinoli sarebbe la cosa perfetta per completare un ultimo pasto.» 11 Quando mi offrii di aiutare a sparecchiare e a lavare i piatti prima di andare via, Little Ozzie (che in realtà pesa venticinque chili più di suo padre, Big Ozzie), scacciò la proposta con enfasi, agitando una fetta di pane tostato e imburrato. «Siamo stati seduti qui solo quaranta minuti. Di solito non rimango meno di un'ora alla tavola mattutina. Le mie trame migliori nascono davanti al caffè della colazione e alle brioche all'uva passa.» «Dovrebbe scrivere una serie ambientata nel mondo culinario.» «Gli scaffali delle librerie rigurgitano già di gialli con chef che fanno gli
investigatori, critici culinari che fanno gli investigatori...» In una delle due serie che ha scritto il protagonista è un detective enormemente obeso con una moglie snella e sexy che lo adora. Ozzie non si è mai sposato. L'altra serie parla di una simpatica investigatrice affetta da un sacco di nevrosi e da bulimia. Ozzie è molto vicino a farsi venire anche lui la bulimia, come pure a cambiare il suo intero guardaroba in capi elasticizzati. «Ho preso in considerazione», continuò, «di iniziare una serie su un detective che comunica con gli animali da compagnia.» «Una di quelle persone che sostengono di saper parlare con gli animali?» «Sì, ma per lui sarebbe vero.» «E così gli animali lo aiuterebbero a risolvere i crimini?» domandai. «Sì, però gli complicherebbero anche i casi. I cani gli direbbero quasi sempre la verità, ma gli uccelli spesso mentirebbero, e i porcellini d'India sarebbero sinceri ma portati all'esagerazione.» «Quel tizio mi è già simpatico.» In silenzio, Ozzie spalmò la marmellata al limone sulla brioche, mentre io infilzavo il formaggio danese con la forchetta. Dovevo andare, dovevo fare qualcosa. Stare lì seduto un altro momento sembrava intollerabile. Mordicchiai il formaggio. Di rado rimaniamo seduti in silenzio. A lui non mancano mai le parole; io in genere posso trovarne qualcuna per conto mio. Dopo un minuto o due, mi accorsi che Ozzie mi stava fissando con non minore intensità di Terrible Chester. Avevo attribuito questo vuoto nella conversazione alla sua necessità di masticare. Adesso mi accorsi che non era così. La brioche è fatta con uova, lievito e burro. Ti si squaglia in bocca quasi senza masticare. Ozzie si era zittito perché stava rimuginando. E rimuginava su di me. «Che cosa c'è?» gli domandai. «Non sei venuto qui per far colazione», rispose. «Di certo, non per una tale colazione.» «E non sei venuto qui per dirmi di Wilbur Jessup, o di Danny.» «Ma sì, è per questo che sono venuto.» «Allora me lo hai detto, ed è evidente che non vuoi quel formaggio danese, quindi suppongo che adesso te ne andrai.» «Sì», risposi, «me ne dovrei andare.» Però non mi alzai.
Mentre versava una fragrante miscela colombiana da un thermos a forma di bricco da caffè, Ozzie non mi staccava gli occhi di dosso. «Non ho mai saputo che tu potessi ingannare qualcuno, Odd.» «Le assicuro che con la maggior parte delle persone riesco a dissimulare.» «No, non ci riesci. Sei un testimonial della sincerità. Hai la scaltrezza di un agnellino.» Distolsi lo sguardo da lui e scoprii che Terrible Chester era sceso dal trave del soffitto. Ora sedeva sul primo gradino della veranda e continuava a fissarmi intensamente. «Ma, cosa ancora più sorprendente», continuò Ozzie, «raramente ti ho colto a indulgere nell'autoinganno.» «Allora sarò canonizzato?» «Rispondere in modo insolente a chi è più anziano di te ti impedirà per sempre di stare in compagnia dei santi.» «Accidenti. Non vedevo l'ora di avere un'aureola. Sarebbe una lampada da lettura tanto comoda!» «Quanto all'autoinganno, molte persone lo trovano altrettanto essenziale dell'aria per la sopravvivenza. Tu vi indulgi raramente. Eppure insisti di essere venuto qui solo per dirmi di Wilbur e Danny.» «Sto insistendo?» «Non con convinzione.» «Per cosa lei pensa che sia venuto qui?» «Hai sempre scambiato la mia assoluta sicurezza per pensiero profondo», rispose lui senza esitare, «quindi, quando sei alla ricerca di un'intuizione profonda, chiedi udienza da me.» «Intende dire che tutte le intuizione profonde che mi ha dato nel corso degli anni in realtà erano superficiali?» «Certo che lo erano, Odd. Come te, io sono soltanto umano, anche se ho undici dita.» Ne ha proprio undici, di cui sei alla mano sinistra. Dice che un neonato su novantamila nasce con questa singolarità. I chirurghi amputano il dito in più con interventi di routine. Per qualche motivo che Ozzie non mi ha mai rivelato, i suoi genitori hanno rifiutato l'autorizzazione all'intervento. Era l'attrazione degli altri bambini: il ragazzo con undici dita; poi il ragazzo grasso con undici dita; infine il ragazzo grasso con undici dita e le battute fulminanti. «Per quanto le mie intuizioni non siano state profonde», aggiunse, «era-
no offerte con sincerità.» «Questa è una consolazione, immagino.» «Comunque, oggi sei venuto qui con una bruciante domanda filosofica che ti turba talmente tanto da non volerla porre.» «No, non è così», obiettai. Guardai i resti della mia frittata all'aragosta che stavano raffreddando. Guardai Terrible Chester. Il prato. I boschetti così verdi nel sole mattutino. La faccia tonda di Ozzie poteva essere tronfia e affettuosa al tempo stesso. Gli luccicavano gli occhi per l'aspettativa che la sua supposizione si rivelasse giusta. Alla fine dissi: «Conosce Ernie e Pooka Ying?» «Persone adorabili.» «L'albero nel loro cortile posteriore...» «La brugmansia. È un esemplare magnifico.» «Tutto in esso è mortale, ogni radice e ogni foglia.» Ozzie sorrise come avrebbe sorriso Buddha se Buddha avesse scritto romanzi gialli e avesse apprezzato metodi esotici per assassinare la gente. Annuì esibendo un'aria di approvazione. «Squisitamente velenoso, sì.» «Perché gente carina come Ernie e Pooka desidera far crescere un albero mortale?» «Intanto, perché è bello, specialmente quando è fiorito.» «Anche i fiori sono tossici.» Dopo essersi ficcato in bocca un boccone finale di brioche con la marmellata e averlo assaporato, Ozzie si leccò le labbra e disse: «Uno di quei fiori enorme contiene abbastanza veleno, se estratto nel modo appropriato, per uccidere forse un terzo degli abitanti di Pico Mundo». «Sembra sconsiderato, perfino perverso, dedicare così tanto tempo e tanti sforzi per far crescere una cosa talmente letale.» «Ernie Ying ti dà l'impressione di essere perverso e letale?» «Proprio l'opposto.» «Ah, allora dev'essere Pooka il mostro. I suoi modi che mostrano una scarsa considerazione di sé devono mascherare un cuore dalle intenzioni più malevole.» «A volte», dissi, «mi sembra che un amico non dovrebbe godere così tanto nel prendersi gioco di me, come sta facendo lei.» «Caro Odd, se gli amici di qualcuno non gli ridono in faccia, di fatto non sono suoi amici. In che altro modo uno potrebbe imparare a evitare di dire cose che susciterebbero risate negli estranei? La presa in giro degli amici è
affettuosa, e vaccina contro la stupidità.» «Questo sì che suona profondo», commentai. «Profondità media», mi assicurò. «Posso istruirti, ragazzo?» «Può provare.» «Non c'è nulla di sconsiderato nel far crescere una brugmansia. Piante egualmente velenose si trovano ovunque a Pico Mundo.» Avevo i miei dubbi. «Dove?» «Sei talmente indaffarato con il mondo soprannaturale che sai troppo poco di quello naturale.» «Non ho tanto tempo nemmeno per andare al bowling.» «Quelle siepi di oleandro in tutta la città? Oleandro in sanscrito significa 'uccisore di cavalli'. Ogni parte della pianta è mortale.» «Mi piace la varietà dai fiori rossi.» «Se la bruci, il fumo è velenoso», spiegò Ozzie. «Se le api passano troppo tempo con l'oleandro, il miele ti ucciderà. Le azalee sono egualmente fatali.» «Tutti piantano le azalee.» «L'oleandro ti ucciderà in fretta. Le azalee, se ingerite, impiegano qualche ora. Vomito, paralisi, convulsioni, coma, la morte. Poi ci sono la sabina, il giusquiamo, la digitale, lo stramonio... tutte qui a Pico Mundo.» «E la chiamiamo Madre Natura.» «Non c'è niente di paterno nemmeno nel tempo e in quello ci fa», osservò Ozzie. «Però, scusi, Ernie e Pooka Ying sanno che la brugmansia è mortale. Di fatto è per questa sua caratteristica che l'hanno piantata e fatta crescere.» «Pensaci come a una cosa Zen.» «Lo farei, se sapessi che cosa significa.» «Ernie e Pooka cercano di capire la morte e di dominare la paura che ne hanno addomesticandola sotto forma di brugmansia.» «Questo mi suona mediamente profondo.» «No, questo è veramente profondo.» Anche se non volevo il formaggio danese, lo presi e ne staccai un grosso morso. Versai caffè in un boccale, per avere qualcosa da tenere in mano. Non potevo rimanere lì seduto senza fare niente. Sentivo che se non avessi tenuto le mani occupate avrei cominciato a fare a pezzi le cose. «Perché», chiesi, «la gente tollera l'omicidio?» «L'ultima volta che ho guardato, era contro la legge.» «Simon Makepeace ha ucciso una volta. E lo hanno fatto uscire.»
«La legge non è perfetta.» «Sa, avrebbe dovuto vedere il cadavere del dottor Jessup.» «Non è necessario. Ho l'immaginazione di un romanziere.» Mentre le mie mani si davano da fare con il formaggio che non volevo e con il caffè che non bevevo, quelle di Ozzie si erano fermate e adesso erano posate sul tavolo una sull'altra. «Penso spesso a tutte quelle persone, colpite a morte...» Non chiese a chi mi riferivo. Sapeva che intendevo il quarantunesimo sparo nel centro commerciale ad agosto, la diciannovesima vittima. «Non ho guardato o letto le notizie per tanto tempo. Però la gente parla di ciò che sta accadendo nel mondo, così sento le cose», aggiunsi. «Ricorda solo che le notizie non sono la vita. I giornalisti hanno un detto: 'il sangue fa notizia'. La violenza vende, quindi si parla della violenza.» «Ma perché le brutte notizie vendono tanto meglio di quelle buone?» Sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia, che cigolò. «Adesso ci stiamo avvicinando.» «Avvicinando a cosa?» «Alla domanda che ti ha portato qui.» «Quella bruciante cosa filosofica? No, non C'è. Sto solo... divagando.» «Divaga per me, allora.» «Che cosa c'è che non va nella gente?» «Quale gente?» «L'umanità, intendo. Che cosa c'è che non va nell'umanità?» «Questa è una divagazione molto breve, davvero.» «Prego?» «Dovresti sentirti le labbra ustionate. La domanda bruciante ne è appena uscita. È un bell'enigma da porre a un altro mortale.» «Sì, però mi accontenterò anche di una delle sue risposte standard poco profonde.» «La domanda corretta ha tre parti eguali. Che cosa non va nell'umanità? Poi... che cosa non va nella natura, con le sue piante velenose, le belve feroci, i terremoti e le inondazioni? E infine... che cosa non va con il tempo cosmico, come lo conosciamo noi, che ci ruba tutto?» Ozzie può sostenere che io confondo la sua assoluta sicurezza di sé con la profondità, ma non è così. Lui è veramente saggio. Evidentemente, però, la vita gli ha insegnato che i saggi diventano dei bersagli. Una mente piccina cercherebbe di nascondere il proprio ingegno dietro una maschera di stupidità. Lui sceglie, invece, di celare la sua vera saggez-
za sotto un'appariscente sfoggio di erudizione e si diverte a lasciar credere alla gente che quello sia il meglio che ha da offrire. «Quelle tre domande», aggiunse, «hanno la stessa risposta.» «Sto ascoltando.» «Non va bene che io mi limiti a fornirtela. Tu vi farai resistenza, e sprecherai gli anni della tua vita cercando una risposta che ti piaccia di più. Quando ci arriverai per conto tuo, però, te ne convincerai.» «È tutto quanto ha da dire?» Lui sorrise e alzò le spalle. «Sono venuto qui con una bruciante domanda filosofica e ciò che ricevo è la colazione?» «Hai avuto una colazione abbondante», rispose lui. «Ti dirò questo: tu conosci già la risposta, da sempre. Non devi fare nient'altro che riconoscerla.» Scossi la testa. «A volte, sa, lei è frustrante.» «Sì, però sono sempre gloriosamente grasso e un divertimento a guardarsi.» «Lei può essere tanto mistico quanto un dannato...» Terrible Chester continuava a stare seduto sul primo gradino della veranda, lo sguardo incollato su di me. «... mistico quanto un dannato gatto.» «Lo prendo come un complimento.» «Non era ciò che intendevo.» Spinsi indietro la sedia. «Meglio che vada.» Come al solito quando me ne vado, lui si sforzò di alzarsi in piedi. Io mi preoccupo sempre che questo gli faccia salire la pressione a livelli da colpo apoplettico, facendolo cadere a terra lì per lì. Mi abbracciò, io lo abbracciai, cosa che facciamo sempre prima di separarci, come se non ci aspettassimo di rivederci. Mi chiedo se a volte la distribuzione della anime non venga incasinata e lo spirito sbagliato vada a finire nel neonato sbagliato. Suppongo che questo sia blasfemo. Ma tanto, con la mia insolenza mi sono già giocato la possibilità di finire tra i santi. Di certo, con il suo cuore gentile, Ozzie era destinato a essere snello e in buona salute e ad avere dieci dita. E la mia vita avrebbe avuto più senso se fossi stato suo figlio, invece che il risultato di due genitori che mi hanno respinto. Quando l'abbraccio finì, lui disse: «E adesso?» «Non so. Non lo so mai. Le cose mi vengono in mente da sole.»
Chester non mi pisciò sulle scarpe. Arrivai alla fine del lungo cortile, attraversai il boschetto e varcai il cancello nello steccato posteriore. 12 Non cogliendomi del tutto di sorpresa, di nuovo il Blue Moon Café. Il manto della notte aveva avvolto i vicoli di un certo romanticismo, la luce del giorno, però, aveva tolto loro qualsiasi pretesa di bellezza. Quello non era un regno di sudiciume e animali infestanti; era semplicemente grigio, tetro, squallido e inospitale. Quasi ovunque, l'architettura umana dà maggior valore ai prospetti delle facciate piuttosto che agli ingressi sul retro, agli spazi pubblici piuttosto che a quelli privati. Per la maggior parte, ciò è dovuto alle risorse limitate, ai quattrini a disposizione. Danny Jessup sostiene che tale aspetto dell'architettura è anche un riflesso della natura umana; che la gente, in genere, tiene di più all'apparenza che alle condizioni della propria anima. Sebbene io non sia cinico quanto Danny, e sebbene non ritenga che l'analogia tra le porte posteriori e le anime collimi, ammetto di cogliere una parte di verità in ciò che lui dice. Ciò che non riuscivo a vedere, lì nella luce mattutina di un pallido giallo-limone, era qualche indizio che potesse condurmi di un solo passo più vicino a lui o al suo psicotico padre. La polizia aveva fatto il suo lavoro e se n'era andata. Il furgone Ford era stato trainato via. Non ero andato lì aspettandomi di trovare un indizio passato inosservato alle autorità e, indossati i panni di Sherlock, trovare i cattivi grazie a un impeto di ragionamento deduttivo. Ci ritornai perché era lì che il mio sesto senso mi aveva abbandonato. Speravo di ritrovarlo, come se fosse un rocchetto di nastro che avevo lasciato cadere ed era rotolato via dove non riuscivo a vederlo. Se avessi individuato l'estremità sciolta del nastro, avrei potuto seguirlo fino ad arrivare al rocchetto. Dall'altra parte della strada rispetto alla cucina del caffè c'era la finestra del primo piano dalla quale l'anziana signora in vestaglia azzurra aveva guardato giù mentre io mi avvicinavo al furgone, qualche ora prima. Le tende erano chiuse.
Pensai per un momento di fare quattro chiacchiere con lei. Ma era già stata ascoltata dalla polizia. Loro sono molto più abili di me nell'estrarre ai testimoni osservazioni preziose. Camminai lentamente verso nord, fino all'estremità dell'isolato. Poi mi voltai e ritornai verso sud, oltrepassando il Blue Moon. Fra un bidone a l'altro erano parcheggiati di sbieco dei camion; le prime consegne del mattino venivano ricevute, esaminate, inventariate. I negozianti, quasi un'ora in anticipo sui loro dipendenti, si affaccendavano agli ingressi posteriori dei loro locali. La Morte arrivava, la Morte se ne andava, ma il commercio fluiva perenne. Alcune persone mi notarono. Non conoscevo bene nessuna di loro, alcune non le conoscevo affatto. Il motivo per cui mi riconoscevano mi era sgradevolmente familiare. Per loro ero l'eroe, il tizio che aveva fermato il pazzo che l'agosto precedente aveva sparato a tutte quelle persone. Ne erano state colpite quarantuno. Alcune erano rimaste storpie a vita, sfigurate. Diciannove erano morte. Avrei potuto evitare tutto quello. Allora sì avrei potuto essere un eroe. Porter dice che sarebbero morti a centinaia se non fossi intervenuto nel momento e nel modo in cui l'ho fatto. Ma le vittime potenziali, quelle che sono state risparmiate, non mi paiono reali. Soltanto i morti sembrano reali. Nessuno di loro si è soffermato al di qua. Se ne sono andati tutti. Ma troppe notti li vedo nei miei sogni. Appaiono com'erano in vita, e come sarebbero stati se fossero sopravvissuti. In quelle notti mi sveglio con un senso di perdita così terribile che preferirei non svegliarmi più. Però mi sveglio e vado avanti, perché questo è ciò che vorrebbe la figlia di Cassiopea, una dei diciannove, è ciò che si aspetta da me. Ho un destino che mi devo guadagnare. Vivo per guadagnarmelo, e poi morire. L'unico beneficio nell'essere etichettato come eroe è che in genere la gente ti guarda con soggezione e sfruttando questa soggezione indossando un'espressione cupa ed evitando di incrociare lo sguardo degli altri, puoi quasi sempre assicurarti che la tua riservatezza verrà rispettata. Vagando per il vicolo, osservato di tanto in tanto ma indisturbato, arrivai a un piccolo appezzamento di terreno non costruito. Un recinto di rete me-
tallica ne impediva l'accesso. Provai ad aprire il cancello. Chiuso. Un cartello diceva: CONTEA DI MARAVILLA - SISTEMA DI CONTROLLO DELLE PIENE e, a lettere rosse: ACCESSO CONSENTITO SOLO AL PERSONALE AUTORIZZATO. Qui trovai il nastro del mio sesto senso, scioltosi dal rocchetto. Toccando quel cancello fui certo che Danny era passato di lì. Una serratura non avrebbe costituito un ostacolo per un fuggitivo risoluto come Simon Makepeace, le cui abilità criminali avevano fatto passi da gigante durante gli anni della prigione. Oltre il recinto, al centro del lotto, si ergeva una costruzione in blocchi di pietrisco e cemento, con un tetto in tegole. La porta di assi a due battenti, sulla facciata della struttura, era chiusa a chiave, ma cardini e serratura sembravano vecchi. Se Danny era stato costretto a varcare quel cancello e poi quella porta, e sentivo che era avvenuto, Simon non aveva scelto quel percorso d'impulso. Faceva parte del suo piano. O forse aveva deciso di ritirarsi lì soltanto se le cose fossero andate male dal dottor Jessup. A causa del mio tempestivo arrivo nella casa del radiologo e a causa della decisione del Capo di porre i posti di blocco su entrambe le superstrade, erano venuti qui. Dopo aver fermato il furgone nel parcheggio del Blue Moon, Simon non aveva messo Danny su un altro veicolo. Avevano invece oltrepassato quel cancello e varcato quella porta ed erano discesi in un mondo sotto Pico Mundo, un mondo di cui conoscevo l'esistenza ma che non avevo mai visitato. Il mio primo impulso fu di raggiungere il Capo e metterlo a parte delle mie intuizioni. Mentre già davo le spalle alla rete metallica, però, fui bloccato da un'ulteriore intuizione: le condizioni di Danny erano talmente precarie che una ricerca condotta in modo tradizionale, con i poliziotti che li inseguivano, avrebbe probabilmente significato la sua morte. Inoltre sentivo che, per quanto la sua situazione fosse grave, Danny non correva un pericolo imminente. In quella particolare caccia la rapidità non era importante quanto la segretezza e l'inseguimento avrebbe avuto successo solo se avessi osservato con acume ogni dettaglio che la pista mi avrebbe fornito. Non avevo modo di sapere se queste cose erano vere. Sentivo in un mo-
do precognitivo, approssimativo, che è molto più di un'intuizione e molto meno di una visione inequivocabile. Come mai posso vedere i morti ma non udirli, come mai posso cercare con il mio MP e a volte trovare, ma solo a volte; come mai percepisco una minaccia incombente, ma non i suoi dettagli, non lo so. Forse nulla in questo mondo in frantumi può essere puro e tutto d'un pezzo, immune da fratture. O forse non ho imparato a sfruttare tutto il potere che possiedo. Uno dei rimpianti più amari risalenti all'agosto dell'anno prima era che, nel vortice degli eventi, mi ero a volte affidato alla ragione, quando le sensazioni viscerali mi sarebbero state più utili. Cammino ogni giorno su una corda da funambolo, con il rischio costante di perdere l'equilibrio. L'essenza della mia vita è soprannaturale, cosa che rispetto al massimo se voglio fare bon uso del mio dono. Ma vivo in un mondo razionale e sono soggetto alle sue leggi. Sono tentato di lasciarmi guidare interamente dagli impulsi di origine extraterrena, ma in questo mondo una caduta dall'alto finirà sempre con un impatto durissimo. Sopravvivo trovando il punto di pareggio tra ragione e irragionevolezza, tra emisfero sinistro e destro. In passato, la mia tendenza era stata di pendere dalla parte della logica, a scapito della fede: fede in me e nella Fonte del mio dono. Se avessi fallito con Danny, com'ero convinto di aver fallito anche quel fatidico agosto, sicuramente avrei finito con il disprezzare me stesso. Nel fallimento, avrei provato fastidio per il dono che mi definisce. Se il mio destino si può compiere solo attraverso l'uso del mio sesto senso, una perdita troppo grande di amor proprio e di fiducia in me stesso mi avrebbe condotto a un altro fato, diverso da quello che desidero, rendendo vano il biglietto della macchina che predice il futuro incorniciato sopra il mio letto. Questa volta volevo propendere verso l'illogico. Dovevo fidarmi dell'intuito e gettarmi come mai avevo fatto prima, con una fiducia cieca. Non avrei chiamato Porter. Se il cuore mi diceva che dovevo seguire Danny da solo, avrei obbedito al cuore. 13 Nel mio appartamento riempii uno zainetto di oggetti che potevano farmi comodo, comprese due torce e una confezione di pile di riserva. In camera rimasi per un po' ai piedi del letto, leggendo in silenzio il bi-
gliettino incorniciato appeso al muro: SIETE DESTINATI A STARE INSIEME PER SEMPRE. Volevo scalzare via il fondo e togliere il biglietto dalla cornice, per portarlo con me. Mi sarei sentito più al sicuro, protetto. Questo è un pensiero irrazionale che non potrebbe mai essermi utile. Un biglietto distribuito dalla macchinetta di un luna park non è l'equivalente di un frammento della vera croce. Mi tormentava anche un altro pensiero ancora meno razionale. Durante le ricerca di Danny e di suo padre potevo morire e, attraversato il mare della morte e arrivato sulla sponda del mondo successivo, avrei voluto avere il biglietto per mostrarlo a qualsiasi Presenza vi avessi incontrato. Questa, avrei detto, è la promessa che mi è stata fatta. Lei è arrivata prima di me e adesso dovete portarmi da lei. In verità, sebbene le circostanze nelle quali abbiamo ricevuto questo bigliettino dalla macchina siano parse straordinarie e significative, non si è trattato di un miracolo. La promessa non aveva origine divina ma ce l'eravamo fatta l'un l'altra, con la reciproca fiducia nella misericordia di Dio affinché ci garantisse la grazia di un'eternità insieme. Se una Presenza mi viene incontro sulla sponda più lontana, non posso dimostrare un contratto divino semplicemente con un biglietto emesso da una macchina che predice la sorte. Se l'aldilà che io immagino è diverso dal Paradiso che è stato previsto per me, non posso minacciare una vertenza giudiziaria e chiedere il nome di un buon avvocato. Viceversa, se tale grazia fosse garantita e la promessa del bigliettino mantenuta, la Presenza che mi incontrerà su quella sponda lontana sarà la stessa Bronwen Llewellyn, la mia Stormy. Il posto giusto per il bigliettino era la cornice. Lì sarebbe stato al sicuro e avrebbe continuato a ispirarmi se fossi ritornato vivo da quella spedizione. Quando andai in cucina per telefonare a Terri Stambaugh al Pico Mundo Grille, Elvis era seduto al tavolo e piangeva. Detesto vederlo così. Il Re del rock'n'roll non dovrebbe mai piangere. Non dovrebbe nemmeno mettersi le dita nel naso, però di tanto in tanto lo fa. Sono sicuro che è uno scherzo. Un fantasma non ha bisogno di cacciarsi le dita nel naso. A volte finge di trovare una caccola e di lanciarmela, poi ghigna in modo fanciullesco. Ultimamente è abbastanza allegro. Però soffre di improvvisi sbalzi di umore.
Morto da trent'anni, senza alcuno scopo in questo mondo ma incapace di lasciarlo, solitario come possono esserlo soltanto i fantasmi, ha ragione di crogiolarsi nella malinconia. Il motivo della sua infelicità, però, sembrano essere lo spargisale e lo spargipepe sul tavolo. Terri, fan devota di Presley e un'autorità in materia come nessun altro, mi ha regalato i due Elvis di ceramica; alti ognuno una decina di centimetri, risalgono al 1962. Quello vestito di bianco dispensa il sale dalla chitarra, quello in nero fa uscire il pepe dal ciuffo sulla fronte. Elvis mi guardava, indicando prima uno poi l'altro e infine se stesso. «Cosa c'è che non va?» gli domandai, sebbene sapessi che non poteva rispondermi. Lui voltò la faccia verso il soffitto come fosse il Paradiso, con un'espressione di totale disperazione, singhiozzando in silenzio. I due oggetti di ceramica stavano sul tavolo dal giorno dopo Natale. In precedenza lo avevano divertito. Mi venne il dubbio che rendersi conto, dopo tanto tempo, che la sua immagine era stata sfruttata per vendere mercanzie dozzinali di poco valore, lo avesse portato alla disperazione. Delle centinaia, se non migliaia, di articoli con il suo nome che erano stati smerciati nel corso degli anni, una gran quantità era più grossolana di quei due oggettini da collezione in ceramica, e lui non era stato contrario ad autorizzarli. Le lacrime gli rigavano le guance, gocciolavano giù dalle mascelle e dal mento, ma scomparivano prima di arrivare sul tavolo. Incapace di consolare e perfino di capire Elvis, ansioso di ritornare al vicolo del Blue Moon, usai il telefono della cucina per chiamare il Grille, in preda all'ora di punta per le colazioni. Mi scusai per il momento poco propizio e Terri mi disse subito: «Hai saputo dei Jessup?» «Sono stato lì.» «Allora ci sei dentro?» «Fino al collo. Ascolta, devo vederti.» «Vieni adesso.» «Non al Grille. Tutta la vecchia gang avrà voglia di fare due chiacchiere. Mi piacerebbe vederli, ma sono di fretta.» «Al piano di sopra», propose lei. «Arrivo.» Quando riattaccai, Elvis fece dei gesti per attirare la mia attenzione. Indicò lo spargisale, indicò lo spargipepe, formò una V con l'indice e il me-
dio della mano destra e sbatté gli occhi colmi di lacrime ammiccando verso di me, in attesa. Appariva un tentativo di comunicazione senza precedenti. «Vittoria?» domandai, interpretando il gesto della mano nel modo più usuale. Lui scosse la testa e formò di nuovo la V, spingendomi a trovare un'altra traduzione. «Due?» Annuì vigorosamente. Indicò lo spargisale, poi lo spargipepe. Alzò le due dita. «Due Elvis», dissi io. Questa affermazione lo ridusse a un coacervo di emozioni che lo facevano tremare. Si raggomitolò, la testa china, il volto tra le mani, scosso dal tremore. Gli appoggiai la mano sulla spalla. Lo sentivo solido, come mi succede con tutti gli spiriti. «Mi spiace. Non so che cosa la turba, o che cosa dovrei fare.» Non aveva altro da comunicarmi, né con l'espressione né con i gesti. Ritirato nel suo dolore, a quel punto era irraggiungibile per me come lo era per il resto del mondo vivente. Mi dispiaceva lasciarlo in quelle tristi condizioni, ma i miei obblighi verso i vivi sono maggiori di quelli verso i morti. 14 Terry Stambaugh aveva gestito il Pico Mundo Grille assieme al marito, Kelsey, finché lui era morto di cancro. Adesso lo gestiva da sola. Erano quasi dieci anni che viveva sola sopra al ristorante, in un appartamento a cui si accedeva dalle scale collocate nel vicolo. Quando aveva perduto Kelsey, aveva solo trentadue anni e da allora l'uomo della sua vita era stato Elvis. Non il suo fantasma, ma la storia e il mito che lo riguardavano. Aveva ogni canzone incisa da Elvis e si era fatta una cultura enciclopedica sulla sua vita. L'interesse di Terri per tutto ciò che riguardava Presley era precedente al fatto che le avessi rivelato che il suo spirito si aggira inspiegabilmente per la nostra oscura città. Forse come difesa contro la possibilità di darsi a un altro uomo vivente dopo Kelsey, al quale ha votato il suo cuore ben al di là di quanto lo ri-
chiedono i voti matrimoniali, Terri ama Elvis. Non ama soltanto la sua musica e la sua fama, non soltanto l'idea di lui; ama l'uomo. Anche se le virtù di Elvis erano molte, erano superate dai difetti, dalle manchevolezze e dai punti deboli. Lei sa che era egocentrico, soprattutto dopo la morte prematura della sua adorata madre, che aveva difficoltà a fidarsi degli altri, che per certi aspetti era rimasto adolescente per tutta la vita. Lei sa come, negli ultimi anni, era dipendente da farmaci che provocavano in lui meschinità e paranoia contrarie alla sua natura. Sa tutto questo eppure lo ama lo stesso. Lo ama per la lotta che ha ingaggiato per arrivare, lo ama per la passione che ha messo nella propria musica, per la devozione verso la madre. Lo ama per la sua generosità fuori del comune, anche se c'erano momenti in cui la faceva dondolare come un'esca o la brandiva come una clava. Lo ama per la sua fede, anche se spesso non ne seguiva le indicazioni. Lo ama perché negli ultimi anni era rimasto abbastanza umile da riconoscere quanto poco avesse messo in atto della propria promessa, perché conosceva il rimpianto e il rimorso. Non trovò mai il coraggio per la vera contrizione, sebbene anelasse raggiungerla, e arrivare alla rinascita che l'avrebbe seguita. Amare è essenziale per Terri Stambaugh quanto nuotare lo è per uno squalo. È un'analogia poco opportuna, ma accurata. Se uno squalo smette di muoversi, annega; per sopravvivere ha bisogno di movimento continuo. Terri deve amare o morire. I suoi amici sanno che si sacrificherebbe per loro, tanto profondamente si lascia coinvolgere. Lei non ama solo un ricordo patinato del marito, ma ama chi lui era veramente, i lati ruvidi e quelli teneri. Allo stesso modo, ama la potenzialità e la realtà di ogni amico. Salii le scale e suonai il campanello. Quando aprì la porta disse subito, mentre mi tirava dentro: «Che cosa posso fare, Oddie, di cosa hai bisogno, in cosa ti sei cacciato questa volta?» Quando avevo sedici anni volevo disperatamente fuggire dal regno psicotico che era la casa di mia madre e Terri mi ha dato un lavoro, un'occasione, una vita. Continua a darmeli. Lei è il mio capo, la mia amica, la sorella che non ho mai avuto. Dopo esserci abbracciati, ci siamo seduti uno dirimpetto all'altra al tavolo della cucina, tenendoci le mani sulla tela cerata a quadretti bianchi e rossi. Ha mani forti, sciupate dal lavoro. Mani belle. Il suo impianto stereo diffondeva Good Luck Charm, di Elvis. Le sue
casse non sono mai inquinate da altri cantanti. Quando le rivelai dove pensavo che avessero portato Danny e che il mio intuito insisteva perché lo cercassi da solo, la sua mano si strinse più forte sulla mia. «Perché Simon avrebbe dovuto portarlo laggiù?» «Forse ha visto il posto di blocco ed è tornato indietro. Forse la sua radio era sintonizzata sulle frequenze della polizia e ha saputo che lo stavano mettendo. I tunnel scolmatori sono un altro modo per uscire dalla città, passando sotto i blocchi stradali.» «Però a piedi.» «Ovunque risalga alla superficie assieme a Danny, potrà rubare un'auto.» «Allora lo ha già fatto, no? Se ha portato Danny là sotto qualche ora fa, per lo meno quattro, ormai sarà lontano.» «Magari. Ma io non lo penso.» Terri aggrottò la fronte. «Se si trova ancora in quelle gallerie sotterranee, allora ha portato lì Danny per qualche altro motivo, non per farlo uscire dalla città.» Il suo istinto non ha il tocco soprannaturale che ha il mio, però è abbastanza acuto da renderle un buon servizio. «L'ho detto a Ozzie... c'è qualcosa che non va in tutto questo.» «Che non va in cosa?» «Tutto. L'assassinio del dottor Jessup e tutto il resto. Qualcosa di sbagliato. Riesco a percepirlo, ma non sono in grado di definirlo.» Terri è una delle pochissime persone che conoscono il mio dono. Capisce che sono spinto a usarlo; non proverebbe mai a dissuadermi dall'entrare in azione. Però desidera che questo giogo sia sollevato dalle mie spalle. Anch'io. Mentre Good Luck Charm cedeva il posto a Puppet on a String, posai il mio cellulare sul tavolo, dissi che mi ero dimenticato di caricarlo la notte precedente e le chiesi di prestarmi il suo mentre ricaricava il mio. Lei aprì la borsetta, pescò il telefonino. «Non è cellulare, è satellitare. Ma funzionerà laggiù, sottoterra?» «Non lo so. Forse no. Ma probabilmente funzionerà ovunque mi trovi quando risalirò alla superficie. Grazie mille, Terri.» Provai il volume della suoneria e l'abbassai un po'. «E quando il mio sarà carico», le dissi, «se ricevi qualche telefonata particolare... dà il numero del tuo, così potranno rintracciarmi.» «Particolare... come?»
Avevo avuto il tempo di rimuginare sulla telefonata ricevuta mentre sedevo sotto la brugmansia. Forse chi chiamava aveva fatto un numero sbagliato. Forse no. «Se è una donna dalla voce misteriosa, enigmatica, e non dà il suo nome, le voglio parlare.» Lei sollevò le sopracciglia. «Di cosa si tratta?» «Non lo so», risposi in tutta onestà. «Probabilmente nulla.» Mentre infilavo il telefonino in una tasca dello zainetto chiusa da una cerniera, lei mi chiese: «Hai intenzione di ritornare al lavoro, Oddie?» «Tra poco, magari. Non questa settimana.» «Ti abbiamo preso una spatola nuova. Lama larga, bordo frontale con microsmussatura. Sull'impugnatura c'è scritto il tuo nome.» «Uno sballo.» «Proprio uno sballo. L'impugnatura è rossa. Il tuo nome è in bianco, con le stesse lettere del logo originale della Coca-Cola.» «Mi manca la frittura», dissi. «Adoro la piastra.» Il personale della tavola calda era stato la mia famiglia per più di quattro anni. Mi sentivo ancora vicino a loro. In quel periodo, però, quando li vedevo, due cose precludevano il facile cameratismo che avevamo condiviso in passato: la realtà della mia sofferenza e la loro insistenza sul mio eroismo. «Mi tocca andare», dissi, alzandomi e rimettendomi lo zainetto sulle spalle. Forse per trattenermi, lei mi chiese: «Allora... Elvis è stato nei paraggi, ultimamente?» «L'ho appena lasciato a piangere nella mia cucina.» «Di nuovo a piangere? Per cosa?» Le riferii l'episodio dello spargisale e lo spargipepe. «In realtà, ha fatto uno sforzo per aiutarmi a capire, il che è qualcosa di nuovo, ma io non ci sono riuscito.» «Io sì, forse», disse lei nell'aprirmi la porta. «Sai che era un gemello identico.» «Lo sapevo, già, però lo avevo dimenticato.» «Jesse Garon Presley nacque morto alle quattro del mattino ed Elvis Aaron Presley venne al mondo trentacinque minuti dopo.» «Mi sembra di ricordare che me lo avevi detto. Jesse fu sepolto in una scatola di cartone.» «Era tutto ciò che la famiglia si poteva permettere. Fu sepolto nel cimite-
ro di Priceville, a nord di Tupelo.» «Quando si dice il destino!» commentai. «Due gemelli identici: avrebbero avuto lo stesso aspetto, la stessa voce e probabilmente anche lo stesso talento. Però uno è diventato la più grande star nella storia della musica e l'altro riposa neonato in una scatola di cartone.» «Questa cosa lo ha perseguitato per tutta la vita», disse Terri. «La gente dice che spesso parlava con Jesse, a notte fonda. Sentiva come se gli mancasse metà di se stesso.» «In un certo senso ha vissuto in quel modo: come se gli mancasse una metà.» «In un certo senso», convenne lei. Poiché sapevo come ci si sentiva, dissi: «All'improvviso provo maggiore comprensione per lui». Ci abbracciammo. «Qui abbiamo bisogno di te, Oddie.» «Anch'io ho bisogno di me, qui», concordai. «Sei tutto ciò che dovrebbe essere un amico, Terri, e niente che non dovrebbe essere.» «Quando dovrei cominciare a preoccuparmi?» «A giudicare dall'espressione della tua faccia, hai già iniziato.» «Non mi piace che tu vada laggiù in quelle gallerie. Mi dà la sensazione che ti seppellisca vivo.» «Non soffro di claustrofobia», le assicurai mentre uscivo dalla cucina sul pianerottolo esterno. «Non è questo che intendevo. Ti do sei ore, poi chiamo Wyatt Porter.» «Preferirei che non lo facessi, Terri. Sono certo come non lo sono mai stato di nient'altro: devo fare questa cosa da solo.» «Lo sai davvero? Oppure si tratta... di qualche altra cosa?» «Che altro dovrebbe essere?» Era evidente che era in preda a una paura specifica ma non voleva trasformarla in parole. Invece di rispondermi o di scandagliare i miei occhi alla ricerca di una risposta, guardò il cielo. Nuvole bigie correvano veloci, arrivando da nord-nordovest. Sembravano stracci strofinati sopra un pavimento sudicio. «In questa faccenda c'è ben più che le gelosie e le ossessioni di Simon. Qualcosa di sbagliato. Non so cos'è, ma una squadra delle forze speciali non tirerebbe Danny fuori di lì, vivo. A causa del mio dono, io sono la sua possibilità migliore», affermai. La baciai sulla fronte, mi voltai e cominciai a scendere i gradini. «Danny è già morto?» mi domandò.
«No. Come ho detto, sono trascinato verso di lui.» «È vero?» Sorpreso, mi fermai, mi voltai. «È vivo, Terri.» «Se Kelsey e io avessimo avuto un figlio, avrebbe potuto avere la tua età.» Sorrisi. «Sei dolce.» Lei sospirò. «Va bene. Otto ore. Non un minuto di più. Puoi essere un veggente o un medium, o qualsiasi cosa tu sia, ma io ho l'intuito femminile, perdio, e anche questo conta qualcosa.» Non mi occorreva il sesto senso per capire che sarebbe stato inutile cercare di contrattare per salire da otto a dieci ore. «Otto ore», concordai. «Ti chiamerò prima di allora.» Dopo che ebbi ripreso a scendere le scale, mi disse: «Oddie, il motivo principale per cui sei venuto qui era veramente farti prestare il telefonino, non è così?» Quando mi fermai e mi voltai di nuovo, vidi che era scesa dal pianerottolo sul primo scalino. Aggiunse: «Per la pace della mia mente, credo di doverlo sviscerare per bene... Non eri venuto qui per dirmi addio, eh?» «No.» «Davvero?» «Davvero.» «Giuralo su Dio.» Sollevai la mano destra come se fossi un giovane esploratore che faceva un giuramento solenne. Ancora dubbiosa, disse: «Sarebbe una stronzata da parte tua uscire dalla mia vita con una bugia». «Non te lo farei mai. Inoltre, non posso andare dove voglio andare tramite un suicidio consapevole o inconscio. Ho da condurre la mia strana, piccola vita, condurla meglio che posso: è così che comprerò il biglietto per dove voglio andare. Sai che cosa intendo?» «Sì.» Terri si sedette sul primo gradino. «Starò seduta qui e ti guarderò andare. Mi sembrerebbe di portarti sfortuna a voltarti la schiena proprio in questo momento.» «Stai bene?» «Va'. Se è vivo, va' da lui.» Mi girai e ripresi a scendere. «Non voltarti indietro», aggiunse. «Anche questo porta sfortuna.»
Raggiunsi la fine delle scale e seguii il vicolo fino alla strada. Non mi voltai, ma la sentii piangere sommessamente. 15 Non cercai degli spettatori, non indugiai nella speranza di un'opportunità ideale, ma andai direttamente alla barriera di rete metallica alta quasi tre metri e mi arrampicai. Mi lasciai cadere sulla proprietà della contea di Maravilla meno di dieci secondi dopo aver raggiunto il lato del recinto che dava sul vicolo. Pochi si aspettano un'audace intrusione in pieno giorno. Se qualcuno mi avesse visto scalare la rete, con ogni probabilità avrebbe pensato che ero una delle persone autorizzate a cui si accennava nel cartello e che avevo perso la chiave. I giovani perbene, dai capelli ben curati e senza barba, non sono immediatamente sospettati di attività scellerate. Io non soltanto ho i capelli ben curati e non porto la barba, ma non ho tatuaggi, orecchini, anelli sulle sopracciglia, anelli sul naso, anelli sul labbro e non mi sono fatto piercing sulla lingua. Di conseguenza, il massimo che qualcuno può sospettare di me è che io sia un viaggiatore del tempo proveniente da un lontano futuro nel quale le oppressive norme culturali degli anni Cinquanta sono state imposte ancora una volta sulla popolazione da un governo totalitario. La costruzione aveva aperture per la ventilazione sotto la gronda. Non erano abbastanza grandi da far passare nemmeno un giovane perbene con il taglio di capelli poco vistoso. Quella stessa mattina, sbirciando attraverso la rete metallica, avevo notato che la serratura della porta sembrava vecchia. Dovevano averla installata quando il governatore della California credeva nell'elevato potere terapeutico dei cristalli, prediceva fiducioso l'obsolescenza delle automobili entro il 1990 e usciva con una rock star di nome Linda Ronstadt. Guardando più da vicino, vidi che il cilindro della serratura non solo era vecchio ma anche poco costoso. Il collare non aveva un anello di protezione. Il livello di sicurezza era mezzo passo più su di un lucchetto. Durante il percorso a piedi dal Grille, mi ero fermato nel Memorial Park per estrarre dallo zainetto un paio di robuste tenaglie. Me le sfilai da sotto la cintura e le usai per strappar via il cilindro della serratura. Fu una faccenda rumorosa, ma durò non più di mezzo minuto. Con aria
spavalda, come se fosse normale trovarmi lì, entrai, trovai un interruttore e mi chiusi la porta alle spalle. Il capanno conteneva una rastrelliera con gli attrezzi, ma funzionava principalmente da vestibolo, da cui scendere nella rete drenante delle acque meteoriche sotto Pico Mundo. Una larga scala a chiocciola conduceva dabbasso. Mentre scendevo, illuminando con la torcia i gradini di metallo perforato, mi rammentai della scala posteriore nella casa di Jessup. Per un momento, sembrò che fossi stato risucchiato in un gioco oscuro nel quale già una volta avevo fatto il giro del tabellone ed ero stato riportato dal lancio dei dadi in un'altra pericolosa discesa. Non accesi la luce delle scale perché non sapevo se lo stesso interruttore metteva in funzione delle lampade di servizio nelle gallerie, il che avrebbe annunciato la mia presenza prima del necessario. Contai gli scalini, calcolando una ventina di centimetri per ogni alzata. Scesi per più di quindici metri, molto più in profondità di quanto mi aspettassi. Sul fondo, una porta. Il chiavistello a scatto poteva essere manovrato da ambo i lati. Spensi la torcia con il pollice. Mi aspettavo che il chiavistello stridesse, che i cardini cigolassero, invece la porta si aprì senza protestare. Era notevolmente pesante, ma non opponeva resistenza. Senza vedere nulla e trattenendo il fiato, rimasi in ascolto di eventuali presenze ostili, ma non udii nulla. Attesi abbastanza per sentirmi sufficientemente al sicuro e riaccendere la pila. Oltre la soglia si stendeva un corridoio che portava alla mia destra: lungo circa tre metri e mezzo, largo uno e mezzo, soffitto basso. Seguendolo, scoprii che formava una L, il cui braccio più corto superava di poco i due metri. Lì c'era un'altra pesante porta dal chiavistello manovrabile da entrambi i lati. Il modo di accedere alla rete drenante era più elaborato di quanto avessi immaginato, e mi sembrava inutilmente complicato. Spensi di nuovo la torcia. Anche questa porta si aprì senza far rumore. Nel buio più totale, rimasi in ascolto e udii un debole suono, serico e sinuoso. Con gli occhi della mente immaginai un immenso serpente che strisciava nell'oscurità. Poi riconobbi il sussurro dell'acqua che fluiva liberamente e senza turbo-
lenze lungo le pareti del condotto. Accesi la torcia, varcai la soglia. Immediatamente oltre correva un marciapiede di cemento largo una sessantina di centimetri che sembrava portare all'infinito sia alla mia destra, sia alla mia sinistra. Una cinquantina di centimetri più in basso del marciapiede, l'acqua grigia, che forse prendeva parte del suo colore dal riflesso delle pareti in cemento delle gallerie, scorreva non in un fiotto tumultuoso ma in un flusso regolare e imponente. Il raggio di luce della torcia ricamava filigrane argentee sulla superficie appena ondulata. Basandomi sull'arco delle pareti, calcolai che al centro del canale l'acqua era profonda al massimo quarantacinque centimetri. Vicino al marciapiede meno di trenta. Il tunnel, arteria possente che scorreva nel cuore del deserto, aveva un diametro di circa tre metri e mezzo. Proseguiva verso qualche punto buio in lontananza. Prima mi ero preoccupato che accendere le luci di servizio in quel labirinto avrebbe avvertito Simon che stavo arrivando. Una torcia, però, mi avrebbe trasformato in facile bersaglio per chiunque mi stesse aspettando nell'oscurità. Scegliendo l'unica alternativa logica a quella di procedere tentoni nel buio, varcai di nuovo la porta che dava sul pozzo della scala a chiocciola e trovai un paio di interruttori. Quello più vicino fece illuminare la rete di gallerie. Ritornato sul marciapiede, vidi che le lampade erano inserite nel soffitto del tunnel, protette da uno strato di vetro e da uno di rete metallica, e si susseguivano a intervalli regolari di circa cento metri. In quel regno sotterraneo non spandevano l'equivalente della luce diurna, infatti sulle pareti si disegnavano ampie ali d'ombra, però la visibilità era abbastanza buona. Sebbene fosse una rete che conteneva acqua piovana, e non di fogna, mi ero aspettato di trovare cattivo odore, se non addirittura puzza. L'aria fredda aveva un sentore di umido, ma non ripugnante, anzi, faceva pensare a quello di calcare che si sente spesso nei luoghi costruiti in cemento. Per gran parte dell'anno lì dentro non circolava acqua. Il fondo e le pareti si asciugavano e quindi non prosperavano muffe di alcun tipo. Pensai per un momento all'acqua che vedevo scorrere. Erano cinque giorni che non pioveva. Questo non poteva essere l'ultimo deflusso di superficie proveniente dai rilievi nella parte orientale del paese. Il deserto non è così lento nello smaltire le acque.
Le nubi che si accavallavano nel cielo nordorientale mentre lasciavo la casa di Terri potevano aver fatto da battistrada a un'orda ben più consistente che era ancora a molte ore di distanza. Ci si potrebbe chiedere come mai una contea nel deserto abbia bisogno di un sistema per il controllo delle piene talmente elaborato. La risposta è duplice: una parte ha a che fare con il clima e il terreno, l'altra con la geopolitica. Anche se nella contea di Maravilla abbiamo scarse precipitazioni, quando arrivano, i temporali spesso si trasformano in veri e propri diluvi. Vaste aree del deserto hanno meno sabbia che scisto, meno scisto che roccia, con poca terra o vegetazione in grado di assorbire i rovesci o rallentare il deflusso superficiale proveniente dalle zone più elevate. Le inondazioni improvvise possono trasformare un deserto di pianura in vasti laghi. Senza un sistema efficiente per far defluire le acque, una buona parte di Pico Mundo sarebbe a rischio. Possiamo stare un anno senza un temporale mostruoso che ci faccia pensare nervosamente a Noè, e poi averne cinque l'anno dopo. Il controllo delle piene nelle città del deserto generalmente consiste in una rete formata da fossi a V, alvei di corsi d'acqua a regime torrentizio e scolmatori che affluiscono o nel letto di fiume naturale o in un canale artificiale per portare l'acqua lontana dalle abitazioni. Se non fosse per il fatto che nelle vicinanze di Pico Mundo c'è Fort Kraken, una grande base aerea militare, noi saremmo serviti da un tale sistema a bassa tecnologia e imperfetto. Per sei decenni, Fort Kraken è stato una delle risorse militari più vitali della nazione. Il sistema di controllo delle piene di cui beneficia Pico Mundo è stato costruito in gran parte per garantire che le piste e le vaste strutture della base fossero protette da Madre Natura quando è di pessimo umore. C'è chi crede che sotto Kraken ci sia un complesso sotterraneo di controllo concepito per sventare gli attacchi nucleari da parte dell'ex Unione Sovietica che doveva servire come centro per la ricostituzione del Sudovest degli Stati Uniti in seguito alla guerra atomica. Con la fine della Guerra Fredda, Fort Kraken fu ridimensionato ma non smantellato, come accadde a numerose altre basi militari. Alcuni sostengono che, essendoci il rischio che un giorno potremmo ritrovarci ad affrontare una Cina aggressiva, armata con migliaia di missili nucleari, questo impianto nascosto viene mantenuto funzionante.
