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JEFF LONG IL LABIRINTO DELLE OSSA (The Reckoning, 2004) A Emma, dalle praterie selvagge del mio amore... Prologo Cambogia, 1970 Lo ripescano dal Mekong come fosse un lungo e pallido drago acquatico. Gridano e lo pungolano con le canne di bambù, terrorizzati. Lui è convinto che sia la sua pelle bianca a spaventarli, oppure il perizoma ricavato dalle ultime strisce dell'uniforme americana. I bambini piangono. Un cane ha paura di avvicinarsi. Un villaggio. Sorride per la fortuna che ha avuto. A casa, libero. «Cibo», implora. «America.» Scappano al suono della sua voce. La loro paura gli infonde coraggio. Ormai è quasi cieco. Le gambe sono troppo pesanti per muoversi. A malapena riesce a sollevare la testa. Come Gulliver giace sotto la pioggia grigia. Dopo un po', un'anima coraggiosa si avvicina per legargli la caviglia con una liana. Lo lasciano nel fango sull'argine, impastoiato come un animale. Lui si calma. Deve apparire molto debole, se no lo accecherebbero definitivamente. Sembra avere anche un qualche valore, altrimenti lo ucciderebbero o lo getterebbero nel fiume. Da boy scout, gli avevano insegnato che se si fosse smarrito, avrebbe dovuto seguire la corrente. Così per più di una settimana non si è mai fermato, guadando ruscelli che si trasformavano in affluenti vigorosi, calandosi lungo cascate e rapide, nuotando, e finalmente lasciandosi trasportare aggrappato a un enorme nodoso legno lungo il fiume. Sono in fuga, pensava. Ricorda il momento in cui è sbucato dalla foresta e dalle sue cupe ombre, calpestando oceani d'erba, seguendo l'acqua. Si era aspettato di uscire alla luce. Ma insieme alla portata delle acque era cresciuto anche il buio intorno a lui. Quando non pioveva, le nubi monsoniche oscuravano il sole. Giorno dopo giorno la vista peggiorava. Colpa dell'acqua. Il fiume è pieno di parassiti. Oppure della pioggia che lo stava facendo diventare cieco.
Prima di smarrire la bussola, la sua rotta era sicuramente verso sudovest, lontano dalle violente terre di confine. Lontano dalla follia che ha infettato i suoi compagni. Nell'entroterra cambogiano. Ma più andava avanti, più le cose sembravano allontanarsi da lui. La mappa si è dissolta il primo giorno. Sui vestiti gli sono spuntati funghi e muschio azzurro, poi sono caduti a pezzi. Lo zaino si è disintegrato. Probabilmente qualche animale gli ha rubato gli scarponi nel sonno. Convinto che fosse il fucile, si è portato dietro un ramo d'albero per chilometri. Le allucinazioni se lo sono rosicchiato piano piano. Adesso si sono impadronite di lui. Seduti distanti sotto la piaggia, gli uomini continuano a osservarlo. Lui sente i loro sussurri e l'odore del tabacco nelle pipe. La pioggia gli picchietta sui bulbi oculari. Non riesce più a chiudere le palpebre. Dovrebbe sentire male, invece niente. Fissa la pioggia che gli martella le ossa del cranio. Come qualsiasi prigioniero in terra straniera, si aggrappa a tutto ciò che lo rende unico. È giovane, ha appena diciannove anni. È alto, se riuscisse a mettersi in piedi sovrasterebbe di molto quelli che l'hanno catturato. Ha una ragazza che lo aspetta. Sa giocare a pallone, eseguire un esercizio algebrico a mente e suonare House of the Rising Sun alla chitarra. Nel suo garage c'è la Chevrolet che ha rimesso a posto. Se solo potesse spiegarlo. Venire qui non è stata un'idea sua. In qualche modo, sono state le correnti a trascinarlo con sé fino a quel momento nel tempo. Tutta la guerra è stata un'idea di qualcun altro. Alla fine gli danno da mangiare. Per prudenza o per via della pioggia, non accendono il fuoco, quindi niente riso o cibo caldo. Gli danno un piccolo frutto, oltre a insetti e creature acquatiche. Dopo tutte le settimane passate nella foresta, di alcune cose riconosce i sapori e la consistenza. I grilli sanno di nocciola. Gli scarafaggi sono più croccanti. I gamberi si muovono ancora. Ha una gran fame. Nei giorni seguenti non gli danno mai abbastanza. Più la vista va male, più lui diventa famelico. Mastica erba, germogli d'albero, persino l'argilla, tutto per smorzare la fame. Fino a quando ce la farà a trascinarsi, gli permetteranno di cercarsi il cibo da solo. Mente galleggiava nel fiume sul grosso tronco, sognava di andare verso il mare. L'avrebbero trovato i pescatori o i marinai o i pirati che avrebbero chiesto un riscatto. Oppure sarebbe stata la marina statunitense a raccoglierlo. Si sarebbe salvato.
Il terzo giorno arrivano i guerriglieri. Con quel poco di vista che gli rimane, capisce di avere scambiato le ombre, le sagome della foresta per questi spettri grigi. Il mondo è diventato una macchia sfocata, ma lui riesce ancora a distinguere che sono vestiti di nero. Riconosce i caricatori a banana nei loro fucili. Le loro sciarpe a scacchi rossi però rimangono un mistero. Per lui sono solo una nuova razza di nemici. Parlano, bisbigliano e lui non capisce una parola. Sembrano spaventati e incerti su cosa fare. Lui è disteso tra le loro gambe, bloccato dalla stazza del suo corpo. Li disprezza. E disprezza se stesso. Al posto loro, non esiterebbe ad ammazzare uno come lui. Invece, aspettano e basta. Gli uomini con i pantaloni neri e le sciarpe rosse sono l'ultima cosa che vede. Diventa completamente cieco. Non distingue più il giorno dalla notte. Il tempo rallenta. La pioggia va e viene, copiosa e bollente come piscio. Forse passano altri due giorni. Le membra sono sempre più pesanti, grevi come la terra. Ascolta il rumore del fiume. Ogni tanto, qualcuno gli tocca gli occhi con un rametto. Questo e la pioggia sono come mosche che non riesce ad ammazzare. Sta impazzendo. Poi, un giorno o una notte, un uomo gli parla in inglese. «Dormi o sei sveglio?» gli chiede. La voce è vicina all'orecchio. Il soldato crede di sognare. Sente il mormorio degli uomini lì vicino. «Ehi!» grida. «Ma guardati», dice la voce, palesemente scioccata. «Come è potuto succedere?» Il giovane soldato si riempie di speranza. «Grazie a Dio», esclama. Vorrebbe prendere la mano dell'uomo, ma non riesce a sollevare le braccia. «Ho pregato tanto. Chi sei?» «Sono uno di passaggio, come te. Mi hanno mandato a chiamare. Sono venuto ad aiutare.» Dall'accento sembrerebbe francese. Potrebbe essere un coloniale, forse un dottore o un prete. «Mi puoi salvare?» «Farò il possibile. Ma c'è poco tempo. Devi raccontarmi tutto.» Come nella santa confessione. È un prete, decide alla fine il soldato. Si calma. Deve agire nel modo giusto. «Come vuole lei, padre. Sono cieco. Ho le braccia di pietra. Mangio la terra. Cosa mi è successo?» Pausa. «Parliamo.» «Ho un problema agli occhi.» «Sì, gli occhi. Ci vedi?» «Direi di no.»
«Ma qualcosa vedrai sicuramente.» «Nulla di reale. Soltanto un sogno, sempre lo stesso. Sono nella foresta. Ci sono teste gigantesche e scimmie sopra gli alberi. Ho bisogno di medicine, padre. Può portarmi dagli americani? Loro la pagheranno.» Lo straniero elude la sua preghiera. Brutto segno. Da che parte sta? «Da dove vieni?» gli domanda. «Chicago. America.» «Sì.» L'uomo è paziente, la voce gentile. «Hai menzionato una città da cui ha avuto origine questa maledizione.» Una maledizione, esattamente. Ecco cos'era. «Vuole dire le rovine?» Silenzio, poi: «Hai trovato la città?» Le rovine lo mettono in agitazione. Sembra che le conosca o che ne abbia sentito parlare. «Su una montagna, padre. Esattamente dove fa comodo a noi. Un antico luogo circondato da mura. Selvaggio... irreale.» «Le guerre non l'hanno rovinato?» «È intatto, come mille anni fa. Non c'è nessuno. È vuoto.» Silenzio: «Ti ricordi la strada?» gli domanda l'uomo. Quale strada? L'acqua che scorre nell'acqua? Questo, però, potrebbe essere l'unico modo per tornare a casa. «Ma certo. Posso fargliela vedere non appena mi sarò ristabilito un po'.» «E il resto dei tuoi uomini?» Il soldato avrebbe potuto negare la loro esistenza. Tenerli nascosti. Ma ormai ha già detto «noi», ed è disperato. «Sono ancora là, tutti. Gli avevo detto di venirmi dietro, ma loro hanno preferito seguire uno stolto. L'abbiamo seguito sulla montagna. Ci ha portati sulla strada sbagliata e poi ci ha detto di fermarci. Così è morto per i suoi peccati. E presto lo seguiranno anche gli altri.» Il suo inquisitore rimane muto. Non indaga su quanti americani ci siano ancora, o sulla loro unità, né chiede altre informazioni militari. Le rovine sembrano il suo unico interesse. «Âmes damnées», mormora alla fine l'uomo. L'americano non ha idea di che cosa significhi. «Già», replica, «proprio così.» «Angeli caduti», dice il prete. «Eppure tu sei riuscito a fuggire.» Il soldato si fa diffidente. «Li avevo messi in guardia. Ci stavamo disgregando. Avevamo paura. Ci eravamo persi. La notte si sentivano voci. Nessuno sapeva più di chi fidarsi o che cosa fare. Ognuno per sé. Alla fine, sono andato a cercare aiuto. Non dureranno molto lassù. Io ho seguito l'ac-
qua. L'acqua mi ha fatto arrivare qui.» «Si stanno fossilizzando?» Il giovane soldato non riesce a capire. «Cosa?» «I tuoi occhi», mormora il prete. Il soldato si fa silenzioso. «Cosa?» «Anch'io sono mutilato», dice l'altro con quel suo accento. «Una bomba. Anni fa. Per un periodo non sopportavo la vista di quel che restava del mio corpo. Ma alla fine è stato necessario. Ho dovuto toccare le ferite. Mi capisci? Dobbiamo accettare il nostro destino.» Il soldato si tocca gli occhi spenti. «Oh, Signore, aiutami tu!» Al posto delle palpebre, rivoltate, ci sono due grossi cerchi. Gli occhi sono duri come la giada, come quelli di giada verde, che ha visto alle rovine. Non appartengono al suo volto. Riporta la mano lungo il fianco. La adagia sul fango, come un'àncora. Le dita affondano nella terra. «Padre? Non mi abbandoni.» «Sono qui.» «Cosa mi succederà?» «La gente ha paura. Vogliono che te ne vada.» «Mi metta sul fiume. Me ne andrò. Lontano.» «Lo farò», promette l'uomo. Il soldato prova sollievo. Sebbene cieco, ha ancora una possibilità. «Grazie, padre. Li ringrazi da parte mia.» «Vogliono che non ti faccia più vedere al loro villaggio. Che ti dimentichi questo posto.» «Lo giuro.» «Ma ricordati della città. È lei che ti sta punendo. Credo che un giorno dovresti tornarci.» Mai e poi mai. «Sì, padre.» A quel punto il soldato sente un rumore che conosce fin troppo bene: una lama che viene sguainata. Adagio, ma quel semplice sibilo è inequivocabile. Il mormorio che si sentiva in lontananza cessa. «Cosa fa?» sussurra il soldato. «Ti libero», risponde la voce, «perché tu possa finire il tuo viaggio.» Il cuore del soldato batte forte nel petto. Aspetta di sentire uno strappo alla caviglia, nel momento in cui viene tagliata la liana. Invece si sente afferrare la fronte. Scoprire la gola. L'aveva capito dal primo momento che quello non era un prete. Ma non
poteva far altro che sperare. Come adesso. «Mi perdoni, padre», dice. «Stavo solo cercando di tornare a casa.» «Sii coraggioso.» La voce è gentile. «Il sogno continua.» 1 Cambogia, 2000 Giunse sul posto a bordo di un grosso autocarro militare americano della guerra del Vietnam, con la mimetizzazione verde e nera che si stava sfaldando. La ruggine l'aveva colpito sui fianchi. Il bestione era senza freni, se mai li aveva avuti, e qualche superstizione aveva impedito al conducente ricoperto di cicatrici e senza tre dita - di toccarli. Iniziarono a rallentare quando mancava ancora un chilometro e mezzo, questione di calcolo e pazienza. «Qui?» Molly gridò la propria incredulità per sovrastare il fracasso del motore. Il conducente scosse la testa, non lì. Indicò un punto più avanti. Attraverso il parabrezza crepato, si vedeva la configurazione del terreno: una scacchiera di risaie. Le frondose palme da zucchero si piegavano secondo angolature stravaganti e i villaggi distanti, appollaiati su alte e sottili palafitte, le fecero venire in mente le illustrazioni dei libri di Seuss. Ovunque guardasse, l'orizzonte si fondeva nella foschia e nei miraggi del caldo. Molly pensò che si trattasse di un errore. Non c'erano tracce: né di scavi né di un campo. E faceva caldo. L'afa la spossava. La ripudiava. Lei la scacciava, cercando di non sentirsi un pesce fuor d'acqua. Il Nuovo Ovest Americano era la sua specialità, non l'Asia e certamente non la parte di morti della guerra dei figli del boom demografico. I suoi amici scrittori erano rimasti sconcertati. Loro la consideravano una che andava forte, una su cui si poteva sempre contare per quei servizi fotografici sui ricconi nelle stazioni sciistiche, gli amanti delle scopate di gruppo nelle riserve dei Navajo, i cerchi nel grano nel Nebraska e la psicoterapia per scalatori dell'Everest cerebrolesi, insomma la roba che sapeva padroneggiare. Lei aveva un suo seguito e una graziosa casa di città in stile vittoriano a Boulder nel Colorado. Perché rischiare? Per loro, la Cambogia era una sorta di improvviso attacco di boria. Nemmeno Molly riusciva a spiegarselo. Aveva saputo, all'inaugurazione di una galleria a Taos, dell'esistenza di
un'organizzazione per la ricerca dei resti dei soldati americani morti in quel paese. Il fratello dell'artista era un soldato della marina con un sacco di aneddoti da raccontare. Qualcosa che aveva detto riguardo a una caccia alle ossa, tortuosa e senza fine, finanziata con i dollari dei contribuenti, aveva scatenato gli istinti di Molly. Il New York Times aveva trovato il tutto interessante, e adesso lei era lì. Un cencio bianco appeso a una canna di bambù le fece capire che quello era il loro punto di riferimento. La sensazione di sollievo mescolata a cattivi presentimenti affiorò di nuovo. Voleva legare con la squadra scientifica. Il suo lavoro, come il loro, era svelare vecchi segreti. Ma il jet-lag e il caldo soffocante della Cambogia l'avevano distrutta. Fa' che siano gentili, pensò, o quanto meno non ostili. Che almeno mi diano il tempo per ambientarmi. Erano militari americani. Loro appartenevano a una tribù, lei a un'altra, una professionista estranea che riusciva sempre a inserirsi. Sapeva di non poter contare sulla loro cortesia, ma ne aveva bisogno. Quel servizio era la sua missione: aveva mosso mari e monti per aggiudicarsi quell'incarico per il supplemento domenicale del Times, ed era intenzionata a far sì che funzionasse. Poteva fare la freelance su e giù per le Montagne Rocciose fino al giorno del giudizio, oppure tentare la strada della gloria. Così, la settimana in cui aveva compiuto trent'anni Molly si era tagliata a spazzola i capelli neri, aveva fatto il richiamo del vaccino per l'epatite ed era volata verso la faccia nascosta della luna. L'autocarro, giunto al termine del lungo viaggio, si arrestò proprio accanto allo straccio bianco. Il conducente guardò davanti a sé tenendo le mani sul volante. Rimasero tutti oziosamente seduti. Molly socchiuse gli occhi per vedere se esisteva un cartello con la scritta ELEMENTO DI RECUPERO 1, o ER-1, nome con cui era stata designata quella particolare squadra di ricerca. Non trovarli aumentava la sua esasperazione. Alla fine, allungò la mano verso la corda che fungeva da maniglia. Dopo essere scesa, andò velocemente verso il retro del mezzo per prendere il suo borsone nero in mezzo a una catasta di cassette di legno della Coca-Cola. L'autocarro ripartì con un complicato grattare di marce. Era arrivata con una settimana di ritardo, aveva dovuto portare a termine altri incarichi, e naturalmente non c'era nessuno a riceverla. Forse ormai non contavano più sul suo arrivo. Molly girò lentamente su se stessa, proteggendosi gli occhi con una mano. Il sole era alto e la sua ombra non era che uno spruzzo sotto i piedi.
Con quella maglietta da ciclista con la scritta CICLI VIZIOSI si sentì piccola e vulnerabile. L'aveva conservata proprio per un momento come questo, un debutto ostentatamente virile con i soldati americani, per mostrare un minimo di razza. Un minimo di pedigree, pensò, boccheggiando. Il calore le arrostiva le braccia nude. Tolse il lucchetto dal borsone e cercò una maglietta bianca, ampia e con le maniche lunghe. La sua carnagione irlandese si copriva immediatamente di lentiggini, scottandosi. Pelle da vampiro, aveva detto una volta un suo fidanzato, la rovina di un corpo creato per la forza. Naturalmente, si era dimenticata di portare un cappello. Ma era certa che i soldati avrebbero barattato o venduto qualcosa, se solo fosse riuscita a scovarli. Arrivò in fondo alla strada, sperando di trovarli a sgobbare in un'ampia fossa nascosta. Invece, con suo grande sgomento, davanti ai suoi occhi si palesò un labirinto di risaie vuote, cumuli di terra e sentieri che si diramavano come miraggi. Si rifiutò di chiamare ad alta voce. Non poteva essersi persa. Era pieno giorno e l'immensa golena si stendeva pianeggiante. Uno dei sentieri era segnalato con una bandierina arancione. Le mosche sciamarono sulla sua lozione solare, pungendo come api. Imprecando Molly s'incamminò in quella direzione, facendo dondolare la borsa della macchina fotografica. Dopo dieci minuti, vide una figura che tremolando appariva e spariva in fondo a un lago prosciugato. Molly si asciugò il sudore e guardò attraverso l'obiettivo, decise che con quei capelli biondi e la mascella pronunciata doveva essere per forza uno dei soldati americani. Sembrava che guardasse proprio verso di lei, ma non ricambiò il saluto che lei gli rivolse con la mano. Prendi il toro per le corna, pensò, abbandonando il sentiero. Prima che fosse riuscita a districarsi in quella rete di piste, l'uomo sarebbe sparito di sicuro. Stava per cominciare ad attraversare il letto secco del lago quando una voce alle sue spalle disse: «Io non ci andrei». Molly si voltò e vide un uomo alto, magro con la testa coperta da uno scialle cambogiano a scacchi bianchi e rossi. Le ginocchia dei suoi Levi's fuori misura erano sporche di terra. Era rasato e indossava una T-shirt raffigurante il volto di Che Guevara. Con una mano stringeva una cazzuola da muratore. A terra, accanto a lui, ordinatamente poggiata in verticale su due bastoni, c'era una valigetta d'acciaio graffiata e ammaccata, ovviamente i suoi strumenti da lavoro. Poi notò anche un'altra cosa. L'uomo non sudava. Sembrava che, persino con quel clima, godesse del massimo auto-
controllo. «Non l'avevo vista», rispose Molly. «Questo posto è disseminato di rottami di guerra. Incubi», affermò. Parlava degli UXO: ordigni inesplosi di trent'anni di massacri. Di norma lei avrebbe fatto buon viso a cattiva sorte sorbendosi il predicozzo. Era nuova del territorio e in quanto giornalista teneva in grande considerazione ogni informazione. Ma era stanca e incazzata per il caldo e per quello strano labirinto piatto, e non dell'umore adatto per pillole di saggezza. «La lezione l'ho già imparata», disse. «Le bandiere arancioni significano che la zona è pulita. Rosse significano stop. Però il letto del lago è vuoto.» Una stupidaggine. Se il pericolo non si vedeva non significava che non ci fosse. «Lei ha mai visto questa gente pescare?» le domandò. «Prendono una granata, di qualsiasi periodo. Alzano la linguetta di protezione. La lanciano nell'acqua. È più facile che con la rete. Il problema è che questa roba è vecchia e, spesso, affonda nella melma e rimane lì.» Fece una pausa. «Quel che voglio dire Molly è: cerca di non essere proprio tu a saltarci sopra. Sei troppo carina.» Conosceva il suo nome. E ci stava provando? Con quel caldo? Molly scacciò furiosamente le mosche. Lui si chinò per offrirle la mano, e intuendo le sue origini, improvvisò un accento irlandese. «Duncan O'Brian, discendente di re. In quanto a te, signorina Drake, non ci sono misteri. Erano tutti informati del tuo arrivo.» Molly pensò che lui volesse solo stringerle la mano, invece la afferrò e la sollevò dal letto del lago. Non le avrebbe consentito di commettere stupidaggini. Lei desiderava disperatamente sedersi, ma era troppo presto per mostrarsi debole. Anche se si vedeva lo stesso. Prima di rendersi conto di che cosa stesse facendo, si ritrovò il suo scialle sulla testa a mo' di velo. «Ecco, così sarà utile», disse. «Può diventare dura da questa parti.» Lo scialle era una meraviglia. Immediatamente, l'aria sembrò più fresca, il sole più sopportabile. Le mosche si dileguarono, e con loro la sensazione di essere assalita. Con suo stupore, lo scialle odorava di pulito, come di pioggia e non di sudore. Quella minuscola porzione d'ombra la rincuorò. Aveva un nascondiglio. E tutto questo grazie al dono di uno sconosciuto. «Sto bene, grazie.» E cominciò a togliersi lo scialle. Lui ignorò la mossa orgogliosa. I capelli, brizzolati alle tempie, gli arrivavano alle spalle. Lei non era in grado di dargli un'età. Poteva essere un
uomo di circa trentacinque anni, parecchio stagionato, oppure un cinquantenne molto ben tenuto. «Si chiama kroma», le spiegò. «I cambogiani lo usano per tutto: come copricapo, scialle, accessorio che fa moda, ombrello, manette, cesta per la frutta, imbracatura per portare i neonati. Il motivo a scacchi rappresenta la tensione cosmica fra la vita e la morte. O fra la conoscenza e l'ignoranza. Vedi tu.» Aveva quel non so che dell'eremita. Adorava parlare. Lei stava riacquistando le forze. «Io volevo solo qualche indicazione», disse, accennando all'uomo dall'altra parte del letto del lago. «Dal nostro zingarello?» Aveva un sorriso da contadino. «Scordatelo. Lui non si avvicina mai e non permette ad altri di farlo. Gli lasciamo del cibo, ma lui lo dà ai cani. Non sappiamo esattamente chi sia o perché si comporti così. È apparso un giorno dal nulla. La prima volta che l'ho visto ho pensato: Ragazzo, sei proprio arrivato al termine del tuo magico e misterioso viaggio. Ma guardalo come è conciato. Pantaloni da contadino e sandali vietcong fatti con vecchi copertoni, probabilmente francesi, della Michelin. E niente cappello, hai notato?» «Credevo fosse uno dei vostri», rispose non afferrando la presa in giro con quel «niente cappello». «Uno dei nostri?» «Un soldato.» Duncan sorrise. «Nemmeno io lo sono.» «Cosa?» «Io sono soltanto un visitatore, come te. Un altro civile.» «Non sei un militare?» Molly guardò la maglietta del Che. Lui le fece il gesto della pace con le dita. «Mai sentito parlare della Kent State?» Si riferiva ai fatti accaduti all'università Kent State nell'Ohio, dove la Guardia Nazionale americana sparò contro i manifestanti che non appoggiavano il conflitto del Vietnam, uccidendo quattro studenti e ferendone altri nove. «Tu c'eri?» gli domandò. Questo le avrebbe rivelato la sua età, benché lei non riuscisse a ricordare la data esatta di quegli eventi. Prima della sua nascita, comunque. «Sulla collina erbosa, proprio quel giorno», disse. «Il 4 maggio 1970. Ho sentito le pallottole fendere l'aria. Ho visto il sangue sul prato. Mi ci è voluto il resto della primavera e dell'estate per tornare allo scoperto.» Me la racconti un'altra volta. «Credevo che usassero solo i loro per que-
sti recuperi», disse lei. Secondo l'ufficiale addetto alle informazioni la JTF-FA, sigla che indicava l'unità operativa interforze per il recupero dei resti militari americani e il CILHI, il laboratorio centrale di identificazione con sede nelle Hawaii, impiegavano i propri investigatori, linguisti e antropologi militari, oltre a vari esperti assortiti. Al costo di dieci milioni di dollari l'anno, erano considerati gli arcangeli investigativi ufficiali del Vietnam e delle altre guerre straniere. Ed erano molto possessivi al riguardo. Le ossa erano reliquie sacre. «Terra consacrata» era il titolo a cui aveva pensato per il suo servizio. «Hanno le loro regole», affermò Duncan. «Con le loro eccezioni. Io non sono l'unico. Presto incontrerai anche John Kleat. Il comandante ci ha voluti con sé. A noi piace pensare di essere di una qualche utilità.» «Siete venuti insieme?» «Io e Kleat? No. È capitato che io mi trovassi nei paraggi, l'archeologo fuoruscito dalla giungla. La mia specialità è il restauro di templi. Ma so cavarmela fra buche e reticolati. Do una mano dove posso, e cerco di stare al posto mio.» «E il signor Kleat?» «Lui è venuto a cercare suo fratello.» Molly drizzò gli orecchi. «Suo fratello era un pilota?» «No. Kleat la butta sul filosofico: per lui la stagione degli scavi è una specie di pellegrinaggio annuale. È convinto che prima o dopo le ossa di suo fratello riaffioreranno.» «Hai già scavato per loro... per gli altri?» Farfugliò, non sapendo come chiamarli. I morti? Gli eroi caduti? Sicuramente ai tempi avevano avuto un modo per definirli. «I ragazzi, vuoi dire?» «I ragazzi», ripeté lei. «Oh, io tengo gli occhi bene aperti quando sono fra i miei templi. Una sorta di cortesia professionale.» Duncan guardò dall'altra parte del labirinto e poi di nuovo lei. «E tu, signorina?» «Io?» «Il campo è in fondo alla strada. Posso accompagnarti. O se preferisci, possiamo andare agli scavi.» Molly scelse gli scavi. S'incamminarono. Lui teneva la valigetta di metallo in una mano, la cazzuola nell'altra. «Aspettano tutti il loro quarto d'ora di celebrità, credono che li renderà immortali.»
2 Duncan la condusse lungo una serie di sentieri, verso un vociare di uomini, un clangore di arnesi e i colpi tambureggianti della terra che veniva fatta a pezzi e il brontolio di un generatore che pompava acqua. Raggiunsero un piccolo esercito di abitanti del posto che spalavano fra le risaie, sollevando una nube di polvere arancione. Molly frenò l'impulso di mettere mano alla macchina fotografica, in attesa di incontrare il capo ed essere informata sulle regole di base. Duncan chiamò «comandante» due americani in cima a un argine sopra lo scavo, ma nessuno di loro lo sentì. Erano concentrati su una mappa, in compagnia di un nerboruto anziano del villaggio, o forse ufficiale di collegamento cambogiano. Il vecchio, dalla faccia abbronzata e tonda come la luna piena, i capelli bianchi tagliati a spazzola e una gamba di plastica rosa, riuscì in qualche modo a udirlo sopra tutto quel baccano. Alzò la testa e guardò Molly come se la stesse aspettando già da un po'. «Il vecchio Samnang», le disse Duncan, avvicinandosi. «Dirige i lavori. Una volta, prima di Pol Pot, prima di Nixon, studiava alla Sorbona e insegnava musica e matematica all'Accademia Reale di Phnom Penh. Ma è passato tanto tempo.» A quel punto, i due americani si accorsero di lei. Molly immaginò che quello più alto fosse il capo della missione. Con la testa abbronzata, fotogenico da morire, il segno di una cicatrice intorno alla gola, aveva un aspetto imponente. Indossava pantaloni da lavoro infilati negli stivali: la scelta migliore per avvicinarsi alle uniformi, proibite ai civili su quegli scavi militari. Tuttavia fu quello più giovane e tarchiato, con una camicia hawaiana e il cappellino da baseball calato sugli occhiali da sole di marca, a scendere verso di loro. Molly guardò con attenzione il berretto, le vene in rilievo e la fede nuziale. Il comandante era un tifoso degli Orioles, un assiduo frequentatore di palestre, un uomo sposato... e un cultore di gambe femminili. Neppure le lenti scure riuscivano a mascherare il suo sguardo penetrante. «Benvenuta nel reame, signorina Drake.» Il giovane comandante non le fece notare che era spaventosamente in ritardo e non cercò di imporle la sua autorità, il che a lei piacque. Gli occhi guizzarono sul kroma di Duncan che lei aveva sulle spalle, e lui non invidiò il primo contatto dell'archeologo con la sua ospite d'onore. «Subito in piena attività?» le chiese.
«Già in giro a incontrare gli indigeni.» «Il signor O'Brian mi ha salvata. Stavo per mettermi a inseguire dei fantasmi.» «Lo zingarello», spiegò Duncan. «Poveraccio», disse il comandante. Molly non aveva nessuna intenzione di scusarsi, ma visto che tutto sembrava perdonato, non poteva che guadagnarci facendolo. «La settimana mi è volata via», affermò. «Non c'è problema.» Lei guardò i monticelli di terra. «Speravo proprio di non arrivare troppo tardi.» «Se si riferisce al pilota, non l'abbiamo ancora trovato.» Cercò di interpretare il tono dell'uomo. Ottimista? Demoralizzato? Ormai si trovavano lì da circa tre mesi. Di solito, i loro scavi non si protraevano per più di un mese, nulla rispetto ad altri siti che lei aveva coperto in passato. A Canyon de Chelly, Yellowjacket, Little Big Horn e in qualsiasi altro posto ci erano voluti anni, persino decenni, per riportare alla luce il passato. Arrivando in aereo, si era preoccupata che la squadra potesse essere troppo veloce; aveva convinto il suo direttore prospettandogli un ritrovamento, non un'operazione aleatoria. Per il suo servizio aveva bisogno di ossa. Ma non poteva dirlo chiaramente, certo non a questi cercatori. Duncan parve leggerle il pensiero. «Lo troveremo», la rassicurò. «Se è qui», rettificò il comandante, «lo troveremo.» «Ha atteso già fin troppo», disse Duncan. Lei percepì un sottile braccio di ferro fra il comandante, prossimo a una scadenza, e quell'archeologo capellone di mezz'età che nemmeno portava l'orologio al polso. Il comandante non se n'ebbe a male. Diede una pacca sulla spalla a Duncan. «Ecco uno che ci crede veramente», disse. «Parlano del numero per il Quattro Luglio», riferì Molly a titolo informativo, ma anche a mo' di sprone. Al comandante doveva essere chiaro che anche lei aveva una scadenza da rispettare. Non disse però che non ci sarebbero stati altri spazi riservati alla patria prima del Ringraziamento, e nessuno al giornale voleva aspettare tanto a lungo. Quella era soltanto l'ennesima rimasticatura del Vietnam, un articolo dalla vita breve; più un cenno nostalgico rivolto alla generazione dei Rolling Stones, che un vero servizio sulla guerra. E le ossa le servivano. L'essenza era tutta lì. «Per luglio ce ne saremo andati già da un pezzo», disse il comandante. «Quando arriva la stagione delle piogge, noi chiudiamo bottega.»
«Quando arriva il monsone?» «Ogni anno in un periodo diverso. A volte in maggio, ma di solito alla fine di giugno. I meteorologi lo prevedono tardi, quest'anno; il che ci lascia un margine operativo più ampio, se dovessimo averne bisogno. Ma avremo tutto il tempo per pensarci. Adesso occupiamoci di lei. Per oggi ci restano ancora tre ore di lavoro, quindi le consiglio di sistemarsi al campo e di riposare, questo pomeriggio. Beva molta acqua. Si lavi via la polvere. Le dico subito che le docce sono affollatissime intorno alle diciassette. Farò le presentazioni a cena.» Molly sentì molta più gratitudine di quanto non desse a vedere. Per il suo corpo erano le due di notte. E poi quel caldo. Solo tre mattine prima aveva dovuto scrostare la brina dal parabrezza; adesso sembrava che non riuscisse nemmeno a respirare a fondo. Era come un lento soffocamento. «Basta che mi indichi da che parte andare», affermò, «la strada poi la trovo da sola.» «Lei non conosce la zona, così stasera le assegnerò qualcuno che la informi sulle mine e la accompagni.» Esattamente ciò che lei non voleva, un guardiano che le gravitasse intorno. Tuttavia, esibì un sorriso riconoscente. «Imparerò a orientarmi», gli rispose. «Per il momento», replicò il comandante, «credo che il signor Kleat la possa aiutare, stava per tornare al campo.» E fece un cenno al grosso americano. «A più tardi», la salutò Duncan. «Il tuo scialle», disse lei. «Te lo regalo.» Si toccò la fronte con la cazzuola e si allontanò in mezzo alla polvere. Kleat discese il pendio a larghe falcate, sollevando zolle di terra. Molly osservò attentamente ogni dettaglio. Poteva trovare il suo pezzo forte, in quell'uomo che negli anni aveva continuato a cercare il fratello disperso. Da vicino, non sembrava più così alto. Aveva la testa grossa e il collo sorprendentemente massiccio, quasi a sostegno del gravoso peso delle idee. La montatura metallica dei suoi occhiali scintillò sotto la luce bianca del sole. L'omone possedeva un'aria ambigua. «Cominciavamo a credere che non saresti più venuta», le disse. «Non stavi per rientrare al campo?» lo bloccò il comandante. «Infatti», rispose quello afferrando l'imbeccata. Il comandante ricominciò a salire sull'argine, poi si volse di nuovo verso
Molly. «Un'altra cosa, quando lo troveremo, niente foto. Non fotografi i suoi resti.» Lo sapeva già. «No, certo», rispose. Kleat le fece strada e Molly lo seguì lasciandosi il rumore alle spalle. Dopo alcuni minuti, lui esclamò: «Boulder». Lei avvertì il tono di scherno. Succedeva sempre. «Sì, lo so, un covo di fulminati New Age», confessò lei. «E tu?» «Angeles City.» «California?» «Cristo, no. Filippine. Ci si è stabilita una bella colonia di veterani. Viviamo da principi. La birra costa dodici centesimi.» «Che lavoro fai?» «Quando non sono qui? L'appaltatore.» Ma non specificò che genere di appalti. «Dicono che vieni in Cambogia ogni anno.» Lui cambiò discorso. «Credevo che sareste venuti in molti: una troupe, assistenti.» «Mi piace lavorare da sola.» «Ho letto alcuni tuoi articoli su internet. Quello del pescatore che si è mozzato la gamba. Gli assassini di Columbine. I finti pacifisti. E il pezzo sui detenuti nei penitenziari di massima sicurezza, 'Una stagione nell'inferno d'acciaio inossidabile'.» Molly non capiva se volesse lusingarla o tenerla sotto controllo. La conoscevano meglio di quanto lei conoscesse loro; sapevano dove viveva, che cosa scriveva, le sue fotografie. Tuttavia notò che non le aveva detto se il suo lavoro gli piacesse oppure no. «Perché conferire loro una personalità?» chiese lui. «Ai detenuti?» «Ammazzateli e basta.» «Si tratta di capire come ci comportiamo davanti al male», disse Molly. «Il mio punto di vista era questo.» «E adesso lavori per i pezzi grossi. Il Times, giusto? In ascesa nel mondo.» Lei percepì che la stava mettendo alla prova, cercando di capire quanto valesse veramente. Umiltà. «Mi stanno vagliando. Per adesso sono solo un pesce piccolo in un grosso lago.» Lui grugnì, non convinto. «La Cambogia, però. Perché dare la caccia ai morti?» domandò indicando le trincee e i buchi quadrati lungo la pista.
«Perché mettersi a cercare questi tizi?» «La memoria», rispose. «La memoria è la carne. Finché noi ricorderemo, loro rimarranno in vita, non credi?» Non le rispose. Molly continuò a seguire la sua testa mentre zigzagavano in quel labirinto di piste sopra le risaie e fra i cumuli di terra rossa. Alla fine, Kleat cominciò ad aprirsi. «Sembra una gran baraonda, ma è così che va fatto. C'è del metodo in questa follia. I nostri metal detector hanno rilevato frammenti dell'aeroplano sparsi fino alla fine del mondo. Ma si può vedere la linea generale estovest dei nostri scavi.» Le mostrò la cartina topografica con dei segni colorati di matita. «Questa è la traiettoria dell'incidente.» L'area era vasta e complessa. Kleat le descrisse come l'aereo militare fosse rimbalzato per tre chilometri in linea retta attraverso le risaie, disintegrandosi durante una serie di salti. In seguito, gli abitanti del posto avevano ricostituito pazientemente i loro campi sopra la terra dissestata. A quel punto, erano arrivati i khmer rossi, cancellando interi villaggi e con essi il ricordo del velivolo sotto terra. Successivamente, c'era stato il passaggio dell'esercito vietnamita per «liberare» la Cambogia. Poi erano arrivate le Nazioni Unite, decise a dare una bella spinta alla devastazione poi nota come anno zero. Non molto dopo erano venuti gli uomini e le donne delle squadre scientifiche dell'esercito americano. E da quel momento, non avevano mai smesso di riesumare i guerrieri americani dalle zone remote e rurali di quel paese. «A volte, gli abitanti del posto si presentano con un osso senza alcuna storia. In questo caso, invece, abbiamo la storia ma non l'osso. Non ancora», disse Kleat. «Sappiamo esattamente chi stiamo cercando e quando è scomparso. Non dobbiamo fare altro che trovarlo.» Quel «noi» la fece sobbalzare. Secondo Duncan, loro erano degli estranei. Kleat, invece, si considerava un membro esperto della squadra di recupero. Lo osservò. Che volesse battere sul tempo il comandante? Si fermò vicino a una trincea circondata da lamiere appoggiate sopra tumuli di terra. Alcune si incastravano perfettamente come i pezzi di un puzzle. Cavi e fili rossi, neri e verdi si presentavano come un groviglio di serpentelli fritti. Un insieme di attrezzi da scavo erano ammucchiati nella buca sottostante. «È strano, in un certo qual modo», continuò, «quando furono trasferiti in quest'area dodici anni fa, i profughi ereditarono gli attrezzi lasciati dagli abitanti morti del villaggio. Qui la memoria non esisteva, c'era soltanto la
terra e un branco di stranieri. Ma poi è venuto fuori che gli attrezzi conservano la memoria, possono spiegarti cosa è successo in questo posto.» Si chinò a raccogliere alcune vanghe, esaminandole. Trovò quel che cercava e lo diede a Molly. L'estremità era più ampia e smussata rispetto a una vanga americana e il metallo più argenteo e scintillante. I bordi sembravano forgiati in modo grossolano, ed era perfettamente visibile il punto in cui un fabbro del posto aveva lavorato di martello per infilarci l'asta di legno. Kleat grattò via un po' di terra. «Vedi?» C'era un numero inciso sul metallo, e sotto la scritta MADE IN THE USA. Lei prese la macchina fotografica e iniziò a scattare. «Proviene da una sezione dello stabilizzatore di un Cessna O2 Skymaster», disse Kleat. Era un lentissimo aviogetto bielica usato per il controllo aereo avanzato. Il pilota marcava gli obiettivi con dei razzi al fosforo bianco, lasciandoli ai bombardieri che arrivavano subito dopo. Questo qui decollò dal campo d'aviazione di Ubon in Thailandia il 3 gennaio 1969 alla ricerca del Sentiero di Ho Chi Minh, ma non fece più ritorno alla base. Dopo che si schiantò al suolo, gli abitanti del villaggio si dedicarono ad attività pacifiche, ricavando aratri dai metalli.» Le spiegò che gli investigatori militari avevano trovato vomeri ricavati da pezzi di elica, campanacci di legno con un bossolo per battaglio, e falci, pentole e tegami con ancora il numero di serie sopra. Le squadre di recupero venivano sempre dispiegate con un database in dotazione chiamato Brite Lite, luce abbagliante. «Il pilota e il suo aereo scomparvero negli abissi e ogni traccia del mezzo o dell'incidente, svanì. Trent'anni di coltivazioni hanno divorato ogni traccia. Non si vede nulla nemmeno sulle foto del satellite. Ma abbiamo sempre saputo che il velivolo è lì da qualche parte. È solo che non conoscevamo abbastanza.» Noi. «Quindi vi siete ritrovati con degli attrezzi agricoli lasciati dai fantasmi e un aereo senza pilota», disse lei. Kleat la guardò, sospettoso. «Tutto questo non ha niente di soprannaturale», rispose brusco. Molly fu colta di sorpresa. «Certo che no», affermò. «L'ho già fatto altre volte», continuò lui. «Un incidente aereo non è mica un razzo per la luna. La dinamica è semplice. La traiettoria dell'impatto è nota. La conosciamo. Stiamo dissotterrando le ali. È solo questione di tempo. Lui ci renderà conto.»