Circolano voci che le gallerie servano a operazioni clandestine, oltre che a evitare alluvioni. Forse mascherano la ventilazione di quel complesso sotterraneo. Forse alcune fungono da ingressi segreti. Tutto ciò può essere vero, oppure è una leggenda metropolitana come quella degli alligatori tenuti in casa come animaletti da compagnia e poi, buttati giù per lo scarico del water per sbarazzarsene, sono cresciuti fino a diventare adulti e vivono nella rete fognaria di New York City, nutrendosi di ratti e di incauti netturbini. Uno che crede in tutto o in parte alla storia di Kraken è Horton Barks, editore del Maravilla County Times. Il signor Barks sostiene anche che venti anni fa, mentre faceva un'escursione per i boschi dell'Oregon, ha cenato assieme a Big Foot con qualche barretta e salsicce in scatola. Essendo la persona che sono, con l'esperienza che ho, tendo a credergli per quanto riguarda il mostro peloso dall'aspetto umano che si dice vaghi nei territori del nordovest. Adesso, concentrato nella ricerca di Danny Jessup e fidandomi del mio particolare intuito, girai a destra e seguii il marciapiede di servizio controcorrente, attraverso disegni regolari di ombre e di luce, verso un tipo o l'altro di uragano. 16 Una palla da tennis che sobbalzava, un sacchetto di plastica che pulsava come una medusa, una carta da gioco (il dieci di quadri), un guanto da giardinaggio, un ciuffo di petali rossi che poteva essere un ciclamino; ogni oggetto trasportato dalla corrente grigia era illuminato da un significato misterioso. O almeno così mi sembrava, dato che ero precipitato in uno stato d'animo propenso a cercare i significati. Poiché quell'acqua si riversava nella rete di controllo delle piene non da Pico Mundo ma da un temporale lontano, portava meno detriti di quanto avrebbe fatto in seguito, se il volume fosse aumentato e la massa d'acqua si fosse riversata lì dentro proveniente da grandi città. Condotti secondari confluivano nel tunnel che stavo percorrendo. Alcuni erano asciutti, altri contribuivano con acque proprie. Molti avevano il diametro di una sessantina di centimetri, altri erano larghi come quello principale. A ogni incrocio il marciapiede terminava ma riprendeva dalla parte opposta. Al primo guado avevo pensato di togliermi le scarpe e arrotolarmi i
jeans. Però a piedi nudi avrei potuto imbattermi in qualcosa di tagliente sott'acqua: quella preoccupazione mi fece desistere. La mie scarpe da ginnastica nuove, che erano bianche, divennero subito uno sfacelo. Tanto valeva che Terrible Chester ci avesse pisciato sopra. Un chilometro dopo l'altro, mentre mi muovevo verso est, percependo appena la graduale inclinazione, trovai quella struttura sotterranea sempre più notevole. La gradevole curiosità che nasce dalle esplorazioni si mutò un po' alla volta in ammirazione per gli architetti, gli ingegneri e gli abili artigiani che avevano concepito e messo in pratica quel progetto. L'ammirazione cominciò a trasformarsi quasi in meraviglia. Il complesso di gallerie si rivelò immenso. Di quelle abbastanza grandi da permettere il passaggio alle persone, alcune erano illuminate, altre erano buie. Quelle illuminate si potevano seguire con lo sguardo fin quando sembravano svanire nell'infinito oppure descrivevano curve aggraziate. Di nessuna vedevo la fine, solo l'apertura di nuovi rami. Si fece strada la percezione fantastica che mi fossi avventurato in una costruzione che stava fra i mondi, o che li univa, come se innumerevoli conchiglie di nautilo si intersecassero in miriadi di dimensioni, con le fluide geometrie dei loro passaggi a spirale che offrivano sentieri per nuove realtà. Si dice che sotto la città di New York si estendano sette livelli di infrastrutture. Alcune sono ristrette e complicate da mantenere in efficienza, altre di dimensioni grandiose. Ma questa era Pico Mundo, patria dei Mostri di Gila. Il nostro evento culturale più importante è il festival annuale dei cactus. Nei punti maggiormente sotto sforzo, archi e contrafforti fornivano un sostegno migliore e in alcuni punti le pareti ricurve avevano delle nervature. Questi elementi presentavano bordi arrotondati che nulla toglievano alla qualità strutturale dell'insieme. L'immenso volume delle gallerie sembrava eccessivo per lo scopo a cui erano ufficialmente destinate. Trovavo difficile credere che, con così tante vie da seguire, il deflusso di un temporale come quello che può capitare una volta ogni cento anni potesse raggiungere il punto mediano di una delle arterie principali. Non avevo difficoltà, però, a credere che quelle gallerie fossero usate secondariamente come sistema di drenaggio e in primo luogo come strade a una sola corsia. Potevano essere percorse da camion anche molto grossi, che con poche manovre potevano trasferirsi da un passaggio all'altro.
Camion normali oppure lanciamissili mobili. Sospettavo che quel labirinto non fosse solo sotto Fort Kraken e Pico Mundo. Si estendeva per chilometri e chilometri a nord e a sud per la contea di Maravilla. Se, durante le prime ore dell'Ultima Guerra, ci fosse bisogno di spostare risorse nucleari che sono un obiettivo di vitale importanza, di allontanarle dalla zona devastata che ha subito l'attacco iniziale in punti dove possono essere portate alla superficie e lanciate, queste strade sotterranee servivano allo scopo. Le gallerie erano state costruite a una profondità sufficiente a proteggerle da una considerevole deflagrazione. In realtà, essendosi accumulate così in profondità sotto la superficie, le acque dovevano essersi raccolte non in una cisterna ma in un lago sotterraneo o in un'altra formazione geologica che sosteneva la falda acquifera. Com'era strano pensare a me stesso, nei giorni precedenti la mia perdita, davanti alla piastra del Pico Mundo Grille, a cuocere cheeseburger, strapazzare uova, rivoltare la pancetta e sognare il matrimonio, inconsapevole che sotto di me si stendevano le strade di Armageddon, nell'attesa silenziosa di improvvisi convogli di morte. Sebbene io veda i defunti, che gli altri non sono in grado di vedere, il mondo ha molti veli e segreti stratificati che non si possono percepire semplicemente con un sesto senso. Un chilometro dopo l'altro, procedevo meno rapidamente di quanto mi sarebbe piaciuto. Il mio MP funzionava peggio del solito, lasciandomi spesso nell'incertezza quando dovevo scegliere fra due tunnel. Proseguivo comunque ostinatamente verso est, o per lo meno sospettavo di farlo. Mantenere un preciso senso dell'orientamento sottoterra non è facile. Per la prima volta, mi imbattei in un palo per misurare la profondità situato al centro del corso d'acqua. Era bianco, a sezione quadrata, spesso una quindicina di centimetri, e si ergeva per tre metri e mezzo, quasi fino all'apice del soffitto curvo. Le cifre di misurazione erano scritte in nero. L'acqua grigia era mezza spanna sotto la linea dei sessanta centimetri, confermando la mia valutazione approssimativa, ma la cosa che mi interessava di più era il cadavere. Era rimasto intrappolato contro il palo. Galleggiava a faccia in giù nella corrente. L'acqua torbida, la camicia e i pantaloni gonfi, mi impedivano di determinare perfino il sesso del morto, dall'alto del marciapiede dove mi trovavo. Il mio cuore batté, batté e il suo suono riverberò dentro di me come se
mi trovassi all'interno di una casa vuota. Se era Danny, avevo chiuso. Chiuso non soltanto con la sua ricerca, ma ero finito. Cinquanta centimetri di acqua che scorre rapida possono spazzare via in un attimo un uomo adulto, facendogli perdere l'equilibrio. Quel tunnel, però, aveva una pendenza minima e il flusso costante della portata, oltre al suo aspetto pigro, faceva pensare che la velocità era (e sarebbe stata per un po') meno che travolgente. Dopo aver lasciato lo zainetto sul marciapiede, scesi nel canale e mi diressi verso il palo. Per quanto pigra, l'acqua aveva comunque una sua forza. Piuttosto che indugiare in mezzo alla corrente e tentare gli dei delle fogne, non cercai subito di rivoltare il cadavere per guardarlo in faccia, ma afferrai una manciata di vestiti e lo trascinai verso il marciapiede. Sebbene mi senta a mio agio con gli spiriti dei morti, i cadaveri mi spaventano. Sembrano vasi vuoti nei quali possono dimorare entità sconosciute e malevole. In realtà non ho mai saputo che questo accada, anche se c'è un commesso del 7-Eleven di Pico Mundo su cui mi pongo delle domande. Sul marciapiede misi il cadavere sulla schiena e riconobbi l'uomoserpente che mi aveva colpito con il Taser. Non era Danny! Mi sfuggì un gemito di sollievo. Allo stesso tempo sentii i nervi tendersi e rabbrividii. La faccia del morto era diversa da quelle di altri cadaveri che avevo visto. Gli occhi gli si erano rovesciati talmente all'indietro che non riuscivo a vedere l'iride. E avevano un'altra particolarità: anche se l'uomo poteva essere morto al massimo da due ore, erano molto gonfi e sembravano sporgere in fuori, come se la pressione all'interno del cranio li avesse costretti a uscire dalle orbite. Se la faccia fosse stata esangue, non mi sarei stupito. Se la pelle fosse diventata verde pallido, come accade sempre entro un giorno dal decesso, mi sarei chiesto che cosa aveva accelerato il processo di decomposizione, ma non mi sarei spaventato. La pelle non era esangue, né verde pallido e nemmeno livida ma aveva diverse tonalità di grigio, screziato dal cenere all'antracite. Appariva anche svuotato, come se la sua vita fosse un succo che gli era stato spremuto via. La bocca era aperta. La lingua non c'era più. Non pensai che qualcuno gliel'avesse tagliata. Sembrava che l'avesse inghiottita da sé. In modo ag-
gressivo. La testa non recava ferite evidenti. Sebbene fossi curioso di sapere com'era morto, non avevo intenzione di spogliarlo alla ricerca di ferite. Lo rivoltai mettendolo a faccia in giù, cercai il portafogli. Non lo aveva. Se quell'uomo non era morto accidentalmente ma era stato assassinato, di sicuro non lo aveva ucciso Danny Jessup. Restava l'unica possibilità che uno dei suoi soci lo avesse fatto fuori. Dopo aver ripreso lo zainetto ed essermelo messo in spalla, continuai per la direzione verso la quale ero diretto. Diverse volte mi voltai indietro, quasi aspettandomi di scoprire che si era alzato, ma non lo fece. 17 Alla fine svoltai verso sudest, entrando in un'altra galleria. Era buia. Dall'incrocio arrivava abbastanza luce da rivelare la presenza di un interruttore sulla parete del nuovo passaggio. La piastra di acciaio inossidabile era posta a circa un metro e ottanta da terra: presumibilmente, chi aveva progettato il sistema di controllo delle piene non si aspettava che l'acqua salisse tanto in alto, e questo confermava che il volume delle gallerie era molto al di sopra di quanto avrebbe richiesto il peggiore dei temporali possibili. Accesi l'interruttore. La galleria davanti a me si illuminò, come accadde forse ad altri rami che le erano collegati. Adesso procedevo verso est-sudest e poiché il temporale stava arrivando da nord, questo nuovo passaggio non incanalava l'acqua nella mia direzione. Il cemento si era quasi asciugato, dopo l'ultimo passaggio delle acque. Sul pavimento si era formato un leggero strato di sedimento, cosparso di piccoli oggetti lasciati dal deflusso delle precipitazioni più recenti. Cercai delle impronte nel limo, ma non ne vidi alcuna. Se Danny e i suoi rapitori erano venuti per questa strada, erano rimasti sul marciapiede che stavo usando io. Il mio sesto senso mi spingeva a proseguire. Mentre camminavo un po' più in fretta di prima, mi ponevo delle domande... Nelle strade di Pico Mundo ci sono dei tombini. I pesanti dischi in ferro battuto che li coprono devono essere sganciati dagli incastri e sollevati con un attrezzo speciale. La logica faceva pensare che i condotti del dipartimento acqua ed elettri-
cità e quelli destinati alle fognature fossero sistemi separati (e molto più ridotti) rispetto alle gallerie per il controllo delle piene. Altrimenti avrei incontrato numerosi pozzi di manutenzione dotati di scale o di semplici scalette a pioli. Nonostante avessi camminato per chilometri, nella prima galleria non avevo visto alcun ingresso di servizio, tranne quello attraverso il quale ero arrivato. Dopo aver percorso meno di duecento metri, nella parete del nuovo passaggio, mi imbattei in una porta di acciaio priva di indicazioni. Quello che mi attirava verso Danny Jessup non era il mio MP e non mi imponeva di andare verso quell'uscita. Era soltanto la curiosità a spingermi. Oltre la porta (pesante e solidissima come le altre due che avevo già incontrato) individuai un interruttore e un corridoio a T. Alla fine del braccio più corto della T c'erano altre porte. Una di queste si apriva su un vestibolo dove una scala a chiocciola di metallo permetteva di salire verso quello che sembrava un altro capanno in pietrisco e cemento come quello nel quale ero penetrato, e faceva parte del Sistema di Controllo delle Piene, gestito dalla nostra contea. All'altra estremità della T, una porta dava in un locale di passaggio dal soffitto alto, dove una ripida rampa di scale portava fino a una porta su cui era scritto: DAEPM. Interpretai la sigla come dipartimento acqua ed elettricità di Pico Mundo. Sotto c'era scritto: 16S-SW-V2453, che per me non significava niente. Non andai oltre nella mia esplorazione. Avevo scoperto che i sistemi sotterranei del dipartimento acqua ed elettricità si connettevano con la rete per il controllo delle piene, per lo meno in alcuni punti. Perché questa potesse rivelarsi in seguito un'informazione utile non lo sapevo, ma sentivo che sarebbe stato così. Dopo essere ritornato nella galleria che avevo momentaneamente abbandonato e aver scoperto che l'uomo-serpente dagli occhi bianchi non mi stava aspettando, proseguii verso est-sudest. Quando questa ne incrociò un'altra, il marciapiede si interruppe. Il sedimento polveroso sul fondo dell'alveo recava delle impronte fino al punto in cui il marciapiede riprendeva. Scesi a esaminarle. Danny lasciava impronte diverse dagli altri. Le numerose fratture riportate nel corso degli anni e le infauste torsioni delle ossa che spesso accompagnavano la guarigione di chi era vittima di quella malattia, gli avevano
lasciato la gamba destra più corta di circa due centimetri e mezzo rispetto all'altra, e con una distorsione. Zoppicava con un movimento ondulatorio dei fianchi e tendeva a trascinare il piede destro. «Se fossi anche gobbo», aveva detto una volta, «avrei un lavoro nella torre di Notre Dame per tutta la vita, con notevoli benefici aggiuntivi, ma come al solito Madre Natura non ha giocato in modo leale con me.» In proporzione alla statura minuscola, aveva i piedi grandi come quelli di un ragazzino di dieci o dodici anni. Inoltre, quello destro era di una misura più grande rispetto al sinistro. Quelle impronte non potevano essere di nessun altro. Al pensiero di quanta strada gli avevano fatto percorrere a piedi, mi sentii nauseato, arrabbiato e in ansia per lui. Poteva compiere brevi passeggiate (qualche isolato, o il giro del centro commerciale) a volte anche senza disagi. Ma un percorso lungo come quello era un'agonia per lui. Avevo pensato che Danny fosse stato rapito da due uomini (il suo padre biologico, Simon Makepeace, e l'uomo-serpente senza nome, ora deceduto). Nel sedimento polveroso, però, c'erano altre tre serie di impronte. Due corrispondevano a uomini adulti, di cui uno aveva i piedi più grandi del compagno. La terza poteva appartenere a un ragazzo o a una donna. Le seguii lungo la confluenza delle gallerie fin dove ricominciava il marciapiede. Da lì non avevo niente da seguire se non il mio particolare intuito. In questa parte asciutta del labirinto non c'era nemmeno il sussurro serico dell'acqua bassa che scorreva senza intralci. Qui c'era qualcosa di più del silenzio, c'era la mancanza assoluta di qualsiasi rumore. Avevo il passo leggero e, non avendo camminato particolarmente in fretta, non respiravo affannosamente. Mentre avanzavo, stavo in ascolto di eventuali rumori che poteva fare la mia preda. Ma non mi giungevano suoni rivelatori, come passi o voci. Un paio di volte mi fermai e chiusi gli occhi per concentrarmi nell'ascolto. Udii solo una potenzialità di suono profonda e vuota, e non un pulsare o un gorgogliare che non provenissero da me. L'evidenza di un silenzio talmente profondo suggeriva che, in un qualsiasi punto più avanti, i quattro avevano lasciato la rete di drenaggio. Perché Simon avrebbe rapito un figlio che non voleva e alla cui paternità rifiutava di credere? Risposta: se pensava che Danny fosse figlio dell'uomo con cui Carol gli
aveva messo le corna, poteva ottenere soddisfazione uccidendolo. Era un sociopatico. Né la logica né le comuni emozioni servivano da fondamento alle sue azioni. Le uniche motivazioni erano il potere (e il piacere che traeva dall'esercitarlo) e la sopravvivenza. Questa risposta mi aveva soddisfatto fino a quel punto, ma non oltre. Simon poteva avere ucciso Danny in camera sua. Oppure, se il mio arrivo a casa Jessup lo aveva interrotto, poteva aver fatto il lavoro nel furgone, mentre il tizio serpentino guidava, e avrebbe avuto il tempo per la tortura, se era questo che voleva. Portare Danny in quel labirinto e farlo camminare per chilometri di gallerie era una forma di tortura, ma non abbastanza scenografica e fisicamente invasiva da eccitare un sociopatico omicida a cui piaceva il lavoro sanguinolento. Simon e i suoi due compagni avevano in mente di utilizzare Danny in un modo che mi sfuggiva. E non erano scesi laggiù per evitare i controlli o i pattugliamenti aerei disposti dallo sceriffo. Avrebbero potuto trovare luoghi migliori in cui rimanere nascosti fino a che non avessero tolto i posti di blocco. Aspettandomi qualcosa di brutto, adesso camminavo più in fretta, non perché il mio MP mi guidasse in modo più efficace, cosa che non era, ma perché a ogni incrocio avevo la conferma dalle impronte nel sedimento. Le infinite pareti grigie, le luci e le ombre dalle forme monotone disegnate dalle lampade nel soffitto, il silenzio: questo poteva sembrare l'inferno a qualsiasi peccatore senza speranza le cui due paure maggiori fossero la solitudine e la noia. Dopo la scoperta delle prime impronte, mi affrettai ancora per più di mezz'ora, senza correre ma camminando a passo rapido, così arrivai al posto in cui erano usciti dal labirinto. 18 Quando toccai la porta di servizio in acciaio nella parete del tunnel, mi sentii preso psicologicamente all'amo e strattonato con forza in avanti, come se la mie prede fossero i pescatori e io il pesce. Oltre l'uscio, un corridoio a forma di L. All'estremità, una porta. Spingendola, trovai un vestibolo, una scala a chiocciola e in cima un altro capanno in pietrisco e cemento con la rastrelliera degli attrezzi. Nonostante la giornata di febbraio fosse gradevolmente tiepida ma non
infuocata, lì dentro l'aria era soffocante. L'odore di marcio si spandeva dai travetti sotto il tetto di metallo cotto dal sole. A quanto pareva, Simon aveva forzato la serratura come aveva fatto nel primo capanno vicino al Blue Moon Café. Andandosene, aveva tirato la porta che si era chiusa di nuovo alle loro spalle. Usando la mia patente potevo forzare un semplice chiavistello, ma anche se economico e poco solido, quel modello avrebbe resistito a un semplice strato di plastica. Presi le tenaglie dallo zainetto. Non mi preoccupavo che il rumore mettesse in allerta Simon e i suoi. Erano passati di lì ormai da parecchie ore e avevo tutti i motivi per credere che avevano continuato a muoversi. Mentre stavo per stringere con le tenaglie il cilindro della serratura, suonò il telefono satellitare di Terri, spaventandomi. Mi frugai in tasca e lo estrassi al terzo squillo. «Sì?» «Ciao.» Da quell'unica parola, riconobbi la donna dalla voce tenebrosa che la notte prima aveva chiamato mentre sedevo sotto i rami della brugmansia velenosa dietro casa Ying. «Ancora tu.» «Io.» Poteva aver avuto quel numero solo chiamando il mio cellulare, nel frattempo ricaricato, e parlando con Terri. «Chi sei?» «Pensi ancora che abbia sbagliato numero?» «No. Chi sei?» Disse: «Hai bisogno di chiederlo?» «Non l'ho appena fatto?» «Non dovresti avere bisogno di chiederlo.» «Non conosco la tua voce.» «Molti uomini la conoscono bene.» Se non stava giocando agli indovinelli, per lo meno era astrusa, prendeva in giro. «Ti ho mai incontrata?» domandai. «No. Ma non puoi inventarmi?» «Inventarti?» «Mi deludi.» «Di nuovo?» «Ancora.»
Pensai alle impronte nel sedimento. Un paio appartenevano a un ragazzo o a una donna. Non sapendo cosa c'era in ballo, aspettai. Anche lei aspettò. Fra i travetti, i ragni avevano tessuto le ragnatele. Quegli architetti penzolavano, lucidi e neri, fra le carcasse pallide di mosche e falene con cui avevano banchettato. Infine chiesi: «Che cosa vuoi?» «Miracoli.» «Con questo che cosa intendi?» «Cose favolosamente impossibili.» «Perché chiamare me?» «Chi altri?» «Io sono un cuoco di patatine.» «Stupiscimi.» «Servo ai tavoli.» Lei disse: «Dita gelide». «Cosa?» «È questo che voglio.» «Vuoi dita gelide?» «Su e giù per la mia spina dorsale.» «Procurati una massaggiatrice eschimese.» «Massaggiatrice?» «Per le dita gelide.» Chi non ha senso dell'umorismo ha sempre bisogno di chiedere, e lei lo fece. «È una battuta?» «Non un granché», ammisi. «Tu pensi che tutto sia divertente? È così che sei fatto?» «Non tutto.» «Non molto, in realtà, testa di cazzo. Adesso stai ridendo?» «No, adesso no.» «Sai che cosa penso che sarebbe divertente?» Non risposi. «Penso che sarebbe divertente sbattere il martello sul braccio del piccolo storpio.» In alto, un arpeggiatore a otto zampe si mosse e arpeggi silenziosi tremarono per i fili tesi della ragnatela. Lei aggiunse: «Le sue ossa andranno in frantumi come il vetro?»
Non risposi subito. Pensai, prima di rispondere, poi dissi: «Mi spiace». «Di cosa ti spiace?» «Mi spiace per averti offesa con la battuta sull'eschimese.» «Piccolo, io non mi offendo.» «Sono contento di sentirlo.» «Mi incazzo e basta.» «Mi spiace. Dico davvero.» «Non essere noioso», replicò lei. «Ti prego, non fargli del male», supplicai. «Perché non dovrei?» «Perché dovresti?» «Per ottenere ciò che voglio.» «Che cosa vuoi?» «I miracoli.» «Forse sono io, ne sono certo, ma non capisco ciò che dici.» «I miracoli», ripeté. «Dimmi, cosa posso fare?» «Meraviglie.» «Che cosa posso fare per averlo indietro senza che gli sia fatto del male?» «Mi deludi.» «Sto cercando di capire.» «È orgoglioso della sua faccia, eh?» chiese. «Orgoglioso? Non so.» «È l'unica sua parte non incasinata.» Mi era venuta la bocca secca, ma non per il capanno caldissimo e cosparso di polvere. «Ha un bel faccino», aggiunse lei. «Per ora.» Mise fine alla telefonata. Pensai per un attimo di vedere se riuscivo a richiamarla, anche se aveva un blocco che impediva di visualizzare il numero sul display. Non lo feci perché sospettavo che sarebbe stato un errore. Anche se le sue affermazioni sibilline non gettavano luce su ciò che voleva fare, una cosa sembrava chiara. Era abituata ad avere il controllo e alla minima sfida rispondeva con l'ostilità. Tenendo un atteggiamento aggressivo con me, si aspettava che io fossi passivo. Se avessi rintracciato il suo numero, senza dubbio sarebbe andata in collera.
Era capace di crudeltà. La rabbia che rischiavo di suscitare in lei poteva scatenarsi contro Danny. L'odore di marcio, di polvere. Di qualcosa di morto ed essiccato in un angolo in ombra. Rimisi il telefonino in tasca. Su un filo argenteo, un ragno scendeva dalla sua ragnatela, roteando pigro nell'aria immobile, le zampe tremolanti. 19 Strappai via il cilindro della serratura, spalancai la porta e lasciai i ragni alla loro attività predatoria. La rete di gallerie mi era parsa così surreale e inquietante e talmente arcana la conversazione telefonica avuta là sotto, che, se nel varcare la soglia mi fossi ritrovato a Narnia, non mi sarei stupito più di tanto. In realtà, mi trovavo oltre i confini di Pico Mundo, ma non in una terra governata dalla magia. In ogni direzione si estendeva il deserto costellato di rocce e sterpaglia, spietato. Il capanno si ergeva all'interno di un riquadro di cemento due volte più largo, delimitato da una rete metallica. Percorsi tutto il perimetro di quella recinzione, esaminando il paesaggio brullo, per scorgere tracce di eventuali osservatori. Il terreno circostante non offriva alcun nascondiglio. Quando mi fu chiaro che per evitare colpi di arma da fuoco non sarebbe stato necessario ritirarmi nel capanno, scavalcai la recinzione. Il terreno pietroso che mi stava davanti non recava tracce. Guidato dall'intuito, mi diressi a sud. Il sole aveva raggiunto il suo apice. Era inverno e restavano forse cinque ore di luce, prima dell'imbrunire. A sud e a ovest, il cielo pallido appariva assai più chiaro dell'azzurro ideale, come se si fosse sbiadito per i millenni di sole che si rifletteva dal Mojave. In contrasto, dietro di me la parte settentrionale del cielo era stata consumata da fameliche masse di nubi minacciose. Come le precedenti erano di un grigio sporco che ora appariva livido. Percorsi in salita un centinaio di metri su una bassa collinetta e discesi in una depressione dove il terreno era soffice. Davanti a me ritrovai le tracce dei fuggitivi e del loro prigioniero. Danny aveva trascinato il piede più malamente che nelle gallerie sotter-
ranee. Le tracce lasciate dalla sua andatura suggerivano dolore acuto e disperazione. Dopo la pubertà buona parte dei malati di osteopsatirosi subiscono meno fratture che in precedenza. Danny era uno di quelli. Raggiunta l'età adulta, i più fortunati scoprono che sono solo di poco più suscettibili alle fratture rispetto alle persone che non soffrono della loro malattia, in alcuni casi sono come gli altri. Rimane l'eredità dei corpi distorti, della crescita abnorme delle ossa, alcuni diventano sordi per l'otosclerosi, ma i disastri peggiori della malattia genetica sono ormai superati. Benché fosse meno fragile rispetto a quando era bambino, Danny apparteneva a quella minoranza sfortunata di adulti affetti da osteopsatirosi che dovevano rimanere guardinghi. Era da tanto che non si fratturava un osso casualmente, come quando a sei anni, giocando a carte si era rotto il polso; poi, l'anno passato, cadendo si era fratturato il radio destro. Per un momento esaminai le impronte della donna, chiedendomi chi fosse, che cosa fosse, perché. Seguii la depressione per circa duecento metri, poi le tracce sparivano su un pendio roccioso. Cominciavo a salirlo quando squillò il telefono satellitare. «Odd Thomas?» «Chi altri?» «Ho visto la tua foto.» «Le orecchie mi vengono sempre più grandi di quanto siano in realtà.» «Ne hai l'aspetto», affermò. «Che aspetto?» «Mundunugu.» «È una parola?» «Sai che cosa significa.» «Mi spiace, no.» «Bugiardo», disse, ma non con rabbia. Sembrava la conversazione alla tavola del tè del Cappellaio Matto. Mi chiese: «Lo vuoi, il piccolo storpio?» «Voglio Danny. Vivo.» «Pensi di riuscire a trovarlo?» «Ci sto provando», risposi. «Andavi tanto in fretta, adesso sei dannatamente lento.» «Che cosa pensi di sapere su di me?» Con voce leziosa chiese: «Che cosa c'è da sapere, piccolo?»
«Non tanto.» «Per il bene di Danny, spero che non sia vero.» Cominciai ad avere l'inquietante ma inesplicabile sensazione che in qualche modo il dottor Jessup era stato assassinato... a causa mia. «Non vorrai cacciarti in guai seri», replicai. «Nessuno può farmi del male», dichiarò. «È vero?» «Sono invincibile.» «Buon per te.» «Sai perché?» «Perché?» «Ne ho trenta in un amuleto.» «Trenta cosa?» volli sapere. «Ti bon ange.» Non avevo mai sentito prima quel termine. «Che cosa significa?» «Lo sai.» «In realtà no.» «Bugiardo.» Visto che non riattaccava, ma non aggiungeva altro, mi sedetti per terra, rivolto di nuovo verso ovest. Tranne per un cespuglio occasionale di mesquite e un ciuffo d'erba, il terreno era grigio-cenere e giallo acido. «Sei ancora lì?» chiese. «Dove dovrei andare?» «Allora dove sei?» Replicai con una domanda. «Posso parlare con Simon?» «Semplice o dice?» «Che cosa significa?» «I Simon della canzoncina per bambini, no?» «Simon Makepeace», spiegai paziente. «Pensi che sia qua?» «Sì.» «Perso.» «Ha ucciso Wilbur Jessup.» «Non ci sai fare in questo», disse. «In cosa?» «Non deludermi.» «Pensavo avessi detto che ti ho già deluso.»
«Non deludermi ancora.» «Oppure?» chiesi, e immediatamente desiderai non averlo fatto. «Senti un po' qua...» Aspettai. Infine disse: «Senti un po' qua: ci trovi entro il tramonto o gli spezziamo tutte e due le gambe». «Se vuoi che vi trovi, basta dirmi dove siete.» «Che senso avrebbe? Se non ci trovi per le nove, gli spezziamo anche tutte e due le braccia.» «Non farlo. Non ti ha mai fatto del male. Non ha mai fatto del male a nessuno.» «Qual è la prima regola?» chiese. Ricordando la nostra conversazione più breve e più criptica avuta la notte precedente, risposi: «Devo venire solo». «Porta i poliziotti o qualcun altro, e gli spacchiamo quel bel faccino, e poi, per il resto della vita, sarà brutto come il culo da cima a fondo.» Quando riattaccò, premetti FINE. Chiunque fosse, era pazza. D'accordo, avevo già avuto a che fare con i pazzi in precedenza. Era pazza e cattiva. Niente di nuovo nemmeno in questo. 20 Mi tolsi lo zainetto e vi frugai dentro alla ricerca della bottiglia di Evian. L'acqua non era fredda ma aveva un sapore delizioso. In realtà, la bottiglia di plastica non conteneva la Evian. L'avevo riempita al rubinetto della mia cucina. Se sei disposto a pagare salato per l'acqua imbottigliata, perché non pagare ancora di più per una confezione di aria delle Montagne Rocciose, se un giorno la trovassi al mercato? Sebbene non sia un taccagno, per anni ho vissuto in modo frugale. In quanto cuoco da tavola calda con progetti matrimoniali, pagato con un salario equo ma non munifico, avevo bisogno di risparmiare per il nostro futuro. Adesso lei se n'è andata e io sono solo, e l'ultima cosa che mi serve sono i soldi per la torta nuziale. Però, per lunga abitudine, quando si tratta di spendere per me, continuo a stringere ogni centesimo abbastanza forte da dargli la dimensione di un quarto di dollaro.
Considerata la mia vita particolare e avventurosa, non mi aspetto di vivere abbastanza a lungo per ritrovarmi con la prostata ingrossata, ma se dovessi raggiungere i novanta prima di tirare le cuoia, probabilmente sarò uno di quegli eccentrici che, ritenuti poveri, lasciano un milione di dollari in contanti, arrotolati in vecchi barattoli del caffè con le istruzioni per usarli nella cura dei cani randagi. Dopo aver finito la falsa Evian, rimisi la bottiglia vuota nello zaino, quindi annaffiai una chiazza di deserto con il meglio della mia produzione. Sospettavo di essermi avvicinato all'obiettivo e adesso avevo una scadenza. Il tramonto. Prima di compiere l'ultima tappa del viaggio, però, avevo bisogno di sapere un po' di cose che stavano accadendo nel mondo reale. Nessuno dei vari numeri di Porter era inserito nella rubrica rapida del telefonino di Terri, ma ormai li sapevo a memoria tutti quanti. Rispose al cellulare al secondo squillo. «Porter.» «Scusi se la interrompo.» «Interrompere cosa? Pensi che sia nel vortice del lavoro?» «Non lo è?» «In questo momento, figliolo, mi sento come una mucca.» «Una mucca, signore?» «Una mucca che sta in un campo, a ruminare.» «Non sembra rilassato come una mucca», osservai. «Non mi sento rilassato come una mucca. Mi sento idiota come una mucca.» «Niente tracce di Simon?» «Oh, lo abbiamo, Simon. È in carcere a Santa Barbara.» «Un lavoro bello rapido.» «Più rapido di quanto credi. È stato arrestato due giorni fa per aver dato inizio a una rissa in un bar. Ha colpito l'agente che lo stava arrestando. È dentro per aggressione.» «Due giorni fa. Allora il caso...» «Il caso non è quello che pensavamo che fosse. Simon non ha ucciso il dottor Jessup. Anche se dice di essere felice che qualcuno lo abbia fatto.» «È forse stato un omicidio su commissione? Il Capo rise sonoramente. «Con la sua fedina, l'unico lavoro che ha ottenuto è stato svuotare fosse biologiche. Vive in una stanza d'affitto.» «C'è gente che per mille verdoni lo farebbe», gli feci notare. «Certo, ma il massimo che otterrebbe da Simon sarebbe una pulitura
gratis della fossa biologica.» Il deserto morto tornò in vita, respirò e parve sollevarsi. I ciuffi d'erba tremolarono. Lo stramonio sussurrò brevemente, poi tornò silenzioso mentre l'aria ridiventava immobile. Guardando a nord, verso le lontane propaggini del temporale, dissi: «E il furgone bianco?» «Rubato. Non abbiamo trovato impronte che valgano qualcosa.» «Nessun altro indizio?» «No, a meno che la polizia scientifica della contea non trovi del DNA strano o altre tracce, a casa Jessup. Com'è la situazione lì da te, figliolo?» Mi guardai attorno in quella terra deserta. «Sono in pista.» «Ti senti magnetico?» Mentirgli sarebbe stato più difficile che mentire a me stesso. «Mi sento trascinato.» «Trascinato dove?» «Ancora non lo so. Continuo a muovermi.» «Dove sei adesso?» «Preferisco non dirlo.» «Non metterti a fare il Cavaliere Solitario!» si preoccupò lui. «Se sembra che sia meglio.» «Niente Tonto, niente Silver... non è furbo. Usa la testa, figliolo.» «A volte bisogna dar retta al cuore.» «Non serve a niente se mi metto a discutere con te, eh?» «No, ma potrebbe fare una perquisizione accurata della stanza di Danny, per vedere se ultimamente nella sua vita è entrata una donna.» «Sai che non sono crudele, Odd, ma come poliziotto devo stare con i piedi per terra. Se quel povero ragazzo fosse uscito con qualcuna, la mattina dopo lo avrebbe saputo tutta Pico Mundo.» «Potrebbe trattarsi di una relazione discreta, signore. E non sto dicendo che Danny ne abbia avuto ciò che sperava. Anzi, magari ha avuto un mondo di male.» Dopo un silenzio, il Capo disse: «Lui sarebbe vulnerabile, intendi. A una predatrice». «La solitudine può far abbassare le difese.» «Però non hanno rubato niente», replicò lui. «Non hanno saccheggiato la casa. Non si sono nemmeno dati la pena di prendere i soldi nel portafogli del dottor Jessup.» «Quindi, da Danny volevano qualcosa di diverso dal denaro.»
«Che sarebbe... cosa?» «Continua a esserci un punto cieco per me. È come se vedessi un'ombra, ma non riesco a vedere la cosa.» In lontananza, a nord, tra il cielo color carbone e la terra color cenere, la pioggia faceva pensare a lucenti cortine di fumo. «Devo muovermi», dissi. «Se dovesse saltar fuori una donna, ti chiamo.» «No, preferisco che non lo faccia. Devo tenere la linea libera e risparmiare la batteria. Ho chiamato solo per dirle che c'è di mezzo una donna, così, se mi accadesse qualcosa, avrà un punto da cui partire. Una donna e tre uomini.» «Tre? Quello che ti ha sparato con il Taser e chi altri?» «Pensavo che uno fosse Simon, ma non può essere. Tutto quello che so degli altri è che uno di loro ha i piedi grandi.» «I piedi grandi?» «Dica una preghiera per me.» «Lo faccio ogni sera.» Misi fine alla chiamata. Con lo zaino in spalla, continuai la salita che era stata interrotta dalla telefonata della donna. La pendenza si protraeva a lungo, ma era lieve. Frammenti di roccia scistosa crocchiavano e scivolavano da sotto i miei piedi, mettendo ripetutamente alla prova la mia agilità e il mio equilibrio. Qualche piccola lucertola zampettò via dal mio cammino. Rimanevo vigile, per non imbattermi nei serpenti a sonagli. Dei robusti scarponi di cuoio sarebbero stati più adatti delle morbide scarpe da ginnastica che portavo. Ma, probabilmente, avrei dovuto muovermi furtivamente e le mie scarpe, un tempo bianche, erano l'ideale. Forse non avrei dovuto preoccuparmi di impronte, serpenti ed equilibrio, se il mio destino era essere ammazzato da qualcuno nascosto dietro una porta bianca a riquadri. D'altra parte, non volevo pensare che quel sogno ricorrente fosse affidabile come previsione della realtà, forse era solo la conseguenza di troppi fritti e troppa salsa piccante. Lontana e celestiale, una grande porta si spalancò con un rimbombo di tuono e una brezza movimentò nuovamente la giornata. Quando il brontolio lontano si affievolì, l'aria non ritornò immobile com'era accaduto in precedenza, ma continuò la sua corsa leggera attraverso la vegetazione rada, come il fantasma di un branco di coyote. Quando raggiunsi la sommità della collina, seppi che la mia destinazione
si trovava davanti a me. Danny Jessup sarebbe stato trovato lì, prigioniero. In lontananza correva l'interstatale. Una bretella a quattro corsie la collegava alla pianura sottostante. All'estremità di quella strada si ergevano il casinò in rovina e la torre annerita dove la Morte era andata a giocare d'azzardo e aveva vinto, come sempre. 21 Appartenevano alla tribù panamint, della famiglia shoshoni-comanche. Oggi ci viene detto che per l'intero corso della loro storia (come tutti i nativi di questa terra prima di Colombo e dell'imposizione della cucina italiana sul continente) erano stati pacifici, profondamente spirituali, altruisti e incrollabilmente reverenti verso la natura. L'industria del gioco d'azzardo (che si alimenta con la debolezza e la perdita, indifferente alla sofferenza, materialistica, insaziabilmente avida, che sparge per la natura gli edifici più brutti e pacchiani nella storia dell' architettura) era vista dai capi indiani come qualcosa che si addiceva loro perfettamente. Lo stato della California acconsentiva, garantendo ai nativi americani un monopolio sul gioco d'azzardo nei casinò all'interno dei suoi confini. Preoccupate che il Grande Spirito da solo non fornisse una guida sufficiente per spremere dalle entrate delle loro nuove imprese ogni goccia possibile, molte tribù strinsero accordi con società esperte nella gestione dei giochi affinché amministrassero i loro casinò. Furono installate le camere blindate, allestiti i giochi, assunto il personale e aperte le porte e, sotto l'occhio vigile dei soliti buttafuori, il fiume di denaro cominciò a fluire. Si profilava l'età d'oro della ricchezza per gli indiani, ogni nativo americano sarebbe stato ben presto ricco. Ma il flusso non raggiunse la popolazione indiana così rapidamente e in profondità quanto ci si aspettava. Buffo come succedano le cose. Nella comunità presero piede la dipendenza dal gioco, il conseguente impoverimento e i crimini collegati. Non tanto buffo. Nella pianura sotto la collina sulla quale ero salito, a circa un chilometro e mezzo, su terra tribale, aspettava il Panamint Resort and Spa. Un tempo era luccicante, ammantato di neon, pacchiano come qualsiasi ritrovo di quel genere, ma i giorni di gloria erano finiti. L'albergo di sedici piani aveva la grazia di una prigione-grattacielo. Cin-
que anni prima era sopravvissuto a un terremoto riportando danni lievi, ma non aveva superato l'incendio successivo. Quasi tutte le finestre erano andate in frantumi per le scosse o erano esplose per il calore mentre le stanze andavano a fuoco. Colonne di fumo avevano lasciato strisce annerite sui muri. Un angolo del casinò a due piani, che avvolgeva tre lati della torre, era crollato. Costruito in cemento colorato, con la facciata ricoperta da simboli indiani (molti dei quali in realtà non erano simboli indiani ma interpretazioni New Age del misticismo indiano com'era concepito dagli scenografi hollywoodiani) si era staccato quasi completamente dall'edificio principale ed era crollato nel parcheggio circostante. Sotto le macerie c'erano ancora alcuni veicoli schiacciati e arrugginiti. Temendo che una sentinella con il binocolo sorvegliasse i dintorni, mi ritirai dalla cima della collina, sperando che non mi avessero già individuato. Pochi giorni dopo l'incendio, molti avevano predetto che, considerati i soldi che si potevano fare, il casinò sarebbe stato ricostruito entro un anno. Quattro anni dopo, non era ancora iniziata la demolizione delle rovine carbonizzate. Gli appaltatori furono accusati di essere andati troppo per le spicce e aver indebolito la struttura. Gli ispettori edili della contea finirono in tribunale con l'accusa di aver accettato tangenti; a loro volta rivelarono la corruzione presente nella giunta. Vennero verificate tante e tali colpe che un guazzabuglio di vertenze giudiziarie, legittime e frivole, di battaglie fra società di pubbliche relazioni finirono in diverse bancarotte, due suicidi, innumerevoli divorzi e anche un'operazione per cambiare di sesso. Buona parte dei panamint che avevano fatto fortuna ne vennero spogliati dagli indennizzi o stavano ancora svenandosi con gli avvocati. Quelli che non avevano mai raggiunto la ricchezza ma erano diventato giocatori accaniti ebbero l'inconveniente di dover viaggiare più lontano per perdere quel poco che gli era rimasto. Al momento, metà delle vertenze aspettano una risoluzione finale e nessuno sa se quel luogo di divertimenti risorgerà come una fenice. Perfino il diritto (qualcuno direbbe l'obbligo) di tirar via le rovine con i bulldozer è stato congelato da un giudice in attesa di un appello o di una decisione definitiva della corte. Mantenendomi al di sotto della cresta, mi spostai a sud fino a quando la
pendenza rocciosa si trasformò in un morbido declivio. Una fascia di colline a forma di mezzaluna si estende a ovest, sud ed est della landa in cui si erge la costruzione semidiroccata, mentre a nord l'interstatale attraversa la pianura. Avanzai tenendomi alla base delle alture, lungo una serie di stretti solchi che alla fine si allargarono nel letto asciutto di un torrente: così proseguii verso est seguendo una strada serpeggiante. Se i rapitori di Danny si erano accampati in uno dei piani più alti dell'albergo, che era la posizione migliore per tener d'occhio i paraggi, mi conveniva accostarmi da una direzione inaspettata. Volevo avvicinarmi il più possibile alla proprietà, prima di uscire allo scoperto. Come sapeva la donna sconosciuta che sarei riuscito a seguirli, come sapeva che mi sarei sentito costretto a seguirli, perché voleva che li seguissi, non me lo spiegavo con certezza. La ragione, però, mi faceva sospettare che Danny le avesse rivelato il segreto del mio dono. La conversazione sibillina al telefono, il suo stuzzicarmi, sembravano concepiti per strapparmi delle ammissioni. Cercava conferma a fatti che conosceva già. Un anno prima, Danny aveva perso la madre a causa del cancro. Come amico più intimo, gli ero stato accanto nel lutto, fino alla perdita che io stesso avevo subito in agosto. Non aveva molti amici. I suoi limiti fisici, il suo aspetto e la sua arguzia salace non favorivano i contatti sociali. Quando mi ero ritirato in me stesso, chiudendomi nel mio dolore e poi a scrivere sugli avvenimenti di agosto, non lo avevo più consolato, non con la generosità che avrei dovuto avere. A confortarlo, aveva il suo padre adottivo. Ma il dottor Jessup era a sua volta in preda al dolore e probabilmente aveva cercato sollievo nel lavoro. La solitudine è una porta. Quando proviene dal desiderio di stare da soli, la chiudiamo contro il mondo. Quando invece è il mondo a rifiutarci, resta aperta, non utilizzata. Qualcuno aveva varcato quella porta quando Danny era al massimo della sua vulnerabilità. Qualcuno con una voce serica, misteriosa. 22 Ventre a terra, strisciai fuori dal letto asciutto del torrente portandomi sul terreno pianeggiante, mi lasciai le colline alle spalle e avanzai con rapidi contorcimenti attraverso cespugli di salvia alti abbastanza da fornire
un buon riparo. Il mio obiettivo era un muro che separava il deserto da ciò che un tempo era stato il giardino dell'albergo-casinò. Lepri e una varietà di altri roditori si riparavano dal sole e mangiucchiavano le foglie di quella vegetazione. Dove andavano questi animali sarebbero arrivati i serpenti, alla ricerca di cibo. Per fortuna i serpenti sono timidi; non timidi quanto i poveri cristi, ma abbastanza. Per tenerli alla larga feci un sacco di rumore prima di sgusciare fuori dal letto del torrente e intrufolarmi tra la salvia e, nel muovermi, grugnivo e sputacchiavo terra e starnutivo e, in generale, producevo abbastanza fracasso da spingere tutta la fauna selvatica a traslocare. Presumendo che i miei avversari si fossero accampati nei piani alti dell'hotel e considerando che mi trovavo ancora a poche centinaia di metri dalla struttura, il rumore che facevo non li avrebbe certo allarmati. Forse avrebbero guardato in ogni direzione tenendo d'occhio eventuali movimenti. Ma l'ondeggiare della salvia non avrebbe attirato l'attenzione; la brezza da nord si era rafforzata, facendo tremolare gli arbusti e le erbacce. Leggeri grovigli di amaranto rinsecchito rotolavano e qua e là danzavano turbini di polvere. Avendo evitato il morso del serpente, la puntura dello scorpione, il pizzico del ragno, raggiunsi i margini del giardino, mi alzai in piedi e appoggiai la schiena al muro. Ero ricoperto di polvere chiara e di un'impalpabile sostanza bianca che mi si era appiccicata addosso dalla parte inferiore delle foglie di salvia. La sgradevole conseguenza del magnetismo psichico è che non solo mi trascina troppo spesso in circostanze pericolose, ma anche in luoghi sudici. Sono eternamente indietro con i miei bucati. Dopo essermi strofinato alla meglio, seguii il muro che curvava gradatamente a nordest. Su questo lato, i blocchetti di cemento non intonacati erano stati dipinti di bianco; sul lato più lontano, quello che poteva essere visto dai clienti, la barriera alta tre metri era stata intonacata e dipinta di rosa. Dopo il terremoto e l'incendio, incaricati della tribù avevano affisso diversi cartelli di metallo che avvertivano severamente i potenziali intrusi del pericolo costituito dalle strutture danneggiate che si trovavano oltre il muro e sui residui tossici che potevano contenere. Il sole del Mojave li aveva sbiaditi, ma gli avvertimenti erano ancora leggibili. Lungo il muro, dalla parte del giardino, erano state piantate delle palme a gruppetti irregolari. Non erano state più annaffiate dopo che il terremoto
aveva distrutto il sistema di irrigazione e quindi erano morte. Alcune fronde si erano staccate, cadendo a terra; altre ciondolavano prive di vita; le rimanenti stavano ritte, malconce e marroncine. Trovai comunque delle palme che riparavano un tratto di muro alla vista, se qualcuno avesse guardato dall'albergo. Spiccai un salto e aggrappandomi con le mani, mi arrampicai, scavalcai e mi lasciai cadere sopra un cumulo di pezzi di corteccia e foglie di palma, non nel modo semplice che queste parole implicano, ma prendendo botte e gomitate da provare al di là di ogni dubbio che non discendo dalle scimmie. Mi accucciai dietro gli spessi tronchi. Oltre le palme spelacchiate si estendeva una piscina enorme, la cui vasca imitava una formazione rocciosa naturale. Cascate costruite dall'uomo avrebbero dovuto servire anche da scivoli. Dalle cascate non scendeva nulla. La piscina asciutta era mezzo piena di robaccia portata dal vento. Se i rapitori di Danny facevano la guardia, probabilmente concentravano l'attenzione a ovest, direzione dalla quale loro stessi erano arrivati. Forse tenevano d'occhio la strada che univa quel luogo all'interstatale a nord. In tre non potevano tenere sotto controllo i quattro lati dell'albergo. Inoltre, dubitavo che ognuno di loro si posizionasse da solo in un punto di osservazione separato dagli altri. Al massimo, la loro vigilanza copriva solo due punti di approccio. C'erano buone probabilità che riuscissi a spostarmi dalle palme all'albergo senza essere visto. Loro avevano sicuramente altre armi oltre alla pistola, ma non mi preoccupavo di beccarmi una pallottola. Se avessero voluto uccidermi, in casa Jessup non avrebbero usato il Taser: mi avrebbero sparato in faccia. Più tardi, magari, sarebbero stati contenti di farmi fuori. Adesso volevano qualcos'altro. Miracoli. Meraviglie. Dita gelide. Cose favolose e impossibili. Quindi... entrare, esplorare il terreno, scoprire dove tenevano Danny. Una volta capita la situazione, se non fossi riuscito a portarlo via da solo, avrei dovuto chiamare il Capo, incurante del fatto che il mio intuito considerava il coinvolgimento della polizia sinonimo di morte certa. Abbandonai il rifugio delle palme e corsi attraverso il contorno della piscina in finta pietra, dove un tempo bagnanti cosparsi di olio solare pisolavano su sdraio imbottite, preparandosi ai melanomi. Invece di bevande tropicali al rum, il bar in stile polinesiano offriva for-
midabili montagne di escrementi di uccelli. Prodotti da presenze piumate che non vedevo ma udivo. Lo stormo stava appollaiato sulle finte canne di bambù che, incrociandosi, reggevano il tetto formato da foglie di palma di plastica e mentre passavo di corsa agitarono le ali e stridettero per cacciarmi via. Ora che girai attorno alla piscina e raggiunsi l'ingresso posteriore dell'albergo, ebbi la possibilità di ricevere una lezione dagli invisibili uccelli. Ridotto a un rottame, bruciato, abbandonato, logorato dal vento, levigato dalla sabbia, il Panamint Resort and Spa non si meritava più nemmeno una singola stella nella guida Michelin, ma era diventato la tana della fauna più varia del deserto che aveva trovato quel luogo più ospitale dei soliti buchi nel terreno. Oltre alla minaccia costituita dalla donna misteriosa e dai suoi due amici criminali, dovevo stare attento ai predatori che non avevano il cellulare. Le porte scorrevoli di vetro sul retro dell'albergo, andate in frantumi durante il terremoto, erano sostituite da fogli di compensato per impedire l'accesso ai curiosi patologici. Attaccati ai pannelli foderine di plastica contenevano avvisi sulle rigorose azioni disciplinari in cui sarebbe incorso chiunque fosse stato colto all'interno dell'edificio. Le viti che reggevano uno dei fogli di compensato erano state tolte e il pannello giaceva lì accanto. A giudicare dalla sabbia e dai graffi causati dalla sterpaglia portata dal vento contro il pannello, non dovevano averlo tolto nelle ultime ventiquattro ore, ma settimane o mesi prima. Per due anni circa dopo la distruzione di quel luogo, la tribù aveva pagato perché una pattuglia facesse la ronda lì attorno ventiquattr'ore al giorno, sette giorni alla settimana. A mano a mano che proliferavano le denunce e le controdenunce e aumentava la probabilità che la proprietà fosse ceduta ai creditori (con estremo orrore degli stessi), le ronde erano divenute una spesa che non aveva più senso sostenere. Con l'albergo aperto davanti a me, con una brezza che mulinava alle mie spalle trasformandosi in vento, con un temporale imminente e con Danny a rischio, esitai comunque a varcare la soglia. Io non sono fragile come Danny Jessup, né fisicamente né emotivamente, ma ognuno ha un suo punto di rottura. Temporeggiavo non a causa delle persone o di altre minacce viventi in agguato nell'edificio in rovina. Mi concedevo invece una pausa al pensiero dei fantasmi che potevano ancora infestare quegli spazi fuligginosi.
23 Oltre la porta posteriore dell'albergo si apriva quello che doveva essere stato un atrio secondario, illuminato solo dalla luce cinerea che filtrava attraverso l'apertura nella barriera di compensato, dove mancava un pannello. La mia ombra mi precedeva, simile a uno spettro grigio, visibile dalle gambe al collo. La testa era diventata una cosa sola con l'oscurità, come se l'ombra fosse proiettata da un uomo decapitato. Accesi la torcia e feci scorrere il raggio di luce sulle pareti. L'incendio qui non aveva fatto danni, ma le macchie lasciate dal fumo ricoprivano ogni cosa. Dapprima la presenza di mobili (divani, poltrone) mi sorprese, dato che sembravano essere stati posti in salvo. Poi mi resi conto delle loro condizioni penose, causate dal fumo, da cinque anni di abbandono, ma anche dall'essere stati inzuppati con gli idranti, il che aveva lasciato le imbottiture danneggiate e le strutture imbarcate. A cinque anni di distanza dalla tragedia, l'aria odorava ancora di sostanze carbonizzate, di metallo bruciacchiato, di plastica fusa, di coibentazione arrostita. Mescolati al miasma c'erano altri odori meno pungenti e anche meno gradevoli, ma forse era meglio non indagare oltre. Sulla moquette spiccavano i disegni formati da impronte sporche di fuliggine, cenere, polvere e sabbia. Le orme tutte particolari di Danny non erano visibili. Da un esame più accurato notai che nessun segno lasciato dalle suole delle scarpe era nitido a causa dalle correnti d'aria e da successive sovrapposizioni di cenere e polvere. Quelle impronte erano state lasciate settimane, se non mesi prima. La mia preda non era entrata da quella parte. Una serie o forse due di impronte di zampe appariva invece recente. Forse i panamint di un secolo prima (vicini alla natura e senza dimestichezza con la ruota della roulette) le avrebbero decifrate con una sola occhiata. Senza nulla del cacciatore nei miei cromosomi e non avendo appreso alcunché di utile al riguardo nel mio addestramento come cuoco da tavola calda, dovetti affidarmi non alla conoscenza ma, all'immaginazione per evocare una creatura che si adeguasse a quelle tracce. La mia mente immaginò una tigre dai denti a sciabola, sebbene la specie si sia estinta da più di diecimila anni.
Nell'improbabile caso che un unico esemplare immortale fosse sopravvissuto per millenni a tutti gli altri della sua specie, ipotizzai di poter uscire intatto da un confronto. Dopotutto, fino a quel momento ero sopravvissuto a Terrible Chester. A sinistra dell'atrio un tempo c'era un caffè con vista sulla piscina dell'albergo. Un parziale cedimento del soffitto, appena sopra l'ingresso del ristorante, presentava geometrie estreme di pannelli in cartongesso e correnti in legno. A destra, un largo corridoio si tuffava nell'oscurità che il fascio della torcia non annullava del tutto, e nel silenzio. Lettere in bronzo fissate alla parete sopra l'imboccatura promettevano: TOILETTE, SALECONFERENZA, SALA DA BALLO LADY LUCK. In quella sala da ballo che, ironia della sorte, si chiamava signora fortuna, erano morte delle persone sfortunate. Un enorme lampadario, sospeso non a un sostegno di acciaio, come richiedevano i disegni del progetto, ma a uno di legno, era caduto sulla folla, schiacciando e infilzando chi si trovava sotto, quando la prima scossa del terremoto aveva spezzato le grosse travi come fossero fuscelli. Attraversai l'atrio ingombro, zigzagando tra i sofà imbarcati e le poltrone capovolte, e scelsi una terza strada: un largo corridoio che portava verso la parte anteriore dell'albergo. Anche le tracce della tigre dai denti a sciabola puntavano in quella direzione. Poi mi venne in mente il telefono satellitare. Lo estrassi dalla tasca, tolsi la suoneria e attivai la «vibrazione». Se la cercatrice di miracoli mi avesse chiamato di nuovo, e se fossi stato vicino a dove si trovava, non volevo che il telefonino rivelasse la mia presenza. Non avevo mai visitato quel luogo negli anni in cui costituiva un'attività fiorente. Quando è in mio potere farlo, nei momenti in cui i morti non esigono nulla da me, cerco la serenità, non l'eccitazione. La distribuzione delle carte e il rotolare dei dadi non mi offrono l'occasione di liberarmi dal destino impostomi dal mio dono. La mancanza di familiarità con il posto, unita ai danni causati dal terremoto e dall'incendio, mi fece sentire in un deserto creato dall'uomo: corridoi e stanze non sempre chiaramente definiti, per il crollo delle pareti divisorie, un labirinto di passaggi e di spazi, qui spogli e desolati, lì caotici e minacciosi, rivelati solo dagli spicchi di luce che proiettava la torcia. Attraverso un percorso che non sarei stato in grado di rintracciare, entrai nel casinò distrutto dal fuoco. I casinò non hanno finestre, non hanno orologi. I padroni del gioco vo-
gliono che i clienti dimentichino il passare del tempo, che facciano solo un'altra scommessa, poi un'altra ancora. Cavernoso, più largo di un campo da football, il salone era troppo lungo perché la luce della mia torcia raggiungesse l'altra estremità. Un angolo del casinò era parzialmente crollato. Per il resto, l'enorme salone era strutturalmente intatto. Centinaia di slot machine giacevano per terra, rotte. Svariate erano in piedi in lunghe file, come prima del terremoto, mezzo fuse ma erette, come schiere di macchine da guerra, soldati robot immobilizzatisi mentre erano in marcia quando uno scoppio di radiazioni aveva fatto saltare i loro circuiti. Quasi tutti i tavoli da gioco e le postazioni dei sorveglianti erano ridotti a macerie carbonizzate. Restavano in piedi un paio di tavoli bruciacchiati per il gioco dei dadi, su cui erano ammonticchiati blocchi di gesso annerito caduti dalle decorazioni del soffitto. In mezzo a tutto il ciarpame affumicato e andato in frantumi, si ergevano due tavoli del blackjack parzialmente danneggiati. Uno aveva ancora un paio di sgabelli, come se il diavolo e il suo partner stessero giocando quando era divampato l'incendio e non desiderassero essere distratti dalle carte, esigendo rispetto dalle fiamme. Invece del diavolo, appollaiato su uno degli sgabelli stava un uomo dall'aspetto gradevole, un po' stempiato. Era rimasto seduto al buio finché il fascio di luce della mia torcia non lo aveva raggiunto. Poggiava le braccia sul bordo imbottito del tavolo a forma di mezzaluna, come in attesa che il mazziere mescolasse le carte. Non aveva l'aria di un complice in un omicidio o in un rapimento. Sui cinquanta, pallido, labbra carnose e fossetta nel mento, poteva essere stato un bibliotecario o il farmacista di una piccola città. Mentre mi avvicinavo e lui sollevava la testa, non ero certo della sua condizione. Capii che era uno spirito solo quando si mostrò sorpreso nell'accorgersi che ero in grado di vederlo. Il giorno del disastro, forse le macerie cadute gli avevano spaccato la testa. Oppure era bruciato vivo. Non mi rivelò le vere condizioni del suo corpo nel momento in cui era morto, una cortesia della quale gli fui grato. Qualcosa che si muoveva nell'ombra ai margini del vasto locale attirò la mia attenzione. Dall'oscurità emersero i fantasmi.
24 Entrando nel fascio di luce davanti a me, una graziosa biondina in abito da cocktail blu e giallo rivelò una scollatura impudica. Mi rivolse un sorriso che però svanì immediatamente. Alla mia destra arrivò una donna anziana dal viso allungato, lo sguardo privo di speranza. Tese una mano verso di me, quindi la guardò aggrottando la fronte, la ritrasse e abbassò la testa, come se pensasse, per chissà quale motivo, che la trovavo repellente. Alla mia sinistra comparve un uomo basso, dai capelli rossi e dalla faccia allegra, i cui occhi angosciati contraddicevano il sorriso divertito. Mi voltai e la mia torcia ne illuminò altri. Una cameriera per i cocktail nel suo costume da principessa indiana. Una guardia del casinò con pistola alla cintura. Un giovane nero vestito all'ultima moda tastava in continuazione con le dita la camicia di seta, la giacca, il pendente di giada che aveva al collo, come se da morto si sentisse imbarazzato per essere stato così attento alla moda quando era vivo. Compreso il giocatore al tavolo del blackjack, erano sette i fantasmi che mi erano apparsi. Non sapevo se erano tutti periti all'interno del casinò o se alcuni erano morti in altre parti dell'albergo. Forse erano gli unici a infestare il Panamint, o forse no. C'erano state ottantadue vittime. Quasi tutte dovevano essere passate dall'altra parte nel momento in cui erano spirate. Almeno, per il mio bene lo speravo. Perlopiù, gli spiriti che dimorano così a lungo in uno stato di purgatorio autoimposto, si manifestano in preda a melanconia o ansia. Quei sette confermavano tale regola. Un forte anelito li spinge verso di me. Non sempre sono certo di cos'è che vogliano, ma credo che la maggior parte desiderino la risolutezza, il coraggio di rinunciare a questo mondo e scoprire che cosa viene dopo. La paura impedisce loro di fare ciò che debbono. La paura e il rimpianto, e l'amore per coloro che si lasciano alle spalle. Poiché io sono in grado di vederli, mi trovo in un punto di congiunzione tra la vita e la morte e gli spiriti sperano che possa aprire per loro la porta che essi temono di aprire da soli. Poiché io sono quello sono (un ragazzo californiano che assomiglia ai surfisti dei vecchi film anni Cinquanta, meno pettinato e perfino meno minaccioso di Frankie Avalon) ispiro loro fi-
ducia. Temo di avere meno da offrire di quanto credano. Qualsiasi consiglio dia loro, è poco profondo quanto Ozzie finge che sia la sua saggezza. Che io li tocchi, li abbracci, sembra sempre essere una consolazione per la quale mi sono grati. Mi abbracciano a loro volta. E mi toccano il viso. E mi baciano le mani. La loro malinconia mi svuota. Le loro esigenze mi esauriscono. Sono straziato dalla pietà. A volte sembra che, per uscire da questo mondo, debbano passare attraverso il mio cuore, lasciandolo dolorante e pieno di cicatrici. Ora, spostandomi da uno all'altro, dissi a ciascuno ciò che intuivo avessero bisogno di sentirsi dire. «Questo mondo è perduto per sempre. Non c'è nulla qui per te, se non desiderio, frustrazione, tristezza», dichiarai. «Ora sai che una parte di te è immortale e che la tua vita ha avuto un significato. Per scoprire quel significato, accetta ciò che viene in seguito», continuai. A un altro dissi: «Pensi di non meritare misericordia, ma la misericordia è tua, se metti da parte la tua paura». Mentre parlavo a tutti e sette, uno dopo l'altro, comparve un ottavo spirito. Un uomo alto, dalla corporatura massiccia, con occhi infossati, lineamenti arrotondati, capelli tagliati quasi a zero. Mi fissò al disopra delle teste degli altri, lo sguardo colore della bile e non meno amaro. Al giovane nero che non la finiva di cincischiare i suoi bei vestiti, con apparente imbarazzo, dissi: «Alle persone davvero cattive non è dato il permesso di indugiare. Il fatto che sei rimasto qui così a lungo dopo la morte significa che non hai alcun motivo di temere ciò che viene dopo». Via via che mi rivolgevo ai morti che mi circondavano, il nuovo arrivato si muoveva furtivamente oltre il perimetro del gruppo, senza distogliere lo sguardo dal mio viso. Il suo umore sembrava rabbuiarsi ulteriormente nell'ascoltarmi. «Voi pensate che ciò che vi dico sono solo sciocchezze. Forse è così. Io non ho varcato la soglia. Come faccio a sapere che cosa ci aspetta dall'altra parte?» I loro occhi erano lucenti pozze di desiderio e io speravo che riconoscessero in me non la pietà ma l'empatia. «La grazia e la bellezza di questo mondo mi incantano. Ma è tutto guasto. Vorrei vedere la versione che non abbiamo rovinato. Voi no?»
Infine dissi: «La ragazza che amo... lei pensava che potessimo avere tre vite, non due. Lei chiamava questa prima vita campo addestramento reclute». Feci una pausa. Non avevo scelta. Per un momento, appartenevo di più al loro purgatorio di quanto appartenessi a questo mondo, nel senso che ero a corto di parole. Poi continuai: «Lei diceva che siamo in un campo addestramento reclute per imparare. Fallire o riuscire è una nostra libera volontà. Poi ci spostiamo in una seconda vita, che chiamava servizio militare». L'uomo dai capelli rossi, quello dal sorriso allegro che contrastava con gli occhi, mi si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla. «Si chiama Bronwen, ma preferisce farsi chiamare Stormy. Durante il servizio militare, diceva Stormy, abbiamo fantastiche avventure in qualche campagna cosmica, intraprendiamo imprese meravigliose. La ricompensa giunge nella nostra terza vita, e quella dura per sempre.» Ridotto nuovamente al silenzio, non riuscivo a incrociare i loro sguardi con la sicurezza che si meritavano, e così chiusi gli occhi e nel ricordo vidi Stormy, che mi dava forza, come aveva sempre fatto. Con le palpebre abbassate, aggiunsi: «È il tipo di ragazza che prende in mano le situazioni e non solo sa ciò che vuole, ma ciò che dovrebbe volere, il che fa tutta la differenza. Quando la incontrerete durante il servizio militare, la riconoscerete, questo è certo. La riconoscerete e le vorrete bene». Ero ancora in silenzio quando riaprii gli occhi e guardando in circolo con la luce della torcia, mi accorsi che quattro spiriti dei sette iniziali se n'erano andati: il giovane nero, la cameriera dei cocktail, la biondina graziosa e l'uomo dai capelli rossi. Non so se erano andati nell'aldilà o semplicemente da qualche altra parte. L'uomo corpulento con il taglio quasi a zero appariva più in collera che mai. Aveva la spalle incurvate, come sotto il peso della rabbia, e le mani strette a pugno. Si allontanò a grandi passi e, sebbene non avesse una sostanza fisica che potesse interferire con questo mondo, attorno a lui sollevò cenere grigia in forme scintillanti che si depositò nuovamente sul pavimento nella sua scia. Al suo passaggio tremarono i detriti più leggeri (carte da gioco bruciacchiate, schegge di legno). Una fiche da cinque dollari si rizzò, vorticò su se stessa e ricadde di piatto; alcuni dadi ingialliti dal calore si mossero tintin-
nando sul pavimento. Aveva un potenziale da poltergeist, e io ero contento di vederlo andare via. 25 Una porta antincendio penzolava aperta e di sghimbescio, retta da due cardini su tre. La soglia in acciaio inossidabile rifletteva la luce della torcia in quei pochi punti dove non era incrostata di nero. Se la memoria non mi traeva in inganno, la gente si era calpestata a morte in quel varco, quando la folla di giocatori si era riversata verso le uscite travolgendo chi trovava sulla propria strada. Non provai orrore a quel ricordo, solo una tristezza più profonda. Oltre la porta, ricoperte da una patina di fumo e acqua, rosicchiate dalle efflorescenze di calce viva, trenta rampe di ampie scale antincendio in cemento, che sembravano trasportate da un antico tempio di una fede da tempo dimenticata, conducevano all'estremità settentrionale del sedicesimo piano. Forse due rampe addizionali salivano fino al tetto dell'albergo. Salii verso il primo pianerottolo ma a metà mi fermai, chinai la testa e rimasi in ascolto. Non credo fosse stato un suono a mettermi in allarme. Nessun ticchettio, nessuno schiocco, nessun sussurro scendeva fino a me dai piani più alti. Forse fu un odore a mettermi in guardia. In confronto agli altri spazi della struttura devastata, il pozzo delle scale odorava meno di prodotti chimici e per nulla di carbone. Quell'aria più fresca, dal sentore di calce, era abbastanza pulita da permettere di riconoscere un odore esotico quanto (ma differente da) quelli propagatisi in seguito all'incendio. L'essenza appena percepibile che non riuscivo a identificare era muscosa, faceva pensare ai funghi. Ma aveva anche un sentore di carne cruda, con il che non intendo la puzza di sangue ma quell'odore sottile che esce dalle macellerie, dov'è esposta la carne fresca. Per un motivo che non potei definire, rievocai con gli occhi della mente la faccia del cadavere che avevo pescato nel cunicolo. La pelle grigia chiazzata. Gli occhi rovesciati all'indietro in uno sguardo fisso bianco e cieco. I capelli sulla nuca tremarono come se l'aria fosse carica di elettricità per il temporale imminente. Spensi la torcia e rimasi nell'oscurità più totale, quella che fa immagina-
re un mostro in agguato che ci acchiappa. Poiché le scale erano racchiuse da mura di cemento, gli stretti angoli attorno a ogni pianerottolo costituivano un effettivo schermo alla luce. Una sentinella che si trovasse un piano o due più in alto avrebbe potuto notare il fascio della torcia, ma nessuna luce poteva filtrare, angolo dopo angolo, ai piani più elevati. Dopo un minuto, non sentendo fruscii di vestiti o strofinio di scarpe sul pavimento, non essendo stato leccato in faccia da nessuna lingua ricoperta di scaglie, indietreggiai con precauzione, abbandonai le scale e oltrepassai di nuovo la porta antincendio semiscardinata. Rientrai nel casinò prima di riaccendere la torcia. Qualche minuto dopo localizzai le scale a sud. La porta era ancora attaccata a tutti i cardini e, come l'altra, era aperta. Coprendo il vetro della torcia con le dita, per smorzare la luminosità, mi avventurai oltre la soglia. Il silenzio, similmente a quello delle scale a nord, pareva recare in sé una grande aspettativa, come se io potessi non essere l'unica presenza. Anche lì, dopo un momento, individuai l'odore sottile e inquietante che mi aveva scoraggiato dal salire le altre rampe di scale. Di nuovo nella mia mente si formò l'immagine dell'uomo che mi aveva sparato con il Taser: occhi protuberanti e bianchi, bocca spalancata e lingua gonfia. Sulla base di una sensazione sgradevole e di un odore, reale o immaginato, decisi che le scale d'emergenza erano sotto osservazione. Non potevo utilizzarle. Eppure il mio sesto senso mi diceva che Danny giaceva prigioniero da qualche parte ai piani superiori. Lui (la calamita) aspettava e io (il magnetizzato) ero trascinato verso l'alto con una insistenza che non potevo ignorare. 26 Di fianco al primo atrio localizzai una rientranza con dieci ascensori, cinque per parte. Otto avevano le porte scorrevoli chiuse, anche se sono certo che avrei potuto aprirle a forza. Gli ultimi due sulla destra erano aperti. Il primo aveva la cabina vuota, ferma a una trentina di centimetri sotto il livello del pavimento. Le porte del secondo davano sul vuoto.
Chinandomi sul pozzo, puntai la torcia verso l'alto e verso il basso, sui cavi e i tiranti. La cabina si trovava due piani più in basso, nella cantina. A destra, lungo la parete del pozzo, si inerpicava una scala di servizio a pioli. Arrivava fino alla sommità dell'edificio. Dopo aver frugato nello zainetto alla ricerca di una cinghia da torcia per speleologi, fissai l'impugnatura della pila nello stretto collare e mi assicurai la chiusura in velcro attorno all'avambraccio destro. Come un mirino telescopico sulla canna di un fucile, la luce passava sopra il mio braccio e il raggio superava la mia mano e le punte delle dita, indirizzando il suo raggio nel buio. Con le mani libere, potevo aggrapparmi ai pioli e penzolarmi oltre la soglia dell'ascensore. Salii sulla scala. Dopo qualche metro, mi fermai per annusare gli odori nel pozzo dell'ascensore. Non individuai quello che mi aveva persuaso a non usare le altre scale di emergenza. Il pozzo faceva da cassa di risonanza, avrebbe amplificato qualsiasi suono. Se di sopra la porta sbagliata fosse stata aperta e qualcuno si fosse trovato lì vicino, mi avrebbe udito arrivare. Dovevo arrampicarmi il più silenziosamente possibile, ma non tanto in fretta da ansimare per lo sforzo. La torcia sembrava creare dei problemi. Reggendomi alla scala con la destra, usai la sinistra per spegnerla. Com'era inquietante arrampicarmi nell'oscurità più assoluta! Nei recessi più primitivi della mente, nella memoria ancestrale o anche più in profondità, c'è la speranza che ogni ascesa porti verso la luce. Salire in alto, sempre più in alto, in un'oscurità implacabile, si rivelò disorientante. Calcolai cinque metri e mezzo per il primo piano e sei metri per ognuno dei seguenti. Stimai che in quei sei metri ci fossero ventiquattro pioli. In base a queste misure, ero salito di due piani quando il pozzo fu percorso da un rombo protratto. Pensai terremoto e mi immobilizzai, tenendomi forte ai pioli, aspettandomi pezzi di macerie e ulteriore distruzione. Visto che il pozzo dell'ascensore non tremava e che i cavi non vibravano, mi resi conto che il rombo era dovuto a un tuono particolarmente prolungato. Sebbene ancora distante, il temporale pareva più vicino di quanto fosse stato in precedenza. Una mano sopra l'altra, un piede dopo l'altro, continuando ad arrampicarmi, mi chiedevo come avrei fatto a portare giù Danny da quella prigione così alta, ammesso che riuscissi a liberarlo. Se delle sentinelle armate era-
no state dislocate sulle scale, non potevamo fuggire dall'albergo per nessuna delle due. Considerando le sue deformità e la debolezza fisica, non poteva scendere per la scala a pioli. Una cosa alla volta. Prima trovarlo. Poi liberarlo. Spingermi troppo in là con il pensiero poteva paralizzarmi. Soprattutto se ogni strategia che prendevo in considerazione portava inevitabilmente alla necessità di uccidere uno o tutti i nostri avversari. La determinazione a uccidere non mi veniva facilmente, nemmeno quando ne andava della sopravvivenza, nemmeno quando il mio bersaglio era indiscutibilmente malvagio. Con me, non vi trovate davanti un James Bond. Sono perfino meno assetato di sangue di Miss Moneypenny. Arrivato a quello che doveva essere il quinto piano, per la prima volta da quando ero entrato nel pozzo al livello dell'atrio, trovai la porta dell'ascensore aperta. L'apertura si rivelò un rettangolo grigio scuro in un paesaggio altrimenti nero come la pece. Lo spazio oltre le due ante scorrevoli spalancate doveva dare sul corridoio del quinto piano. Lungo quel corridoio, ci sarebbero state alcune porte delle camere aperte, altre probabilmente erano state sfondate dai pompieri o erano bruciate. Le finestre di quelle camere, che non erano state chiuse con le assi per tener fuori gli intrusi, come al pianterreno, lasciavano arrivare la luce fino al corridoio e, da lì, qualche raggio giungeva nella zona degli ascensori. L'intuito mi disse che non ero salito abbastanza in alto. La voce baritonale del tuono lontano parlò ancora mentre mi trovavo fra il settimo e l'ottavo piano. Appena oltre il nono, mi domandai quanti bodach avessero infestato l'albergo prima della catastrofe. Un bodach è una bestia mitica delle Isole Britanniche, una cosa malvagia che scende di notte dai camini per portar via i bambini cattivi. Oltre ai fantasmi, di tanto in tanto vedo spiriti minacciosi che chiamo bodach. Non è questo che sono, ma io ho bisogno di chiamarli in qualche modo e quel nome sembra adattarglisi. Un bambino inglese, l'unica persona che abbia mai conosciuto che condividesse il mio dono, li chiamò così in mia presenza. Pochi minuti dopo aver usato quella parola, morì schiacciato da un camion sfuggito al controllo. Io non parlo mai dei bodach quando sono vicini. Fingo di non vederli, non reagisco alla loro presenza con curiosità o paura. Sospetto che, se sa-
pessero che li vedo, ci sarebbe anche per me un camion impazzito. Queste creature sono completamente nere e prive di lineamenti, talmente sottili da poter scivolare attraverso la fessura di una porta o passare per il buco della serratura. Non hanno più sostanza delle ombre. Si muovono in silenzio, spesso furtivi come gatti, ma gatti grandi quanto uomini. A volte corrono in posizione semieretta e sembrano metà cani, metà esseri umani. Ho già raccontato di loro in un'altra storia. Qui non mi dilungherò a lungo. Non sono spiriti umani e non appartengono al nostro mondo. Il loro regno naturale è un luogo di tenebre eterne e di molte grida. La loro presenza significa sempre che stanno per verificarsi eventi con molte vittime, come la sparatoria nel centro commerciale, lo scorso agosto. Un singolo omicidio, come quello del dottor Jessup, non li attira, stanandoli dalla loro dimora, ovunque essa sia. Si entusiasmano solo per i disastri naturali e per la violenza umana su grande scala. Nelle ore precedenti il terremoto e l'incendio, sicuramente pullulavano per il casinò e per l'albergo a centinaia, nella frenetica attesa dell'imminente comparsa di infelicità, dolore e morte, che è il loro pasto a tre portate preferito. Nel caso presente, due morti (il dottor Jessup e l'uomo-serpente) non suscitavano l'interesse di alcun bodach. La loro assenza prolungata significava che qualsiasi resa dei conti si profilasse, non avrebbe avuto come risultato un bagno di sangue. Però, mentre salivo, la mia fervida immaginazione popolava il pozzo senza luce di bodach che, come scarafaggi, si arrampicavano per le pareti, rapidi e frementi. 27 Al dodicesimo piano trovai di nuovo le ante scorrevoli aperte e seppi di aver oltrepassato il punto in cui qualcuno stava di guardia sulle scale con una certezza che mi penetrava nelle ossa. Di più: sentii di essere arrivato dove i rapitori tenevano Danny prigioniero. Mi bruciavano i muscoli di braccia e gambe, non perché l'arrampicata era stata impegnativa, ma perché ero salito in uno stato di tensione estrema e costante. Mi dolevano perfino le mandibole, poiché avevo continuato a digrignare i denti.
Preferii non spostarmi dal pozzo al pianerottolo nell'oscurità. Volevo usare la torcia solo per pochi istanti, al fine di individuare il primo dei sostegni per mani e piedi per trasferirmi dalla scala a pioli al vano della porta. La accesi, studiai rapidamente la situazione e la spensi. Sebbene le avessi strusciate ripetutamente sui jeans, avevo le mani scivolose per il sudore. Non importa quanto fossi pronto a raggiungere Stormy nel servizio militare, non avevo i nervi d'acciaio. Se avessi avuto gli scarponi invece delle scarpe da ginnastica, avrei tremato. Allungai una mano nell'oscurità e localizzai il primo dei sostegni, incassato nel muro era simile a un portarotolo di carta igienica ma molto più largo. Mentre lo afferravo con la destra, esitai lasciandomi sopraffare dalla nostalgia per il grill, la piastra e la friggitrice, poi lo afferrai anche con la sinistra, abbandonando la scala a pioli. Per un momento penzolai tenendomi con le mani sudate, battendo con la punta dei piedi contro la parete cercando dei sostegni inferiori. Quando pareva che non li avrei mai trovati, li sentii. Soltanto adesso, aver lasciato la scala a pioli mi parve una follia. La sommità della cabina si trovava nella cantina, tredici piani più sotto. Tredici piani è una lunga caduta in qualsiasi condizione di luce, ma la prospettiva di precipitare tanto lontano nel buio nero come l'inchiostro era particolarmente terrorizzante. Non avevo un'imbracatura di sicurezza, non avevo una cinghia robusta da fissare al sostegno. O un paracadute. Mi ero impegnato nell'arrampicata libera. Fra le altre cose nel mio zainetto c'erano dei Kleenex, un paio di barrette proteiche con uvette e noce di cocco e delle salviette umidificate profumate al limone, confezionate in bustine di carta d'alluminio. Le mie priorità, al momento di fare i bagagli, mi erano parse del tutto sensate. Se fossi precipitato per tredici piani sulla sommità della cabina, per lo meno avrei potuto soffiarmi il naso, fare un ultimo spuntino e pulirmi le mani, evitando quindi l'ignominia di morire con le narici moccicose e le dita appiccicaticce. Ora che mi ero trasferito dai sostegni incassati nel muro al vano della porta e poi sul pianerottolo, la natura coercitiva del magnetismo psichico, la sua irresistibile insistenza mi travolse, anche se non per la prima volta. Mi appoggiai contro la parete, sollevato di non avere più il vuoto alle
mie spalle, pronto a inghiottirmi, aspettando che i miei palmi sudaticci si asciugassero e che il cuore smettesse di martellarmi nel petto. Piegai e distesi il braccio sinistro per far svanire un lieve crampo al bicipite. Oltre la rientranza avvolta dall'ombra, a nord e a sud lungo il corridoio, sembrava ci fossero delle fonti di luce grigio-acqua. Nessuna voce. Giudicando dalla performance al telefono, la donna misteriosa era una chiacchierona. Le piaceva il suono della sua voce. Arrivato all'estremità della zona ascensori, feci cautamente capolino oltre l'angolo e vidi un lungo corridoio deserto. Qui e là, su ambo i lati, alcune porte aperte facevano entrare la luce del giorno dalle camere, come mi ero aspettato. L'albergo era a forma di I e, alle due estremità del corridoio principale, ce n'era uno più corto su cui si affacciavano altre camere. Le scale che io avevo evitato si trovavano in quelle ali secondarie. Sinistra o destra sarebbe stato un dilemma per qualsiasi altro, ma non per me. Meno incerto qui di quanto lo era nelle gallerie sotterranee, il mio sesto senso mi guidò a destra, a sud. Dalle fondamenta all'ultimo piano, i pavimenti dell'albergo erano di cemento rinforzato con acciaio. Il fuoco non era stato abbastanza intenso da deformarli, tanto meno da farli crollare. Di conseguenza, le fiamme si erano sfogate verso l'alto seguendo le tubazioni e i condotti dove passavano i fili elettrici. Solo il sessanta per cento di quei sentieri interni erano completamente ignifughi e dotati di spruzzatori antincendio, come specificato nei documenti che accompagnavano il progetto. Il risultato era stato una distruzione a scacchiera. Alcuni piani erano praticamente sventrati, altri se l'erano cavata molto meglio. Il dodicesimo piano era stato invaso dal fumo e danneggiato dall'acqua, ma non trovai niente che fosse anche solo bruciacchiato. La moquette era ricoperta di fuliggine e sudiciume. La carta da parati era macchiata e si staccava a lembi dalle pareti. Alcuni paralumi di vetro erano caduti dai lampadari e le schegge per terra richiedevano una certa cautela. Un avvoltoio del Mojave, entrato probabilmente da una finestra rotta, non era stato capace di ritrovare la strada per uscire. Nella frenetica ricerca, si era rotto un'ala contro una porta o una parete. Adesso la macabra carcassa, decomposta a metà prima di essiccarsi per il forte calore del luogo, giaceva con le penne sbrindellate in mezzo al corridoio. Sebbene il dodicesimo piano fosse in condizioni migliori rispetto ad al-
tri, non era il caso di prenotarsi per la prossima vacanza. Mi spostai con cautela da una porta aperta all'altra, esaminando le stanze dalla soglia. Nessuna era occupata. In ogni camera i mobili violentemente ridistribuiti dal terremoto, rovesciati su un lato, erano stati scaraventati dalla stessa parte. Tutto era sporco e sfondato e niente meritava lo sforzo di essere recuperato. Attraverso le finestre rotte o quelle non incrostate di fuliggine, il cielo plumbeo rivelava una quantità infinita di nubi temporalesche; l'azzurro persisteva solo a sud e anche lì stava per soccombere. Le porte chiuse non mi preoccupavano. Lo stridio di una maniglia arrugginita e il cigolio di cardini corrosi mi avrebbe avvertito se una di esse avesse cominciato ad aprirsi. Inoltre, queste non erano né bianche né a riquadri, come quelle mortali del mio sogno. A metà strada tra lo spazio destinato agli ascensori e l'intersezione con il corridoio successivo, giunsi a una porta chiusa che non potei oltrepassare. I numeri di metallo annerito la identificavano come la camera 1242. Come guidata da un burattinaio che muoveva fili invisibili, la mia mano destra raggiunse la maniglia. Mi trattenni giusto il tempo di appoggiare la testa contro lo stipite e ascoltare. Niente. Ascoltare dietro una porta chiusa è sempre una perdita di tempo. Ascolti e ascolti e quando sei certo che la strada davanti a te è sicura, apri la porta, dopodiché un tizio con la scritta: NATO PER MORIRE tatuata sulla fronte ti spiana un revolver mostruoso in faccia. È sicuro quasi come le tre leggi della termodinamica. Quando aprii la porta, non trovai alcun criminale tatuato, il che significava che la forza di gravità sarebbe ben presto venuta meno e che da quel momento gli orsi avrebbero abbandonato le foreste per fare la toletta nei gabinetti pubblici. Come altrove, anche lì il sisma di cinque anni prima aveva risistemato il mobilio, gettando tutto da una parte, il letto impilato sulle sedie, issate sopra un cassettone. Dovevano aver usato cani addestrati per assicurarsi che nessuno, vivo o morto, fosse rimasto sotto le macerie. In quel caso, un'unica sedia era stata recuperata dal mucchio e posta nel mezzo della stanza che il terremoto aveva sgomberato dai mobili. Su di essa, legato con del nastro adesivo, sedeva Danny Jessup. 28
Occhi chiusi, pallido, immobile, Danny sembrava morto. Solo il pulsare delle tempie e la tensione della mascella rivelavano che era vivo e in preda al terrore. Assomigliava a quell'attore, Robert Downey Jr., senza però la patina di eroe data dalla dipendenza da eroina che gli avrebbe assicurato la condizione di vera star nella Hollywood contemporanea. Oltre al viso, qualsiasi rassomiglianza con un attore precipitava a zero. Danny ha un cervello di gran lunga migliore rispetto a qualsiasi attore del cinema degli ultimi decenni. La spalla sinistra ha una forma anomala dovuta all'eccesso di crescita dell'osso durante la guarigione di una frattura. Quel braccio descrive una curva innaturale dalla spalla al polso, con la conseguenza che non gli ricade diritto lungo il fianco e la mano si torce in fuori rispetto al corpo. Il fianco sinistro è deformato. La gamba destra è più corta dell'altra. La tibia destra è ispessita e ricurva per i soliti motivi. La caviglia destra presenta escrescenze ossee in eccesso tanto che la funzionalità dell'articolazione è solo del quaranta per cento. Assicurato alla sedia, vestito con jeans e una maglietta nera con un fulmine giallo sul petto, poteva essere il personaggio di una fiaba. Il bel principe sofferente sotto l'incantesimo di una strega. Il figlio dell'amore frutto di una relazione proibita tra una principessa e un re dei troll. Mi chiusi la porta alle spalle prima di dire sottovoce: «Vuoi andartene di qua?» Gli occhi azzurri si spalancarono, allargandosi per la sorpresa. La paura fece spazio alla mortificazione, ma non sembrò affatto sollevato. «Odd», sussurrò, «non saresti dovuto venire.» Lasciai cadere lo zainetto e lo aprii, sussurrando: «Che cosa dovevo fare? Non c'era niente di bello alla TV». «Sapevo che saresti venuto, ma non avresti dovuto, è senza speranza.» Dallo zaino presi un coltello da pesca e ne aprii la lama. «Sempre ottimista.» «Esci di qui finché puoi. Quella è più folle di un kamikaze sifilitico con la malattia della mucca pazza.» «Non conosco nessun altro che sa dire roba simile. Non posso lasciarti qui, quando parli così bene.» Aveva le caviglie legate alle gambe della sedia con numerosi giri di nastro adesivo. Altri giri di nastro attorno al petto lo assicuravano allo schie-
nale. La sedia aveva i braccioli e le braccia di Danny vi erano fissate all'altezza dei polsi e dei gomiti. Cominciai a segare rapidamente il nastro adesivo che gli teneva fermo il polso sinistro. «Odd, smettila, ascoltami: se anche avessi il tempo di liberarmi, io non posso stare in piedi...» «Se hai la gamba rotta o qualcosa del genere», lo interruppi, «posso portarti almeno fino a un nascondiglio.» «Non ho niente di rotto, non è questo», replicò lui con una certa urgenza, «ma, se mi alzo in piedi, esplodo.» Mentre finivo di liberargli il polso sinistro, commentai: «Esplodere. Questa è una parola che mi piace ancora meno di decapitare». «Controlla dietro la sedia.» Gli girai dietro per dare un'occhiata. Dato che ho visto qualche film così come ho assistito a fatti strani nella vita reale, riconobbi immediatamente il chilo di esplosivo al plastico legato allo schienale della sedia con lo stesso nastro adesivo usato per Danny. Una pila, un sacco di fili di colori diversi, uno strumento che pareva la versione minuscola di una livella da falegname (con una bolla perfettamente al centro, che indicava l'orizzontalità del piano) e altri aggeggi arcani davano l'idea che chiunque aveva messo assieme la bomba aveva una predisposizione per quel lavoro. Danny disse: «Nell'istante in cui sollevo le chiappe dalla sedia... boom. Se tenti di camminare con la sedia e la bolla si discosta troppo dal piano orizzontale... boom». «Qui abbiamo un problema», convenni. 29 Sussurrando, mormorando, con il fiato sospeso, sottovoce, con voce velata, con voce sommessa portammo avanti la conversazione, non solo perché la donna kamikaze-sifilitica-mucca-pazza e i suoi amici potevano udirci, ma penso anche perché sentivamo in modo superstizioso che la parola sbagliata, pronunciata troppo forte, avrebbe fatto da detonatore alla bomba. Togliendomi dal braccio la cinghia da speleologo e posandola da parte assieme alla torcia, chiesi: «Loro dove sono?» «Non lo so. Odd, devi uscire di qua.» «Ti lasciano da solo per lunghi periodi?»
«Vengono a controllare più o meno ogni ora. Lei è stata qui proprio una quindicina di minuti fa. Chiama Wyatt Porter.» «Qui non siamo nella sua giurisdizione.» «Allora lui chiamerà lo sceriffo Amory.» «Se ci si mette di mezzo la polizia, morirai.» «Allora chi vuoi chiamare? I netturbini?» «Io so solo che morirai. È il modo in cui so le cose. Questo pacchetto possono farlo esplodere in qualsiasi momento vogliono?» «Sì. Lei mi ha mostrato un telecomando. Ha detto che sarebbe facile come cambiare canale alla TV.» «Chi è?» «Si chiama Datura. Con lei ci sono due tizi. Non so i loro nomi. C'era un terzo figlio di puttana.» «Ho trovato il suo cadavere. Che cosa gli è successo?» «Non ho visto. Lui era... strano. Anche gli altri due.» Mentre cominciavo a tagliare il nastro sull'avambraccio sinistro, chiesi: «Com'è che fa di nome?» «Datura. Il cognome non lo so. Odd, che cosa stai facendo? Non posso alzarmi da questa sedia.» «Potresti essere pronto ad alzarti nel caso che la situazione cambi. Chi è?» «Odd, ti ucciderà. Lo farà. Devi andartene di qui.» «Non senza di te», replicai, segando il nastro che gli teneva il polso destro fissato al bracciolo. Danny scosse la testa. «Non voglio che tu muoia per me.» «Allora per chi morirò? Per qualche perfetto estraneo? Che senso ha? Allora, chi è?» Emise un suono sordo, che esprimeva tutta la sua infelicità. «Penserai che sono un tale perdente!» «Non sei un perdente. Sei un eccentrico. Io sono un eccentrico, ma non siamo dei perdenti.» «Tu non sei un eccentrico.» Tagliando la seconda serie di legacci sul braccio destro, replicai: «Io sono un addetto alla friggitrice quando lavoro; una volta ho aggiunto un gilet di maglia al mio guardaroba ed è stato un cambiamento superiore a quanto potessi sopportare. Vedo i morti, parlo con Elvis, quindi non dirmi che non sono un eccentrico. Chi è?» «Promettimi che non lo dirai a papà.»
Non parlava di Simon Makepeace, il suo padre biologico. Intendeva il patrigno. Non sapeva che il dottor Jessup era morto. Non era il momento migliore per dirglielo. Ne sarebbe rimasto devastato. Avevo bisogno che si mantenesse concentrato e pronto. Qualcosa che colse nel mio sguardo, nella mia espressione, gli fece aggrottare la fronte. Chiese: «Che c'è?» «Non glielo dirò», promisi, e dedicai la mia attenzione ai legacci che assicuravano la sua caviglia sinistra alla gamba della sedia. «Lo giuri?» «Se mai glielo dirò, restituirò la mia figurina con la belva venusiana di fanghiglia gassosa.» «Ce l'hai ancora?» «Te l'ho detto che sono un eccentrico. Chi è Datura?» Danny inspirò a fondo, trattenne l'aria così a lungo da farmi pensare che stesse concorrendo al Guinness dei primati, quindi la lasciò andare assieme a due parole: «Sesso telefonico». Sbattei le palpebre, un po' confuso. «Sesso telefonico?» Arrossendo per la mortificazione, rispose: «Sono certo che per te è una sorpresa colossale, ma non l'ho mai fatto per davvero con una ragazza». «Nemmeno con Demi Moore?» «Bastardo», sibilò. «Ti saresti lasciato sfuggire un'occasione come questa?» «No», ammise lui. «Ma essere vergine a ventun anni mi rende il re dei perdenti.» «Non c'è modo che mi metta a chiamarti 'vostra Altezza' . Comunque, un secolo fa i tipi come te e me sarebbero stati chiamati gentiluomini. Buffo quanta differenza può fare un secolo.» «Tu?» esclamò. «Non tentare di farmi credere che tu fai parte del club. Sono privo di esperienza ma non sono un ingenuo.» «Credi quel che vuoi», ribattei, mentre segavo il nastro che gli legava la caviglia destra, «ma sono un membro a tutti gli effetti.» Danny sapeva che io e Stormy stavamo insieme da quando avevamo sedici anni, alle superiori. Non sapeva che non avevamo mai fatto l'amore. Da bambina, Stormy era stata molestata dal padre adottivo. A lungo si era sentita impura. Voleva aspettare il matrimonio prima che lo facessimo perché sentiva che, rinviando la nostra gratificazione, avremmo purificato il suo passato. Era risoluta a far sì che quei brutti ricordi non la perseguitassero nel nostro
letto. Aveva detto che il sesso fra noi due doveva essere pulito e giusto e meraviglioso. Voleva che fosse sacro, e lo sarebbe stato. Poi è morta, e non abbiamo mai sperimentato assieme quel tipo di felicità, il che va bene, dato che ne abbiamo sperimentati molti altri. Abbiamo compresso una vita intera in quattro anni. Danny Jessup non aveva bisogno di ascoltare i dettagli. Sono i ricordi per me più privati e preziosi. Senza sollevare lo sguardo dalla sua caviglia, chiesi: «Sesso telefonico?» Dopo un'esitazione, rispose: «Volevo sapere com'era parlarne, sai, con una ragazza. Una ragazza che non sapeva che aspetto ho». Impiegai più del necessario a tagliare il nastro adesivo, tenendo la testa bassa e dandogli tempo. Aggiunse: «Ho dei soldi miei». Lui progetta siti web. «Me le pago io le bollette del telefono.» Dopo avergli liberato la caviglia, mi affaccendai a pulire sui jeans la lama del coltello appiccicosa per la gomma del nastro adesivo. Non potevo tagliare quello che aveva attorno al petto perché era lo stesso che teneva ferma la bomba. «Per un paio di minuti», continuò, «fu eccitante. Ma poi mi sembrò volgare. Brutto.» Gli tremò la voce. «Probabilmente pensi che sono un pervertito.» «Penso che tu sia umano. Mi piace, questo, in un amico.» Fece un altro respiro profondo e continuò: «Sembrò volgare... e poi stupido. Così ho chiesto alla ragazza se potevamo solo parlare, non di sesso, di altre cose, di qualsiasi cosa. Lei ha detto che andava bene, certo». I servizi di sesso telefonico addebitano in base ai minuti. Danny avrebbe potuto parlare per ore della qualità di vari saponi da bucato e lei avrebbe finto di esserne affascinata. «Abbiamo chiacchierato per mezz'ora, solo di cose che ci piacciono e non ci piacciono... sai, i libri, i film, il cibo. Era meraviglioso, Odd. Non so spiegare quanto è stato meraviglioso, l'eccitazione che ne traevo. Era proprio... era bello.» Non avrei mai pensato che la parola «bello» potesse spezzarmi il cuore, ma quasi lo fece. «Quella particolare hot line ti lasciava fissare un appuntamento con una ragazza che ti piaceva. Intendo per un'altra conversazione.» «Era Datura.»
«Sì. La seconda volta che le ho parlato, ho scoperto che aveva questa reale attrazione per il soprannaturale, spiriti e simili.» Richiusi il coltello e lo rimise nello zaino. «Ha letto forse un migliaio di libri sull'argomento, ha visitato un sacco di case infestate da fantasmi. Si interessa a tutti i fenomeni paranormali.» Girai attorno alla sedia e mi inginocchiai a terra. «Che cosa fai?» mi chiese lui, nervoso. «Niente. Rilassati. Sto solo studiando la situazione. Dimmi di Datura.» «Questa è la parte più difficile, Odd.» «Lo so. Va bene.» La sua voce si affievolì ancora di più. «Be'... la terza volta che l'ho chiamata, è andata a finire che le uniche cose di cui abbiamo parlato sono state quelle soprannaturali, dal triangolo delle Bermuda alla combustione umana spontanea ai fantasmi che si dice infestino la Casa Bianca. Io non so... non so perché volevo tanto far colpo su di lei.» Non sono un esperto di bombe. Ne avevo incontrata solo un'altra in vita mia, l'agosto precedente, quando c'era stata la sparatoria al centro commerciale. «Voglio dire», continuò Danny, «lei era solo 'sta ragazza che diceva cose sconce agli uomini per denaro. Ma per me era importante che le piacessi, magari che mi ritenesse anche un po' un mito. Così le ho detto di avere un amico che vedeva i fantasmi.» Chiusi gli occhi. «All'inizio non ho fatto il tuo nome, e comunque non mi ha nemmeno creduto. Ma le storie che le raccontavo su di te erano talmente dettagliate e insolite che ha cominciato a rendersi conto che erano vere.» La bomba al centro commerciale era un camion riempito con quintali di esplosivo. Il detonatore era rudimentale. «Le nostre conversazioni erano un bellissimo passatempo. Poi la cosa più adorabile. Sembrava tanto adorabile. Lei ha cominciato a telefonarmi mentre era in servizio. Non mi costava più niente.» Aprii gli occhi e osservai il pacchetto fissato allo schienale della sedia. Questa bomba era molto più sofisticata di quella al centro commerciale. Era intesa come una sfida nei miei confronti. «Non finivamo sempre con il parlare di te», disse Danny. «Me ne rendo conto adesso, era scaltra. Non voleva che fosse evidente.» Attento a non spostare la livella, seguii con l'indice un filo rosso arrotolato e poi uno giallo, più diritto. Poi uno verde.
«Ma dopo un po'», continuò Danny, «non avevo più niente da dirle su di te... tranne l'episodio dell'anno scorso al centro commerciale. È stata una storia talmente grossa che si è saputa in tutto il paese, è andata sui giornali e sulla TV, e così ha saputo il tuo nome.» Un filo nero, un filo blu, un filo bianco, di nuovo rosso... Né vederli, né toccarli con il dito facevano scattare il mio sesto senso. «Mi dispiace tanto, Odd. Davvero. Ti ho venduto.» Io replicai: «Non per soldi. Per amore. È diverso». «Io non l'amo.» «Va bene. Per la speranza di amore.» Frustrato dal modo indecifrabile in cui i fili dell'ordigno si intersecavano tra loro, tornai davanti alla sedia. Danny si strofinò il polso destro, il nastro adesivo era stato avvolto così stretto da lasciargli profondi segni nella pelle. «Per la speranza di amore», ripetei. «Quale amico non chiuderebbe un occhio, in un caso simile?» Gli sgorgarono le lacrime. «Ascolta», gli dissi, «tu e io non siamo destinati a finire la corsa in uno squallido casinò. Se il fato dice che ci tocca tirare le cuoia in un albergo, allora affitteremo una suite in qualche posto a cinque stelle. D'accordo?» Annuì. Infilai lo zainetto tra i mobili accatastati dal terremoto, dov'era improbabile che venisse trovato, e dissi: «So perché ti hanno portato qui, invece che in qualsiasi altro posto. Se lei pensa che io possa far apparire gli spiriti, suppone che qua attorno se ne aggirino un bel mucchio. Ma perché arrivarci attraverso la rete di drenaggio delle acque piovane?» «È molto più che psicotica, Odd. Non è mai emerso al telefono, o magari io non volevo accorgermene, quando facevo... il romantico con lei. Accidenti. È patetico. Comunque, ha uno strano tipo di pazzia, è fissata ma non è stupida, una troia fuori di testa davvero dura. Voleva portarmi al Panamint attraverso un percorso insolito per mettere seriamente alla prova il tuo magnetismo psichico, verificare che è vero. E c'è dell'altro...» La sua esitazione mi disse che non sarebbe stata una rivelazione allegra, del tipo che Datura si era messa a cantare gospel o che aveva infornato la mia torta preferita. «Vuole che tu le mostri i fantasmi. Pensa che tu li possa chiamare, farli parlare. Io non le ho mai detto nulla del genere, ma lei insiste a crederci. E vuole anche qualcos'altro. Non so perché...» Ci pensò e scosse la testa.