Strano modo di metterla, persino arrogante, come se il pilota caduto fosse un disertore o un imboscato. Molly rimise delicatamente la vanga fra le altre. Ripresero il cammino. Era mezzogiorno passato, ma il sole sembrava salire ancora nel cielo. Se non fosse stato per lo scialle avvolto sulla testa e sulle spalle, la luce sarebbe stata insopportabile. Proseguirono in silenzio per meno di un chilometro, accompagnati dal cigolio della tracolla del borsone che conteneva la macchina fotografica di Molly. Nell'aria c'era odore di acque luride. La pista sembrava interminabile. Poi, fra i banchi di calore in lontananza, Molly intravide lo zingaro. A quel punto aveva perso l'orientamento, non sapeva più dove fosse la strada o dove le escavatrici stessero lacerando la terra. Si attaccò allo zingaro quasi fosse il nord magnetico. La sensazione era quella di gravitargli intorno. «Eccolo di nuovo», disse indicandolo. Kleat strizzò gli occhi e guardò verso i campi. «Ah, lui.» «Chi pensi che sia?» «È sempre pieno di cani randagi dove ci sono le ossa. Gliel'ho detto al comandante che è stato un errore incoraggiarlo. Questo è un gruppo di recupero, non un club per cuori solitari.» «Secondo Duncan, potrebbe essere un drogato o il figlio di un soldato disperso.» Un'espressione quasi di beffa affiorò sul volto di Kleat. «Ma quello è Duncan», mormorò. Molly prese la macchina fotografica e fissò la figura dell'uomo nelle lenti del teleobiettivo. Una criniera castana e lo scintillio della valigetta d'acciaio. Duncan era in cima a un solco rialzato fra due risaie, con un lungo bastone che infilava a casaccio di qua e di là. Lei abbassò la macchina fotografia. «Non avevo capito.» Non seppe che cos'altro dire. Un cane randagio? Kleat non si sforzò neppure di scusarsi. Lei non aggiunse nulla. Improvvisamente non sapeva più di chi fidarsi. In quella terra piatta che pareva incapace di nascondere qualsiasi cosa, tutto sembrava invece celato. 3 Era un servizio su cui sudare e dannarsi e lei fece entrambe le cose nelle
due settimane successive, dentro le trincee, sotto il sole, conquistandosi il suo posto in quella strana famiglia. Era una fotografa prima di tutto e poi una giornalista. Gli obiettivi erano il suo ambiente naturale. Il suo tempio. La prosa le veniva più lentamente. Sempre dopo un'immagine. Il pomeriggio che il direttore del Times l'aveva chiamata per assegnarle quella storia, Molly era andata dritta da Mike's Camera e aveva dato fondo alla sua carta di credito comprandosi una Nikon digitale con ogni possibile accessorio, un suo sogno da sempre, anche se il prezzo era da choc: oltre diecimila dollari. Ma adesso che sto per diventare una firma a livello nazionale la macchina fotografica si ripaga da sola, pensò. Con il digitale si poteva modificare l'aspetto dell'immagine e persino trasformare il colore in un bianco e nero sgranato: a questo aveva pensato, per evocare il paesaggio Nam anni Sessanta. Le avrebbe permesso di imitare i grandi fotografi di guerra - Henry Huet, Tim Page, Larry Burrows, Kyochi Sawada e Robert Capa - e senza doversi trascinare nell'afa tropicale chili di rullini. Quella macchina era diversa da tutte le altre che aveva avuto. Era più del solito insieme di obiettivi, filtri e pellicole: era una scatola dei ricordi. La possibilità di rivedere immediatamente gli scatti la rendeva al contempo uno strumento di lavoro e un evento aggregante. Seguendo l'istinto, si era portata anche un paio di forbici da barbiere. Suo padre, padre adottivo, veramente, era stato barbiere. Mai sottovalutare un taglio di capelli gratis. E infatti furono un gran successo: alla sera la gente entrava e usciva in continuazione dalla sua tenda. Mentre lei tagliava, loro le parlavano di musica, di sport, di cinema e di casa. Dal canto suo, lei condivideva con loro tutto ciò che desideravano sapere di fotografia. Mostrava la macchina, un vero rompighiaccio, poi la accendeva e loro potevano vedersi così come li vedeva lei. Ecco là lo scavo, e in lontananza i bambini color nocciola che facevano la lotta su un bufalo acquatico; un paesaggio da National Geographic, a giudicare da quel che si vedeva. Qui c'erano le facce dell'ER-1, nere, bianche e marroni, tutte rese in un unico colore, quello della terra di Cambogia, il colore delle arance sanguigne. Qui minavano il terreno, là lo filtravano attraverso setacci con maglie da mezzo centimetro. C'era il comandante che brindava con una bottiglia di Gatorade calda mentre fumava il suo avana della sera e leggeva uno dei numeri di Vogue
che si era portata lei. Era un soldato brillante e postmoderno, un libero pensatore, che si divertiva a girare disarmato e che viveva per risollevare le anime perdute dalla polvere. Poi c'era Kleat, un vicolo cieco. La ricerca del fratello sarebbe stata oro per il suo pezzo... ma dopo averlo frequentato per una settimana, lei capì che non c'era rimedio al suo odio per quella gente e quel paese. Trattava la Cambogia come una maledizione o un morbo. In nessun modo sarebbe riuscita a fargli cambiare idea, così l'aveva lasciato fuori dal suo articolo e dalle sue foto. Nemmeno Duncan rientrava nel suo servizio. Ma non riusciva a staccargli l'obiettivo di dosso: aveva qualcosa che le piaceva. In una foto c'era lui che guardava dentro un buco quadrato coperto da un reticolato, come un boy scout che sta per saltare nell'oltretomba. In un'altra raccontava un'esilarante barzelletta in cambogiano stretto a degli operai, molto più piccoli di lui. In un'altra ancora era seduto sopra la sua valigetta con l'album per gli schizzi su un ginocchio, a ritrarre volti, scene e manufatti, che per eccesso di timidezza non lasciava però vedere a nessuno. Un pomeriggio Molly sbirciò nella sua tenda e rimase impressionata dalla sua austerità. Era completamente spoglia se non per un pettinino nero e uno spazzolino infilati in una tasca laterale. Lui dormiva a terra, senza lenzuola né materassino né zanzariera. Non possedeva nulla all'infuorì dei vestiti che portava addosso e del contenuto della sua valigerta. In un'altra foto si vedeva il loro campo base, un'accozzaglia di tende a casetta, canadesi e quella a igloo di Molly. L'avevano allestito dove prima sorgeva un villaggio, senza sapere che per qualche ragione gli abitanti della zona lo consideravano un luogo maledetto. Per giocare ogni tanto a pallavolo, avevano teso una corda da bucato fra gli alberi. Molly la chiamava pallabarbecue: per arrostire i più deboli. Alta circa un metro e ottanta, lei giocava come un gladiatore, mandando la palla a schiantarsi sulle facce di omaccioni dalle cui bocche uscivano un sacco di scemenze. Faceva sanguinare nasi, si esibiva in schiacciate, li martellava senza pietà... e per questo loro la adoravano. Non fu affatto strano che, così lontani da casa, cominciassero tutti a corteggiarla. Nulla di personale. Dopo che lei si era tagliata su un relitto, il medico delle forze speciali che le mise i punti sulla coscia le chiese di sposarlo. Un altro Romeo sfidò le zanzare e di notte recitò Shakespeare davanti alla parete della sua tenda. Una mattina, Kleat la sorprese mentre lo stava fotografando: lui drizzò la schiena dal lavabo, con l'acqua che gli goccio-
lava sul petto sale e pepe, e aprì le braccia per accoglierla. Lei si sentiva un'ipocrita a tenerli a distanza. Ma così stavano le cose. Molly non raccontava a nessuno di quella brutta notte, di tanto tempo prima, in Oklahoma, e impartì le regole della sua linea di condotta: niente legami durante i servizi fotografici. E continuò a sedurli a favore del suo obiettivo. Ogni sera, scaricava il lavoro della giornata in un disco portatile, catalogava gli scatti e osservava il servizio crescere. Mentre i soldati ascoltavano Dr. Dre o Beethoven, leggevano tascabili o giocavano con il Game-Boy, lei rimaneva sdraiata nel buio della sua tenda con le immagini che le illuminavano il viso. Il portatile diventava la sua scatola dei sogni. Certe notti, non riusciva a capire se sognava o era sveglia mentre i grilli impazzivano sotto le stelle della Cambogia. Tra i professionisti, i puristi sostenevano che il digitale fosse spurio. I tecnici che nella macchina ci fossero ancora dei bachi, e in effetti c'erano; per lo meno nella sua, degli spiritelli. Lei ne prese coscienza gradualmente. A una settimana dal suo arrivo, Molly aveva memorizzato il labirinto in cui si trovavano e preso l'abitudine di alzarsi per prima al mattino, al sorgere dell'alba, per andare a visitare lo scavo. Il sito si estendeva ogni giorno di più. A quell'ora non c'era granché da fare. Era troppo presto perché le squadre iniziassero a lavorare e troppo buio per scattare foto. Però era più fresco, e lei poteva godersi quei momenti tutti per sé. Si metteva a gironzolare sulla terra squarciata, sola con i suoi pensieri in quella grigia foschia. Ma non completamente sola, cominciò a rendersi conto dopo un po'. Delle figure spettrali camminavano a passo lento sui campi, distanti e visibili solo a metà sopra la nebbia. Immaginò che si trattasse degli abitanti del villaggio. Alcuni tenevano i kroma sulla testa o intorno al collo. Altri portavano in braccio dei bambini silenziosi. Per le cinque, il cielo cominciava a colorarsi. Da lontano giungeva il canto dei galli. Lei riusciva quasi a sentire il gusto del fumo di legna che si levava dai fuochi accesi per preparare la colazione in villaggi invisibili. Poi, nell'attimo in cui il sole faceva irruzione sulla linea dell'orizzonte, la campana di un tempio lontano suonava una volta, una volta sola. Ogni alba nasceva in quel modo, con quell'unico gong. I viandanti del primo mattino svanivano e lei tornava al campo. Per sfizio, una mattina, Molly portò con sé il treppiede e scattò una foto agli abitanti del villaggio nella penombra. Non si aspettava granché, ma quando scaricò la macchina fotografica nel computer alla fine della giorna-
ta, non trovò quasi nulla. L'obiettivo aveva catturato i campi e la foschia, ma nessuno dei viandanti. Alcuni giorni dopo, però, facendo scorrere i file JPEG, scoprì che gli scatti mattutini erano popolati di gente. I viandanti erano stati in qualche maniera seppelliti sotto i pixel, e la macchina fotografica li stava facendo finalmente emergere in superficie. Ma non solo, ogni volta che riaccendeva il display, l'immagine cambiava. Come spiriti, gli abitanti del villaggio andavano e venivano. Se quando spegneva l'apparecchio c'erano cinque persone, ne trovava dieci o dodici riaccendendolo. Quelle foto si trasformarono in una specie di galleria degli orrori, attirando un piccolo pubblico di soldati che si fermavano da lei per vedere se le figure digitali si erano spostate o erano svanite di nuovo nella nebbia. Duncan ci scherzava sopra affermando che la macchina fotografica era posseduta. La diagnosi di uno specialista in esplosivi della marina riguardo ai fantasmi fu: software difettoso. Rumore digitale, l'aveva definito. Nel processo di compressione e decompressione, l'immagine subiva delle alterazioni, quasi si sbucciasse eliminando strati successivi di realtà. Una mattina Molly si accorse che una strana figura incappucciata la seguiva nell'afosa penombra. Lei si fermò. Lui si fermò. «Ehilà», disse Molly avvicinandosi. Si trattava del vecchio Samnang, con un kroma bianco e blu a mo' di scialle, e gli auricolari del walkman. Quasi completamente nascosta nella foschia, la sua protesi aveva una scarpa sportiva azzurra incollata al piede rosa. «Ah, bonjour, Molli.» Che meraviglia, il suo accento. «Samnang, che sorpresa», replicò lei tutt'altro che sorpresa. «Il comandante ti ha chiesto di seguirmi?» «Il comandante? Nient'affatto.» «Allora è stata una tua idea», affermò lei. Samnang annusò l'aria. «Fa così fresco a quest'ora, non trova?» Molly avrebbe potuto essere scortese e insistere nel voler restare da sola, ma quell'uomo le era simpatico. Era onesto come un monaco, e le squadre di recupero americane lo ingaggiavano anno dopo anno per i dirigere i gruppi di operai. Scherzosamente, lui si paragonava a un pollo che raspava in terra per campare. Non l'aveva mai sentito parlare del suo passato; non aveva mai menzionato la gamba che aveva perso, mai fatto parola di una possibile famiglia. Seguendo l'esempio di Duncan, lei si imponeva di
chiamarlo con il suo nome completo, non Sam come tutti gli altri. «Cosa stai ascoltando?» gli chiese alla fine. Durante la stagione delle piogge, quando era inutile continuare a scavare, Samnang usava i suoi dollari americani per viaggiare nelle campagne e raccogliere canti popolari. Prima che l'acqua li spazzi via. Lui porse gli auricolari a Molly. Spinse il tasto. Aspettandosi di sentire una musica popolare si sorprese di sentire Margo Timmins che cantava The Trinity Sessions. «I Cowboy Junkies?» chiese. Lui sorrise imbarazzato. «Un vizio che ho da sempre.» A quel punto lei non poté più rifiutare la sua compagnia e i due ripresero a camminare insieme. «Duncan mi ha raccontato della sua foto della gente del mattino», disse Samnang. «Ho pensato di venire a vedere con i miei occhi.» A lei però venne in mente che fosse lì solo per proteggerla. Temeva forse che loro se la prendessero per la sua presenza? Tuttavia sembravano non essersene accorti. Sembra che addirittura non si accorgessero gli uni della presenza degli altri. «Sono innocui», affermò Molly. «Non mi guardano, né si avvicinano.» «E adesso c'è qualcuno?» Molly contò una donna con due bambini nella nebbia e un uomo fermo immobile, con lo sguardo distolto. «Soltanto quattro», rispose. «Ma in altre mattine ce ne sono di più?» «Molti di più. Mi domando se stanno studiando come riparare i solchi delle risaie prima dell'arrivo delle piogge.» Guardò Samnang e i suoi occhi neri che scintillavano fra i lembi dello scialle. Lui guardava lei, non cercava di vedere loro. Che volesse metterla alla prova? O i suoi occhi erano troppo vecchi? Lei girò la testa. A qualche centinaio di metri, ne erano apparsi parecchi altri, immobili o quasi. Uno di loro vagava lungo l'argine. «Niente», continuò. «Se ne stanno fermi lì come in attesa di un treno o chissà che.» Samnang annuì con un lento movimento del capo, fissandola intensamente. «L'altra idea che mi è venuta è che stiano facendo man bassa», disse lei. «'Facendo man bassa'», ripeté lui. «Sì, saccheggiare i cavi e il metallo dell'aereo. Farsi un piccolo tesoro prima dell'inizio del giorno e dell'arrivo degli americani. In fin dei conti, questa è casa loro.» «Li ha visti prendere qualcosa? Chinarsi a terra? Scavare?»
«Mai. Non fanno mai niente. Non parlano neppure fra di loro.» Lui si era alzato presto per lei. Lei si sentì in colpa. «Non dovrebbe darsi pena per me», gli disse. «So badare a me stessa.» «Gli abitanti del villaggio hanno molta paura di loro», affermò Samnang. Molly corrugò la fronte. Quelli erano gli abitanti del villaggio. «Non capisco.» «Hanno protestato con le autorità. Vogliono che se ne vadano.» Lei cercava di stargli dietro. «Quindi si tratta di gente di un'altra regione», tentò. «Rubano il metallo.» «No, non è questo.» «E allora cos'è?» «Una faccenda locale.» Che strana battaglia. Uno sconfinamento ogni mattina prima dell'alba, e con tanto di bambini. Ma mai uno scontro. «Hai detto che gli abitanti del villaggio si sono lamentati. Perché allora i soldati non li hanno costretti ad andarsene?» domandò. Il governo cambogiano aveva assegnato decine di truppe a guardia, o a contenimento, della spedizione scientifica americana. Non facevano molto fuorché oziare sulle amache, o stare seduti sopra lo scavo, a spettegolare sotto il sole. «A quest'ora sono coraggiosi quanto gli abitanti del villaggio», poi continuò, «non viene nessuno, a parte lei.» «E te», replicò Molly. Lui sorrise. «A ogni modo, non servirebbe. Questa gente del mattino si vede in tutto il paese.» Era la seconda volta che li chiamava così. «Gente del mattino?» «Adesso ha fatto diventare anche me uno di loro», disse lui scherzando, facendosi sempre più ellittico. In quel preciso momento il sole squarciò la notte. La foschia si illuminò come fosse fuoco. In quell'improvvisa fiammata colorata, divenne difficile vedere. Le figure cominciarono a dissolversi. La campana distante risuonò sopra i campi, e la sua unica nota fece vibrare l'aria. Molly sentì l'afa sul viso. «Un giorno o l'altro voglio proprio vederla, quella campana», affermò. Il mattino seguente, lo trovò ad aspettarla. Era evidente. Visto che lei non avrebbe rinunciato alle sue camminate mattutine, lui l'avrebbe accompagnata. Le loro passeggiate divennero il momento più rilevante della loro giornata.
Quando Kleat lo venne a sapere, consigliò a Molly di scaricare Samnang. «Lascia perdere quel vecchio è un KR. O lo era.» KR era un'espressione generalizzata, comune a tutti gli idiomi della Cambogia. Khmer Rouge, un'etichetta francese, i khmer rossi, rossi come comunisti, rossi come il sangue. «Che sciocchezza», ribatté lei. «Era un docente universitario. Come potrebbe mai essere un rosso? Li ammazzavano, quelli come lui.» «Apri gli occhi. L'hai visto con gli uomini? Non alza mai la voce, ed è storpio. Ma loro gli obbediscono sempre. Gli basta una parola.» «È così che dovrebbe funzionare, Kleat.» «No, la verità è che hanno paura di lui.» Kleat non poteva comprendere la ragione per cui quell'uomo amabilissimo fosse in grado di controllare dei lavoratori nati e cresciuti nella violenza dei campi profughi, molti erano quasi selvatici. Di notte alcuni si ubriacavano nei loro villaggi, giocavano d'azzardo, picchiavano le donne, e si accoltellavano fra di loro. Ma persino i più duri obbedivano a Samnang senza obiezioni. «Lo rispettano», disse. «Ha potere su di loro», ribatté Kleat. «Una cosa tipo vudù?» «Ridi pure, ma quello è un khmer rosso.» «I khmer rossi non esistono più.» «Raccontalo agli operai. Loro se li ricordano ancora.» «Ammesso pure che sia un rosso, cosa ci farebbe qui?» «Quello che ci fai tu. Soldi alla svelta. Penitenza. Non saprei.» Duncan, che se ne stava seduto lì accanto, rispose che non erano affari di Kleat, nemmeno se Samnang fosse stato effettivamente un khmer rosso. «Tutti hanno dei segreti che preferirebbero dimenticare.» «Non di questo tipo», affermò Kleat. «Lascia stare», disse Duncan. «La sopravvivenza ha il suo prezzo.» 4 Alla fine della terza settimana, Samnang disse a Molly: «Ho qualcosa da mostrarle». Salirono a bordo di un Land Cruiser preso a noleggio da tre fratelli che vivevano a Kampong Cham, il paese natale di Samnang. Il conducente, un ragazzo coperto di tatuaggi, li portò in un villaggio, costruito su palafitte
per via della stagione delle piogge. Alcune capanne erano persino collegate da ponti, e c'era un molo con delle canoe in secca. Pareva inconcepibile che quella terra fosse soggetta a inondazioni: l'acqua era la loro religione, un fantasma, qualcosa in cui Molly non sarebbe mai riuscita a credere. Da quando era arrivata, non aveva visto altro che terra arida e piena di crepe. Su una collinetta, dietro il villaggio, si trovava un capanno con il tetto di lamiera ondulata e niente pareti. All'interno troneggiava una dozzinale statua di Buddha in cemento, una specie di nanetto da giardino. Da un lato, appesa ai travicelli del tetto, la campana. Samnang prese un martelletto e la suonò in onore di Molly. Una tonalità perfetta. Lei ne rimase deliziata e si fece un po' più vicina. «Ma è stata ricavata da una bomba», esclamò. «Sì.» Samnang era compiaciuto del suo stupore. «Inevitabile, non crede? Che il caos ridiventi armonia. Persino bellezza.» «No», rispose lei. «Piuttosto il contrario. La bellezza svanisce. Le civiltà si riducono in polvere. Per me la norma è costituita dalla perdita. Dal caos. Dal rumore. Non dalla musica.» Samnang sfiorò la campana con i polpastrelli. «Ma non vede? È un nuovo germogliare dall'orrore.» Il 29 maggio un cane arrivò al campo con un femore umano in bocca. Molly fece giusto in tempo a scattargli una foto prima che uno dei soldati cambogiani gli sparasse. Gli americani accorsero tutti in preda all'eccitazione, convinti che potesse trattarsi di una prova del loro pilota scomparso. Ma bastò una semplice occhiata per capire che ancora una volta si trattava di una falsa pista. Quello non avrebbe mai potuto essere il femore di un uomo bianco, occidentale, alto più di un metro e ottanta. Non poteva essere quello del loro pilota. Molto probabilmente l'osso proveniva da una fossa comune in qualche parte della regione. I campi di sterminio erano disseminati ovunque. Ogni anno, al termine della stagione delle piogge, le ossa spuntavano come funghi, spesso minuscoli frammenti bianchi e niente più. In principio, Molly aveva scambiato per conchiglie scolorite quei pezzettini schiacciati lungo i sentieri esterni. Poi, mescolati a quelli, aveva notato dei frammenti di sciarpe a scacchi e aveva capito che stava camminando sui morti. Curiosa di vedere che cosa sarebbe successo, Molly seguì l'osso. L'antropologo della squadra scientifica stabilì che il femore apparteneva a un individuo del sudest asiatico. Lo avvolse in un foglio di plastica e lo con-
segnò all'ufficiale di collegamento cambogiano, il quale tenne per sé il foglio e consegnò l'osso a un soldato, che a sua volta lo gettò in una buca lontana, rendendolo di nuovo cibo per cani. Molly osservò tutto con il teleobiettivo. Poi vide Samnang avvicinarsi alla buca, guardarsi intorno per accertarsi di non essere visto, prendere l'osso e seppellirlo sotto un albero. Accese un bastoncino d'incenso, e lei capì che Kleat aveva ragione. Samnang era stato un khmer rosso. Trovare i morti era il suo modo di espiare le colpe. Anche uno dei soldati cambogiani, o forse un abitante del villaggio, doveva aver visto Samnang occuparsi dell'osso. C'erano occhi dappertutto, fazioni, sottofazioni e gelosie. Per una ragione o l'altra, rosso o no, Samnang fu allontanato dallo scavo quella sera stessa. L'epurazione fu rapida. Molly lo venne a sapere all'ultimo momento. Si precipitò in strada per salutarlo, ma lui era già sul camion che doveva portarlo via. Catturò il suo volto nella macchina fotografica, ma lui distolse gli occhi. Lei pensò che non l'avrebbe rivisto mai più. Mentre la polvere rossa si depositava a terra, Molly vide una figura osservare la partenza dal campo. Al principio pensò che fosse lo zingaro, stagliato contro il sole che tramontava. Ma quando si fece schermo con la mano, vide che si trattava di Kleat, e comprese che era stato lui a sbarazzarsi di Samnang. 5 Ormai lo scavo era quasi terminato. La resa dei conti con i morti era fallita. Il luogo del disastro aereo sembrava una carcassa: risaie squarciate, terra accumulata accanto ai setacci, buche che collassavano, fili che delimitavano i vari settori dello scavo allentati. E il pilota continuava a sottrarsi. Dopo un mese di lavoro indefesso, l'ER-1 aveva recuperato centinaia di pezzi della carlinga, della fusoliera e delle ali... praticamente di tutto fuorché le ossa che costituivano l'oggetto della loro ricerca. Avvicinandosi al punto finale della traiettoria dello schianto, gli americani cominciarono a rendersi conto del proprio fallimento. E non la presero bene. Le loro grandi speranze si sbriciolarono. Una notte, all'inizio di giugno, due giovani marines fecero a cazzotti per una copia rubata della rivista Hustler. Se le suonarono come due adolescenti invidiosi, scena che suscitò l'imbarazzo di tutti i presenti.
Dopo che il comandante ebbe separato i due contendenti, saltò fuori che anche altre persone, Molly compresa, erano state vittime di piccoli furti, per lo più lettere e foto provenienti da casa. A lei il ladro aveva sgraffignato le forbici da barbiere. Sebbene Kleat avesse fatto di tutto perché le accuse ricadessero sullo zingaro vagabondo, il colpevole, probabilmente un cambogiano povero e disperato, non fu mai acciuffato. Il furto in sé era irrilevante. Ciò che contava, della zuffa e dei furti, fu l'improvvisa consapevolezza che le perdite superavano di gran lunga le conquiste. Le loro sofferenze quotidiane - l'afa vertiginosa, i serpenti e gli inserti, la polvere dei liquami di risaia rinsecchiti che faceva suppurare le loro fistole, e altre cento piccole cose - non potevano più essere sostenute dalla speranza. Che il pilota si fosse catapultato o liberato dall'aereo o trascinato via, era evidente che non l'avrebbero ritrovato. Quasi ad accelerare la loro partenza, ricevettero la notizia che nel Mar Cinese Meridionale si stava preparando un tifone di proporzioni mostruose. Con venti in crescita oltre i duecentoquaranta chilometri orari, aveva già eguagliato un uragano atlantico di quarta classe. I meteorologi della marina non erano in grado di affermare quando e dove avrebbe colpito, se dopo quattro giorni o sei o dieci, se in Malesia, in Thailandia o in Cambogia. Era certo però che avrebbe aperto il cammino alla madre di tutti i monsoni. Sarebbero sopraggiunte le piogge. Le strade si sarebbero tramutate in fango e le risaie sarebbero state sommerse. I fiumi avrebbero invertito il loro corso. I villaggi si sarebbero trasformati in isole. La sera del sette giugno, il comandante invitò Molly, Kleat e Duncan nella sua tenda per un incontro privato. Aveva preparato delle sedie da giardino e tazze da caffè per dare fondo a quel che restava del suo Johnnie Walker Etichetta Nera. «Stiamo per concludere il recupero», li informò. La ricerca era finita. La squadra ne era già al corrente. «A voi desideravo dirlo in separata sede. Per ringraziarvi del duro lavoro che avete svolto.» Sbalordita, Molly si mise comoda appoggiandosi allo schienale. Lo choc che l'aveva investita era per lei fonte di curiosità. Da una settimana ormai cercava di inventarsi un servizio che sostanzialmente nascondesse la verità, cioè che stava scrivendo di semplici buche vuote. «È finita?» chiese. «Sei sorda?» ribatté Kleat. «Sì, è finita.» Duncan cercò di infondere coraggio al comandante. «Quelli bravi non mollano.» «Infatti, Duncan», replicò il comandante. «Ma a un certo punto bisogna
pur dire basta.» «Ancora qualche giorno», insistette Duncan. «Dove altro potrebbe essere?» Per riguardo nei confronti di Molly, il comandante affermò: «Sono deluso anch'io». «Ci saranno nuove stagioni, nuovi scavi», disse Kleat risoluto. Nuove occasioni, pensò Molly, ma non per lei. Il Times non l'aveva mica mandata a scrivere di terra secca, soprattutto dopo quel titolo «Terra consacrata». In conclusione, senza il momento culminante rappresentato dal ritrovamento delle ossa, il suo non sarebbe stato affatto un servizio da Times. «La smobilitazione avrà inizio domani», annunciò il comandante. «Farò provvedere al vostro trasporto.» Molly fece la brava per tutta cerimonia d'addio del comandante, dopodiché si mise a vagare per il campo, affrontando la propria delusione. Dall'interno delle tende le giungevano le voci dei soldati, esaltati all'idea di tornare a casa. Il giornale le copriva le spese di viaggio e le pagava un forfait per il disturbo. Forse la rivista di qualche linea aerea le avrebbe comprato una versione abbreviata del pezzo, e magari avrebbe potuto estrapolarne anche un articolo di viaggio per il Denver Post. Tuttavia, non sarebbe mai riuscita a rifarsi della cifra spesa per la macchina fotografica. Diecimila verdoni. Aveva scommesso grosso, e aveva perso. Tanto per passare il tempo, si mise a fare qualche foto del campo. Si fermò davanti al buco che un tempo era stato il pozzo del villaggio e, senza nemmeno puntare l'obiettivo su qualcosa di preciso, scattò con il flash. A occhio nudo non c'era nulla da vedere. La buca era profonda e il flash troppo veloce, e quando diede un calcio a un sasso, questo cadde pesantemente su un'acqua così stagnante da puzzare di grigio. Lei non si prese neppure la briga di guardare l'immagine sul display, ma spense la macchina e tornò alla sua tenda. Iniziò a preparare i bagagli, attività che però la fece sentire peggio. Si coricò, sollevò in aria la macchina fotografia e accese il display. Le ossa la stavano aspettando. Dinanzi a quell'immagine illuminata, rimase a bocca aperta. Come poteva una macchina fotografica vedere attraverso l'acqua? In realtà la cosa era possibile, però solamente dopo un lungo lasso di tempo. Ma lei aveva usato il flash, e la luce avrebbe dovuto rimbalzare sul pelo dell'acqua.
Invece sotto la superficie si intravedevano degli stecchi bianchi, sfocati. Molly decise che erano rifiuti. Ramoscelli gettati dai bambini o dal vento. Altro rumore digitale. Spense e riaccese la macchina fotografica per vedere se l'immagine si sarebbe corretta. Questa volta, vide una gabbia toracica e una lunga spina dorsale simile a una coda. Un animale, pensò. Ma poi vide il teschio. 6 La mattina seguente, per prima cosa, increduli ed eccitati gli uomini calarono un marine a testa in giù, legato con una fune alle caviglie. L'uomo fece un respiro profondo e fu immerso nell'acqua; lo lasciarono sotto per sessanta secondi e poi lo tirarono fuori, bagnato fino al midollo; poi di nuovo giù nel pozzo e su alla luce del sole, con in mano un pugno di vertebre umane. C'era dell'altro, disse, molto di più. Le cose si fecero subito caotiche. I cercatori fecero serpeggiare dei tubi giù nel pozzo e le pompe cominciarono a rombare. Venne disposto un riflettore voltaico sulla bocca del condotto, e acceso un altro generatore. Mentre l'acqua veniva prosciugata e un piccolo gambero luccicante si contorceva tra il fango e le alghe, gli astanti videro affiorare le punte marroni delle ossa come fossero pezzi di legno trasportati dalla corrente. Calarono di nuovo l'uomo, che questa volta tornò su con due teschi. «Santo Dio!» mormorò un soldato. L'antropologo li esaminò. Nessuno dei due crani era di un bianco occidentale. Uno apparteneva a un bambino: la protuberanza occipitale alla base del teschio era tonda, la fronte liscia, i denti del giudizio non ancora spuntati, l'aspetto nel complesso gracile. Probabilmente una femmina di età compresa fra gli otto e i dieci anni. Depositò il teschio a terra e raggiunse gli altri che stavano guardando giù nel pozzo. «Khmer rossi del cazzo», disse Kleat. Si trattava di una fossa comune, a un chilometro e mezzo dal loro campo. Duncan si inginocchiò e raccolse il teschio. «Poverina», sussurrò. «Cosa?» chiese Molly, convinta di non avere sentito bene. Lui la guardò e lei vide che sulla sua maschera di polvere rossa c'era una riga. Attraverso l'obiettivo, all'inizio aveva creduto che fosse sudore. Invece era una lacrima versata per la ragazzina senza nome. Lei catturò l'immagine.
La grande quantità di omicidi, li lasciò sconcertati. Eppure con i campi di sterminio avevano familiarità. Tutti loro avevano visto le ossa in mostra a Phnom Penh, ma queste erano lucide e fresche. L'evento della morte sembrava non filtrato, non elaborato. Poteva benissimo essere successo il giorno prima. A ogni modo, non si trattava del loro pilota. Spensero le pompe e smorzarono la luce. E mori anche la speranza dell'ultima ora. Il comandante girò la testa. «Basta così», disse. «Che se li prendano i cambogiani. Non è roba nostra.» Ma Duncan non voleva cedere. «Lui è qua sotto. Ci scommetterei la vita.» Il comandante si girò verso di lui. «Duncan, la carlinga si trova a più di quattro chilometri da qui.» «Se il pozzo è stato usato per questa sepoltura, può darsi che l'abbiano usato anche prima», insistette Duncan. «Ci rifletta, il mattino dopo lo schianto aereo. Cavi e metallo dappertutto, una fortuna inaspettata. Ma c'è anche il corpo di uno straniero, e non semplicemente un corpo. Un fantasma.» «Già, i fantasmi», esclamò Kleat in tono beffardo. «Una faccenda seria, qui», disse Duncan. «Questi sono contadini che escono dal decimo secolo. Ho passato un bel po' di tempo in mezzo a loro. Vedono spiriti da tutte le parti. Spiriti delle tigri. Della foresta. Streghe che volano di notte, gente che beve sangue. Già abbondano di antenati loro. All'improvviso, poi, si ritrovano con un corpo che gli cade dal cielo. Come regolarsi? Eseguire una rispettosa cremazione buddista? Per uno sconosciuto? Sprecare una settimana di tempo alla ricerca delle autorità? Autorità che potrebbero cercare di reclamare i loro pezzi d'aereo. Quel cadavere era una seccatura. Così l'hanno scaricato qui.» «Nella loro acqua potabile?» chiese il comandante. «Si tratta di un vecchio pozzo in un villaggio abbandonato. E la tradizione potrebbe essersi perpetuata. Anni dopo, quando i khmer rossi avevano bisogno di un luogo di scarico, qualche abitante del villaggio potrebbe averli condotti allo stesso pozzo.» «È impossibile avere la certezza che il pilota si trovi sotto i resti degli altri.» «Ma c'è un unico modo per sapere che non c'è», replicò Duncan. «È la prima volta che ci troviamo in una situazione del genere», ammise il comandante.
Duncan aveva insinuato il dubbio. Di colpo sembrò che, settimana dopo settimana, avessero scavato allontanandosi da ciò che cercavano. E che i morti di un'epoca nascondessero quelli di un'altra. Ma non potevano semplicemente riportare in superficie le ossa per vedere che cosa si nascondesse sul fondo. Gli ufficiali di collegamento cambogiani si fecero improvvisamente spinosi e zelanti. Sorsero problemi di carattere diplomatico, giurisdizionale, archeologico e culturale. A Molly sembrò d'impazzire. Con un solo, gigantesco colpo di scena, non solo il suo servizio era salvo, ma stava anche assumendo proporzioni che lei non aveva mai immaginato. Fra le altre cose, come linea di condotta, le ossa americane andavano separate da quelle degli individui asiatici direttamente sullo scavo e non al laboratorio centrale nelle Hawaii. Il dipartimento della Difesa aveva imparato a proprie spese quanto fosse difficile rimpatriare le spoglie. Il governo vietnamita, soprattutto, considerava appartenenti ai ling nguy, i soldati fantoccio sudvietnamiti, tutte le ossa rinvenute in prossimità di resti americani. Esistevano inoltre questioni legate all'autorità territoriale. Poteva anche trattarsi di una tomba comune, ma si dava il caso che giacesse in Cambogia. Chi era padrone dei morti? Spettava alle autorità di quello stato sovrintendere allo scavo del pozzo? E questo avrebbe posto i soldati americani nel ruolo di necrofori per i cittadini cambogiani? E se sotto lo strato di vittime dei khmer rossi non ci fosse stato alcun pilota americano? E i cambogiani volevano veramente esumare i resti? Gli interessi in competizione fra loro creavano una tensione che rendeva il servizio di Molly internazionale, delicato e carico di emotività. Il comandante ordinò che l'area intorno al pozzo fosse transennata. C'era una procedura da osservare, dei canali da seguire. I soldati cambogiani furono dislocati intorno al campo per tenere lontani gli abitanti del posto. Agli operai fu ordinato di tornare ai propri villaggi. Il comandante, l'antropologo e le loro controparti cambogiane si ritirano in una tenda e iniziarono a fare chiamate satellitari ai loro quartier generali. Ricevuto l'ordine di tenersi alla larga dal sito, Molly e gli altri si disposero sotto qualsiasi ombra fossero in grado di trovare in attesa di notizie. Intanto le ore passavano. I membri della squadra non riuscivano a farsene una ragione. Trattavano Molly come una veggente, come se avesse un dono per questo genere di cose. «Come hai fatto a sapere che dovevi guardare laggiù?» le domandò uno di loro.
«Non lo sapevo», rispose lei. «Ma sei andata dritta lì.» «Come no, dopo quattro settimane. Proprio dritta!» Mentre se ne stavano tutti seduti con le mani in mano, continuando a parlare dell'accaduto, Kleat era sui carboni ardenti. «Ma cosa fanno là dentro? Potremmo già essere laggiù a ripulire quel buco.» «Non è facile», replicò Duncan. «Ormai diffidano di noi.» «Chi?» domandò Molly. «La gente del posto. Qui sono in ballo i morti dai quali hanno ereditato la terra; i primi proprietari della terra che loro coltivano. Gli abitanti del villaggio potrebbero reclamare il diritto di seppellire le ossa o di cremarle. In un caso o nell'altro, devono assolutamente esorcizzare gli spiriti.» «'Fanculo loro e gli spettri!» sbottò Kleat. Molly cominciò a preoccuparsi. Il comandante riemerse dalla tenda con il volto accigliato, fece un lungo respiro e tornò dentro. Era ovvio che non stavano arrivando da nessuna parte, e di nuovo lei sentì il servizio scivolarle via tra le dita. A quelli servivano le prove. Mentre il resto della squadra sonnecchiava nella calura o scacciava le mosche, lei si alzò in piedi, passò sotto il nastro delle transenne, e si fermò accanto al pozzo. Là sotto era più buio che mai. Senza aspettarsi niente, scattò alla cieca un'altra foto del fondo, quindi richiamò l'immagine sul display. «Questa volta cos'hai preso, Molly?» le chiese un uomo. Lei alzò gli occhi dal display. «Questa dovete vederla assolutamente», disse. Eccitati, uscirono tutti sotto il sole e si affollarono intorno a lei. Sul piccolo visore c'erano ossa a non finire... e qualcos'altro. Lo videro tutti. Un casco di volo. «Hai colpito ancora», sussurrò Duncan. Alle 17,00 un elicottero americano atterrò sulla strada; a bordo c'erano un colonnello USA e due funzionari del governo cambogiano con gli occhiali da sole. Molly li fotografò, e rimase stupita nel vedere l'enorme quantità di abitanti del villaggio che erano arrivati sul posto. I soldati cambogiani tenevano tutti lontano dal campo. Il colonnello non si mostrò per niente contento. «Un circo!» gridò al comandante mentre i rotori dell'elicottero si spegnevano. La polvere volava da tutte le parti. Indicando Molly domandò: «E questa chi è?» «La giornalista del Times di cui le ho parlato», rispose il comandante. Il colonnello non le strinse la mano, né la ringraziò. «Stava fotografando
le ossa?» chiese. «Non sapevo cosa ci fosse là sotto», replicò Molly. La sua ostilità la disorientava. Non aveva appena fornito loro le prove che cercavano? Il colonnello distolse lo sguardo da lei e notò Duncan con i suoi capelli lunghi e la maglietta del Che. «E quello?» Molly vide i muscoli della gola del comandante irrigidirsi. «Un archeologo locale», rispose. «Va bene», disse il colonnello, «qui bisogna riprendere il controllo.» Il comandante accompagnò lui e i funzionari al tendone della mensa. Un'ora più tardi, l'alto ufficiale e i funzionari ripartirono in elicottero. Il comandante annunciò che gli scavi sarebbero ripresi l'indomani mattina. Era stata concessa ancora una settimana; sette giorni, non di più. Dopodiché, quel posto sarebbe tornato nuovamente alla Cambogia. «Abbiamo un gran bel daffare», continuò. «Se è laggiù, lo troveremo di sicuro.» Poi invitò Molly, Duncan e Kleat a seguirlo. Quella sera non c'era più Johnnie Walker Etichetta Nera. L'incontro fu breve. «A causa della natura delicata della missione», li informò, «la vostra presenza qui non è più opportuna.» Molly spalancò la bocca per la sorpresa. «Opportuna», ripeté Kleat. «Che cavolo significa?» Il comandante serrò le labbra. Era evidente che c'era stata una discussione e che lui ne era uscito sconfitto. «Mi è stato consigliato di ridurre all'essenziale il personale dell'operazione. Rinunciamo agli operai.» Poi aggiunse: «E a voi». «Non potete farci questo», disse Kleat. «Io ho fatto la mia parte. Anno dopo anno...» «Fatevi trovare pronti a partire domani mattina alle sette», ordinò il comandante. Duncan si appellò non tanto per sé, quanto per Molly. «Senza di lei, non avreste in mano un bel niente.» Il comandante aveva l'aria sofferente. «Non c'è altro», concluse. 7 «Come reietti.» Parole che uscirono dalla bocca di Kleat insieme al fumo. Molly sedeva con lui e Duncan a un tavolo con vista sul fiume Mekong. Era un ristorante nuovo di zecca che si accordava al ponte giapponese
nuovo di zecca che portava a est. Il tramonto tingeva l'acqua di rosso. I ventilatori giravano discreti sul soffitto, quel minimo da far levare a volute il fumo del sigaro di Kleat ma non da far frusciare le pagine del World Tribune di Duncan. La tovaglia inamidata era candida. Nulla di tutto ciò sembrava reale. «Siamo stati noi a trovare il pilota», disse Kleat, «e loro, come se niente fosse, adios, pendejos.» «Per la cronaca, lui non è stato ancora ritrovato, soltanto il suo casco», replicò Duncan. «Anzi, è stata Molly a trovarlo. Non noi.» Levò il bicchiere per brindare a lei. Coraggiosamente, lei levò a sua volta il proprio. Kleat passò. La Heineken ghiacciata fu come uno choc culturale. Rimase là seduta, con un'abbronzatura da muratore che sabotava il prendisole giallo vivo tenuto da parte appositamente per una serata simile. Saltavano agli occhi, la scottatura e le lentiggini sulle braccia. Molly appariva mezza nuda persino ai suoi stessi occhi. E quei capelli, con un taglio barbaro eseguito con un paio di forbici chirurgiche. Sollevò il mento. Quella sera non c'era nulla da fare. L'abito non faceva il monaco e tutta quella roba là. Il crepuscolo avanzava. Solo quel mattino il sole era sembrato una malattia che, sfinendoli per tutto il giorno, li lasciava fiacchi e dolenti per la notte. Adesso, con un bicchiere in mano e i ventilatori che rinfrescavano l'aria, Molly ce la mise tutta per vedere il tramonto come una cosa dalla bellezza sconfinata. Provò a gustarsi quello stordimento, a non pensare all'afa, alla polvere e agli insetti. Rimandò qualsiasi pensiero al poi. La giornata volgeva al termine. Il mese. Aveva trascorso un mese intero a dissotterrare morti. Kleat cominciò a prendersela con lei. La cena era stata un'idea sua: Molly aveva sinceramente sperato che potessero lasciarsi da amici. Scema. «Te l'avevano detto», esordì. «Il primo giorno. Il primo ordine. Ho sentito con le mie orecchie il comandante mentre te lo diceva. Niente foto ai morti. A qualunque cosa, ma non a loro. E tu invece che fai?» La cicatrice sulla gola gli diventò paonazza. Lui non ne parlava mai, della cicatrice. Era come se, secondo lui, parlasse da sola. Allo scavo, quasi tutti pensavano che fosse l'esito di un approssimativo intervento chirurgico alla tiroide. «Ne abbiamo già parlato», disse Duncan a voce bassa. «La macchina fotografica è semplicemente la loro scusa.» Aveva ancora in mano il World Tribune, di cinque giorni prima, e ne stava divorando ogni parola.
«Però ci hanno segato tutti, insieme a lei», affermò Kleat. Molly sospirò. Kleat non riusciva proprio a darsi pace. Le sarebbe piaciuto solamente che avesse aspettato fin dopo il dessert. Invece i camerieri non le avevano portato nemmeno l'insalata. Il ristorante era famoso per la sua niçoise, e lei l'aspettava da un mese. «È stato raggiunto un accordo», replicò Duncan. «Hanno ottenuto una settimana per recuperare il pilota. Qualunque sia la maniera in cui arriveranno a quelle ossa, non diventerà certo una questione di pubblico dominio. Non vogliono occhi estranei.» «Diciamolo chiaramente», disse Kleat. «Io non sono uno dei vostri.» «Non voglio essere duro, John», asserì Duncan, «ma tu non sei nient'altro. Proprio uno dei nostri.» A Kleat si gonfiarono le vene sul cranio abbronzato; si sporse sul tavolo e digrignò: «Io ero a casa mia, lì». «Ve lo ripeto per l'ennesima volta», esclamò Molly. «Credevo che il pozzo fosse vuoto.» «Tu lo sapevi. In qualche modo, lo sapevi.» «Ha il dono», disse Duncan. «Non aggiungiamo altro.» Era inutile parlarne. Il comandante aveva ordinato di fare piazza pulita. I suoi tre ospiti erano stati caricati a bordo di un Land Cruiser e spediti via. Lei spostò lo sguardo da un uomo all'altro, entrambi freschi di doccia e sbarbati. Lo scavo li aveva fatti dimagrire. Le camicie pulite cadevano sulle spalle come biancheria rubata. In mezzo agli ultimi europei seduti ai tavoli intorno a loro, sembravano due pezzi di legno portati alla deriva dalla corrente. I viaggi organizzati erano quasi agli sgoccioli, la stagione dei monsoni era ormai alle porte, e il tifone si stava avvicinando al Mar Cinese Meridionale. «Quello là sotto non può essere tuo fratello, in ogni caso», contino Duncan. «L'abbiamo sempre saputo, sin dall'inizio. L'hai ammesso anche tu che è scomparso lungo la frontiera, che si trova centocinquanta chilometri a est. E questo, invece, era il punto in cui è caduto l'aereo. Noi cercavamo un pilota, non un soldato di fanteria.» «Tu non capisci», disse Kleat in tono lamentoso. «Non mi permetteranno di tornare mai più.» Il tramonto vacillò. Un tuono troppo basso da potersi udire fece vibrare la finestra. Il vetro ronzò come tante cavallette. L'uragano aveva diritto a un nome proprio, asiatico tanto per cambiare: Mekkhala, che in thailandese significava «angelo del tuono». Si trattava
solamente del quotidiano borbottio del monsone in arrivo, ma tutti lo collegavano al tuono dell'angelo. Il proprietario del ristorante aveva già pronti dei pannelli di legno per proteggere le sue costose finestre. Il vetro tremò di nuovo. Presto sarebbe arrivato. «Mi dispiace», mormorò Molly. Kleat fu colto alla sprovvista. I suoi occhi parvero rinserrarsi. «Vallo a dire al comandante.» «Per tuo fratello, intendevo.» La punta del sigaro s'incendiò. «Spero che lo ritroverai, un giorno o l'altro.» «Perché, tu sai come ci si sente?» «Sì.» «Ancora quella storia della piccola orfanella? No, ti prego.» Quello fu un errore. «Lascia perdere», disse Molly. «No, sul serio. Hai condiviso le tue pene con i ragazzi mentre tagliavi loro i capelli perché pensavi che quello ti avrebbe fatto diventare parte della squadra? Noi siamo venuti qui per trovare soldati.» «Lo so.» «Molly», continuò. «Tua madre era soltanto una spostata hippy.» «Adesso basta», esclamò Duncan. «Perché?» chiese Kleat. «Sono curioso. Voi due mi stupite. Non ci siamo ritrovati qua insieme per caso. Abbiamo dissotterrato morti per una ragione precisa. È stato un lurido, pesante, merdosissismo mese. E questo vi ha fatto soffrire.» «Abbiamo sofferto tutti», ammise Duncan. «Ma il punto è che voi non dovevate. Io sì, invece. E il comandante e la sua squadra hanno un dovere da compiere. Voi no.» Duncan scrollò le spalle. «Davamo una mano.» «I ragazzi hanno aspettato fin troppo a lungo.» «Diciamo così.» «Parli come se fosse la tua guerra.» «Indirizzo sbagliato, amico.» Duncan gli fece il segno della pace. «Dimmi, quando stavi là seduto nel tuo campus, gli altri ti sembravano tutti stupidi?» «Nemmeno uno. Sto solo dicendo che non era la mia guerra. Io non ero qui.» «Però ci sei adesso», ribatté Kleat. «In carne e ossa.»
«E in tutti i posti.» Duncan indicò il glorioso fiume. Respirò profondamente riempiendo i polmoni d'aria. Molly lo imitò e sentì il profumo della buganvillea denso come fumo di marijuana. «E mi piace sempre di più», disse. «Non intendevo il territorio in generale. Parlavo del nostro piccolo scavo. Dove tu non avevi impegni concreti. Professionalmente parlando.» «Professionalmente parlando», convenne Duncan, «proprio nessun impegno.» «Fai pace con Dio? Il vecchio pacifista che sotterra i vecchi guerrieri?» «Deve essere così», ammise Duncan. «E tu?» chiese Kleat, rivolgendosi alla ragazza. Duncan non aveva intenzione di scontrarsi con lui, Molly forse sì. «Ti offendi se te lo chiedo?» E come poteva, un'inquisitrice come lei? «Accomodati pure.» «Tanto per mettere i puntini al posto giusto, sai. Abbiamo un soldato, mio fratello», aprì una mano e poi l'altra, «e tua madre. Suicida.» Alla sua malizia, lei rispose con: «Non ho mai usato quella parola». Kleat esaminò il suo sigaro, uno degli avana del comandante. «Parcheggia la sua piccola da un'amica, lascia dodici dollari e cibo per gatti per una settimana. Poi si fa una dose di LSD e sparisce nella tormenta. È così che ce l'hai raccontata.» «Non proprio.» Era stato solo al momento di compilare il modulo d'iscrizione al college che Molly aveva scoperto di essere stata adottata. L'aveva presa male. Di fatto aveva costretto i suoi genitori, quelli adottivi, a scusarsi con lei. Poi era scappata in cerca della madre naturale. Negli anni successivi, aveva cambiato il proprio cognome con quello di sua madre da nubile, e le sue doti da detective l'avevano portata al giornalismo. Era quello il motivo per cui aveva raccontato la sua storia ai soldati della squadra di recupero, perché identificassero le sue origini, non per tediarli con il suo lacrimevole racconto. «Così l'hai trovata, e questo ti ha reso una persona completa», disse Kleat. Voleva proprio litigare. «Mi ci sono voluti tre anni per trovare una sua foto», affermò Molly. Adesso ce l'aveva, nella foderina del passaporto: una patente di guida rilasciata nel 1967. Ma non l'avrebbe certo divisa con loro, almeno non con Kleat. «Poi mi ci sono voluti altri due anni per trovare la sua tomba.» Ma non descrisse il cimitero di minatori a Breckenridge, a tremila metri d'altezza, con fiori di campo dappertutto.
«Almeno lei una tomba ce l'ha.» Molly lo fissò. Fin dal primo istante, lui l'aveva trattata come una potenziale traditrice. Lei aveva pensato che fosse dovuto al suo lavoro, ma lui era una di quelle anime in pena che avevano costantemente bisogno di un capro espiatorio, e per qualche ragione lei aveva ricoperto quel ruolo per un mese. L'aveva assecondato per tirare avanti, forse. Adesso non più. Pietra sopra. Che il bastardo si trovasse un altro punching-ball. Molly guardò fuori della finestra. Il fiume era infuocato di rosso. Dei piccoli traghetti facevano avanti e indietro, la riva opposta si andava rabbuiando. L'ora dell'aperitivo stava per terminare. Presto i camerieri avrebbero servito la cena. La serata poteva concludersi. Nell'aria cominciò a insinuarsi una tenue disperazione. Era quasi domani, e il futuro di Molly era rovinato. Aveva giocato tutto sul Times. Da quel servizio ne sarebbero scaturiti altri, e poi gli anticipi per un libro, le opzioni per il cinema. Ormai il mondo non le apparteneva più. Kleat stava tagliando velocemente la corda, tornava alle sue birre da dodici centesimi e alle sue donne da cinque dollari. Aveva già prenotato un posto sul volo in partenza da Phnom Penh, per il pomeriggio del giorno dopo. Duncan aveva deciso che i suoi lavori di restauro al nord potevano attendere sin dopo la stagione delle piogge. Si sarebbe recato nella grande città. Anche se doveva esserci stato infinite volte a Phnom Penh nel corso degli anni, si comportava come Marco Polo in procinto di penetrare le meraviglie di Xanadu. Non vedeva l'ora di esplorarne le strade, i mercati e i templi. In breve, uno partiva, uno rimaneva e Molly non sapeva che cosa fare. Niente e nessuno la attendeva a casa, non aveva obblighi, gatti, fidanzati o scadenze. Prima di partire non era ancora la stagione per seminare sulla sua piccola terrazza, e al suo ritorno sarebbe stato troppo tardi. Aveva un'amica che si sposava a luglio, una mezza maratona di beneficenza per il cancro al seno ad agosto, le solite lezioni di yoga e un corso di astronomia all'università. Bollette da pagare e un lavoro da far saltare fuori. Ma adesso era lì. L'Asia non la intimoriva più. Dopo un mese sul campo, si era fatta le ossa ed era pronta alla vita per strada, e Duncan aveva attirato la sua attenzione. Lui aveva una specie di temperamento insulare, solitario, curioso e semplice. Gli avrebbe chiesto di farle da guida attraverso Angkor Vat. Non quella
sera, ma dopo la partenza di Kleat, aveva in mente di proporre una breve avventura prima della tempesta. Un capriccio, uno di quelli che solo un'ora prima non le sarebbero venuti in mente. Aveva il sospetto che potesse portare ad altre cose fra di loro, ad altre città, forse a un'altra vita, una svolta nel percorso. Non era però sicura su come affrontare la differenza d'età. I fatti della Kent State erano storia antica, anche se Duncan sembrava troppo giovane di almeno dieci anni per essere stato adulto a quei tempi. Aveva provato a immaginarselo trent'anni prima: un po' più di carne addosso e meno rughe intorno agli occhi. Ma con la stessa, immutata serenità. Uno molto passabile, trent'anni prima. Lei non aveva mai sperimentato una relazione inverno-estate, non l'aveva nemmeno mai presa in considerazione. D'altro canto, lui non era ancora proprio inverno e lei non era più esattamente estate. Si disse che questo era irrilevante. Se le cose non avessero funzionato, il tifone sarebbe stato il pretesto per filarsela. Il vetro tremò ancora. 8 Sul ristorante calò il silenzio. Kleat consultò l'orologio. «Le sei in punto. Che entrino i pagliacci», esclamò. Molly si voltò nell'attimo in cui l'ingresso del locale si illuminava del colore dei mandarini. Tre anziani monaci fecero il loro ingresso, guidati da un bambino. Le tuniche color zafferano sembravano aver catturato frammenti di tramonto. Aveva già sentito parlare di loro. Erano ciechi. Il proprietario del ristorante li lasciava entrare ogni sera. Tutti ammutolirono riverenti, persino i turisti tedeschi al bar; e mentre i presenti si giravano per guardare si udì solamente il cigolio delle sedie. Una donna fece per applaudire ma poi si interruppe. Non era mica come sui marciapiedi delle strade, con i mutilati e le vedove che ti saltavano addosso. I monaci erano ben lavati, dal portamento maestoso, un assaggio di vera Cambogia da accompagnare al proprio cocktail con l'ombrellino. I camerieri arretrarono verso le pareti, chinarono il capo e giunsero le mani guantate di bianco dinanzi alla fronte: una scena da teatro. «Tanto quiso el diablo a sus hijos que les sacó los ojos», disse Duncan. «Cioè?» domandò Molly.
«È un vecchio detto. 'Tanto il diavolo amava i suoi figli che cavò loro gli occhi'.» «Solo che in questo caso il diavolo non c'entra, i khmer rossi, sì», affermò Kleat. «E lo facevano con i cucchiai.» A Molly ricordò il dipinto di Bruegel, il cieco che guida gli altri ciechi e tutti cadono in un fosso. Qui non c'era nessun fosso, però. E nessuno cadeva. La testa del ragazzino era rasata a zero, un novizio. Si muovevano fra i tavoli con grazia serpentina, raccogliendo l'elemosina, principalmente dollari americani. Molly vide una coppia firmare un traveller's cheque. L'uomo e la donna unirono le palme delle mani in un goffo sampeah, ma naturalmente i monaci non potevano vederli. «Di certo i camerieri ci fanno la cresta», osservò Kleat. Mentre i monaci si avvicinavano, Molly vide alcune vecchie cicatrici brillare al centro delle loro fronti rugose. Il loro terzo occhio era stato ritualmente mutilato. Si muovevano a testa alta, e procedevano uniti tenendo i polpastrelli sulla spalla di chi stava davanti. «Be', nessun peccato da espiare?» chiese Duncan a Kleat mentre apriva la sua valigetta di metallo per prendere il portafoglio. «Con questi prezzi, direi che l'espiazione è già compresa nel menu», rispose Kleat. Molly si alzò per prendere un dollaro dalla tasca e fu in quel momento che vide lo zingaro dello scavo, fermo sulla porta a fissarli. Trasalì per la sorpresa. «E lui cosa ci fa qui?» domandò. I suoi due commensali la guardarono. «Là», indicò lei. In quel momento i monaci passarono davanti alla porta, bloccandole la visuale. Una volta sfilati, l'ingresso apparve vuoto. «Non importa», disse. Non si era mai avvicinato a più di duecento metri, quindi perché avrebbe dovuto essere lì in quel momento? Il suo posto era nei miraggi, lungo la linea dell'orizzonte, nel cerchio del sole che sorgeva o tramontava. Molly fece per sedersi di nuovo, ma lui si era solo spostato e continuava a guardarli. «Lì», disse, nuovamente allarmata. Si era mosso nella sala e adesso era fermo accanto al tavolo di francesi. Indossava un paio di pantaloni grigi da contadino e una maglietta mimetica nera e verde piena di buchi. Era scalzo. La coppia non sembrava felice della sua presenza.
A quel punto, lo videro tutti. Era come se fosse uscito dalla macchina fotografica. «Incredibile!» esclamò Kleat. Quei pantaloni grigi e cascanti che portava addosso un tempo erano stati neri. L'orlo, ridotto a brandelli, gli arrivava alle ginocchia. Gli stinchi erano segnati dai morsi dei cani. Allo scavo, alcuni soldati avevano supposto che fosse un giornalista caduto in disgrazia, molto in disgrazia. O, come aveva suggerito Kleat, un eroinomane perso nella propria orbita. Duncan si domandò se fosse il figlio di un disperso in combattimento, caduto in rovina dopo avere trascorso tutta la vita a sperare. C'era persino la possibilità che fosse un prigioniero di guerra, vivo e vegeto, benché allo scavo nessuno credesse veramente a questa possibilità. Un uomo del genere, un marine di nome Garwood, era effettivamente spuntato fuori in Vietnam parecchi anni dopo la fine della guerra. Da quel momento, l'uomo era diventato pane per il movimento dei dispersi in combattimento. Una fonte inesauribile di nutrimento. Le squadre scientifiche militari consideravano la propria presenza un antidoto a tale illusione. Sebbene nutrissero il massimo rispetto per il movimento dei dispersi, le ossa rimanevano il loro unico bottino. Lo zingaro non rivolse loro neppure un cenno del capo. Era magrissimo. Secondo Duncan si nutriva d'erba e di insetti, proprio come Giovanni Battista. «Deve esserci venuto dietro dallo scavo», ipotizzò lei. «Impossibile», ribatté Kleat. «Ci abbiamo messo cinque ore di macchina per arrivare qui. Ce ne saremmo accorti se ci fosse stato dietro.» «Comunque sia, è qui.» «Ci sta seguendo», disse Kleat. Così sembrava. Ma chi di loro tre stava veramente seguendo? L'uomo si diresse verso di loro. Anzi, il ragazzo: era molto più giovane di quanto Molly avesse immaginato. I capelli biondi erano quasi bianchi per il sole. Aveva un ciuffo ribelle che le ricordò Dennis «la Minaccia», il ragazzino terribile dei fumetti, però in versione eroinomane. Gli mancava soltanto una fionda nella tasca posteriore dei pantaloni. Kleat appoggiò una mano sul tavolo. Molly vide che aveva coperto il coltello. «Rilassati», gli consigliò Duncan. «Forse vuole solo un po' delle nostre noccioline e della nostra birra.» I ventilatori stavano liberando la terra dagli abiti e dai capelli del ragazzo. Il tramonto illuminò la polvere sottile in un nembo di fuoco. La coppia
francese coprì il proprio cibo. Molly si era aspettata dei cattivi odori, un tanfo stantio di urina, di feci e di sudore, ma lui odorava soltanto di polvere. Si fermò dietro la sedia libera del loro tavolo, con la finestra e il tramonto alle spalle. Era difficile vedergli gli occhi. Una sottile corona di polvere rossa si irradiò dalle sue spalle. «Cosa ci fai qui?» gli domandò Kleat. «Vi ho visto», rispose l'altro. «A fingere di fare qualcosa. A consumarvi.» «Ah, sì?» «Come maiali affamati. Gesù, tutta quella polvere per niente.» Nonostante l'atteggiamento da duro, la sua voce era come il vento, e Molly fu costretta a tendere l'orecchio. Era americano, impossibile camuffare l'accento texano. Vent'anni, forse, che però sembravano mille. Aveva visto già tutto. «Non funziona», disse. «Non potete nascondervi.» «Ha funzionato, invece. C'è voluto un po'. Ma il nostro uomo l'abbiamo trovato, anzi l'ha trovato Molly», affermò Duncan. «Chi?» «La giovane signora», rispose Duncan. Lo zingaro non sprecò nemmeno uno sguardo su di lei. «Quale uomo?» chiese. Kleat alzò il mento. La cicatrice pareva un secondo sorriso. «Un pilota. Trovato. Fatto.» Lo straniero tese il pugno al centro alla tavola e poi allargò le dita. Molly cercò i segni degli aghi sul braccio, ma non c'erano. Poi si ricordò che da quelle parti l'oppio costava due soldi, e la gente si limitava a fumarlo. Il ragazzo lasciò cadere sulla tovaglia un grumo solido di terra nera, duro come il cemento. «Smettetela di fingere», mormorò. Sembrava un oggetto senza valore, lo stronzo di un animale, nulla. Da un'estremità sbucava una catenella. Kleat la sollevò con il coltello. «Un gioiello?» «Puoi dirlo forte.» Era un pugno di fango raccolto da terra ed essiccato al sole. Molly vide le impronte digitali dello zingarello. Poi in un angolo scorse un bordo metallico e piatto che insieme alla catena le fece intuire di che cosa potesse trattarsi. Prese lo gnocco terroso dalle mani di Kleat e con le unghie grattò
via la crosta, che però si era indurita per bene. «Da' qua!» esclamò Duncan. E senza troppe cerimonie, lo tuffò nel suo bicchiere d'acqua. Lo agitò con il cucchiaio e l'acqua s'intorbidò, diventando prima grigia e poi nera. Mentre il grumo di terra si dissolveva, Molly prese la parola. «Ti abbiamo lasciato del cibo. Ma tu non l'hai mai mangiato.» L'uomo non le rivolse nemmeno una parola. Rimase fermo ad aspettare, infinitamente paziente. È strafatto, pensò. Gli occhi però erano fin troppo vispi e vigili in quell'ombra di viso. «Abbiamo capito che roba è», disse Kleat, «sempre che sia vera.» «Vera come te e me», rispose l'uomo. «Più vera del vero.» «Tre possibilità, allora.» Kleat esalò un denso pennacchio di fumo. «L'hai comprata. È tua. Oppure l'hai rubata. È questo che hai fatto?» Con il cucchiaio, Duncan estrasse dal bicchiere ciò che rimaneva del grumo e lo sgretolò sul suo piatto. Ne emerse una piccola targhetta di metallo, piatta: una piastrina di riconoscimento, proprio come Molly aveva sospettato. Il cuore cominciò a batterle più forte. Se davvero quell'oggetto era stato rubato dal pozzo, allora era una possibile prova di identità, forse l'unica. Ormai lo sapeva che i laboratori della scientifica volevano denti, o meglio ancora intere mandibole, per confrontarli con le cartelle odontoiatriche. In aggiunta, poteva funzionare il test del DNA, sempre che un parente si fosse fatto avanti negli ultimi trent'anni per offrire un campione di sangue. Senza l'ausilio di agenti identificatori primari, organici, gli enti governativi dovevano affidarsi a delle prove indiziarie: una fede nuziale, l'anello con lo stemma scolastico, un coltello a serramanico con il nome inciso. Oppure una piastrina di riconoscimento. «È un messaggio», disse lo zingaro. Con un'espressione completamente andata. Perso nelle braccia dell'Asia, pensò Molly. «Eccellente», ribadì Kleat. «Cosa dice?» «Piantatela di cazzeggiare.» Kleat, il cercatore, arrossì. «È questo il messaggio?» «Sto ancora aspettando», fece il ragazzo. Duncan, sciacquò la targhetta nella sua acqua e asciugando le lettere incise. «'Samuels, Jefferson S.' C'è anche la data di nascita. Il gruppo sanguigno. Protestante. E un numero di matricola.» Molly sapeva tutto del pilota ER-1 che stavano cercando, dalla data del suo abbattimento alla cura canalare nel molare sinistro. E il suo nome non era Jefferson Samuels.
«Niente. Tu non hai proprio niente», urlò Kleat. Quello lasciò cadere altri due grumi di terra sulla tovaglia bianca, altre due piastrine. Duncan ruppe i grumi come fossero uova, sporcando la tovaglia bianca di terra nera. Lesse la seconda medaglietta e poi la terza. «Sanchez, Thomas A. Bellwether, Edward P.» «Chi diavolo sei?» domandò Kleat. A quel punto Molly fece un tentativo con le buone. Indicò il braccio del ragazzo, e precisamente il tatuaggio che pareva un fantasma sotto la polvere. «Quello è il tuo nome? Lucas Yale?» «Luke», ammise. Molly guardò Duncan e Kleat, ma a loro quel nome non diceva assolutamente nulla, e la sua inutilità la spiazzò. Non aveva altro da chiedere. «E queste dove le hai trovate?» gli domandò Kleat. Per la prima volta, Luke guardò Molly. «Sono venuto a farvele vedere. Andiamo.» «Avanti, diccelo!» incalzò Kleat. «Non è facile», replicò il ragazzo. Il cielo rosso si gonfiava dietro di lui, una grande espio sione finale di colore. Stava facendo notte. «È un gioco pericoloso, il tuo», affermò Kleat. «Rapire i morti.» In realtà, in quel paese verde e fertile, si trattava di una pratica comune quanto la disperazione. I contadini trafficavano continuamente in ossa umane, cercando di estorcere denaro agli americani anche quando le ossa non venivano dagli USA. «Quanto vuoi?» gli domandò Molly. Lo straniero le sorrise inaspettatamente, rivelando una cospicua assenza di denti e quelli che gli rimanevano erano verdastri. Aveva ragione Duncan, il ragazzo doveva essersi nutrito di foglie ed erbacce, saccheggiando la terra. Molly vide che era muschio, vero e proprio muschio che gli cresceva fra i denti... roba da film. I tropici avevano messo radici in quel giovane vecchio. Lo si capiva bene dal volto coriaceo. Lo si vedeva far capolino dalla sua bocca. «Gratis, per voi.» «Facci vedere sulla cartina dov'è il posto», disse Duncan, tirandone fuori una dalla sua valigetta. Si fidava dello straniero ancor meno di Kleat, il che mise Molly sul chi vive. L'istinto gli suggeriva qualcosa. «Lascia perdere», gli rispose Luke. «Sulla cartina non c'è.» «Vuoi scherzare? Siamo nel Ventunesimo secolo e non esistono più po-
sti che non siano riportati sulle mappe. Ci sono i satelliti.» «Be', se ci fosse stato, loro non sarebbero finiti dove sono adesso», ribatté Luke. «Quant'è lontano, questo posto?» domandò Molly, cercando di chiarire il mistero. La chiave stava nel riuscire a far parlare la fonte. «È un viaggetto in macchina. Dobbiamo andare.» «Un viaggetto in macchina! Quanto dura un'ora? Un giorno? Due?» «Una notte. Stanotte.» Le parole andarono a segno. «Tu scherzi», disse Kleat. «Partire stanotte? È tutto il giorno che viaggiamo. E io dovrei cambiare il mio volo. Dobbiamo riposarci. Prepararci.» «Ce ne sono altre sei», riferì Luke. Quell'informazione tappò la bocca a Kleat. «Altre sei piastrine?» Molly era incredula. «Ossa, armi, tutto quello che vi occorre.» Molly gli vedeva la lingua nello spazio dove i denti non c'erano più. «È tutto là. È tutto vostro.» Per un minuto rimasero in silenzio. Nove soldati? Molly sì sentì andare in estasi. Era salva. Ecco il suo pezzo per il Times, senza i rimbrotti del Pentagono. «E noi non dovremmo fare altro che venirti dietro?» chiese Duncan. «Io non posso costringervi.» «Non è mica roba tua», disse Kleat. «Le targhette, le ossa, i resti, tutto quello che hai trovato.» «Che altro volete? Vi sto proponendo di andare lì, è tutto vostro.» «Siediti», gli ordinò Molly. Se ne sarebbe potuto andare così come era arrivato, e a quel punto loro che cosa avrebbero fatto? «Unisciti a noi. Abbiamo ordinato la cena. Possiamo parlarne mentre mangiamo.» Luke rimase in piedi. «Per questo genere di cose ci sono i canali giusti», affermò Duncan. Molly percepiva la sua inquietudine. Il ragazzo lo confondeva. Molly non lo aveva mai visto così. Per lui, le cose si stavano muovendo troppo velocemente. «Avresti potuto comunicarlo al comandante al campo. Avresti potuto recarti all'ambasciata. Perché qui? Perché stanotte? Perché noi?» «Perché siete voi a volere disperatamente quella roba», rispose Luke. Era vero. Li aveva capiti benissimo. Li aveva tenuti d'occhio, settimana dopo settimana. Non conosceva gli appetiti di ognuno, ma aveva visto la loro fame. A Molly la storia cominciò a sembrare plausibile. Un vagabondo ameri-
cano che, girando nel suo mondo dei sogni tropicale, si imbatte nei resti della guerra. Perché no? Ed era anche perfettamente plausibile che un tossico, o uno schizofrenico, qualunque cosa lui fosse, si fidasse di tre civili piuttosto che del comandante e dei suoi soldati. Con o senza l'uniforme, i militari rappresentavano un'autorità che avrebbe potuto strapparlo da quei posti. Quella stessa autorità che aveva espulso lei, Duncan e Kleat. Luke indicò il nuovo ponte. «Vi aspetto dall'altra parte. Fra due ore.» «Due ore», ripeté bruscamente Kleat. Molly si rivolse a Luke. «È tutto così improvviso... Potrebbe esserci un uragano in arrivo. Non possiamo permetterci il lusso di rimanere bloccati in chissà quale posto. C'è un villaggio vicino? Per quanti giorni staremo via?» Luke aveva cominciato ad allontanarsi dal tavolo. «Hai aspettato tutto questo tempo, e c'è così tanto da fare», esclamò Molly. Doveva fermarlo. Trattenerlo. Ma lui se ne stava andando. «Dobbiamo organizzare il trasporto, trovare il cibo, l'equipaggiamento.» «Ve l'ho detto», disse Luke. «Io non posso costringervi a fare niente. La decisione spetta a voi.» Quindi si voltò e se ne andò, inghiottito dall'uscita del ristorante. Duncan fu il primo a prendere la parola. «Quel poveretto è da manicomio o da Cambogia.» «Quindi tu non credi che sia vero?» chiese Molly. Ma dobbiamo farlo diventare vero. La storia possedeva quel genere di potenzialità infantile. Bisognava crederci e basta. «Lo scopriremo presto», affermò Kleat. Si spinse con forza gli occhiali sul dorso del naso e tirò fuori un piccolo taccuino con le pagine piene di orecchie. Era la sua bibbia, l'elenco di tutti i soldati americani che non avevano mai fatto ritorno dalla Cambogia, compreso suo fratello. L'aveva ricopiato da Brite Lite, il database delle persone scomparse. Si chinò sulla prima medaglietta e cominciò a sfogliare le pagine. «Ammesso che ci abbia detto la verità», disse Duncan, «ci ha comunque tenute nascoste delle informazioni. Se invece ha mentito, saremmo degli stupidi a corrergli dietro di notte. Ci sono bande criminali dappertutto. E lui potrebbe appartenere a una. Questo è un paese desolato.» «Secondo te, è un'esca?» «Non saprei. Però c'è qualcosa in lui... È troppo innamorato del suo stesso mistero.» «E in che modo questo lo renderebbe diverso da noi?» chiese Kleat.
«Siamo tutti creature delle nostre finzioni, ognuno di noi.» Il suo stato d'animo era mutato. Di colpo era diventato di buon umore. E Molly notò che era di nuovo tornato a parlare al plurale, diceva «noi» e non «io». Non era un caso. Si rese conto che stava di nuovo formando una squadra: Kleat aveva bisogno di loro. Neppure un'ora prima, era pronto a maledirli per avergli rovinato la posizione con il comandante. Adesso invece cercava di reclutarli. «Di finzioni ne ho avuto abbastanza nella vita», ammise Molly. «Io sono d'accordo con Duncan. Il ragazzo sta tramando qualcosa. Ma se dicesse la verità?» «Sarebbe un bel colpo», affermò Kleat. «Le agenzie di recupero arrivano a una media di venti ritrovamenti l'anno, con una spesa vicina ai cento milioni di dollari. Ecco la nostra occasione: riportarne a casa nove, pagati con gli spiccioli che ci sono rimasti nelle tasche. Immaginate, tre civili, tutto da soli.» Il suo entusiasmo rasentava la lussuria, e anche Molly se ne accorse. Per Kleat, questo avrebbe rappresentato la dolce vendetta per essere stato escluso dallo scavo. In quanto a lei, però, non era nella sua natura vivere per le rivincite. Poter fare un servizio era la sua ricompensa. E avrebbe potuto trasformarsi in un libro, arrivare a Hollywood. Nella sua testa cominciò a costruire una breve cronologia di quella guerra strampalata, e poi il racconto della scoperta di nove americani perduti. Lei si sarebbe tenuta fuori della storia, ma allo stesso tempo l'avrebbe resa profondamente personale. Una volta in possesso di tutti i loro nomi, avrebbe cominciato a scavare nel passato dei soldati e a tessere il racconto del loro legame nella giungla. Il tramonto si spense. Kleat terminò il suo controllo al lume di candela, sorridendo con l'aria di chi la sa lunga. «Cosa c'è?» chiese Molly. «Soldato scelto Edward Bellwether», lesse. «Sergente maggiore Jefferson Samuels. Soldato scelto Thomas Anthony Sanchez. Sono veri, o lo erano. Tutti e tre sono dispersi. E sentite qua. Facevano parte dello stesso plotone, un'unità di cavalleria corazzata del reggimento Blackhorse. Tutti e tre furono visti per l'ultima volta uscire in ricognizione lungo il Sentiero di Ho Chi Minh, nell'entroterra cambogiano, il 23 giugno 1970.» Si interruppe. «Direi che abbiamo una missione.» Molly fece un respiro. Guardò fuori, ma il buio aveva trasformato la finestra in uno specchio, così non vide altro che il proprio riflesso. Il suo
mondo sembrava essersi capovolto. Erano stati sul punto di partire e invece stavano tornando. Anziché essere scacciati, potevano ritornare con una ricompensa maggiore, e alle loro condizioni. «E degli altri sei uomini?» domandò Duncan. «Cosa dice di loro?» «Non c'è modo di avere un rimando a nomi ed eventi. Potremmo provare a chiamare il dipartimento della Difesa; a Washington sono le sette del mattino. Ma così potrebbe arrivare una soffiata al comandante, e sappiamo già cosa pensa di noi. No, dobbiamo agire con quel che abbiamo.» «La faccenda continua a non piacermi», disse Duncan. «Si tratta soltanto di qualche giorno in più.» «Questo non si sa. E se arriva l'uragano...» «Possiamo farcela», affermò Kleat. «Nel cuore della notte, però», rifletté Duncan. «Qual è il suo gioco?» «Quel ragazzino è posseduto dai demoni. Uno psicopatico. Ma a noi cosa importa? Ha trovato qualcosa.» «Vuole sentirsi in una posizione di controllo», sostenne Molly. «Concediamogliela. Facciamogli condurre il gioco a modo suo. E noi avremo presto ciò che vogliamo.» «Dopodiché, lui potrà tornarsene a vagare intorno alla luna», disse Kleat. «Stavo per dire che forse potremmo riportarlo a casa sua.» A Kleat si irrigidirono i muscoli della mandibola. Era famelico. «Questo è affar tuo.» «Allora hai deciso?» domandò Duncan a Molly. Lei lo guardò. «È questo che voglio», ammise. Lui guardò la finestra tramutata in specchio. «Allora vengo anch'io.» 9 L'idea del viaggio li assorbì completamente. Quella ricerca era tutta opera loro e gli dava la sensazione che il mese trascorso con l'ER-1 fosse servito soltanto come preparazione a un itinerario di proporzioni assai più vaste. Sebbene sollecitati dalla scadenza imposta da Luke, si costrinsero a rimanere seduti a tavola per quindici preziosi minuti. Divorarono il pasto con la fretta di chi ruba la cena a qualcun altro, accoltellando la carne, squarciando l'aragosta, in cerca di proteine. Tra un boccone e l'altro stilarono liste, stabilirono un budget, crearono una cassa comune di 458 dollari americani e si distribuirono i compiti. Dopodiché, attraversarono la città.
Era semplice, davvero. Avevano appena terminato una spedizione, quindi sapevano esattamente che cosa serviva per intraprenderne un'altra. Concordarono che la ricerca non sarebbe durata più di una settimana, andata e ritorno compresi. I resti, o erano veri o non lo erano. Una rapida occhiata, un veloce recupero e poi via di nuovo in città. Alla prima goccia di pioggia, che cadesse dai venti monsonici o dall'uragano Mekkhala, loro avrebbero obbedito alla ragione. Mentre Duncan e Molly salivano a bordo di un taxi per andare a cercare Samnang, Kleat fu spedito in albergo a riprendere i loro vestiti e le altre cose. A Kampong Cham tutti si conoscevano. Bastarono poche domande per arrivare a Samnang, che trovarono pronto per mettersi a letto. Con grazia, lui li invitò a entrare. La sua gamba di plastica era appoggiata da una parte. Da un altarino in un angolo si levava una spira d'incenso. Così come aveva fatto Duncan, anche Samnang contestò il viaggio notturno. Ma come Duncan, quando vide la determinazione di Molly acconsentì a unirsi a loro. Lo facevano, percepì lei, allo scopo di proteggerla. Coinvolgendo anche Samnang, la spedizione si trasformava da idea a realtà. Lui sapeva dove trovare subito ciò di cui avevano bisogno. Con fare solenne, si allacciò la gamba al moncherino, poi chiuse a chiave la porta lasciando l'incenso a spegnersi da sé. A bordo di un taxi, seguirono il fiume fino ad arrivare a un'area cinta da mura, la dimora dei tre fratelli Heng. Molly li aveva conosciuti, seppure solo di vista, allo scavo. Uno di loro aveva fatto da autista a lei, Duncan e Kleat quella mattina, elemento che conferiva una promettente simmetria all'avventura di quella notte. Era come se la stessero accompagnando alla sua vera destinazione. I fratelli possedevano un Land Cruiser che risaliva ai giorni della missione ONU, insieme a un vecchio camion Mercedes del periodo coloniale francese. Una volta esposta loro la spedizione, i tre fratelli afferrarono immediatamente l'opportunità di altro lucroso lavoretto. Guidare di notte per loro non era un problema. Si seppe così che i fratelli Heng dovevano la loro relativa ricchezza al mercato nero. Molly si stupì davanti alle scorte di razioni militari, carburante, tende, medicinali, armi e attrezzi per lo scavo rubati a vari eserciti dell'ONU, all'USAID, alla Croce Rossa e, come riconobbe lei stessa, allo scavo dell'ER-1. C'erano provviste sufficienti per cinque spedizioni. Con l'aiuto di Samnang, Duncan trattò con i fratelli fino ad arrivare a
quello che loro chiamavano «prezzo tutto compreso». Per carburante, settimana di guida, provviste e «noleggio attrezzature», si accordarono per una cifra di quattrocentoventi dollari. Poi, urlacchiando qua e là, i fratelli si misero a correre per il cortile con casse, sacchi e taniche di carburante, caricando l'autocarro e togliendo la polvere dai sedili dei passeggeri. Non erano ancora scoccate le otto e mezza quando il loro piccolo convoglio attraversò il ponte verso nord. Luke li stava aspettando esattamente dove aveva detto, accovacciato in fondo al ponte, vicino a un lampione che emanava una luce giallognola. I pipistrelli dilagavano. Molly li aveva visti altre volte, appesi come frutti di cuoio ai rami più alti; ma adesso si tuffavano dalle ombre, aprendosi varchi fra i nugolì di enormi falene attratte dalla luce. Mentre si avvicinavano, il ragazzo rimase fermo sotto la luce dei fanali e Molly vide i cani. Ce n'erano venti o trenta, marrone e arancio, scheletrici da far paura, che gli giravano intorno sia pur tenendosi a distanza. Prima di andare in Cambogia, lei non aveva mai riflettuto sull'espressione «cane non mangia cane»: questi invece lo facevano veramente. Scattò foto di cuccioli nelle fauci di grossi bastardi, di un cane che rosicchiava il teschio di un altro cane. Il suo choc divertì Kleat. Luke rimase immobile, senza salutarli né con le parole né con i gesti, con le mani vuote, senza neppure una sigaretta. Coperta dalla polvere della strada, la sua pelle brillava alla luce dei fanali. I morsi dei cani e i graffi dei rovi sugli stinchi possedevano la lucentezza plastica delle vecchie cicatrici. Per un momento, un terribile momento, Molly vide in lui sua madre: in preda alla follia, respinta dalle gentilezze e dal tormento degli estranei, perduta al mondo, circondata di cani affamati. Malgrado l'afa soffocante, le venne la pelle d'oca su braccia e gambe. La vista di quel ragazzo le fece paura, ripensò a ciò che era stata, tanto tempo prima: una piccolina, dimenticata nelle braccia di sua madre. Da quanti animali in cerca di cibo erano state accerchiate anche loro? Sotto quanti lampioni accesi si erano rifugiate? Il miracolo della sopravvivenza di quella bambina riempì Molly non di meraviglia, ma di terrore. Le mosche si erano ammassate intorno all'odore di latte materno sulla camicetta di sua madre? I camionisti avevano scaricato la Madonna della strada con il suo bambin Gesù quando avevano sentito puzza di pannolini sporchi? Molly era stata esposta a una quantità d'odio e di pericoli che però non aveva mai veramente conosciuto. Ma la vista di quello straniero, quel
suicida ambulante, la fece piombare nel panico. Le mani le si posarono involontariamente sul ventre, sull'utero, per così dire, e lei avvertì la presenza del portadocumenti nascosto sotto il prendisole. Dentro c'erano il passaporto, i soldi e un'altra cosa, forse il bene più prezioso che possedeva: la patente di guida rilasciata nel 1967 a una ragazza di nome Jane Drake. Si vide quell'immagine davanti agli occhi... gli stessi suoi capelli neri, gli stessi occhi verdi. Rievocò il dolce ottimismo su quel viso, e fu tutt'altra cosa rispetto a quel pazzo tormentato davanti alla luce dei loro fanali. Il suo stato di allarme si placò. Scattò una foto a Luke attraverso il parabrezza incrinato, soprattutto per tornare in sé. Il camion accostò. Kleat chiese: «Cosa stiamo aspettando?» Molly sedette davanti. Luke prese posto dietro, accanto a Duncan. Era magro come un ramo di salice ma quando salì a bordo, il veicolo si abbassò sotto il suo peso. Lei pensò che gli ammortizzatori fossero ormai andati. «Per favore, allacciatevi le cinture di sicurezza e chiudete i tavolinetti davanti a voi», disse. Era eccitata. Una grande scoperta li attendeva. Poi si girò e si trovò davanti il volto triste di Luke. 10 L'autostrada numero 7 si scagliò contro di loro. Nessuna striscia bianca. Nessuna indicazione delle distanze. Nessun limite di velocità. Nessun segnale di pericolo. La velocità era l'unico salvacondotto, o almeno così parve a lei dal modo in cui guidava il loro autista. Non rallentava nemmeno attraversando i villaggi al buio o quando sbandava per evitare le buche, invisibili agli occhi di Molly. Lei non aveva mai viaggiato di notte in Cambogia, e giurò che quella sarebbe stata la prima e l'ultima volta. Per evitare di consumarli, tutti guidavano a fari spenti. Camion, auto, bus sfrecciavano davanti a loro sbucando dal nulla. Solo all'ultimo istante i fanali si accendevano, e poi si spegnevano di nuovo, annientandole la visione notturna e lasciandola - come l'autista, probabilmente - più cieca di prima. Il ragazzo sedeva ingobbito nel buio, come un rettile, petto attaccato al volante, fronte incollata al parabrezza. Era il più piccolo dei tre fratelli, sui diciannove o vent'anni, con i polsi solo leggermente più spessi dello sterzo. Nati e cresciuti nei campi profughi, quei tre avevano patito una miseria che lei riusciva appena a immaginare. Il conducente portava un kroma a scacchi blu, le braccia e il collo erano ricoperti da tatuaggi. Continuava a can-
ticchiare i motivi degli Smashing Pumpkins imparati dai soldati dell'ER-1. Molly sperò che Duncan si mettesse a raccontare qualcuna delle sue barzellette, a fare un po' di battute, ma lui taceva, al fianco della loro guida di sasso. I ragazzi non si stavano divertendo. Però era un viaggio in auto, non un funerale, quindi lei tentò di prendere provvedimenti. Dalla borsa tirò fuori delle caramelline alla cannella e le distribuì in giro, offrendone una al conducente. «Si chiama Vin», disse Duncan. «Vin», ripeté lei. Il ragazzo sorrise. «Heng Putheathvin», disse Duncan, fornendo il nome per esteso. «I cambogiani il cognome lo mettono prima, sebbene questo vari poi da figlio a figlio, a seconda dell'estro del momento dei genitori. Cosa che può essere fonte di confusione. Possono usare il cognome della madre per un figlio e quello del padre per un altro. È come un dono che decidono al momento della nascita. Certe volte capita che il padre dia il proprio cognome al figlio preferito. Altre volte, invece, lo dà a un figlio della malasorte, allo scopo di proteggerlo. O proteggerla.» «Un figlio della malasorte?» «È una strana usanza, una sorta di capro espiatorio fetale. Quando il bambino è ancora nell'utero, diventa responsabile dell'eventuale sfortuna che potrebbe abbattersi sulla famiglia. Per esempio, a una madre vengono le doglie e manda un figlio a chiamare la levatrice. Strada facendo, viene morso da un cane. Il nascituro viene ritenuto responsabile. Da quel momento in poi, è marchiato. Tutti sapranno che portava iella mentre era ancora nell'utero. Ma il padre può ovviare a tutto questo dandogli il proprio cognome.» «Che ingiustizia», affermò Molly. «Incolpare un figlio che non è ancora nato.» «Ha a che fare con tutta quella roba sul destino», poi Duncan si rivolse a Vin in khmer. Il ragazzo replicò timidamente. Duncan rise. «Gli ho chiesto se Heng è il cognome del padre. Mi ha risposto che lui e i suoi fratelli sono tutti figli della malasorte.» «Chiedigli dei tatuaggi.» Duncan e Vin ebbero uno scambio di battute. Vin apparve alquanto orgoglioso. «Si chiamano sak», raccontò Duncan. «Magia del guerriero. I tatuaggi lo proteggono dalle lame e dai proiettili. Lui ce li ha sulle braccia, le gambe, il torace, e ne ha persino uno piccolo dove si fa la riga quando si pettina.