«Ma ho la sensazione che ti voglia uccidere.» «A quanto pare, prendo un sacco di gente per il verso sbagliato. Danny, la notte scorsa, nel vicolo dietro il Blue Moon Café, qualcuno ha sparato un colpo d'arma da fuoco.» «Uno dei suoi tizi. Quello che tu hai trovato morto.» «A chi stava sparando?» «A me. Mentre scendevamo dal furgone, per un momento si sono distratti. Ho cercato di scappare verso la strada. Lo sparo era un avvertimento, per fermarmi.» Si strofinò gli occhi con una mano. Tre dita che un tempo si erano fratturate erano più grandi del normale per l'osso in eccesso. «Non avrei dovuto fermarmi. Dovevo continuare a correre. Tutto ciò che potevano fare era spararmi nella schiena. Allora non saremmo qui.» Mi avvicinai di più a lui e puntai l'indice sul fulmine giallo che spiccava sul davanti della maglietta nera. «Dacci un taglio. Continua a nuotare in quella direzione e affogherai nell'autocommiserazione. Non è da te, Danny.» Scuotendo la testa, mormorò: «Che pasticcio!» «Commiserarti non è da te, non lo è mai stato. Siamo un paio di piccoli eccentrici vergini, e non dimenticarlo.» Non riuscì a reprimere un sorriso, anche se gli tremavano le labbra e una nuova ondata di lacrime gli saliva agli occhi. «Ho ancora la mia figurina con il centopiedi marziano divoratore di cervelli.» «Siamo degli stupidi sentimentali o cosa?» «Quella battuta su Demi Moore era divertente», commentò. «Lo so. Ascolta, esco per dare un'occhiata intorno. Dopo che sono uscito, potresti semplicemente far ribaltare le sedia e far esplodere la bomba.» Il suo sguardo evasivo mi rivelò che l'autosacrificio gli aveva davvero attraversato la mente. «Puoi pensare che farti saltare in aria trasformandoti in paté mi tirerebbe fuori dai guai, così chiamerei in aiuto Wyatt Porter, ma ti sbagli di grosso», gli assicurai. «Mi sentirei ancora più in obbligo di acchiappare tutti e tre da solo. Non lascerei questo posto finché non ce la facessi. Lo capisci, Danny?» «Che pasticcio!» «Inoltre, devi vivere per tuo padre, non pensi?» Sospirò e annuì. «Sì.» «Devi vivere per tuo padre. È il tuo lavoro, adesso.»
Danny disse: «È un brav'uomo». Prendendo in mano la torcia, gli dissi: «Se Datura viene a controllare prima che io sia di ritorno, vedrà che hai braccia e gambe libere. Va bene. Dille che sono qui». «Che cos'hai intenzione di fare adesso?» «Mi conosci. Mi verrà in mente strada facendo.» 30 Uscendo dalla camera 1242 e chiudendomi la porta alle spalle, lanciai occhiate a sinistra e a destra lungo il corridoio. Ancora deserto. Silenzioso. Datura. Sembrava non un nome imposto, ma scelto. Era nata Mary o Heather, o qualcosa di egualmente comune, e in seguito si era assegnata Datura. Era una parola esotica con chissà quale significato che si era divertita ad applicare a se stessa. Visualizzai la mia mente come una pozza di acqua scura nel chiarore lunare, il suo nome come una foglia. Immaginai la foglia che si deponeva sull'acqua, galleggiando per un istante. Saturandosi, affondava. L'incresparsi dell'acqua la spostava facendole compiere dei cerchi e mandandola sempre più a fondo. Datura. Nel giro di qualche secondo, mi sentii attratto in direzione nord, verso (e oltre) la rientranza con gli ascensori nella quale ero arrivato poco prima risalendo il pozzo con la scala a pioli. Se era in attesa a questo piano, si trovava in una camera distante dalla 1242. Forse non teneva Danny con sé perché anche lei aveva intuito nel ragazzo un potenziale autodistruttivo che le aveva fatto venire qualche dubbio sull'avergli legato addosso una bomba che lui avrebbe potuto decidere di far esplodere. Avrei potuto seguire subito l'istinto che mi portava da Datura, ma non sentivo l'urgenza di localizzarla. Lei era una Medusa che, usando la voce (al posto degli occhi), poteva trasformare gli uomini in pietra, ma per il momento ero pago di essere un uomo di carne, esausto, dolorante e fallibile. L'ideale sarebbe stato mettere fuori causa Datura e i due uomini che stavano con lei e impossessarsi del telecomando che poteva far esplodere la bomba. Quando non sarebbero più stati una minaccia, avrei chiamato Por-
ter. Le possibilità che avevo di sopraffare tre persone pericolose, soprattutto se avevano armi da fuoco, non superavano le probabilità che i morti nel casinò incendiato si riguadagnassero la vita lanciando i dadi ingialliti dal calore del fuoco. Oltre a ignorare la premonizione secondo la quale chiamare la polizia avrebbe certamente causato la morte di Danny, l'unica alternativa per mettere i rapitori in condizioni di non nuocere era disattivare la bomba. Avevo voglia di trafficare con quel complesso detonatore tanto quanto ne avevo di baciare in bocca un serpente a sonagli. Però dovevo prepararmi all'evenienza che gli avvenimenti mi avrebbero inevitabilmente condotto proprio a quell'impresa. E, se anche fossi riuscito a liberare Danny, dovevamo comunque uscire dal Panamint. Già poco agile per il suo handicap ed esausto per la lunga camminata da Pico Mundo, non sarebbe stato in grado di muoversi in fretta. In una giornata buona per lui, quando era al massimo della forma, il mio amico dalle ossa di vetro non era abbastanza sicuro sulle gambe da osare scendere di corsa una rampa di scale. Per arrivare al pianterreno di quell'albergo, ne avrebbe dovute scendere ventidue. Poi avrebbe dovuto attraversare una zona costellata di detriti che rendevano il percorso pericoloso, mentre ci inseguivano tre assassini psicopatici. Mettiamoci dentro qualche donnina svampita, manipolatrice e poco vestita, aggiungiamo dei tizi ancora più scapiti ma aitanti, includiamo la richiesta di mangiare una ciotola di vermi vivi e avremmo le premesse per un nuovo reality show. Controllai rapidamente parecchie camere lungo l'estremità sud del corridoio principale, alla ricerca di un posto dove Danny potesse nascondersi nell'ipotesi improbabile che riuscissi a separarlo dall'esplosivo. Se non avessi dovuto preoccuparmi di aiutarlo nei movimenti mentre gli uomini armati ci inseguivano, e se gli avessi trovato un nascondiglio impossibile da scoprire, avrei potuto cavarmela meglio con i nostri nemici. Con Danny al sicuro, avrei perfino potuto valutare il fatto che chiamare il Capo non sarebbe più stato un rischio. Purtroppo, le camere d'albergo sono simili tra loro e non pongono impedimenti a chi è determinato a perquisirle. Datura e i suoi bravacci le avrebbero passate in rassegna tutte, con la stessa rapidità con la quale lo stavo facendo io, e avrebbero notato gli stessi nascondigli che colpivano la mia
attenzione. Presi brevemente in considerazione di risistemare una pila scomposta di mobili e suppellettili, creata dal terremoto, ricavando all'interno uno spazio in cui Danny potesse rannicchiarsi e passare inosservato. Non ero sicuro di poter ricomporre sedie, letti e comodini senza causare troppo rumore e questo avrebbe attirato l'attenzione prima che riuscissi a finire il lavoro. Nella quarta camera guardai fuori della finestra e vidi che il terreno si era oscurato, coperto da uno strato di nuvole color ferro che dominavano tre quarti del cielo. Il paesaggio tremolava, squarciato da un susseguirsi di lampi, e una cannonata ancora lontana, ma più ravvicinata di quella che l'aveva preceduta, esplose possente. Ricordando il cupo brontolio del tuono che era echeggiato nel pozzo dell'ascensore, voltai le spalle alla finestra. Il corridoio era ancora deserto. Mi affrettai verso nord, oltrepassando la camera 1242, e ritornai alla zona degli ascensori. Le porte erano in acciaio inossidabile e nove su dieci erano chiuse. Per sicurezza, allo scopo di facilitare il salvataggio, dovevano essere state progettate in modo da essere aperte manualmente sia in caso di interruzioni di corrente sulla rete pubblica, sia prodotta dal generatore d'emergenza. Erano rimaste chiuse per cinque anni. Il fumo aveva probabilmente corroso e inceppato i meccanismi. Cominciai dagli ascensori sulla destra. Il primo aveva le ante scorrevoli leggermente scostate. Infilai le dita nella fessura e cercai di allontanarle fra loro. L'anta a destra si mosse un poco, l'altra inizialmente oppose resistenza, ma poi scivolò di lato con uno stridio attutito. Perfino nella fievole luce grigiastra, mi basto aprire un varco di nemmeno dieci centimetri per vedere che la cabina non c'era. Era a un altro piano. Sedici piani, dieci ascensori: la matematica suggeriva che nessuno di loro si fosse fermato al dodicesimo piano. Le altre nove porte potevano celare il vuoto. Forse, quando mancava la corrente, gli ascensori erano programmati per scendere fino all'atrio utilizzando le batterie di riserva. Se era così, speravo che quel meccanismo di sicurezza non avesse funzionato, proprio com'era accaduto ad altri, in quell'albergo. Lasciai andare le ante che ritornarono nella posizione in cui le avevo trovate. La seconda porta era chiusa completamente. Però aveva i bordi sporgenti, come per facilitare la presa in caso di emergenza. Tremolando nelle loro
guide, le ante si aprirono con uno cigolio che mi rese nervoso. Nessuna cabina. Quando mollai la presa, le ante rimasero aperte. Per non lasciare tracce le spinsi una contro l'altra, suscitando altre scosse, altri suoni striduli. Avevo lasciato le mie impronte ben evidenti sul sudiciume che ricopriva l'acciaio come una pellicola. Trassi di tasca un Kleenex e lo strofinai leggermente per cancellare le impronte, ma senza lasciare una chiazza troppo pulita che destasse sospetti. Il terzo paio di ante non si mosse. Dietro quelle seguenti, che aprii silenziosamente, trovai una cabina in attesa. Le spinsi fino in fondo, esitai, quindi entrai. La cabina non precipitò nell'abisso, come quasi mi aspettavo. Accolse il mio peso con una flebile protesta e non si mosse dal livello del pavimento. Sebbene le ante si richiudessero da sole, nell'ultimo tratto dovetti spingerle per completare la chiusura. Altre impronte, altri Kleenex. Mi strofinai sui jeans le mani sporche di fuliggine. Altro bucato. Anche se sapevo che cosa avrei dovuto fare a questo punto, la mossa era talmente audace che rimasi per un paio di minuti nella rientranza degli ascensori pensando a un'alternativa. Non c'era. Era uno di quei momenti in cui desideravo maggiormente di aver superato la mia avversione per le pistole. D'altra parte, quando spari a persone che a loro volta sono armate, generalmente rispondono al fuoco. Questo invariabilmente complica le cose. Se non spari per primo e non prendi bene la mira, forse è meglio non essere armati. In una situazione brutta come questa, quelli in possesso di armi tendono a sentirsi superiori a chi non le ha; si compiacciono e, quando sono compiaciuti, sottovalutano gli avversari. Un uomo non armato, necessariamente sarà più rapido d'ingegno (più consapevole, più ferale e più feroce) di quello con la pistola che si affida alla sua arma perché pensi per lui. Quindi, essere disarmati può rivelarsi un vantaggio. In retrospettiva, questo tipo di ragionamento è palesemente assurdo. Perfino all'epoca sapevo che era stupido, ma insistevo egualmente perché dovevo convincermi a uscire da quella rientranza nel corridoio ed entrare in azione. Datura. La foglia nell'acqua illuminata dalla luna, che condivideva la sua essenza con la pozza, affondando e lasciandosi portare da una corrente che tira, tira, tira...
Abbandonai la zona ascensori e tornai nel corridoio. Voltai a sinistra, mi diressi a nord. Una pupa tosta da sesso telefonico, violenta e fuori di testa come una mucca pazza, si fa l'idea in quel suo scombinato cervello che deve rapire Danny e usarlo per costringermi a rivelarle i miei segreti più nascosti. Ma perché far morire il dottor Jessup, e in un modo così brutale? Solo perché era lì? Questa dispensatrice di sesso telefonico, questo caso da manicomio, ha tre tizi (adesso due) che sembrano disposti a commettere qualsiasi crimine necessario ad aiutarla nell'ottenere ciò che vuole. Non ci sono banche da svaligiare, furgoni blindati da assaltare, droghe illegali da spacciare. Quello che lei vuole non è il denaro; cerca storie di fantasmi, dita gelide su e giù per la spina dorsale, di modo che non c'è un bottino da dividere con gli altri membri della banda. Il motivo per cui mettono in gioco la vita e la libertà per Datura sembra a prima vista sconcertante se non misterioso. Naturalmente, anche chi non va in giro ad ammazzare la gente spesso ragiona con la zucca vuota, non con la testa tutta intera, cervello compreso. E gli annali del crimine sono strapieni di casi nei quali maschi rimbecilliti in balia di donne malvagie hanno commesso atti efferati e idioti solo per il sesso. Se Datura era sensuale nell'aspetto come nella voce, le sarebbe stato facile manipolare certi uomini. Il suo tizio avrebbe avuto più testosterone che globuli bianchi nelle vene, non avrebbe distinto tra giusto e sbagliato, avrebbe avuto il gusto per l'eccitazione, assaporando qualsiasi crudeltà commessa, e sarebbe stato privo della capacità di pensare al domani. Nel mettere insieme il suo entourage, non le sarebbero mancati i candidati. Di questi tempi i giornali sono pieni di tali uomini dal sangue freddo. Il dottor Wilbur Jessup non era morto semplicemente perché si era trovato nel mezzo, ma perché ucciderlo era stato divertente per quelle persone, un sollievo, uno scherzo. Ribellione allo stato puro. Quando ero ancora vicino agli ascensori avevo trovato difficile credere che Datura potesse aver messo assieme una tale squadra. Dopo una trentina di metri percorsi nel corridoio, giunsi a ritenere quell'ipotesi inevitabile. Per affrontare quel genere di persone, avrei avuto bisogno di tutti i vantaggi che il mio dono poteva fornirmi. Oltrepassai una porta dopo l'altra, chiusa o aperta, senza lasciarmi attirare da nessuna finché mi fermai davanti alla camera 1203. La porta era socchiusa.
31 Dalla camera 1203 mancava quasi tutto il mobilio. C'erano solo un paio di comodini, un tavolo di legno rotondo e quattro poltroncine dallo schienale basso. Qualcuno fatto un po' di pulizia. Sebbene fosse ben lungi dall'essere immacolato, quello spazio era il più invitante che avevo visto fino ad allora nell'albergo in rovina. Il temporale imminente aveva smorzato la luce del giorno, ma larghe candele dentro recipienti di vetro rosso e ambra fornivano l'illuminazione. Sei erano sistemate sul pavimento a ogni angolo della stanza. Altre sei stavano sul tavolo. In un altro momento, quelle fiammelle pulsanti e tremolanti potevano avere un che di allegro. Qui parevano prive di gioia. Minacciose. Occulte. Le candele profumate spandevano una fragranza che mascherava il puzzo acre di fumo ristagnante da lungo tempo. L'aria aveva un odore dolciastro piuttosto che aromatico. Non avevo mai respirato niente di simile prima di allora. Sull'imbottitura delle poltrone erano stati fissati con puntine da disegno dei lenzuoli bianchi, così da potersi sedere sul pulito. I due comodini fiancheggiavano l'ampia finestra con vista. Su ognuno vi era un grande vaso nero e dentro ogni vaso almeno due o tre dozzine di rose rosse che o non avevano profumo o non riuscivano a competere con le candele. Le piacevano la teatralità e l'appariscenza e voleva tutti i comfort perfino nei luoghi lontani dalla civiltà. Al pari di una principessa europea che visitando l'Africa nel secolo del colonialismo faceva i picnic su tappeti persiani srotolati nel Veld. Lo sguardo fisso fuori della finestra, dando le spalle a chi entrava, stava una donna che indossava pantaloni neri da torero e una blusa nera. Uno e sessantacinque. Capelli folti e lucenti, di un biondo talmente pallido da sembrare quasi bianchi, taglio corto ma non maschile. «Sono in anticipo di quasi tre ore sul tramonto», dissi. Lei non trasalì per la sorpresa e non si voltò verso di me. Continuando a fissare il temporale che si andava preparando, replicò: «Allora non sei una delusione completa, dopotutto!» Di persona, la sua voce non era meno ammaliante, meno erotica, di
quanto lo fosse al telefono. «Odd Thomas, sai chi è stato il maggiore mago del mondo, che richiamava gli spiriti e li usava meglio di chiunque altro?» Tirai a indovinare: «Tu?» «Mosè», rispose. «Lui conosceva i nomi segreti di Dio, con i quali poté conquistare il faraone e far separare il mare.» «Mosè il mago. Dev'essere stata una scuola domenicale alquanto eccentrica quella dove andavi tu.» «Candele rosse nel vetro rosso.» «Ti accampi con stile», riconobbi. «Che cosa danno le candele rosse nel vetro rosso?» «La luce?» risposi. «La vittoria», mi corresse. «Le candele gialle nel vetro giallo che cosa danno?» «Stavolta dev'essere la risposta giusta. La luce?» «Il denaro.» Restando di schiena, intendeva attirarmi verso la finestra con il potere del suo mistero e della sua volontà. Risoluto a non stare al suo gioco, osservai: «Vittoria e denaro. Ecco qual è il mio problema. Io uso sempre candele bianche». Lei replicò: «Le candele bianche nel vetro bianco danno la pace. Io non le uso mai». Sebbene non avessi intenzione di piegarmi al suo volere e di raggiungerla alla finestra, mi mossi verso il tavolo, che stava tra noi. Oltre le candele vi erano diversi oggetti, uno era un telecomando. «Dormo sempre con il sale fra il materasso e il lenzuolo», aggiunse, «e sopra il mio letto è sempre sparsa la centifoglia.» «Io non dormo tanto di questi tempi, ma ho sentito dire che succede a chiunque, quando si invecchia.» Finalmente si voltò, dando le spalle alla finestra, e mi guardò. Da togliere il fiato. Nel mito, il succubo è un demone dalla forma squisitamente femminile e fa sesso con gli uomini per rubare la loro anima. Datura aveva il volto e il corpo ideali per tale scopo demoniaco. La postura e l'atteggiamento erano quelli di una donna conscia della propria bellezza mozzafiato. L'ammirai come potevo ammirare una statua di bronzo perfettamente proporzionata raffigurante qualsiasi soggetto (donna o lupo, o cavallo trotterellante), ma era una statua a cui mancava l'ineffabile qualità di suscitare
passioni nel cuore. Nella scultura, tale qualità distingue l'artigianato dall'arte. In una donna, è la differenza tra il mero potere erotico e la bellezza che incanta un uomo, che lo umilia. La bellezza che ruba il cuore è spesso imperfetta, suggerisce grazia e gentilezza e ispira tenerezza più che incitare alla lussuria. Lo sguardo azzurro, con la sua immediatezza e intensità, prometteva l'estasi e la sazietà più completa, ma era troppo penetrante per eccitare, non una freccia metaforica che trapassa il cuore ma un coltello aguzzo usato per saggiare la durezza del materiale da tagliare. «Le candele hanno un buon odore», commentai, per dimostrare che non mi si era inaridita la bocca o che ero talmente rimbecillito da non riuscire a parlare. «Sono Cleo-May.» «Chi è?» «Sei davvero così ignorante di queste cose, Odd Thomas, o sei molto più dell'anima semplice che sembri essere?» «Ignorante», le assicurai. «Non solo di centifoglia e Cleo-May. Ignoro moltissime cose, intere aree dello scibile umano. Non ne sono fiero, ma è così.» Teneva in mano un bicchiere di vino rosso. Lo sollevò fino alle labbra carnose, ne sorbì lentamente un sorso, assaporandolo, mentre continuava a fissarmi al di sopra del tavolo. «Le candele sono profumate con Cleo-May», spiegò. «Il profumo di Cleo-May spinge gli uomini ad amare e a obbedire colei che le accende.» Indicò una bottiglia di vino e un altro bicchiere sul tavolo. «Vuoi farmi compagnia con un drink?» «È cortese da parte tua, ma è meglio se mantengo la mente lucida.» Se il sorriso di Monna Lisa fosse stato uguale a quello di Datura, nessuno avrebbe mai sentito parlare di quel dipinto. «Sì, penso sia meglio.» «Quello è il telecomando che fa esplodere la bomba?» Soltanto l'irrigidirsi del sorriso rivelò la sua sorpresa. «Tu e Danny avete avuto un bella rimpatriata?» «Ha due tasti. Il telecomando.» «Quello nero fa esplodere la bomba. Quello bianco la disarma.» Il congegno era più vicino a lei che a me. Se fossi corso al tavolo, lo avrebbe afferrato lei per prima. Io non sono il tipo che piglia le donne a cazzotti. Nel suo caso avrei potuto fare un'eccezione.
Mi tratteneva il sospetto che mi avrebbe ficcato un pugnale nelle budella mentre stringevo la mano a pugno per mollare il colpo. Inoltre temevo che, in un lampo di perversità, avrebbe pigiato il tasto nero. «Danny ti ha raccontato molto di me?» domandò. Decidendo di assecondare la sua vanità, risposi: «Come mai una donna con le tue potenzialità si ritrova a vendere sesso telefonico?» «Ho fatto qualche film porno», spiegò. «Bei soldi. Ma in quel ramo le donne si usurano rapidamente. Ho incontrato un tizio che possedeva un negozio porno on-line e un servizio di sesso telefonico, sono come rubinetti, li apri e ne escono quattrini sonanti. L'ho sposato. È morto. Adesso sono la proprietaria.» «Lo hai sposato, lui è morto, tu sei ricca.» «Le cose succedono a mio favore. È sempre stato così.» «Sei la proprietaria, ma continui a prendere le telefonate?» Questa volta il suo sorriso parve più sincero. «Sono ragazzini così patetici! È divertente rivoltarli come calzini, con le parole. Non si rendono nemmeno conto di quanto vengano completamente umiliati, e pagano per rendersi ridicoli.» Dietro di lei, ancora senza mostrare del tutto la loro potenza, i lampi fluttuavano come veli di fulgore proiettati da ali luminose. Ma il tuono successivo scoppiò fragoroso e rumoreggiò con violenza, non la voce degli angeli ma di una belva. «Qualcuno deve aver ucciso un serpente nero», disse lei, «e averlo appeso a un albero.» Considerando le sue frequenti asserzioni sibilline, pensai di essermela cavata piuttosto bene nella conversazione, ma questa mi sbaragliò. «Serpente nero? Albero?» Indicò il cielo che si andava rabbuiando. «Impiccare un serpente nero non porta sicuramente la pioggia?» «Può essere, immagino. Non so. Questa è nuova per me.» «Bugiardo.» Sorseggiò il vino. «Comunque, ho avuto soldi per un po' di anni. Mi danno la libertà di perseguire i miei interessi spirituali.» «Senza offesa, ma è difficile immaginarti in ritiro a pregare.» «Il magnetismo psichico mi è nuovo.» Feci spallucce. «È il termine di fantasia che uso per il mio intuito.» «È più di questo. Danny me l'ha detto. E tu me ne hai dato una dimostrazione convincente. Sei in grado di chiamare a raccolta gli spiriti.»
«No, non io. Hai bisogno di Mosè per questo.» «Tu vedi gli spiriti.» Decisi che fare il finto tonto con lei non sarebbe servito a niente, se non a farla andare in collera. «Io non li chiamo. Sono loro che vengono da me. Preferirei che non lo facessero.» «Questo posto deve avere i suoi fantasmi.» «Ci sono», ammisi. «Voglio vederli.» «Non puoi.» «Allora ucciderò Danny.» «Ti giuro, non sono in grado di chiamarli.» «Voglio vederli», ripeté con voce più fredda. «Io non sono un medium.» «Bugiardo.» «Non prendono forme visibili. Si manifestano solo a me.» «Sei tanto speciale, eh?» «Purtroppo sì.» «Voglio parlare con loro.» «I morti non parlano.» Prese in mano il telecomando. «Distruggerò quello stronzetto. Lo farò davvero.» Correndo un rischio calcolato, dissi: «Sono certo che lo farai. Che io esegua ciò che tu vuoi oppure no. Non rischierai di andare in prigione per l'omicidio del dottor Jessup». Rimise giù il telecomando. Si appoggiò al davanzale della finestra, un fianco inclinato, il seno proiettato in avanti, in posa. «Pensi che intenda uccidere anche te?» «Certamente.» «Allora perché sei qui?» «Per guadagnare un po' di tempo.» «Ti avevo avvertito di venire solo.» «Non c'è nessun gruppo che ti insegue», le assicurai. «Allora, guadagnare tempo per cosa?» «Perché il fato prenda una svolta inaspettata. Perché mi si presenti un vantaggio da afferrare.» Aveva il senso dell'umorismo di un sasso, ma questa la divertì. «Pensi che farò qualcosa di poco prudente?» «Uccidere il dottor Jessup non è stato furbo.»
«Non essere tonto. I ragazzi hanno bisogno del loro divertimento», spiegò lei, come se ci fosse una ragione logica che doveva essermi evidente nell'assassinio del radiologo. «Fa parte del patto.» Come se fossero stati chiamati, i «ragazzi» arrivarono. Udendoli, mi voltai. Il primo sembrava un ibrido creato in un laboratorio, mezzo uomo e mezzo macchina, con una locomotiva da qualche parte del suo albero genealogico. Grosso, solido, il tipo che sembra tutto muscoli e lento, ma che probabilmente ti può inseguire più in fretta di un treno impazzito. Lineamenti rozzi, da bruto. Uno sguardo diretto come quello di Datura, ma non decifrabile come il suo. Non erano semplicemente occhi guardinghi ma profondamente enigmatici come non avevo mai visto prima. Provai la strana sensazione che dietro quegli occhi ci fosse un intelletto con un paesaggio talmente diverso da quello di una comune mente umana da poter benissimo appartenere a un'entità di un altro mondo. Dato il suo potere psichico, il fucile a pallettoni pareva superfluo. Lo portò alla finestra e lo tenne con tutte e due le mani, mentre fissava il pomeriggio sul deserto. Il secondo uomo era nerboruto, ma non esageratamente muscoloso come il primo. Sebbene fosse giovane, aveva un aspetto dissoluto, gli occhi gonfi e le guance rubizze di chi scatena risse nei bar e sarebbe contento di trascorrere la vita bevendo e attaccando briga, due cose che sicuramente gli riuscivano bene. Incrociò il mio sguardo, ma non con la sfrontatezza della locomotiva umana. I suoi occhi mi sfiorarono appena, come se lo mettessi a disagio, cosa che pareva inverosimile. La carica di un toro probabilmente non gli avrebbe fatto quell'effetto. Anche se non portava armi, da quanto vedevo, poteva nascondere una pistola sotto il giubbotto estivo di cotone. Scostò una poltroncina dal tavolo, sedette e si versò un po' del vino che io avevo rifiutato. Come la donna, anche loro due vestivano di nero. Sospettavo non fosse una coincidenza il fatto che Datura amasse il nero e che loro si vestissero secondo i suoi gusti. Dovevano essere stati a guardia delle scale. Lei non li aveva chiamati al telefono né aveva inviato messaggi, però in qualche modo avevano saputo che avevo oltrepassato la loro postazione e che mi trovavo con lei.
«Questo», mi disse Datura, indicando il bruto alla finestra, «è Cheval André.» Lui non mi guardò. Non disse: «Piacere di conoscerti». Mentre l'altro beveva un terzo del vino in una sola sorsata, lei aggiunse: «Questo è Cheval Robert». Robert scoccò un'occhiata truce alle candele sul tavolo. «André e Robert Cheval», riassunsi. «Fratelli?» «Cheval non è il cognome», spiegò lei, «come tu ben sai. Cheval significa 'cavallo'. Come tu ben sai.» «Cavallo André e Cavallo Robert», ripassai. «Signora, devo dirtelo, nonostante la strana vita che conduco, tutto ciò è troppo stravagante per me.» «Se mi mostri gli spiriti e tutto quello che voglio vedere, potrei non farti ammazzare da loro, dopotutto. Non ti piacerebbe essere il mio Cheval Odd?» «Perdiana, suppongo sia un'offerta che moltissimi giovani invidierebbero, però non so quali sarebbero i miei doveri come cavallo, qual è la paga, se c'è un'assicurazione sulle malattie...» «Il dovere di André e Robert è fare ciò che io gli dico, tutto ciò che io gli dico, come tu ben sai. Come compenso, do loro ciò di cui hanno bisogno, tutte le volte che ne hanno bisogno. E una volta ogni tanto, come con il dottor Jessup, gli do ciò che desiderano.» I due la guardarono con una brama che solo in parte sembrava essere concupiscenza. Intuivo in loro un altro bisogno che non aveva a che fare con il sesso, un bisogno che solo lei poteva soddisfare, un bisogno talmente grottesco che sperai di non apprenderne mai la natura. Lei sorrise. «Sono ragazzi talmente bisognosi!» Un lampo con i denti degni di un drago squarciò le nubi nere, affilato e brillante, poi le squarciò di nuovo. Crepitò il tuono. Il cielo si contrasse e scosse via un milione di scaglie argentate di pioggia, e poi altri milioni. 32 Il pesante rovescio sembrò spazzare via dall'aria parte della luce che riusciva a penetrare attraverso le nubi e il pomeriggio divenne buio e tetro, come se la pioggia fosse non solo un fenomeno atmosferico ma anche un giudizio morale sulla terra. Con meno luce che entrava dalla finestra, il lucore delle candele aumentò. Chimere rosse e arancio si aggiravano sulle pareti e scuotevano le loro
criniere attraverso il soffitto. Cheval André depose il fucile sul pavimento e si girò a guardare la tempesta, ponendo le mani enormi contro il vetro della finestra, come se sorbisse l'energia dal temporale. Cheval Robert rimase al tavolo a fissare le candele. Un'espressione perennemente mutevole di vittoria e denaro gli si disegnava sul volto largo. Datura tirò indietro un'altra poltroncina dal tavolo e ordinò di sedermi, non vidi motivo di sfidarla. Come ho detto, era mia intenzione guadagnare tempo e aspettare che il fato decidesse una svolta in mio favore. Come se fossi già un bravo cavallo, mi sedetti senza obiezioni. Lei andava avanti e indietro per la stanza, beveva vino, di tanto in tanto si fermava ad annusare le rose, spesso si stiracchiava come un gatto, procace e sinuosa e assolutamente consapevole del proprio aspetto. Che si muovesse o rimanesse ferma in un punto, la testa gettata indietro a fissare gli aloni luminosi che le candele facevano pulsare sul soffitto, parlava e stuzzicava. «C'è una donna a San Francisco che levita quando salmodia. Soltanto un'élite è invitata a osservarla nei solstizi o alla vigilia di Ognissanti. Ma sono certa che tu ci sei stato e sai come si chiama.» «Non ci siamo mai incontrati», le assicurai. «C'è una bella casa a Savannah, che una giovane donna speciale ha ereditato da uno zio che le ha lasciato anche un diario dove descrive come avesse assassinato diciannove bambini e li abbia sepolti nella cantina. Lui sapeva che la nipote avrebbe compreso e non avrebbe riferito i suoi crimini alle autorità, anche se ormai era morto. Di sicuro le hai fatto visita più di una volta.» «Io non viaggio», risposi. «Io sono stata invitata parecchie volte. Se i pianeti sono allineati nel modo appropriato e gli ospiti sono del calibro giusto, puoi udire le voci dei defunti che parlano dalle loro tombe nel pavimento e nelle pareti. I bambini perduti che implorano per la loro vita, come se non sapessero che sono morti, gridano per farsi liberare. È un'esperienza avvincente, come tu ben sai.» André stava in piedi e Robert era seduto, gli occhi del primo sul temporale, sulle candele quelli del secondo, forse ipnotizzati dalla voce singolare di Datura. Nessuno dei due aveva pronunciato una parola. Erano insolitamente silenziosi e inspiegabilmente immobili. Lei si avvicinò alla mia poltroncina, si chinò su di me e dall'ampia scol-
latura estrasse un pendente: una pietra rossa, forse un rubino, a forma di lacrima, grande quanto un nocciolo di pesca. «Ne ho catturati trenta in questo», mi disse. «Me lo avevi detto al telefono. Trenta... trenta qualcosa in un amuleto.» «Tu lo sai che cosa ho detto. Trenta ti bon ange.» «Immagino che ci sia voluto un po' a collezionarne trenta.» «Li puoi vedere qui dentro», disse lei, avvicinando la pietra ai miei occhi. «Gli altri non possono, ma sono certa che tu sì.» «Sono cosine carine», commentai. «La tua pretesa ignoranza convincerebbe quasi tutti, ma non mi inganni. Con trenta, sono invincibile.» «Lo hai già detto. Sono certo che essere invincibili è confortante.» «Mi serve un altro ti bon ange, e dev'essere speciale. Dev'essere tuo.» «Sono lusingato.» «Come sai, ci sono due modi in cui posso raccoglierlo», continuò, infilando di nuovo la pietra fra i seni. Si versò altro vino. «Posso prenderlo da te con un rituale acquatico. Questo è il metodo di estrazione meno doloroso.» «Sono contento di sentirtelo dire.» «Oppure André e Robert possono costringerti a ingoiare la pietra. Poi ti sventro come un pesce e lo prendo dal tuo stomaco fumante mentre muori.» Se i suoi due cavalli avevano udito ciò che proponeva, non ne furono sorpresi. Rimasero immobili come serpenti arrotolati. Prendendo il bicchiere di vino e avvicinandosi alle rose, Datura aggiunse: «Se mi mostri i fantasmi, prenderò il tuo ti bon ange nel modo meno doloroso. Ma se insisti a fingerti ignorante, questo sarà un brutto giorno per te. Conoscerai una tale agonia che pochi uomini sperimentano». 33 Il mondo è impazzito. Vent'anni fa potevate discutere contro questo punto di vista, ma se lo fate adesso dimostrate che anche voi vivete nell'illusione. In un mondo da manicomio, quelli come Datura salgono al vertice, la crema della crema dei pazzi. Salgono non grazie al merito, ma grazie alla potenza della loro volontà. Quando le forze sociali premono per il ripudio della Verità che affonda
le sue radici nei secoli, allora coloro che la ripudiano cercheranno un significato nella propria verità. Tali verità raramente saranno la Verità; ma solo varie collezioni di preferenze e pregiudizi personali. Minor profondità ha un sistema di convinzioni, maggiore è il fervore con il quale i suoi adepti lo abbracciano. I più fanatici, pronti a strepitare maggiormente, sono coloro la cui fede abborracciata si basa sulle fondamenta più traballanti. Io suggerirei umilmente che raccogliere il ti bon ange di qualcuno (qualunque cosa sia) costringendolo a ingoiare una pietra preziosa, eviscerandolo e prelevando la pietra dal suo stomaco, è la prova che sei fanatica, mentalmente instabile, non più all'interno della classica filosofia occidentale e non adatta a partecipare alla cerimonia di Miss America. Naturalmente, dato che era il mio stomaco a essere minacciato dall'evisceratrice sexy, potreste pensare che in questa analisi sia prevenuto. È sempre facile accusare di pregiudizi quando è un altro a essere sbudellato. Datura aveva trovato la sua verità in un'accozzaglia di occultismi. La sua bellezza, la feroce volontà di potere e la crudeltà attiravano altre persone, come André e Robert, la cui verità secondaria era il suo bizzarro sistema di pensiero magico e la cui verità primaria era lei stessa. Mentre osservavo quella donna girare irrequieta per la stanza, mi chiedevo quanti dipendenti delle sue attività (il pornoshop on-line e il servizio di sesso telefonico) fossero stati gradualmente sostituiti da veri seguaci. Altri dipendenti, dal cuore vuoto, potevano essere stati convertiti. Mi domandavo anche quanti uomini come quei due riusciva a reclutare per l'omicidio nel proprio nome. Sospettavo che, sebbene strani, non fossero gli unici. Come dovevano essere gli equivalenti femminili di André e Robert? Non credo vorreste affidare loro i vostri bambini, se gestissero una scuola materna. Se mi si fosse presentata la possibilità di fuggire, disinnescare la bomba, portare Danny fuori di lì e denunciare Datura alla polizia, avrei subito l'odio dei fanatici che le erano devoti. Se la sua cerchia si fosse dimostrata piccola, poteva sbriciolarsi rapidamente. Avrebbero trovato altri credo o sarebbero ritornati al loro naturale nichilismo, e ben presto non avrei significato più nulla per loro. D'altra parte, se le sue remunerative attività servivano a propagare un culto, avrei dovuto prendere precauzioni maggiori che semplicemente traslocare in un altro appartamento e cambiare il mio nome in Odd Smith.
Come energizzata dalle lame di luce con cui i fulmini trapassavano il cielo, Datura afferrò da un vaso una manciata di rose rosse dal lungo stelo e le brandì nell'aria con ampi gesti, come se distribuisse le proprie esperienze soprannaturali. «A Parigi, nella cantina di un edificio che gli occupanti tedeschi usavano come quartier generale della polizia dopo la caduta della Francia, un ufficiale della Gestapo di nome Gessel stuprò molte giovani donne durante gli interrogatori a cui le sottoponeva, le frustò e ne uccise alcune per puro piacere.» Petali cremisi caddero dalle rose, mentre lei sottolineava la brutalità di Gessel. «Una delle vittime più disperate si ribellò: lo morse alla gola, squarciandogli la carotide. Gessel morì lì, nel suo stesso macello, dove si aggira ancora oggi.» Un intero fiore avvizzito si staccò dallo stelo e mi atterrò in grembo. Trasalii e lo gettai a terra, come fosse una tarantola. «Dietro invito dell'attuale proprietario di quell'edificio», proseguì Datura, «ho visitato quella cantina, che si trova due piani sotto il livello stradale. Se una donna si spoglia e si offre... Sentivo le mani di Gessel dappertutto su di me, bramose, audaci, esigenti. Mi ha penetrata. Però non potevo vederlo. Mi avevano promesso che lo avrei visto, un'apparizione in piena regola.» In preda a una collera improvvisa, gettò a terra le rose e ne pestò una sotto il calcagno. «Volevo vedere Gessel. Ne sentivo la presenza. Vigoroso. Esigente. La sua rabbia mai spenta. Ma non potevo vederlo. Quest'ultima prova, la migliore, vederlo, mi sfugge.» Con brevi respiri poco profondi, il volto arrossato, non perché quei gesti violenti l'avevano affaticata, ma perché la collera la eccitava, si avvicinò a Robert, che sedeva al tavolo dirimpetto a me, e gli porse la mano destra. Lui portò il palmo alla bocca. Per un momento pensai che le stesse baciando la mano, un interludio stranamente dolce per dei selvaggi come loro. I tenui suoni che emise nel succhiare smentirono le maniere tenere. Alla finestra, André si distolse dallo spettacolo del temporale che fino a quel momento lo aveva affascinato. La luce danzante delle candele gli illuminò il volto, senza ammorbidirne i lineamenti duri. Come una montagna in movimento, si avvicinò al tavolo. Rimase in pie-
di di fianco alla sedia di Robert. Quando Datura aveva afferrato i tre lunghi steli delle rose, le spine le avevano punto il palmo. Mentre frustava l'aria con i fiori, non aveva mostrato dolore, ma adesso sanguinava. Robert avrebbe provato gusto a succhiarle le ferite finché non fosse rimasto alcun sapore. Emetteva mormorii di profonda soddisfazione. Per quanto la scena fosse inquietante, dubitavo che quello fosse il «bisogno» di cui aveva parlato lei. Doveva essere qualcosa di peggiore. Con espressione di perversa noblesse oblige, la sedicente dea negò a Robert ulteriori favori e offrì la comunione ad André. Io cercai di focalizzarmi sulla finestra e il temporale, ma non riuscii a distogliere lo sguardo dall'agghiacciante scena che si svolgeva al di là del tavolo. Il gigante abbassò la bocca nel palmo della mano curvata a coppa. Lappò come un gattino, senza cercare nutrimento, certamente, ma bramando qualcosa di più del sangue, qualcosa di sconosciuto ed empio. Mentre Cheval André accettava le grazie della sua padrona, Cheval Robert fissava la scena intensamente. Il volto era distorto da un desiderio bramoso. Più di una volta da quando ero entrano nella camera 1203, il profumo di Cleo-May era divenuto così dolciastro da essere quasi repellente. Adesso era così concentrato da stomacarmi. Mentre lottavo per reprimere la nausea ebbi un'impressione, che non intendo debba essere presa alla lettera, metaforica ma non per questo meno allarmante. Durante il rituale in cui aveva condiviso il suo sangue, Datura non sembrava più una donna, la creatura sessualmente distinta di uno o dell'altro genere, ma il membro di una specie monoclina, che ospita due sessi nello stesso individuo, affine agli insetti. Mi aspettavo che, se un lampo l'avesse illuminata da dietro, avrei visto il suo corpo come se mimetizzata sotto una forma umana, fremesse un'entità dalle molte zampe. Ritirò la mano da André e lui la lasciò andare con riluttanza. Quando però lei gli voltò le spalle, il gigante ritornò obbediente alla finestra, poggiò di nuovo i palmi sul vetro e fissò il temporale. L'attenzione di Robert si focalizzò nuovamente sulle candele posate sul tavolo. Il volto ritornò calmo, ma gli occhi erano resi vivaci dai riflessi delle fiammelle. Datura indirizzò di nuovo la sua attenzione su di me. Per un momento
mi fissò come se non ricordasse chi ero. Poi sorrise. Prese il bicchiere del vino e mi si avvicinò. Se mi fossi accorto che aveva intenzione si sedermisi in grembo, sarei scattato in piedi mentre lei girava attorno al tavolo. Ma quando lo capii, si era già sistemata. Il suo alito caldo e odoroso di vino mi solleticò il viso. «Hai già visto un vantaggio che puoi afferrare?» «Non ancora.» «Voglio che tu beva con me», disse, avvicinandomi il bicchiere alle labbra. 34 Teneva il vino nella mano punta dalle spine, la mano dalla quale i due uomini avevano succhiato il sangue. Mi sentii sommergere da un'altra ondata di nausea e allontanai la testa dal freddo orlo di vetro sulle mie labbra. «Bevi con me», ripeté lei, la voce tenebrosa seducente anche in quella circostanza. «Non ne voglio», risposi. «Tu lo vuoi, baby. Solo che non sai di volerlo. Non capisci ancora te stesso.» Mi premette di nuovo il vetro contro le labbra e io voltai la testa per la seconda volta. «Povero Odd Thomas», disse lei, «che ha paura di farsi corrompere. Pensi che io sia una cosa sporca?» Offenderla troppo apertamente poteva essere negativo per Danny. Adesso che mi aveva attirato lì, lui non serviva più a molto. Datura poteva punirmi per qualsiasi insulto premendo il testo nero del telecomando. In tono poco convincente risposi: «È solo che mi becco facilmente i raffreddori, tutto qua». «Ma io non ho il raffreddore.» «Be', non si sa mai. Potresti averne uno e non mostrare ancora i sintomi.» «Prendo l'echinacea. Dovresti farlo anche tu. Non avrai mai più un raffreddore.» «Non sono tanto portato per i rimedi a base di erbe.» Mi fece scivolare il braccio sinistro attorno al collo. «Hai subito il la-
vaggio del cervello da parte delle grosse case farmaceutiche, piccolo.» «Hai ragione. Probabilmente è così.» «Le grosse aziende farmaceutiche, le grosse compagnie petrolifere, le grosse industrie del tabacco, i grossi mezzi di comunicazione di massa... entrano dentro la testa di tutti. Ci avvelenano. Non hai bisogno di roba chimica prodotta dall'uomo. La natura ha una cura per tutto.» «La brugmansia è davvero efficace», dissi. «Mi farebbe comodo qualche foglia di brugmansia in questo momento. O i fiori. O le radici.» «Quella non la conosco.» Sotto il bouquet di cabernet sauvignon, il suo alito aveva un altro odore: astringente, quasi amaro, che non riuscivo a identificare. Mi ricordai di aver letto che il sudore e l'alito degli psicopatici cronici ha un odore chimico sottile ma individuabile a causa di certe condizioni fisiologiche che accompagnano quel disordine mentale. Forse il suo alito odorava di follia. «Una cucchiaiata di semi di senape bianca», aggiunse, «protegge contro tutti i mali.» «Vorrei averne presa una.» «Mangiare radice di wonder-world ti fa ricco.» «Pare meglio che sgobbare sodo.» Premette di nuovo il bicchiere contro le mie labbra e quando cercai di tirare indietro la testa, contrastò il mio sforzo con il braccio che mi aveva passato attorno al collo. Quando girai la testa da una parte, allontanò il bicchiere e mi sorprese ridacchiando. «Lo so che sei un mundunugu, però sei tanto bravo a fingere di essere un topo di chiesa.» Un cambiamento di vento improvviso mandò sferzate di pioggia contro le finestre. Lei dimenò il sedere contro il mio grembo, sorrise e mi baciò in fronte. «È stupido non usare i rimedi a base di erbe, Odd Thomas. Tu non mangi carne, vero?» «Io sono un cuoco da tavola calda.» «So che la cucini, ma per favore, dimmi che non la mangi.» «Perfino i cheeseburger con la pancetta.» «È talmente autodistruttivo.» «E le patatine fritte», aggiunsi. «Da suicidio.» Sorbì una sorsata di vino e me la sputò in faccia. «Adesso dove ti porta
fare resistenza, baby? Datura ottiene sempre ciò che vuole. Posso spezzarti.» Non se non ci è riuscita mia madre, pensai mentre mi strofinavo il viso con la sinistra. «André e Robert possono tenerti fermo, mentre io ti tappo il naso. Quando apri la bocca per respirare, ti verso il vino in gola. Poi ti spacco il bicchiere contro i denti, così potrai masticare i frammenti. È questo che preferisci?» Prima che mi premesse di nuovo il bicchiere contro le labbra, dissi: «Vuoi vedere i morti?» Senza dubbio alcuni uomini vedevano un eccitante fuoco azzurro nei suoi occhi, ma confondevano l'appetito con la passione; il suo sguardo era quello di un coccodrillo gelido e famelico. Scrutandomi, osservò: «Mi avevi detto che nessuno tranne te li può vedere». «Salvaguardo i miei segreti.» «Allora puoi chiamarli, dopotutto.» «Sì», mentii. «Sapevo che potevi farlo. Lo sapevo.» Si guardò attorno. La scintillante luce delle candele faceva tremolare le ombre. «Non sono in questa stanza», l'avvertii. «Allora dove?» «Di sotto. Ne ho visti parecchi, prima, nel casinò.» Si alzò dal mio grembo. «Chiamali qui.» «Sono loro a scegliere quali luoghi infestare.» «Tu hai il potere di chiamarli.» «Non funziona in questo modo. Ci sono delle eccezioni, ma perlopiù rimangono attaccati al posto dove sono morti... o dove sono stati più felici quando erano vivi.» Rimettendo il bicchiere sul tavolo, mi chiese: «Quale trucco hai nascosto nella manica?» «Indosso una maglietta.» I suoi occhi divennero due fessure. «Che cosa significa?» Alzandomi, risposi: «Gessel, l'agente della Gestapo... si è mai manifestato altrove, se non nella cantina di quell'edificio di Parigi? In qualsiasi altro posto se non dove è morto?» Ci pensò. «Va bene. Andremo al casinò.»
35 Per facilitare l'esplorazione dell'albergo abbandonato, avevano portato delle lanterne Coleman, che funzionavano con bombolette di combustibile. Erano molto più efficaci delle torce nel ricacciare indietro il buio. André lasciò il fucile sul pavimento, vicino alla finestra della camera 1202, e questo mi convinse che sia lui sia Robert nascondevano delle pistole sotto i giubbotti neri. Il telecomando rimase sul tavolo. Se giù nel casinò il mio tentativo fasullo di chiamare gli spiriti non fosse piaciuto a Datura, per lo meno non poteva nuocere subito a Danny. Sarebbe dovuta ritornare a riprendere il congegno che faceva esplodere la bomba. Mentre stavamo per lasciare la stanza, si rese conto che non mangiava banane dal giorno prima. Fu evidente che questa dimenticanza la preoccupava. Le borse termiche piene di cibo e bevande erano nell'adiacente bagno. Tornò con una Chiquita delle migliori. Mentre la sbucciava, spiegò che il banano («Come tu ben sai, Odd Thomas») era l'albero del frutto proibito nel Paradiso Terrestre. «Pensavo che fosse il melo.» «Fa' il finto tonto, se vuoi.» Sebbene fosse sicura che già lo sapessi, mi disse che il Serpente (con la S maiuscola) vive in eterno perché mangia due volte al giorno il frutto del banano. E ogni serpente (con la s minuscola) vivrà mille anni soddisfacendo questo semplice fabbisogno dietetico. «Però tu non sei un serpente», osservai. «Quando avevo diciannove anni», mi rivelò, «ho fatto un wanga per incantare lo spirito di un serpente affinché si trasferisse dal suo corpo al mio. E sono certa che puoi vedere come sia avvolto fra le mie costole, dove vivrà per sempre.» «Be', per mille anni, comunque.» La sua teologia raffazzonata (evidentemente messa insieme in parte con il vudù, in parte con Dio solo sa che cosa) faceva sembrare razionali uomini di fede Jim Jones con i suoi vaneggiamenti in Guyana, David Koresh a Waco e il leader del culto della cometa che aveva spinto a un suicidio di massa nei pressi di San Diego. Sebbene mi aspettassi che Datura trasformasse in spettacolo erotico lo
spuntino con la banana, si limitò a mangiare il frutto con una specie di accanita determinazione. Masticava senza apparente piacere e più di una volta inghiottì facendo delle smorfie. Supponevo che avesse venticinque o ventisei anni, quindi da circa sette anni andava avanti con quella dieta di due banane al giorno. Avendo ormai mangiato la bella cifra di cinquemila banane, era comprensibile che non le piacessero più, in particolare se sapeva quante gliene restavano da mandare giù. Con novecentosettantaquattro anni da vivere (come serpente con la s minuscola) nel suo futuro c'erano approssimativamente altre settecentodiecimila banane. Trovo tanto più facile essere cattolico. Soprattutto non andando in chiesa tutte le settimane. Per quanto Datura fosse scriteriata, perfino patetica, la sua superficialità e la sua ignoranza non la rendevano meno pericolosa. Nel corso della storia, gli stupidi e i loro seguaci, ostinatamente ignoranti ma innamorati di se stessi e del potere, hanno ammazzato milioni di persone. Quando ebbe consumato la banana e calmato lo spirito del serpente attorcigliato fra le sue costole, fummo pronti per visitare il casinò. Una vibrazione all'inguine mi spaventò e ficcai la mano in tasca prima di rendermi conto che si trattava solo del telefono satellitare di Terri Stambaugh. Avendo visto, Datura chiese: «Che cos'hai lì?» Non potevo nasconderglielo. «Solo il mio telefono. Avevo tolto la suoneria. Mi ha colto di sorpresa.» «Sta ancora vibrando?» «Sì.» Lo tenni nel palmo della mano e lo fissammo per un momento, finché chi aveva chiamato riattaccò. «Ha smesso.» «Mi ero dimenticata del tuo telefono», disse lei. «Non penso che dovremmo lasciartelo.» Non avevo scelta se non consegnarglielo. Lo portò nel bagno e lo sbatté contro un ripiano. Lo sbatté di nuovo. Quando rientrò nella stanza sorrise e disse: «Eravamo al cinema e 'sto coglione ha ricevuto due chiamate al cellulare durante il film. Più tardi lo abbiamo seguito e André gli ha spezzato tutte e due le gambe con una mazza da baseball». Questo prova che perfino le persone più malvagie possono di tanto in tanto avere un impulso socialmente responsabile. «Andiamo», disse.