Se li è fatti perché ce li hanno pure i fratelli. Quelli più elaborati ce li ha il maggiore, perché è stato un vero e proprio soldato. Ha ucciso degli uomini. Ribelli. Vin vuole farsi tatuare una tigre sulle gambe, con la coda su una e la testa sull'altra. Una protezione contro le mine.» «Cristo, amico.» Fu Luke a parlare, guardando Duncan con sgomento. «Parli come uno che ci crede.» «Qui non siamo a casa nostra», ribatté lui. «E questo cos'è?» domandò Molly, indicando un marchio assolutamente insolito. L'aveva già notato prima. Duncan puntò la torcia sul collo di Vin. Sopra una serie di segni c'era un'immagine rossiccia di George Washington. «Quello», rispose Duncan, «è un quarto di dollaro americano. Al rovescio.» «Si è fatto tatuare un quarto di dollaro sul collo?» «Non è un tatuaggio. È medicina popolare. Koh khchal, vuol dire coniare. Non è tanto diversa dalla filosofia medica nell'Europa medievale, lo scopo è liberarsi degli umori negativi. Un guaritore, un genitore o un amico, inzuppa una moneta nel cherosene per avere una presa migliore, dopodiché comincia a strofinarla come un forsennato, di solito sulla schiena, sul petto o sulle braccia.» Duncan rivolse a Vin una domanda. «Ha mal di testa. Uno dei suoi fratelli gli ha fatto un'energica applicazione. La moneta può diventare bella calda; il fratello gliel'ha impressa sul collo a mo' di firma. George Washington è stato qui.» «Digli che ho anch'io un tatuaggio, una farfalla», precisò Molly. Duncan lo riferì a Vin. «Dice che un giorno gli piacerebbe vederlo.» «Oh... ce l'ho in una parte un po' intima.» «In tal caso, un giorno piacerebbe anche a me vederlo.» Molly guardò nello specchietto retrovisore, ma vide solamente il volto scuro di Luke. Duncan si fece una risata e tradusse al ragazzo. Vin chinò il capo, un po' vergognoso. «Non era necessario metterlo in imbarazzo», disse Molly. «Sopravviverà.» «Ma ti senti?» Era stato Luke a parlare, con la sua voce dura. «Cosa?» domandò Duncan. «Sei proprio fuori.» «Non c'è niente di male a interagire con la cultura. Questo è il loro paese.»
«Forse», disse Luke, «dovresti limitarti a stare con i tuoi simili.» «E cioè?» domandò Duncan. «Sono tutti giochetti», replicò Luke. «Stai semplicemente prendendo in giro te stesso.» Il sorriso di Duncan svanì. Molly si volse verso Luke. A proposito di figli della malasorte. «E tu?» provò a chiedere. «Da dove vieni?» Ma era come parlare al muro. Lui non proferì parola. La caramella gli era rimasta in mano. La conversazione a quel punto morì. Continuarono a macinare chilometri. Una piccola torcia si accendeva e spegneva ogni volta che Duncan marcava la loro posizione sulla mappa che teneva aperta sulle ginocchia. Secondo i calcoli di Molly dovevano avere percorso più di trecento chilometri. Per anni l'ambasciata americana aveva sconsigliato di intraprendere viaggi nelle province più remote, specialmente di notte. Le bande di soldati e mutilati di guerra erano endemiche, con la brutta abitudine di rapinare chiunque percorreva le strade. Le guerre erano finite, si disse Molly. Quei giorni erano passati... ma non del tutto, lo sapeva. La violenza lì era ancora sottopelle. I ribelli continuavano ad aggregarsi per varie ragioni, e nelle campagne c'erano più mine per chilometro quadrato che in Afghanistan o in Bosnia. Ma i chilometri passavano e loro non incontrarono né blocchi stradali né banditi, così Molly cercò di rilassarsi. A quanto pareva, avevano già sfruttato più che sufficientemente le strade. Forse si erano ritirati dagli affari. Durante una sosta per aggiungere olio all'automezzo fumante, Kleat andò a parlare con loro. Molly fece alcuni commenti su quel folle viaggio notturno. «Hai paura? Bene, è un dono. Ci purifica. Ascoltala e riuscirai a vedere nella notte.» Kleat era esultante. «E la nostra guida come sta? Come te la passi, furbacchione?» domandò a Luke. «Johnny Hollywood», rispose, come se lo conoscesse. Kleat trasalì, arretrando, come se quelle parole avessero per lui un significato. Sputò a terra. «Hai qualche problema?» «Sicuro di voler essere qui?» lo rimbeccò Luke. Kleat gettò un'occhiata sospettosa a Molly e a Duncan. Molly scosse la testa. Non aveva idea del significato di quello scambio. «Contribuisco anch'io al costo del tuo passaggio», disse Kleat a Luke.
«Ma questo non ti rende automaticamente il padrone. Furbacchione.» «In che senso?» chiese Kleat. Ma Luke tornò a guardare la strada. Non aveva altro da aggiungere. Molly non ci capiva più niente. Pareva che nessuno riuscisse ad andare d'accordo con gli altri. Ma lei, di certo non avrebbe fatto da mammina. Che se la sbrigassero da soli. Kleat lasciò perdere. Tornò all'autocarro e salì. Il convoglio ripartì, di nuovo fra i giganti metallici che rombavano nella notte. La luna apparve squarciando le nuvole, e le risaie che fiancheggiavano la strada presero di colpo vita. L'autostrada divenne una striscia nera schiacciata fra centinaia di lune riflesse. La terra si fece irreale come in un sogno, un mondo di acqua raccolta e disposta a nido d'ape. Poi arrivarono le nuvole, e loro piombarono di nuovo nelle tenebre. Molly consultò l'orologio. Erano appena le undici; avevano davanti ancora una lunga notte. Forse per il buio che si infittiva o per la distanza che aumentava, il traffico cominciò a diradarsi. Attraversarono altri villaggi, altre risaie con le loro mille lune. «Mamot», osservò Duncan muovendo la cartina. Poco dopo, chiese: «Siamo diretti a Snuol?» Molly vedeva Luke nello specchietto retrovisore, con il volto ingiallito dalla luce della torcia elettrica. Si diede un colpetto sulla testa coperta di polvere. «Non me lo sono dimenticato. È tutto qua dentro.» «Là dentro! Cos'è una roba tipo stato d'animo o altre cavoiate del genere?» chiese Duncan. Molly ascoltò, sorpresa. Non era da lui schernire la gente. «Di cosa ti preoccupi?» ribatté Luke. «È che sembra che ti inventi le cose strada facendo.» «Perché, tu no?» Molly desiderava solo che Duncan la piantasse. Se la notte era destinata ad andare in malora, sarebbe stato per colpa loro. Non era Luke che li stava abbindolando, lo facevano da soli. Lui si era limitato a far leva sulle loro aspettative, e loro ci si erano buttati a capofitto. Comunque non stava per rivelare il suo segreto, poco ma sicuro. La destinazione, che fosse vera oppure no, era l'unico suo asso. Lei desiderò che Duncan la smettesse di darsi tanto da fare con le mappe e che spegnesse la torcia, che gettando un riflesso sul parabrezza rendeva molto più difficile vedere la strada. «Ricordamelo un'altra volta», disse Duncan, «come l'hai trovato questo posto?»
«Mi sembrava il posto giusto dove andare», rispose Luke. Duncan non mollò. «Tu eri semplicemente, così, in giro? A scorazzare per le province?» «Esattamente.» «Solo che non hai l'aria del turista. Hai più quella del fuggiasco.» Quella era stata una delle tante supposizioni fra gli uomini dell'ER-1: che lo zingaro fosse evaso da qualche carcere asiatico. Il che avrebbe spiegato il suo tenersi a distanza, senza però mai sparire. Secondo questa teoria, aveva paura, nostalgia di casa e bisogno della loro vicinanza. Quella notte, sembrava tutt'altro che spaventato o nostalgico. «Ci sono cose da cui non si può fuggire», affermò Luke. «Voi siete qui, no?» «Non proprio. Tu puoi ringraziare Kleat per la nostra presenza. È lui, che lo vuole così tanto.» Duncan non fece menzione di Molly, anche se il vero motivo di quella spedizione era proprio lei. «Il grande affamato.» Luke sembrava divertito. «Cosa crede di trovarci, lassù?» Lassù? Lungo la strada o più in alto? Molly ascoltava attentamente. Per un mese, Kleat aveva sparlato di Duncan, descrivendolo come bugiardo, patetico, impostore, e dandosi da fare per farlo cacciare dallo scavo. Duncan non era uno stupido. Lui sapeva tutto, Molly ne era certa. Adesso era giunta la sua occasione per restituire il colpo. Invece si limitò a: «Redenzione». Lo disse con grazia, e Molly ne fu felice. Da qualche parte, in quell'essere complicato che era John Kleat, c'era un filo d'umanità. Ci voleva davvero un buon cuore per vederlo con tanta chiarezza, e Duncan stava dicendo che l'aveva visto. Lei ne fu lieta, non perché gliene importasse di Kleat, ma perché Duncan era una roccia. Forse poteva fidarsi di lui. «Redenzione?» ripeté Luke. «Sono anni che è alla ricerca del fratello.» Dal sedile posteriore giunse un rumore che fece sobbalzare Molly. Sembrava un verso animale... una scimmia, uno sciacallo, qualcosa dai denti aguzzi... un unico, ferale latrato. Uno stridio. Anche Vin alzò di scatto la testa per guardare nello specchietto. Era una risata che Molly non aveva mai sentito in vita sua. «È questo che dice?» chiese Luke. «Che si tratta di suo fratello?» «Non afferro la battuta», disse Molly. «Quale fratello?» chiese Luke.
«È scomparso in guerra. Una faccenda mai conclusa.» «Sicura che vuoi stare dalla sua parte?» «Te lo sto solo raccontando.» «Vuole essere di nuovo coinvolto. È per quello che ha seguito le tue tracce. È convinto di aver rimediato un passaggio. È convinto di tornare a casa.» Molly non aveva idea di che cosa stesse parlando. «Non ha seguito le mie tracce. Quando sono arrivata, lui era già allo scavo.» «Ad aspettare te», replicò Luke. «Noi sapevamo del tuo arrivo.» Noi? «Non sempre si presenta una seconda occasione», continuò Luke. «E lui vuole esserne parte a tutti i costi. Ma non lo sarà mai.» «Essere parte di cosa?» domandò Duncan. «E chi sarebbero questi 'noi' di cui parli?» «I ragazzi», lo interruppe Luke. Molly corrugò la fronte. Quello era un termine che usava Duncan. Che Luke li avesse origliati una notte senza farsi vedere? Impossibile. «Sia quel che sia», disse Duncan. «Mi sembra di capire che tu ne fai parte.» «Come te.» «E io?» domandò Molly. Luke era come Giobbe, un profeta delirante, ma senza un Dio da incolpare per la sua bruttezza e la sua miseria. Lei voleva sentire la sua opinione. Lui la guardò. «Per chi altri credi che siamo venuti?» L'enorme sagoma nera di un camion li superò a tutta velocità, a fari spenti. Il Land Cruiser sbandò nella sua scia. I pensieri di Molly si dispersero. Era un sollievo, decise, porre fine a quella conversazione. 11 Giunsero in una città o a quel che ne restava. La luna fece una rapida comparsa e davanti agli occhi di Molly si presentò una scena di distruzione, la terra rossa come su Marte. Sparsi qua e là si ergevano muri solitari crivellati di pallottole, il resto delle case era crollato. Quel posto era una baraccopoli su palafitte in mezzo alle macerie. «Snuol», lesse Duncan sulla mappa. «Cosa è successo qui?» domandò Molly. «Direi che l'esercito americano è venuto a fare una visitina», rispose
Duncan. Si era tolto il kroma bianco e rosso dal collo e se lo era avvolto intorno alla testa, quasi come un paraocchi. «Nascere significa morire, fratello», disse Luke. «Qualcuno deve pur alimentare il meccanismo. Questa volta è toccato a loro.» Molly era affascinata da tutta quella distruzione. La guerra aveva dato origine a un'architettura talmente grottesca da rasentare la bellezza. E la gente non la toccava, quella era la cosa più strana. Avevano scelto di vivere fra le rovine. «Siamo quasi arrivati», continuò Luke. «A nord verso Kratie», tirò a indovinare Duncan. «Da lì Sambor non è tanto distante.» «Conosci il paese?» Luke era divertito. «Sono stato da queste parti tanti anni fa», affermò Duncan. «Per ripercorrere i passi del grande esploratore olandese Van Wusthoff, che era diretto a Vientiane. Ma questo accadeva nel 1642. Fu il primo occidentale a posare lo sguardo sulle presunte rovine di Sambupura, capitale di una civiltà pre-Angkor del sesto secolo. Oggi si chiama Sambor. Gli abitanti del posto la smantellarono e portarono via le pietre degli edifici per costruire le dighe. Nel terreno è ancora presente qualche pietra di fondamenta. Alcuni studiosi dubitano che le pietre di Sambor delimitino la vera Sambupura e sono invece convinti che queste siano le semplici tracce di una città satellite, e che la capitale dovesse trovarsi da un'altra parte. Gli scettici sostengono che Sambupura non sia mai esistita, ma che sia solamente la versione locale di Shangri-la.» «Altri giochetti», ironizzò Luke. «Tu con la tua storia e il tuo folklore.» Duncan rimase in silenzio per un istante. «È di questo che mi occupo. Restauro templi. E sono specializzato nel periodo precedente il regno di Angkor.» «Diciamo pure che è così. Tanto, che cambia?» fece Luke. Duncan sembrava colpito. La sua piccola torcia si muoveva sopra la mappa. Molly non capiva perché gli permettesse di irritarlo fino a quel punto. Davanti a loro, la strada si biforcava. «Di' al ragazzo di proseguire dritto», ordinò Luke. Lasciarono l'autostrada 7 e imboccarono una strada secondaria, che si rivelò migliore. L'asfalto pieno di buche di Snuol si tramutò in uno sterrato liscio e compatto. Si sentì frusciare la cartina di Duncan. «A est verso Mondulkiri», disse. «Questa è un'antica strada per il trasporto di legname.
Il Sentiero di Ho Chi Minh si dirama ovunque, da queste parti.» «La storia», disse Luke. Molly avvertì una leggera nausea. Da che aveva lasciato lo scavo alle sette di quella mattina, aveva continuato a viaggiare, su una strada o l'altra, per sedici ore. Era stanca. Le era venuto il mal di testa. L'aragosta, mangiata a cena, le aveva messo sete e lasciato un saporaccio amaro in bocca. Si augurò che dall'albergo Kleat avesse preso anche la sua trousse. Le sarebbero sicuramente serviti uno spazzolino da denti, una T-shirt pulita e una tenda, esattamente in quell'ordine. La luna andava e veniva. Molly si accorse che continuava ad appisolarsi per brevi tratti. Una mano mollò una botta sopra il suo sedile. Molly sobbalzò e udì la voce di Luke: «Ci siamo quasi. Diglielo». «Siamo arrivati?» Molly guardò fuori del finestrino. «Come fai a vedere?» «Glielo dici oppure no?» Luke allungò una mano davanti e colpì Vin fra le costole, facendogli male, Molly lo vide benissimo. Vin digrignò i denti d'oro e pigiò sul freno. Un turbine di polvere li avvolse. «Ho detto di fermarti?» chiese ironico Luke. «Riparti verso quella direzione.» «Siediti», gli ordinò Duncan. Luke ritrasse il braccio e il sedile posteriore scricchiolò sotto il suo peso. Vin strinse forte il volante, furioso per quella botta. Finalmente accese il fanale buono. Non c'era che la terra rossa della strada, e la vegetazione alta e verde che li inghiottì. Piano piano, Molly cominciò a scorgere una massa scura in lontananza, il pendio di una montagna, o forse una fila di alberi in salita. In entrambi i casi, niente più che una zona desertica. «Allora andiamo avanti», fece Luke. «Dove?» replicò Duncan. L'autocarro arrivò dietro di loro al chiaro di luna. Sembrava il relitto di un naufragio, il telone che ondeggiava come una vela squarciata. Vin continuò a succhiarsi gli incisivi d'oro, prendendo una decisione. Un'unghia tamburellò sul finestrino di Molly; lei si girò e Kleat chiese: «Vi siete persi?» Alle spalle di Kleat apparve la faccia rotonda di Samnang, un melone rugoso e marrone con i capelli bianchi. «C'è una strada», affermò Luke. «Passa attraverso la vegetazione.»
«Una strada invisibile», ribatté Duncan in tono beffardo. «Cosa dici?» domandò Kleat. «Adesso torniamo indietro. Possiamo essere di nuovo a Phnom Penh per l'ora di colazione», sostenne Duncan. «Tornare indietro?» disse Molly. «Guarda con i tuoi occhi, qui non c'è niente.» E passò la mano sulla mappa. Luke non ribatté. Si era scollegato, aveva spento i contatti. La decisione spettava a loro. Kleat fumava di rabbia. «Se fosse stata visibile, l'avrebbero già trovata. A volte bisogna soltanto andare un po' più a fondo, ecco tutto.» Molly non si era accorta che Samnang si era allontanato. Riapparve come niente davanti al fascio di luce del fanale, mentre risaliva la strada, muovendo a strattoni la gamba finta. Uno alla volta, smisero tutti di parlare. Il vecchio si ritrovò davanti alla sua stessa ombra, lunghe linee nere come i fili di una marionetta fissati a ogni arto. Seguì il ciglio della strada, scrutando il fossato ricoperto di vegetazione. Dopo una cinquantina di metri si fermò e iniziò ad aprire un varco. Tutti scesero dai veicoli e raggiunsero la strada. Tutti tranne Luke, che rimase seduto in macchina, sapendo quel che sapeva. Samnang continuava a farsi strada fra l'alta vegetazione, tastando il terreno con il piede buono. «Una pista per carri trainati da buoi», annunciò agli altri. «In disuso da moltissimi anni.» I tre fratelli abbandonarono la strada maestra e si unirono a Samnang, ciarlieri e ansiosi di proseguire. Volevano il salario di una settimana, non si accontentavano della tariffa di una corsa notturna in taxi. Si mossero fra l'erba, schiacciandola e legandone dei ciuffi come punti di riferimento. Improvvisamente, la notte esplose intorno a loro. Un clamore riempì l'aria. Sfrigolò e crepitò come una scarica ad alto voltaggio, forte, tangibile quasi. La repentinità e il volume fecero sobbalzare Molly, che si voltò di scatto alla ricerca della fonte, ma il rumore incalzava da tutte le direzioni. Si rese conto che si trattava di cicale, a migliaia. Non aveva mai sentito una concentrazione tale di insetti che frinivano. La registrò come una manifestazione di rabbia, ma solo perché l'evento era a lei totalmente estraneo. Fece un passo indietro e uscì dall'erba. Improvvisamente, il rumore cessò.
«Cosa è successo?» domandò. Gli uomini, paralizzati, guardavano intensamente l'erba su entrambi i lati. A quel punto, Kleat agitò la mano alla notte. «Insetti. Non è niente.» Le nubi si diradarono lasciando apparire la luna, e le alture distanti si rivelarono per un cumulo di basse colline coronate da una fitta foresta. «Convinti, adesso?» chiese Kleat. «È lì. Lui ha detto che era lì. Ed eccola lì.» Molly volse lo sguardo alle montagne. «Una pista per carri trainati da buoi», disse Duncan per troncare la faccenda. «Una montagna.» Kleat non voleva saperne. Agguantò un ciuffo d'erba e lo strattonò con violenza. Un gesto sciocco. Le radici erano profonde e si trattava di falasco, dagli steli forti e affilati. Il pugno scivolò via, vuoto. Kleat batté i denti per il dolore e aprì la palma della mano tagliata. Quando la scosse, alcune gocce del suo sangue schizzarono nella polvere come piccole esplosioni. Seguirono la strada. Il convoglio cominciò a inerpicarsi attraverso l'erba, più alta degli sportelli. Dietro di loro, i fanali dell'autocarro nuotavano in un oceano di linee verdi e brillanti. La loro corsa sfrenata rallentò a passo d'uomo. La pista era solcata e tortuosa, e difficile da vedere; tuttavia, saliva dolcemente. Le pale e le taniche accatastate sul retro smisero di fare rumore, limitandosi a qualche cigolio sulle curve. Molly sentiva l'erba scivolare letteralmente sotto il telaio. Si rilassò, piena di gratitudine per quel percorso tranquillo e sinuoso. A ogni tornante, la luna si spostava nel cielo. Sembrava essersi fatta grande il doppio del normale, come se loro stessero lasciando la superficie terrestre. «Siamo più a nord di quanto avessi calcolato», ammise Duncan. «Stiamo per raggiungere le alture di Annamite, che arrivano fino in Cina. È una zona selvaggia. Gli abitanti delle pianure se ne tengono alla larga. In sostanza, le tribù collinari continuano a vivere quassù come vivevano diecimila anni fa, cacciando gli animali, seminando un po' di cereali fra gli alberi.» «La storia», sussurrò Luke. Alle tre e trenta giunsero alla sommità di un crinale e si fermarono. Davanti avevano tutto ciò che restava di un ponte, un unico pilone di pietra che si ergeva dall'ampio letto del fiume. Dall'altro lato, più su, la prateria cedeva il passo a una foresta di alberi altissimi.
«E adesso dove si va?» chiese Duncan. Scesero tutti, tranne Luke, che ancora una volta li lasciò alle loro conclusioni. Molly si voltò a guardare da dove erano arrivati, aspettandosi di vedere la pista appiattita dalle ruote. L'erba invece si era richiusa alle loro spalle. Al ritorno, avrebbero dovuto scovare di nuovo la strada con la stessa perizia. Con sua grande sorpresa, la pista dei taglialegna si trovava ben sotto di loro. Continuando a salire serpeggiando, avevano percorso centinaia di metri in linea verticale. Da quell'altezza si vedevano le risaie a ovest illuminate dalla luna in lontananza, e strane file di bacini d'acqua. Poi si accorse che non erano bacini d'acqua, ma crateri formati dalle bombe. Kleat cominciò a camminare avanti e indietro sull'orlo del letto del fiume come una tigre in gabbia. «Siamo vicini», disse. «È proprio davanti a noi.» «È soltanto una foresta», fece Duncan. «Un nascondiglio», ribatté Kleat. «La cosa ha un senso. Stiamo cercando i resti di un reparto di cavalleria corazzata.» «E tu come fai a saperlo?» domandò Molly. «Cosa pensavi che fosse, il Blackhorse? L'Undicesimo reggimento di cavalleria corazzata. Erano famosi, erano gli uomini di George Patton. 'Trovate quei bastardi e ammucchiateli' erano i suoi ordini. Nove uomini, ha detto Luke. Un numero sufficiente per equipaggiare due carri armati o due VTT, veicoli da trasporto truppe. È questo che cerchiamo. Qualsiasi mezzo di quelle dimensioni, lasciato allo scoperto, sarebbe stato immediatamente avvistato dagli aerei o dai satelliti già parecchi anni fa. Non so come quei ragazzi si siano perduti. Ma è fra quegli alberi che sono andati.» «Non certo attraverso il ponte», obiettò Duncan. «Perché no? Le bombe cadevano a pioggia su tutta questa zona. Il nostro pilota stava rientrando da una missione proprio lungo questo confine. I soldati del Blackhorse hanno attraversato il ponte e dopo un po' una bomba lo ha fatto saltare in aria. Questo spiegherebbe perché non sono più riusciti a tornare.» «Se non fosse che il ponte è troppo primitivo», disse Duncan. «Le vedi quelle pietre? È un ponte a mensola. E questo significa che risale a mille anni fa, se non di più. Un ponte così non avrebbe mai retto il peso di un carro armato. E osserva come le pietre si sono spostate a valle nel corso del tempo. Alcune sono enormi. No, questo ponte è crollato secoli fa.» «Più ci avviciniamo, meno ti importa», affermò Kleat. «O hai paura di
qualcosa?» Molly si tenne distante da loro. Era delizioso respirare l'aria della notte, però con solo il prendisole sentiva freddo. «Anche se fossero passati da là trent'anni fa, non significa che noi dobbiamo andargli dietro per forza», continuò Duncan. «Guarda la larghezza del letto del fiume. È capace di grandi quantità d'acqua. Una volta che comincia a piovere, non saremo più in grado di ripassare. Resteremo bloccati per i prossimi sei mesi. Questo, e non un ponte bombardato, spiegherebbe perché nessuno li ha più visti.» «Io non vedo nessuna pioggia.» «Sta arrivando.» «23 giugno 1970», gli disse Kleat. «Il giorno in cui sono scomparsi. Facevano parte dell'incursione cambogiana. Li aveva mandati Nixon. Ciò che accadde alla Kent State ha che fare con questo.» «Me lo ricordo.» «In un modo o nell'altro, questi nove soldati sono rimasti separati dal resto del corpo principale. Forse stava facendo notte. Il nemico era in agguato. Loro non potevano stare allo scoperto.» «E tu credi che si siano spostati così a nord? Siamo a metà strada dal confine del Laos.» «Forse cercavano un punto in alto. Forse avevano visto gli alberi. Forse erano inseguiti.» Molly li lasciò litigare. La notte e l'aurora buia erano troppo belle per rovinarle così. Venere brillava. Le costellazioni erano un richiamo. Per un mese, sommerse dalla foschia delle pianure, le stelle le erano mancate. Laggiù, fra un paio d'ore, la gente dell'alba avrebbe cominciato a saccheggiare lo scavo, zigzagando tra la nebbia. Lassù, lei si sentiva libera. Con le braccia strette al petto, si mise a vagare lungo il vasto argine. Al principio non fece caso alla strana nervatura sotto le scarpe, che dal suolo affiorava gradualmente. Alla fine, però, i dislivelli minacciavano di farla inciampare. «Duncan», chiamò. «Kleat.» Stavano ancora discutendo. Lei chiamò più forte. «Cosa c'è?» chiese Kleat. Indicò i segni a terra. Kleat aveva con sé una grossa torcia. La puntò sulle file di impronte corrugate, ciascuna della medesima larghezza, una trentina di centimetri, che si estendevano come le orme di un dinosauro. Le tracce proseguivano per
un centinaio di metri prima di sprofondare di nuovo nel terreno. L'argilla aveva catturato il passaggio dei veicoli. Il sole l'aveva cotta e resa impermeabile al clima di tre decenni. «Blackhorse», disse Kleat. Aveva identificato le impronte: erano i segni lasciati da due VTC, veicoli da trasporto e combattimento, entrambi delle stesse dimensioni, uno dietro l'altro. «Hanno fatto questo percorso, su per la collina, lungo il fiume, per superarlo senza attraversare il ponte. Che altro ti serve?» domandò a Duncan. «Loro sono là. E ci aspettano.» 12 Arrivarono nel letto del fiume, dove i dispersi dell'Undicesimo cavalleria avevano lasciato altre impronte nell'argilla. Nel punto più profondo l'acqua arrivava all'altezza dei semiassi del Land Cruiser, benché dal lato verso monte crescesse, sciabordando e gorgogliando, fino alla portiera di Molly. La luna creava una pellicola d'argento sulla superficie. Lei fece penzolare la mano fuori del finestrino e sentì che l'acqua aveva la temperatura di un bagno caldo. «Deve per forza essere uno di questi bacini di drenaggio», bofonchiò Duncan guardando la mappa. Lei lo sentiva dietro di sé, che girava la cartina per farla combaciare con il terreno. Ma non vedeva il manico del Grande Carro, le stelle che filavano verso la Stella Polare? Non si erano persi, si stavano semplicemente muovendo. Molly chiuse gli occhi, e al centro della corrente le sembrò di andare alla deriva sopra una zattera. Aveva i piedi bagnati e vide più di due centimetri d'acqua sul pavimento. Scoppiò a ridere. «Sei felice», commentò Duncan. «Sì», rispose senza girarsi. La cosa gli fece piacere. E questo fece piacere a lei. Tuttavia non provò a spiegare la sua gioia. Dopo tutte quelle settimane, si sentiva rimessa in libertà. La tensione generata dalla ricerca del pilota, il battere e levare degli attrezzi contro la terra, uomo contro uomo, civili contro soldati, Kleat contro Duncan... sembrava ormai alle spalle. La violazione al pilota, con la macchina fotografia, era roba del passato. L'autostrada e la sua nera minaccia erano dimenticate. Il sole li avrebbe trovati da qualche parte. Quello era il cuore. Più si al-
lontanavano dalla strada maestra, più le sembrava di avvicinarsi a un centro. Quando fosse giunto il momento, in un modo o nell'altro sarebbero comunque riusciti a ritrovare la strada a ritroso, e alla fine lei sarebbe tornata a scrivere, a pubblicare le sue foto, a promuovere il suo nome, il cognome da nubile di una donna che l'aveva abbandonata: l'unico che riconoscesse. Per adesso, voleva soltanto continuare ad andare avanti. Il fiume, o forse la felicità di Molly, cambiarono anche Duncan. Le sue ansie scomparvero. Lui ripose la mappa, e lei immaginò che da quel momento avrebbero potuto gettarsi insieme nell'avventura. Ormai erano passati dall'altra parte. Quell'ostinato viaggio di mezzanotte poteva rallentare. Lei avrebbe potuto cominciare a conoscere Duncan senza il rumore di fondo, senza la fretta di afferrare le notizie della squadra di recupero per il suo articolo. Adesso erano loro due soli, a farsi strada lungo una pista, attraverso un fiume che era soltanto un torrente, sopra una montagna che era soltanto una collina, fuori da ogni carta geografica. Due cercatori, ecco che cos'erano. Le ossa erano il pretesto che separava loro due da Kleat, il quale dipendeva così tanto dai suoi morti e dal suo dovere. Lei non era venuta a resuscitare i soldati, proprio come Duncan. Il pilota scomparso li aveva attratti in quanto novità, opportunità, niente di più. Adesso potevano inoltrarsi nel territorio del cuore. Non avevano mai parlato della vita di lui prima della Cambogia. Per un mese, avevano lavorato e vissuto a pochi centimetri l'uno dall'altra, ma lei non era ancora arrivata a capirlo. Con tutti i suoi racconti sulla squadra di football alle superiori, su un cane di nome Bandito, sul viaggio durato un'estate intera in Harley fino ad Anchorage, sulle ricette speciali per le grigliate e i vecchi film preferiti, lei non aveva idea del perché lui fosse finito lì. L'unica volta che gliel'aveva chiesto, lui aveva eluso la domanda rispondendole: «A volte mi sembra di essere nato qui. Quasi fossi un vecchio oggetto polveroso uscito da un romanzo di Kipling, un altro vestigio dell'impero». No, non Kipling, pensava lei. Conrad. E non Kurtz, non Cuore di tenebra, ma Lord Jim. Duncan custodiva dei segreti, forse oscuri o tristi, oppure un'antica colpa. Uno non va mica nella giungla perché è innocente. Lui non parlava mai di moglie, figli o altre donne, non si chinava mai sulle foto di una famiglia perduta o di un'amante che aveva scelto un altro uomo o era rimasta vittima di una morte tragica. Non aveva mai detto dove fosse finita quella parte della sua vita. Il senso di colpa del superstite, immaginò.
Forse era proprio questo che la attraeva. Sembrava che, come lei, anche lui portasse dentro di sé il senso di un passato che era meglio non ripetere, di un viaggio senza ancore. Come un orfano, si comportava come se non fosse degno di amore. Erano gli elementi perfetti per una ricerca del Graal, loro due. Oltrepassarono dei logori blocchi di pietra sull'argine del fiume, segno dell'esistenza di antichi canali. Questo lo rianimò. «Incredibile», disse. «Abbiamo davanti un sistema di controllo delle acque che precede di secoli il regno di Angkor, e dall'altra parte del paese. Un massiccio sistema idraulico nelle montagne, accidenti! Bisogna capire che qui l'acqua è dappertutto. Non c'è un altro paese al mondo simile a questo. Per i cambogiani il mondo è acqua. Quando arrivano i monsoni, quasi metà del paese scompare sotto l'acqua. Il fiume Tonle Sap inverte il suo corso. Grandi battaglie furono combattute su chiatte. La loro civiltà era fondata sulla coltivazione del riso. La nascita e il crollo dell'impero Angkor furono legate alla loro abilità di controllare l'acqua. I re Angkor raccoglievano in enormi cisterne l'acqua piovana che poi distribuivano con parsimonia negli anni di siccità, o che usavano per far morire di sete i nemici. Ma da dove nasceva il genio Angkor? Da cosa scaturiva la loro grandezza? Chi aveva trasmesso loro il mandato divino? Chi era venuto prima di loro?» Se fosse stato cosciente, Luke avrebbe mormorato «la storia». Invece si era addormentato o stava facendo un viaggio nella sua testa. Teneva gli occhi chiusi. Forse il suo delirio era ciclico, oppure la perdita del suo segreto lo aveva svuotato. Molly decise che l'ibernazione faceva proprio al caso suo. Senza quegli occhi da tossico sembrava più giovane. Addormentato, sembrava rassegnato a se stesso. Seguiti dal massiccio camion, continuarono a salire zigzagando lungo le curve del dislivello. La luna girava da sinistra a destra sul parabrezza, un bersaglio mobile. Molly abbandonò il bisogno di doversi orientare per forza. Ormai sapeva dov'erano diretti. La foresta sembrava scendere su di loro. Dalla gola degli alberi fuoriusciva una foschia bianca. La nebbia del primo mattino faceva parte del meccanismo cambogiano. Quella notte, però, a Molly sembrava più una parola esalata, una sillaba rovesciata giù per il pendio con lo scopo di accoglierla. A destra e a sinistra, i rampicanti sigillavano la parete della foresta. L'unico possibile accesso era attraverso una breccia nella cortina formata da-
gli alberi. Avrebbe voluto chiedere a Vin di fermarsi per farle scattare una foto, ma poi avrebbe dovuto aprire il treppiedi e comunque, sarebbe stata più un'emozione che una foto. «Ci sarà tutto un altro mondo, lassù», disse Duncan. «Un ecosistema che detta le proprie regole. Vedrai. Su queste montagne vivono specie di cui non si conosce neppure l'esistenza. Il khiting vor, praticamente un unicorno, un animale mitico, per metà gazzella con le corna a volute. Si dice che per mangiare si drizzi sulle zampe posteriori. E che si nutra di serpenti letali. Ci sono branchi di elefanti bianchi, che sembrano fantasmi. Pavoni. Entelli con due stomaci. Centinaia di specie di falene. E i fiori.» Alberi di tek e caucciù si libravano nel cielo. Lui ne conosceva le forme, e anche i nomi in cambogiano. Giunsero ai margini della nebbia, che si tramutò in un brillante fumo latteo davanti ai loro fari. Vin ridusse la velocità, avanzando come se tastasse il terreno. Ma adesso avevano ritrovato l'orientamento, quello squarcio nella foresta. Qualcosa batté sul tettuccio. Una foglia. Un ramoscello. «E le tigri?» «Oggigiorno si vedono più pellicce che orme», rispose Duncan. «Le tribù collinari e gli ex soldati le stanno facendo fuori. È di una facilità scandalosa. Prendono una vecchia mina, la nascondono sotto una scimmia morta che fa da esca e... bum, colpo grosso. Pelle, carne, artigli e pene... ci si possono fare abbastanza soldi per un'Honda Dream. È quella la moto che va di moda, qui. Le varie parti della tigre vanno in Cina per essere utilizzate nella medicina popolare.» Un'altra storia, un'altra volta, pensò lei oziosamente. «Dei gattoni non mi preoccuperei. Non nell'entroterra. A me non hanno mai dato fastidio. Così lontani dalla gente, sicuramente non siamo di loro gusto.» Si sentì un altro rumore sul tetto, un colpetto secco, un sasso di una trentina di grammi, forse meno. Poi un altro. Molly guardò il soffitto. Un altro. Passi in punta di piedi sul metallo. Desiderò che quel rumore cessasse, cercando di capire che cosa fosse. «Non può essere», dichiarò in tono deciso. «Ditemi che non sta cominciando.» Invece sì. Duncan teneva le dita sul tetto, sentendo quei piccoli atterraggi. «Che sfiga», disse. La stagione li aveva battuti. «Non ci credo», borbottò. «Manca così poco.»
Però avevano fatto un patto. Alla prima pioggia, si girava e si tornava a casa. Ancora più imperativo adesso che fra loro e il mondo si trovava il fiume. Altri colpetti leggeri sul tettuccio, dei piccoli baci metallici. «Mi dispiace», mormorò Duncan. Una goccia si spiaccicò sul parabrezza. Molly si sporse in avanti per vederla. Poi affermò: «Non è mica pioggia», appoggiando il dito all'interno del vetro. Era sangue. Rappreso. Con piccole zampe palmate. Molly tolse il dito. «È una rana?» chiese Duncan. Ci aveva azzeccato. Era una tempesta di rane, di piccole raganelle. Piovevano dal cielo. Lei tirò subito su il finestrino. Si leggeva di girini che venivano risucchiati sulle alture e che diventavano giovani rane fra le nuvole. Ma questa che roba era, si domandò? I monsoni avevano veramente quel potere? Poi vide che non stavano cadendo dal cielo, ma che saltavano dai rami alti della foresta. Un'altra colpì il parabrezza. E poi un'altra, ma questa non si spiaccicò in mille pezzi come le altre. Morta o stordita, la rana rimase immobile. Le sue strisce rosse e bianche brillavano sotto la foschia lattiginosa. Ne arrivò un'altra, viva questa volta. Si piazzò sul vetro, a testa alta. Quell'essere minuscolo aveva l'aria maestosa, come una creatura che scalasse il loro mondo. I suoi polmoni in miniatura pulsavano. «Cosa fanno?» domandò Molly. «Devo essere attratte dai fanali», rispose Duncan. «O potrebbe trattarsi di una specie di spinta territoriale.» «Stanno cercando di cacciarci via?» «Non la metterei troppo sul personale», disse Duncan. Ma la voce era seria. I batraci iniziarono a picchiettare, come una leggera grandine, sul tetto, sul cofano e sul parabrezza. Ora sapeva di che cosa si trattava. Molly cominciò a vederli nella foschia illuminata, con le loro braccine e gambette allargate. «Oppure potrebbe essere l'influenza che l'uragano ha su di loro», proseguì Duncan. «Gli animali sono sensibili ai cambiamenti. Al formarsi della bassa pressione, il loro metabolismo rimane scombussolato. Si comportano come pecore. Una si butta, tutte la seguono.» «È terribile», disse Molly.
«Almeno non è la pioggia.» «È innaturale.» «È solo qualche rana.» «Qualche?...» Il parabrezza era coperto di frammenti di tessuto. Le ranocchie si lanciavano giù a schiere, catapultandosi dagli alberi. Molly vide una madre, con il dorso che pullulava di piccoli. I tergicristalli si misero in azione, dilaniandoli. Il cofano pareva il ceppo di un macellaio. Che odio. Morti e mutilazioni insensate. Risultò evidente che nemmeno Vin aveva mai visto niente del genere. Si aggrappò al volante, e i tatuaggi sulle sue braccia si incresparono. Lui credeva in altri mondi. E su di lui si stava abbattendo quella maledizione: una grandinata di rane. Il ragazzo si bloccò e allungò il collo per guardare dentro lo strano torrente. I colpi si fecero più forti. Si voltò verso Molly e lei gli vide la paura negli occhi. E anche la sua aumentò. Appoggiò le mani sul tetto, come se stesse per crollare. Il metallo pulsava. «Non possiamo fermarci qui», gridò sopra tutto quel rumore. La foresta vomitava le sue creature contro di loro. A Molly venne la nausea. Si guardò intorno. Luke teneva gli occhi chiusi. Come faceva a dormire con quel finimondo? E sorrideva. Duncan disse qualcosa in cambogiano, a voce calma. Poi lo ripeté. Vin annuì. E con uno scatto, ripartirono. Poi Duncan le parlò nell'orecchio. «Va tutto bene. Adesso cominciamo ad addentrarci. La smetteranno, Molly.» Le aveva posato una mano sulla spalla. Attraverso il vetro sporco lei non riusciva più a vedere niente. Davanti a loro, come fosse la bocca di una grotta, la foresta schiudeva le labbra. «Più veloce», sussurrò Molly. La foresta spalancò le fauci. 13 Pietre e radici sbucavano da sotto la nebbia. Vin accelerò. Il Land Cruiser procedette a scossoni e sobbalzi, mentre gli attrezzi sbatacchiavano nel retro. Entrarono.
L'oscurità mutò all'istante. Il chiaro di luna scomparve. Fu una grazia. La grandinata cessò. Le rane si fermarono. I tergicristalli continuarono a cigolare sul vetro asciutto. La loro battaglia era terminata, ma Vin si guardò bene dal rallentare. Molly si acquattò e scrutò fuori del suo finestrino come fosse l'oblò di una nave. Sagome nere le sfrecciavano accanto, alberi grossi quanto i piloni di un ponte. Il Land Cruiser si scagliava contro radici che erano come flutti, mandandola a sbattere contro la portiera. Duncan ringhiò qualcosa a Vin. Il ragazzo lo ignorò, guidando alla cieca, ancora in fuga dall'assalto degli animali. In un certo senso, Molly si sentiva sollevata dalla paura del ragazzo. Legittimava la sua. L'aiutava a definire la propria. Gli mise una mano sul braccio e si accorse che tremava. I tergicristalli graffiavano la crosta di rane. La visuale tornò a strisce. La foschia accecava con improvvise esplosioni di bianco. Buio e luce. Di colpo, un enorme faccione saltò davanti a loro. Vin frenò e sterzò. Andarono a sbattere, non in maniera rovinosa, ma con un bel colpo. «Mio Dio!» sussurrò Duncan. Molly allentò la presa sulla macchina fotografica. La testa di pietra era grossa quanto l'auto. I tergicristalli ghermivano il vetro arrugginito. Duncan diede a Vin una pacca sulla spalla. I tergicristalli si spensero. Tutti guardarono gli occhi della testa. Molly sollevò la macchina fotografica. La nebbia si muoveva fra gli alberi oscuri, strisciando furtivamente in banchi candidi, muti e silenziosi, fra le liane che si infittivano attorno alla testa di pietra. Il tempo ne aveva parzialmente stemperato la furia demoniaca. La testa era rotolata su una mascella tonda, in parte umana, in parte animale. Gli occhi, sporgenti e furibondi, si erano erosi nel corso degli anni. Tutt'intorno c'erano altri frammenti di gigantesche sculture crollate. «Ma che diamine...» cominciò Molly. «L'icona di un guerriero. Un guerriero sacro.» «Con le zanne?» «Una divinità adirata», affermò Duncan. «Un custode.» «Custode di cosa, però?» «Questo è il punto. Non lo so. Di solito non si trovano singolarmente. Dovevano essercene altri simili a lui qui intorno, sentinelle per tenere alla larga il nemico. Da cosa, non so. E guarda lo stile, grezzo rispetto ai canoni Angkor. Primitivo. Antico. Molly, questo risale a molto tempo prima.»
La sua mente era in subbuglio. Lei aveva sprecato uno scatto attraverso quello schifoso parabrezza. «Qui c'è qualcosa. Di grosso.» La sua voce si fece più tonante. «Perché non ce l'hai detto?» chiese a Luke. Ma la loro guida dormiva sprofondata nella fase del sogno. Molly vedeva i suoi occhi muoversi veloci sotto le palpebre chiuse. Duncan abbassò il finestrino per guardare meglio, e Molly si tenne forte preoccupata per il tanfo. Invece l'aria era carica di un denso profumo di fiori e di terreno fertile, e per quel che poteva saperne lei, di tigri e pioggia caduta. «Come può essere», mormorò Duncan fra sé. La sua eccitazione aveva contagiato anche lei. «Devo fare delle foto», disse Molly di colpo, armeggiando con la borsa della macchina che teneva in mezzo ai piedi, cercando a tentoni il grandangolo e il flash elettronico. Aprì lo sportello. L'articolo cominciava a prendere vita in lei, a trasformarsi gradatamente, a indirizzarsi verso tutta un'altra narrazione. Erano partiti alla ricerca di una cosa relativamente piccola, qualche osso di guerra, per scoprire invece qualcosa di monumentale. Fuori dai piedi la guerra, lì erano nel bel mezzo di un film di Indiana Jones. Decise che il suo articolo sarebbe cominciato da là, con le volute di nebbia, il Land Cruiser incrostato di sangue e tenuto a bada da quella ferocissima testa. Indietreggiò per fotografare il veicolo, con il paraurti ammaccato. Frammenti di centinaia di rane imbrattavano la griglia, il cofano e il tetto. Inquadrò sulla destra per cogliere l'espressione sbigottita di Duncan che si avvicinava al bestione. Il flash produsse delle piccole esplosioni. Lui sfiorò il volto scolpito. Fece scorrere i palmi delle mani sugli occhi ciechi. Tolse via strati di muschio verdastro e rosa. Vin rimase a bordo della sua macchina, pronto alla fuga, con il motore che girava al minimo, spaventato come un purosangue. La luce dei fanali enfatizzava il grosso naso piatto, uno scatto ridicolo. Avevano scoperto un naso? Lei compensò con la luce artificiale, andando in cerca di altri scatti. «Lo conosco», disse Duncan. «Gana, è così che li chiamano. È una specie di eroe, mezzo buddista e mezzo indù, un Superman per i fedeli.» «Un feticcio», ribatté lei, catturando il momento della sua scoperta. «Molto di più», corresse Duncan, «un distruttore dell'ignoranza, un pro-
tettore della Via. Un custode, non solo della gente, ma di un'intera cosmologia.» «Una tribù collinare?» «Una cosa così grande? È solo la punta dell'iceberg.» L'idea le piacque: un iceberg tropicale. «Una città?» chiese Molly. Ci sperava, per lui, qualunque cosa fosse. Tutti i suoi anni di ricerche umili, anonime e solitarie stavano dando i loro frutti quella notte. Arrivò l'autocarro, aggiungendo così altra luce. Si aprirono le portiere dietro alla fila di fanali. Molly udì un'imprecazione, Kleat che inciampava su una radice. Samnang si materializzò dai brandelli della nebbia. Gli scattò una foto mentre lui giungeva le mani in un sampeah in onore della testa del demone. Poi riprese a camminare nel buio. Kleat si unì a loro, asciugandosi l'umidità dagli occhiali. Le borse sotto gli occhi erano due sacche scolorite. Molly non l'aveva mai visto in quelle condizioni, svuotato del suo brusco vigore, con i muscoli del volto che tradivano la sua fragilità. Lui si rimise la montatura metallica sul viso. Molly abbassò la macchina fotografica. Menu principale. Cancella. Kleat non sarebbe entrato nel suo articolo. «Stavate cercando di sfracellarvi?» chiese. «Siete partiti come un fulmine. Adesso guardate qua. Fortunati che non sia finita peggio.» «Le rane», disse lei. Adesso che il pericolo era scampato, cercò di alleggerire le cose. «Abbiamo creduto che fosse una pioggerellina primaverile.» Kleat la guardò, poi si volse verso il faccione di pietra. «Sarebbe molto più semplice girarci intorno, a questi sassi, che passarci attraverso», ironizzò. «Sassi?» fece Duncan. «Questa roba potrebbe risalire all'impero di Funan, mille anni prima dell'avvento del regime Angkor. Il tempo di Cristo, di Roma. È in sostanza un mito, come Atlantide o Babilonia. Funan non era neppure il vero nome. È la traslitterazione cinese di phnom, ossia collina. Era riportato nei primi resoconti cinesi di viaggio, frammenti andati perduti ai quali si faceva riferimento in racconti successivi. Ed eccoci qua, siamo su una collina.» «Risparmiati per il circo delle conferenze», ribatté Kleat. Molly si fece schermo con la mano contro le luci abbaglianti. Il fratello maggiore di Vin lo stava rimbrottando per aver danneggiato il paraurti. Luke dormiva rannicchiato contro lo sportello. «Non siamo venuti per questo», affermò Kleat.
«Ma a questo siamo arrivati», rispose Duncan meravigliato. «Irrilevante», fu la replica di Kleat, secca come uno schiocco di frusta. «Loro ci stanno aspettando.» I suoi morti. Quanto a Molly, ormai aveva smesso di pensarli come suoi. Negli scavi, lavorando di setaccio, mettendo insieme i fatti, versando sangue sul metallo dell'aereo, aveva avuto la sensazione di stringere un patto con le ossa, ma ora non più. Il comandante non le aveva confiscato la macchina fotografica, ed era stato il suo modo di contestare ciò che i superiori lo avevano costretto a fare, ma l'esilio aveva sottratto a Molly l'orgoglio per la propria funzione. Per lei, le ossa erano ormai prive di significato. Qualcosa si mosse nel buio e Kleat puntò subito la sua torcia, con una mossa da poliziotto. Dagli alberi apparve Samnang. Davanti alle luci, strizzò gli occhi. «Il boulevard prosegue», annunciò. Concentrati sulla testa di pietra, non si erano accorti della strada che avevano sotto i piedi. Nonostante le radici e i sassi che affioravano dalla superficie, assomigliava a tutti gli effetti a un boulevard parigino. Lastricata in pietra, era larga cinque o sei metri e spariva nel buio della foresta. «Dove porta?» domandò Duncan. «E chi lo sa?» rispose Samnang. «Allora andiamo avanti», disse Kleat. Batté le mani e tutti tornarono al proprio automezzo. «Potrebbe non esserci niente», li avvertì Duncan mentre ripartivano. Ma Molly percepì la sua speranza. Prima le pietre dei canali che rivestivano parti del fiume, e adesso la testa scolpita e quella strada. Si allungò all'indietro e gli posò il pugno chiuso sul ginocchio. «Ma potrebbe anche esserci qualcosa», ribatté. Lui chiuse le mani intorno al pugno di lei. Aveva i palmi umidi e un'aria sbalordita, fanciullesca. Castigato dall'incidente, Vin la prese con calma, sterzando intorno a grosse mattonelle di pietra ribaltate dal tempo. La nebbia si addensò. Alberi enormi fiancheggiavano la strada. I loro semi avevano messo radici con il tempo, e gli alberi più giovani crescevano in mezzo al viale, rompendo le mattonelle. «Guarda quant'è grosso questo tronco!» esclamò Duncan. «Qui la roba cresce in fretta, ma questa è vegetazione antica. Molto antica. Stento a credere che i taglialegna non l'abbiano saccheggiata.» Niente palme da zucchero sottili e fibrose. Niente cielo. I tronchi erano
come colonne di grattacieli, rossi e grigi, neri e marroni. La loro mole aveva l'aria di un grande peso cosmico sospeso in aria. Mentre avanzavano lentamente, girando intorno a rocce e radici, era come scivolare sopra tendini immensi e ossa scivolose. Molly si immaginò il costato della balena di Giona. La nebbia si addensava in recessi bui, sospesa come biancheria lacera in mezzo ai rami. «Guarda», disse Duncan, abbassando tutto il finestrino. La sua torcia tremula trovò un altro volto scolpito che li osservava. Ce n'erano altri. Semisepolti fra gli alberi, grossi gana di pietra, alcuni con la testa di scimmia e altri di uccelli rapaci dal becco adunco, si profilarono tra i rami. Divinità con gli occhi semichiusi e i sorrisi appena accennati. Le statue tenevano il passo con la loro avanzata. Sembravano consapevoli. I sorrisi apparivano troppo sereni. Molly faticò a cogliere il loro benvenuto. Persino quando era stata in un carcere di massima sicurezza in Colorado per scattare delle fotografie a degli assassini, aveva avuto la sensazione di un controllo. Qui era diverso. Erano atterrati fra i giganti. Giganti con le maschere del bene e del male. «Le mura della città», affemò Duncan. Apparvero dinanzi a loro, fra l'intricata vegetazione. Più si avvicinavano, più prendevano forma: una lunga e alta barriera di colori nella notte. Sembrava originare dalla loro presenza, dando vita ai particolari che loro si aspettavano di vedere. I blocchi di pietra erano legati da rampicanti. Le liane avevano le dita. Le felci crescevano nelle giunture. «Saranno più di sei metri di altezza.» Duncan aveva il respiro accelerato, Molly lo sentiva. Poi si accorse che era il suo. Si chinò per vedere attraverso il parabrezza macchiato, cercando di individuare gli spalti o i bastioni o come diavolo si chiamavano. Nelle mura si aprivano brecce come denti mancanti, spalancate a forza da quegli alberi forti come torri e dalle cortecce lisce come pelo di cinghiale. Non c'era modo di capire chi stesse vincendo, se la foresta o l'architetto defunto. «Eccoci!» esclamò Duncan. «Il portale.» Una grossa torre fatiscente sormontava il muro, con una galleria che la attraversava alla base. Dei volti incoronavano la torre, ognuno con lo sguardo cieco rivolto in una diversa direzione. La galleria si trovava al centro del loro enorme torace. Si entrava attraverso il cuore degli dèi. Vin accese i fanali, passando dalle luci di posizione agli abbaglianti e di nuovo alle luci di posizione. Gli occhi guardarono giù verso di loro, e poi via.
Vin avanzò piano piano. «È un perfetto controllo del traffico», osservò Duncan. «Si può fermare qualsiasi invasore con poche rocce ammucchiate dentro. Anzi, mi chiedo se questa torre sia truccata in modo da riversare tutto il suo contenuto.» Con la torcia illuminò intorno. Molly non aveva mai sofferto di claustrofobia, ma nell'attimo in cui entrarono, le mura parvero chiudersi intorno a lei. Fu assalita da una specie di nausea. Si sentiva male fisicamente. Anzi, di più. Si sentì intrappolata, come se si stesse calcificando. Riemersero dall'altra parte e ci fu una sensazione generale di sollievo. Lei girò la manovella del finestrino per far entrare un po' d'aria fresca. «Stai sudando», le disse Duncan. «Ma no, ho freddo», replicò lei. Però il viso le grondava. Duncan le mise intorno al collo nudo il suo kroma, foriero del suo calore corporeo. Lei si era aspettata di entrare in una città in rovina, invece c'erano altre strade percorribili. Elevato sopra un dorso di pietra solida e quadrata, correva un passaggio in linea retta, arginato su entrambi i lati da vasti bacini d'acqua ormai degradati a paludi rese torbide dalle mangrovie. Le loro radici serpeggianti si aprivano varchi e poi tornavano ad avvolgersi nell'acqua. «Hai davanti a te la ricchezza dei re», affermò Duncan. «Baray, cisterne con acqua, sufficienti a una popolazione intera. Questo potrebbe essere stato il prototipo di Angkor. La genesi della vera idea della Cambogia.» Raggiunsero delle forche caudine rappresentate da cobra di pietra scolpiti sul ciglio della strada. «Naga», spiegò Duncan, identificandoli. «Serpenti acquatici che figurano in tutti i miti asiatici della creazione. Da naga si arriva a nagara, 'La Città', in cambogiano.» Disposte lungo la strada, c'erano almeno due dozzine di quelle creature fantastiche. Alcune si erano spezzate all'altezza del collo ed erano cadute nei bacini. La maggior parte era rimasta intatta, ergendosi più in alto del Land Cruiser, i colli rigonfi a esporre teste multiple con le zanne scoperte. Mentre procedevano adagio fra festoni di muschio, l'acqua si increspò. Molly ne udì nettamente lo sciabordio. D'impulso, sollevò la macchina fotografica davanti al finestrino aperto e scattò alla cieca, azionando il flash. Il rumore cessò. Guardò il display a cristalli liquidi per vedere ciò che aveva visto la sua macchina. «Niente?» domandò Duncan. Si scorgeva una sporgenza in superficie, anzi, meno, un'ombra, nemme-
no una sagoma. «Niente», ripeté. «Mi ricorda le lagune paludose della costa del golfo del Messico.» Richiuse ugualmente il finestrino. Il passaggio sopraelevato terminava. La grossa e piatta vena di solida pietra calcarea rientrava sotto terra. La strada scolpita si tramutava in terra, e loro proseguirono. «Ci sono gli altri», disse Molly. L'autocarro era parcheggiato di sbieco in uno spiazzo fra colonne crollate e brandelli di nebbia. Gli uomini si davano da fare per scaricare tutto il materiale. Per un minuto, fu felice di vederli. Poi intravide le armi. Uno dei fratelli aveva un fucile a tracolla sulla schiena. Kleat si era portato la pistola e la sfoggiava fiero alla cintura. «Da dove cominciamo?» sussurrò Duncan, guardandosi intorno. «Procederemo a piccoli passi. Poco alla volta», rispose Molly, rendendosi parte dell'evento. Erano giunti al termine della strada, non c'erano né edifici né archi. Da lì in poi, si saliva a piedi. Dietro di loro, c'erano i bacini d'acqua. Davanti, erti su tre lati, sopra la luce dei loro fanali, dei terrazzamenti quadrati di pietra formavano una specie di arena. La pura massa della pietra, issata lassù, era la promessa di un regno. Una gradinata saliva verso il buio. Se una città c'era, di sicuro sarebbe stata là sopra. Parcheggiarono, scesero dall'auto e poi, per prima cosa, anche a Vin fu consegnato un fucile. Kleat stava accatastando asce e vanghe contro un albero caduto. Molly era molto alta, più di Kleat, per non parlare dei cambogiani. Ma per un momento, davanti a tutte armi, si sentì come una bambina in mezzo a degli sconosciuti. «Pensavamo che foste tornati indietro», disse Kleat. Lei notò che stava guardando la sciarpa che Duncan le aveva messo intorno al collo. Aveva già tratto le sue conclusioni. «Ci accamperemo qui», decise Duncan. Aveva una sacca da bivacco in mano. «Volete dormire?» chiese stupito Kleat. «Il sole sorgerà fra due ore.» «Ma qui la luce arriverà più tardi. C'è un triplo strato di rami e di foglie sopra di noi, una vera e propria volta. Per il momento, abbiamo bisogno di riposare.» «Darò istruzioni agli uomini», disse Samnang. Molly notò che era disarmato. Il vecchio tese la mano per farsi dare il sacco. Era un momento impor-
tante. L'anziano con una gamba sola stava consacrando Duncan, non Kleat, come loro capo. Diede un ordine ai fratelli, i quali presero i sacchi e si affrettarono verso le sporgenze. Kleat accantonò la pala. Valutò le alleanze: i suoi occhi guizzarono verso i fratelli che andavano e venivano sotto la luce dei fanali, poi guardò attentamente Molly. «Dormiamo», mormorò infine. Molly andò a prendere la sua sacca da viaggio, un enorme borsone di nylon antistrappo, per cercare degli abiti più pesanti. Per un mese si era sciolta sotto un'afa così densa che si tagliava con il coltello. Adesso la lieve frescura della montagna la faceva tremare, benché il sudore le colasse lungo il collo. Desiderò che il suo corpo si decidesse: caldo o freddo. Da brava ragazza di montagna, sapeva come vestirsi a strati per trovare un equilibrio. Si mise due magliette e un paio di pantaloni da arrampicata. Frugò nella borsa alla ricerca della trousse, ma era troppo buio per riuscire a trovarla o più probabilmente Kleat non si era preoccupato di prenderla. I denti avrebbe dovuto lavarseli con un rametto. Forse Duncan le avrebbe prestato un po' del suo dentifricio, da spalmare con il dito. I fratelli Heng si stavano dando da fare sulle sporgenze del terrazzamento in alto, più lontano di quanto Molly avrebbe voluto. Le loro luci apparivano piccole e si muovevano rapidamente mentre montavano le tende per gli americani. Lei immaginò che loro avrebbero dormito nel cassone del camion, cosa che per lei andava più che bene. Ma Duncan aveva vinto la prova di forza con Kleat, e lei non avrebbe di certo alterato il risultato con delle lamentele. Aveva l'aspetto di una barbona: il prendisole sepolto sotto le magliette, la borsa della macchina fotografica, i pantaloni sportivi e un materassino. Diretta ai tropici, non aveva pensato di portarsi un sacco a pelo, e prima di lasciare lo scavo aveva regalato le sue lenzuola a una famiglia cambogiana. Per le prossime ore se la sarebbe cavata con il calore del suo corpo. Al mattino, avrebbe chiesto ai fratelli Heng delle coperte. «Sono pronta», disse. Kleat si era già incamminato su per la gradinata, verso le sporgenze con le tende. «Con la luce», promise Duncan, «ogni cosa sembrerà diversa.» 14
Fu il canto degli uccelli a svegliarla. Molly aprì gli occhi. Si scoprì rannicchiata in posizione fetale sul materassino. Nel sonno, talvolta, raccoglieva le ginocchia al petto e poi si girava sul fianco. Era una sua vecchia abitudine. Succedeva nei momenti di stress e indicava una resa. A che cosa mi sto arrendendo? si chiese Molly. Che cosa avevano udito le sue orecchie mentre dormiva? Con una spalla coperta dal kroma rosso e bianco di Duncan e la borsa della macchina fotografica sotto la testa a mo' di cuscino, restò ad ascoltare gli uccelli. Cercò di fare la massima attenzione, ma non riuscì a entrare in contatto con quel canto misterioso. Tutto quel fischiare e gracchiare e vociare era più simile a un codice segreto. Rimase rannicchiata, in cerca d'indizi. Il lungo viaggio, il terreno duro e il debito di sonno l'avevano stravolta. Le faceva male tutto. Neanche l'immagine di quell'antica scalinata che saliva nella notte riuscì a smuoverla. Il suo orologio segnava le 7,30. Kleat aveva ragione, forse avrebbero dovuto restare svegli. Tre ore di sonno erano molto peggio che non dormire per niente. Là sdraiata cercò di rimettere insieme i pezzi del mondo. Il giorno prima a quella stessa ora erano partiti dal luogo del disastro aereo. La sera precedente avevano cenato in un ristorante. I colori erano ancora molto vividi: l'aragosta rossa, il terriccio nero sulla tovaglia bianca, il tramonto. I particolari si affollavano nella sua mente come bimbi chiassosi. La strada illuminata dalla luna, l'erba verde, il torrente argenteo, le rane, le mura della fortezza. Ma niente di tutto ciò spiegava l'inquietudine che Molly sentiva in tutto il corpo. Aveva udito qualcosa dormendo? C'erano dei pericoli, là intorno? L'essersi ritrovata in posizione fetale era una specie di preallarme; lo sapeva anche troppo bene e benché ci avesse provato, non aveva modo di controllarsi. Quella postura l'afferrava nel sonno, era il segnale onirico che qualcosa la minacciava. Alle volte derivava dalla tensione, o da generiche vibrazioni negative. Di norma era una coazione, un residuo di quel che aveva provato in Oklahoma. I suoi fidanzati si lamentavano di non riuscire a tenerla abbracciata, la notte. Lei si raggomitolava su un lato del materasso come un animaletto, il più lontano possibile da loro. Non è colpa tua, spiegava lei il mattino dopo, ma poi non diceva altro, e loro si spaventavano. Si sentivano dei mostri. E, uno dopo l'altro, la lasciavano.
Sdraiata nella tenda, Molly fece tutto quello che poteva per tornare al presente e tentare di comprendere le minacce reali. Riciclare il passato non serviva a niente. L'aveva ripercorso così tante volte con gli psicoanalisti... ma la memoria vive di vita propria e quel martino, stanca e confusa, con braccia e gambe strette a quel modo, Molly era troppo debole per fermarla. Dal profondo, tutto risalì alla superficie. L'Oklahoma si abbatté su di lei per l'ennesima volta. Era aprile, tredici anni prima, il mattino dopo. Non ti voglio, pensò. Ma la memoria la inchiodò sul posto. L'erba del parco giochi era giallastra e rinsecchita e coperta di brina. In quella stessa identica posizione Molly aveva guardato la città che si risvegliava. Il sole gelido si era levato. Un uomo rimpinguava il distributore dei giornali. Dopo un po', era passato uno scuolabus. Nessuno aveva notato il fagotto di stracci nel parco. Era già metà mattina quando la padrona della cartoleria l'aveva vista e aveva chiamato la polizia. Il tipo non lo trovarono mai, ma nemmeno lo cercarono più di tanto. Era solo un vagabondo come lei. Come lei, aveva perso la speranza di un passaggio in autostop la sera prima ed era arrivato a piedi fino al parco giochi della cittadina in cerca di un riparo. Era là che si erano incontrati. Lei non avrebbe dovuto per forza fare l'autostop. I suoi genitori le avrebbero dato i soldi per il viaggio se avessero saputo quant'era seria la faccenda. Scappare di casa doveva servire, in parte, a far loro del male, come loro ne avevano fatto a lei. Atteggiamento stupido, visto che le volevano un bene dell'anima e lo ripetevano in continuazione. Però l'avevano relegata in una finzione da che lei ne aveva memoria, e quello era voler bene? Era scappata di casa in cerca della madre naturale, e così facendo aveva voluto causare una sofferenza a tutti. Venne trattata come l'ennesimo caso di depressione urbana. Le infermiere del pronto soccorso furono gentili; prelevarono campioni con i bastoncini cotonati e le medicarono i tagli. Uno dei poliziotti disse che non si poteva effettivamente parlare di stupro; Molly l'aveva sentito, fuori dal piccolo ambulatorio. Questi ragazzini, aveva detto, si accoppiano per strada come niente fosse, poi qualcosa va storto ed ecco che si mettono a chiamare la polizia. È solo che alla ragazza non è piaciuto com'è finita. Quelle parole la costrinsero a interrogarsi. Dopo i primissimi minuti, era vero che lei si era abbandonata all'aggressione. Aveva smesso di lottare e si era fatta da parte e aveva osservato lui che le si buttava addosso sotto le altalene. Aveva sentito parlare di esperienze extracorporee ed era proprio
così: a un certo punto non aveva più sentito l'odore dell'alito e il sapore degli spaghetti in scatola sui denti di lui. E quando quell'essere aveva finito lei era tornata in sé. Le ginocchia si erano appiccicate al petto come strette da lacci di cuoio. Si era tenuta abbracciata fino all'alba. Sentì pronunciare il suo nome. «Molly.» Pensò che facesse parte del ricordo. Lui le aveva chiesto il suo nome, e le aveva anche dato un po' dei suoi spaghetti prima di farle quel che le aveva fatto. Quando era arrivato il poliziotto a chiederle una descrizione, le aveva domandato il numero di casa dei suoi genitori. In quell'istante Molly si era resa conto che la sua ricerca correva il rischio di finire in quel momento. Lei sarebbe potuta tornare alla loro allegra finzione, sconfitta dalla realtà. Oppure avrebbe potuto accettare la bruttura e continuare il suo viaggio. Lui l'aveva scopata così forte che lei quasi non riusciva più a stare in piedi. Ma in qualche modo si era rialzata e aveva preso il verbale del poliziotto e ne aveva fatto una palla e gliel'aveva gettata ai piedi. Con il sangue che le sgocciolava tra le cosce e un occhio così gonfio da non riuscire a tenerlo aperto gli aveva detto che sì, certo, si era inventata tutto. Nel pomeriggio la lasciarono andare. Solo dopo, anni dopo, le venne in mente che l'animale che l'aveva montata avrebbe potuto essere suo padre. Non lui in persona, ovviamente, ma uno come lui. Perché tutto sommato, chi avrebbe potuto dire quanta violenza la sua povera mamma aveva accettato in nome dell'amore? Chi poteva dire da dove lei fosse venuta? «Molly.» Stavolta gli uccelli tacquero. Si mise in ascolto. Voci maschili la stavano chiamando da lontano. Si aggrappò al suono del proprio nome. «Moll-lii.» Provò a muoversi. Si sentiva legata alla terra. Ci volle tutta la sua volontà perché le mani mollassero i ginocchi e le gambe si distendessero. L'Oklahoma svanì. Lei sedette al centro della tenda. Quella era la sua casa, la stessa tenda igloo che aveva usato per farsi tutte le cime più alte del Colorado e fotografare lo sciame di meteore delle Pleiadi e dormire sulla riva di laghi d'alta quota e svegliarsi davanti a visioni di luce. Solo che quel mattino, Molly notò che sulla sua tenda c'erano le sanguisughe.
I loro contorni s'intravedevano attraverso il tessuto. Dimenavano i corpi là fuori, aggraziate come ballerine. Lei fece scorrere una mano sotto di loro e quelle si piegarono seguendo la sua impronta chimica o qualunque altra cosa cercassero. Sul sito dei recuperi non ne aveva mai viste più di qualche gruppetto, ma nella foresta abbondavano. L'attendevano a decine. Senza preoccuparsi Molly si ricompose, per quel poco che c'era da ricomporre. Si tolse gli strati di magliette e si liberò in fretta del prendisole, poi si rimise le magliette e strinse la cinta dei pantaloni. Piegò l'abitino giallo e lo posò in un angolo. In mancanza di meglio, avrebbe potuto farle da coperta quella sera. Lasciò andare la notte e per scaldarsi, fece roteare le spalle e tentò una semplice posizione yoga. Ma le voci la chiamarono di nuovo, le sillabe strascicate come se venissero estratte a forza. Pensavano che si fosse persa? «Moll-lii.» Volevano dare inizio alla giornata, anche se il mattino era ancora senza un raggio di luce. «Arrivo», mormorò. Cercò di scuotere la tenda per far cadere le sanguisughe, ma servì solo a farle agitare di più. Dovette ricordare a se stessa che quegli animali erano lenti, ciechi e stupidi; doveva solo essere rapida nell'uscita. Si affrettò verso la porta, sistemò la borsa con la macchina, si avvolse la sciarpa di Duncan intorno alla testa e al tre, fece scorrere la cerniera lampo. Mise fuori i piedi per primi e scivolò attraverso l'apertura con l'agilità di Katharine Hepburn nella Regina d'Africa. Ora che si trovava fuori, si rese conto che c'erano molte più mignatte di quanto avesse creduto. La parete della tenda ne era completamente ricoperta, e loro scintillavano e si contorcevano in attesa di lei... forse non erano poi così cieche e stupide. Molly richiuse la cerniera più stretta che poté per evitare sorpresine all'ora di andare a letto, e si fece un appunto mentale di procurarsi una torcia elettrica. La nebbia a chiazze della notte precedente era stata rimpiazzata da una caligine azzurra. La tenda di Molly era sistemata su un'ampia sporgenza di pietra. Sotto, accanto ai veicoli gli uomini erano invisibili, ma lei fiutò l'odore del fuoco per la colazione e una zaffata di caffè e sigarette. Stranamente però le era parso che il suono delle voci venisse da sopra. Era possibile che avessero iniziato l'esplorazione senza di lei? Kleat se ne sarebbe fregato, ma Duncan sarebbe di certo venuto a svegliarla. Erano nella stessa barca, loro due.
Il terrazzamento di pietra era freddo e scivoloso sotto i piedi nudi. Le sue scarpe stavano da qualche parte nel borsone di tela, fra le prime cose da controllare una volta che fosse arrivata giù. Le ciabattine infradito erano ordinatamente appoggiate all'ingresso della tenda, o quanto meno una lo era. L'altra, durante la notte, si era capovolta. Di norma non ci avrebbe fatto caso, ma le usanze locali si erano infiltrate tra le sue abitudini. Non era solo questione di togliersi le scarpe o i sandali quando si entrava in un tempio o in una casa; le calzature erano sempre riposte in ordine, una accanto all'altra, e sempre in verticale. Persino Samnang era superstizioso riguardo a quel genere di cose. E così lei aveva lasciato le ciabattine fuori con le suole rivolte verso terra prima di infilarsi nella tenda, la sera prima. Il colpevole era un sottile germoglio di bambù verde che era cresciuto in una giunta fra due pietre. Poteva essere alto dieci centimetri, e la notte scorsa lei non l'aveva proprio visto. C'era una sola spiegazione: il bambù era spuntato dalla crepa mentre lei dormiva, rovesciando l'infradito. Sfiorò la protuberanza aguzza, in un certo senso affascinata. Duncan aveva ragione: la roba cresceva in fretta, nella foresta pluviale. «Moll-lii.» Erano proprio là sopra, ed era più di una voce a chiamare. Forse non avevano avuto il tempo di svegliarla. Forse Duncan stava cercando di tenere il passo con il predatore Kleat. Avevano trovato qualcosa? 15 Molly s'infilò i sandali, si mise la borsa in spalla e si avviò lungo il gradone verso la scalinata. Sul livello inferiore si materializzò una tenda rossa che poi scomparve nuovamente nella nebbia. Alla sua destra fluttuavano faccioni enormi, la stazza ingigantita dai sorrisi del dharma. Nella boscaglia frusciavano animali invisibili. Le gocce di rugiada scintillavano come gioielli. Lei lanciò un'occhiata su per i gradini, tentata dal pallido baluginare della foresta, più in alto. Però si avviò verso il basso, nella nebbia fitta, verso il punto dove il caffè stava venendo su e le sue calze e scarpe l'aspettavano nel camion. Una tazza veloce di liofilizzato, poi le calzature adatte, e avrebbe fatto quelle scale a passo di corsa. Con le gambe lunghe e i polmoni da atleta che si ritrovava, avrebbe ripreso i maschi prima che loro si fossero ripresi dalle meraviglie di fronte a loro. Quella foschia le avrebbe appannato gli obiettivi, ma la luce verde era stupenda. Un colore più saturo
non l'avrebbe mai ottenuto. Aveva voglia di fare i gradini a salti, ma erano ripidi e sdrucciolevoli per il muschio e la costringevano ad andare molto cauta. Superò altre due sporgenze, aspettandosi di veder apparire il Land Cruiser oppure il camion o anche il fuoco, ma la nebbia nascondeva tutto. Quando ebbe raggiunto il terreno, frugò nella memoria in cerca della radura. Il fondo era in lieve pendenza, senza dubbio per drenare la pioggia. Gli alberi riempivano il paesaggio, improvvise enormi colonne che sparivano sopra la sua testa. Molly guardò in su e poi si fermò, senza credere a quel che vedeva. A sei metri da terra, i resti di un nome sembravano fluttuare nella caligine. Lei indietreggiò e il nome riapparve, lettere incise nella corteccia dell'albero. Anni di crescita le avevano sollevate in altezza e i contorni una volta nitidi si erano allargati in solchi e grinze. Le incisioni erano appena più chiare della corteccia liscia, e il legno ne aveva assorbito intere sezioni. Molly fece il giro del tronco. «Helen», dicevano le lettere. Si spinse ancora un poco in là, e trovò una A finale. Helena. I soldati del Blackhorse erano stati lì. Lei si girò verso un altro albero, e nella nebbia ondeggiava il nome Barbara. Poi c'erano una Ada, una Emma e una Rosita, ciascuna sul suo albero. Si trovava in una foresta di amanti. Gli uomini avevano attaccato gli alberi con i coltelli e lasciato quelle tracce di sé. Era una magia. Quante altre cose nascondeva quel posto? Molly avrebbe continuato quel vagabondaggio, ma dopo qualche minuto intravide il bagliore rossastro del fuoco. Il calore aveva sciolto un cerchio di nebbia. Vin e i suoi due fratelli erano accosciati su un'altra sporgenza di pietra sopra la fiamma rossa e vivida, con gli occhi iniettati di sangue per la mancanza di sonno o per il fumo del legno che bruciava. Non avevano l'aria di allegri campeggiatori. I fucili che stavano poggiati, a portata di mano, addosso a un tronco caduto, davano loro l'aria di cacciatori di taglie. «Ah-run su-ah-s'dai», azzardò Molly. Ma nessuno fece balenare il proprio sorriso d'oro davanti al suo buongiorno, nemmeno Vin. Lei diede la colpa alla sua pronuncia tremenda. Era negata per le lingue. Certi giorni, davanti allo schermo vuoto e alla prospettiva di dover scrivere dieci cartelle, aveva dei problemi anche con il proprio idioma. Poco più in là, Kleat e Duncan erano chini su un pietrone di fondamenta quadrato e ricoperto di cartine, e la cosa era strana. Lei li aveva sentiti
chiamare da sopra... e anche Samnang era lì, accoccolato sotto la coltre di fumo come uno gnomo, la gamba di plastica riposta lontano dal fuoco. Molly fece spallucce. L'acustica della foresta era bizzarra. Kleat stava puntando un dito verso la foresta, il cielo e le carte. A quel punto, lei si sarebbe sorpresa se non li avesse trovati a discutere. Quale che fosse il problema, anche Duncan trovava urgente risolverlo. Lanciò un'occhiata a Molly, poi riportò l'attenzione su Kleat. Il che lasciò Samnang a farle ufficialmente gli onori di casa. «Bonjour, mademoiselle», le disse come benvenuto. «Ho un caffè per lei.» «È così che mantieni l'armonia fra tutte le tue mogli?» Samnang sorrise. Non aveva moglie né altri famigliari. Non aveva nessuno. Le guerre gli avevano portato via tutto, e lei lo sapeva. Però potevano far finta, e lo facevano. Lei recitava la parte della figlioccia americana impertinente, e a lui s'illuminava il viso. Samnang prese la cuccuma coperta dal fuoco e le versò il caffè in una tazzina bianca su un piattino bianco. Forse l'aveva presa dalla propria cucina, e forse solo per lei. Sapeva che lei beveva il caffè amaro, ma espletò comunque la rituale offerta dello zucchero. Per quanto crepitasse sonoramente e mandasse volute di fumo bianco, il fuoco era una cosetta da nulla. Il legno era verde, ed era un miracolo che avesse preso. Poi Molly vide la tanichetta di benzina parcheggiata dietro un ceppo. Ecco il miracolo. «Ar kun», gli disse ringraziandolo, e si sedette accanto a lui, vicino al calore della fiamma. «Non volevo dormire così a lungo.» «Non importa», affermò Samnang. «Vede quanta nebbia? Duncan ha detto di lasciarla dormire.» E allora, si chiese, perché l'avevano chiamata? «La foschia si alzerà presto?» «La foresta decide queste cose.» Lui la guardò più attentamente. «Stia ferma un momento, prego.» Si allungò verso di lei. Lei capì senza bisogno di fare domande. La mignatta le rimase per un poco aggrappata alla pelle della gola prima di staccarsi. Lei si toccò in quel punto, e si ritrovò del sangue sulle dita. Si avvolse il kroma intorno al collo per nascondere la minuscola ferita. Samnang le mostrò la sanguisuga. Doveva esserle caduta addosso mentre usciva dalla tenda. Il vermetto filiforme si era gonfiato fino a sembrare un lumacone grosso quanto un dito. Ma quel che la sorprese, più delle dimensioni e del fare furtivo, fu la rapidità della sua ingordigia. Tutta quella
fame in dieci minuti appena. Guardò per vedere come sarebbe andata a finire. Samnang avrebbe gettato la bestiolina contro una roccia o l'avrebbe schiacciata tra le dita? Ma lui rimase a contemplarla. «C'è di che sentirsi umiliati», disse. «Da quell'affare?» «Se solo io potessi obbedire a Dio con tanta fede.» Continuò a rigirarsela sul palmo per impedire che si rimettesse a succhiare. «Che razza di fede è quella?» «Oh», fece lui, imbarazzato per essersi messo a predicare. «No, davvero, dimmelo.» «Esistere nella foresta senza domande, senza dubbi. Provi a immaginare.» Sorrise. «Un giorno o l'altro, quest'infimo verme... un Buddha.» Lo lasciò con delicatezza su un letto di foglie. Uno dei fratelli di Vin si avvicinò e raccolse la sanguisuga. Era quello che si chiamava So, quello di mezzo. La infilzò su un rametto e la tenne sopra il fuoco. La mignatta cominciò a dimenarsi. L'uomo fece un ghigno in direzione di Molly con gli occhi gialli di epatite. Lei si sentì a disagio non tanto per il destino dell'animale che, dopotutto, le aveva succhiato il sangue, quanto per la cattiveria dell'uomo. L'aveva fatto apposta, a rovinare il piccolo atto di compassione di Samnang. Tra quella gente stava succedendo qualcosa. Il fratello maggiore, Doc, con i suoi ciuffi di pelo sotto il naso e i soli geometrici tatuati su ogni spalla, fece una battuta. C'entrava con il buttare la gamba artificiale di Samnang nel fuoco. Vin gettò uno sguardo a Molly e non si unì alle risate degli altri. Lei non aveva idea di quale fosse il problema, ma non le piaceva che prendessero in giro quel vecchio. Samnang tornò a occuparsi del fuoco. Appoggiò la cuccuma sopra a tre pietre disposte in ordine su un letto di braci. Le fiamme erano sottili, il calore né più né meno di quel che bastava per l'aria della mattina. Molly rimase seduta accanto a Samnang per qualche altro minuto, più che altro in segno di solidarietà. Poi si alzò. «Vediamo cosa stanno combinando i signori della giungla», disse. «Ma certo», rispose Samnang. Lei raggiunse Duncan e Kleat e posò il piattino bianco e la tazzina all'estremità più lontana della loro tavolo di fortuna, distante dalle mappe. Una delle carte era tenuta aperta con sassi e pacchetti di cibarie, come una pelle stesa ad asciugare. Alcune pietruzze sopra una carta topografica militare americana segnavano l'itinerario della notte precedente. Da Snuol, la strada
dei taglialegna, i sassolini diventavano pezzetti di rami, ipotesi che non portavano da nessuna parte. Ci si poteva immaginare un centinaio di fiumi e torrenti fantasma in tutte quelle grinze e curve, e tutti quanti scendevano verso il Mekong. «Avete capito dove siamo?» chiese Molly. «Neanche la più pallida idea», rispose Duncan. Sembrava stanchissimo. Indicò con un cenno un grosso e squadrato ricevitore GPS, che sembrava obsoleto quanto la sua bussola da scienziato coloniale nell'astuccio di legno scuro con le cerniere oliate. Da quali negozi d'antiquariato era uscita quella roba? Il pannello illuminato diceva RICERCA. «È come se non ci fosse più un satellite in cielo», disse Duncan. «Non riceviamo un segnale che sia uno.» «La nostra posizione può aspettare», interloquì Kleat. «Smettiamola di preoccuparci.» «Tu non capisci. Quelle montagne non sembreranno un granché, non si può neanche chiamarle veramente montagne... ma possono mangiarti vivo, specie...» «Lo so», ammise Kleat, «lo so.» «Ci siamo persi», seguitò Duncan, «e questo importa. Non sappiamo neanche se loro sono passati di qua.» «Ma sappiamo che hanno passato il fiume. Abbiamo visto le tracce. E dove altro potrebbero essere andati?» «Sono stati qui», affermò Molly. I due uomini si bloccarono. «Non li avete visti i nomi?» «Cosa stai dicendo?» Fu Kleat a parlare. Lei li condusse in mezzo alla nebbia. Dopo essere stata vicino al fuoco, laggiù sembrava tutto più freddo e scuro. Con il capo allungato all'indietro, lei si mise a cercare i nomi. «Erano incisi sugli alberi», disse. «I nomi delle loro donne. Su, in alto.» Però i nomi erano scomparsi. C'erano un sacco di alberi, e lei doveva essere passata da un'altra parte scendendo le scale. «Erano qui, da qualche parte», insistette. «Io ti credo», disse Kleat, anche se non era vero. Semplicemente, era un elemento di forza per le sue argomentazioni. «Se si dirada questa cazzo di nebbia, poi li ritroviamo.» Tornarono vicino al fuoco e alle cartine stese sul pietrone. «I nomi non cambiano niente», affermò Duncan. Non mise in dubbio che lei li avesse visti. Le credeva sulla parola. «Rimango dell'idea che do-
vremmo tornare a ritroso e guardare tutto un po' meglio, da fuori. Farci un'idea dei rischi.» «Cioè, andarcene?» chiese Molly. Lo disse in modo più aspro di quanto avrebbe voluto; la caffeina stava cominciando a fare effetto. Però c'entrava anche il fatto che l'apprensione di lui la confondeva. Era lui l'archeologo: il suo lavoro era spalancare il ventre della terra e strappare città dal regno dei morti. Chi se ne fregava delle ossa del Blackhorse, chi se ne fregava di Kleat, chi se ne fregava del tifone e delle piogge. Nella testa di Molly, ormai, loro erano già intrappolati, costretti dal fiume in una sorta di arresti domiciliari. In cima a quella scalinata c'era qualcosa, e questa era la loro opportunità di portare alla luce Atlantide. «Sì, finché possiamo», le rispose Duncan. «Dammi retta», ribatté Kleat, «a quest'ora quello è quasi in Cina. Birmania, Afghanistan, ovunque prosperi il papavero.» «Io non credo.» «Luke?» domandò Molly, rendendosene conto d'un tratto. «Se n'è andato?» «A meno che non abbia passato la notte con te», fece Kleat. «Da quando siamo arrivati nessuno l'ha più visto.» Molly osservò il fitto della nebbia. Era stato lui a chiamarla? «Ma deve esserci.» «È quello che dico anch'io», aggiunse Duncan. «Sam ci ha provato, a cercarlo», disse Kleat. «E se c'è uno che può rintracciare un altro, quello è lui.» «Senti, non ricominciare con quella storia», ribatté Molly. «La faccenda non è irrilevante. Il tuo tenero musicologo è stato un khmer rosso.» Adesso i fratelli stavano guardando. Avevano sentito «khmer rosso» e cominciarono a bisbigliare tra loro. «Ne abbiamo già parlato», mormorò Molly. «E tu non mi hai creduto.» «Sono semplicemente d'accordo con Duncan, non sono fatti nostri.» Kleat le gettò un'occhiata da rapace. Poi alzò la voce: «Dicci che cos'hai trovato, Sam». «È entrato nella foresta da quella parte», rispose Samnang. «Poi le impronte scompaiono.» «È ancora qui», disse Duncan.