Ero entrato nella camera 1203 con una torcia e ne uscii con la stessa (spenta e appesa alla cintura), nessuno obiettò. Portando una lanterna Coleman, Robert ci guidò alle scale più vicine e scese davanti a tutti. André veniva per ultimo con la seconda lanterna. Tra quei due omoni cupi, io e Datura scendevamo le ampie rampe non uno dietro l'altro in fila indiana, ma affiancati, dietro sua insistenza. Giù per la prima rampa, fino al pianerottolo dell'undicesimo piano, udii un sibilo continuo e minaccioso. Quasi mi convinsi che doveva essere lo spirito del serpente che lei sosteneva di avere dentro di sé. Poi mi resi conto che era il suono prodotto dal gas che ardeva nelle lanterne. Alla seconda rampa mi prese per mano. Avrei potuto liberarmi dalla sua stretta, con un moto di repulsione, ma pensai che sarebbe stata capace di ordinare ad André di tagliarmi via la mano all'altezza del polso come punizione per l'insulto. Ma non fu soltanto la paura a incoraggiarmi ad accettare quel contatto. Lei non aveva afferrato la mia mano con fermezza, ma in modo esitante, quasi con timidezza, e me la tenne stretta come farebbe un bambino che si aspetta un'avventura da brivido. Non avrei scommesso che in quella donna demente e corrotta albergasse una minima parte della bambina innocente che doveva essere stata un tempo. Eppure, la fiducia sottomessa con la quale mi diede la mano e il brivido che la percorse alla prospettiva di ciò che l'aspettava, faceva pensare a una vulnerabilità fanciullesca. Nella luce spettrale, che proiettava attorno a lei un'aura quasi soprannaturale, mi guardò, gli occhi sgranati dalla meraviglia. Non era il solito sguardo da Medusa, cupidigia e calcolo erano scomparsi. Allo stesso modo, il suo sorriso non era derisorio o minaccioso, ma esprimeva una gioia sincera per le prodezze che osava compiere, di cui condivideva con me la complicità. Misi in guardia me stesso dal pericolo di provare compassione. Quanto sarebbe stato facile immaginare i traumi dell'infanzia che potevano averla plasmata nel mostro che era diventata, e poi convincermi che quei traumi potevano essere riequilibrati (e i loro effetti ribaltati) da sufficienti atti di gentilezza. Potevano non essere stati i traumi. Poteva essere nata in quel modo, senza il gene dell'empatia e altri caratteri essenziali. In quel caso, avrebbe interpretato ogni gentilezza come debolezza. Fra le belve feroci, fare mostra di debolezza è un invito all'attacco.
Sebbene il suo comportamento fosse riconducibile a traumi passati, questo non scusava ciò che avevano fatto al dottor Jessup. Mi ricordai di un naturalista il quale, arrivato a disprezzare il genere umano e a non nutrire in esso alcuna speranza, aveva girato un documentario sulla superiorità morale degli animali, in particolare degli orsi. Trovava in loro un'armoniosa relazione con la natura che il genere umano non era più in grado di avere, una giocosità che andava al di là della capacità umana, una dignità, una compassione per gli altri animali, e una qualità mistica che trovava commovente, perfino umile. Fu divorato da un orso. Ma prima che potessi precipitare in una nebbia di autoinganno simile a quella del naturalista sbranato, dopo aver sceso solo tre rampe di scale, la stessa Datura mi fece tornare bruscamente in me lanciandosi in uno dei suoi affascinanti aneddoti. Le piaceva talmente tanto il suono della propria voce da non permettere che le buone impressioni date dal sorriso e dal silenzio dominassero a lungo. «A Port-au-Prince, se sei invitato sotto la protezione di un rispettato adepto di un feticcio, è possibile assistere alla cerimonia di una delle società segrete aborrite dalla maggior parte dei vuduisti. Nel mio caso, si trattava dei Cochons Gris, i Maiali Grigi. Sull'isola tutti ne hanno terrore e nelle zone più rurali sono loro a dominare la notte.» Sospettai che i Maiali Grigi avessero poco in comune con, diciamo, l'Esercito della Salvezza. «Di tanto in tanto, i Maiali Grigi praticano sacrifici umani e ne mangiano la carne. I visitatori possono solo osservare. Il sacrifico è consumato su un'enorme pietra nera appesa a due spesse catene che pendono da una grande sbarra di ferro incastrata nelle pareti, vicino al soffitto.» La sua mano si irrigidì nella mia ricordando l'orrore. «La persona da sacrificare è uccisa conficcandole un coltello nel cuore. Nel medesimo istante le catene si mettono a cantare. Il gros bon ange vola via immediatamente da questo mondo, ma il ti bon ange, limitato dal rituale, può spostarsi solo su e giù per le catene.» La mano mi si inumidì e divenne fredda. Sapevo che lei avrebbe percepito il cambiamento. L'odore vago e sgradevole che avevo sentito in precedenza, quando mi accingevo a salire le scale, si levò di nuovo. Odore di muschio e funghi, che faceva stranamente pensare alla carne cruda. Come prima, mi venne in mente il volto del cadavere che avevo sollevato dall'acqua nella galleria sotterranea.
«Se ascolti attentamente le catene che cantano», proseguì Datura, «ti rendi conto che non è semplicemente il suono degli anelli che strofinano uno contro l'altro. C'è una voce in quelle catene, un gemito di paura e disperazione, un'implorazione pressante e senza parole.» Senza parole e pressantemente, la implorai di stare zitta. «La voce angosciata continua fino a quando i Maiali Grigi consumano la carne sull'altare, di solito per mezz'ora. Quando hanno finito, le catene smettono immediatamente di cantare perché il ti bon ange si disperde, per essere assorbito in egual misura da tutti coloro che hanno condiviso la carne del sacrificio.» Mancavano tre rampe di scale al pianterreno e non volevo ascoltare altro di quella storia. Eppure mi sembrava che, se fosse stata vera (e credevo che lo fosse) le vittime meritavano la dignità di un'identità, e non bisognava parlare di loro come se fossero carne da macello. «Chi?» domandai, con voce esile. «Chi che cosa?» «La persona sacrificata. Chi era quella notte?» «Una ragazza haitiana. Di circa diciotto anni. Non tanto carina. Una cosina bruttarella. Qualcuno ha detto che faceva la cucitrice.» La mia mano destra divenne troppo debole per mantenere la stretta e lasciai andare con sollievo quella di Datura. Lei mi sorrise, divertita, lei che era fisicamente perfetta da ogni punto di vista, la cui bellezza (gelida o no) faceva voltare la testa a tutti, ovunque andasse. E pensai a un verso di Shakespeare: «Oh, che non può un uomo celare in sé, anche se sia un angelo al di fuori!» Little Ozzie, il mio mentore letterario, che dispera della mia dimestichezza con i classici, sarebbe stato fiero di sentire che mi ero ricordato un verso dell'immortale bardo, completo e accurato, al momento giusto. Mi avrebbe anche tenuto una lezione sulla stupidità della mia naturale avversione per le armi da fuoco, considerando che stavo in compagnia di gente la cui idea di divertimento festivo era comprare i biglietti non per una commedia a Broadway ma per un sacrificio umano. Mentre scendevamo l'ultima rampa, Datura disse: «Quell'esperienza è stata affascinante. La voce in quelle catene aveva caratteristiche tonali identiche alla voce della piccola cucitrice quando giaceva non ancora morta sulla pietra nera». «Aveva un nome?»
«Chi?» «La cucitrice.» «Perché?» «Aveva una nome?» ripetei. «Sono certa di sì. Uno di quei buffi nomi haitiani. Non l'ho mai sentito. È che il suo ti bon ange non si è materializzato in alcun modo. Io volevo vederlo. Ma non c'era niente da vedere. Quella parte è stata deludente. Io volevo vedere.» Ogni volta che diceva «io volevo vedere» aveva il tono di una bambina che mette il broncio. «Tu non mi deluderai, Odd Thomas?» «No.» Raggiungemmo il pianterreno e Robert continuò a guidare il gruppetto, reggendo la lanterna più in alto di quanto avesse fatto sulle scale. Mentre ci dirigevamo verso il casinò, cercai di memorizzare al meglio la topografia dei detriti e degli spazi sgombri, devastati dal fuoco. 36 Nel casinò senza finestre, l'uomo stempiato e dall'aspetto gradevole era seduto a uno dei due tavoli di blackjack ancora in piedi, dove lo avevo visto in precedenza e dov'era rimasto per cinque anni ad aspettare le carte per un'altra mano. Mi sorrise e annuì, ma guardò Datura e i suoi compagni aggrottando la fronte. Su mia richiesta, André e Robert deposero a terra le lanterne Coleman, distanti circa sei metri una dall'altra. Gliele feci spostare un paio di volte (portare una più avanti di una trentina centimetri, spostare l'altra più a sinistra di una decina) come se la loro posizione precisa fosse essenziale per qualche cerimoniale che avevo intenzione di mettere in atto. Tutto ciò a beneficio di Datura, perché si convincesse che c'era un rituale rispetto al quale doveva mostrarsi paziente. Le parti più lontane dell'ampio salone rimasero al buio, ma il centro era illuminato a sufficienza per i miei scopi. «Nel casinò sono morti in sessantaquattro», mi disse lei. «Il calore era talmente intenso, in certe zone, che sono bruciate perfino le ossa.» Il paziente giocatore di blackjack era l'unico spirito in vista. Gli altri sarebbero venuti in seguito, quelli che ancora si attardavano da questo lato
della morte. «Baby, guarda quelle macchinette mangiasoldi fuse. I casinò fanno sempre pubblicità dicendo che le loro slot machines sono roventi. Be', questa volta non contavano balle!» Degli otto spiriti che erano qui in precedenza, solo uno poteva servire ai miei scopi. «Hanno trovato i resti di 'sta signora anziana. Il terremoto ha fatto ribaltare una fila di slot machines e lei ci è rimasta intrappolata sotto.» Non avevo voglia di ascoltare macabri dettagli, ma me li avrebbe descritti lo stesso e in modo vivido, per giunta. «I suoi resti erano talmente amalgamati con il metallo fuso e la plastica, che il coroner non è riuscito a estrarli del tutto.» Sotto il fetore, attutito dal tempo, di sostanze carbonizzate, zolfo e residui tossici, individuai un odore che pareva di fungo e anche di carne proveniente dalle scale. Elusivo ma non irreale, aumentava e si affievoliva un respiro dopo l'altro. «Il coroner ha pensato che la vecchia troia andasse cremata, visto che il lavoro era già mezzo fatto e che era l'unico modo per separarla dal meccanismo fuso.» Dalle tenebre uscì una signora anziana dal viso allungato, gli occhi fissi nel vuoto. Forse era stata lei a rimanere intrappolata sotto la fila di macchinette mangiasoldi. «Ma la sua famiglia, loro non volevano la cremazione, volevano una sepoltura tradizionale.» Con la coda dell'occhio vidi un movimento, mi girai e scoprii la barista nel costume da principessa indiana. Mi rattristò vederla. Avevo pensato, e sperato, che alla fine se ne fosse andata. «Così la bara conteneva parte della slot machine con la quale la vecchiaccia si era fusa. È da pazzi o cosa?» Arrivò la guardia in uniforme, camminando un po' come John Wayne, con una mano sulla pistola che portava al fianco. «C'è qualcuno di loro?» domandò Datura. «Sì. Quattro.» «Non vedo niente.» «In questo momento si manifestano solo a me.» «Mostrameli.» «Dovrebbe essercene un altro. Devo aspettare che siano tutti riuniti.» «Perché?»
«È solo il modo in cui dev'essere.» «Non imbrogliarmi», mi avvertì. «Avrai ciò che vuoi.» Sebbene l'abituale autocontrollo di Datura avesse lasciato il posto a un'evidente eccitazione, a un'agitata aspettativa, André e Robert esibivano tutto l'entusiasmo di due pietre. Ognuno di loro stava in piedi accanto alla propria lanterna, in attesa. André teneva lo sguardo fisso nel buio oltre il cerchio di luce. Non sembrava guardare qualcosa in questo universo. Aveva i lineamenti rilasciati. Raramente sbatteva le palpebre. L'unica emozione mostrata fino a quel momento era quando aveva succhiato la mano di Datura punta dalle spine, e anche allora non era stato più emotivo di un tronco di quercia. Mentre André pareva perpetuamente ancorato in acque placide, Robert di tanto in tanto rivelava, con un'espressione fuggevole o un'occhiata furtiva, che solcava un mare interno marginalmente più attivo. Adesso erano le mani a godere della sua completa attenzione, mentre usava le unghie della sinistra per pulire quelle della destra, lentamente, con meticolosità, come se fosse contento di passare un'ora impegnato in quel compito. All'inizio avevo deciso che entrambi erano degli emeriti stupidi, ma cominciavo a riconsiderare quel giudizio. Non riuscivo a credere che la loro vita interiore fosse improntata alla ricerca intellettuale e alla contemplazione filosofica, ma sospettavo che fossero più dotati, mentalmente, di quanto appariva. Forse erano stati con Datura per abbastanza anni e a caccia di molti ai fantasmi che la prospettiva di esercizi soprannaturali non li attraeva più. Perfino le esperienze più esotiche possono diventare noiose, con la ripetizione. E dopo anni ad ascoltare le sue chiacchiere, erano scusati se si rifugiavano nel silenzio, creavano baluardi di quiete interiore nei quali ritirarsi, lasciandosi scivolare addosso le sue incessanti farneticazioni. «Va bene, stai aspettando un quinto spirito», disse lei, tirandomi la maglietta. «Ma dimmi di quelli che sono già qui. Dove sono? Chi sono?» Per placarla e per non preoccuparmi troppo che il morto su cui contavo maggiormente non facesse la sua apparizione, le descrissi il giocatore alla tavola del blackjack, il suo volto gentile, le labbra carnose e il mento con la fossetta. «Quindi si manifesta nel modo in cui era prima dell'incendio?» mi chiese Datura.
«Sì.» «Quando lo chiamerai per me, voglio vederlo in tutti e due i modi, com'era in vita, e che cosa gli ha fatto l'incendio.» «Va bene», acconsentii, dato che non sarei mai riuscito a persuaderla di non avere il potere necessario a tali rivelazioni. «Voglio vedere che cosa ha fatto il fuoco a tutti loro. Le ferite, le sofferenze.» «Va bene.» «Chi altri?» domandò. Uno per uno, indicai i punti dove stavano: la donna anziana, la guardia, la cameriera dei cocktail. Datura trovò interessante solo la cameriera. «Hai detto che era una brunetta. È giusto, o ha i capelli neri neri?» Scrutando più attentamente l'apparizione, che mi si avvicinava reagendo al mio interesse, risposi: «Neri neri. Capelli corvini». «Occhi grigi?» «Sì.» «Ne so qualcosa. C'è una storia su di lei», disse Datura con una morbosità che mi rese nervoso. Concentrandosi su Datura, la giovane cameriera si avvicinò ancora, fino a poco più di un metro. Socchiudendo gli occhi nel cercare di vedere lo spirito, ma fissando di fianco a dove si trovava, Datura chiese: «Perché non se n'è andata?» «Non lo so. I morti non mi parlano. Quando ordinerò loro di rendersi visibili anche a te, forse tu sarai in grado di farli parlare.» Scrutai le ombre del casinò, alla ricerca della sagoma in agguato dell'uomo dai capelli tagliati quasi a zero. Ancora nessuna traccia, e lui era la mia unica speranza. Parlando della cameriera dei cocktail, Datura disse: «Domandale se si chiamava... Maryann Morris». Sorpresa, la ragazza si avvicinò ulteriormente e le mise una mano sul braccio, un contatto che non venne percepito, poiché soltanto io posso sentire il tocco dei morti. «Dev'essere lei», dissi. «Ha reagito al nome.» «Dov'è?» «Proprio davanti a te, potresti toccarla allungando un braccio.» Nel modo in cui una creatura addomesticata ritorna allo stato selvatico, le delicate narici di Datura si allargarono, gli occhi brillarono di selvaggia
eccitazione e le labbra scoprirono i denti bianchissimi, come aspettandosi un divertimento sanguinario. «Io so perché Maryann non può andarsene», disse. «C'era una storia su di lei nei servizi dei notiziari. Aveva due sorelle. Tutte e due lavoravano qui.» «Sta annuendo», le dissi, ma subito desiderai non aver facilitato quell'incontro. «Scommetto che Maryann non sa ciò che è accaduto alle sue sorelle, se sono sopravvissute o sono morte. Non vuole andarsene fino a che non saprà che cosa ne è di loro.» L'espressione apprensiva sul volto dello spirito, non priva di una fragile speranza, rivelò che Datura aveva intuito il motivo per cui Maryann indugiava sulla soglia di questo mondo. Riluttante a incoraggiarla, non confermai l'esattezza della sua intuizione. Ma non lei non aveva bisogno del mio incoraggiamento. «Una delle sorelle era una cameriera che quella notte lavorava nella sala da ballo.» La sala da ballo Lady Luck. Il soffitto crollato. Il massiccio lampadario che schiaccia e trafigge. «L'altra lavorava come hostess nel ristorante principale», continuò Datura. «Maryann aveva usato le sue conoscenze per trovare lavoro a entrambe.» Se era vero, la ragazza poteva sentirsi responsabile per il fatto che le sue sorelle si fossero trovate al Panamint nel momento del terremoto. Sapendo che erano sopravvissute, molto probabilmente si sarebbe sentita libera di scuotersi di dosso le catene che la legavano a questo mondo, a queste rovine. Anche se le sorelle fossero morte, la triste verità avrebbe potuto liberarla da quel purgatorio autoimposto. Il suo senso di colpa poteva anche aumentare, ma sarebbe stato compensato dalla speranza di una riunione con le persone care nel mondo a venire. Vedendo che negli occhi di Datura non c'era il solito freddo calcolo, né la meraviglia fanciullesca che li aveva ravvivati mentre scendevamo le scale dal dodicesimo piano, scorgendovi invece un'acrimonia e una cattiveria che sottolineavano la nuova espressione feroce del volto, non fui meno stomacato di quando, con la mano impiastricciata di sangue, aveva premuto il bicchiere contro le mie labbra. «I fantasmi sono vulnerabili», l'avvertii. «Dobbiamo loro la verità, soltanto la verità, ma dobbiamo essere pronti a consolarli e a incoraggiarli a
proseguire il loro viaggio, grazie a ciò che diciamo e a come lo diciamo.» Ascoltando le mie stesse parole, mi resi conto di quanto fosse inutile spingerla ad agire con compassione. Rivolgendosi direttamente allo spirito che non poteva vedere, Datura annunciò: «Tua sorella Bonnie è viva». La speranza illuminò il volto della defunta Maryann Morris, e vidi che si preparava a gioire. Datura continuò: «La sua colonna vertebrale si è spezzata quando le è caduto addosso un lampadario da una tonnellata e mezzo. L'ha talmente schiacciata da farle uscire fuori la merda. Gli occhi sono stati trafitti, rovinati...» «Che cosa stai facendo? Non farlo!» implorai. «Adesso Bonnie è paralizzata dal collo in giù, e cieca. Vive con il sussidio del governo in una casa di riposo da quattro soldi dove probabilmente morrà per le piaghe da decubito non curate.» Volevo zittirla anche se avessi dovuto colpirla e forse metà del motivo per cui volevo zittirla era perché mi avrebbe dato la scusa di colpirla. Come percependo il mio desiderio, André e Robert mi fissarono, tesi nell'attesa dell'azione. Sebbene l'occasione di mandarla lunga distesa a terra sarebbe valsa il pestaggio che i due bruti mi avrebbero ammannito, rammentai a me stesso che ero lì per Danny. La cameriera dei cocktail era morta, ma il mio amico con le ossa di vetro aveva una possibilità di vivere. Era la sua sopravvivenza che doveva starmi a cuore. Rivolgendosi allo spirito che non poteva vedere, Datura proseguì: «L'altra tua sorella, Nora, è rimasta ustionata per più dell'ottanta per cento, però è sopravvissuta. Tre dita della mano sinistra sono completamente bruciate. Così i capelli e molti dei suoi lineamenti, Maryann. Un orecchio. Le labbra. Il naso. Arrostiti completamente, andati.» Il dolore torturava talmente la donna che non sopportavo di guardarla, perché non potevo fare nulla per consolarla davanti a quell'attacco malvagio. Con respiri rapidi e poco profondi, Datura aveva permesso al lupo che era nelle sue ossa di salire fino al cuore. Le parole erano i suoi denti e la crudeltà i suoi artigli. «La tua Nora ha subito trentasei operazioni e ce ne saranno altre, dolorose e fastidiose: innesti di pelle, ricostruzione facciale... E continua a essere orrenda.»
«Adesso la smetti!» la interruppi. «Nemmeno per sogno. È orrenda. Esce di rado, e quando lo fa si mette un cappello e si lega una sciarpa attorno al suo viso disgustoso, per non spaventare i bambini.» Tale aggressiva esultanza nell'amministrare la sofferenza emotiva, tale inesplicabile acrimonia rivelavano che il volto perfetto di Datura non era solo un contrasto con la sua natura, ma di fatto una maschera. Più a lungo lei attaccava quel povero spirito, meno opaca diveniva la maschera, e si cominciava a scorgere la traccia di una malvagità di fondo talmente brutta che, se le avessero strappato via la maschera all'improvviso, sarebbe venuto alla luce un volto che avrebbe fatto sembrare angelico e gentile quello di Lon Chaney nel Fantasma dell'Opera. «Tu, Maryann, tu te la sei cavata con facilità, al confronto. La tua sofferenza è finita. Puoi andartene di qui ogni dannata volta che vuoi. Ma poiché le tue sorelle erano nel punto e nel momento in cui si trovavano, la loro pena continuerò per anni e anni, per il resto della loro miserabile vita.» L'intensità del miserabile senso di colpa che Datura si sforzava di alimentare avrebbe continuato a tenere il povero spirito torturato incatenato a quelle rovine carbonizzate, a quel desolato lotto di terra per un altro decennio o un altro secolo. E non c'era altro scopo che cercare di agitare la povera anima fino a una manifestazione visibile. «Ti faccio incazzare, Maryann? Mi odi per averti rivelato che cose inutili, spezzate, sono diventate le tue sorelle?» «È disgustoso, ignobile», intervenni, «e non funzionerà. È tutto per niente.» «So che cosa sto facendo, piccolo. Io so sempre esattamente che cosa faccio.» «Lei non è come te», insistei. «Lei non odia, quindi non puoi mandarla in bestia.» «Tutti odiano», ribatté Datura e mi avvertì di non intromettermi con uno sguardo micidiale che mi fece abbassare rapidamente la temperatura del sangue. «È l'odio che fa girare il mondo. Specialmente per le ragazze come Maryann. Loro odiano meglio di tutti.» «Che cosa ne sai delle ragazze come lei?» chiesi sdegnosamente, adirato. E risposi alla mia domanda: «Niente. Tu non sai niente delle donne come lei.» André si spostò di un passo dalla sua lanterna e Robert mi rivolse uno sguardo fosco.
Implacabile, Datura disse: «Ho visto la tua foto nei giornali, Maryann. Oh, sì, ho fatto le mie ricerche prima di venire qui. Conosco le facce di tantissimi che sono morti in questo posto, perché se li incontro... quando li incontrerò tramite il mio nuovo amichetto, qui, il mio piccolo amichetto strano, voglio che gli incontri siano memorabili.» L'omone dalla testa rasata e dagli occhi infossati color della bile aveva fatto la sua apparizione, ma io ero talmente distratto dall'assillante tormento a cui Datura sottoponeva la cameriera dei cocktail che non me n'ero accorto. Lo vidi ora che giganteggiava all'improvviso vicino a noi. «Ho visto la tua foto, Maryann», ripeté Datura. «Eri una ragazza carina, ma non una bellezza. Abbastanza graziosa perché gli uomini ti usassero, ma non abbastanza da poter usare loro per ottenere ciò che volevi.» A non più di tre metri di distanza da noi, l'ottavo spirito del casinò appariva in collera quanto lo era quando lo avevo visto in precedenza. Mascelle serrate. Mani strette a pugno. «Carina e basta non è abbastanza», infierì Datura. «Essere carine è una cosa che si affievolisce rapidamente. Se tu avessi vissuto, la tua vita non sarebbe stato nient'altro che servire cocktail e avere delusioni.» Testa Rasata si avvicinò di più, mettendosi dietro lo spirito afflitto di Maryann Morris, a un metro di distanza. «Avevi grandi speranze quando sei venuta a fare questo lavoro», continuò Datura, «ma era un vicolo senza uscita, e ben presto ti sei accorta di essere già un fallimento. Le donne come te si rivolgono alle sorelle, alle amiche, e tirano avanti così la loro vita. Ma tu... tu hai abbandonato anche le tue sorelle, non è così?» Una delle lanterne Coleman emise una luce decisamente più forte, quasi si smorzò e si ravvivò di nuovo, facendo sì che le ombre volassero via, balzassero più vicino e volassero via ancora una volta. André e Robert guardarono cupi la lampada, si scambiarono un'occhiata e poi abbracciarono con lo sguardo il salone, perplessi. 37 «Hai abbandonato le tue sorelle», ripeté Datura, «la tua sorella paralizzata e cieca e quella sfigurata. E se questo non è vero, se io dico stronzate, allora lascia che ti veda, Maryann. Mostrati, confrontati con me, lascia che io veda come il fuoco ti ha rovinato. Mostrati a me e spaventami.» Non sarei mai stato capace di far comparire tutti quegli spiriti in una
condizione abbastanza materiale perché Datura potesse vederli, però avevo sperato che Testa Rasata, con il suo elevato potenziale da poltergeist, avrebbe fornito uno spettacolo che non solo avrebbe intrattenuto i miei carcerieri, ma li avrebbe talmente distratti da permettermi di andarmene. Il problema era stato come alimentare la collera che già covava in lui trasformandola nella rabbia selvaggia necessaria a dare vita ai fenomeni poltergeist. Adesso pareva che Datura avrebbe risolto quel problema per me. «Tu non eri lì per le tue sorelle», continuò a tormentare il povero spirito. «Non prima del terremoto, né durante, né dopo, né mai.» Maryann si limitò a seppellire il volto nelle mani e a sopportare le accuse velenose, ma Testa Rasata guardò Datura con astio, cambiando la propria espressione da una collera latente a una rabbia furibonda. Lui e Maryann Morris erano uniti da una morte prematura, come pure dalla loro incapacità di andarsene, ma non saprei se il suo umore si fosse rabbuiato perché si era offeso per lei. Non credo che gli spiriti alla deriva provino alcun senso di comunione. Si vedono tra loro, ma ognuno è fondamentalmente solo. Più probabilmente, la malvagità di Datura riecheggiava dentro quell'uomo, lo eccitava e amplificava la sua rabbia già esistente. «È arrivato il quinto spirito», avvertii la mia carceriera. «Adesso le condizioni sono perfette.» «Allora fallo», replicò lei con durezza. «Falli apparire qui, adesso. Fammeli vedere.» Dio mi perdoni: per salvare me stesso e Danny, dissi: «Ciò che stai facendo è utile. È... non so... li emoziona, o qualcosa del genere». «Te lo avevo detto che so sempre esattamente ciò che faccio. Non dubitare mai di me, piccolo.» «Continua solo a darle addosso e, con il mio aiuto, nel giro di qualche minuto non vedrai solo Maryann ma tutti loro.» Lei riversò altri insulti addosso alla ragazza, con un linguaggio ancora più ignobile di prima, ed entrambe le lanterne vibrarono, vibrarono, come in preparazione al fulmine che poteva da un momento all'altro squarciare il cielo. Camminando a grandi passi, voltandosi, camminando ancora, girando in tondo, come se fosse frustrato oltre ogni sopportazione dalla sua reclusione, Testa Rasata sbatté i pugni tra loro talmente forte che si sarebbe fratturato le nocche, se la sua fosse stata una presenza materiale, ma senza pro-
durre alcun suono nell'attuale forma di spirito. Avrebbe potuto menare quei colpi contro di me, ma non ci sarebbe stato alcun effetto. Nessuno spirito può fare del male ai vivi toccandoli direttamente. Questo mondo appartiene a noi, non a loro. Se un'anima rimasta legata alla terra, però, è sufficientemente umiliata, se la collera e l'invidia e il dispetto e l'ostinata ribellione che la caratterizzavano in vita dovessero maturare nella perfidia più nera durante i giorni in cui indugia tra i due mondi, sarebbe in grado di sfogare il potere della sua rabbia demoniaca sugli oggetti inanimati. Alla cameriera dei cocktail che non poteva vedere e mai avrebbe visto, Datura disse con spietata insistenza: «Sai che cosa penso, che cosa scommetto, Maryann? In quella topaia di ospizio, di notte, qualche spregevole inserviente si intrufola nella stanza di tua sorella, la stanza di Bonnie, e la stupra». Oltre la rabbia, vicino al furore, Testa Rasata gettò la testa all'indietro e gridò, ma il suono rimase intrappolato dentro di lui nel regno tra il qui e l'Altrove. «Lei è indifesa», continuò Datura, la voce velenosa come il contenuto delle sacche in un serpente a sonagli. «Bonnie avrebbe paura di dirlo a qualcuno perché lo stupratore non parla mai, e lei non sa il suo nome e non ci vede, quindi ha paura che non le crederebbero.» Testa Rasata annaspò con le mani nell'aria, come se cercasse di guadagnarsi a unghiate la via del ritorno attraverso il velo che lo separava dal mondo dei vivi. «Così, Bonnie deve sopportare tutto quello che lui le fa, ma in quei momenti pensa a te, pensa che a causa tua si trovava dove si trovava quando il terremoto ha distrutto la sua vita, e pensa a come tu, sua sorella, non sei lì per lei adesso e non lo sarai mai.» Ascoltando se stessa, il pubblico che più l'apprezzava, Datura prosperava nella propria malvagità. Dopo ogni odioso sproloquio, sembrava eccitarsi nello scoprire in sé un'abiezione ancora più profonda. La massa perversa dietro la maschera di beltà adesso emerse completamente alla vista. I suoi lineamenti arrossati e distorti non erano più la stoffa di cui erano fatti i sogni dei ragazzi adolescenti, ma manicomi e prigioni per criminali malati di mente. Io ero tesissimo, intuendo che si preparava una possente dimostrazione di furore da parte dello spirito. Ispirato da Datura, rinvigorito, Testa Rasata si agitò forsennatamente,
come se fosse percosso da mille fruste o tormentato da una scossa elettrica dopo l'altra. Gettò le braccia in fuori, i palmi allargati, come il predicatore di una setta che, in estasi, esorti la congregazione a pentirsi. Dalle sue mani notevoli pulsavano cerchi di energia concentrici. A me erano visibili, ma Datura e i suoi uomini avrebbero visto soltanto gli effetti. Dalle montagne di slot machine distrutte si levarono tintinnii, scricchiolii, crepitii e brevi suoni elettronici, e i due tavoli del blackjack cominciarono a ballare sul posto. Qua e là per tutto il casinò presero forma dal pavimento piccoli vortici di cenere. «Che cosa succede?» domandò Datura. «Stanno per apparire», risposi, anche se ogni spirito all'infuori di Testa Rasata se n'era andato. «Tutti. Finalmente, vedrai.» I poltergeist sono impersonali come gli uragani. Non possono indirizzare la propria forza o provocare effetti precisi. Sono un potere che colpisce alla cieca e possono far del male agli essere umani solo indirettamente. Se delle macerie scagliate con forza furibonda ti spaccano il cranio, però, l'effetto non è meno devastante di una bastonata bene assestata sulla testa. Alcuni pezzi delle decorazioni in gesso cadute dal soffitto sui tavoli da gioco durante il terremoto levitarono e schizzarono verso di noi. Io mi scansai, Datura si chinò e i proiettili volarono oltre e sopra di noi, andando a infrangersi contro le colonne e le pareti alle nostre spalle. Testa Rasata emetteva scariche di energia dalle mani e quando lasciò uscire un altro grido silenzioso, cerchi concentrici di energia si riversarono dalla sua bocca aperta. Dal pavimento si levarono vortici sempre più ampi di cenere grigia, fuliggine e pezzetti di legno carbonizzato, mentre dal soffitto cadevano frammenti e interi blocchi di intonaco e serpeggiavano cavi e fili elettrici che menavano tremende sferzate, mentre un tavolo da blackjack ammaccato rotolava attraverso il salone come mosso da un vento che noi non potevamo sentire, mentre una ruota della fortuna bruciacchiata girava in un turbinio di numeri perdenti, mentre un paio di stampelle metalliche avanzavano alla ricerca del giocatore morto che un tempo aveva avuto bisogno di loro e mentre uno stridore ultraterreno giungeva dalla zona buia e aumentava rapidamente di volume e di tono. In questo caos che si intensificava furiosamente, un blocco di gesso pesante una decina di chili colpì Robert al petto, mandandolo all'indietro e facendogli perdere l'equilibrio.
Mentre il criminale cadeva, la misteriosa cosa urlante comparve avanzando dalla zona più buia del casinò: era una statua di bronzo mezzo fusa dal calore, riproduceva a grandezza naturale un capo indiano a cavallo; avanzava roteando su se stessa a una velocità allarmante, la base che strideva sul pavimento di cemento, la cui moquette era stata quasi completamente bruciata, e ne scalzava via dei frammenti, spandendo attorno scintille bianche e arancio. Con Robert a terra, con Datura e André avvinti dal bronzo che si avvicinava ruotando e stridendo, io colsi l'attimo, mi avvicinai alla lanterna più a portata di mano, l'afferrai e la lanciai contro la seconda lampada. Nonostante la mancanza di pratica a bowling, segnai un punto. Le lanterne si scontrarono con uno schianto e un breve lampo di luce, e poi fummo immersi nell'oscurità, rischiarata solo dalle scintille che scaturivano dal vorticoso movimento di cavallo e cavaliere. 38 Una volta che un poltergeist possente come Testa Rasata si è impegnato in uno sfogo violento di furia accumulata, imperverserà senza controllo, con rare eccezioni, finché non si esaurirà, molto similmente alla solita stardel-rap-colta-da-un-raptus-improvviso all'annuale consegna dei Vibe Awards. In questo caso, lo spirito infuriato poteva darmi un altro minuto di copertura, come anche due o tre. Al buio, nel bailamme di colpi, tintinnii e stridori, correvo via tenendomi basso, ansioso di non farmi decapitare o percuotere fino a perdere i sensi dalle macerie volanti. Tenevo anche gli occhi semichiusi, perché nell'aria volavano abbastanza frammenti e schegge di questo e quell'altro che desideravo aver portato con me un oculista. Per quanto potevo in quel buio fitto, cercai di seguire una linea diritta. La mia meta: una galleria di negozi demoliti oltre il casinò, attraverso la quale eravamo passati venendo dalle scale sul lato nord dell'albergo. Incontrando pile di detriti, girai attorno ad alcune, ne sormontai altre, mantenendomi in movimento. Tastavo la strada con entrambe le mani, ma con precauzione, nel caso mi imbattessi in chiodi e pezzi di metallo dal bordo affilato. Sputai cenere, sputai pezzi di macerie non identificati, tirai via trucioli di materiale lanuginoso che mi facevano solletico alle orecchie. Starnutii senza preoccuparmi di essere sentito nella cacofonia di suoni scatenata dal
poltergeist. Troppo presto, cominciai a preoccuparmi di essermi allontanato dal percorso e che non fosse possibile mantenere l'orientamento nel buio più completo. Mi convinsi rapidamente che sarei andato a sbattere in una forma voluttuosa che avrebbe detto: «Ma guarda un po' se non è il mio nuovo amichetto, il mio amichetto strano!» Questo mi fermò. Sganciai la torcia dalla cintura. Però esitai a usarla, anche solo quel tanto per guardarmi attorno e orientarmi di nuovo. Era possibile che Datura e i suoi ragazzi bisognosi non si fossero affidati solo alle lanterne Coleman. Era probabile che avessero una torcia, o anche tre. Altrimenti, André avrebbe lasciato che lei gli appiccasse fuoco ai capelli e lo usasse come una torcia ambulante. Quando Testa Rasata avesse finito la carica, quando i tre dell'allegra brigata avessero smesso di abbracciare il pavimento e avessero osato sollevare la testa, si sarebbero aspettati di trovarmi nelle loro immediate vicinanze. Con le torce, in quel buio, avrebbero avuto bisogno di un minuto o due, magari di più, per rendersi conto che non ero né morto né vivo nella confusione creata dal poltergeist. Se avessi usato la mia torcia adesso, potevano vedere l'arco di luce e sapere che stavo già fuggendo. Non volevo attirare la loro attenzione prima del necessario. Mi serviva ogni prezioso minuto che potevo ottenere. Una mano mi toccò il viso. Gridai come una femminuccia ma non riuscii a emettere alcun suono, e così evitai di umiliarmi. Delle dita premettero delicatamente contro le mie labbra, come per dissuadermi dal grido che avevo cercato di emettere, senza riuscirci. Una mano delicata, quella di una donna. In quel momento nel casinò c'erano solo tre donne. Due erano morte da cinque anni. La sedicente dea, pur invincibile grazie ai trenta qualcosa che aveva nell'amuleto, pur destinata a vivere mille anni perché ospitava un serpente che adorava le banane, non era in grado di vedere nel buio. Non aveva un sesto senso. Non poteva avermi trovato senza una torcia. La mano scivolò dalle labbra al collo alla guancia. Poi mi toccò la spalla sinistra, seguì la linea del braccio e mi prese la mano. Forse perché desidero che i morti sentano caldo, loro sono in questo modo con me, e questa mano nella mia mi dava la sensazione di essere in-
descrivibilmente più pulita rispetto a quella perfettamente curata della donna che aveva ereditato il sesso telefonico. Pulita e onesta, forte ma gentile. Volevo credere che si trattasse di Maryann, la cameriera dei cocktail. Accordandole la mia fiducia, dopo essermi fermato non più a lungo di dieci secondi nella disorientante oscurità, le permisi di essere il mio pesce pilota. Con Testa Rasata che sfogava rumorosamente le proprie frustrazioni nel buio dietro di noi, proseguimmo molto più rapidamente di quanto sarei riuscito a fare da solo, girando attorno agli ostacoli invece di doverli scalare, senza mai esitare per la paura di cadere. Il fantasma vedeva con la luce e altrettanto bene senza. In meno di un minuto, seguendo qualche svolta che mi sembrò portare a destra, mi condusse fino a un punto in cui ci fermammo. Lasciò andare la mia mano sinistra e mi toccò la destra, nella quale reggevo la torcia. Accendendola, vidi che avevamo percorso la galleria dei negozi e ci trovavamo alla fine di un corridoio, davanti alla porta che dava sulle scale a nord. La mia guida era proprio Maryann, vestita da principessa indiana. I secondi erano importanti, ma non potevo lasciarla senza un tentativo di raddrizzare i torti che le aveva fatto Datura. «È stata l'oscurità sparsa nel mondo a far del male alle tue sorelle. La colpa non è tua. Alla fine, quando se ne andranno, non vorrai esserci per loro... dall'altra parte?» Lei incrociò il mio sguardo. I suoi occhi grigi erano adorabili. «Va' a casa, Maryann Morris. C'è l'amore ad aspettarti, basta che tu lo raggiunga.» Lei diede un'occhiata indietro, verso il punto da cui eravamo arrivati, poi mi guardò preoccupata. «Quando arriverai, chiedi della mia Stormy. Non ti dispiacerà di averlo fatto. Se Stormy ha ragione e la prossima vita è il servizio militare, non c'è nessuno di meglio di lei con cui avere grandi avventure.» Lei indietreggiò. «Va' a casa», sussurrai. Si voltò e si allontanò. «Va'. Va' a casa. Lascia la vita... e vivi.» Mentre svaniva, si voltò a guardarmi e sorrise e poi non c'era più. Questa volta, credo, era passata attraverso il velo. Spalancai la porta delle scale, mi precipitai oltre e salii come un forsennato.
39 Le candele Cleo-May, che mi costringevano ad amare e servire l'affascinante giovane donna che bazzicava i fantasmi della Gestapo, chiazzavano le pareti di rosso, le chiazzavano di giallo. Ciononostante, in quella giornata inghiottita dal temporale, nella camera 1203 l'oscurità si era guadagnata tanto spazio quanto la luce. Una corrente d'aria con l'indole di un cagnolino nervoso era entrata da qualche pertugio, infilando la coda da una parte e dall'altra, così ogni increspatura di luminosità dava luogo a un'ombra ondeggiante; una voluta scura inseguiva ogni tremula onda luccicante. Il fucile giaceva a terra vicino alla finestra, dove lo aveva lasciato André. L'arma era più pesante di quanto mi aspettassi. Appena la sollevai, quasi mi cadde. Non era uno di quei fucili lunghi che si usano per cacciare tacchini selvatici, gnu o qualsiasi cosa si cacci con i fucili a canna lunga. Questo era a canna corta, un modello con l'impugnatura da pistola, adatto alla difesa domestica o per rapinare un negozio di liquori. Anche la polizia usa armi di quel tipo. Due anni prima, Wyatt Porter e io ci eravamo trovati in una situazione difficile, in cui erano implicati tre operatori di un laboratorio illegale di metamfetamine e il loro coccodrillo da compagnia, durante la quale avrei potuto finire con una gamba in meno e magari anche senza testicoli, se il Capo non avesse fatto buon uso di un calibro 12 con l'impugnatura da pistola molto simile a questo. Sebbene non avessi mai usato un fucile così (in realtà, solo una volta in vita mia avevo sparato con un'arma da fuoco) avevo visto il Capo usarne uno. Naturalmente ciò non è diverso dal dire che guardare tutti i film di Clint Eastwood in cui fa l'ispettore Callaghan ti fa diventare un provetto tiratore scelto e un esperto di procedure della polizia. Se lasciavo lì il fucile, i ragazzi bisognosi lo avrebbero usato contro di me. Se quei sacripanti mi avessero messo con le spalle al muro in un angolo e io non avessi per lo meno tentato di usare il fucile contro di loro, avrei commesso suicidio, considerando che quanto loro mangiavano a colazione probabilmente pesava più di me. Quindi, fatta irruzione nella stanza e sollevato il fucile da terra, feci qualche smorfia al contatto letale, mi dissi che ero troppo giovane per i pannoloni e rimasi vicino alla finestra, esaminandolo rapidamente sotto la
serie di bagliori intermittenti che si scatenavano a ogni lampo. Fucile a pompa. Tubo del caricatore a tre pallottole. Un'altra pallottola nella culatta. Sì, aveva un grilletto. Sentivo che poteva farmi comodo in una situazione critica, ma devo ammettere che buona parte della mia sicurezza proveniva dall'aver pagato di recente il premio della mia assicurazione malattie. Scrutai il pavimento, il davanzale, il tavolo, ma non vidi munizioni in più. Dal tavolo afferrai il telecomando, attento a non premere il tasto nero. Immaginando che il pandemonio inscenato da Testa Rasata stesse ormai scemando, mi restavano solo pochi minuti prima che Datura e i suoi ragazzi si riavessero dalla confusione e ritornassero al loro gioco preferito. Sacrificai secondi preziosi entrando nel bagno per controllare se aveva fatto un lavoro minuzioso sul telefono satellitare di Terri. Lo trovai ammaccato ma non a pezzi, quindi me lo ficcai in una tasca. Accanto al lavandino c'era una scatola di munizioni. Misi quattro proiettili nelle altre tasche. Fuori della stanza, in corridoio, guardai in direzione delle scale a nord, quindi schizzai nella direzione opposta, verso la camera 1242. Non volendo probabilmente che Danny avesse vittorie e denaro, Datura non lo aveva fornito di candele con recipienti di vetro gialli o rossi. Adesso che le schiere di nubi nere avevano invaso tutto il cielo, la sua stanza era un buco che puzzava di fuliggine, illuminato solo saltuariamente dagli sprazzi che scaturivano dalla natura in guerra con se stessa, pieno di un rapido ticchettio che faceva pensare a un'orda di topi in corsa. «Odd», sussurrò quando entrai, «grazie a Dio! Ero certo che tu fossi morto.» Accesi la torcia, gliela porsi perché la reggesse lui e, tenendo anch'io la voce bassa, replicai: «Perché non mi hai detto quanto è pazza?» «Mi ascolti mai? Ti ho detto che è più matta di un kamikaze sifilitico con la malattia della mucca pazza!» «Già. Il che è essere gentili, come dire che Hitler era un imbianchino che si immischiava di politica.» Lo scalpiccio di topi si rivelò la pioggia che entrava nella stanza da un vetro rotto della finestra e sbatteva contro una pila di mobili. Appoggiai il fucile contro la parete e passai a Danny il telecomando, che lui riconobbe. «È morta?» mi domandò.
«Non ci farei affidamento.» «E Malanno e Sconforto?» Non dovetti chiedere a chi si riferisse. «Uno di loro ha ricevuto un bel colpo, ma non credo che gli abbia causato un grosso danno.» «Quindi stanno per arrivare?» «Sicuri come le tasse.» «Dobbiamo squagliarcela.» «Ce la squagliamo», gli assicurai e quasi premetti il tasto bianco del telecomando. Al penultimo istante, il pollice già pronto, mi chiesi chi mi aveva detto che il tasto nero avrebbe fatto esplodere la bomba e quello bianco l'avrebbe disinnescata. Datura. 40 Datura, che fraternizzava con i Maiali Grigi di Haiti e osservava le cucitrici mentre venivano sacrificate e mangiate, mi aveva detto che il tasto nero faceva esplodere e quello bianco disinnescava la bomba. Per l'esperienza che avevo di lei, non si era dimostrata una fonte affidabile di fatti assodati e di verità nude e crude. Per di più, quella pazza non certo disponibile ad aiutare gli altri aveva fornito volontariamente quell'informazione quando le avevo domandato se il telecomando sul tavolo fosse quello che controllava la bomba. Non mi veniva in mente alcuna ragione per la quale avrebbe dovuto farlo. Un momento. Mi correggo. Dopotutto, poteva venirmene in mente una, che era machiavellica e crudele. Se, per qualche incredibile possibilità, avessi messo le mani sul telecomando, lei voleva programmarmi perché facessi saltare per aria Danny anziché salvarlo. «Che cosa?» chiese lui. «Dammi la torcia.» Mi misi dietro la sua sedia, accucciato, e studiai l'ordigno. Da quando lo avevo visto per la prima volta, il mio inconscio aveva avuto il tempo di rimuginare sul groviglio di fili colorati ed era arrivato allo zero più assoluto. Questo non si riflette necessariamente in modo negativo sul mio subconscio. Allo stesso tempo, aveva dovuto affrontare altri compiti importanti,
come fare un elenco di tutte le malattie che potevo beccarmi dopo che Datura mi aveva sputato il vino in faccia. Come in precedenza, cercai di dare una mossa al mio sesto senso seguendo i fili con la punta del dito. Dopo tre virgola settantacinque secondi, ammisi che era una tattica disperata senza speranza di portarmi da nessuna parte, tranne farmi accoppare. «Odd?» «Sono ancora qui. Ehi, Danny, facciamo il gioco dell'associazione di parole.» «Adesso?» «Dopo potremmo essere morti, allora quando potremmo giocarci? Accontentami. Mi aiuterà a rifletterci sopra attentamente. Io dirò qualcosa e tu mi dirai la prima cosa che ti verrà in mente.» «Roba da pazzi.» «Adesso cominciamo: nero e bianco.» «I tasti del pianoforte.» «Prova di nuovo. Nero e bianco.» «Notte e giorno.» «Nero e bianco.» «Sale e pepe.» «Nero e bianco.» «Bene e male.» Io dissi: «Bene». «Grazie.» «No, è la parola per la prossima associazione: bene.» «Dolore.» «Bene», ripetei. «Addio.» «Bene.» «Dio.» Dissi: «Male». «Datura», reagì lui all'istante. «Verità.» «Bene.» Gli gettai di nuovo addosso: «Datura». Immediatamente disse: «Bugiarda». «Il nostro intuito ci porta alla stessa conclusione», gli rivelai. «Quale conclusione?»
«Il bianco fa esplodere», spiegai, mettendo il pollice sul tasto nero. Essere Odd Thomas è spesso interessante, mai però si avvicina al divertimento di essere Harry Potter. Se io fossi Harry, con un pizzico di questo e un briciolo di quest'altro, borbottando una formula magica avrei lanciato un incantesimo del tipo non-esplodermi-in-faccia e tutto sarebbe andato a finire bene. Invece premetti il tasto nero e tutto parve andare a finire bene. «Che cosa è successo?» chiese Danny. «Non hai sentito il boom? Ascolta attentamente: potresti ancora sentirlo.» Feci passare le dita sotto i fili, le piegai a gancio, strinsi la mano a pugno e strappai via quel casino di fili colorati dall'ordigno. La livella da falegname formato ridotto si piegò su un fianco e la bolla si spostò sulla zona dell'esplosione. «Non sono morto», constatò Danny. «Nemmeno io.» Mi avvicinai alla catasta di mobili impilati alla rinfusa dal terremoto e recuperai il mio zainetto dal nascondiglio in cui lo avevo ficcato meno di un'ora prima. Dal suo interno presi il coltello da pesca e tagliai l'ultimo nastro adesivo che legava Danny alla sedia. Il chilo di esplosivo cadde a terra con un tonfo non più forte che se fosse stato prodotto da un blocco di argilla da plasmare. Le bombe al plastico possono essere fatte esplodere solo da una carica elettrica. Mentre Danny si alzava dalla sedia, rimisi il coltello nello zaino, spensi la torcia e me l'agganciai ancora una volta alla cintura. Libero dall'obbligo di rimuginare sul significato dei fili sulla bomba, il mio subconscio contava i secondi che stavano passando da quando ero fuggito dal casinò e non la smetteva con il suo tormentone: sbrigati, sbrigati, sbrigati! 41 Come se fosse esplosa la guerra fra il cielo e la terra, un altro bombardamento di fulmini colpì il deserto, creando forme di vetro nella sabbia, da qualche parte. Il tuono crepitò così forte che mi vibrarono i denti, come se stessi assorbendo gli accordi dai massicci altoparlanti a un concerto deathmetal e la pioggia entrava dalla finestra rotta con un ticchettio che sembra-
va provocato da battaglioni di topi. Guardando la tempesta, Danny sbottò: «Porca miseria!» Io dissi: «Qualche bastardo irresponsabile ha ucciso un serpente nero e lo ha appeso a un albero». «Serpente nero?» Dopo avergli passato il mio zainetto e aver afferrato il fucile, mi portai sulla soglia della porta aperta e controllai il corridoio. Le furie non erano ancora arrivate. Alle mie calcagna, Danny disse: «Ho le gambe in fiamme, dopo la camminata da Pico Mundo, ed è come se avessi dei coltelli conficcati nei fianchi. Non so per quanto resisterò». «Non andremo lontano. Una volta superato il ponte di corde e attraversata la sala con mille lance, sarà una passeggiata. Sii solo più rapido che puoi.» Non poteva essere rapido. La sua solita andatura ondulatoria era più accentuata, con la gamba destra che si piegava di continuo sotto di lui. Sebbene non fosse mai stato il tipo che si lamenta, sibilava di dolore a ogni passo. Se avessi progettato di portarlo direttamente fuori dal Panamint, non saremmo andati lontano prima che l'arpia e gli orchi ci raggiungessero e ci trascinassero giù. Lo portai verso nord lungo il corridoio fino alla rientranza degli ascensori e fui sollevato quando ci rifugiammo lì, dove non potevano vederci. Anche se detestavo deporre il fucile, avrei voluto avere il tempo di farmelo trapiantare nel braccio destro collegato tramite fili direttamente al mio sistema nervoso centrale, lo appoggiai al muro. Mentre facevo scorrere le due ante che avevo già aperto in precedenza, Danny sussurrò: «Che fai, hai intenzione di buttarmi giù nel pozzo dell'ascensore in modo che la mia figurina del centopiedi marziano divoratore di cervelli sia tutta tua?» Aperte le ante, rischiai un rapido movimento con la torcia per mostrargli la cabina vuota. «Niente luce, riscaldamento o acqua corrente, ma anche niente Datura.» «Ci nasconderemo qui?» «Tu ti nasconderai qui. Io li distrarrò e li porterò lontano.» «Mi troveranno in dodici secondi.» «No, non si fermeranno a pensare che la porta potrebbe essere stata aperta a mano. E non si aspetteranno che cerchiamo di nasconderci così vicino
al posto dove ti tenevano prigioniero.» «Perché è una cosa stupida.» «Esatto.» «E non si aspetteranno che siamo stupidi.» «Tombola.» «Perché non ci nascondiamo qui tutti e due?» «Perché questo sarebbe stupido.» «Entrambe le uova in un paniere.» Gli dissi: «Stai cominciando a prenderci gusto, compare». Nel mio zaino c'erano ancora tre bottiglie d'acqua da mezzo litro. Ne tenni una e gli passai le altre. Socchiudendo gli occhi nella luce scarsa, lesse: «Evian». «Se ti piace pensare così.» Gli diedi entrambe le barrette energetiche all'uvetta e noce di cocco. «Potresti resistere tre o quattro giorni, se fosse necessario.» «Tu tornerai prima.» «Se riesco a non farmi trovare da loro per qualche ora, penseranno che il piano è di farti guadagnare tempo per allontanarti al tuo passo. Cominceranno a preoccuparsi che porterai qui gli sbirri e taglieranno la corda in fretta.» Accettò diversi pacchetti sigillati in carta d'alluminio. «Che cosa sono?» «Salviette inumidite. Se non torno, sono morto. Aspetta due giorni per essere certo che la via sia sicura. Poi cerca di aprire la porta e arriva fino all'interstatale.» Entrò nell'ascensore, saggiandone con cautela la stabilità. «E... come faccio a pisciare?» «Nelle bottiglie vuote dell'acqua.» «Pensi a tutto.» «Già, ma poi non le riutilizzerei. Stai in silenzio e tranquillo come un morto, Danny. Perché altrimenti sei spacciato.» «Mi hai salvato la vita, Odd.» «Non ancora.» Gli diedi una delle torce e gli consigliai di non usarla nell'ascensore. La luce poteva filtrare all'esterno. Aveva bisogno di risparmiarla per le scale, nel caso dovesse andarsene per conto suo. Mentre spingevo le ante una contro l'altra, chiudendolo dentro, mi disse: «Ho deciso che non vorrei essere te, dopotutto». «Non sapevo che il furto di identità ti fosse mai passato per la mente.»