«Quella non è la direzione del portale?» chiese Kleat. «Sì. Il portale è da quella parte», rispose Samnang. «Ma lui non ha finito con noi», insistette Duncan. «È innocuo», replicò Kleat. «E tu vedi mostri dappertutto.» «Potrebbe essere nascosto a cinque metri da qui e noi non ce ne accorgeremmo.» «La vuoi la roba che c'è qui, o no?» «Forse tu la vuoi troppo», affermò Duncan. «Ripensa a ieri sera quando lo abbiamo visto al ristorante, alle tue stesse parole. Hai detto che ci stava dando la caccia.» Kleat posò le nocche sulla cartina. «Ora non più. Guardati intorno. Siamo noi quelli con i fucili.» «Lui ci ha portato qui per un motivo», osservò Duncan. «Sì, il motivo di una mente con gravi disturbi. Ci ha portato qui per liberarsi di un segreto, un grosso segreto, un segreto che l'aveva fatto uscire di testa. Qui ha trovato qualcosa, e aveva bisogno di passarlo di mano. Non chiedermi perché ha scelto noi, ma quello che conta è che adesso lui è libero. Nella sua testa, lo abbiamo liberato dal fardello, lo abbiamo assolto.» Kleat afferrò il fumo della legna e aprì la mano in aria. «Puff, sparito.» Come aveva fatto Molly a non accorgersi della sua assenza? Sembrava una cosa sbagliata, da ingrati, scordarsi di qualcuno tanto facilmente. «Questo posto era tutto ciò che aveva», disse Molly. «Secondo voi non se lo sarebbe tenuto caro, a costo della vita? Perché andarsene?» «Per sapere quello», affermò Kleat, «dovresti chiedere a tua madre.» Di nuovo sua madre. Quell'uomo era spietato, come uno sciacallo in cerca di carne. «E adesso che cazzo c'entra lei con tutta questa faccenda?» «Tu eri tutto quello che aveva», rispose Kleat, «però ti ha lasciato lo stesso. Questo posto era il bimbo di Luke, e lui l'ha gettato via. Tu pensi che l'amore guarisca tutto, ma qui stiamo parlando di dannati. L'amore fa ribrezzo, alla gente come loro.» Molly gli assestò una sberla. Dannati. Lo schiaffeggiò così forte che si fece male alla mano. Gli occhiali volarono via e il caffè si sparse sulle cartine. I fratelli interruppero il loro borbottio sordo. Molly ritirò la mano. Non sapeva che cosa dire. Nel bene o nel male, lei non era facile al conflitto, e tanto meno a scattare in quel modo. Non avrebbe dovuto permettergli di farla saltare. Non avrebbe dovuto prenderlo a schiaffi. E poi pensò, ma vaffanculo, avrei dovuto prenderlo a schiaffi
già da un pezzo. Kleat fece un movimento con il capo, pensando, prendendo una decisione. Le occhiaie profonde, sotto gli occhi privati delle lenti, alla luce del giorno erano anche più scure. Dopo qualche minuto si chinò a raccogliere gli occhiali e se li rimise sul naso. «Non ti scusare», le disse Duncan. «Se lo fai, dopo devo prenderlo a botte io.» «Non lo farò.» Aveva colpito Kleat troppo forte per scusarsi ora. Lui avrebbe preso qualunque scusa come una forma di condiscendenza, e in ogni caso lei non era dispiaciuta. «Sai», gli disse invece, «noi qui potremmo lavorare insieme. Siamo venuti per lo stesso motivo.» Kleat osservò la sciarpa di Duncan al collo di Molly, a scacchi rossi e bianchi come quelle che indossavano i khmer rossi... e milioni di altri cambogiani. Lei non riuscì a capire se fosse più diffidente in merito alla sciarpa stessa o al fatto che Duncan, di nuovo lui, gliel'avesse regalata. «Non ne sono tanto sicuro», rispose lui. «Io lo so perché sono venuto. Ma sembra che nell'aria ci siano altre tentazioni.» L'ira di Molly si dissipò immediatamente. Lei non doveva niente a Kleat, non un pensiero, non un'emozione, e meno ancora la confessione della sua minuscola fantasia romantica riguardo a Duncan. Uno di loro aveva svuotato due pacchetti di razioni K sulla superficie della pietra. Con un gesto teatrale Molly s'impossessò della barretta energetica. Poi strappò il pacchetto delle uova strapazzate con i denti e se le infilò fredde in bocca a pezzi, famelica. Ci mise sessanta secondi netti. «Ecco fatto.» Si pulì la bocca. «A più tardi.» Partì nella nebbia. «Dove stai andando?» chiese Kleat. Lei si voltò a guardarli. Duncan stava rimettendo a posto rametti e sassolini sulla carta. Kleat era fermo sul posto con le mani sui fianchi. I cambogiani sembravano soddisfatti di restare accanto al fuoco, in attesa che la foschia diminuisse. «Vado a prendermi calze e scarpe nel camion. Poi comincio la scalata», affermò. «Questa luce è troppo bella per sprecarla così.» 16 Quando Molly ebbe finito di allacciarsi le stringhe delle scarpe, tutti gli altri erano già pronti ad andare. Lasciarono Samnang e la sua gamba accanto al fuoco, a guardia dei veicoli, e partirono in gruppo. I tre fratelli scattarono in avanti, in un tic-ciac di ciabattine infradito che
presto si perse nella nebbia. Molly avrebbe voluto fare la scalinata di buon passo insieme a loro, ma controllò l'agitazione e rimase accanto a Duncan... e quindi anche a Kleat. «Gli scalini saranno centoquattro», disse Duncan con un tono di assoluta certezza. «Perché, ci sei già stato?» commentò Kleat, derisorio. «Naturalmente potrei sbagliarmi», rispose Duncan, «ma questo posto è monumentale e le statue sono meticce, in parte buddiste e in parte animali. A mio avviso tutto il luogo è costruito in base a un progetto, dettato dagli dèi agli uomini, che certo avrebbero dedicato uno scalino a ciascuna delle centoquattro manifestazioni del Buddha.» Si trattava di gradini alti, stretti e ripidi, come quelli delle piramidi Maya, e non facili da scalare stando in piedi senza usare le mani. Erano sdrucciolevoli a causa del muschio lucente, verdognolo e azzurro, e loro avrebbero dovuto fare molta attenzione nello scendere. Forse, un giorno, la massa dei visitatori avrebbe avuto bisogno di un corrimano o di una catena per reggersi. Gli ambulanti avrebbero venduto Coca-Cola tiepida sui terrazzamenti di pietra. «Con una cosa del genere si potrebbe cavar sangue dagli eco-turisti», affermò Kleat. «Là sotto c'è abbastanza spazio per un parcheggio e anche per un bar-ristorante. Basta che lo mettano vicino all'acqua, spargano un po' di antizanzara sulle vasche e abbattano qualche albero.» Voleva solo dare l'impressione di prendere in giro Duncan, il purista; li aveva accusati entrambi di aver ceduto alle tentazioni del posto e a quelle romantiche, ma Molly riusciva a sentire la sua lotta interiore. Il fratello leale che combatte l'imprenditore edile, le ossa contro la sua personale visione di lucrosi appalti. «Così si distruggerebbe tutto», disse Duncan. «Tu pensi davvero di poter conservare un posto così tutto per te? La lepre è uscita dal sacco, caro mio, e non ci sarà verso di rimettercela.» «Dovremo tenerlo segreto finché non riusciamo a far installare le protezioni che ci vogliono», continuò Duncan. «Non si può correre, con una cosa di questo tipo. Solo per i restauri ci vorranno anni interi, se non decenni.» «Per prima cosa», affermò Kleat, «io leverei di mezzo gli alberi, e nel modo più rapido, con l'esplosivo. Datemi un paio d'etti di plastico e spalancherò il cielo. Anzi, meglio ancora, porterei qua i taglialegna. Così le costruzioni si pagherebbero da sole.»
Duncan si bloccò sugli scalini. «Se uccidi gli alberi uccidi la città. Senza gli alberi cadrebbe tutto a pezzi.» Quale città? Erano tutte congetture... però Molly era ansiosa quanto loro. Bramava di vedere che cosa c'era sopra, oltre la nebbia. Quegli scalini salivano verso qualcosa, se lo sentiva nella pancia. «Come, dopo le devastazioni che abbiamo visto ieri sera?» chiese Duncan. «A me è sembrato che fosse la foresta, a fare a pezzi tutto il resto.» «Lo so che a prima vista è così. Ma gli alberi tengono tutto insieme», rispose lui. «È vero, le piante hanno invaso l'architettura, ma sono anche la sola cosa che la blocca al suo posto. L'ho già visto in altri siti, la foresta è una specie di colla vivente.» Poi cominciò a indicare le sagome degli alberi nella foschia. «Quelli sono baniani, detti anche fichi giganti strangolatori. E quell'altro laggiù, l'invasore più comune, è una varietà di ficus. I cambogiani lo chiamano spong, il nome scientifico è Tetrameles nudiflora. Vive fino a duecento anni, e nel frattempo gli uccelli spargono altri semi e così lo scheletro della foresta si diffonde.» Kleat perse interesse al giochino. «Non siamo venuti per questo. Le rovine sono una distrazione. Ignoriamo la città, se di quello si tratta. La nostra missione è trovare i resti degli uomini dell'Undicesimo cavalleria.» «Bisogna che ti prepari anche all'idea di non trovare niente», disse Duncan. «Ma lo sappiamo che sono passati di qui.» «Appunto, passati. È assolutamente possibile che abbiano inciso qui i nomi delle loro donne e poi abbiano proseguito.» «Per dove?» «Non lo so, però non ci sono segni certi che si siano fermati. Hai visto tracce del loro passaggio nella radura?» Kleat tacque per un momento. I suoi scarponi arrancavano metodici sugli scalini. «La nostra cricca di mercenari saccheggerà questo posto fino a raderlo al suolo, prima ancora che noi lo vediamo», ringhiò. Poi accelerò, lasciandoseli alle spalle a passi pesanti. Molly tenne dietro all'andatura comoda di Duncan. Arriveremo in cima per ultimi ma non è una gara, pensò. Se tutta quella faccenda fosse stata anche solo metà di quel che prometteva, Duncan sarebbe diventato il fulcro del suo articolo per il giornale. Gli altri potevano disperdersi pure tra i ruderi, fuori dall'inquadratura. Lei avrebbe fatto di lui un eroe, e si sarebbe fatta un nome. E Kleat avrebbe trovato le sue ossa... lassù c'era qualcosa
per tutti. Mentre oltrepassavano le sporgenze che portavano alle tende, lei vide in che modo i tre fratelli le avevano disposte la notte precedente. Sapendo che agli americani piaceva avere un po' di privacy, avevano piantato ciascuna tenda su un diverso terrazzamento; Molly cominciò a contare i gradini dal ripiano dov'era la sua tenda fino in cima in modo da poter ritrovare la strada anche al buio, ma poi lasciò perdere. Si arrese. Non era sola; era con Duncan, e loro due insieme se la sarebbero cavata. «Come ti senti?» gli chiese. Quello poteva essere il suo trionfo. Se solo si fosse deciso a salire un po' più rapidamente... ma poi Molly si rese conto che stava rallentando apposta. «Ho paura», rispose lui. «E se poi non è quello che pensiamo?» «Tu cosa pensi che sia?» Nella sua testa il registratore era già acceso. La macchina fotografica ce l'aveva in mano. «Non lo so. Hai mai avuto un sogno di cui non riuscivi a liberarti? Non saprei come altro definirlo. Questa scalinata... è come se l'avessi già fatta. Ma non ho idea di cosa ci sia dopo.» «Qualunque cosa sia, te la meriti, Duncan.» E pure io. Molly aveva fatto la sua gavetta. Aveva trasformato sudore e sangue in inchiostro e fatto suo l'occhio della macchina fotografica, pensando di migliorare un pochino il mondo per mezzo delle sue testimonianze. Tuttavia con il passare degli anni, per un motivo o per l'altro, si era buttata via per fatti banali e gente piena di boria che aveva provato a manipolare le sue parole e le sue foto. Era diventata una cinica imbrattacarte, una mercenaria senza più fede. Ma adesso le cose stavano per cambiare: quelle scale la stavano conducendo a qualcosa di esorbitante, come qualunque scrittore si augura. Salirono verso quel mondo occulto di caligine verde, e quando Molly guardò giù l'abisso le sembrò senza fondo. Poi finalmente riuscì a distinguere dei contorni di teste di cobra, posate come gargolle lungo la cresta. La scalinata raggiunse il suo apice. Ancora un gradino, e le rovine si ersero davanti ai loro occhi. 17 Non ci fu passaggio tra il sotto e il sopra, nessuna sensazione di arrivo. Fecero gli ultimi scalini e l'architettura sembrò affollarsi loro attorno e racchiuderli.
Era davvero una città: una città fantasma di edifici e statue, e poi il reticolo intricato della foresta, una città accennata. Lì la nebbia era più fitta, colore dell'acqua marina. Molly fece un respiro profondo, l'aria era così densa che lei riuscì a sentire il sapore della vegetazione che cresceva nel proprio concime, e fiori che erano invisibili come le idee. La foschia deformava l'antica metropoli; smussava gli angoli retti, rivelava e poi divorava allusioni a guglie altissime, e si riversava contro le enormi teste di pietra come una marea. «Santo Dio», esclamò Duncan. Lei catturò sulla pellicola il suo sbigottimento, il suo sguardo vacuo e attonito. Ogni scacco della sciarpa bianca e rossa che portava al collo saltava fuori dalla nebbia. Lo sfondo era puro Seurat, minuscoli punti di colore che inondavano l'aria. Sopra la sua spalla destra sbucava l'ombra di una massiccia testa di pietra. Quella sarebbe stata la foto di copertina. Molly aveva per le mani un libro, non più un articolo. Fatto bene, sarebbe diventato un classico. Fece un passo in avanti e le sembrò di lasciare un'impronta sulla luna. Loro erano i primi, a quanto pareva, a scoprire quel posto. «Come può essere?» chiese. «Una città perduta, oggi, nel nostro secolo?» «E perché no?» rispose Duncan. «Non stiamo forse ancora scoprendo città Maya e tombe Inca? In queste montagne vivono specie animali e vegetali che secondo gli scienziati erano mitologiche. E guarda la volta della foresta. Questi ruderi sono stati sepolti per secoli. Non dimenticati, solamente perduti.» Lei era troppo stupita per mettere in ordine i pensieri. Devo scattare, rifletterò dopo. «Dove sono andati gli altri?» domandò Duncan. «Chi se ne frega?» Per il momento, loro due erano i padroni delle rovine. Lavorando da sinistra a destra per avere un panorama digitale, scattò immensi cumuli di piramidi e monumenti squadrati, ornati di porte finemente scolpite. La nebbia sembrava respirare, si levava e si diradava. Ma poi Molly si rese conto che attraverso l'obiettivo stava vedendo il battito del suo stesso cuore, il ritmo del sangue nei capillari degli occhi. «Abbiamo bisogno di un piano», disse lui. «Qua dentro si rischia di perdersi.» «Il conducente sei tu», rispose lei.
«Almeno un'idea di base», decise lui. «Sì. Descriviamo il limite del cerchio e poi entriamo seguendo una spirale.» Con qualche difficoltà, visto che dopo pochi scalini si erano già attorcigliati su se stessi, tornarono in testa alla scalinata. I gradini si tuffavano in giù nella foschia. Laggiù, da qualche parte, c'era Samnang seduto accanto al fuoco. Duncan partì lungo il perimetro dell'abisso, seguendo un camminamento orlato da una cinta con delle sculture di naga che guardavano all'infuori. Il camminamento s'incurvava formando un ampio semicerchio lungo il bordo più esterno dell'altopiano. Alla loro sinistra, l'architettura sembrava precipitarsi verso di loro come una piena pronta a riversarsi in cascata. I mantelli di arenaria dei naga divampavano come spuma rosa. Giunsero a un muro fortificato simile a quello che avevano oltrepassato la notte precedente. Alto più di sei metri, era fatto di mattoni cotti. Alcuni si erano allentati ed erano caduti dalla sommità. Duncan ne sollevò uno e notò che sul lato superiore c'era un marchio a fuoco. «Questi sono nomi», affermò. «Sei in grado di leggerli?» «No.» Raccolse un secondo e un terzo mattone, e anche quelli erano marchiati. «Però alcuni imperatori cinesi avevano un sistema di controllo qualità più o meno simile... questi potrebbero essere i nomi dei mastri mattonai. In caso di difetti, si poteva risalire al responsabile e farglieli correggere... o punirlo.» A mano a mano che procedevano, Molly riusciva davvero a percepire il peso di quei nomi che reggevano il muro e distinguevano l'interno dall'esterno. Era come un esercito di simboli magici, che tratteneva i cittadini e respingeva i forestieri. Dove saliva il fianco della collina, là si alzava anche il muro. Un profondo letto di fiume foderato di mattoni e sassi serviva da canale di drenaggio, e forse anche da fossato. Strano, come fossato, pensò Molly. Correva dal lato interno anziché esterno della fortezza. Adesso era in secca, ma nella stagione delle piogge lei s'immaginò l'acqua che correva lungo il canale. Fra le rocce friabili dello Utah aveva visto con i suoi occhi in che modo una pioggerella da niente poteva trasformare un piccolo arroyo nel veicolo di un'alluvione, rapida e mortale. Il fossato saliva gradualmente, con i suoi orli di pietra levigati e consunti da secoli di usura. Dalle finestre degli edifici più vicini il suono dell'acqua doveva essere stato, in diversi momenti, dolce o tonante. A lei sarebbe pia-
ciuto deviare verso la città e guardar fuori da quelle finestre... avrebbe voluto vagare tra le guglie e le teste sospese. Ma Duncan si teneva sul sentiero sottostante le mura, fermandosi di continuo a osservare fiori e insetti oppure impronte e guano di animali. Sentirono da molto lontano un abbaiare di cani, e Molly pensò che là vicino ci dovesse essere un villaggio, forse addirittura tra le rovine. Ma Duncan le spiegò che si trattava di una rara specie di cervi abbaianti. Lui riusciva a percepire la differenza tra un uccello invisibile e un altro dal canto, o addirittura dal rumore delle ali. Rimasero dieci minuti a studiarsi lo schema di una tela di ragno, e un'altra mezz'ora a contare gli anelli di crescita sui gusci di due diversi tipi di lumache. C'era da impazzire: era come se lui stesse evitando la città, ma lei non si lamentò. Bisognava fare uno sforzo per non influenzare gli eventi. L'interno era sicuramente un labirinto, e lei aveva imparato dalla squadra di recupero la supremazia della griglia. L'evento fondante di qualunque scavo era l'inserimento del primo paletto, tradizionalmente all'estremità sudovest; da quel caposaldo si dipartivano poi tutti i riquadri che si estendevano verso nord ed est. Doveva essere quella la ragione dell'incertezza di Duncan: stava cercando un margine da battezzare come sudovest, un angolino del cerchio dal quale cominciare. Tra la nebbia le foglie si misero a frusciare, emettendo quasi un tenue pianto di bambino. Poi il suono si avvicinò, diventando una specie di filastrocca cadenzata tra gli alberi, e Molly decise che doveva trattarsi di uccelli. Ma il suono si gonfiò ancora e prese a correre tra gli edifici come l'ululato di una bufera di neve. La nebbia si spalancò. Una gran raffica di vento si abbatté su di loro, e quasi li fece precipitare nel fossato. Molly sentì delle grida, e un clangore di metallo, e urla, un'intera battaglia, e tutto in quella raffica di vento. E poi, con la medesima rapidità, l'aria tornò immobile. Si raddrizzò. «Cos'è stato?» Duncan si morse un labbro, fissando la città reclusa nella caligine. «Sta cambiando il tempo», disse. Ma il vento non c'era più, nemmeno una brezza. Proseguirono. Molly continuava a cercare una breccia nel muro. Di certo la foresta l'aveva spezzato in qualche punto, e loro sarebbero riusciti a vedere l'altro lato. Ma la cinta sembrava intatta, salvo che nelle sezioni più alte dove i laterizi in alcuni punti si erano sfaldati. Il sentiero e il muro continuavano a incurvarsi lungo il contorno della collina.
Finalmente, nella foschia davanti a loro si affacciò un portale. Come quello dal quale erano passati la notte precedente, anche questo aveva un torretta multicefala con occhi che sembravano osservare la loro marcia d'avvicinamento. Nella mente di Molly, la cittadella informe divenne simmetrica. Erano entrati dalla porta principale e qui c'era quella sul retro, ed era logico che quella strada spartisse la città nel mezzo. Ma d'altro canto, poteva esserci un'altra decina di porte, con strade che conducevano come raggi a un ipotetico centro. La bocca del tunnel era custodita - o lo era stata, tanto tempo prima - da una schiera di statue di terracotta. Erano repliche a grandezza naturale di antichi guerrieri. «Non possono che essere copiati dall'esercito scolpito di Xi'an, in Cina», disse Duncan. «O magari... e se fosse l'esercito di Xi'an a essere basato su questo? Chissà a quando risale...» Si teneva a distanza dai guerrieri di terracotta. È spaventato, pensò Molly, dall'idea di disturbare quei manufatti. Lei però no. «Starò attenta», lo rassicurò, e prese a muoversi tra le statue con la macchina fotografica. «Sono così belli.» Straordinari, voleva dire. Squisiti. Ma non belli. Ciascun guerriero aveva un proprio viso distinto, tondo o allungato, vizioso o giovanile; qualcuno portava ciuffi di barba o delicati baffi. Gli occhi, però, distruggevano il realismo: erano buchi tondi e grezzi, solo orbite, e alcune contenevano ancora dei ciottoli di giada ricurvi e sporgenti. La rozzezza di quegli occhi la lasciò perplessa. Tutti gli altri particolari erano così raffinati e vividi, e gli occhi erano orrendi. Qual era l'intento, incutere paura nell'osservatore? Su qualcuno era rimasta della tinta: come se quei sassi prominenti non fossero abbastanza spaventosi, gli artisti avevano aggiunto dei traumatici cerchi neri intorno a ciascun occhio. A lei ricordarono le pitture di guerra, o il disegno fatto da un bambino dopo un incubo. «Questi dovrebbero essere degli occhi di vetro, secondo te?» chiese a Duncan. «Per dare la vista a degli uomini di creta?» «Forse. Oppure dei memento.» «Cioè?» «Che noi veniamo dalla terra. Non lo so. Occhi di pietra in una città di pietra. Potrebbero simboleggiare la città che tutto vede. O la foresta.» Guardiani della porta, pensò lei. Molti erano crollati a terra, e i loro cocci recavano ancora frammenti di pittura colorata. Altri erano caduti senza rompersi, e giacevano sul petto o sul dorso come manichini rovesciati dal
vento. Alcuni stavano ancora sull'attenti, benché fossero tutti sprofondati nella terra, chi più chi meno. Sembravano vittime delle sabbie mobili, trascinati di sotto fino alle ginocchia o ai fianchi, alcuni fino al collo, ma erano ancora vigili. Di certuni si vedeva solo la sommità del capo. Quale che fosse l'assedio, o l'esodo, che erano stati progettati a sorvegliare, erano là in attesa. Sembravano pronti a entrare in azione. Alcuni indossavano ancora l'antica armatura di piastre di giada, cucite insieme con qualcosa che sembrava fildiferro intrecciato con oro. Oro? Sicura? Di certo i ladri se lo sarebbero già portato via. Da qualche altra parte il fildiferro aveva ceduto e le lastre di pietra preziosa giacevano sparse come pallide scaglie verdi di drago. I pugni dei guerrieri erano stretti intorno a buchi vuoti dove le aste di legno di lance erano marcite. «Sparsa quaggiù c'è una fortuna», affermò Molly. «Loro sono passati di qua», disse invece Duncan. Si era fermato e stava fissando l'interno della galleria. «Kleat e i fratelli?» «No, i nostri soldati, Molly. Sono passati di qua.» «Cioè, sono passati dal tunnel?» «No, non lo hanno attraversato», rispose lui. «Ma sono stati qui.» Lei scrutò a sua volta quelle fauci oscure. «Come fai a saperlo?» Lui aprì la bocca e poi la richiuse senza una parola. L'uomo delle risposte questa volta non ne aveva. Molly si avvicinò. La galleria sembrava impenetrabile, soffocata dalla vegetazione. Deturpata, per essere onesti. La disgustava in un modo inspiegabile il disordine, il caos soffocante che c'era là dentro. Ebbe un conato di vomito, e diede la colpa alle uova fredde che si era mangiata a colazione. Mentre si avvicinavano ancora di più il suo disagio, anzi il suo vero e proprio malessere aumentò ancora. Le mura le si richiusero intorno. Il tunnel, quel buco orripilante, le dette il capogiro. Ricordò la repulsione provata all'ingresso la notte prima, e quel che sentiva adesso era peggio. Era a piedi, incatenata dal terrore e dalla nausea. Venne sopraffatta da un'improvvisa disperazione. Che cosa ci voleva ad andarsene da lì? S'impose però di passare attraverso la bocca della galleria. L'entrata era ostruita da liane e radici. Allungò una mano per scostarle e qualcosa la morse. Lei ritirò la mano di scatto, ma un po' di sangue già le imperlava il polso.
«Molly», disse Duncan. «Non toccare.» Lei sbirciò e scorse il colpevole. Tentò una presa cauta e poi tirò un poco, fino a vederlo meglio. «È filo spinato, quello?» chiese lui. «Perché, a te cosa sembra?» scattò lei. Chiaramente lui l'aveva visto. «Molly, perché fai così?» Lei era scossa da un'ondata di rabbia. «Avresti potuto avvisarmi.» «Ma io non l'ho visto.» Lei diede uno strattone alla bobina rugginosa. Dentro c'era una balla intera di filo spinato avvolto su se stesso, e bloccato in quel punto da anni di crescita vegetale. «Non ne usciremo mai», mormorò. La paura l'afferrò. Erano prigionieri. «Vieni via di lì», le ordinò Duncan. Lei lasciò andare il filo e quello rinculò verso il tunnel come un serpente. Rimase a fissare quella buca famelica. «Molly!» Lei voltò le spalle alla galleria. «Vieni qui.» Si avviò verso di lui, e le sue terribili emozioni svanirono. «Stai bene?» Duncan le prese il braccio e la allontanò ancora di più dal tunnel. «Mi sa che ho fame», rispose Molly. «Oppure sto ancora scontando gli strapazzi di ieri.» Si sedette, svuotata. «Bevi qualcosa.» Lui le porse una bottiglia d'acqua. «Si sono chiusi dentro», disse lei. «Perché non se ne sono andati e basta?» Lanciò un'altra occhiata alla galleria, adesso era solo una galleria. Ma in qualche modo lei si sentiva ferita: non solo graffiata dal filo spinato, ma offesa dal tunnel stesso. Non voleva averci più niente a che fare. «Forse tra le rovine si sentivano più sicuri», affermò Duncan. «Una cosa è certa, da questa parte non sono usciti.» «Davvero non l'hai visto, il filo?» «Da qui? Nemmeno tu finché non ti sei tagliata.» «E allora come facevi a sapere che loro erano passati di qua?» «È logico. Se hanno avuto il tempo di incidere i nomi sugli alberi di sotto, allora hanno avuto anche il tempo di esplorare qui sopra. Di certo avrebbero esaminato le mura, non credi? Avrebbero messo in sicurezza il perimetro, o come diavolo si dice fra soldati.» L'orologio di Molly segnava appena le otto e trenta. Ma se avevano la-
sciato il campo alle otto e un quarto... e infatti la lancetta dei minuti si trascinava a stento. Lei premette la rotellina della carica e la luce notturna si accese. Perciò la batteria funzionava, ma c'era qualcosa che non andava nel meccanismo. «L'umidità», disse. «Alla faccia del resistente all'acqua fino a cinquanta metri. Tu che ore fai?» Si era scordata che Duncan non aveva l'orologio. E tuttavia si portava dietro una bussola d'epoca nella valigetta. Una volta o l'altra avrebbe dovuto chiedergli conto di quella contraddizione. Sarebbe stato un altro piccolo vezzo da inserire nel libro. «Abbiamo lasciato il campo ore fa», osservò Molly. «Dovremmo cominciare a pensare al rientro. Non vuoi dare un'occhiata alla città?» Nella sua mente, la strada che si allontanava dalla galleria sarebbe stata una scorciatoia fino alla testa della scalinata. Duncan osservò i ruderi che fluttuavano nella nebbia e poi il sentiero che continuava lungo il muro, ma lei interruppe le sue riflessioni: «Questo muro potrebbe continuare per chilometri». Lui poteva anche mettere insieme il suo cerchio un altro giorno. La foschia si diradava, e lei voleva vedere. «Hai ragione.» Lui annuì con il capo, poi andarono via dall'uscita sigillata, dal lato interno del muro e verso le rovine che conteneva. Solo in quel momento Molly si rese conto che sotto i loro piedi c'era una strada. Fuori dal terreno sbucavano radici molto alte e le pietre del lastrico avevano ceduto a ondate, si erano spaccate in diagonali riempite dalle erbe alte che passavano attraverso le piramidi e gli edifici terrazzati. I fichi strangolatori occupavano tetti e mura, come mostri marini dai cerei tentacoli bruni. La delicata architettura sembrava tutta schiacciata. Dal viale principale dipartivano dei corridoi, ormai insuperabili, colonizzati da un lato all'altro dalla vegetazione primordiale. Molly e Duncan attraversarono un ponte sopra a un canale prosciugato, con piccoli pontili per l'attracco che poi conducevano verso soglie simili a buchi neri. «Come Venezia», disse lei. «Una città sull'acqua.» Ogni svolta prometteva un segreto. Lei dovette razionare le fotografie. La Nikon conteneva moltissime immagini e mangiava un sacco di batteria. Catturò Duncan che scalava le macerie di un altro ponte sfondato da un gigante di mogano. Fotografò le guglie che si ergevano come razzi interstellari delicati e barocchi, con gli apici che pungevano la parte bassa della volta frondosa e sparivano dalla vista. Fece sei foto a un Buddha grande come due balene, che giaceva su un fianco, la testa poggiata su una mano ricordava un bimbo che ozia in un giorno d'estate. Molly avrebbe
potuto passare una settimana a fotografare solo lui. Ovunque si girasse, la città le si offriva come una visione preistorica. Il grandangolo non era grande abbastanza. Quel posto la sfidava da ogni lato. A piccoli passi, ricordò a se stessa. Era consapevole della totalità di quel luogo, dell'idea di disegno grandioso. Duncan aveva ragione: ci sarebbero voluti anni per decifrarlo. Una vita. Lui trovò una moneta, infilata proprio in fondo a un nido d'uccelli abbandonato. Solo Duncan, nel bel mezzo di una città perduta, avrebbe pensato di guardare in un nido caduto dai rami. «Sai chi è questo?» Porse la moneta a Molly. Un lato era ricoperto dal verderame, sull'altro c'era un rozzo profilo. «Ne ho viste altre simili, in un libro. È Antonino Pio, l'imperatore romano del secondo secolo.» Era attonito. «Chiunque fossero, queste popolazioni facevano parte di una rete commerciale che arrivava fino al cuore dell'Impero romano.» Entrarono in un canyon di pannelli scolpiti. I bassorilievi erano impiastricciati di licheni rossi, grigi e azzurri. Era come precipitare nel mito. Divinità a forma di scimmia e guerrieri umani si davano battaglia con armi esotiche. C'erano concubine in ozio e bambini che giocavano, dita di ballerine incurvate come corsi d'acqua. Un pavone maestoso era ignaro di due coccodrilli che gli facevano la posta con le mascelle spalancate. Lei e Duncan si muovevano lentamente, come due amanti in una galleria d'arte, ammirando di tanto in tanto una nuova scoperta insieme e poi separandosi per continuare la propria esplorazione solitaria. Il canyon sembrava contenere ogni genere di favola e mito. Le sculture possedevano uno stile molto particolare e richiedevano tutta la concentrazione di Molly. Ecco un drago che sorgeva dal mare. Un incendio appiccato da invasori armati di lance, e poi un assassino che pugnalava il proprio fratello. Lei tentò di dare un ordine alle scene rappresentate, e si rese conto che ogni schema poteva essere scomposto e ricomposto a raccontare altre storie. Il drago era forse una tempesta? E se gli invasori fossero stati invece dei salvatori? E se il fuoco avesse rappresentato un rinnovamento anziché una distruzione? E se l'omicida fosse stato un eroe? Si poteva continuare a lungo. Molly rinunciò alla macchina fotografica e sfiorò con le dita i rilievi. O loro toccarono lei... era difficile da spiegare. Era una cosa che andava oltre la seduzione: era come se quelle mura la contenessero. La invitavano a leggere se stessa tra quelle scene scolpite. Come se lei abitasse quelle pietre. Ecco una donna che esplorava un giardino. Un neonato alla deriva su un
fiume. Un'altra donna, sul punto di accoltellarsi. Oppure, in ordine inverso: la madre, l'orfana, la cercatrice. Non si rese conto di piangere finché Duncan non le posò una mano sulla spalla, osservando quel che stava guardando lei. Lei ne fu imbarazzata, e lui notò anche quello. «Antenati», disse lui. «Questo posto ne trabocca.» «Non so perché mi do ancora tanta pena per lei», si chiese Molly. «Kleat ha ragione... era solo una spostata hippy. Una suicida. Un'altra figlia persa.» «Non è così facile, quando si tratta di fantasmi», rispose lui. «Ma io l'ho trovata, però. Quello dovrebbe bastare.» Lui fece scorrere le dita sulla pietra, senza toccare i licheni, cercando solo di isolare la storia. «Comunque hai ancora delle domande da fare. E che cos'è un fantasma, se non una domanda?» «So tutto quello che devo sapere», replicò Molly. «Lei si presentò a Breckenridge con un bambino in braccio. Quelle vecchie cittadine minerarie stavano vivendo uno scenario tipo postumi della corsa all'oro... con questi ragazzini, questi hippy che occupavano le baracche e facevano i fricchettoni a tutto spiano. Lei sferruzzava berretti di lana e faceva candele con dentro dei fiori, e vendeva questa roba per strada. Non aveva neanche il buon senso di ritirare i buoni pasto, così erano i vicini a portarle da mangiare. D'inverno, qualche estraneo ammassava un po' di legna da ardere vicino al nostro caravan.» «E tuo padre?» «Quale? Era l'era dell'Acquario. Dubito che abbia mai saputo della mia esistenza. E comunque, cosa potrei farmene di lui?» «Probabilmente hai ragione.» Molly sfiorò i licheni, e anche se così facendo stava rovinando delle sculture inestimabili, Duncan non la rimproverò. «Mia madre cantava canzoni tristi per strada», seguitò lei. «Me l'ha raccontato un vecchio prete. Aveva una bellissima voce. Ballate, inni, lamenti funebri.» «E poi?» «È morta di crepacuore, mi ha detto. La mia povera mammina pazza.» «E quindi sei pazza anche tu?» Lei lo guardò, ma quello non era Kleat che la prendeva in giro. Era Duncan. «Nei giorni peggiori me lo chiedo», mormorò. «E nei giorni migliori?» «In quelli canto.»