«Mi spiace davvero tanto», sussurrò attraverso la fessura che si assottigliava sempre di più. «Mi spiace dannatamente tanto.» «Amici per sempre», lo salutai. Ce l'eravamo detto per un po', quando avevamo dieci o undici anni. «Amici per sempre.» 42 Oltrepassata la camera 1242 con la sua bomba inesplosa e spostandomi dal corridoio principale in quello secondario, con addosso lo zainetto e tenendo in mano il fucile, progettavo come sopravvivere. Il desiderio di assicurarmi che Datura marcisse in prigione mi aveva dato una volontà di vivere più forte di quanto avessi avuto negli ultimi sei mesi. Mi aspettavo che si sarebbero separati e sarebbero ritornati al dodicesimo piano per le scale a nord e quelle a sud, per tagliarmi la strada prima che io potessi condurre fuori Danny. Se riuscivo a scendere anche solo due o tre piani, arrivando al decimo o al nono, e lasciavo che mi oltrepassassero, potevo poi ritornare alle scale e correre giù fino in fondo, uscire e allontanarmi per ritornare dopo un'ora o due con la polizia. La prima volta che ero entrato nella camera 1203 e avevo parlato con Datura lei aveva capito senza chiederlo che dovevo aver evitato le scale usando il pozzo di un ascensore. Nessun'altra strada poteva avermi portato al dodicesimo piano. Di conseguenza, anche se sapevano che non potevo portare giù Danny in quel modo, di tanto in tanto avrebbero ascoltato i vari pozzi per sentire se c'erano suoni o movimenti. Non potevo utilizzare di nuovo quel trucco. Arrivato all'ingresso delle scale a sud, trovai la porta mezzo aperta. Passai e mi trovai sul pianerottolo. Nessun rumore arrivava dalle rampe sottostanti. Strisciai giù un gradino alla volta... quattro, cinque... e mi fermai in ascolto. Ancora silenzio. L'odore strano, muschio-funghi-carne, non era più forte di prima, forse un po' più debole, ma non meno sgradevole. La pelle sulla collottola fece quella cosa raccapricciante che sa fare tanto bene. Alcuni dicono che è l'avvertimento dato da Dio che il diavolo è vicino, ma ho notato che succede anche quando mi servono cavolini di Bruxelles. Quale che fosse la fonte precisa della puzza, doveva venire dal guazzabuglio di rifiuti tossici lasciati dall'incendio, il che spiegava perché non lo avevo mai sentito prima di allora. Era il prodotto di un evento singolare,
ma non aveva una causa ultraterrena. Qualsiasi scienziato avrebbe potuto analizzarlo, rintracciarne le origini e fornirmi la composizione molecolare. Non avevo mai incontrato entità soprannaturali che segnalassero la propria presenza con l'odore. Le persone odorano, non i fantasmi. Eppure la mia collottola continuava a fare quella cosa anche in assenza di cavolini di Bruxelles. Dandomi impazienti consigli sul fatto che non c'era niente di minaccioso acquattato nella tromba delle scale, scesi rapidamente un altro gradino al buio, poi un altro, poiché non volevo accendere la torcia e quindi rivelare la mia presenza nel caso che Datura o uno dei suoi cavalli fosse da qualche parte sotto di me. Raggiunto il pianerottolo, scesi altri due scalini e vidi un pallido chiarore fiorire sulla parete all'undicesimo piano. Qualcuno stava salendo. Poteva essere solo uno o due livelli sotto di me, dato che la luce non si trasmetteva bene attorno agli angoli di centottanta gradi. Presi in considerazione l'idea di proseguire di corsa nella speranza di raggiungere l'undicesimo piano e schizzare fuori dalle scale alla velocità di una lepre prima di dare la possibilità a chi stava salendo di iniziare una nuova rampa e vedermi. Ma quella porta poteva essere chiusa e corrosa dal tempo e dall'incendio e impossibile da aprire. Oppure stridere sui cardini come una gallina spennata. La chiazza di luce sulla parete divenne più luminosa e più larga. Chiunque fosse, stava salendo in fretta. Udii il rumore dei passi. Avevo il fucile. In uno spazio limitato come la tromba delle scale, perfino io non potevo mancare il bersaglio. La necessità mi aveva spinto a prendere l'arma, ma non ero propenso a usarla. Il fucile sarebbe stata l'ultima risorsa, non la mia prima scelta. Inoltre, nel momento in cui premevo il grilletto, avrei segnalato che non avevo lasciato l'albergo. Allora avrebbero proseguito la caccia ancora più accanitamente. Più silenziosamente che potei, tornai indietro. Raggiunto il pianerottolo del dodicesimo piano continuai a salire nel buio, contando di arrivare fino al tredicesimo, ma arrivato al terzo gradino mi accorsi che il successivo era ricoperto di macerie. Insicuro di ciò che mi aspettava, temendo di inciampare e fare troppo rumore, ridiscesi i tre scalini appena saliti. La luce sulla parete del pianerottolo sottostante era molto intensa, poiché
adesso il fascio di luce era puntato direttamente contro di essa. Chi stava salendo doveva trovarsi solo a una rampa e mezzo di distanza; e mi avrebbe visto appena compiuta la svolta. Varcai la porta semiaperta, ritornando nel corridoio del dodicesimo piano. Nella luce grigiastra, vidi che le prime due stanze, quella alla mia sinistra e quella alla mia destra, avevano la porta chiusa. Non persi tempo nel provare ad aprirle, nel caso fossero chiuse a chiave. La seconda camera a destra era aperta. Lasciai il corridoio e mi infilai dietro la porta. Sembrava una suite. Ai lati della stanza dove mi trovavo, la luce del giorno ormai fioca filtrava attraverso delle porte comunicanti che erano aperte. Dirimpetto all'ingresso da cui ero appena entrato, due ante scorrevoli di vetro davano accesso a un balcone. Rovesci argentei di pioggia si infrangevano contro il grattacielo e il vento faceva tintinnare le ante nelle guide. Nel corridoio qualcuno (André o Robert) mentre varcava la porta delle scale la spalancò del tutto, facendola sbattere forte contro il fermo. La schiena incollata alla parete, trattenendo il respiro, lo udii oltrepassare la mia stanza. Un attimo dopo, la porta delle scale concluse il percorso a ritroso e si chiuse. Quel qualcuno si sarebbe diretto verso il corridoio principale e la 1242, sperando di inchiodarmi lì prima che premessi il tasto bianco per liberare Danny... e farci invece saltare per aria tutti e due, a pezzettini. Calcolai un margine di dieci, quindici secondi, abbastanza da essere sicuro che avesse lasciato il corridoio secondario. Poi avrei fatto una corsa verso le scale. Adesso che il pericolo era passato, non dovevo più preoccuparmi che qualcuno salisse da quella parte. Potevo usare la torcia, precipitarmi già due gradini alla volta, essere al pianterreno prima che uno di loro tornasse nella tromba delle scale e potesse udirmi. Due secondi dopo, dal corridoio principale, Datura urlò un'imprecazione che avrebbe fatto arrossire la Puttana di Babilonia. Doveva essere salita dalle scale a nord assieme a uno dei suoi assistenti. Arrivata alla camera 1242, aveva scoperto che Danny Jessup non era legato alla bomba né spiaccicato sulle pareti. 43
Nel casinò, durante il suo assalto verbale a Maryann Morris, Datura aveva dimostrato che la sua voce vellutata poteva diventare una garrota crudele quanto qualsiasi corda per strangolare. Adesso, nascosto dietro la porta d'ingresso della suite, l'ascoltai maledirmi a un volume allarmante, usando a volte parole che non sospettavo potessero applicarsi a un maschio e, a ogni secondo che passava, sentivo venire meno la possibilità di fuggire. Per quanto potesse essere più folle di una mucca pazza e sifilitica, per quel che ne sapevo, era talmente fuori di testa da essere più e peggio di un'assassina venditrice di porno il cui narcisismo superava quello dello stesso Narciso. Sembrava avere la forza degli elementi, lo stesso potere di terra, acqua, vento e fuoco. Mi balzò alla mente il nome di Kalì, la dea indù della morte, il lato oscuro della dea madre, la sola delle tante divinità che aveva conquistato il tempo. Con quattro braccia, violenta, insaziabile, divora tutti gli esseri e nei templi dove Kali è adorata gli idoli la rappresentano con una collana di teschi umani, danzante su un cadavere. Questa metaforica immagine mentale, la forma scura e scarna della selvaggia Kalì incarnata nella bionda e procace Datura, all'istante mi sembrò talmente giusta, talmente vera, che il mio senso di realtà parve spostarsi, approfondirsi. Ogni dettaglio della camera d'albergo in penombra, lo sfacelo attorno a me, il violento temporale oltre la porta a vetri del balcone furono messi a fuoco in modo più acuto e io sentii che in quel momento potevo vedere ancora più a fondo oltre la struttura molecolare di ogni cosa che mi circondava. Eppure, simultaneamente, con tale nuova chiarezza in tutto ciò che cadeva sotto la mia vista, percepii un mistero trascendentale che non avevo mai compreso prima, una rivelazione che avrebbe portato un mutamento, in attesa di essere accettata. Fui invaso da una sensazione di gelo non facilmente esprimibile, da un timore reverenziale che si avvicinava più alla reverenza che al timore, sebbene la paura ne facesse parte. Forse pensate che mi stia sforzando di descrivere la percezione intensa che sovente accompagna un rischio mortale. Mi sono ritrovato abbastanza spesso ad affrontare simili rischi per sapere che cosa si prova, ma questo incidente metafisico non era la stessa cosa. Come tutte le esperienze mistiche, suppongo, quando l'ineffabile sembra sul punto di essere messo in chiaro, il momento passa, non meno effimero di un sogno. Ma, dopo il suo passaggio, rimasi elettrificato, come se fossi
stato colpito da un tipo diverso di Taser progettato per energizzare la mente e costringerla a confrontarsi con una difficile verità. L'orrenda verità che mi trovavo davanti era che Datura, nonostante la sua follia, le sue ridicole eccentricità e l'ignoranza era un'avversaria molto più formidabile di quanto mi fossi reso conto. Quando si trattava di impegnarsi nella violenza estrema, aveva tante mani quanto Kalì e altrettanto avide, ma le mie due mani erano riluttanti. Il mio piano era stato o di scappare via dall'albergo per chiedere aiuto o, se non ci riuscivo, di non farmi trovare da quella donna e dai suoi due aiutanti abbastanza a lungo da convincerli che ero effettivamente fuggito e che loro stessi dovevano filarsela prima che io mandassi lì le autorità. Questo non era un piano d'azione, ma piuttosto un piano per evitarla. Nell'ascoltare le farneticazioni di Datura, a quanto pareva da qualche parte vicino la congiunzione dei corridoi (troppo vicino per stare tranquillo) mi resi conto che, mentre nella maggior parte delle persone la rabbia può essere un impedimento a pensare lucidamente, in lei acuiva i sensi e l'astuzia. E l'odio. Il suo talento per il male, soprattutto per il malvagio ramo del male che un tempo andava sotto il nome di perfidia, era talmente grande che sembrava dotarla di doni arcani che rivaleggiavano con il mio. Potevo persuadermi che Datura fosse in grado di annusare il sangue del suo nemico quando era ancora nelle vene, e seguirne l'odore per spillarglielo. Dal suo arrivo, avevo messo da parte il mio piano di precipitarmi verso le scale a nord. Fare una mossa mentre lei si attardava nelle vicinanze sembrava da suicidio. La tattica di evitare l'azione aveva grandi probabilità di non essere possibile. Eppure non ero ansioso di affrettare un confronto. Alla luce della mia nuova e più terrificante percezione di quella donna disturbata, cominciai a farmi forza per ciò che la sopravvivenza poteva richiedere da me. Mi venne in mente un altro fatto truce riguardo la divinità indù dalle quattro braccia che mi suggeriva di non sottovalutare Datura. Kalì aveva una sete per l'orrore talmente inestinguibile che una volta aveva decapitato se stessa per poter bere il proprio sangue che le sgorgava dal collo. Essendo una dea solo nella propria mente, Datura non sarebbe sopravvissuta alla decapitazione. Ma quando rammentai le sue turpi storie sui pianti dei bambini assassinati in una cantina di Savannah e il sacrifico della cucitrice a Port-au-Prince, che era parso così dilettevole nel suo raccon-
to, potei presumere che non fosse meno assetata di sangue di Kalì. E così rimasi dietro la porta, nelle ombre che spesso venivano cancellate dai lampi, ad ascoltarla imprecare, poi farneticare. Ben presto la sua voce si abbassò al punto che non riuscivo più a distinguere le parole, ma non c'era da sbagliarsi sulla loro insistenza, sulle cadenze frenetiche dettate dalla rabbia, dall'odio e dall'oscuro desiderio. Se André e Robert parlavano (o se osavano tentare), io non udivo le loro voci più profonde. Soltanto quella di lei. Nel grado della loro obbedienza e autocancellazione, leggevo le anime di due veri credenti, pronti a suicidarsi in massa bevendo succo di frutta avvelenato, com'era accaduto nel massacro di Jonestown. Quando si zittì, suppongo che avrei dovuto sentirmi sollevato, invece provai quella sensazione da cavolini di Bruxelles. Intensa. Mi ero lasciato andare stancamente contro la parete. Mi raddrizzai. Stretto con entrambe le mani, il fucile, che fino a quel momento non era parso niente più di un attrezzo, prese vita repentinamente, sonnacchioso ma vivo e pronto all'azione, come le armi da fuoco mi avevano sempre dato la sensazione. Come in passato, mi preoccupai del fatto che non avrei saputo controllare l'arma quando la crisi fosse arrivata. Grazie, mamma. Quando Datura smise di parlare, mi aspettai di udire del movimento, porte che venivano aperte e chiuse, qualche indicazione che avevano iniziato la ricerca. Seguì soltanto il silenzio. Il sibilo attutito della pioggia che batteva contro il balcone e l'occasionale brontolio del tuono erano stati fino ad allora solo un rumore di sottofondo. Ma, mentre ascoltavo attentamente se c'era attività nel corridoio, il temporale mi dava fastidio, come se fosse un cospiratore consenziente, alleato di Datura. Cercai di immaginare che cosa avrei fatto al suo posto, ma l'unica risposta razionale sembrava essere: andare via. Con Danny libero e tutti e due spariti, lei avrebbe dovuto aver voglia di svuotare i suoi conti in banca e dirigersi a tutta velocità verso il confine. Un comune psicopatico rinuncia, quando l'impresa diventa difficile, ma non Kalì, mangiatrice dei morti. Dovevano aver parcheggiato un veicolo o due all'albergo. Dopo aver rapito Danny, erano ritornati qui a piedi facendo un percorso complicato, per mettere alla prova il mio magnetismo psichico, ma non avevano motivo di andarsene a piedi invece che in auto, quando il divertimento fosse finito.
Forse si era preoccupata che, se Danny e io avessimo raggiunto il piano terra e fossimo usciti dal Panamint, avremmo trovato la loro auto e l'avremmo messa in moto facendo fare contatto ai fili, lasciandoli appiedati. Se era così, André o Robert, o la stessa Datura, potevano essere scesi per disattivare il loro veicolo o per fargli la guardia. La pioggia. L'incessante fruscio della pioggia. Un debole gemito del vento, che chiedeva di entrare dalla porta del balcone. Non fu un suono a mettermi in allerta. Invece, la minaccia si rivelò grazie a quell'odore di muschio, funghi e carne cruda. 44 Feci una smorfia sentendo quell'odore sottile, unico, che non suscitava un sano appetito. Poi qualcuno doveva aver fatto un passo o spostato il peso da un piede all'altro, perché udii il flebile ma secco scricchiolio di un pezzetto di macerie schiacciato sotto i piedi. Aperta per due terzi, la porta mi offriva un cuneo di spazio in cui stare nascosto tra il battente e la parete. Se fosse stata spinta per aprirla ulteriormente, sarebbe rimbalzata contro di me, rivelando la mia presenza. In altri edifici, le porte sono montate in modo che lo spazio, seppure minimo, fra lo stipite e il bordo del battente sul lato dei cardini consente di vedere chi sta sulla soglia. Questo telaio, invece, era più profondo del solito e la cornice della battuta così spessa da ostruire quel sottile spazio. Guardai il lato positivo, come avevo disperatamente bisogno di fare in quel momento: se io non vedevo lui, lui non vedeva me. Essendomi imbattuto in quell'odore inquietante solo in alcuni momenti sulle scale e durante la seconda visita al casinò, non lo avevo associato ad André e a Robert. Adesso mi resi conto che non potevo averlo individuato fra le pareti della camera 1203, dove pure avevo goduto della loro compagnia, perché la stucchevole fragranza delle candele lo aveva mascherato. Incorniciato dalle ampie ante scorrevoli che davano a nord, un albero capovolto di fulmini prese fuoco, il tronco nel cielo e i rami che si agitavano verso la terra. Un secondo albero si sovrappose al primo e un terzo al secondo: una foresta di luce dalla vita breve che si esauriva già mentre cresceva. Lui rimase sulla soglia talmente a lungo da farmi sospettare che non solo sapesse della mia presenza, ma conoscesse anche la mia esatta posizione e
che volesse giocare con me. Attimo dopo attimo, i miei nervi si tendevano più della cinghia di gomma sull'elica di un aeroplano di balsa in mano a un bambino. Ammonii me stesso di non precipitarmi in un'azione affrettata. Dopotutto, lui poteva anche andarsene. Il fato non è sempre di umore irascibile. A volte un uragano ruggisce contro una costa vulnerabile, poi vira lontano da terra. Non appena mi sentii rinfrancato da questo pensiero incoraggiante, lui si spostò dalla soglia ed entrò nella stanza, un movimento che, più che udire, intuii. Un fucile con l'impugnatura da pistola non è, per definizione, un'arma con cui si spara tenendo il calcio appoggiato alla spalla. Lo si tiene avanti, ma di fianco. Inizialmente, il battente della porta ancora non mi permise di vedere il mio inseguitore. Quando lui si spostò più avanti, avrei avuto bisogno del mantello che rende invisibili, che non avevo con me perché, purtroppo, continuavo a non essere Harry Potter. Quando il Capo Porter aveva usato un fucile simile per salvarmi dalla perdita di una gamba e dall'evirazione a opera di un coccodrillo, l'arma aveva avuto un brutto rinculo. Il Capo si era messo con i piedi ben divaricati, quello sinistro un po' più avanti del destro, le ginocchia leggermente piegate, per assorbire il contraccolpo, e nonostante questo aveva subito un bello scossone. Avanzando ulteriormente dentro la stanza fino a rivelare la propria identità, Robert non si rese conto della mia presenza. Quando fu nella linea del mio sguardo, io ero già uscito dalla sua. Anche se avesse voltato la testa per guardare ai lati, la sua visione periferica non mi avrebbe individuato, poiché mi trovavo alle sue spalle. Se l'istinto lo avesse avvertito e lui si fosse voltato, però, le ombre nelle quali mi trovavo non erano abbastanza scure da impedirgli di vedermi. Il buio non rivelava abbastanza dettagli per permettermi di identificarlo, però era grande più che massiccio, e questo escludeva André. Nell'agitato giardino della tempesta, altri lampi misero radici e il crepitio discordante del tuono fu il suono di un'intera foresta abbattuta. Continuò ad avanzare senza guardarsi intorno. Cominciai a pensare che fosse entrato non per cercare me, ma per qualche altro motivo. A giudicare dal suo comportamento, ancora più da sonnambulo del solito, era stato attratto dal richiamo del temporale. Si fermò davanti alla porta
del balcone. Osai pensare che, se quello spettacolo pirotecnico fosse continuato ancora per qualche minuto a quel ritmo sostenuto che si intensificava ulteriormente, distraendo Robert e coprendo i rumori che avrei potuto fare, potevo uscire dal mio nascondiglio, scivolare rapidamente nel corridoio senza metterlo in allarme, evitare il confronto con lui e correre alle scale, com'era la mia idea iniziale. Mentre mi spingevo avanti, con l'intenzione di sbirciare oltre il battente della porta per assicurarmi che Datura e André stessero cercando da qualche altra parte e che il corridoio fosse sicuro, la successiva scarica di fulmini sortì un effetto sbalorditivo che mi bloccò. Ogni lampo di luce rimbalzava su Robert e proiettava il suo riflesso spettrale nel vetro delle ante scorrevoli. Il suo volto riluceva pallido come una maschera kabuki, ma gli occhi erano ancora più bianchi, di un bianco acceso per il riflesso dei lampi. Il pensiero mi corse subito all'uomo-serpente ripescato dalle acque del tunnel, gli occhi arrovesciati all'interno nelle orbite. Altri tre lampi rivelarono ripetutamente un riflesso dagli occhi bianchi e io restai immobilizzato da un gelo che mi penetrava fin nel midollo, mentre Robert si voltava verso di me. 45 Deliberatamente, non con i riflessi rapidi di un'intenzione violenta, Robert si voltò verso di me. L'imperscrutabile messaggio luminoso del temporale non gli ravvivava più il volto, ma delineava la sua sagoma. Il cielo, grande galeone con mille vele nere, mandò un segnale dopo l'altro, come per catturare di nuovo la sua attenzione, e il tuono rimbombò. Distolti dai fulmini, i suoi occhi non splendevano più di un bianco lunare. Eppure... sebbene i suoi lineamenti fossero molto in ombra, il suo sguardo pareva ancora vagamente fosforescente, lattiginoso come quello di un uomo reso cieco dalla cataratta. Anche se non lo vedevo abbastanza bene da esserne certo, intuivo che i suoi occhi erano arrovesciati all'interno delle orbite, senza rivelare le iridi. Questo poteva essere un fremito di immaginazione dato dal gelo che si era impossessato di me. Avendo assunto la posizione copiata a memoria da Porter, puntai il fuci-
le contro di lui, mirando basso perché il rinculo poteva sollevare la canna. Senza badare a com'erano gli occhi di Robert, fossero bianchi come uova sode o di un tetro blu berillo iniettato di sangue come li avevo visti in precedenza, fui certo che non era semplicemente consapevole della mia presenza, ma che mi vedeva. Eppure il suo atteggiamento e la postura dalle spalle ingobbite suggeriva che vedermi non gli faceva ingranare la marcia del killer psicopatico. Se non confuso, appariva per lo meno distratto ed esausto. Cominciai a pensare che non fosse alla mia ricerca ma che aveva vagato fin qui per un altro scopo, oppure senza uno scopo. Avendomi trovato inavvertitamente, se ne stava lì in piedi come se gli desse fastidio doversi confrontare con me. Ancora più curioso: emise un lungo sospiro di stanchezza, con una sottile vena lamentosa che sembrava esprimere la sensazione di essere angariato. Per quanto potevo ricordare, quelli erano i primi suoni che avevo udito uscire dalle sue labbra: un sospiro, un lamento. Il suo inspiegabile malessere e la mia poca inclinazione a usare il fucile in assenza di un'evidente minaccia alla mia vita ci avevano portati a una bizzarra impasse che, solo due minuti prima, non mi sarei mai immaginato. Un sudore improvviso mi imperlò la fronte. La situazione non era sostenibile. Doveva pur accadere qualcosa. Le braccia gli ciondolavano lungo i fianchi. La luce intermittente del temporale che lo lambiva scivolava sulla forma di una pistola o un revolver nella mano destra. Quando si era voltato dalla finestra, Robert avrebbe potuto gettarsi verso di me, sparare rapidamente un colpo dopo l'altro, buttarsi a terra rotolando per evitare il calibro 12. Non avevo dubbi che fosse un assassino esperto, che conosceva la mosse giuste. Le possibilità di uccidermi sarebbero state molto più alte di quelle che avevo io di ferirlo. La pistola pendeva come un'ancora alla fine del braccio e lui fece due passi verso di me, non in modo minaccioso, ma quasi come se desiderasse supplicarmi di qualcosa. Quelli erano una brutta copia dei passi da cavallo che si addicevano al nome, attribuitogli da Datura. Mi preoccupai che dalla porta arrivasse André, con tutta l'irresistibile potenza della locomotiva a cui mi aveva fatto pensare inizialmente. Allora Robert avrebbe potuto scuotersi di dosso l'indecisione, o qualsiasi umore causasse la sua inattività. Loro due potevano sottopormi a un fuoco
incrociato. Ma non ero capace di far fuori un uomo che fino a quel momento non sembrava propenso a spararmi. Sebbene si fosse avvicinato, non riuscivo a vedere più chiaramente di prima la sua faccia dissoluta. Continuavo ad avere la snervante impressione che i suoi occhi fossero vetri appannati. Lui emise un altro suono, che dapprima scambiai per una domanda bofonchiata. Ma quando si ripeté assomigliò di più a un colpo soffocato di tosse. Alla fine la mano con la pistola si staccò dal fianco. Ebbi l'impressione che sollevasse l'arma non con intento mortale, ma inconsciamente, quasi come se avesse dimenticato che la teneva in mano. Dato ciò che sapevo di lui (la sua devozione a Datura, il suo gusto per il sangue, la sua evidente partecipazione nell'efferato assassinio del dottor Jessup) non potevo equivocare sulle sue intenzioni. Il rinculo mi fece ondeggiare. Lui prese il colpo a pallettoni da quel tronco che era, e non lasciò cadere la pistola e io pompai un altro proiettile nella camera di scoppio e sparai ancora, e le ante di vetro alle sue spalle si dissolsero perché dovevo aver tirato alto o da una parte, quindi pompai e sparai una terza volta, e lui barcollò all'indietro verso il vuoto dove prima c'era il vetro della porta. Anche se ancora non aveva lasciato cadere la sua arma, non l'aveva usata e io dubitavo che fosse necessario un quarto colpo. Almeno due dei tre lo avevano preso in pieno. Ma corsi verso di lui, non vedendo l'ora di farla finita, quasi come se fosse il fucile a controllare me e io lo volessi esaurire del tutto. Il quarto colpo lo fece volare fuori del balcone. Solo quando mi avvicinai alla porta in frantumi vidi ciò che la pioggia e la prospettiva mi avevano fino ad allora celato. Un terzo del balcone, sulla parte esterna, doveva essere crollato durante il terremoto, cinque anni prima, portando con sé la ringhiera. Se un filo di vita rimaneva in lui dopo i tre colpi andati a segno su quattro, la caduta dal dodicesimo piano gliel'avrebbe tolto. 46 Uccidere Robert mi lasciò stordito e con le ginocchia fiacche, ma non mi disgustò come mi sarei aspettato. Dopotutto, era Cheval Robert, non un
bravo marito o un padre gentile, o un pilastro della comunità. Inoltre, mi aveva dato la sensazione di desiderare che io facessi ciò che avevo fatto. Sembrava essere andato incontro alla morte come se fosse una grazia. Mentre indietreggiavo dalla porta del balcone e da un improvviso scroscio di pioggia che vi passò attraverso, udii Datura urlare da qualche punto lontano del dodicesimo piano. La sua voce aumentava come una sirena a mano a mano che lei si avvicinava di corsa. Se fossi balzato verso le scale, mi avrebbero di certo intercettato nel corridoio, prima che le raggiungessi. Lei e André erano sicuramente armati e pensare che avrebbero sofferto della stessa indecisione di Robert sfidava ogni logica. Rinunciai al soggiorno della suite optando per la camera da letto a destra della porta d'ingresso. Era più buia perché le finestre erano più piccole e perché le tende malridotte non erano ancora cadute dai sostegni. Non mi aspettavo di trovare un nascondiglio. Mi serviva solo guadagnare tempo per ricaricare. Avendo udito gli spari, sarebbero entrati nel soggiorno con precauzione. Molto probabilmente, come prima cosa avrebbero dato una sventagliata di colpi. Ora che uno dei due avesse osato esplorare le stanze adiacenti, sarei stato pronto a riceverli. O meglio, pronto quanto potevo esserlo. Avevo solo altre quattro munizioni, non un arsenale. Se la fortuna era dalla mia parte, loro non sapevano dove la ricerca aveva condotto Robert (ammesso che stesse cercando). Non potevano individuare, basandosi solo sul rumore, il punto preciso da cui erano provenuti gli spari. Se avessero deciso di perquisire tutte le stanze lungo il corridoio secondario, avrei un'opportunità di andarmene dal dodicesimo piano. Più vicina adesso, non dall'interno della suite, ma forse dalla intersezione fra i corridoi, Datura gridò il mio nome. Non mi stava proponendo di uscire a prendere un frullato nella locale mescita di bibite analcoliche, ma sembrava più eccitata che incazzata. La canna del fucile, la culatta e la camera di scoppio erano ancora caldi dagli spari precedenti. Appoggiandomi contro la parete, tremante al ricordo di Robert che precipitava all'indietro dal balcone, pescai la prima pallottola da una tasca dei jeans. Armeggiai nell'ombra, maldestro in quel compito che non mi era
familiare, cercando di inserirla nella culatta. «Mi senti, Odd Thomas?» gridò Datura. «Mi senti, amichetto mio?» La culatta continuava ad avere la meglio su di me, rifiutandosi di ricevere la pallottola, e cominciarono a tremarmi le mani, rendendo il compito più difficile. «Quella merda era ciò che sembrava?» sbraitò ancora. «Quello era un poltergeist, amichetto?» La situazione di stallo con Robert mi aveva ricoperto il volto di sudore. La voce di Datura trasformò il sudore in ghiaccio. «Era così sfrenato, un vero sballo!» aggiunse, da qualche parte del corridoio. Decidendo di caricare la culatta per ultima, cercai di inserire la pallottola attraverso quella che credevo la porta del caricatore. Avevo le dita sudate e tremanti. La pallottola mi sfuggì. La sentii rimbalzare sulla scarpa destra. «Mi hai giocato un tiro, Odd Thomas?» mi chiese Datura. «Mi hai fatto assillare la vecchia Maryann fino a farla scoppiare?» Non sapeva di Testa Rasata. C'era un po' di giustizia nel lasciarle credere che lo spirito di una cameriera carina-ma-non-abbastanza l'avesse spuntata su di lei. Acquattato nel buio, tastando il pavimento attorno a me, temevo che la pallottola fosse rotolata troppo lontano e che avrei dovuto usare la pila per trovarla. Mi servivano tutte e quattro le munizioni. Poi la individuai nel giro di pochi secondi e mi lasciai quasi sfuggire un gemito di sollievo. «Voglio un bis!» gridò di nuovo Datura. Rimanendo acquattato, il fucile appoggiato alle cosce, cercai di nuovo di riempire il caricatore, girando la pallottola prima in un verso, poi nell'altro, ma non entrava nella porta del caricatore, se era la porta. Il compito sembrava facile, molto più che girare una frittata senza farla cadere, ma non per uno che non avendo dimestichezza con le armi riuscisse a compierlo al buio. Mi serviva la luce. «Stuzzichiamo di nuovo la stupida troia morta!» Alla finestra, scansai la tenda. «Ma questa volta ti terrò al guinzaglio, amichetto!» Il pomeriggio aveva ancora una o due ore di luce, ma il filtro del temporale proiettava un falso crepuscolo sul deserto inzuppato. Ero in grado di vedere abbastanza bene per esaminare il fucile. Presi un'altra pallottola dalla tasca. La provai. Niente.
La misi sul davanzale, ne provai una terza. Davanti a un altro rifiuto, provai la quarta. «Tu e Danny l'Imbranato non uscirete di qui. Mi senti? Non c'è modo di uscire.» Le munizioni che avevo trovato sul ripiano del bagno, vicino al lavandino, erano evidentemente per un'altra arma. A tutti gli effetti, quello non poteva più essere considerato un fucile, ma solo uno stravagante randello. Ero nel fatidico fiume di guai non solo senza la pagaia, ma anche senza la barca. 47 Ero solito pensare che un giorno mi sarebbe piaciuto lavorare nel commercio al dettaglio di pneumatici. Avevo trascorso un po' di tempo a girellare attorno al Tire World, laggiù vicino al centro commerciale sulla Green Moon Road, e tutti lì dentro mi sembravano rilassati e contenti. Chi si occupa di pneumatici, alla fine della giornata di lavoro non si chiede se ha realizzato qualcosa di significativo. Si accolgono clienti con le gomme consumate che se ne vanno via rombando su belle ruote nuove. Oggi la mobilità è un bene necessario e ci si sente limitati nello spirito quando non ci si può spostare da un luogo all'altro. Fornire pneumatici non solo è un'attività redditizia ma placa anche le anime in pena. Anche se vendere pneumatici non comporta trattative accanite come con le transazioni immobiliari o il commercio internazionale di armi, mi preoccupavo che il settore vendite di quell'attività risultasse per me troppo snervante. Se l'aspetto soprannaturale della mia vita non avesse comportato niente di più stressante che l'interazione quotidiana con Elvis, vendere pneumatici avrebbe avuto senso, ma, come avete visto, il figlio preferito di Memphis ne è soltanto la metà. Prima di andare al Panamint, immaginavo che alla fine sarei tornato a lavorare per Terri Stambaugh. Se i fornelli erano troppo impegnativi per i miei nervi, oltre a tutto il resto che bolliva perpetuamente in pentola, avrei potuto cedere al richiamo degli pneumatici, non come venditore ma installandoli. In quel giorno di tempesta nel deserto, però, cambiarono molte cose per me. Dobbiamo avere le nostre mete, i nostri sogni, e dobbiamo impegnarci per realizzarli. Non siamo dei, però; non abbiamo il potere di plasmare o-
gni aspetto del futuro. E il percorso che il mondo traccia per noi ci insegna l'umiltà, se siamo disposti a imparare. In piedi nella stanza in rovina di un albergo in rovina, mentre contemplavo un fucile inutile e ascoltavo una pazza assassina assicurarmi che era lei a decidere il mio destino, rimasto senza le barrette energetiche all'uvetta e al cocco, mi sentivo umiliato, va bene. Magari non umiliato quanto Willy il Coyote quando si ritrova spiaccicato sotto lo stesso masso con cui intendeva schiacciare Beep Beep, ma piuttosto umiliato. Lei gridò: «Lo sai perché non c'è modo di uscire, amichetto?» Non indagai, fiducioso che me lo avrebbe detto. «Perché ti conosco. So tutto di te. So che funziona nei due sensi.» Quest'affermazione non aveva un significato per me, al momento, ma non era più sconcertante di un altro centinaio di cose che aveva detto, quindi non dedicai tanti sforzi alla traduzione. Mi chiedevo quando avrebbe smesso di starnazzare e cominciasse a cercarmi. Magari André era già strisciato nella suite e la stava esaminando, e i berci di lei nel corridoio dovevano solo farmi credere che l'ascia non stava già calando. Come se mi avesse letto nella mente, Datura disse: «Non dovrò venire a cercarti, vero, Odd?» Dopo aver deposto il fucile a terra, mi strofinai il viso con le mani e me le asciugai sui jeans. Mi sentivo addosso il sudiciume di una settimana, e non c'era speranza di un bagno domenicale. Mi ero sempre aspettato di morire pulito. Nel mio sogno, quando apro quella porta bianca a riquadri e mi busco il paletto in gola, indosso una maglietta pulita, jeans stirati e biancheria fresca di bucato. «Non sperare che rischi di farmi staccare la testa con uno sparo per cercarti», gridò ancora. Considerato tutti i casini in cui mi vado a cacciare, non so perché mi sono sempre aspettato di morire pulito. Adesso che ci pensavo, mi sembrava un'illusione. Freud se la sarebbe spassata alla grande ad analizzare il mio complesso di dover-morire-pulito. Ma Freud era un somaro. «Magnetismo psichico!» sbraitò, ottenendo da me maggiore attenzione di quanta gliene avessi concessa ultimamente. «Il magnetismo psichico funziona nei due sensi, amichetto!» Non ero su di giri nemmeno un po', ma a quelle parole lo fui ancor meno.
Quando ho in mente un bersaglio specifico, posso andare in giro a casaccio e il mio magnetismo psichico spesso mi porta da chi sto cercando; ma a volte, quando penso intensamente a un'altra persona però non la cerco attivamente, si mette in moto lo stesso meccanismo e quella persona è spinta verso di me, in modo del tutto inconsapevole. Quando il mio MP funziona alla rovescia, senza la mia intenzione consapevole, sono senza controllo... e vulnerabile alle brutte sorprese. Di tutte le cose che Danny poteva aver detto a Datura su di me, questa era probabilmente la più pericolosa, adesso che lei la sapeva. In precedenza, ogni volta che un cattivo si era ritrovato ad arrivarmi vicino in virtù del magnetismo psichico, ne era stato sorpreso quanto me. Il che almeno ci metteva su un piede di parità. Invece di cercare furiosamente di stanza in stanza, di piano in piano, Datura aveva intenzione di rimanere vigile ma calma, di rendersi recettiva al richiamo della mia aura, o di qualunque cosa che esercita questa attrazione paranormale. Lei e André potevano tenere d'occhio le scale, controllare di tanto in tanto i pozzi degli ascensori per sentire se c'erano dei rumori, e aspettare finché lei non si fosse trovata al mio fianco (o alle mie spalle), attratta verso di me in virtù del fatto che, come nella canzone di Willie Nelson, lei era always on my mind, sempre nella mia mente. Non importa quanto scaltro fossi stato nel trovare un modo per uscire dall'albergo, prima di ritornare libero l'avrei probabilmente incontrata. Era un po' come il destino. Immaginate di correre a piedi nudi in un giorno d'estate, spensierati come fanciulli, e il vostro piede va a finire sopra una vecchia asse e uno spuntone di quindici centimetri si conficca nel vostro arco plantare, penetrando fino al collo del piede. Non occorre cancellare i vostri piani e cercare un dottore. Starete bene se semplicemente non penserete a quella punta affilata e arrugginita che vi sporge dal piede. State giocando a golf e la vostra palla finisce nei boschi. Nel recuperarla, un serpente a sonagli vi morde la mano. Non preoccupatevi a chiamare il 911 con il cellulare. Potete finire la partita con compostezza, se semplicemente vi concentrate sul gioco e dimenticate tutto ciò che riguarda quel seccante rettile. Non importa quante birre avete consumato, confido che abbiate colto il mio punto di vista. Datura era uno spuntone nel mio piede, un serpente con i denti conficcati nella mia mano. Cercare di non pensare a quella donna, in tali circostanze, era come stare in una stanza con un lottatore di sumo
tutto nudo e cercare di non pensare a lui. Per lo meno aveva rivelato le sue intenzioni. Adesso io sapevo che lei sapeva del magnetismo psichico al contrario. Poteva capitarmi addosso quando meno me lo aspettavo, ma non sarei stato colto del tutto di sorpresa quando mi avesse decapitato e avesse bevuto il mio sangue. Aveva smesso di sbraitare. Aspettai tesissimo, snervato dal silenzio. Non pensare a lei era stato più facile quando berciava che quando stava zitta. Un tintinnio e uno scroscio di pioggia alla finestra. Il tuono. Una trenodia del vento. Ozzie Boone, mio mentore e uomo di lettere, avrebbe apprezzato questa parola. Trenodia: epicedio, lamento, canto funebre. Mentre giocavo a rimpiattino con una pazza in un albergo distrutto dal fuoco, molto probabilmente Ozzie se ne stava seduto nel suo studio accogliente, sorbendo una cioccolata calda, mordicchiando dolcetti al pecan, intento a scrivere il primo romanzo della sua nuova serie su un detective che sa anche comunicare con gli animali da compagnia. Magari l'avrebbe intitolato Trenodia per un criceto. Questa trenodia, naturalmente, sarebbe stata per Robert: pieno di piombo, sparato e stroncato, dodici piani sotto. Dopo un po', controllai il quadrante luminoso del mio orologio. Lo consultai a intervalli regolari finché trascorse un quarto d'ora. Non ero entusiasta di ritornare nel corridoio. D'altra parte, non mi piaceva nemmeno all'idea di rimanere dov'ero. Oltre ai Kleenex, la bottiglia d'acqua e qualche altro oggetto di nessun aiuto per un uomo nella mia situazione, nel mio zainetto c'era il coltello da pesca. La lama più affilata non poteva competere con un fucile a canna corta, ammesso che lei ne avesse uno, ma era meglio attaccarla con quello che con un pacchetto di Kleenex. Non sarei riuscito a tagliare a fette nessuno, nemmeno Datura. Usare un'arma da fuoco è avvilente, ma ti permettere di uccidere a una certa distanza. Qualsiasi pistola o fucile intimorisce meno di un coltello. Ucciderla intimamente, standole vicinissimo, a tu per tu, il suo sangue che sgorga e scivola giù per l'impugnatura: questo avrebbe richiesto un Odd Thomas diverso, proveniente da una dimensione parallela, uno che fosse più crudele di me e meno preoccupato per la pulizia. A mani nude, armato solo della determinazione, alla fine ritornai nel
soggiorno della suite. Niente Datura. Il corridoio (dove lei si era aggirata poco prima, sbraitando) era deserto. I colpi di fucile l'avevano fatta arrivare di corsa dall'estremità settentrionale dell'edificio. Molto probabilmente stava ispezionando le scale da quella parte e vi era ritornata. Guardai verso le scale a sud, ma se André mi aspettava al varco da qualche parte, doveva trovarsi proprio lì. Io potevo avere la determinazione, ma André aveva il peso. E di certo, se facevamo a cazzotti, mi avrebbe ridotto come un pacchetto di salatini dopo che li aveva sbriciolati per metterli nella minestra. Lei non conosceva la mia posizione quando era rimasta lì a berciare, non sapeva con certezza se potevo sentirla. Però non mi aveva mentito sulle sue intenzioni: non cercare, limitarsi ad avere pazienza, contare su un'agghiacciante sorta di fato. 48 Con le scale e i pozzi degli ascensori non utilizzabili, avevo soltanto le risorse che offriva il dodicesimo piano. Pensai al chilo di gelignite, o come cavolo la chiamavano a quel tempo. Una quantità di esplosivo che poteva ridurre una casa di grandi dimensioni a un bastoncino di fiammifero doveva essere di qualche utilità per un giovane disperato come lo ero io. Sebbene non avessi ricevuto alcun addestramento nel maneggiare gli esplosivi, avevo il beneficio delle mie intuizioni paranormali. Sì, il mio dono mi aveva cacciato in questo pasticcio, però, se non mi ci ficcava ancora più a fondo, poteva tirarmene fuori. Inoltre avevo lo spirito positivo tutto americano che non si dovrebbe mai sottovalutare. Secondo la storia che avevo appreso dai film, Alexander Graham Bell, gingillandosi con fili e lattine, aveva inventato il telefono, con l'aiuto del suo assistente Watson che era anche un socio di Sherlock Holmes, e aveva ottenuto grande successo dopo aver sopportato per novanta minuti il disprezzo e il rifiuto di uomini inferiori a lui. Superando il disprezzo e il rifiuto di una serie incredibilmente simile di uomini inferiori a lui, Thomas Edison, altro grande americano, aveva inventato, fra le altre cose, la lampadina elettrica, il fonografo, la prima macchina da presa sonora e la pila alcalina, pure quello in novanta minuti, e
assomigliava a Spencer Tracy. Quando aveva la mia età, Tom Edison assomigliava a Mickey Rooney, aveva inventato un bel numero di aggeggi ingegnosi e aveva già esibito la fiducia in sé necessaria a ignorare il negativismo di chi gli diceva sempre di no. Edison, Mickey Rooney e io eravamo tutti americani, quindi c'era motivo di credere che studiando i componenti della bomba ormai smantellata potevo mettere insieme alla meglio un'arma utile. Inoltre, non vedevo altre possibilità. Sgattaiolai lungo il corridoio principale e mi intrufolai nella camera 1242, dove avevano tenuto prigioniero Danny, accesi la mia torcia e scoprii che Datura aveva portato via il pacchetto con l'esplosivo. Forse non voleva che cadesse nelle mie mani, oppure aveva in mente di usarlo, o magari lo voleva tenere solo per motivi sentimentali. Non vedevo alcun sano scopo per scervellarmi sull'uso che poteva fare di una bomba, quindi spensi la torcia e mi avvicinai alla finestra. Al pallido lampione del giorno che stava svanendo, esaminai il telefono di Terri, che Datura aveva sbatacchiato contro il ripiano del bagno. Quando lo aprii, lo schermo si illuminò. Mi sarei rincuorato se fosse comparso un logo, un'immagine riconoscibile, o dei qualunque. Invece c'erano solo delle chiazze irregolari gialle e blu. Composi sette cifre, il numero del cellulare del Capo, ma non apparvero sullo schermo. Premetti: INVIA e ascoltai. Niente. Se fossi vissuto un secolo prima, avrei armeggiato con pezzetti di questo e di quello finché, ottimisticamente, avrei messo insieme un accrocco per comunicare, ma le cose erano molto più complicate ai nostri tempi. Perfino Edison non avrebbe potuto, lì per lì, rabberciare una nuova scheda a microchip. Deluso dalla camera 1242, ritornai nel corridoio. Dalle stanze aperte penetrava molta meno luce rispetto a mezz'ora prima. Il corridoio sarebbe diventato buio almeno un'ora prima del crepuscolo. Sebbene perseguitato dalla raccapricciante sensazione di essere osservato, anche se la visibilità era talmente scarsa che non potevo liquidare la fifa come una cosa infondata, evitai di usare la torcia finché mi trovavo lì. André e Datura avevano le pistole; la luce mi avrebbe reso un facile bersaglio. Dentro ogni stanza che esploravo, una volta chiusa la porta alle mie spalle, mi sentivo abbastanza al sicuro da accenderla. Alcuni spazi li avevo già scandagliati in precedenza, quando cercavo un nascondiglio per Danny. Non avevo trovato ciò che allora cercavo e non trovai ciò che cercavo a-
desso. Giù nel profondo, in quell'angolino del cuore tanto accogliente, dove persiste la credenza nei miracoli anche nei momenti più bui, mi aspettavo di inciampare in una valigia nella quale era stata infilata una pistola carica da un cliente dell'albergo da tempo defunto. Anche se un'arma da fuoco sarebbe stata utile, avrei preferito scoprire un montacarichi isolato dalla serie degli ascensori destinati al pubblico, anche uno di quelli piccolini che servono direttamente le camere, con cui arrivare alla cucina del pianterreno. Alla fine scoprii un ripostiglio di servizio profondo circa tre metri e largo più di quattro. Negli scaffali c'erano vari tipi di detersivo e disinfettanti, confezioni di saponette per i clienti e lampadine di scorta. Aspirapolvere, secchi e spazzoloni erano accatastati disordinatamente sul pavimento. L'impianto antincendio a pioggia che altrove aveva fatto cilecca qui sembrava aver funzionato più che bene, o forse era scoppiata una conduttura dell'acqua. Parte del soffitto era crollato e festoni di pannelli del controsoffitto, evidentemente un tempo fradici d'acqua, penzolavano nella stanza dal ciglio del buco. Feci un rapido inventario degli articoli sugli scaffali. Candeggina, ammoniaca e altri prodotti comuni usati nelle case possono essere combinati in modo da ottenere esplosivi, anestetici, agenti ustionanti, bombe fumogene e gas velenosi. Purtroppo, io non conoscevo alcuna di quelle formule. Considerando che mi ritrovo spesso in un mare di guai e per natura non sono una macchina di morte, dovrei essere più diligente nell'educarmi nell'arte della distruzione e dell'assassinio. Internet fornisce sull'argomento tante e tali informazioni per gli autodidatti più zelanti. Di questi tempi, serie università offrono corsi se non interi programmi sulla filosofia dell'anarchia e sulle sue applicazioni pratiche. Quando si tratta di dedicarmi a queste attività, ammetto di essere uno scansafatiche. Preferisco perfezionare la pastella delle mie frittelle che imparare a memoria formule per non so quante varietà di gas nervino. Preferisco leggere un romanzo di Ozzie Boone che trascorrere ore a esercitarmi a centrare il cuore con un colpo solo, usando un pugnale e un manichino. Non ho mai sostenuto di essere perfetto. Nella parte del soffitto che non era crollato, una botola attirò la mia attenzione. Quando afferrai la corda penzolante dell'impugnatura, la resistente chiusura a molla cigolò, gemette, ma si aprì e una scala a pioli retrattile si allungò verso il basso dal retro dello sportello. Mi arrampicai fino in cima e la torcia rivelò uno spazio in cui si poteva
stare carponi, alto meno di un metro e mezzo, tra il dodicesimo e il tredicesimo piano. Era un labirinto di tubi in rame e in PVC, condotti elettrici e da un'attrezzatura che serviva per il riscaldamento, la ventilazione e l'aria condizionata. Potevo esplorare quello spazio oppure ridiscendere per la scala e bere un cocktail di candeggina e ammoniaca. Dato che non avevo fette di lime fresco, mi intrufolai in quello spazio, tirai su la scala e chiusi la botola dietro di me. 49 Narra la leggenda che tutti gli elefanti africani, nel rendersi conto che stanno morendo, si dirigono allo stesso luogo, una necropoli non ancora scoperta dall'uomo, nel folto di una giungla primordiale, dove si trova una montagna di ossa e d'avorio. Fra il dodicesimo e il tredicesimo piano del Panamint Resort and Spa, scoprii un cimitero equivalente a quello degli elefanti, per i ratti. Non incontrai nemmeno un esemplare vivo, ma ne trovai almeno un centinaio che aveva lasciato il mondo per il formaggio eterno. Erano morti per lo più a gruppetti di tre o quattro, ma ne trovai una ventina accatastati. Sospettai che fossero soffocati per il fumo che aveva invaso quello spazio la notte della catastrofe. Dopo cinque anni, non rimanevano altro che teschi, ossa, pezzetti di pelle con il pelo attaccato e alcune occasionali code fossilizzate. Fino a quella scoperta, non avevo immaginato di essere tanto sensibile da trovare un che di malinconico nelle carcasse dei topi. La repentina conclusione della loro vita tutta di corsa, il collasso dei loro sogni da far tremare i baffi di trovare ricchi avanzi di cibo portato dal servizio in camera, la fine prematura delle loro sedute di mutua pulizia e delle calde notti di frenetica copulazione erano considerazioni tristi. Quell'ossario di ratti, non meno di un cimitero degli elefanti, parlava della natura transitoria di tutte le cose. Voglio dire, non è che ho pianto sul loro destino. Non ho nemmeno sentito un nodo alla gola. Essendo stato per gran parte della vita un fan di Topolino, però, ero comprensibilmente colpito da quell'apocalisse topesca. I residui del fumo ricoprivano buona parte delle superfici, ma non notai danni diretti causati dall'incendio. Le fiamme avevano risparmiato dei piani, viaggiando lungo i condotti costruiti impropriamente, e quello spazio
intermedio si era salvato, così come non erano divampate al dodicesimo piano. Alto quasi un metro e mezzo, quel regno celato tra due piani non mi costringeva a strisciare. Lo percorsi stando chinato, dapprima non sapendo bene che cosa speravo di trovare, ma alla fine arrivando a rendermi conto che i condotti verticali, che avevano permesso al fuoco di salire attraverso la struttura, a me potevano permettere di scendere. La quantità di attrezzature mi strabiliò. Poiché il termostato di ogni camera può essere regolato in modo indipendente da quello di tutte le altre, ognuna di esse è riscaldata e rinfrescata da un proprio elemento a ventilazione forzata. Ognuno di questi elementi è connesso alle diramazioni provenienti dal sistema a quattro tubature che fa circolare acqua super raffreddata e super riscaldata per tutto l'edificio. Questi elementi, forniti di pompe, umidificatori e scarichi antiallagamento, creavano un labirinto geometrico che ricordava le superfici ricoperte di macchinari delle astronavi enormi di Guerre Stellari, attraverso i cui canyon i guerrieri spaziali lottano uno contro l'altro. Invece di guerrieri spaziali, vidi ragni e vaste ragnatele, complesse come i disegni a spirale delle galassie, una lattina vuota di soda lasciata da qualche addetto alle riparazioni, qui e là contenitori di sandwich da fast-food leccati fino all'ultima briciola, prima di individuare uno dei condotti che poteva costituire la mia via di fuga dal Panamint. Il pozzo quadrato con i lati di un metro e mezzo, dal rivestimento parafuoco in materiale metallico, continuava per quattro piani sopra di me. Sotto, scompariva nell'oscurità che la mia torcia non era in grado di scandagliare del tutto. Un camino talmente spazioso avrebbe costituito un'autostrada verticale eccezionale, utilissima per me, se non per tutti i tubi e le condutture che occupavano tre pareti e mezzo. Assicurata contro la mezza parete libera, c'era una scala dotata non di semplici pioli, ma di gradini larghi una decina di centimetri, che fornivano un sostegno più sicuro. Inoltre, non correva vicino ai pozzi degli ascensori. Se Datura o André avessero cercato di sentire dei rumori provenire da quella zona, non mi avrebbero udito mentre ero impegnato nella mia discesa. Altri punti d'appoggio e anelli d'acciaio a cui assicurare i moschettoni delle imbracature di sicurezza luccicavano fra i tubi e le condutture, sulle altre tre pareti. Fissata alla sommità dell'edificio, un cavo di nylon spesso quanto un dito
(del tipo usato dagli alpinisti) penzolava libera al centro del pozzo. Nodi belli grossi, distanziati di una trentina di centimetri, potevano servire come appigli d'emergenza. Sembrava essere stato sostituito dopo l'incendio, forse dalle squadre di soccorso. Ne dedussi, forse non correttamente, che se uno, disgraziatamente, faceva un tuffo, nonostante i generosi gradini di cui era fornita la scala e i vari punti di appoggio distribuiti un po' dappertutto, la corda che scendeva perpendicolarmente costituiva una cima di salvataggio da afferrare in caduta libera. Anche se ho meno geni da scimmia di quanti ne richiedesse la situazione, non avevo alternative se non utilizzarli al meglio. Altrimenti, potevo aspettare che l'astronave ammiraglia mi prendesse a bordo trasportandomi con i suoi raggi e un giorno mi avrebbero scoperto lì, tutto ossa e jeans, nel cimitero dei ratti. Il fascio di luce della torcia si era affievolito. Cambiai le pile con quelle di scorta che tenevo nello zainetto. Usando il bracciale di velcro da speleologo, l'assicurai all'avambraccio sinistro. Misi in una tasca il coltello da pesca chiuso. Bevvi mezza bottiglia d'acqua e, pensando a quelle che avevo lasciato a Danny, mi chiesi come se la stesse cavando. Gli spari dovevano averlo spaventato. Probabilmente mi credeva morto. Forse lo ero, e ancora non lo sapevo. Mi chiesi se avessi bisogno di fare pipì. No. Incapace di trovare ulteriori motivi per rimandare, lasciai lo zainetto e mi infilai nel condotto verticale. 50 Su un canale satellitare che credo si chiami: STRONZATE CHE NESSUN ALTRO MOSTRERÀ ALLA TV, ho visto una volta dei vecchissimi telefilm con avventurieri che scendono al centro della terra e scoprono una civiltà sotterranea. È un impero del male, naturalmente. L'imperatore assomiglia a Ming lo Spietato di quelle fiere dell'inverosimile che erano le storie di Flash Gordon, e ha intenzione di muovere guerra al mondo di superficie e conquistarlo non appena metterà a punto il raggio della morte. Oppure quando le sue unghie immense diventeranno abbastanza lunghe da essere adatte al monarca di un intero pianeta, la prima
che gli riuscirà. Questo mondo sotterraneo è popolato di cattivoni e furfanti, ma anche da diversi tipi di mutanti, donne dai copricapi con le corna e naturalmente dinosauri. Tale capolavoro era stato girato decenni prima che inventassero l'animazione al computer e i dinosauri non erano modelli di argilla ripresi con la tecnica della stop-motion, ma iguana. Protuberanze di gomma erano state incollate alle iguana perché apparissero più spaventose e simili ai dinosauri, ma avevano semplicemente l'aspetto di iguana in imbarazzo. Scendendo il condotto verticale, posando prudentemente un piede dopo l'altro sui gradini, ripassai la trama di quei vecchi telefilm, concentrandomi sugli assurdi baffi dell'imperatore, sui mutanti che assomigliavano sospettosamente a nani con copricapi di gomma simil-serpente e pantaloni di pelle, sui frammenti di battute che ricordavo dette dall'eroe, contrassegnate da un'arguzia scoppiettante come un formaggio molle, e sui quegli iguanasauri pacchiani e ridicoli. La mia mente continuava a vagare verso Datura, quel sicuro spunzone conficcato nel piede: verso Datura, verso il magnetismo psichico alla rovescia, verso quanto sarebbe stato sgradevole quando lei mi avrebbe sbudellato e avrebbe pescato il suo amuleto dal mio stomaco. Niente di buono. L'aria nel condotto di servizio era diversa da quella che puzzava di fuliggine e di sostanze tossiche nel resto dell'albergo. Stantia, umida, odorosa di zolfo e di muffa, prendeva corpo a mano a mano che scendevo, fino a sembrare abbastanza densa da poterla bere. Di tanto in tanto incontravo condotti orizzontali e da alcuni di questi provenivano correnti d'aria che avevano un odore diverso, non migliore di quello dal quale ero avvolto. Due volte mi vennero i conati. In entrambi i casi, dovetti fermarmi per reprimere lo stimolo a vomitare. La puzza, le dimensioni claustrofobiche di quel camino, la traccia di prodotti chimici e spore di muffa, tutto l'insieme mi provocò giramenti di testa dopo aver percorso soltanto quattro piani. Anche se sapevo che la mia immaginazione stava prendendo il sopravvento, mi chiesi potevano esserci essere un paio di cadaveri (umani, non di ratti) sul fondo, che le squadre di soccorso e quelle di ricerca non avevano scoperto dopo l'incendio e che ora riposavano in una poltiglia decomposta. Più scendevo, più ero deciso a non puntare la luce verso il basso, per paura di ciò che avrei visto alla fine: non solo i cadaveri scomposti, ma una figura ghignante che si ergeva sopra di loro.