«Canzoni tristi?» L'aveva conquistata, e lei non poté fare a meno di sorridere. «Forse.» «E allora se rimango in silenzio, prima o poi ti sentirò», rispose lui. «Allora speri in futuro di giorni migliori, signor O'Brian?» «Giorni?» Lui spalancò le braccia in direzione della città. «No, anni. Potrei passarci il resto della vita, qui. Sono nato per questo.» Uno sparo isolato mandò in frantumi quella fantasticheria. 18 Al crepitare della pallottola, la nebbia sparì all'improvviso, come se l'epidermide del luogo fosse stata perforata. Non si diradò nel calore: il sole non riusciva a penetrare i tre strati della volta di rami e foglie. Semplicemente si alzò e scomparve. Erano circondati, anzi sovrastati, da teste di divinità, faccioni di demoni, sogni di architetti innalzati nella pietra, e da quell'intricatissima foresta. La volta si stendeva sulle loro teste come un soffitto percorso di venature. Molly si sentì inventata, come se l'esistenza sua e degli altri fosse un sogno di quelle teste di pietra giganti. Però degli altri si era dimenticata... era passato un sacco di tempo, anche se lei non era in grado di leggere l'ora in quel crepuscolo verdino. Senza la nebbia il giorno sembrava più chiaro, e tuttavia per il suo senso del tempo si stava facendo scuro. Poteva essere già tardo pomeriggio? Di colpo sentì i morsi della fame. Uscirono dal canyon seguendo l'eco dello sparo. Dovettero cercare un po' per ritrovare la scalinata. Molly riusciva a malapena a distinguere un edificio dall'altro. I suoi sensi erano sovraccarichi, era stremata dalla mancanza di sonno e dall'eccesso di emozioni, era troppo per lei. Da anni non provava sensazioni così primitive, e tutte in un solo giorno. La città era come una miccia: un'emozione sembrava scatenarne subito un'altra, in una reazione a catena di vecchie paure, ricordi rimossi, rabbia e folle speranza. Per fortuna, Duncan sembrava muoversi d'istinto tra quei ruderi. Dopo qualche giro a vuoto, grazie a lui riuscirono a tornare sul bordo con i naga di arenaria rosa e la scalinata. Ora che la nebbia si era alzata, il fondale si stendeva sotto di loro come un grandioso cul-de-sac in un catino di ripide mura terrazzate. Alle pareti più erte si aggrappavano alberi e liane. Da quell'altezza, il Land Cruiser bianco appariva delicato come un guscio d'uovo. Il grosso camion Mercedes avrebbe potuto essere un giocatto-
lo. Tutti gli altri erano già di sotto e quando Kleat vide lei e Duncan agitò in segno di saluto la mano che reggeva la pistola, il che lo rese ancora più simile a un soldatino di piombo. D'un tratto la spedizione intera sembrò fragile e troppo ambiziosa: la loro scoperta era infinitamente più grande di loro. Mentre scendevano la scala, Molly notò che in loro assenza Samnang non era rimasto in ozio. Il gradone più basso era adesso occupato da un capanno rettangolare, verde brillante, fatto di pali e foglie, con un lato aperto verso il fuocherello acceso. Le fiamme le diedero un indizio rispetto all'ora: brillavano troppo perché fosse ancora giorno. Stava arrivando la notte. Mentre si faceva strada tra gli alberi, Molly cercò i nomi scolpiti nelle cortecce, ma non li trovò, forse la luce era cambiata o si trovava in mezzo ai tronchi sbagliati. Già prima di raggiungere il campo, vide Kleat che faceva un ampio sorriso, e ne aveva tutte le ragioni. Indossava un elmetto militare, con gran parte dell'imbottitura smangiata. Più da vicino, riuscì a vedere su un lato delle tacche che andava sparendo, lì un soldato aveva contato il passare dei giorni. Anche i fratelli erano di buon umore. Sopra a una sporgenza si trovava una fila di vasi e ciotole di bronzo e giada, con dei disegni geometrici. Pensò che Duncan sarebbe partito con una filippica contro i saccheggi, invece si limitò a sospirare. «Siamo sulle loro tracce», disse Kleat. Aprì cautamente una mano, come se contenesse delle pietre preziose, sul palmo reggeva tre bossoli d'ottone, vuoti. «Li hai trovati nella città?» chiese Duncan. «No, proprio qui, nella radura. Li ha trovati Sam, per terra, laggiù.» Diede una botta all'elmetto. «Ci siamo quasi passati sopra con le ruote, ieri sera.» «È tutto quello che hai?» «È un inizio. Adesso sappiamo dove guardare. Possiamo lasciar perdere la città.» Molly gettò un'occhiata alla foresta che li circondava. Di lì non si vedevano le cisterne, e nemmeno le tracce dei loro pneumatici tra le foglie. Quando fosse venuto il momento di partire, avrebbero dovuto cercare parecchio per ritrovare il passaggio. «E quelli cosa sono?» chiese, indicando dei ramoscelli ripiegati a forma
di O. Spuntavano qua e là tra gli alberi, come trappole per animali. «Opera di Sam. Sono dei riferimenti. L'ho mandato a cercare i VTC. Devono essere da queste parti, non lontano.» «Sei stato tu a sparare?» «Non aveva senso perdere altro tempo lassù. Probabilmente loro non sono mai andati in mezzo alle rovine.» Molly fu irritata da quel gesto. Lei e Duncan avevano varcato la soglia della città, si erano persi tra le sue storie. E Kleat li aveva richiamati a forza. «Be', per tua informazione invece lo hanno fatto», si lasciò sfuggire. Duncan fece una smorfia e lei si morse il labbro. Da che cosa avrebbe dovuto capire che quello era un loro segreto? «Sono stati lassù?» domandò Kleat. Era troppo tardi per rimangiarsi le parole. «Abbiamo trovato del filo spinato dentro il portale sul retro.» «Avete trovato del filo?» seguitò Kleat. «E non mi avete chiamato? Avevamo un accordo. Vi avevo detto...» Molly scoccò un'occhiata a Duncan. Era vero, avevano abbandonato le prove per poter esplorare la città. «Ti abbiamo chiamato», mentì. «E abbiamo aspettato, ma tu non ci hai sentito.» «Quale portale?» Lo sguardo di Kleat cadde sulla macchina fotografica. «Fammi vedere.» Lei accese l'apparecchio e gli mostrò le foto del tunnel. Ma la macchina stava di nuovo facendo i soliti scherzetti. Il lampo del flash aveva sbiancato l'interno della galleria. Le liane, le radici e il filo spinato arrotolato non erano che sottili arabeschi neri, ma poi c'erano anche delle forme all'interno, forme intrappolate, se si fosse voluta infiorettare l'immagine. Con un po' di fantasia, si potevano quasi distinguere braccia e gambe. «Cosa sono quelli?» chiese Kleat. «È solo il riverbero del flash che rimbalza contro la nebbia. Forse mi sbaglio sul filo spinato, magari sono solo rampicanti.» O tendini. Ma ormai la curiosità di Kleat era ben desta. «E questi altri?» domandò, al volo, mentre lei faceva scorrere la serie dei guerrieri di terracotta. Che erano quanto Duncan aveva sperato di tenere nascosto. «Statue.» Molly si scrollò nelle spalle. Dal display gli occhi di giada la fissavano. «Sembrano cinquanta come minimo.» «Non le ho contate.»
«Dov'è questo portale?» «Non c'è modo di descrivertelo», disse Duncan. «Hai visto anche tu che labirinto è quello.» «E allora mi ci puoi accompagnare domani», replicò Kleat. «Ma per prima cosa, passiamo in rassegna tutta l'area qua sotto. Quei VTC sono qui, da qualche parte.» Lei stava per obiettare obiettare a quell'ordine, ma Duncan fu più rapido. «Bene», concordò. «Di oggi rimane ben poco. Si sta facendo buio e noi abbiamo bisogno di cibo e di riposo. Ripartiremo domattina, più freschi.» Non un'altra parola sulla città, come se Kleat potesse scordarsela. I due uomini si avvicinarono al capanno. Prima che facesse davvero buio, Molly andò verso il camion per prendersi una torcia e un'altra batteria per la Nikon dal borsone di tela. La sua mente era affollata di possibili fotografie. Doveva pur esserci un tempio o un albero dal quale scattare, tutto intero, quel gigantesco Buddha reclinato, e poi voleva allineare tre specifiche guglie in modo che conducessero lo sguardo fino a un punto di fuga. E c'erano quei nomi di innamorate nella foresta, così teneri, così terribilmente mortali, con quelle lettere deformate dagli anni. Stava richiudendo la cerniera del borsone quando, dal crepuscolo, tornò Samnang. Si diresse immediatamente verso la sporgenza dove stavano le ceramiche, le giade e i bronzi saccheggiati, ed era ovvio che li vedeva per la prima volta. Si avvicinò ai fratelli, accucciati vicino al fuoco. Dal camion lei riuscì a sentire che li rimproverava. Uno dei tre si alzò e gli rispose urlando e agitando il fucile. Un altro gli sventolò un rametto infuocato davanti agli occhi. Figli della malasorte, pensò lei. Tornò da Kleat e Duncan, sotto il capanno. «C'è una vera e propria guerra civile là fuori», disse Kleat. La lite tra i cambogiani sembrava fargli piacere. Alla fine Samnang si sganciò e tornò zoppicando nella foresta. Qualcuno aveva messo nel capanno una scatola di razioni. Molly fece la cernita fra i pacchetti, leggendo ad alta voce i nomi dei vari pasti. Ne scelse uno e aprì la confezione di plastica con un coltellino svizzero. Di solito la gente si lamentava di quella sbobba, ma lei aveva finito con l'apprezzarla durante un servizio su una squadra di giovani leoni dell'alpinismo, in una torrida estate sulla catena montuosa di San Juan. Mentre lo stufato cinese si scaldava, lei guardò fuori, il buio stava avvolgendo ogni cosa. Dopo gli afosi bassopiani centrali, il fresco della foresta ristorava. Ma anche lì, lei aveva la fronte imperlata di sudore. Se la a-
sciugò. Presto, e inevitabilmente, Kleat e Duncan ricominciarono a discutere. Era più forte di loro. La sera era tranquilla fatta eccezione per i rumori degli animali. Gli uomini erano occupati: Duncan con il suo blocco degli schizzi e Kleat con la pistola che stava pulendo. Era la stessa discussione che avevano avuto quella mattina: la sola differenza era che adesso avevano degli oggetti reali per insistere ciascuno sulla propria posizione. Non stavano più ragionando per ipotesi. Duncan aveva trovato una città e Kleat delle reliquie di guerra. «Dobbiamo andarcene», esclamò Duncan. «Domattina, subito, prima che qualcos'altro venga razziato e distrutto, dobbiamo fare i bagagli. Non siamo preparati per tutto questo. La città ha bisogno di protezione. Dobbiamo fare le cose per bene.» Kleat respinse l'idea con un grugnito. «Te lo puoi scordare.» Molly non sapeva che cosa dire. Laggiù si sentiva al sicuro. Si sentiva ritrovata. E tuttavia Duncan stava invitando il mondo a entrare prima ancora che loro ci avessero davvero messo piede. «Ma potremmo perdere tutto», disse lei, cercando di farlo ragionare. Una volta che la notizia del ritrovamento si fosse diffusa, i pezzi da novanta quelli del museo Smithsonian, quelli del National Geographic, le università, i pezzi grossi dell'accademia, gli autori di best-seller e i fotografi stipendiati - sarebbero calati là in massa. Lei sarebbe stata tagliata fuori, e anche Duncan. Era così che funzionava. Kleat seguitò sul medesimo tema. «È quello che dico anch'io. Adesso siamo qui noi. È tutto nostro.» Fece sgocciolare del solvente su uno straccetto e poi si mise a strofinare la canna dell'arma. «Torneremo», replicò Duncan, «ma alle nostre condizioni, non alle loro.» Fece un cenno verso i fratelli. «Ritorniamo in città, e poi ci facciamo portare di nuovo qui con provviste sufficienti per sei mesi. Anche se ci beccheremo il monsone.» «E cosa ti fa pensare che quelli terranno la bocca chiusa, in città?» chiese Kleat. «Ma certo che non lo faranno. È ovvio, sono umani. Sono poveri. Questa è una corsa contro il tempo. Il che fa di te, Molly, la pedina più importante. Tutto dipende da te. Tu puoi documentare la città prima che gli sciacalli la ripuliscano fino all'osso. Non si tratta solo di questi tizi. Una volta che la notizia si sparge, si faranno avanti il governo e l'esercito cambogiano. Ed è lì che comincia il vero saccheggio. Tu sei per noi il testimone della gran-
dezza che vediamo ora, così com'è. Anche se questo significa rimanere per la stagione delle piogge. Io manderei via gli autisti prima che il fiume si gonfi. Dopo di che rimarremmo qui dentro, soli.» «Sì», gli rispose lei, anche se lui non aveva fatto una domanda. Sì, voleva rimanere lì dentro. Sola. «Fai tutte le istantanee che vuoi», disse Kleat, «mentre noi cerchiamo gli uomini. Loro vengono prima. Qui non ci sarà nessuno slittamento della missione, perché siamo venuti per le ossa e non per la città. Le piogge possiamo batterle sul tempo. Dopo che avrò trovato i resti, questa pila di sassi è tutta vostra. Voi due potete restare qui fino al giorno del giudizio, io me ne frego.» Cominciò a rimontare la pistola. «Possiamo prepararci nei prossimi giorni», seguitò Duncan, «e trascorrere i prossimi sei mesi in esplorazione.» «Tu e la tua città», disse Kleat. Sistemò la molla nella canna. «E gli uomini?» «Se sono qui, li troveremo.» «Niente se. Sono qui. E noi siamo qui. E qui restiamo.» Molly si tamponò il sudore che le gocciolava lungo le tempie. Si stava forse ammalando? Adesso era il momento di tentare di far ragionare Kleat. «E se non riusciamo a trovarli prima dell'arrivo delle piogge? Duncan non ha torto. C'è una bella differenza tra avere sei giorni per cercare quegli uomini e sei mesi.» «Io devo farlo.» Per un istante Kleat sembrò disperato. «Prima che sia troppo tardi.» «Non ti seguo.» «Arriverà il comandante o qualcuno come lui», affermò Kleat. «Appena sentono che ci siamo noi quassù, verranno ad appropriarsene. Il fiume non li fermerà, ci passeranno sopra in volo e ci cacceranno un'altra volta. E io non lascerò che succeda. Hanno già avuto la loro chance.» «La loro chance?» «Queste ossa appartengono a me», dichiarò Kleat. Infilò la canna nel telaio con un clac metallico. Molly e Duncan si scambiarono un'occhiata. Le ossa appartenevano a lui? «John», disse Duncan a voce bassa. «Così non va bene. Cosa ne è stato di tutti i tuoi discorsi sull'onore?» «Gli uni comprano l'altro», rispose Kleat. «Questi morti si comprano il mio morto. È il solo modo in cui riuscirò a trovare mio fratello.»
Molly si rammentò di Luke che rideva, o meglio strideva come una scimmia, all'affermazione secondo la quale Kleat aveva un fratello. «Per quello sei qui?» domandò Duncan. «Il comandante ci ha scacciati come dei traditori. Ecco qua una bella sveglia per quella gente. Ogni anno i dispersi muoiono un po' di più. Le mogli si risposano. I figli crescono e dimenticano. Guerre nuove oscurano le vecchie. Presto sarà troppo tardi.» «Ma tu cosa pensi che facciano, il comandante e i suoi uomini, in mezzo al terriccio e al fango e sotto il sole?» chiese Duncan. «Cercano i dispersi.» «E allora devono cercare di più. Con quelle ossa a svergognarli, posso fare in modo che l'America drizzi le orecchie e mi ascolti. Per quello tu sei importante», fece a Molly. «Tu e i tuoi giornali. Per svergognarli. Per distruggere le vecchie regole. Abbiamo bisogno di energie fresche, di nuove direttive. Mio fratello è là fuori, da qualche parte, e in un modo o nell'altro io me lo riporterò a casa.» Fuori il fuoco crepitava. Per qualche istante nessuno parlò. Infine Duncan disse: «Mi dispiace che siamo arrivati a tanto, Molly. Sto cercando di pensare a un compromesso, ma non ci riesco. Sembra che dobbiamo scegliere tra le ossa e la città, e io so da che parte sto. Ed entrambi sappiamo da che parte sta John. Però siamo in tre». La guardò in faccia in attesa del voto decisivo, e lei fece una smorfia. «Cosa posso dire?» Era davvero perplessa. Kleat l'aveva quasi convinta, ma anche la città aveva bisogno di lei. «Entrambi avete delle argomentazioni forti.» Era sul punto di chiedere se davvero non vedevano nessuna forma di compromesso, ma Kleat riprese la parola. «Non c'è bisogno di ammattirci su», osservò, facendo scattare il caricatore dentro l'impugnatura e mettendo un colpo in canna. Guardò la pistola, poi lei. «Ci stai minacciando?» chiese Molly. «Ma per favore», rispose lui. «È solo che qualche volta ci facciamo prendere la mano da questa faccenda della democrazia. E non dovremmo.» 19 Secondo il suo orologio, il mattino dopo Molly si svegliò alle nove. Ma era molto più buio che alle nove. Sono le sei pensò, e si precipitò fuori dalla tenda. Brandelli di caligine fluttuavano tutto intorno, come se la mattina non
riuscisse a decidersi su come accecarla; ma lei sapeva bene dov'era. In meno di cinque minuti trovò il vivido fuoco arancione di Samnang e gli uomini tutti riuniti. Temeva che Kleat e Duncan si stessero contendendo l'appoggio dei tre fratelli, l'uno per restare, l'altro per andarsene. Ma capì quasi subito che i tre appoggiavano se stessi. Volevano più soldi. «Altrimenti, se ne vanno senza di noi», le disse Duncan, non troppo impensierito. «E non hanno torto. Perché rimanere? Hanno raccolto soltanto vasellame per qualche migliaio di dollari, e per quanto li riguarda la città appartiene a loro. Torneranno con qualche amico.» «E per andarsene con noi?» chiese Molly. «Vogliono più soldi.» «Pirati», sbuffò Kleat. «Lo sapevamo già venendo qui», osservò Duncan. «Cioè, ci abbandonerebbero senza il minimo problema?» Molly si guardò intorno. Vin teneva gli occhi fissi a terra. Invece gli altri due stavano con il mento ritto e i fucili bene in vista. La nebbia vorticava. La foresta respirava. Samnang le portò un caffè. «Zucchero?» le chiese. «No, grazie, Samnang.» Stava andando tutto a rotoli. Per restare avevano bisogno di cibo. Di coperte. Di un generatore per ricaricare le batterie della sua macchina. Di ombrelli, di pasticche contro la malaria, di spazzolini da denti. E avevano bisogno di solitudine. «Questa è tutta opera tua», disse Kleat a Duncan. «Io non ci ricavo niente da questa situazione», rispose l'altro. «Loro ci tengono in pugno.» «Quanto vogliono?» chiese Molly. «Altri cinquecento per andare via. Cinquemila per stare fino a domani. Non sono stupidi. Continuano a parlare del tifone e del fiume.» «Io ne ho solo duecento», disse Molly. «Io non ho niente», ribatté Duncan. Ma che cosa si erano messi in testa? Provviste per sei mesi? «Le statue», mormorò Kleat. «Cosa?» «Fagliele vedere sulla macchina. I guerrieri di terracotta.» «No», urlò Duncan. «Non farlo.» Samnang stava accosciato vicino al fuoco e ci soffiava sopra con le labbra strette. Aveva un alito combustibile: la fiamma saltò su, vivace.
«Quella roba vale centinaia di migliaia di dollari», affermò Kleat. «Digli che gli farai vedere il posto, e a quel punto tratteranno.» «Potremmo andarcene anche a piedi, da qui», osservò Duncan. La nebbia si stava ritirando. Intorno a loro cominciarono ad apparire gli alberi. «Fagliele vedere», ripeté Kleat a Molly. Lei notò che Samnang li guardava da dietro il fuoco. Qual era la cosa giusta, e quale quella sbagliata? Ebbe paura. Si trovavano nella terra di nessuno. «No», decise. Kleat si voltò verso i fratelli. «Statue», disse. Indicò in alto, verso la città. «Capito? Tanti soldi. Statue.» Loro lo guardarono stupiti. Tra gli alberi baluginava ancora un po' di foschia. Laggiù c'erano il camion e il fuoristrada. Poi Molly guardò in alto. E spalancò la bocca. Sembrava impossibile che il giorno prima non avessero visto una cosa del genere. Con gli occhi fissi sulla volta arretrò. «Molly, cosa c'è?» chiese Duncan. Poi lo vide anche lui, nascosto e tuttavia evidente. Kleat imprecò per la sorpresa. I fratelli si acquattarono e sollevarono i fucili. In aria, come il vascello dell'Olandese Volante, in una biforcazione fra due rami era arenato l'enorme relitto di un veicolo militare. Un lungo filo metallico si era rotto e penzolava dalla pancia del mezzo. Molly sollevò la macchina fotografica e su un fianco, in piena vista, si vedeva ancora una fioca insegna: un cavallo nero rampante. 20 La scoperta, i resti della pattuglia del reggimento Blackhorse, mise fine ai loro battibecchi. Non che si potesse parlare veramente di pace: più che riconciliarsi lasciarono perdere, in modo spontaneo. Non presero una decisione, semplicemente si scordarono gli uni degli altri, almeno per un po'. Si separarono, intenti a fissare la macchina da guerra intrappolata, cercando di darle un senso. A venti metri d'altezza il veicolo sembrava piovuto là nel corso di un'inondazione mitica; invece era stata la foresta a sollevarlo. «È impossibile», disse Kleat. «Saranno dieci tonnellate, se non di più.» Eppure era lassù, incastrato in un nido di rami enormi. L'elmetto e le cartucce erano caduti da lì sopra. A nessuno era venuto in mente di guardare in su: chi avrebbe mai pensato a una cosa del genere?
Kleat si muoveva là sotto come un cane affamato fuori da una macelleria, alternando silenzi a raffiche di pensieri in libertà. «La prima volta che i vietnamiti hanno visto un VTT, l'hanno battezzato 'dragone verde'», raccontava a chiunque si desse la pena di ascoltarlo. «L'esercito li adoperava come taxi anfibi. Poi la cavalleria corazzata li ha convertiti in cannoniere su cingoli: VTC. La truppa li chiamava solo 'cingolati'. Rapidi e micidiali, di norma con cinque uomini d'equipaggio. Li caricavano di munizioni e poi andavano a caccia, in colonna.» Continuò a blaterare di armamento di bordo e autonomia di movimento, dello spessore del guscio blindato o meglio della sua sottigliezza. «Se beccavi una mina o un razzo, erano delle trappole mortali.» Molly smise di ascoltare. Non riusciva a farsi una ragione della forza degli alberi: venti metri, un palazzo di sei piani, in trent'anni. Dieci tonnellate. Duncan, cultore del dato scientifico, si avvicinò a uno dei gradoni e aprì la valigetta d'acciaio per prendere qualche appunto e fare uno schizzo sul bloc-notes. I tre fratelli si ritirarono verso la scalinata in una nube di fumo di sigaretta, atterriti dalla superstizione o forse solamente presi a discutere il profitto che avrebbero potuto ricavare. Molly aveva imparato che per la Difesa il mercato delle reliquie americane in Vietnam era un argomento tabù, ma la roba autentica veniva pagata molto bene. Samnang era l'unico che non pareva sconvolto. Senza pensarci aveva acceso il fuoco proprio sotto il cadavere del veicolo blindato, e adesso lo stava spostando in una posizione più adatta. Uno alla volta trasportò i ciocchi accesi alla base di un terrazzamento ampio e piatto e soffiò sulle braci per ravvivare la fiamma. Molly prese nota del gesto: con quel semplice atto il vecchio dichiarava la sua accettazione. Tutto era cambiato, e allo stesso tempo nulla. Quali che fossero le loro divergenze, gli americani erano là e là intendevano restare, e lui aveva afferrato il concetto. Avevano bisogno di un centro e il fuoco rappresentava proprio quello, il fulcro del loro campo. «Qui ce n'è solo uno», disse Kleat. «E noi stiamo cercando nove uomini. Da qualche parte dev'esserci un altro cingolato.» Sembrava però che la volta di fogliame non ne nascondesse altri. Molly alzò lo sguardo verso l'intrico di fronde e rampicanti, e le parve che il veicolo lassù fosse l'unica preda della foresta. Fece un passo indietro e guardò il relitto come se avesse di fronte la Sfinge. A quello assomigliava, a una belva in mezzo al deserto. Un enigma
di metallo. Erano andati in cerca di ossa e avevano trovato una fortezza. Avevano perlustrato le cime degli alberi e scoperto un cocchio. Qual era il legame tra quelle due cose? Una mano invisibile le aveva cucite insieme, ma perché? Estrasse la macchina fotografica e il teleobiettivo, poi mise a fuoco. Il blindato s'ingigantì: lievemente inclinato in avanti e sbilanciato sulla destra, stava appeso là con la mitragliatrice puntata dritta verso di lei. Molly scattò la foto e poi si mosse di lato, fuori mira. Vagando in cerca delle angolazioni migliori passò al setaccio il cingolato con il suo cannocchiale ipertecnologico. I particolari le balzarono agli occhi. Una rampa sulla parte posteriore penzolava aperta come un ponte levatoio. Accanto alla scritta nitida U.S. ARMY c'erano graffiti che istigavano alla massima ferocia. Dietro la torretta principale c'era un altro supporto per mitragliatrice, ma qui la bocca da fuoco mancava. Dal tetto del veicolo, qualcuno la stava guardando. Lei non se ne rese conto subito. Lo vide, e al tempo stesso non lo vide. La sua mente registrò il viso come fosse un nodo nel legno, o una statua lontana. Gli occhi erano fissi su di lei e lei lì catalogò come bulbosità su un tronco, o fori nel fogliame. Ma poi le narici si mossero: nient'altro, solo il centro del viso che la scrutava, e lei capì che la stava fiutando. «Cristo», mormorò. La mano sussultò. La macchina fotografica si mosse, ma lei era riuscita a far scartare l'otturatore. A fuoco o no, non lo sapeva. Riportò la macchina in posizione e azionò lo zoom, incerta di voler davvero rivedere quel che aveva visto. In un secondo si ritrovò accanto Duncan. Sparito, era sparito. Le tremavano le mani, praticamente mutili per reggere il teleobiettivo. Kleat si avvicinò. «C'era un uomo», disse lei. «Una faccia, là sopra, l'ho vista bene.» «Cazzate.» Però Kleat aveva tirato fuori la pistola. La teneva con tutte e due le mani, a mezza altezza. «Guarda tu, allora.» Trafficò con il display. La faccia c'era, o quasi. «Brava, ne hai beccato uno», si congratulò Duncan. «Peccato che si sia mosso.» «Uno di che?»
«Un gibbone. Un gibbone pileato. A est del Mekong sono praticamente estinti; le tribù collinari li amano... da morire. Carne ottima, a quanto ne so.» Kleat rimise la pistola nella fondina. «Una scimmia», mormorò. Lei fissò l'immagine: l'inquadratura era sfocata. I particolari della torretta erano perfettamente nitidi, ma il viso era una chiazza, praticamente non si vedeva. Era grigio antracite e, in effetti, vagamente scimmiesco. Ma non era la faccia che aveva visto lei. «Fammi dare un'occhiata», disse Kleat. Lei gli passò la macchina, pensando che volesse esaminare l'immagine. Invece lui mise l'occhio al mirino come un tiratore scelto. «Ci sei riuscita ancora», esclamò dopo qualche istante. «A far cosa?» «Prima il pilota, e ora questo.» Le restituì l'apparecchio. «Quello è un teschio.» Lei bloccò l'inquadratura. Ecco la piastra di metallo inclinata e la stella bianca dell'esercito ormai sbiadita; più sopra il gnigno della mitragliatrice e la torretta, e il vuoto dove prima aveva visto la faccia. E dietro, quasi completamente nascosta dalla parte superiore della scocca, vide la testa, raccolta fra le ombre, immobile. Dura e lucida, poggiava su un tozzo palo di metallo. Sembrava appena raccolta sul campo di battaglia. Dietro l'obiettivo, lei abbassò gli occhi. Kleat prese la macchina fotografica. «I vietnamiti devono averli trovati», osservò poi. «Oppure quei pezzi di merda dei khmer rossi. Poveracci. Potrebbero essercene degli altri.» L'idea prese corpo dentro di lui. «Qualcuno deve andare là sopra.» «Sì, con un numero da circo», ribatté Duncan. «Fallo fare a uno dei ragazzi.» «Non ci andranno mai», rispose Duncan. «Specialmente se là sopra c'è un morto.» «Pagali. Tratta.» «Non esagerare, John. Te l'ho detto e ripetuto, parte di questa gente vive ancora nel decimo secolo, incantesimi, malocchio, spettri con le ali e tutto il corredo. Fanno degli amuleti ai neonati, per proteggerli. Affastellano la legna da ardere contro la porta per tenere lontani i morti. Ho sentito cose che tu non puoi neanche immaginare.» Kleat girò sui tacchi e tornò rapidamente dai fratelli. Per un attimo Molly non si accorse di essere senza macchina fotografica, poi capì a che
gioco stava giocando lui. «Gli sta facendo vedere le statue», disse a Duncan. Corsero dietro a Kleat, ma il danno era fatto. La sua macchina ce l'avevano loro, con le dita sporche sul display. Avevano l'aria esaltata. «Cosa stai combinando?» chiese Duncan. «Ti ho appena fatto un regalo», rispose Kleat. «Adesso parlaci tu. Mungili per benino, tira fuori tutte le provviste del mondo, basta che ci fai arrivare dentro quel cingolato.» «Te lo puoi scordare.» «Sam, vieni qui», lo chiamò Kleat. «Diglielo tu. Questo posto è enorme, potrebbero perlustrarlo per giorni senza trovare quelle statue. E non hanno giorni interi a disposizione. Sta arrivando il tifone. Noi invece sappiamo dove sono e io ho bisogno di qualcuno che faccia arrivare una fune lassù fino a quel VTC. Tanto per cominciare. Questa è gente che sa il fatto suo, quindi mettiamoci al lavoro.» Samnang comunicò il messaggio. Doc, il fratello maggiore, quello con il sak completo - soli e fiamme e linee e puntini dal collo alle dita dei piedi lanciò un'occhiata al blindato e rispose: «Te». Neanche per idea. «Forza», ribatté Kleat in inglese. Indicò lo schermo della macchina fotografica. «Le volete, queste? E noi vi facciamo vedere dove sono. Dai, uno di voialtri eroi della strada, basta soltanto arrampicarsi là sopra. Diglielo, non devono neanche entrarci. Ci basta solo che lo aggancino a una fune. Dopo ci pensiamo noi a tirarlo giù.» Doc disse qualcosa. Samnang tradusse: «Vogliono la sua pistola». «La mia pistola?» «Dicono così. Vogliono le statue e la Glock.» «Ma perché? Siamo già scarsi in potenza di fuoco, con un'arma in tre.» Potenza di fuoco? pensò Molly. «Cosa importa?» chiese Duncan. «Se le ossa ci sono, anche tu avrai quello che vuoi.» «E se non ci sono? Traduci: niente statue finché non entriamo nel cingolato», disse Kleat. «Hanno capito», rispose Samnang. Doc disse qualcosa. Vin restituì la macchina. Duncan e Samnang si scambiarono uno sguardo diffidente. «Ecco la macchina fotografica. Vogliono dare un'occhiata alla pistola. Uno scambio.» «Col cazzo.» La voce di Kleat si era smorzata. Una vena cominciò a pul-
sargli sul cranio. Molly si riprese la macchina. «Vogliono davvero che gli dia la pistola?» «Tu fallo e basta», ribatté Duncan. «Allora tu lo sai, cosa stanno facendo», continuò Kleat. «Non è detto, John. Sta' calmo.» «Questi sono pirati.» «Non alzare la voce, John.» Adesso gli punta la pistola contro, pensò Molly improvvisamente allarmata. Loro gli stavano agitando davanti un'esca. Lo aspettavano al varco. Con gli occhi giallastri scrutavano un punto lontano, fumandosi le sigarette con aria da duri. Ma le dita si erano posate sui fucili. Stavano valutando il peso delle armi, la parabola della traiettoria, il tempo, i bersagli. C'erano tutti i segni premonitori. Molly si vide già a terra, fra i morti. «Ci vado io», disse a un tratto. La sua voce li sconcertò. Kleat serrò le palpebre, sospettando ormai di chiunque. «Là sopra?» «Sì, lasciami spiegare.» Fece un largo sorriso e avanzò tra gli uomini. «Lo so fare, sono brava. È una delle mie specialità: spenzolarmi dalle rocce per portare a casa la pagnotta. Fotografia di montagna. Calendari, riviste... non che sia una campionessa d'arrampicate, ma un albero posso farmelo.» «No», disse Duncan. «A piccoli passi», rispose lei sorridendo. Prese in mano la situazione, li distrasse mettendosi a chiacchierare allegramente. Samnang spiegò la situazione ai fratelli. Vin spalancò gli occhi. Lei lo afferrò e lo portò al centro del gruppo, fucile, annessi e connessi, sconcertando un po' tutti. «Mi servirà una fune. Ne avete una?» chiese. Samnang prese a borbottare adagio. Vin fece con la testa un cenno affermativo e si avviò verso il camion. «E tu», fece Molly a Kleat, «dammi la pistola.» Kleat fece un passo indietro. «Adesso la vuoi tu?» «Senza una protezione non ci salgo di certo. Non sappiamo chi potrebbe abitarci, là dentro.» «Te lo puoi scordare.» «Vuoi o no che ti sistemi la fune? Questo è il mio prezzo. Prestamela.»
«Ti copro io.» Lei tese la mano. «Dammela, subito.» Poi aggiunse piano: «Gran figlio di puttana». Samnang interruppe la traduzione. Le rotelle di Kleat giravano al massimo. Avrebbe potuto rifiutare, ma lei era la sua unica speranza e lui lo sapeva. Erano tutti legati alle sue mosse, e la sua unica possibilità di tenersi la pistola era darla via. Oltre che a lui, la stava togliendo di mano anche ai fratelli... almeno per il momento. Le porse la Glock. «C'è la sicura?» chiese lei osservando l'arma da entrambi i lati. «È una Glock», rispose lui. «Sì, questo lo dicono tutti.» «La sicura è interna», spiegò lui. «Non ti preoccupare.» Lei s'infilò la pistola nei pantaloni, dietro la schiena; lontana dagli occhi, lontana dal cuore. La presa dei fratelli sui rispettivi fucili si allentò, proprio come lei aveva sperato. «Questa tienimela tu», disse Molly a Duncan consegnandogli la macchina fotografica. Lui posò la mano su quella di lei, e sentì che tremava. Il suo tocco la rinfrancò. Poi lui prese la macchina. «Vuoi che ti faccia una foto?» le chiese. Questa era nuova. Nessuno dei suoi soggetti si era mai preso il disturbo di chiederle se volesse essere immortalata. 21 Vin tornò con una corda sintetica marrone, unta e lacera. Molly si avvicinò all'albero e tutti la seguirono. Si mise a dare spettacolo, per tirarli un po' su dopo quella mattinata di pericoli. Alloggiato fra i rami più centrali, il VTC assomigliava a uno strano pesciolino preso in un labirinto di coralli. Molly girò attorno all'albero facendo scorrere i palmi sulla corteccia bianca e fulva. «Sì, può funzionare.» Sciolse la fune e senza guardare si annodò una gassa d'amante intorno alla vita. Si sistemò il nodo sulle reni di modo che la corda le scorresse dietro e non tra le gambe, tanto non le sarebbe servita a niente finché non avesse raggiunto il veicolo. I fratelli si accosciarono per guardare, nell'ennesima nuvola di fumo. Vi faccio neri, pensò lei. Si levò calze e scarpe e le poggiò ordinatamente vicino all'albero. I piedi scalzi facevano più presa, ma anche un po' di teatro. Tastò le pieghe del
tronco, poi saltò su una radice massiccia. «Fate scorrere la fune», disse, «e attenti ai nodi.» Duncan fece un passo avanti e lei partì. L'arrampicata fu rapida. Gli uomini si fecero sempre più piccoli, con le teste buttate all'indietro e le bocche spalancate. A metà lei controllò la presa e simulò uno scivolone. Il pubblico emise un distinto mormorio. «Nessun problema.» Finse di lottare per farsi strada attraverso una pericolosa biforcazione. Però fu molto facile. L'albero le si offrì a poco a poco, formando con i suoi nodi e cavità e rami una scala naturale. Fra la volta di fronde apparve un'intera metropoli, con diramazioni e ponti sospesi di liane aggrovigliate a collegare le grandi torri costituite dai tronchi. Era bello spiccare il volo, allontanarsi dagli umani. Lassù pareva tutto più sensato. Le venne in mente che avrebbe potuto continuare ad arrampicarsi. Sarebbe potuta sparire tra i rami più alti e farla in barba a tutti quei pistoleri. Il pensiero divenne una tentazione. Se si fosse slegata la fune avrebbe potuto penetrare la volta e loro non l'avrebbero mai ripresa. Quel posto era pieno di cibo e nicchie per ripararsi. Noci e manghi e altri frutti esotici penzolavano dai rami come decorazioni da un albero di Natale. «Molly.» Il suo nome, così fioco, come uno stormire di foglie. La foresta era bellissima, e quando lei guardò in basso vide che i suoi sostegni erano svaniti all'interno dell'albero. C'erano sentieri che si dipartivano dai rami enormi. Si sentì come drogata. La foresta era la sua risposta, capì allora. Ma c'era dell'altro. Il messaggio salì come una vampata. Non doveva far altro che darsi agli alberi. Scordarsi degli uomini, che erano ingannevoli. Scordarsi delle piogge, che sarebbero passate. Scordarsi del passato. La foresta avrebbe pensato a tutto. Il blindato mandò in frantumi quella fantasticheria di fuga tra le sommità. Più rapidamente di quanto si fosse aspettata, gli angoli squadrati di metallo, le ruote dentate, i tubi e i cingoli da bulldozer si manifestarono dietro l'angolo. La tentazione andò in pezzi. Per quell'oggetto bruto, non per la libertà, era arrivata fin lì. La rampa di metallo sul retro era invitante quanto una veranda solida. Un passo e sarebbe stata dentro. «Moll-lii.» Uno strattone della fune alla vita. Era Duncan, invisibile al di sotto del fogliame. La chiamò di nuovo, con maggiore insistenza.
Lei prese fiato. Fu come strapparsi da un sogno. «Tutto a posto», gridò verso il basso. Sbirciò l'interno di quell'affare. Il portello aperto in cima contribuiva a illuminare tutti i recessi. C'erano avvisi stampigliati che dicevano PERICOLO - MONOSSIDO DI CARBONIO. Lei fiutò l'aria, ma c'era solo un vago odore di carburante e olio di macchina e fertilizzanti. Guano, si rese conto. Escrementi animali. Il dragone verde era diventato un nido per le creature della foresta. «Io vado dentro», gridò verso il basso. «Cosa?» Lei fece scorrere un po' la fune e compì il piccolo balzo, atterrando scalza e leggera sul metallo fresco. Il veicolo incastrato non si mosse di un centimetro. Un nuovo strattone alla fune, Duncan preoccupato. «Sono dentro. Sono su.» Si sciolse dalla fune e la legò a un anello sul retro del VTC. «Salite, la fune è assicurata.» Nel tettuccio aperto si erano infilati dei rami, e sopra ci crescevano orchidee bianche con i pistilli rossi. Sopra la macchina da guerra intrecciavano i loro voli farfalle dalle ali azzurre e lucenti, grandi come una mano. Morte e vita. Quanto avrebbe voluto la sua macchina fotografica. Sbirciò dalla sommità, e una testa di terracotta era infilzata su un tubo di scappamento. Gli occhi e il viso puntavano in avanti, e lei si sentì grata per questo. Che se ne occupassero gli altri. Ma una volta che ebbe appeso la fune a calare dal blindato, si scoprì che era troppo unta perché gli altri riuscissero a salire. Kleat se l'avvolse intorno ai polsi e si issò di un metro o poco più; la corda scricchiolò ma lui non riuscì a salire oltre. Duncan non ebbe maggiore fortuna. I fratelli non ci provarono neanche. Quella fune era buona solo per il viaggio di ritorno. «Hai fatto quello che dovevi», gridò Duncan all'insù verso Molly. «Adesso scendi.» «Aspetta», vociò Kleat. «E le ossa?» «Non vedo, è troppo buio», gridò lei di rimando. «Ti mandiamo su una torcia», disse lui, «e un sacco per le ossa.» Quella era la cosa che lei aveva sperato di evitare. «Prima la macchina», urlò d'impulso. Attraverso l'obiettivo avrebbe potuto filtrare qualsiasi orrore, prima di doverlo toccare. «Cosa?» «Voglio la macchina fotografica, e un po' d'acqua, e una barretta da
mangiare.» Lo zaino di tela pesava circa sette chili. Lei lo tirò su un pezzetto alla volta e qualcuno, Duncan senza dubbio, ci aveva infilato un pacchetto di M&M's. Dentro c'erano altri due sacchi vuoti: Kleat si aspettava un bel mucchio d'ossa. Molly sedette sul bordo della rampa, con il veicolo alle spalle e i piedi penzoloni, e si mangiò la barretta energetica e le caramelle, e dopo bevve. Poi si alzò, accese la torcia e si mise al lavoro, dentro. 22 Nell'ora che seguì Kleat non fece che chiamare, impaziente. «Perché ci metti tanto?» Poi Molly «Sono tutti dentro?» Duncan invece voleva sapere se stava bene. Ma lei non rispondeva a nessuno. In lontananza si udì il rumore di un tuono. Il monsone si stava preparando o magari era il tifone ad avvicinarsi. Si sarebbe annunciato o sarebbe semplicemente saltato loro addosso? Fu molto scrupolosa, esplorò gli angoli più riposti del veicolo, tastando con un rametto dove temeva ci fossero serpenti. Divenne sempre più ovvio che quella scatola blindata conteneva soltanto domande; le risposte erano nascoste altrove. Affrontò la testa per ultimo, arrampicandosi fino in cima attraverso l'apertura dov'era la mitragliatrice. Dopo un'ora non c'era più niente da trovare. Cominciò ad avvolgersi la corda attorno alle spalle per scendere, poi ci ripensò. Sciolse il nodo marinaro e infilò un capo della fune nel ponticello del grilletto della pistola, poi la legò di nuovo. A quel punto, facendosi penzolare lo zaino dalla cintura, arretrò dalla rampa e tornò a terra in corda doppia. Mentre si allontanava dalla volta frondosa, lanciò uno sguardo in cima alle mura terrazzate e scrutò la città che l'aspettava. La veduta durò solo qualche manciata di centimetri, poi lei sprofondò verso il fondale. Da basso l'aspettavano Kleat e Duncan. «Allora?» chiese il primo. Lei aprì il sacco come Babbo Natale e gli porse la testa. «Ti sbagliavi», disse. Kleat se la tenne a debita distanza. «Che diavolo è questa?» «È un trofeo. L'avevano infilzata su un tubo di scappamento.»