Le rappresentazioni di Kalì la mostrano sempre nuda, sfrontata. Nel particolare idolo chiamato jagrata, è scarna e molto alta. Dalla sua bocca aperta sporgono due zanne e una lingua lunga. Irradia una bellezza terribile, perversamente affascinante. Ogni due piani, passavo attraverso un altro spazio orizzontale dove si poteva stare accucciati. A ognuna di queste intersezioni, avrei potuto abbandonare la scala, poi risalirci; invece mi ritrovavo a stringere la corda, usando i nodi come impugnature, e ritornavo ai gradini quando ricomparivano. Considerate le vertigini e la nausea incipiente, usare la corda mi pareva spericolato. La usai comunque. Raffigurata nei suoi templi, Kalì tiene un capestro in una mano e un bastone sormontato da un teschio in un'altra. Con la terza mano regge una spada, con la quarta una testa mozzata. Mi parve di udire del movimento sotto di me. Mi fermai, ma poi mi dissi che il rumore doveva essere solo l'eco del mio respiro, e continuai. I numeri sulla parete identificavano ogni piano, anche quando a quel livello non esisteva un'apertura da cui passare. Mentre raggiungevo il secondo piano, immersi il piede destro in qualcosa di bagnato e freddo. Quando osai puntare la luce della torcia verso il basso, scoprii che la base del pozzo era colma di nera acqua stagnante e macerie. Non potevo continuare per quella strada. Mi arrampicai nello spazio tra il secondo e il terzo piano, abbandonando il percorso verticale. Se a quel livello erano morti dei ratti, non era stato per soffocamento ma per le fameliche lingue di fuoco che non avevano risparmiato nemmeno gli ossi. Qui le fiamme erano state così intense da lasciarsi alle spalle una distesa di fuliggine nerissima che assorbiva la luce della torcia e non rimandava alcun riflesso. Contorte, deformate, fuse, imprevedibili forme di metallo che un tempo erano l'impianto di riscaldamento e di raffreddamento, davano vita a un paesaggio sconcertante che neppure la pizza piccante o un eccesso di alcool avrebbero potuto ispirare in un incubo. La fuliggine aveva ricoperto tutto (qui uno strato sottile, là spesso due centimetri e passa) e non era polverosa o asciutta, ma unta. Zigzagare fra questi ostacoli amorfi e scivolosi e dover di tanto in tanto salirci sopra si dimostrò pericoloso. In certi punti, il pavimento sembrava
essersi incurvato verso il basso, facendo pensare che il calore alla sommità delle fiamme era stato talmente terribile che i tondini all'interno del cemento avevano cominciato a fondersi e avevano quasi ceduto. L'aria era più puzzolente che nel condotto verticale, più pungente, quasi rancida, eppure sembrava sottile, come se mi trovassi a una grande altitudine. La singolare consistenza della fuliggine mi faceva pensare a una provenienza sospetta e cercai di distrarmi con gli iguanasauri, invece mi venne in mente Datura, Datura con una collana di teschi umani. Procedevo strisciando sulla pancia, stipato in uno sfintere di metallo levigato dal calore fra una massa di robaccia fusa e scoppiata, e pensai a Orfeo all'inferno. Nella mitologia greca, Orfeo scende negli Inferi alla ricerca di Euridice, sua moglie, che si trova lì da quando è morta. Orfeo incanta l'Ade e conquista il permesso di riportare via Euridice dal regno dei dannati. Io però non potevo essere Orfeo, perché Stormy Llewellyn, la mia Euridice, non era andata negli Inferi ma in un posto migliore, che lei si meritava davvero. Se questo era l'inferno e io ero qui in missione di salvataggio, l'anima che mi sforzavo di salvare doveva essere la mia. Mentre riflettevo che la botola fra questo spazio e il secondo piano dell'albergo doveva essere ricoperta di metallo fuso e contorto, ci mancò poco che cadessi in un buco nel pavimento. Oltre quel buco, la torcia illuminò le pareti scheletriche di ciò che un tempo doveva essere stata una stanza per le provviste. La botola e la scala erano sparite, ridotte in cenere. Sollevato, mi lasciai cadere nello spazio sottostante, atterrai barcollando ma mantenni l'equilibrio. Oltrepassai la contorta intelaiatura d'acciaio di una parete che non c'era più e mi ritrovai nel corridoio principale. Ero soltanto a un livello sopra al pianterreno e sarei dovuto riuscire a scappare senza dover passare dalle scale che erano controllate. La prima cosa che illuminai con la pila furono delle impronte uguali a quelle che avevo visto quando ero entrato nel Panamint. Mi avevano fatto pensare: tigre dai denti a sciabola. La seconda cosa rivelata dal fascio di luce furono impronte umane che portavano a pochi passi da Datura, la quale accese la sua torcia nel momento in cui la mia trovò lei. 51
Che troia! E lo intendo in ogni senso del termine. «Ehi, amichetto!» esclamò Datura. Oltre alla torcia, reggeva una pistola. Disse: «Me ne stavo alla base delle scale a nord, con un po' di vino, rilassata, in attesa di sentire il potere, sai, il tuo potere, che mi attirava verso di te, come Danny l'Imbranato aveva detto che poteva succedere». «Non parlare», la implorai. «Sparami e basta.» Ignorando la mia interruzione, continuò: «Mi sono annoiata. Io mi annoio facilmente. Prima avevo notato quelle grosse impronte di gatto nella cenere ai piedi delle scale. Sono anche sui gradini. Quindi ho deciso di seguirle». In quella parte dell'albergo l'incendio aveva infierito con speciale ferocia. Le pareti interne erano quasi bruciate completamente, lasciando uno spazio ampio e cupo, il soffitto sorretto da colonne di acciaio inserite nel cemento. Nel corso degli anni, cenere e polvere avevano continuato a depositarsi, stendendo un tappeto liscio e spesso sul quale la mia tigre dai tenti a sciabola aveva di recente passeggiato in qua e in là. «La bestia è stata dappertutto», continuò Datura. «Provavo un tale interesse per il modo in cui aveva descritto dei cerchi e poi era ritornata sui propri passi, che mi sono completamente dimenticata di te. Completamente dimenticata. Ed è stato proprio allora che ti ho sentito arrivare e ho acceso la torcia. Un sacco figo, amichetto. Pensavo di seguire il gatto, ma ero attirata verso di te quando meno me lo aspettavo. Hai una strana mise, lo sai?» «Lo so», ammisi. «C'è davvero un gatto, o erano le impronte lasciate da un fantasma che tu hai chiamato per condurmi qui?» «C'è davvero un gatto», le assicurai. Ero molto stanco. E sporco. E volevo farla finita con quella storia, andare a casa, farmi un bagno. Ci separavano approssimativamente quattro metri. Se fossimo stati un po' più vicini, avrei tentato di avventarmi su di lei, chinarmi sotto il suo braccio e portarle via la pistola. Se continuavo a farla parlare, poteva saltar fuori la possibilità di invertire le parti. Per fortuna, spingerla a parlare in continuazione non avrebbe richiesto da parte mia maggiore sforzo che quello di respirare. «Conoscevo 'sto principe nigeriano», proseguì infatti, «sosteneva di es-
sere un isangoma, diceva che dopo mezzanotte poteva trasformarsi in una pantera.» «Perché non alle dieci?» «Non credo che ci riuscisse davvero. Credo che mentisse perché voleva scoparmi.» «Con me non ti devi preoccupare per questo.» «Questo qua dev'essere un gatto fantasma, qualche specie di spettro. Perché mai un gatto vero dovrebbe aggirarsi in questa pattumiera puzzolente?» «Vicino alla sommità occidentale del Kilimangiaro, attorno ai cinquemilasettecento metri, c'è questa carcassa essiccata, congelata, di leopardo», risposi. «La montagna dell'Africa?» Citai: «'Nessuno ha spiegato che cosa stava cercando il leopardo a quell'altitudine'». Lei aggrottò la fronte. «Non capisco. Qual è il mistero? È un insulso dannato leopardo, può andare dove cavolo vuole.» «È una citazione da Le nevi del Chilimangiaro.» Facendo un gesto con la pistola, mostrò la sua impazienza. Spiegai: «È un racconto di Ernest Hemingway». «Il tizio che ha le fabbriche di mobili? Che cosa c'entra Hemingway con questo?» Mi strinsi nelle spalle. «Ho un amico che si eccita sempre quando ricorro a una citazione letteraria. Pensa che potrei diventare uno scrittore.» «Siete gay o simili?» mi domandò. «No. Lui è enormemente grasso e io ho doni soprannaturali, tutto qua.» «Amichetto, certe volte dici cose senza senso. Hai ucciso Robert?» Tranne per le nostre due lame di luce che si incrociavano, il secondo piano era sprofondato nell'oscurità più completa. Mentre ero impegnato nel condotto verticale e poi a strisciare in quello orizzontale colmo di fuliggine, l'ultimo chiarore aveva abbandonato la giornata invernale. Non m'importava di morire, ma quel pozzo cavernoso annerito dal fuoco era un brutto posto per farlo. «Hai ucciso Robert?» ripeté. «È caduto dal balcone.» «Già, dopo che gli hai sparato.» Non sembrava sconvolta. Anzi, mi scrutava con il calcolo di una vedova nera che decide se accoppiarsi o no con un nuovo compagno. «Reciti piuttosto bene la parte dell'incapace, ma sei
di sicuro un mundunugu.» «C'era qualcosa che non andava in Robert.» Lei aggrottò la fronte. «Non so cos'è. I miei ragazzi bisognosi non sempre stanno con me quanto mi piacerebbe.» «No?» «Tranne André. È un vero toro, André.» «Pensavo che fosse un cavallo, Cheval André.» «Uno stallone fatto e finito», confermò. «Dov'è Danny l'Imbranato? Lo rivoglio indietro. È una scimmietta divertente.» «Gli ho tagliato la gola e l'ho gettato nel pozzo di un ascensore.» La mia risposta la elettrizzò. Le si allargarono le narici e nella gola sottile comparve una pulsazione evidente. «Se non è morto nella caduta», continuai, «ormai si sarà dissanguato. Oppure è annegato. Quel pozzo aveva sei o sette metri d'acqua, sul fondo.» «Perché lo avresti fatto?» «Mi ha tradito. Ti ha rivelato i miei segreti.» Datura si leccò le labbra come se avesse appena finito di mangiare un gustoso dessert. «Hai tanti strati quanto una cipolla, amichetto.» Avevo deciso di giocare a siamo-due-dello-stesso-genere-perché-nonunire-i-nostri-sforzi? ma si presentò un'altra possibilità. Lei riprese il suo racconto: «Il principe nigeriano diceva un sacco di stronzate, ma ci crederei che tu puoi diventare una pantera, dopo mezzanotte». «Non è una pantera.» «Sì? E allora cos'è che diventi?» «Non è nemmeno una tigre dai denti a sciabola.» «Diventi un leopardo, come quello sul Kilimangiaro?» «È un puma.» Il puma californiano, uno dei predatori più formidabili del mondo, preferisce vivere sulle montagne scoscese e nelle foreste, ma si adatta bene alle colline tondeggianti e alla sterpaglia. Ci sono puma che stanno benissimo nella macchia cespugliosa folta, quasi lussureggiante, che ricopre le colline e i canyon attorno a Pico Mundo, e spesso si avventurano nel territorio vicino che sarebbe classificato come vero deserto. Un puma maschio considera suo territorio di caccia una zona che può essere ampia fino a duecentocinquanta chilometri quadrati, e gli piace vagabondare. Sulle montagne, si nutre di cervi dalla coda nera e di pecore selvatiche.
Nei territori spogli come il Mojave, caccerà coyote, volpi, procioni, conigli e altri roditori e si godrà la varietà. «I maschi pesano in media fra i sessanta e i settanta chili», la informai. «Per cacciare preferiscono la protezione della notte.» Quello sgranare gli occhi in segno di meraviglia fanciullesca (che avevo visto per la prima volta mentre scendevamo al casinò assieme a Malanno e Sconforto e che era l'unica espressione attraente e schietta che possedeva) ricomparve mentre mi chiedeva: «Mi farai vedere?» Risposi: «Anche di giorno, se il puma è in movimento invece di riposarsi, la gente di rado lo vede perché è talmente silenzioso. Passa senza che se ne accorgano». Eccitata come se presenziasse a un sacrificio umano, chiese: «Quelle impronte di zampe... sono tue, non è vero?» «I puma sono solitari e riservati.» «Solitari e riservati, ma tu mi fari vedere.» Aveva preteso miracoli, cose favolose e impossibili, dita gelide su e giù per la spina dorsale. Adesso pensava che finalmente le avrei consegnato la merce. «Non hai fatto comparire queste tracce per condurmi qui. Ti sei trasformato... e le hai lasciate tu stesso.» Se la posizione di Datura e la mia fossero state invertite, io avrei dato la schiena al puma, senza accorgermi che si stava avvicinando di soppiatto. Per quanto sbagliata sia la natura (con le sue piante velenose, le bestie feroci, i terremoti, le inondazioni) a volte fa le cose per bene. 52 Immense, le zampe, con le singole punte ben definite... Si abbassavano così lentamente, si piantavano così delicatamente sulla cenere fine come talco che ricopriva il pavimento, da non farla nemmeno sollevare... Bel colore. Un manto fulvo che diventava marrone scuro all'estremità della lunga coda, dietro le orecchie e ai lati del naso. Se le nostre posizioni fossero state invertite, Datura avrebbe osservato il puma avvicinarsi con un distaccato divertimento, oscuramente deliziata dalla mia incapacità. Sebbene cercassi di rimanere focalizzato su di lei, la mia attenzione continuava a essere attratta dal felino e non ero divertito, ma cupamente affascinato e sopraffatto da un crescente senso di orrore. La mia vita dipendeva da lei, poteva prenderla o risparmiala, e l'unico
futuro sul quale potevo contare era lungo solo una frazione di secondo, il tempo che avrebbe impiegato una pallottola per viaggiare dalla canna della pistola fino a me. Eppure, contemporaneamente, la sua vita era nelle mie mani, e sembrava che il mio silenzio sul puma in agguato non poteva essere completamente giustificato dal fatto che ero letteralmente sotto tiro. Se facciamo affidamento sul tao con il quale siamo nati, sappiamo sempre qual è la cosa giusta da fare in ogni situazione, la cosa buona non per il nostro tornaconto o per noi stessi, ma per le nostre anime. La tentazione di allontanarci dal tao viene dal nostro interesse egoistico, dalle emozioni spregevoli e dalle passioni. Credo di poter dire onestamente che non odiavo Datura, sebbene avessi motivo per farlo, ma di certo la detestavo. La trovavo ripugnante in parte perché era un emblema dell'ignoranza deliberata e del narcisismo che caratterizzano i nostri tempi travagliati. Si meritava di andare in prigione. Secondo la mia opinione, si era guadagnata l'esecuzione; e nel pericolo estremo, per salvare me stesso o Danny, avevo il diritto (l'obbligo) di ucciderla. Forse nessuno, però, si merita una morte tremenda come essere sbranato e divorato vivo da una belva feroce. Malgrado le circostanze, forse è indifendibile permettere che un simile destino si avveri fino al punto dell'inevitabilità quando la vittima potenziale, armata di una pistola, potrebbe salvarsi se avvisata. Ogni giorno procediamo attraverso una foresta morale, lungo sentieri che si biforcano in continuazione. Spesso ci perdiamo. Quando lo spiegamento di sentieri davanti a noi ci rende talmente perplessi che non riusciamo a compiere una scelta, o non vogliamo, possiamo sperare di ricevere un segno che ci guidi. Affidarsi ai segni, però, può far sì che ci sottraiamo a tutti gli obblighi morali, e quindi giungiamo a un terribile giudizio. Se un leopardo tra le nevi più elevate del Kilimangiaro, dove la natura non lo avrebbe mai portato, è percepito da tutti come un segno, allora la tempestiva apparizione di un puma affamato in un albergo-casinò distrutto da un incendio dovrebbe essere altrettanto facile da capire come lo sarebbe la voce che proviene da un roveto ardente. Il mondo è misterioso. A volte percepiamo il mistero e ci ritiriamo nel dubbio, nel timore. A volte lo assecondiamo. Lo assecondai. In attesa che io mi trasformassi dal mio stato umano, un istante prima di
scoprire che dopotutto non era invincibile, Datura si rese conto che ero attratto da qualcosa alle sue spalle. Si voltò per vedere che cosa fosse. Voltandosi, invitò il balzo, le fauci che mordevano, gli artigli che afferravano. Gridò, e il feroce impatto del felino le fece cadere la pistola di mano prima che lei potesse prendere la mira o premere il grilletto. Nello spirito del mistero che definì quel momento, l'arma descrisse un arco verso di me e, allungando un braccio, la ricevetti dall'aria con grazia disinvolta. Forse lei era già mortalmente dilaniata e non avrei potuto salvarla, ma l'inevitabile verità è che impugnai la pistola, equivalente a una «spada vorpal», eppure non trucidai il Jabberwock e non posso sostenere di essere un «radioso fanciullo». Si sollevarono nuvolette di polvere attorno ai miei piedi mentre scattavo verso l'estremità nord dell'edificio e le scale. Anche se non ho mai visto il suo sangue sgorgare né il puma banchettare, non riuscirò mai a ripulire la memoria dalle sue grida. Forse la cucitrice haitiana, sotto il pugnale dei Maiali Grigi, ne aveva emesse di simili; oppure i bambini rinchiusi nella cantina di quella casa a Savannah. Un'altra voce ruggì (non quella del puma) per metà d'angoscia, per metà di rabbia. Voltandomi indietro, vidi la torcia di Datura, sbatacchiata in qua e in là dal felino e dalla preda. Più lontano, dalla parte sud, oltre nere colonne che potevano aver segnato il peristilio dell'inferno, si avvicinava un'altra luce, in possesso di una sagoma massiccia che avanzava fra le ombre. André. Le urla di Datura cessarono. André la individuò con la luce della torcia e trovò il provvidenziale puma. Se aveva una pistola, non la usò. Tenendosi rispettosamente alla larga dalla belva e dalla sua preda, André proseguì. Sospettavo che non si sarebbe mai fermato. Le locomotive sfuggite al controllo hanno la forza di gravità dalla loro parte. La mia luce tremolante attirava il gigante con più certezza di quanto avrebbe fatto l'MP, ma se l'avessi spenta non avrei visto nulla. Anche se lui era ancora a una certa distanza e io non ero il tiratore scelto migliore della mia epoca, feci partire un colpo, poi un altro e un terzo. Aveva una pistola. Rispose al fuoco. Come quella di chiunque altro, la sua mira era migliore della mia. Una
pallottola rimbalzò da una colonna alla mia sinistra, e un'altra mi fischiò talmente vicino alla testa che la udii tagliare l'aria, suono ben distinto dallo sparo stesso e dalla sua eco. Soffermandomi a sparare di nuovo, ci avrei rimesso la pelle, quindi mi misi a correre, chino e a zigzag. La porta delle scale non c'era più. Mi gettai oltre il varco e corsi verso il basso. Oltre il pianerottolo, alla seconda rampa, mi resi conto che mi avrebbe aspettato all'uscita del piano terra e che in quei corridoi e in quegli spazi che gli erano familiari mi avrebbe preso, perché era forte e rapido e non tanto stupido quanto sembrava. Sentendolo entrare nella tromba delle scale e accorgendomi che aveva accorciato la distanza fra noi più in fratta di quanto temevo, spalancai con un calcio la porta del pianterreno ma non la varcai. Illuminai la serie successiva di scalini che portavano verso il piano sotterraneo, per essere sicuro che non fossero ostruiti, poi spensi la torcia e scesi al buio. Essendo stata aperta a quel modo, la porta rimbalzò e si richiuse con un colpo fragoroso. Mentre raggiungevo il pianerottolo successivo, facendo scorrere la mano lungo la ringhiera che usavo come guida, e proseguivo alla cieca nel territorio inesplorato, udii André spalancare la porta al pianterreno e precipitarsi all'interno. Continuai a muovermi. Avevo guadagnato un po' di tempo, ma lui non si sarebbe lasciato ingannare a lungo. 53 Rischiando di accendere la luce quando raggiunsi il livello del seminterrato, trovai altre scale ma esitai a seguirle. Una cantina sotto il seminterrato rischiava di rivelarsi una via senza uscita. Rabbrividendo, ricordai la storia narratami da Datura: lo spirito del torturatore della Gestapo che infestava quella cantina a Parigi. La voce serica di lei: «Sentivo le mani di Gessel dappertutto su di me, bramose, audaci, esigenti. Mi ha penetrata». Scegliendo il seminterrato, mi aspettavo di trovare un parcheggio sotterraneo o delle piattaforme di carico e scarico dove venivano consegnate le merci. In ogni caso, ci sarebbero state delle uscite. Ne avevo abbastanza del Panamint. Preferivo correre i miei rischi all'aperto, sotto il temporale.
Su entrambi i lati di un lungo corridoio dalle pareti di cemento e dal pavimento rivestito di piastrelle viniliche si aprivano delle porte. Questa zona non era stata toccata dal fuoco né dal fumo. Poiché le porte erano bianche ma non a riquadri, controllai un po' delle stanze mentre vi passavo davanti. Erano vuote. Che fossero state usate come uffici o come magazzini, erano state svuotate dopo il disastro poiché ciò che contenevano evidentemente non era stato danneggiato dal fuoco o dall'acqua. Qui l'acre puzzo lasciato dall'incendio non era penetrato. Avevo respirato quel miasma per talmente tante ore che l'aria pulita sembrava troppo pungente nelle mie narici e nei polmoni, quasi abrasiva per la sua relativa purezza. Un'intersezione di corridoi mi offriva tre scelte. Dopo una minima esitazione, mi affrettai a destra, sperando che la porta all'estremità conducesse al parcheggio che ancora non avevo individuato. Proprio mentre raggiungevo il termine di quel passaggio, udii André varcare rumorosamente la porta di acciaio provenendo dalle scale a nord e imboccando il primo corridoio. Spensi immediatamente la torcia. Aprii la porta di fronte a me, varcai la soglia e mi chiusi dentro quello spazio sconosciuto. La mia luce rivelò una serie di scalini di servizio metallici dalla pedata rivestita di gomma. Portavano solo verso il basso. La porta non aveva serratura. André poteva compiere una ricerca approfondita in questa zona. Oppure seguire il suo istinto da un'altra parte. Io potevo aspettare di vedere che cosa faceva, sperando di sparargli prima che lui sparasse a me se apriva quella porta. Oppure potevo seguire gli scalini. Contento di aver afferrato la pistola a mezz'aria ma non osando considerarlo un segno che il mio destino era la sopravvivenza, mi affrettai nel sottosemintarrato che solo poco prima avevo cercato di evitare. Due pianerottoli e tre rapide rampe mi portarono con un giro di trecentosessanta gradi in un vestibolo, davanti a una porta dall'aspetto formidabile. Il battente era decorato da parecchi cartelli; quello che saltava di più all'occhio prometteva: ALTA TENSIONE in grandi caratteri rossi. Un severo monito limitava l'ingresso solo al personale autorizzato. Autorizzai me stesso a entrare, aprii la porta e dalla soglia esplorai l'interno con l'aiuto della torcia. Otto gradini di cemento portavano, facendo
superare un dislivello di circa un metro e ottanta, a un locale sotterraneo che fungeva da centralina elettrica, un bunker dai muri spessi di circa cinque metri per sei. Sopra una piattaforma sopraelevata che stava al centro, come un'isola, si ergevano delle attrezzature che formavano una specie di torre. Forse alcune erano trasformatori, forse una macchina del tempo, per quanto ne sapevo. All'estremità della stanza, una galleria del diametro di un metro, a livello del terreno, penetrava nell'oscurità. Evidentemente, la necessità di porre sottoterra le attrezzature dipendeva dall'eventualità che qualcosa potesse esplodere, cosa che a volte accadeva ai trasformatori. Ma, nel caso di una perdita delle tubature o di un'improvvisa inondazione, il largo condotto poteva convogliare rapidamente un notevole volume d'acqua. Avendo evitato le scale principali che portavano al sotto-seminterrato, avevo preso queste, che servivano solo per arrivare a quella stanza isolata. E così ero arrivato al vicolo cieco che temevo. Dall'istante in cui il puma aveva attaccato, avevo soppesato varie possibilità, a ogni svolta della mia fuga, calcolando le probabilità. Nel panico, non avevo ascoltato la voce esile ma continua del mio sesto senso. Nulla è più pericoloso per me che dimenticare di essere un uomo razionale e dotato di una percezione soprannaturale. Quando funziono solo in un modo o nell'altro, nego metà di me stesso, metà del mio potenziale. In misura minore, questo è vero per chiunque. Un vicolo cielo. Ciononostante, varcai la soglia e mi chiusi la porta alle spalle. Guardai se avesse una serratura, della qual cosa dubitavo, e infatti il mio dubbio venne confermato. Scesi in fretta i gradini di cemento, fino in fondo, e girai attorno alla torre delle attrezzature. Illuminandola con la torcia, vidi che la galleria scendeva e voltava gradatamente a sinistra, sparendo alla vista. Le pareti erano asciutte e abbastanza pulite. Non avrei lasciato tracce. Se André fosse entrato lì dentro, avrebbe di sicuro sbirciato nella galleria. Ma se riuscivo a stare oltre la curva, senza farmi vedere, lui non avrebbe spinto la sua ricerca fin là. Avrebbe pensato che lo avevo seminato più indietro nel percorso. Un metro di diametro non mi permetteva di stare chinato, avrei dovuto procedere carponi.
Infilai la pistola di Datura nella cintola, dietro la schiena, e mi misi in movimento. La curva che mi avrebbe riparato si trovava a circa sette metri dall'imboccatura. Non avendo bisogno della torcia, la spensi, me la infilai nel bracciale di velcro e avanzai carponi nell'oscurità. Mezzo minuto dopo, vicino alla curva, mi sistemai lungo disteso e mi girai di lato. Accesi la torcia e la puntai all'indietro, esaminando il pavimento. Qualche chiazza di fuliggine sul cemento segnalava il mio passaggio, ma da quelle orme nessuno sarebbe stato in grado di dedurre che ero passato di lì. Le tracce potevano essere lì da anni. Alcune macchie di umidità sul cemento aiutavano a camuffare quelle di fuliggine. Di nuovo al buio, mi rimisi a quattro zampe e completai la curva. Calcolai che non mi si poteva più vedere dalla stanza sotterranea, ma continuai per altri tre o quattro metri prima di fermarmi, giusto per sicurezza. Mi sedetti di traverso nel tunnel, la schiena contro la curva, e aspettai. Dopo un minuto, mi ritornò in mente la vecchia serie di telefilm sulla civiltà segreta sotto la superficie terrestre. Forse da qualche parte lungo quel percorso esisteva una città sotterranea con donne dai copricapi decorati di corna, un imperatore malvagio e dei mutanti. Bene. Niente di tutto ciò poteva essere peggio di quanto mi ero lasciato alle spalle nel Panamint. Attraverso il ricordo di quei telefilm all'improvviso strisciò fino a me Kalì, che non apparteneva a quello scenario; Kalì, le labbra dipinte con il sangue, la lingua che sporgeva in fuori. Non portava il capestro, il bastone sormontato dal teschio, la spada o la testa mozzata. Aveva le mani vuote, per toccarmi meglio, per coccolarmi, per tirare forzatamente il mio volto verso il suo per un bacio. Da solo, senza nemmeno un fuoco da campo o dolcetti al cioccolato, raccontavo storie di fantasmi a me stesso. Magari pensate che la mia vita mi esenti dal provare spavento per le storie di fantasmi, ma vi sbagliate. Vivendo ogni giorno con la prova che l'aldilà è reale, non posso rifugiarmi nella ragione nuda e cruda, non posso dire: «Ma i fantasmi non esistono». Non conoscendo la vera natura di ciò che viene dopo questa vita, ma sapendo per certo che qualcosa c'è, la mia immaginazione turbina in vortici più oscuri di quanto ognuno di voi abbia mai visitato. Non fraintendetemi. Sono certo che avete un'immaginazione oscura, contorta e forse perfino profondamente malata. Non sto cercando di sminuire la demenza della vostra immaginazione e non intendo offuscare l'or-
goglio che ne provate. Seduto in quel tunnel, intento a spaventare me stesso, bandii Kalì non solo dal ruolo che aveva dato a se stessa in quella serie di telefilm, ma la bandii del tutto dalla mia mente. Mi concentrai sugli iguana truccati per sembrare dinosauri e sui nani in calzoni di pelle, o che altro avevano addosso. Invece di Kalì, nel giro di pochi secondi si insinuò nella mia mente Datura, dilaniata dal puma ma nonostante ciò sensuale. Stava strisciando verso di me nel tunnel proprio ora. Non la sentivo respirare, naturalmente, perché i morti non respirano. Voleva sedersi sul mio grembo e dimenare il sedere e condividere il suo sangue con me. I morti non parlano. Ma era facile credere che Datura poteva essere l'unica eccezione alla regola. Di certo, nemmeno la morte poteva ridurre al silenzio quella garrula divinità. Si sarebbe sollevata sopra di me per sedermisi in grembo, avrebbe dimenato il sedere, premuto sulle mie labbra le mani fradice di sangue e avrebbe detto: «Vuoi assaggiarmi, amichetto?» Bastava una piccola parte di quella visione mentale a farmi venire voglia di accendere la torcia. Se André avesse voluto controllare la centralina elettrica, a questo punto lo avrebbe già fatto. Era andato da qualche altra parte. Con la sua padrona e Robert defunti, il gigante sarebbe filato via da quel posto con l'auto nascosta nei paraggi. Entro qualche ora, avrei osato avventurarmi di nuovo nell'albergo e da lì sull'interstatale. Con il pollice sull'interruttore della torcia, prima di premerlo, una luce invase il tratto del tunnel precedente alla curva e udii André all'imboccatura. 54 Una cosa positiva del magnetismo psichico alla rovescia è che non posso mai perdermi. Scodellatemi nel bel mezzo di una giungla, senza cartina né bussola, e attirerò le squadre di soccorso verso di me. Non vedrete mai la mia faccia sulle confezioni del latte: Avete visto questo ragazzo? Se vivrò abbastanza a lungo da avere l'Alzheimer, dovessi vagare lontano dalla mia casa di riposo, ben presto tutte le infermiere e i pazienti formerebbero una scia dietro di me.
Osservando la luce giocare sul primo tratto della galleria, oltre la curva, mi dissi che stavo indulgendo in un'altra storia di fantasmi, che mi mettevo paura senza un motivo valido. Non dovevo presumere che André avesse intuito dov'ero. Se rimanevo seduto immobile, avrebbe deciso che c'erano posti più probabili dove potevo essermi rifugiato e sarebbe andato a scandagliarli. Non era entrato nel cubicolo. Era un omone, avrebbe fatto un sacco di rumore, avanzando a quattro zampe in quello spazio ristretto. Mi sorprese sparando un colpo. Lì dentro, risonò con una tale violenza da farmi sanguinare le orecchie. La detonazione (un bang molto forte ma anche simile al rintocco di un'immensa campana) risonò con un tale vibrato che giurai di sentire tremori corrispondenti correre nelle mie ossa lungo i canali di Havers. Il bang e il rintocco si rincorsero attraverso il condotto e le varie eco che ne seguirono avevano un tono altissimo, come gli acuti suoni terrificanti di razzi in arrivo. Il rumore mi disorientò al punto che i minuscoli frammenti di cemento che mi cospargevano la guancia sinistra e il collo per un momento mi stupirono. Poi capii: il colpo di rimbalzo! Mi gettai lungo disteso, ventre a terra esponendomi al minimo, e strisciai freneticamente più addentro nel tunnel, con i movimenti a forbice delle gambe che parevo una lucertola e aiutandomi con le braccia, perché se mi alzavo ginocchioni mi sarei certamente beccato una pallottola nelle chiappe o dietro la testa. Potrei anche vivere con una chiappa soltanto: si tratterebbe di sedermi storto per il resto della vita, non preoccuparmi se i jeans fanno le borse sul dietro e abituarmi al soprannome Mezzoculo, però non potrei vivere con il cervello esploso. Ozzie direbbe che spesso faccio un uso talmente scarso del cervello che, alla peggio, potrei cavarmela anche senza, ma non lo volevo provare. André sparò un altro colpo. Avevo ancora la testa rintronata dal primo sparo che questo non mi parve così forte, ma mi fecero male le orecchie come se il suono avesse una consistenza e, passandovi attraverso, cercasse di allargarle. Nell'istante necessario perché al crepitio iniziale dello sparo seguisse l'eco stridente, la pallottola sarebbe rimbalzata oltre di me. Per quanto il rumore fosse spaventoso, significava che la mia fortuna reggeva. Se una pallottola mi avesse colpito, lo choc dell'impatto mi avrebbe effettivamente
reso sordo allo sparo. Zampettando come una salamandra, lontano dalla luce, sapevo che l'oscurità non offriva protezione. Lui non poteva vedere il suo bersaglio e, comunque, faceva affidamento sulla fortuna per ferirmi. In tali circostanze, con le pareti ricurve che facevano rimbalzare più volte la stessa pallottola, le probabilità di inchiodarmi erano superiori a quelle che avrebbe avuto puntando su qualunque gioco al casinò. Fece partire un altro sparo. Quel po' di compassione che un tempo avevo avuto per lui (e penso che ce ne fosse stata un po') era proprio finita. Non ero in grado di valutare quante volte una pallottola debba rimbalzare da una parete affinché esaurisca il suo potere di ferire. Fare la salamandra era stancante e non ero certo di raggiungere una distanza sicura prima che la mia fortuna venisse meno. Un'improvvisa corrente d'aria spirò verso l'oscurità alla mia sinistra e istintivamente la seguii. Un altro condotto di smaltimento delle acque. Questo, che alimentava il primo, aveva le stesse dimensioni e tendeva leggermente verso l'alto. Un quarto sparo echeggiò nella galleria che avevo lasciato. Non essendo più raggiungibile da eventuali colpi di rimbalzo, mi rimisi carponi e proseguii. Ben presto l'angolo di inclinazione aumentò, poi aumentò ancora e la salita divenne via via sempre più difficile. Fui preso dallo sconforto perché questo mi faceva rallentare, ma alla fine presi atto che le mie prestazioni diminuivano e mi diedi il consiglio di non spingere il corpo al collasso. Non avevo più vent'anni. Risonarono ancora numerosi spari ma non ne tenni conto, adesso le mie chiappe non erano più a rischio. A un certo punto mi resi conto che aveva smesso di sparare. Alla sommità della salita, la ramificazione in cui mi trovavo si aprì in uno spazio piccolo un metro quadrato o poco più, che esplorai con la mia torcia. Sembrava un pozzetto. L'acqua vi si riversava da tre tubature più piccole che si vedevano alla sommità. Pezzi di legno e altri materiali portati dall'acqua andavano a finire sul fondo, per poter essere rimossi di tanto in tanto dalle squadre di manutenzione. Tre condotti di uscita, compreso quello dal quale ero arrivato, erano posti a diversi livelli, ognuno in una parete. Nessuno era vicino alla base, dove si accumulavano i detriti. L'acqua stava già scolmando dal pozzetto at-
traverso il condotto più basso. Con il temporale che infuriava, il livello all'interno di quello spazio angusto sarebbe salito inesorabilmente verso il mio posto d'osservazione, che si trovava nel mezzo dei tre condotti di deflusso. Avevo bisogno di arrivare in quello più alto e continuare il mio viaggio per quella strada. Una serie di sporgenze tutt'attorno al pozzetto mi avrebbero permesso di tenermi fuori dalla fanghiglia e dalla robaccia accumulata sul fondo e raggiungere l'altra parte. Avevo bisogno solo di concedermi il tempo necessario e prestare attenzione. Le gallerie che avevo percorso fino a quel momento erano claustrofobiche per un uomo della mia corporatura. Considerata la sua stazza, André le avrebbe trovate intollerabili. Avrebbe pensato che ero stato ferito o ucciso da un colpo di rimbalzo. Non mi avrebbe seguito. Con un'ultima contorsione uscii dal tunnel, entrai nel pozzetto, salii su una sporgenza. Quando guardai giù per la discesa per la quale mi ero appena arrampicato, vidi una luce in lontananza. Udii i grugniti di André mentre saliva ostinatamente. 55 Mi piaceva l'idea di prendere la pistola di Datura da sotto la cintola e sparargli mentre si arrampicava verso di me nella galleria. Pan per focaccia. La cosa migliore sarebbe stato avere un fucile, o magari un lanciafiamme, come quello che Sigourney Weaver usava per dare fuoco alle larve in Alien. Sarebbe andata bene anche una tinozza d'olio bollente, più grossa di quella che Charles Laughton, nel ruolo del gobbo, versava sulla marmaglia parigina dall'alto di Notre Dame. Datura e i suoi accoliti mi avevano reso meno disponibile del solito a porgere l'altra guancia. Avevano abbassato la soglia della mia collera e aumentato la mia tolleranza alla violenza. Ecco qui una perfetta illustrazione del perché bisogna sempre scegliere con cura le persone da frequentare. Appollaiato su una sporgenza di quindici centimetri, dando la schiena alla fanghiglia torbida, reggendomi con una mano al bordo del condotto, non potevo gustare la vendetta senza mettere a rischio me stesso. Se cercavo di sparare, il rinculo mi avrebbe fatto perdere il precario equilibrio e sarei finito all'indietro nel pozzetto.
Non sapevo quanto l'acqua era fonda, e oltretutto non sapevo nemmeno che genere di ciarpame c'era sotto la superficie. Tenuto conto degli alti e bassi della mia fortuna, ma ultimamente soprattutto dei bassi, sarei caduto sul manico rotto di una pala, scheggiato e abbastanza appuntito da porre fine a Dracula, oppure sui rebbi arrugginiti di una forca, o sui paletti di una recinzione in ferro appuntiti come lance, o magari su una collezione di spade da samurai. Nemmeno sfiorato dall'unica pallottola che mi era rimasta, André avrebbe raggiunto la sommità del tunnel e mi avrebbe trovato impalato nel pozzetto. Io avrei scoperto che, nonostante il suo aspetto bestiale, aveva una risata allegra. Mentre morivo avrebbe pronunciato, con la voce di Datura, la sua prima parola: perdente. Lasciai la pistola dove si trovava e continuai a spostarmi lungo la sporgenza verso l'altro lato del pozzetto, dove il più elevato dei condotti di uscita si trovava a pochissimi centimetri sopra la mia testa, e circa un metro e trenta più in alto di quello dal quale ero appena uscito. L'acqua sudicia che si riversava dalle tubature cadendo sul fondo schizzava, infradiciandomi i jeans fino a mezza coscia. Ma non potevo sporcarmi più di così, né sentirmi ancora più disgraziato. Appena quel pensiero mi attraversò la mente, cercai di ricacciarlo indietro perché sembrava una sfida all'universo. Senza dubbio, nel giro di dieci minuti sarei stato sorprendentemente più sporco e immensamente più disgraziato di quanto ero al momento. Sollevai le braccia, mi aggrappai con entrambe le mani all'orlo del nuovo condotto, puntai i piedi contro la parete e mi tirai su a forza di muscoli. In questa nuova tana, presi in considerazione l'idea di aspettare che André comparisse all'imboccatura del tunnel e di sparargli dalla mia posizione sopraelevata. Per uno che all'inizio di quella giornata era stato così riluttante anche solo a maneggiare le armi da fuoco, avevo sviluppato una disdicevole brama a riempire di piombo i miei nemici. La falla nel mio piano divenne subito evidente: anche André aveva una pistola. Sarebbe stato guardingo nel lasciare il tunnel e quando gli avessi sparato lui avrebbe risposto al fuoco. Tutte quelle pareti in cemento, altri colpi di rimbalzo, altro rumore da spaccare le orecchie... Non avevo munizioni a sufficienza per tenerlo inchiodato ne tunnel fin quando il livello dell'acqua fosse aumentato, costringendolo alla ritirata. La cosa migliore da fare era continuare a muovermi.
La galleria nella quale mi ero arrampicato sarebbe stata l'ultima a riempirsi. Con un temporale normale, probabilmente sarebbe rimasta asciutta, ma non con questo diluvio. L'acqua che si stava raccogliendo alla base del pozzetto aumentava visibilmente, di minuto in minuto. Per fortuna, questa galleria aveva un diametro maggiore della precedente, forse un metro e trenta. Non avrei dovuto gattonare. Potevo procedere stando chinato e mantenere un buon passo. Non sapevo dove mi avrebbe portato quel percorso, ma ero disposto a un cambiamento di paesaggio. Mentre mi rialzavo per prepararmi al cammino che mi aspettava, un acuto ciangottio si levò nello spazio dietro di me. André non mi pareva proprio il tipo da mettersi a fare versi simili, e immediatamente seppi qual era la fonte di quelle grida: i pipistrelli. 56 Nel deserto la grandine è una rarità, ma una volta ogni tanto i temporali scaricano sul Mojave scrosci ghiacciati. Se fuori era caduta la grandine, allora, non appena mi fossi accorto di avere foruncoli sulla faccia e sul collo, sarei stato certo che Dio aveva deciso di divertirsi rimettendo in scena le dieci piaghe d'Egitto sulla mia tormentata persona. Non penso che i pipistrelli facessero parte delle piaghe bibliche, anche se avrebbero dovuto. Se la memoria mi assiste, furono le rane, invece, a terrorizzare l'Egitto. Una moltitudine di rane arrabbiate non ti fanno scorrere il sangue tanto in fretta nelle vene quanto un'orda di inferociti roditori volanti. Questa osservazione solleva una questione sulle capacità drammaturgiche del nostro dio. Quando le rane morirono, nutrirono i pidocchi, che furono la terza piaga. Questo dallo stesso Creatore che aveva dipinto il cielo di rosso sangue sopra Sodoma e Gomorra, aveva fatto piovere fuoco e zolfo sulle città, abbattuto ogni abitazione nella quale la gente cercava riparo e distrutto tutti gli edifici di pietra come fossero uova. Mentre giravo attorno al pozzetto utilizzando la sporgenza e poi mi sollevavo fino alla galleria più alta, non puntai la torcia direttamente sopra la mia testa. Evidentemente, una moltitudine di dormienti dalle ali di pelle stava appesa al soffitto, immersa in sogni silenziosi.
Non so che cosa avessi fatto per disturbarli, se pure avevo fatto qualcosa. La notte era calata da non molto. Forse quella era l'ora solita in cui si svegliavano, stiracchiavano le ali e volavano via per andare a intrappolarsi nei capelli delle bambine. Levarono all'unisono le loro strida acute. In quell'istante, mentre finivo di alzarmi per procedere incurvato, mi rigettai a terra e mi coprii la testa con le braccia. Volarono dalla caverna creata dall'uomo scegliendo la galleria più alta. Quel passaggio non si sarebbe mai riempito completamente d'acqua e avrebbe sempre offerto un'uscita almeno parzialmente non ostruita. Se qualcuno mi avesse chiesto di stimare le dimensioni della loro comunità mentre mi passavano sopra, avrei detto «migliaia». Alla stessa domanda, un'ora dopo avrei risposto «centinaia». In verità, dovevano essere meno di cento, forse una cinquantina o una sessantina. Riflettendosi contro le pareti curve di cemento, il fruscio delle loro ali faceva pensare al crepitio del cellofan, nel modo in cui gli addetti agli effetti sonori nei film lo usano per imitare il fuoco che avanza divorando tutto. Non provocarono un grande spostamento d'aria, solo un leggero vortice, ma suscitarono un odore di ammoniaca che portarono via con sé. Qualcuno svolazzò contro le mie braccia, alzate a proteggermi la testa e la faccia, e mi sentii sfiorare il dorso delle mani come se avessero avuto le piume, il che poteva lasciar immaginare che fossero uccelli, e invece mi richiamò alla mente il brulichio di certi insetti: scarafaggi, centopiedi, locuste, così avevo i pipistrelli per davvero e gli insetti nella mente. Le locuste erano state l'ottava piaga d'Egitto. La rabbia. Avendo letto da qualche parte che un quarto di una colonia di pipistrelli è affetta da quel virus, mi aspettai di essere azzannato con violenza, ripetutamente. Non mi beccai nemmeno un morsettino. Nessuno mi azzannò, ma in compenso un paio di loro cacò sopra di me, come se volesse rivolgermi un noncurante insulto. L'universo aveva udito e accettato la mia sfida: adesso ero più sudicio e più disgraziato di quanto fossi stato dieci minuti prima. Mi sollevai di nuovo in piedi e, stando curvo, seguii la galleria in discesa che si allontanava dal pozzetto. Da qualche parte, più avanti, avrei trovato un tombino attraverso il quale uscire all'aperto. Fra duecento metri, assicurai a me stesso, trecento al massimo.
Da qui a lì, naturalmente, ci sarebbe stato il Minotauro. Il Minotauro si nutriva di carne umana. «Già», borbottai ad alta voce, «ma soltanto carne di vergini.» Poi mi ricordai di essere vergine. La luce della torcia rivelò una Y nella galleria, immediatamente davanti a me. Il condotto di sinistra continuava a scendere. Il passaggio a destra alimentava quello che stavo seguendo dal pozzetto, e poiché saliva, immaginai che mi avrebbe portato più vicino alla superficie e a una via d'uscita. Avevo fatto solo una trentina di metri nella direzione prescelta quando, naturalmente, sentii i pipistrelli ritornare. Erano volati fuori nella notte, avevano scoperto che infuriava una tempesta ed erano corsi subito indietro verso il loro accogliente paradiso sotterraneo. Poiché dubitavo che sarei scampato a un secondo incontro senza che mi mordessero, invertii la direzione e con un'agilità dettata dal panico corsi, curvo come un troll. Ritornato al bivio, girai a destra, allontanandomi dal pozzetto, sperando che i pipistrelli si ricordassero l'indirizzo di casa. Dietro di me il frenetico battere d'ali prima aumentò e poi diminuì, allora mi fermai e, senza fiato, mi appoggiai alla parete. Forse André si trovava sulla sporgenza, mentre si trasferiva dalla galleria più bassa a quella più altra, quando i pipistrelli erano ritornati. Forse lo avevano spaventato e lui era caduto nel pozzetto, impalandosi sulle spade da samurai. Quel pensiero mi riscaldò brevemente il cuore. Ma solo brevemente, perché non riuscivo a credere che André potesse impaurirsi dei pipistrelli. O di qualsiasi altra cosa. Si levò un suono minaccioso, che non avevo sentito prima, un rombo stridente, come se un'enorme lastra di granito fosse trascinata sopra un'altra lastra. Sembrava provenire da un punto tra me e il pozzetto. In genere questo significa che in una solida parete di pietra si sta aprendo un passaggio segreto, permettendo così al malvagio imperatore di fare il suo ingresso grandioso, in mantello e stivaloni al ginocchio. Esitante, ritornai verso la Y, inclinando la testa da un lato, poi dall'altro, per cercare di determinare da dove proveniva quel suono. Il rombo aumentò. Adesso non lo percepivo più come la frizione di pietra su pietra, ma piuttosto di ferro contro pietra. Premetti una mano sulla parete e sentii le vibrazioni passare attraverso il cemento. Esclusi un terremoto, che avrebbe prodotto scosse e sobbalzi invece di quel suono stridente e prolungato e un tremore dal livello costante.
Il rombo cessò. Sotto la mano, non sentivo più le vibrazioni propagarsi attraverso il cemento. Un rumore di acqua che scorre impetuosa. Un vento improvviso che mi smuoveva i capelli, come se qualcuno spingesse l'aria fuori dal vicino ramo ascendente. Da qualche parte avevano aperto una saracinesca. L'aria era stata spostata da una grossa ondata. Dal ramo ascendente esplose un torrente che mi travolse e mi spazzò via, trascinandomi verso le viscere scure della rete di controllo delle piene. 57 Con scossoni, sbatacchiamenti, piroette, giri vorticosi su me stesso, percorsi a spirale il tunnel, come una pallottola lungo la canna di un fucile. Dapprima la torcia, assicurata al mio avambraccio sinistro, rivelò la grande massa grigia e ondeggiante, attribuì lucentezza agli spruzzi, ravvivò la schiuma limacciosa. Ma poi il bracciale da speleologo cedette, mi fu strappato via e portò la luce con sé. Giù, procedendo sparato attraverso l'oscurità, le braccia strette attorno al corpo, cercavo di tenere unite le gambe. Con gli arti che si agitavano, mi sarei rotto più facilmente un polso, una caviglia, un gomito, sbattendoli contro la parete. Cercai di stare sulla schiena, con la faccia in su, lasciandomi trasportare a quella velocità pazzesca con il fatalismo di un bobbista olimpionico che fischietta mentre scende giù lungo la pista, ma il torrente mi faceva rivoltare ripetutamente, con insistenza, cacciandomi la faccia sott'acqua. Lottavo per respirare, muovendo il corpo a braccia e gambe tese per orientarlo di nuovo e prendendo grandi boccate d'aria quando riuscivo a sollevare la testa al di sopra del flusso. Inghiottivo acqua, sbucavo al di sopra della superficie, la vomitavo, tossivo e disperatamente inspiravo aria umida. Considerando la mia impotenza nel suo abbraccio, quel flusso modesto poteva benissimo essere stato il Niagara che mi trascinava verso le sue mortali cataratte. Per quanto tempo durasse quella tortura acquatica non saprei dirlo, ma essendo già fisicamente molto provato prima cominciare quella corsa, mi stancai. Moltissimo. Le membra divennero pesanti e il collo si irrigidì per lo sforzo della costante lotta per tenere la testa al di sopra dell'acqua. Mi
faceva male la schiena, mi sembrava di avere la spalla sinistra lussata e a ogni sforzo che facevo per cercare l'aria la mia riserva di forza diminuiva, fino a rasentare pericolosamente il completo esaurimento. Luce. La massa d'acqua che la saracinesca aveva liberato mi sputò fuori dal tunnel piccolo tunnel dentro a uno di quelli molto larghi che, secondo le mie supposizioni, durante la seconda guerra mondiale erano stati utilizzati per il trasporto di missili balistici intercontinentali da Fort Kraken ai punti più lontani della Maravilla Valley. Mi chiesi se le luci erano rimaste accese da quando io stesso avevo azionato l'interruttore dopo essermi calato dal capanno di servizio vicino al Blue Moon Café. Mi sentivo come fossero trascorse settimane da allora, non soltanto ore. Qui la corrente non era velocissima come nel condotto più stretto e più ripido. Riuscivo a mantenermi a galla agitando mani e piedi, mentre venivo trascinato al centro del passaggio e trasportato avanti. Dopo alcuni tentativi realizzai rapidamente che non potevo attraversare a nuoto quella rapida corrente. Non sarei stato in grado di raggiungere il marciapiede sopraelevato che avevo seguito verso est all'inseguimento di Danny e dei suoi rapitori. Poi mi resi conto che il marciapiede era scomparso sott'acqua quando il torrentello di prima si era trasformato nel possente Mississippi. Se anche avessi raggiunto un lato della galleria grazie a uno sforzo eroico e a un miracolo, non mi sarei sottratto al fiume. Se alla fine il sistema di controllo delle piene avesse convogliato le acque di deflusso del temporale in un vasto lago sotterraneo, sarei stato portato sulle sue sponde. Robinson Crusoe senza la luce del sole e le noci di cocco. Un lago simile poteva anche non avere sponde. Poteva essere circondato da pareti di pietra rese talmente lisce dal gocciolare della condensa nel corso dei millenni da non poter essere scalate. E, se una riva esisteva, non sarebbe stata ospitale. Senza alcuna possibilità di fonti di luce, sarei stato un cieco in un Ade desolato, a cui sarebbe stata risparmiata la morte per inedia solo se fossi crepato inciampando in un abisso e rompendomi il collo nella caduta. In quel cupo momento, pensai che sarei morto sottoterra. E, entro un'ora, fu così. Battere l'acqua con le braccia e le gambe, tenendo la testa al di sopra di
quel flusso, sebbene meno turbolento, metteva crudelmente alla prova la mia resistenza. Non ero certo di durare per tutti i chilometri che mancavano prima di arrivare al lago. Annegare mi avrebbe risparmiato di morire di fame. Una flebile speranza si presentò inaspettatamente sotto forma di un segnalatore di profondità collocato al centro del corso d'acqua. Fui trascinato direttamente verso il palo bianco che si ergeva fin quasi al soffitto di tre metri e mezzo. Mentre, in balia della corrente, cominciavo a scorrere oltre quel sottile rifugio, mi ci aggrappai con un braccio. Mi tenni anche con una gamba. Se rimanevo a monte, con il palo tra le gambe, la corrente che mi premeva contro la schiena mi avrebbe aiutato a restare lì. Quando, quello stesso giorno, avevo rimorchiato il cadavere dell'uomoserpente via da quel palo o da un altro simile, fino al marciapiede sopraelevato, la profondità dell'acqua non arrivava a sessanta centimetri. Adesso superava il metro e mezzo. Ancorato a quel modo, appoggiai la fronte contro il palo e rimasi così per un po', riprendendo fiato. Ascoltai il mio cuore e mi meravigliai di essere vivo. Dopo parecchi minuti, quando chiusi gli occhi, quel mutamento mentale, quel lento abbandonarmi al capogiro, che significava un'incombente perdita di coscienza nel sonno, mi allarmarono e spalancai le palpebre. Se mi fossi addormentato, avrei mollato la presa e sarei stato spazzato via ancora una volta. Sarei rimasto per un bel po' in quella situazione. Con il marciapiede di servizio sott'acqua, nessuna squadra di manutenzione si sarebbe avventurata fin lì. Nessuno mi avrebbe visto aggrappato al palo e avrebbe messo in atto un salvataggio. Se mi fossi tenuto ben saldo, però, il livello dell'acqua si sarebbe abbassato con lo scemare del temporale. Alla fine il marciapiede sarebbe ricomparso. Il torrente sotterraneo sarebbe diventato abbastanza basso da poterlo guadare, com'era stato in precedenza. Perseveranza. Per tenere la mente occupata, feci un inventario mentale dei relitti che passavano ballonzolando. Una fronda di palma. Una palla da tennis azzurra. Uno pneumatico da bicicletta. Per un po' pensai a come sarebbe stato lavorare al Tire World, far parte di quella vita, darmi da fare sentendo attorno a me l'odore di gomma, e
questo mi rese felice. Un cuscino giallo di poltrona da giardino. Il coperchio verde di una borsa termica da picnic. Lo spunzone arrugginito del paletto di una cancellata. Un serpente a sonagli morto. Il serpente morto mi mise in allarme per la possibilità che ce ne fossero anche di vivi. E poi se nella corrente, oltre al paletto che avevo appena visto, ci fosse stato un tronco di una certa dimensione, poteva sbattere forte contro la mia colonna vertebrale e ferirmi. Cominciai a lanciare occhiate dietro le spalle, di tanto in tanto, per controllare i relitti in arrivo. Forse il serpente era stato un avvertimento. Fu così che individuai André, prima che mi arrivasse addosso. 58 Il male non muore mai. Cambia solo faccia. Di questa faccia ne avevo già visto abbastanza, troppo, e quando individuai il gigante, pensai per un istante (e sperai caldamente) che a inseguirmi fosse solo un cadavere. Ma era vivo, eccome, e più pimpante di me. Troppo impaziente per lasciare che la corrente lo portasse all'indicatore di profondità, agitava le braccia, sollevava schizzi d'acqua, deciso a nuotare verso di me. Io non avevo un posto dove andare se non salire. Mi dolevano i muscoli. Mi pulsava la schiena. Ero sicuro che le mani bagnate sul palo bagnato mi avrebbero tradito. Per fortuna, le linee che misuravano la profondità erano indicate non solo con la vernice nera sul fondo bianco, ma anche incise nel legno. Le utilizzai come appigli per le mani e per la punta dei piedi; erano poco profonde, ma sempre meglio di niente. Strinsi il palo con le ginocchia e mi spinsi verso l'alto con i muscoli delle cosce, e intanto mi aggrappavo con le mani ad artiglio, spostandole una sopra l'altra. Scivolai giù, puntai più forte le punte dei piedi, strinsi le ginocchia, tentai ancora, salii di una tacca, di un'altra, di due, sforzandomi disperatamente di guadagnarle una dopo l'altra, anche se salivo solo due centimetri e mezzo alla volta. Quando André sbatté contro il palo, sentii l'impatto e guardai giù. I suoi lineamenti erano larghi e smussati come una clava. Gli occhi erano armi appuntite, affilate dalla furia omicida. Allungò una mano verso di me. Aveva le braccia lunghe. Sfiorò con le
dita la suola di gomma della mia scarpa destra. Tirai su le gambe. Temendo di scivolare, e cadere così nelle sue mani, misurando il mio procedere dai numeri segnati sulle tacche, salii un pollice alla volta, finché la testa mi sbatté contro il soffitto. Quando guardai di nuovo verso il basso, vidi che, pur tenendo le gambe alzate il più possibile, in modo da tenermi abbarbicato al palo con le cosce, mi trovavo solo a poco più di venti centimetri da dove arrivavano le sue mani sollevate. Si aggrappò con molta difficoltà alle tacche, con quelle sue dita larghe e tozze, e si sforzò di uscire dall'acqua. La sommità del palo aveva un ornamento come quelli del pilastrino terminale di una ringhiera delle scale. Con la mano sinistra afferrai quel pomello e mi tenni forte, come aveva fatto il povero King Kong con il palo d'ormeggio dei dirigibili in cima all'Empire State Building. L'analogia non calzava del tutto perché in realtà King Kong stava sotto di me sul palo. Forse questo mi rendeva Fay Wray. Lo scimmione pareva nutrire un'innaturale passione per me. Mi scivolarono le gambe. Sentii André agguantarmi una scarpa. Furiosamente, presi a calci la sua mano; scalciai, scalciai e tirai di nuovo su le gambe. Ricordandomi della pistola di Datura infilata nella cintola, dietro la schiena, feci per prenderla con la destra. L'avevo persa strada facendo. Mentre ero impegnato alla ricerca della pistola che non avevo, il bruto salì di un altro po' e mi afferrò la caviglia sinistra. Scalciai e mi divincolai, ma lui tenne duro. Anzi, corse il rischio di lasciare la presa sul palo e mi afferrò la caviglia con entrambe le mani. Il suo peso notevole agì in modo così spietato su di me che avrei dovuto slogarmi un fianco. Udii un grido di dolore e di rabbia, poi ancora, ma non mi resi conto, fin quando ne udii un altro, che quel grido proveniva da me. L'ornamento in cima al palo non era intagliato nella sua estremità. Era stato fatto separatamente e poi applicato. Venne via e mi rimase in mano. Insieme, io e André finimmo in acqua. 59 Mentre cadevamo, mi liberai della sua stretta. Colpii l'acqua con una forza sufficiente ad andare sotto e toccare il fon-
do. La corrente, ancora molto forte, mi rigirò, mi fece piroettare su me stesso e risalii alla superficie tossendo e sputacchiando. Cheval André, il toro, lo stallone, galleggiava direttamente davanti a me, a cinque metri di distanza, rivolto nella mia direzione. Travolto dai flutti possenti, non era in grado di nuotare verso l'appuntamento con la morte che chiaramente desiderava. La sua furia ardente, l'odio bruciante, la brama di violenza lo consumavano talmente che si sarebbe sfinito oltre ogni possibilità di riprendersi per avere la sua vendetta e annegare non gli importava, dopo aver annegato me. A parte l'attrazione fisica di bassa lega che Datura suscitava, non mi veniva in mente alcuna qualità in lei che potesse suscitare l'assoluto coinvolgimento di corpo, mente e cuore di un uomo, in particolare di uno che non sembrava avere la minima capacità di sentimentalismo. Questo bruto poteva amare la bellezza talmente tanto da morire per essa, anche quando era superficiale e corrotta, anche quando colei che la possedeva era pazza, narcisista e manipolatoria? Eravamo in balia della corrente che ci faceva vorticare, ci sollevava, ci lasciava cadere, ci immergeva più a fondo, ci portava con sé forse a cinquanta chilometri all'ora, forse di più. A volte la distanza che ci separava si assottigliava fino a due metri. Non eravamo mai più lontani di sei o sette. Oltrepassammo il punto nel quale ero entrato nelle gallerie, la mattina di quel giorno, e continuammo. Cominciai a preoccuparmi che saremmo finiti fuori del tratto illuminato, nel buio, e avevo paura di tuffarmi alla cieca nel lago sotterraneo meno di quanto temessi di non poter tenere d'occhio André. Se dovevo annegare, che fosse la piena a reclamarmi. Non volevo morire per mano sua. Davanti a noi, grande come la circonferenza della galleria, un cancello di ferro a doppio battente formava un cerchio. Aveva le sbarre orizzontali e verticali, sembrava la saracinesca di un castello. Gli spazi vuoti formati dall'incrocio delle sbarre erano dei quadrati con dieci centimetri di lato. Quella grande grata serviva da filtro finale ai detriti portati dalla piena. Una marcata accelerazione dell'acqua indicava che non molto oltre c'era una cascata e senza dubbio il lago era in attesa là sotto. Oltre il cancello l'oscurità impenetrabile prometteva un abisso. André fu il primo a sbattere contro il cancello, io un paio di secondi dopo, due metri alla sua destra.
Dopo l'impatto, lui si afferrò alla massa di ciarpame accumulatasi alla base del cancello e ci si arrampicò sopra. Stordito, io avevo solo voglia di starmene attaccato lì e riposarmi, ma poiché sapevo che lui si sarebbe avventato su di me, mi arrampicai anch'io sui detriti e mi tenni al cancello. Rimanemmo appesi lì, immobili per un attimo, come un ragno e la sua preda sulla ragnatela. Lui cominciò a spostarsi lateralmente lungo la griglia di acciaio. Sembrava respirare con meno della metà della difficoltà che avevo io. Avrei preferito ritirarmi, ma riuscii a spostarmi per meno di un metro, prima di trovare la parete. Con i piedi su una barra verticale, tenendomi stretto al cancello con una mano sola, estrassi dai jeans il coltello da pesca. Al terzo tentativo, quando ormai André era arrivato alla distanza di un braccio da me, riuscii a estrarre la lama dall'impugnatura. L'ora fatale era dunque arrivata. O lui o io. O agivo o sparivo. Senza temere il coltello, si avvicinò di più e allungò un braccio. Gli feci un taglio nella mano. Invece di gridare o di trasalire, strinse la lama nel suo pugno sanguinante. Tirai via il coltello, e questo non fu indolore per lui. Con la mano ferita, mi afferrò una manciata di capelli e cercò di strapparmi via dal cancello. Per quanto ignobile e intimo, per quanto tremendo e necessario, gli ficcai il coltello in profondità nelle viscere e senza esitazione aprii uno squarcio verso il basso. Lui mollò la presa sui miei capelli e afferrò il polso della mano che teneva il coltello. Lasciò andare il cancello, cadde e mi trascinò assieme a lui. Rotolammo giù dai detriti accumulatisi contro il cancello e finimmo sotto la superficie, faccia a faccia, la mia mano nella sua, il coltello conteso che si agitava nell'acqua, la sua mano libera mi tempestava la spalla, mi tempestava la testa da una parte, poi mi tirava giù assieme a lui, ancora più in basso nell'acqua torbida, accecante e soffocante, e poi ancora una volta fuori, all'aria, a tossire e sputacchiare, le immagini sfuocate e confuse, e in qualche modo si era impossessato del coltello, la cui punta non sembrava affilata ma bollente quando mi aprì uno squarcio diagonale nel petto. Non ho ricordi dal momento dello squarcio fino all'attimo, breve ma inestimabile, in cui mi resi conto che giacevo sopra il cumulo di rifiuti alla
base del cancello, reggendomi a una sbarra con tutte e due le mani, timoroso di scivolare nell'acqua e di non essere più capace di riportare la testa al disopra della superficie. Esausto, svuotato di tutte le energie, le forze consumate, mi accorsi di aver perso conoscenza e capii che sarei svenuto ancora, momentaneamente. Riuscii a malapena a tirarmi un po' più su e a piegare le braccia attorno alle sbarre verticali, in modo che, se le mani si fossero rilasciate e avessero perduto la presa, i gomiti avrebbero continuato a tenermi al di sopra della corrente. Alla mia sinistra, lui galleggiava a faccia in su arenato contro il pattume, morto. Gli occhi erano rovesciati all'indietro, lisci e bianchi come uova, bianchi e ciechi come ossa, ciechi e terribili come la Natura nella sua indifferenza. Me ne andai. 60 Il tambureggiare della pioggia notturna contro le finestre... Proveniente dalla cucina, il delizioso aroma di un arrosto che si concedeva il suo tempo nel forno... Nel suo soggiorno, Little Ozzie riempie l'enorme poltrona fino a traboccare. La calda luce delle lampade Tiffany, i toni luminosi del tappeto persiano, i manufatti e gli oggetti d'arte riflettono il suo buon gusto. Sul tavolo accanto alla sua poltrona c'è una bottiglia di eccellente cabernet, un vassoio di formaggi, una coppa di noci fritte, che servono da testamento alla sua raffinata ricerca di autodistruzione. Io sono seduto sul divano e lo osservo godersi il libro per un po' prima di dire: Legge sempre Saul Bellow, Hemingway e Joseph Conrad. Non permette a se stesso di farsi interrompere nel bel mezzo di un paragrafo. Scommetto che le piacerebbe scrivere qualcosa di più ambizioso che storie su un detective bulimico. Ozzie sospira e assaggia il formaggio, gli occhi fissi sulla pagina. Ha un tale talento! Sono certo che potrebbe scrivere qualsiasi cosa lei voglia, mi chiedo se ci ha mai provato. Mette da parte il libro e solleva il vino. Oh, dico, sorpreso. Capisco com'è.
Ozzie assapora il vino e, sempre reggendo il bicchiere, tiene lo sguardo fisso, senza indirizzarlo verso qualcosa che è nella stanza. Vorrei che mi sentisse dire queste cose. Era un tale amico per me! Sono così contento che mi abbia fatto scrivere della mia storia con Stormy e di ciò che le è capitato. Dopo un altro sorso di vino, apre il libro e si immerge di nuovo nella lettura. Sarei potuto ammattire, se non me l'avesse fatta scrivere. E se non l'avessi scritta, di sicuro non avrai mai potuto avere un po' di pace. Terrible Chester, magnifico come sempre, arriva dalla cucina e si ferma a fissarmi. Se le cose fossero andate bene, avrei scritto anche quello che era successo con Danny e le avrei dato un secondo manoscritto. Le sarebbe piaciuto meno del primo, però forse un pochino sì. Chester mi ispeziona come non ha mai fatto prima e si siede ai miei piedi. Quando verranno a dirle di me, la prego, non mangi un prosciutto intero in una serata, non frigga un trancio di formaggio. Allungo una mano per carezzare Terrible Chester e lui pare apprezzare il mio tocco. Ciò che potrebbe fare per me è solo, per una volta, scrivere una storia del genere che amerebbe di più scrivere. Se lo farà per me, io le avrò restituito il dono che mi ha fatto, e ciò mi renderà felice. Mi alzo dal divano. Lei è una cara persona, saggia, generosa, premurosa, degna di stima e meravigliosamente grassa e non vorrei che fosse in nessun altro modo. Terri Stambaugh è seduta nella cucina del suo appartamento sopra al Pico Mundo Grille; sta bevendo il caffè e sfoglia lentamente un album di fotografie. Sbirciando da dietro le sue spalle, vedo delle istantanee di lei con Kelsey, il marito che ha perso a causa del cancro. Sul suo hi-fi, Elvis canta I Forgot to Remember to Forget: ho dimenticato di ricordarmi di dimenticare. Le metto le mani sulle spalle. Lei non reagisce, naturalmente. Mi ha dato tanto, incoraggiamento, un lavoro a sedici anni, le abilità di un friggitore di prima scelta, consigli, e tutto ciò che io le ho dato in cambio è stata la mia amicizia, il che non mi sembra abbastanza.
Vorrei riuscire a spaventarla con una manifestazione soprannaturale. Far girare le lancette dell'orologio a muro che raffigura Elvis. Mandare quella ceramica di Elvis a danzare dall'altra parte del ripiano. Dopo, quando verrebbero a dirglielo, lei capirebbe che sono stato io a fare lo stupido con lei, per dirle addio. Allora saprebbe che sto bene e sapendo che io sto bene starebbe bene anche lei. Ma non ho la rabbia sufficiente per essere un poltergeist. Non ne ho nemmeno abbastanza per far comparire Elvis sulla condensa che annebbia la finestra della sua cucina. Wyatt Porter e sua moglie, Karla, stanno cenando nella loro cucina. Lei è una brava cuoca e lui è un buon mangiatore. Il Capo sostiene che è questo a tenere in piedi il loro matrimonio. Lei dice che a tenere in piedi il loro matrimonio è il fatto che le dispiace dannatamente troppo per lui, chiedere il divorzio. Ciò che in realtà tiene assieme il loro matrimonio sono il mutuo rispetto, vero e profondo, un senso dell'umorismo condiviso, la fede di essere stati messi assieme da una forza più grande di loro e un amore così incrollabile e puro da essere sacro. Così è come mi piace credere che saremmo stati io e Stormy se avessimo potuto sposarci e vivere insieme a lungo come il Capo e Karla: talmente perfetti uno per l'altra che spaghetti e insalata in cucina durante una serata piovosa, soltanto loro due, soddisfa e rallegra il cuore più che cenare nel miglior ristorante parigino. Mi siedo a tavola con loro, senza essere invitato. Sono imbarazzato ad ascoltare inosservato la loro conversazione semplice eppure ammaliante, ma questa sarà l'unica volta che succederà. Dopo un po', squilla il cellulare del Capo. «Spero che sia Odd», dice lui. Lei mette giù la forchetta, si strofina le mani su un tovagliolo e dice: «Se c'è qualcosa che va storto con Oddie, voglio venire». «Pronto», dice il capo. «Bill Burton?» Bill è il proprietario del Blue Moon Café. Il Capo aggrotta la fronte. «Sì, Bill, certo. Odd Thomas? Dimmi.» Come se avesse un presentimento, Karla spinge indietro la sedia e si alza in piedi. Il Capo dice: «Arriviamo subito». Mentre anche lui si alza da tavola, io dico: Signore, i morti parlano, do-
potutto. Ma i vivi non ascoltano. 61 Ecco il mistero principale: come ho fatto ad arrivare dal cancello stile medievale nella galleria piena d'acqua fino alla porta della cucina del Blue Moon Café, viaggio del quale non ho il minimo ricordo. Sono convinto di essere spirato. Le visite che ho fatto a Ozzie, a Terri e ai Porter nella loro cucina non sono le invenzioni di un sogno. In seguito, quando li ho resi partecipi della mia storia e ho descritto ciò che ognuno di loro stava facendo quando ero passato a trovarli combacia perfettamente con i ricordi che ognuno di loro, separatamente, ha di quella serata. Bill Burton dice che sono arrivato malconcio e bagnato fradicio alla porta posteriore del suo ristorante, chiedendogli di chiamare Wyatt Porter. La pioggia era cessata e io ero talmente sudicio che ha messo una sedia fuori per me ed è andato a prendermi una bottiglia di birra, secondo lui ne avevo bisogno. Questa parte non la ricordo. La prima cosa che rammento è di stare sulla sedia a bere una Heineken, mentre Bill esamina la ferita che ho sul petto. «Superficiale», sentenzia. «Poco più di un graffio. Ha smesso di sanguinare da sola.» «Stava morendo quando ha menato quel fendente. Non c'era più vigore nel colpo.» Forse era vero. O forse era la spiegazione che avevo bisogno di dare a me stesso. Ben presto arrivò nel vicolo un'auto del dipartimento di polizia di Pico Mundo, senza contrassegni, senza sirene né luci lampeggianti, e parcheggiò dietro il caffè. Il Capo e Karla scesero e vennero da me. «Mi spiace che non abbiate potuto finire gli spaghetti», dissi. Si scambiarono un'occhiata perplessa. «Oddie», disse Karla, «hai un orecchio lacerato. Che cos'è tutto quel sangue sulla maglietta? Wyatt, gli serve un'ambulanza.» «Sto bene», le assicurai. «Ero morto, ma qualcuno non ha voluto che lo fossi, quindi sono tornato indietro.» A Bill Burton, il Capo chiese: «Quante birre ha bevuto?» «Questa è la prima», rispose lui.
«Wyatt, gli serve un'ambulanza», ripeté Karla. «A me no, davvero, però Danny è in pessima forma e potremmo aver bisogno di un paio di paramedici per portarlo giù per tutte quelle scale.» Mentre Karla portava fuori un'altra sedia dal ristorante, la metteva di fianco alla mia, si sedeva e si dava un gran daffare con me, Wyatt usò la radio sulla banda della polizia per chiamare un'ambulanza. Quando ritornò, gli chiesi: «Lei sa che cosa c'è che non va nell'umanità?» «Un sacco di cose», rispose. «Il dono più grande che ci è stato dato è il libero arbitrio e noi continuiamo a farne cattivo uso.» «Non ti preoccupare per questo, adesso», mi consigliò Karla. «Lo sa che cosa c'è che non va nella natura», le domandai, «con tutte le sue piante velenose, le belve feroci, i terremoti e le inondazioni?» «Ti stai agitando troppo, tesoro.» «Quando abbiamo provato invidia, quando abbiamo ucciso a causa di ciò per cui provavamo invidia, siamo caduti. E quando siamo caduti abbiamo mandato all'aria anche l'intera baracca, la natura.» Manuel Nunez, un addetto alla cucina che conoscevo perché aveva lavorato part-time al Grille, arrivò con un'altra birra. «Non penso che dovrebbe berla», si preoccupò Karla. Prendendo la birra, gli chiesi: «Manuel, come stai?» «A quanto pare, meglio di te.» «Sono morto solo per un po', tutto qua. Manuel, lo sai che cosa c'è che non va con il tempo cosmico come noi lo conosciamo, che ci ruba tutto?» «Non si tratta di 'fare un salto avanti, tornare indietro?'» domandò lui, pensando che parlassi dell'ora legale. «Quando siamo caduti e abbiamo trasgredito, abbiamo guastato anche la natura e quando abbiamo guastato la natura abbiamo infranto il tempo.» «Questo è da Star Trek?» volle sapere Manuel. «Probabilmente. Ma è vero.» «Mi piaceva quella serie. Mi ha aiutato a imparare l'inglese.» «Lo parli bene», gli dissi. «Per un po' ho avuto un accento dialettale, perché mi ero talmente immedesimato nel personaggio di Scotty.» «Un tempo, non c'erano predatori, non c'erano prede. Soltanto armonia. Non c'erano terremoti, tempeste, tutto in equilibrio. All'inizio, il tempo era tutto lì e per sempre, niente passato, presente e futuro, niente morte. Ab-
biamo distrutto tutto.» Il Capo cercò di portarmi via la Heineken appena arrivata. Io la tenni stretta. «Sa che cosa fa schifo più di tutto, nella condizione umana?» Bill Burton rispose: «Le tasse». «È ancor peggio», gli dissi. Intervenne Manuel. «La benzina costa troppo e non ci sono più mutui a un tasso ragionevole.» «Ciò che fa più schifo è... questo mondo è stato un regalo che abbiamo ricevuto, e noi lo abbiamo distrutto, e parte del patto è che, se vogliamo le cose a posto, dobbiamo aggiustarle da soli, ma non siamo capaci. Proviamo, ma non siamo capaci.» Cominciai a piangere. Le lacrime mi sorpresero. Pensavo di averla fatta finita con le lacrime, per sempre. Manuel mi mise una mano sulla spalla e disse: «Forse riusciamo ad aggiustarlo, Odd. Lo sai? Forse». Scossi la testa. «No. Siamo guasti. Una cosa guasta non può aggiustare se stessa.» «Forse può», intervenne Karla, mettendomi una mano sull'altra spalla. Me ne stavo lì seduto come un rubinetto. Tutto moccio e lacrime. In imbarazzo, ma non abbastanza da ricompormi. «Figliolo», mi disse Porter, «non è un lavoro che spetta soltanto a te, lo sai.» «Lo so.» «Quindi il mondo distrutto non è tutto sulle tue spalle.» «Buon per lui.» Il Capo si accovacciò accanto a me. «Io questo non lo direi. Non lo direi affatto.» «Nemmeno io», concordò Karla. «Sono un casino», mi scusai. Karla disse: «Anch'io». «Una birra mi farebbe bene», disse Manuel. «Stai lavorando», gli rammentò Bill Burton. Poi aggiunse: «Prendine una anche per me». Al Capo rivelai: «Ci sono due morti al Panamint e altri due nella galleria della rete di drenaggio sotterranea». «Basta che tu mi dica cosa fare e ci pensiamo noi», mi assicurò lui. «Ciò che doveva essere fatto... è stato così brutto. Davvero brutto. Ma la
cosa dolorosa è...» Karla mi diede un pacchetto di fazzolettini. Il Capo chiese: «Qual è la cosa dolorosa, figliolo?» «La cosa dolorosa è che anch'io ero morto, ma qualcuno non voleva che lo fossi, quindi sono tornato.» «Sì. Lo hai già detto.» Sentii un'oppressione al petto. Mi si strinse la gola. Respiravo a malapena. «Capo, ero così vicino a Stormy, così vicino al servizio militare.» Lui prese il mio volto bagnato fra le mani e mi costrinse a guardarlo. «Niente prima del tempo, figliolo. Tutto a suo tempo, quando deve accadere.» «Immagino sia così.» «Sai che è vero.» «È stata una giornata molto dura. Ho dovuto fare... cose tremende. Cose che nessuno dovrebbe sopportare.» Karla sussurrò. «Oh, Signore, Oddie! Oh, tesoro, no!» a suo marito disse in tono mesto: «Wyatt?» «Figliolo, non puoi aggiustare una cosa rotta rompendone un'altra parte. Mi capisci?» Annuii. Capivo, sì. Ma capire non sempre è d'aiuto. «Rinunciare... questo sarebbe stato rompere un'altra parte di te.» «La perseveranza», mormorai. «Giusto.» Alla fine dell'isolato, con le luce d'emergenza lampeggianti ma a sirena spenta, l'ambulanza svoltò nel vicolo. «Penso che Danny abbia delle ossa rotte ma che cercasse di non farmelo sapere», dissi al Capo. «Andremo a prenderlo. Lo maneggeremo come il vetro, figliolo.» «Non sa di suo padre.» «Va bene.» «Sarà proprio arduo, sa. Dirglielo. Molto arduo.» «Glielo dirò io, figliolo. Lascia che ci pensi io.» «No, signore. Le sarei grato se starà lì con me, però devo essere io a dirglielo. Penserà che è tutta colpa sua. Ne rimarrà devastato. Avrà bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi.» «Può appoggiarsi a te.» «Lo spero.» «Può appoggiarsi saldamente a te. Su chi potrebbe appoggiarsi di più?»
E così andammo al Panamint, dove la Morte aveva giocato d'azzardo e, come sempre, aveva vinto. 62 Con quattro auto della polizia prive di contrassegni, un'ambulanza, un furgone dell'obitorio di contea, tre specialisti della scientifica, due paramedici, sei agenti, un Capo e una Karla, ritornai al Panamint. Mi sentivo tutto acciaccato, ma non esausto al punto da collassare, come mi ero sentito prima. Essere morto per un po' mi aveva rinvigorito. Quando aprimmo la porta dell'ascensore al dodicesimo piano, Danny fu contento di vederci. Non aveva mangiato nemmeno una delle due barrette all'uvetta e noce di cocco e insisté per restituirmele. Aveva bevuto l'acqua che gli avevo lasciato, ma non spinto dalla sete. «Dopo tutti quegli spari», ammise, «avevo proprio bisogno delle bottiglie per pisciarci dentro.» Karla salì assieme al lui sull'ambulanza che lo avrebbe portato all'ospedale. In seguito, in una stanza del County General, fu lei, invece del Capo, a starmi vicino mentre dicevo a Danny di suo padre. Le mogli degli spartani sono i pilastri segreti del mondo. Nella vastità buia e invasa dalla cenere del secondo piano semidistrutto dal fuoco, trovammo i resti di Datura. Il puma se n'era andato. Come mi ero aspettato, lo spirito malvagio della donna non si era trattenuto lì. Non era più lei a esercitare la propria volontà, la sua libertà si era arresa a un esattore esigente. Nel soggiorno della suite al dodicesimo piano, schizzi di sangue e bossoli provarono che avevo ferito Robert. Sul balcone rimaneva una scarpa dalle stringhe slacciate, che doveva essergli sfuggita dal piede quando era barcollato all'indietro, attraverso la guida metallica della porta scorrevole. Immediatamente sotto il balcone, nel parcheggio, trovammo la sua pistola e l'altra scarpa, come se la compagna non gli servisse più e si fosse tolto quella rimasta per camminare con passo regolare. Una tale caduta dall'alto su una superficie dura avrebbe dovuto lasciarlo in una pozza di sangue. Ma il temporale aveva lavato l'asfalto, lasciandolo pulito. Tutti concordarono sull'ipotesi che Datura e André avessero spostato il cadavere in un posto asciutto. Io non condividevo quell'opinione. Datura e André erano rimasti di
guardia alle scale. Non avrebbero avuto né il tempo né la voglia di trattare il loro morto con dignità. Sollevai lo sguardo dalla scarpa e lo spostai sulla notte del Mojave, oltre il terreno dell'albergo, chiedendomi quale necessità (o speranza) e quale potere lo avesse spinto. Forse un giorno un autostoppista avrebbe trovato dei resti mummificati vestiti di nero ma senza scarpe, in posizione fetale, dentro una tana dalla quale erano state scacciate le volpi per dare rifugio a un uomo che desiderava riposare in pace senza essere raggiunto dalla sua dea esigente. La sparizione di Robert mi preparò al fallimento delle autorità nel ritrovare i corpi di André e dell'uomo-serpente. Vicino alla fine della rete di drenaggio sotterranea, il cancello, deformato e contorto, fu trovato aperto. Oltre di esso, una cascata dava su una caverna, la prima delle molte caverne che formavano un arcipelago di mari sotterranei intrappolati tutt'attorno dalla terra, un regno era ampiamente inesplorato e troppo pericoloso per giustificare la ricerca dei cadaveri. L'opinione comune fu che l'acqua, acquisita una potenza straordinaria e impossibilitata dalla massa di detriti a fluire facilmente attraverso il cancello, avesse distorto l'acciaio, piegato i cardini giganteschi e rotto la serratura. Sebbene quest'ipotesi non mi soddisfacesse, non desideravo svolgere un'investigazione indipendente. Nell'interesse dell'autoeducazione, che Ozzie Boone è sempre compiaciuto di vedermi intraprendere, cercai il significato di alcune parole che in precedenza mi erano sconosciute. Mundunugu compare in forme simili in diverse lingue dell'Africa Orientale. Un mundunugu è uno stregone. I vuduisti credono che lo spirito umano abbia due parti. La prima è il gros bon ange, il «grande angelo buono», la forza vitale che tutti gli esseri umani hanno in comune, che li anima. Il gros bon ange entra nel corpo al momento del concepimento e, alla morte del corpo, ritorna a Dio, dal quale era stato originato. La seconda è il ti bon ange, il «piccolo angelo buono», questa è l'essenza della persona, il ritratto dell'individuo, la somma delle scelte compiute in vita, delle sue azioni e credenze. Alla morte, poiché a volte vagabonda e ritarda il viaggio verso la sua casa eterna, il ti bon ange è vulnerabile a un bokor, un sacerdote vudù che pratica la magia nera piuttosto di quella bianca. Può catturare il ti bon an-
ge, imbottigliarlo, e conservarlo per svariati usi. Dicono che un bokor esperto, con gli incantesimi appropriati, può addirittura sottrarre il ti bon ange a una persona viva. Rubare il ti bon ange a un altro bokor o a un mundunugu è considerata un'impresa particolarmente singolare nella congrega delle mucche pazze. Cheval significa «cavallo» in francese. Per un vuduista, un cheval è un cadavere preso sempre quando è ancora fresco dall'obitorio, oppure ottenuto con qualsiasi altro mezzo, nel quale si installa un ti bon ange. Il cadavere, ridiventato vivo, è animato dal ti bon ange, che forse anela al paradiso (o forse anche all'inferno) ma è sotto il ferreo controllo del bokor. Non ho tratto conclusione alcuna dal significato di tali parole esotiche. Do qui le loro definizioni solo per vostra conoscenza. Come ho già detto, io sono un uomo razionale, però ho delle percezioni soprannaturali. Cammino quotidianamente su una corda da funambolo. Sopravvivo trovando il punto di pareggio tra ragione e irragionevolezza, tra emisfero sinistro e destro. Lo sconsiderato abbandonarsi all'irrazionalità è letteralmente follia. Ma abbracciare la razionalità negando l'esistenza di qualsiasi mistero insito nella vita e nel suo significato è una forma di follia non minore della totale devozione all'irrazionale. Una cosa interessante nella vita di un cuoco da tavola calda e in quella di un installatore di pneumatici è che durante una giornata con molto lavoro non si ha tempo di rimuginare su queste cose. 63 Lo zio di Stormy, Sean Llewellyn, è un prete, nonché il parroco della St. Bartholomew, a Pico Mundo. In seguito alla morte della madre e del padre, quando lei aveva sette anni e mezzo, Stormy era stata adottata da una coppia di Beverly Hills. Il padre adottivo l'aveva molestata. Sola, confusa, colma di vergogna, alla fine aveva trovato il coraggio di rivelarlo a un'assistente sociale. Da quel momento, scegliendo la dignità piuttosto del vittimismo, il coraggio piuttosto della disperazione, era vissuta nell'orfanotrofio di St. Bartholomew fino a quando aveva preso il diploma alla scuola superiore.
Padre Llewellyn è un uomo gentile dall'aspetto burbero, ben saldo nelle proprie convinzioni. Assomiglia a Thomas Edison interpretato da Spencer Tracy, ma con i capelli a spazzola. Senza il collare bianco, potrebbe essere scambiato per un marine di carriera. Due mesi dopo gli eventi del Panamint, il Capo mi accompagnò a un incontro con padre Llewellyn. Ci ricevette nel suo studio alla St. Bartholomew. In uno spirito di confessione, che richiedeva la fiducia del sacerdote, gli parlammo del mio dono. Il Capo confermò che con il mio aiuto aveva risolto certi crimini e garantì la mia integrità e la mia veridicità. La mia domanda principale per padre Llewellyn fu se conosceva un ordine monastico che offrisse vitto e alloggio a un giovane il quale in cambio avrebbe lavorato sodo, ma che pensava di non giungere mai a desiderare di diventare monaco. «Vorresti essere un residente laico in una comunità religiosa», riassunse padre Llewellyn, e da come lo disse capii che poteva essere una sistemazione insolita ma non senza precedenti. «Sì. Proprio così.» Con il rude atteggiamento da orso di un sollecito sergente dei marines che dà consigli a un soldato in difficoltà, il prete disse: «Odd, in quest'ultimo anno hai ricevuto dei brutti colpi. La perdita che hai subito... che ho subito anch'io... è stata una cosa straordinariamente difficile da affrontare, perché lei era... un'anima talmente buona». «Sì. Lo era. Lo è.» «Il lutto è un'emozione sana, ed è sano viverlo. Accettando la perdita, vediamo con maggiore chiarezza i nostri valori e il significato della nostra vita.» «Io non ho intenzione di sottrarmi al lutto», gli assicurai. «E nemmeno di dedicartici troppo?» «Nemmeno questo, no.» «Ecco di cosa mi preoccupo», disse il Capo a padre Llewellyn. «Ecco perché non approvo.» «Questo non è il resto della mia vita», dissi. «Un anno, magari, e poi vedremo. Ho solo bisogno che per un po' le cose siano più semplici.» «Sei ritornato al Grille?» mi chiese il prete. «No. Il Grille è un posto pieno di gente, e il Tire World non è molto meglio. Io ho bisogno di fare un lavoro utile per tenere la mente occupata, però mi piacerebbe trovare lavoro dove è... più tranquillo.»
«Anche come residente laico, che non segue l'insegnamento religioso, dovrai comunque essere in armonia con la vita spirituale dell'ordine che potrà ospitarti, qualunque esso sia.» «Lo sarò. Sarò in armonia.» «Che tipo di lavoro ti aspetti di fare?» «Curare l'orto e il giardino. Dipingere. Piccole riparazioni. Lavare i pavimenti, le finestre, fare le pulizie generali. Potrei cucinare per loro, se volessero.» «Da quanto tempo è che ci pensi, Odd?» «Due mesi.» A Porter, padre Llewellyn disse: «Ne ha parlato con lei così a lungo?» «Quasi», rispose il Capo. «Allora non è una decisione impetuosa.» Il Capo scosse la testa. «Odd non è impetuoso.» «Non credo nemmeno che si voglia sottrarre al suo lutto. Oppure coltivarlo troppo.» Dissi: «Ho solo bisogno di semplificare. Di semplificare a trovare la quiete per pensare». Al Capo, padre Llewelly chiese: «Come suo amico che lo conosce meglio di quanto lo conosca io, e come uomo che evidentemente lui stima, lei ha qualche altro motivo per cui pensa che Odd non dovrebbe farlo?» Porter rimase in silenzio per un momento. Poi rispose: «Non so come faremo senza di lui». «Per quanto grande sia l'aiuto che Odd vi dà, Capo, ci sarà sempre altro crimine.» «Non è questo che intendo. Intendo... non so proprio come faremo senza di te, figliolo.» Dalla morte di Stormy, vivevo nel suo appartamento. Quelle stanze significavano per me meno del mobilio, dei piccoli soprammobili e delle suppellettili personali. Non volevo sbarazzarmi delle sue cose. Con l'aiuto di Karla e di Terry, imballai tutto ciò che le era appartenuto e Ozzie si offrì di tenerlo a casa sua in una stanza libera. Nella mia penultima sera in quell'appartamento, sedetti con Elvis alla gradevole luce di una vecchia lampada con il paralume di seta e la frangia di perline, ad ascoltare la musica dei primi anni della sua leggendaria carriera. Da vivo amava sua madre più di qualsiasi altra cosa. Da morto, più di
qualsiasi altra cosa desidera vederla. Mesi prima di morire (potete leggerlo in molte biografie del cantante), lei si preoccupava che la fama gli stesse andando alla testa, che stesse perdendo la propria strada. Poi morì, ed era ancora giovane, prima che il figlio raggiungesse l'apice del successo, e dopo lui cambiò. Straziato per anni dal dolore, dimenticò però i consigli della madre e anno dopo anno la sua vita prese sempre di più una brutta piega, la promessa del suo talento realizzata solo a metà. Quando arrivò ai quaranta (anche questo viene riportato dai biografi) Elvis era già tormentato dalla convinzione di non aver reso debitamente giustizia alla memoria della madre e che lei si sarebbe vergognata per il suo uso degli psicofarmaci e per come indulgeva nelle proprie passioni. Dopo la sua morte, avvenuta a quarantadue anni, Elvis si trattiene da questa parte perché teme proprio la cosa che desidera più disperatamente: vedere Gladys Presley. A trattenerlo non è, come pensavo un tempo, l'amore per questo mondo, che è stato tanto benevolo con lui. Sa che sua madre gli vuole bene e lo prenderà nelle proprie braccia senza una parola di critica, ma arde dalla vergogna di essere diventato la star più grande del mondo, ma non l'uomo che lei aveva sperato diventasse. Nel mondo a venire, lei sarà lietissima di riceverlo, ma Elvis sente di non essere degno della sua compagnia, perché è convinto che sua madre ora si trovi in compagnia dei santi. Gli ho rivelato questa mia teoria nella penultima notte che ho trascorso nell'appartamento di Stormy. Quando ho finito, aveva gli occhi colmi di lacrime e li ha tenuti chiusi a lungo. Infine mi ha guardato di nuovo, mi ha preso una mano e l'ha tenuta fra le sue. In realtà, è proprio per questo che si trattiene. La mia analisi, però, non è abbastanza per convincerlo che il suo timore di un ricongiungimento madre-figlio non è fondato. A volte è un vecchio rockabilly ostinato. La mia decisione di lasciare Pico Mundo, almeno per un po', ha portato alla soluzione di un altro mistero relativo a Elvis. Si aggira nella nostra cittadina non perché questa abbia qualche significato per lui, ma perché ci sono io. Crede che alla fine io sarò il ponte che lo condurrà a casa, e da sua madre. Di conseguenza, desidera venire con me nella prossima fase del mio viaggio. Dubito di potergli impedire di accompagnarmi, e non ho motivo di rifiutarlo.
Mi diverte l'idea del Re del rock'n'roll che si aggira in un monastero. I frati potrebbero giovargli e sono certo che lui gioverà a me. Stasera, mentre scrivo, sarà la mia ultima serata a Pico Mundo. La trascorrerò in compagnia degli amici. Questa città, nella quale ho dormito ogni notte della mia vita, sarà difficile da lasciare. Mi mancheranno le sue strade, i suoi suoni e rumori, e mi ricorderò sempre il modo in cui la luce e l'ombra del deserto le danno un tocco di mistero. Ancora più difficile sarà lasciare la compagnia dei miei amici. Non ho nient'altro nella vita, se non loro. E la speranza. Non so che cosa mi aspetta in questo mondo. Ma so che Stormy mi attende nel prossimo e questa certezza rende questo mondo meno tetro di quanto sarebbe altrimenti. Nonostante tutto, ho scelto la vita. E adesso, rimbocchiamoci le maniche! Nota dell'autore Gli indiani panamint, della famiglia shoshoni-comanche, non gestiscono un casinò in California. Se avessero posseduto il Panamint Resort and Spa, questo non sarebbe stato colpito da una catastrofe e io non avrei avuto una storia. FINE