Era la testa di un guerriero di terracotta, il collo costituito da un lungo tassello arrotondato con un buco in fondo. Gli occhi di giada li fissavano truci. I cerchi dipinti erano per lo più svaniti, ma l'espressione era ancora orripilante. «Cos'è, uno scherzo?» domandò Kleat. I fratelli, che guardavano accanto al fuoco, videro che la testa era certamente non umana, e perciò sicura. Si avvicinarono. Ingobbito dalla cuccuma piena d'acqua, anche Samnang la vide. Lui la guardò con un'espressione incredula. «Quegli occhi», disse. «Li hai già visti?» chiese Molly. L'altro non riusciva a staccare lo sguardo. «Una volta», mormorò. «Non posso dimenticarli.» «I soldati devono aver tirato giù la testa dal portale», osservò Duncan. «Come ha detto Molly, un ricordino per dimostrare che ci erano stati. E quindi si stavano preparando a partire. Ma per qualche ragione, non ci sono riusciti.» «È tutto quello che hai trovato?» si informò Kleat. «Niente ossa», rispose lei. «Più che altro era vuoto. C'è una grossa mitragliatrice, coperta di ruggine. E questi.» Gli consegnò una manciata di banconote lacere. «Tagliandi governativi per le razioni», affermò Kleat. «Sul campo non si usavano i dollari.» «E queste.» Tirò fuori un corredo di mappe plastificate. Quelle le prese Duncan. «Ottimo», si congratulò, «davvero ottimo. Queste potrebbero rivelarci dove stavano andando e perché erano arrivati qui. E dove siamo noi.» «Voi pensate che sia finita qui?» continuò Kleat. Gettò via i foglietti. «Soldi del Monopoli, un pezzo di artigianato locale e delle cartine?» «No.» Per sé e per Duncan, Molly voleva la città. Ma avrebbero dovuto venire a patti, ancora un per un po', con la fame di Kleat e i saccheggi dei fratelli. In qualche modo, lei e Duncan potevano volgere quella faccenda a proprio vantaggio, ma avrebbero dovuto pagare un prezzo. Quanto alto, era il problema: «Continueremo a cercare i soldati. Quella è la prima cosa». La seconda sarebbe stata sbarazzarsi di lui. Kleat tese una mano in avanti. «La pistola.» Non se l'era dimenticata. Lei si portò una mano dietro la schiena. Piantò i piedi a terra. In testa si era già fatta le prove. Appena avesse aperto bocca, lui sarebbe uscito di cervello e probabilmente l'avrebbe colpita, ma non se lei riusciva a evitar-
lo. Senza una parola, gli sferrò un pugno descrivendo un arco con il braccio. Non fu aggraziato come la sventola di un boxeur professionista e neanche troppo veloce; e la sorpresa di lui fu quasi triste a vedersi. Il viso si girò appena. Lei lo aveva colpito all'orecchio. La botta le corse su per tutto il braccio. Kleat rovinò a terra con un urlo bestiale. La testa di terracotta gli era caduta dalle mani, rotolando via sulle foglie. I fratelli tacquero, attoniti. Quella femmina prima lo aveva preso a ceffoni, poi lo aveva buttato a terra; a loro la faccenda sembrava davvero incredibile. Sembrava strana anche a lei. «Non l'ho portata giù» disse Molly ansante. Kleat la guardò. La sua espressione vacua stava cambiando, la rabbia ingranava la marcia. «L'ho lasciata su» ripeté lei ad alta voce. «Prima che qualcuno ci rimettesse la pelle.» Le vene riaffiorarono come lombrichi. «Lo sai cosa hai fatto?» le gridò lui. Grazie al cielo Duncan si riscosse. Si mise tra i due, costringendo Molly ad arretrare. Rimase davanti a Kleat. «Non importa», affermò, «ormai è fatto. Non è finita, è solo cambiata. Io sto con Molly.» «Voi due.» L'altro sputò ai piedi di Duncan. Dall'orecchio gli gocciolava un filo di sangue. Lei non avrebbe voluto arrivare a tanto, e sperò che l'orecchio fosse a posto. «Quella pistola era una stampella», seguitò Duncan. «Tu sei una minaccia per tutti.» Nel frattempo, Doc aveva raccolto la testa e la stava fissando negli occhi di giada. I suoi fratelli gli si raccolsero intorno. «Tu adesso torni su», urlò Kleat. «No, te lo puoi scordare», ribatté Duncan. «In quel cingolato non c'è più niente da trovare. I soldati sono andati da qualche altra parte, e noi faremo quello che ha detto Molly, continueremo a cercarli.» S'interruppe, lanciando un'occhiata a Doc. «Raccogliendo bottino.» Tese la mano a Kleat per aiutarlo a rialzarsi, ma lui ovviamente la rifiutò. Consumarono un pasto frettoloso mentre i fratelli rovistavano nel camion in cerca di sacchi per trasportare i resti. Molly vide la testa di terracotta poggiata sul sedile anteriore, un funesto passeggero. Duncan studiava
la cartina che lei aveva portato giù. «Si vedono ancora dei segni di matita», disse. «A Snuol sono andati a est e poi hanno proseguito. Chissà perché? La nebbia della guerra. Ma la cosa interessante non è la cartina, o dove loro pensassero di essere o non essere. Sono queste noticine a margine.» Voltò la mappa per far vedere a Molly e la luce si riflesse sulla plastica vecchia e stazzonata. Lei dovette separare uno strato di realtà dall'altro, le linee di contorno sottostanti e i nomi stampati sulla carta. Accanto a un cerchio sulla strada c'erano quattro numeri. «'Due quattro, zero sei'», lesse ad alta voce. «Coordinate geografiche?» «È una data, valida come quella di un registro. Ventiquattro giugno.» Lei restituì a Duncan la mappa perché la desse a Kleat, il quale reggeva immusonito la propria scodella, convinto che ormai fossero tutti prigionieri dei cambogiani. Duncan cercò di coinvolgerlo. «Hai detto che sono spariti il ventitré giugno; questi segni indicano che un giorno più tardi stavano ancora cercando la strada.» «Verso dove, però?» chiese lei. «Non qui», affermò Kleat, «quello è certo. Avevano una data di rientro.» «E tu come lo sai?» chiese Duncan. «Perché sei giorni dopo le forze statunitensi si ritirarono dalla Cambogia. Nixon era sotto assedio. I traditori della Kent State aveva scatenato un putiferio.» Molly si era chiesta quando e come sarebbero tornati su quell'argomento. «Anche quelli che hanno ammazzato laggiù erano figli dell'America», osservò Duncan. «Solo pedine», ribatté Kleat. «È storia vecchia», disse lei. «Tu continui a guardare indietro.» «Sto semplicemente dissezionando un fatto. Evidenziando dei legami. E degli inganni», affermò Kleat. «È la storia, il nostro indizio. I disordini alla Kent State hanno causato la morte degli uomini dell'Undicesimo cavalleria che erano qui. Mentre le nostre truppe si facevano massacrare in queste giungle, i rampolli del college con i loro jeans a zampa e le magliette tinte a mano stavano legando le mani al presidente.» Duncan non si lasciò provocare. Lasciò che Kleat si sfogasse. «Invadere la Cambogia era stato un colpo da maestri», continuò l'altro. «Poi la Kent State saltò in aria e noi dovemmo restituire nascondigli e ri-
fugi al nemico. La data di ripiegamento era il ventinove. Quello fu il giorno in cui le ultime truppe americane uscirono dalla Cambogia. Tutte, tranne questi uomini.» «Pensavo che il motto fosse 'Non si lascia indietro nessuno'», azzardò Molly. «Nei limiti del ragionevole», disse Kleat. «L'orologio correva. Tutta la zona di confine stava per tornare sotto il controllo nemico. Questi ragazzi avevano due possibilità... continuare a muoversi nelle campagne, oppure infilarsi in qualche buco e pregare. Il loro ufficiale comandante scelse il buco. Fu lui a decidere. Chiunque fosse quel bastardo, è come se avesse premuto lui il grilletto.» 23 Era l'una in punto, per quanto poteva dire lei da sotto la campana verde del fogliame, quando la spedizione si divise in tre squadre. Kleat era ancora furibondo per la perdita della pistola, ma i fratelli Heng trattavano Molly come se fosse lei il capo. «Rambo», la chiamavano, ancora sgomenti all'idea che una donna potesse menare come un uomo. Come ricompensa l'appaiarono a Samnang e le permisero di tenersi la macchina fotografica. Duncan fu spedito dal fratello di mezzo, So. Kleat salì la scalinata sotto la guardia di Doc e Vin. Doc fece capire chiaramente che la prima cosa da fare era trovare i guardiani di terracotta al portale sul retro. Ma se lungo la strada fosse capitato di trovare anche delle ossa americane, andava bene. Nessuno parlò più di scioperi. Per il momento, l'idea di partire era discutibile, e l'idea di qualche dollaro extra impallidiva davanti alla prospettiva di reperti impagabili. Portando in spalla gli zaini di tela, il borsone svuotato di Molly e persino mazzi di sacchetti di plastica azzurra come quelli delle rosticcerie, i cercatori cominciarono l'ascensione alla città. Molly e Samnang rimasero presto indietro. Erano i più liberi, pensò lei: i fratelli si aspettavano poco o niente da un vecchio senza una gamba. Ogni tanto lei si sedeva per «godersi il panorama» o per «riposarsi le ginocchia.» Ma Samnang non ci cascava. «Lei è una donna pericolosa», la stuzzicò. «Ci fa credere di essere più forti di quanto siamo davvero.» «Faccio sul serio», rispose lei. «L'arrampicata su quell'albero mi ha distrutto.»
«Sì, certo, e io ho un bel paio di gambe», disse lui. Da metà scalinata, il loro campo sembrava preso a prestito dalla foresta. Il capanno verde era già circondato dall'avanzare furtivo dell'erba. Il fuoco era ricoperto di cenere grigia. Sentirono Kleat discutere, alto sopra le loro teste. Uno dei fratelli, probabilmente Doc, lo rimise al suo posto. La discussione si esaurì. «Ho fatto la cosa sbagliata?» chiese a Samnang. Lui capì a che cosa alludeva. Disarmando Kleat, li aveva privati di difese, adesso erano alla mercé dei fratelli, del tifone e del destino. «Lei ha strappato al serpente il dente avvelenato, e gli ha lasciato la vita. Adesso dipende da lui, cosa fare del suo veleno. Quanto agli altri, i loro cuori sono ancora incerti.» «I fratelli ti trattano male.» «Danno la colpa a me delle loro disgrazie», disse Samnang. «È naturale. Vede, io sono sopravvissuto, ma i loro genitori no. Anche loro si portano dentro il veleno. Dobbiamo aspettare che decidano cosa farne.» Era l'accenno più preciso che avesse mai fatto agli anni di Pol Pot. Molly attese che parlasse di qualcos'altro, ma Samnang tacque. Lei avrebbe potuto fargli delle domande, però si disse che non importava chi lui fosse stato ma solo chi era diventato, quel vecchio e delicato pellegrino. Raggiunsero la sommità della scalinata e scoprirono che gli altri erano spariti. Si avviarono tra le rovine, passeggiando lentamente, ed entrambi ricordarono le mattine insieme, prima dell'alba, sul luogo del disastro aereo. Lei pensò al pilota, poi ai soldati del reggimento Blackhorse. «Possono essere andati ovunque», osservò. Samnang scrutava il terreno. «Il signor O'Brian è andato da questa parte con il fratello di mezzo», affermò. «Il signor Kleat invece è passato di qui con gli altri ragazzi.» Ragazzi, li chiamava. «Mi riferivo ai soldati dispersi.» «Noi abbiamo un detto, 'non disperare se il fiume è tortuoso'», replicò Samnang. «Pazienti. Saranno loro a venire da noi.» Proseguirono dritti, seguendo un viale che un tempo era stato ampio e ordinato, tra le guglie e i templi e i palazzi. Le lastre erano state divelte dalle radici e da altre forze sotterranee. La foresta offuscava la vista. Ai lati di baniani di proporzioni mostruose videro altri alberi e altri edifici. Anche eliminando la vegetazione e riportando l'ordine, la città sarebbe rimasta complicata come il bouquet di un profumo. I canali, le vie laterali e il viale serpeggiante formavano un rompicapo; se anche gli architetti non l'aveva-
no progettata come un labirinto, la città si era fatta labirintica da sé. A mano a mano che si addentravano fra le rovine, Samnang prese a fare nodi intrecciati con l'erba e a piegare gli arbusti a forma di «O» per segnare il percorso; la cosa fece sentire Molly un po' meno stupida. Dunque non era la sola, a sentirsi sopraffatta da quel posto. Era un regno d'occhi, quelli delle teste enormi che scrutavano il loro passaggio. Molly tentò d'immaginarsi i soldati del Blackhorse che si aggiravano qua e là per le rovine, rapiti dalla sua stessa tacita meraviglia, fucili alla mano. Là dentro c'erano migliaia di nascondigli, e lei si rese conto che i militari non avrebbero certo lasciato le proprie ossa in bella vista. Erano combattenti addestrati per la giungla: si sarebbero certo incuneati nei recessi più nascosti, seppellendosi dove il nemico non avrebbe potuto individuarli. Che possibilità aveva un civile non addestrato di trovarli, una generazione dopo? Raggiunsero un quadrilatero al centro della città. O meglio, lei e Samnang decisero che quello doveva essere il centro. Là, in un'ampia piazza, o forse era un parco assalito da erbe e piante, si incontravano quattro viali. Proprio nel mezzo, a dominare la città, sorgeva una torre. Era una curiosa struttura ibrida, tonda e squadrata al tempo stesso. Aveva una decina di lati angolari e altrettanti livelli, i quali tuttavia erano in realtà un solo piano che saliva in un'unica rigida spirale. Intorno all'esterno s'incurvava una scala a chiocciola, nella quale si aprivano delle porte. La torre s'innalzava fra gli alberi, e dentro e fuori le porte più alte svolazzavano pappagalli. Le pareti erano tutte istoriate di bassorilievi come quelli del canyon che lei e Duncan avevano trovato il giorno prima. Quella torre era un enorme libro di storia. Samnang riconobbe alcune delle immagini, fermandosi qua e là a giungere le mani e chinare il capo. Spiegò quello che poté, le scene dal Bhagavad Gita e gli stadi, simili a stazioni di una via crucis, dell'illuminazione del Buddha. «Tutto questo risale alle origini del mio popolo», affermò. «Ma moltissimo mi sfugge. I re, l'alfabeto, le battaglie, dovrei conoscere tutto. Sono cambogiano. E infatti lo conosco, qui.» Si sfiorò il petto. «Ma non qui.» La testa. «Tutto questo è stato prima del regno di Angkor, molto prima.» «Duncan ritiene che possa avere duemila anni», disse lei. «Già, Duncan», rispose Samnang. «Ne ha fatto la sua spécialité.» «Crede che abbia fatto da modello per Angkor Vat.» Samnang la guardò. «La cittadella di Angkor e questo posto, come la Cappella Sistina o Notre-Dame, sono espressioni di un'idea. Come le sta-
tue del Buddha o il Dio di Michelangelo con la barba bianca, tentativi mirabili di immaginare il volto di ciò che non ha volto.» «Sei stato alla Cappella Sistina?» chiese lei, sperando che lui potesse dire di più sul suo passato. «In un'altra vita», fu la risposta. Lei lasciò perdere. La luce verde svaniva piano piano. Da qualche parte sopra il loro emisfero di rami e foglie, nubi di tempesta stavano oscurando un sole che loro non riuscivano a vedere. Il rumore di un tuono. Si udì una raffica di mitra. Una delle squadre aveva scoperto il portale e le statue di terracotta. Gli altri li avrebbero seguiti. «Andiamo da loro?» chiese Molly. «Le statue sono una cosa che lei desidera?» «No. Hai visto la testa. Quegli occhi. Sono terribili.» «E allora non lasciamo che il desiderio ci faccia soffrire», disse Samnang. «Possiamo rimanere qui, sordi al mondo. In ogni caso, ammireremo i tesori stasera al campo.» Continuarono il giro e s'imbatterono in un nome. Inciso a lettere squadrate e profonde tra i bassorilievi, C.K. WATTS. Sotto c'era una data: 20/8/70. Molly alzò lo sguardo verso la torre. Improvvisamente la cosa sembrò logica. «Da lassù si poteva vedere tutta la città. Credo che siano andati là.» «Fra gli uccelli», aggiunse lui. «Ma certo.» Lei fece scorrere le dita sull'incisione. Secondo le mappe trovate nel cingolato, le anime perse dell'Undicesimo cavalleria erano arrivate alla fortezza intorno al 24 giugno, se non quel giorno stesso. Se la data del graffito era giusta, i soldati erano rimasti là a languire, vivi, per altre sette settimane o anche oltre. Quel pensiero la commosse. Non si erano semplicemente ficcati in qualche tana in attesa di vedersela con il nemico: si erano fatti una casa lì, e avevano trovato il tempo di vagare tra le rovine. Almeno uno di loro era passato accanto alle storie scolpite in quelle mura. Controllò se ci fosse un qualche contesto specifico per il nome, e vide che era inciso sotto una mostruosa sagoma di guerriero, una delle iraconde divinità di Duncan, con una tigre avvolta intorno alle gambe. La figura sfoggiava una collana di teste mozzate. Scattò una foto del nome e del massacratore di demoni. Di certo C.K. Watts non avrebbe mai saputo che lì era rappresentato un massacro rituale
dell'ignoranza... quanta ironia, però, in un ragazzo americano armato di mitra e pugnale, perso e vulnerabile, che inconsciamente faceva appello a un'antica saggezza. Più facile che fosse stato conquistato dalla ferocia dell'immagine. «Quindi sono quattro», disse Molly. «Lui, più le tre piastrine.» La torre arrivava fino allo strato mediano della volta. La scala ritorta si snodava verso l'alto, offrendo l'accesso a decine di porte spalancate. Dovevano essercene centoquattro, ricordò. Forse, piano piano, stava cominciando a capire il luogo. «Credo che il signor O'Brian e il signor Kleat saranno interessati», disse Samnang. «Vorranno venire qui.» Lei promise di aspettare lì mentre il vecchio andava in cerca degli altri. Scomparve in un fitto di guglie e alberi nella direzione dello sparo. L'orologio di Molly segnava le dieci del mattino del giorno precedente. La lancetta dei minuti scorreva pianissimo. Lei dovette trattenersi. Con l'obiettivo si mise a inseguire un piccolo geco bianco a macchie rosse. Però i secondi si trascinavano eterni, e lei mordeva il freno. I gradini erano proprio lì davanti ai suoi occhi. E i fratelli potevano aver costretto Samnang a trasportare il loro bottino. Anche se avessero lasciato Kleat e Duncan liberi di visitare la torre, potevano volerci altre due ore prima che arrivassero. Il pomeriggio marciava spedito. Forse la torre non si sarebbe potuta esplorare fino al giorno dopo. E chissà che cosa poteva succedere il giorno dopo. Aspettare era assurdo. 24 Salì lentamente la scala a chiocciola. La torre conteneva delle risposte, lei ne era certa. Un tempo, da quella altezza potevano spaziare sull'intera città, magari fino alle pianure lontane dell'ovest: un picco costruito dall'uomo in cima a una montagna. Anche con l'invasione della foresta, la torre era comunque il punto di osservazione più alto. Avrebbe costituito per i soldati una fortezza verticale, con un alveare di porte da cui scrutare l'arrivo del nemico. Gli scalini larghi e alti salivano a spirale in senso orario. Da bambina, i suoi genitori adottivi l'avevano portata a Washington e lei ricordava ancora i gradini di marmo erosi da milioni di passi. A quelli che stava salendo adesso doveva aggiungere anche secoli e secoli di piogge. La parte interna degli scalini si era consumata fino a diventare un'unica canaletta di deflus-
so dell'acqua, il che costringeva Molly a procedere dal lato più esterno dove i gradini dondolavano sotto il suo peso, e uno scivolone le sarebbe stato fatale. Ma lei sentiva solo un crescente senso di autorità. Alla sua sinistra la città dipanava il proprio labirinto, un grande incrocio con la torre al centro. Molly individuò altri canali, vicoli e corridoi che si dipartivano, senza pietre miliari a quanto poteva vedere lei. Anche da quell'altezza, le piramidi periferiche sembravano identiche. Quel posto pareva fatto apposta per perdersi. Alla sua destra le porte si spalancavano su grotte adorne. Dentro si intravedevano statue e sculture, ed era assolutamente possibile che contenessero altri reperti e graffiti dell'Undicesimo. Le avrebbe visitate un altro giorno. Adesso lei voleva vedere che cosa c'era in cima. Un altro tuono. Le liane pendevano come pioggia vista al rallentatore. Molly raggiunse la sommità, che ospitava una struttura bombata. Esitò davanti all'ingresso, all'ultima porta. Di lato giaceva una statua di forma femminile, in pezzi. La sua gemella, un'amazzone seminuda con seni tondi come palle da bowling, faceva la guardia all'altro lato della porta con una spada di pietra, la cui punta le poggiava fra i piedi. La sentinella superava Molly di tutta la testa ed era sensuale e bellissima, decisamente diversa dallo sguardo bestiale dei guerrieri di pietra. Per il momento lasciò perdere le foto. Aveva bisogno di Duncan o di Samnang per avere un confronto in altezza. Non di Kleat. Quando fosse arrivato il momento di scrivere il suo racconto, non voleva dover spiegare la sua presenza. I visi scolpiti sulle guglie più distanti sembravano abbassare gli occhi davanti alla torre. Lei sbirciò dal bordo cercando di vedere gli altri; riusciva a sentirne le voci dalla foresta: la stavano chiamando. Ma la piazza era vuota. Meglio, pensò. La torre sarebbe stata tutta sua ancora per qualche minuto. Oltrepassò la soglia di pietra e trovò che l'interno della stanza era molto luminoso. Nel tetto c'era un'apertura rettangolare, così grande che lei ritenne dovesse essere stata costruita per fungere da osservatorio. Adesso non c'erano né sole né stelle da vedere, solo il manto verde; le foglie avevano formato un tappeto spesso e marcescente da un muro all'altro. L'odore, non spiacevole, ricordava la torba. La parete opposta era decorata con piccoli Buddha, o almeno ciò che ne restava. Uno accanto all'altro, sedevano comodi nella loro nicchia. Li contò: tredici. Il lucernario era stato costruito per illuminarli. Un tempo, quel-
l'esposizione doveva essere stata molto solenne. Ma il tempo non era stato galantuomo. L'estremità più lontana della parete con le statue era in macerie. I visi erano ritornati pietra grezza; solo i tronchi erano stati risparmiati. Le lunghe dita affusolate s'intrecciavano in gesti rituali, come mute segnalazioni per iniziati. Molly s'immaginò principi e monaci là in meditazione, a levare orazioni al cielo attraverso l'apertura. Tanto tempo prima, quella stanza doveva essere stata un luogo di transito verso il sacro. Dopo qualche istante distolse gli occhi dai Buddha e si accorse che tutt'attorno erano sparsi resti dell'Undicesimo reggimento. Si voltò lentamente e scoprì un garbuglio di giberne verdi con gli occhielli di metallo consumati, uno stivale in decomposizione e un caricatore per mitra con ancora tutti i proiettili. Alle pareti erano allineate cataste di roba. I soldati, alcuni tra loro almeno, si erano ritirati in quel locale. Molly si comportò come sulla scena di un crimine: non toccò nulla, documentò tutto con la macchina fotografica, memorizzò la sequenza delle proprie azioni. Si muoveva sulle punte con la delicatezza di una ballerina classica. Con il teleobiettivo riuscì a individuare, oltre le foglie, alcune cassette per munizioni vuote. Due erano rovesciate mentre una era ancora diritta, piena per metà di acqua stagnante. Sopra ci svolazzava una libellula bianca e nera, ed ecco un'altra bella foto. Trovò, ma si guardò bene dal toccare, uno spazzolino da denti con le setole spiaccicate per il troppo uso. Un ragazzo che aveva continuato a dare retta alla mamma: igiene orale fino alla morte. Le casse ammassate erano marcite e si erano spalancate, facendo rovinare valanghe di contenuto sul pavimento. C'era una torcia con la lente rossa, che sembrava uscita da un fumetto di Dick Tracy. Un giubbotto antiproiettile stava appoggiato al muro, vuoto. Un fucile M-16 rotto giaceva da un lato. Dentro la canna era cresciuto un viticcio, ed era sbucato dalla camera di scoppio inceppata. In cima, come un bossolo a metà volo, un piccolo fiore bianco. Era come se lì i soldati si fossero liberati di se stessi. A mano a mano che gli occhi di Molly si abituavano alla luce, la stanza si fece più definita. I Buddha erano stati cancellati, ma non dagli elementi: dal fuoco delle mitragliatrici. La sezione crollata era stata fatta saltare con la dinamite, o colpita da un razzo. Pallottole, a centinaia, deturpavano in lunghe raffiche penetranti la pare-
te dov'erano le statue. Lei cercò di rimettere insieme i pezzi di quel disperato conflitto a fuoco. I nemici si erano forse calati dal tetto? Oppure erano entrati di colpo dalla porta e preso a sventagliate di mitra gli americani accucciati sotto le statue? Quel posto avrebbe dovuto essere un cumulo d'ossa. E invece Molly non ne vedeva neanche uno. Erano stati dispersi dagli animali, oppure i vincitori li avevano portati fuori e gettati dalla torre? Forse, salendo, ne aveva superati pezzi e frammenti, senza saperlo? Una parte di lei non voleva proprio trovarle, quelle ossa. Si aggrappò all'idea di quegli uomini, risucchiati attraverso il buco nel tetto, assunti anima e corpo in cielo nel giorno del giudizio. Sorvolò due volte sulle mani, prima di riconoscerle. Ce n'erano due, in un angolo, sotto qualcosa di bruciacchiato, le ossa ricoperte di pelle nera essiccata. Avvicinò l'immagine con il teleobiettivo, evitando di muoversi. E di lato, quelle non erano forse altre ossa? Vide dei bastoncini, legnetti bruciati. Una cremazione? Ma la pira era troppo piccola. Non più grande dei fuocherelli di Samnang. Le mani si erano mummificate con gli anni. O erano state affumicate dal fuoco. Qualcuno le aveva mozzate. Finalmente capì. Cannibalismo. Intrappolati, devastati dalla paura, senza cibo, dovevano aver mangiato i compagni. Una risata, anzi un guaito, eruppe nella stanza. Le tornò in mente il riso animale di Luke, ma lassù non poteva trattarsi di lui. Molly guardò ed eccoli là, in tre stavolta, come quello che aveva visto nella torretta del cingolato. Mentre lei perlustrava la stanza, i gibboni si erano arrampicati in silenzio e si erano appollaiati sul bordo del lucernario. Avevano mascherine nere sul muso e braccia grigie. Il battito del suo cuore rallentò. Fece loro una foto, giusto per riprendere il controllo. «Ehi», disse. «Sto solo dando un'occhiata.» Uno si chinò in avanti e aprì la bocca a scoprire i denti. Stavano per attaccarla? Ma gli occhi rimasero fissi su quelli di lei, e le parve che l'animale stesse facendo un tentativo di capire la sua lingua. Cosa che la spaventò più dei denti scoperti. La stavano studiando, e lei era sola. Attenta a non dar loro le spalle, Molly cominciò ad arretrare dal centro
della stanza. Qualcosa scricchiolò sotto il tappeto di foglie. Gusci di noce? Lei spostò un piede e, qualunque cosa ci fosse là sotto, si mosse a sua volta. Ossa, pensò lei. Qual era l'eufemismo che usavano gli antropologi? Un «cumulo». Stava camminando su un tappeto di rifiuti di cannibali. Di colpo le scimmie si diedero alla fuga. «Cosa ci fai qui, Molly?» La voce di Kleat, sulla soglia. «Sam ha detto che avresti aspettato.» Lei espirò lentamente. «Sapevo che stavate arrivando. Ho sentito le voci.» «Le nostre? Non credo proprio. Quel vecchio storpio ci ha fatto correre, per venire a salvarti. Eravamo troppo occupati a prendere fiato per parlare.» Allora aveva sentito un canto di uccelli, o un gemito di fronde. O le scimmie che discutevano. Niente di che. «Abbiamo trovato un altro portale», disse Kleat. «Con i guerrieri di argilla, e stanze piene di vasi e ceramiche. E il passaggio bloccato con il filo spinato. Quindi ci sono tre ingressi, compreso quello che secondo Samnang avete trovato voi.» Era fermo sulla porta. C'era qualcosa nella stanza che lo disturbava, metteva in crisi la sua spavalderia. Non voleva entrare. «Dov'è Duncan?» chiese lei. «A metà scala. Che striscia mani e piedi. Mai visto un così brutto caso di vertigini.» Kleat proprio non si staccava dalla soglia. «Non avresti dovuto venire qui da sola. Avresti potuto distruggere delle prove.» In quella apparve Duncan, e in effetti aveva le ginocchia lerce. I due uomini rimasero là, bloccando la luce. Aspettavano forse un invito? «Loro sono stati qui», affermò Molly. Per ultimo arrivò Samnang. S'infilò tra i due americani e vide le rovine dei Buddha, e le sue mani si giunsero in preghiera come due calamite. S'inchinò solennemente. Il suo ingresso sembrò rompere l'incantesimo; anche gli altri due entrarono. Molly aveva immaginato che Kleat si sarebbe gettato sul contenuto della stanza come un lupo: invece si muoveva cauto. Osservò che cosa li attirasse. Kleat andò verso il fucile con il calcio rotto. Samnang gravitava nei pressi del muro che ospitava le statue. Duncan vacillava, muovendosi lungo il perimetro. Sollevò una giberna e poi la lasciò ricadere, fece scorrere un dito sul piede di un Buddha sinistrato, poi scosse tristemente il capo. Infine trovò il guscio di un apparecchio radio
appoggiato contro un muro, e quello lo rapì. Molly era rimasta vicino al centro, circondata dai loro movimenti, a fotografarli mentre facevano quelle scoperte, ad aspettare. La radio era smontata, in parte. Duncan fece scattare su e giù gli interruttori ma ovviamente l'apparecchio era morto. «Ci sono due mani», disse lei indicandole. «Mani?» ripeté Kleat. Portò i pezzi del fucile con sé in quell'angolo. Fece da parte i rametti e si posò una delle mani essiccate sopra il palmo aperto. Era piccola. Troppo piccola, si accorse Molly. «Scimmie», dichiarò Kleat. «Scimmie?» «Gli uomini avevano finito i viveri.» Poi Kleat la guardò. «Hai pensato che fossero umane? Non mi dire. Mangiatori di morti in tuta mimetica.» «No.» Duncan ricominciò a trafficare. «Ehi!» esclamò tirando fuori un transistor tubolare. Lo tenne fermo alla luce. «Guardate qui.» Portò l'oggetto a Molly, e Kleat li raggiunse. Sentì anche lui lo scricchiolio sotto i piedi. «Che cos'è?» Schiacciò le foglie con la suola. Duncan gli mostrò la sua scoperta. «È un preservativo», disse, «e dentro c'è qualcosa.» In effetti si trattava di un profilattico, teso sopra a un corto tubo e annodato all'estremità. Duncan strappò il nodo e aprì l'involucro, portando alla luce alcuni fogli. Le pagine erano fragilissime, e lui non tentò di aprirle. «Dev'essere un diario. O un testamento.» Esaminò l'esterno del rotolo. «Ma la pioggia è riuscita a entrare e l'inchiostro è sbiadito. È rovinato.» «Qualche parola c'è ancora», osservò Molly. «Magari con un po' più di luce...» «Ma che diavolo è questa roba?» chiese nuovamente Kleat, saltando da un piede all'altro. Ossa che si spezzano, pensò lei. Ossa di scimmia o di scoiattolo o di pappagallo, qualunque cosa degli uomini affamati potessero trovare nella foresta. Kleat infilò un dito sotto il tappeto di foglie. Sollevò un lungo frammento rivelando così il pavimento di pietra rossa. Non erano resti ossei, ma bossoli. Duncan s'infilò le carte in tasca, e Molly contribuì a ripulire un altro po' di pavimento. Era completamente ricoperto di bossoli d'ottone. «Adesso sappiamo dove sono finite le mitragliatrici laterali del VTC»,
affermò Kleat. «Queste sono cartucce di M-60. Devono aver tolto le armi dal mezzo ed essersele portate quassù. Guardate bene, qua dentro c'è stata l'apocalisse.» Molly raccolse un bossolo dal pavimento, e ne uscì uno scarafaggio. Lo lasciò subito ricadere. «Qui c'è dell'altro», disse Duncan facendo scorrere le dita su un'ampia striscia nera. Tutti e tre insieme scostarono ancora un po' di foglie e detriti. Ne emerse una grande linea ricurva, dipinta sul pavimento con olio di motore. Di lato alla prima ne apparve un'altra. «È un SOS», disse Duncan. Non ebbero bisogno di scoprire tutta la scritta: poteva essere lunga dieci metri da parte a parte, ed era segnata direttamente sotto il lucernario. Tutti alzarono lo sguardo verso il soffitto della foresta. «Devono aver ritagliato un buco in quella volta, oppure l'hanno incendiata con il carburante», ipotizzò Kleat. «Stavano cercando di chiedere aiuto.» «Ma chi li avrebbe visti?» chiese Molly. «Un elicottero di passaggio. Caccia ricognitori. Il nostro pilota.» Come la preghiera di un bimbo, pensò Molly. I soldati erano morti esprimendo i loro desideri al cielo. «Il quadro si ricompone», affermò Kleat. «La torre è stata la loro ultima fermata. Una base di fuoco migliore non poteva esserci. I nemici erano costretti a salire le scale uno alla volta. Ma quanto potevano resistere nove uomini? Alla fine devono essere arrivati al corpo a corpo.» «Ci ho pensato anch'io», aggiunse Duncan. «Ma allora dovrebbero esserci ossa dappertutto, qui.» «La cosa è strana», osservò Samnang dietro di loro. Si era spostato dai Buddha alla porta, e stava facendo scorrere le dita lungo il muro posteriore. Poi si avvicinò a loro. Smosse un po' le cartucce con un bastoncino, e un'intera colonia di blatte cominciò a sciamare intorno ai loro piedi. «Tutta questa roba viene da armi americane», continuò Samnang. «M60, qui, e questo e quest'altro sono di un M-16.» Molly si sentì gli occhi di Kleat addosso, e capì che cosa stava pensando: un khmer rosso. Il vecchio guerrigliero si stava rivelando. «Questa è una miccia per esplosivo al plastico.» Samnang sollevò un giro di corda. «Il che spiega i danni sulla parete opposta. Plastique C4. E
questi li ho tirati fuori dal muro.» Aprì la mano e mostrò loro una decina di proiettili di piombo. «Sono tutti di armi americane. Non basta: in teoria il fuoco dovrebbe essere stato diretto verso la porta, no? Invece lì il muro è liscio, intatto, guardate anche voi. Solo la parete con le statue è stata danneggiata. Solo quelle sono state prese come bersagli.» «Dove vuoi andare a parare?» chiese Kleat. «Io ho guardato bene», rispose Samnang, «e non c'è traccia di nemici.» La voce di Kleat divenne un ringhio. «Ma qui si sono difesi fino alla morte.» «Può darsi», replicò Samnang. «Ma da chi?» «E va bene.» Kleat gli fece il verso. «Da chi?» Il vecchio lasciò cadere a terra le pallottole deformate. «Âmes damnées», disse. Il suo francese era come una musica. Kleat sussultò. «Cosa?» La voce si perse in un sussurro. L'espressione da duro si accartocciò. Fece un passo indietro come se i proiettili fossero stati velenosi. Molly vide che voleva allontanarsi da Samnang. Gli occhi spalancati dietro le lenti spesse, pareva sconvolto. Incerta su come interpretare l'improvviso cedimento di Kleat, tradusse: «Anime dannate». «Angeli caduti», rispose Samnang, imperturbabile di fronte alla ritirata di Kleat. «È solo una congettura. Però, se i soldati si fossero rivoltati gli uni contro gli altri?» «'Fanculo», disse Kleat. Molly però non capì bene se stesse liquidando l'ipotesi o il suo autore. O qualcos'altro. Guardava fisso Samnang. «Come interpretare il coltello, se no?» chiese quest'ultimo. Kleat batté le palpebre. «Quale coltello?» Seguirono tutti Samnang vicino al muro dei Buddha. Molly non l'aveva colto con il teleobiettivo: e bisognava guardare di lato per vederlo, piantato fino all'elsa in una crepa tra i blocchi di pietra, con il manico che sporgeva. Samnang lasciò loro il tempo di osservare l'arma bianca. Visti da vicino, i Buddha sembravano smangiati da una malattia. La presenza della lama era deliberata, come a rappresentare un verdetto, o una dissacrazione. «È un coltello da combattimento K-bar», disse Kleat recuperando qualche certezza. «Io non ho altro da interpretare.» «Ma perché qualcuno dovrebbe volerlo ficcare in un muro di pietre?» chiese Molly. «E di tutti i muri possibili, proprio in questo.» «E io cosa ne so?»
«È un segno di rabbia. Come per aggiungere le beffe al danno.» «Guarda che stiamo parlando di un sasso», ribatté Kleat, «in una città morta.» «Però Molly ha ragione», interloquì Duncan. «Sembra un po'... eccessivo.» «Eccessivo», sbuffò Kleat. «Stavano combattendo per salvarsi la vita.» «Comunque Samnang non ha torto. Questa è l'unica parete danneggiata, e poi vedi che sono state bersagliate solo le facce dei Buddha? Questo coltello non è arrivato qui per caso. Qualcuno ha trovato una fessura nella pietra e ci ha martellato dentro con tutta la sua forza. Questa non è una battaglia, è una firma.» «E cosa importa?» domandò Kleat. «È solo un mucchio di vecchie statue.» Afferrò il manico che sporgeva. Si sta riarmando, pensò Molly. E va bene. Tanto è solo un vecchio coltello arrugginito. Kleat si mise a tirare, ma il muro resistette. Lui premette l'altra mano sulla pietra e tirò di nuovo. Proprio allora un tuono esplose al di sopra della volta. Così vicino che a Molly tremarono le ginocchia. Sentì odore di ozono, una zaffata dall'atmosfera. Gli uomini spalancarono gli occhi, poi si guardarono. I secondi passavano e a Molly fischiavano le orecchie. Altri tuoni, più lontani. Il senso della natura che tornava. Il coltello e il cielo non erano collegati in alcun modo. Tuonava fin dal mattino. Ciononostante, Kleat mollò il manico con una smorfia. Nel silenzio che seguì, un altro suono scese su di loro, lo stormire cupo delle foglie quando tremano. Ma non erano le foglie. Dopo un minuto, dalla volta frondosa cominciò a gocciolare acqua. La pioggia era finalmente arrivata. 25 Furono lenti a fuggire dalla torre. Dalla volta la pioggia cadeva fittissima e l'acqua scorreva lungo la scanalatura interna della scala a chiocciola costringendoli dall'altro lato. Giovane e dotata dell'equilibrio tipico di un'alpinista, Molly era in vantaggio e salvò Kleat da almeno due scivoloni. Per qualche minuto, il pericolo li fece sentire uniti. La foresta si fece a poco a poco più scura. La pioggia diminuì. Samnang
li guidò per la città fino ai gradoni che portavano al campo. I fratelli erano già tornati dal portale d'ingresso. Il capanno di paglia e il fuoco del bivacco li aspettavano di sotto come un faro in un porto. Quando ebbero raggiunto la fine della discesa, Molly si sentì di nuovo in preda ai sudori freddi. Malaria non può essere, pensò. Sto prendendo il proguanile. Ma era anche vero che stava prendendo quello perché il ceppo cambogiano della malattia si era dimostrato resistente alla clorochina. Forse l'animaletto aveva subito un'altra metamorfosi. I fratelli, intorno al fuoco, erano di ottimo umore; i denti d'oro brillavano come scintille nell'oscurità, i tatuaggi luccicavano per lo sgocciolio lento dalla volta frondosa. Entrando nella baracca Molly trovò due teli verdi, asciutti, spianati a mo' di pavimento. Vin si avvicinò premuroso con una tazza di tè bollente, con dentro così tanto zucchero da cariarle i denti. Lo ringraziò. Arrivò Kleat con il cranio abbronzato e lucido come una palla da biliardo. Aveva addosso il giubbotto antiproiettile trovato nella torre. Adesso poteva far finta di essere anche lui blindato, come i tre fratelli; le superstizioni si andavano accumulando sulla testa di tutti. Lui non si prese la briga di togliersi gli stivali, e Molly si sistemò in fondo al riparo per fargli posto. Lui le diede una bottarella sul ginocchio. «Siamo salvi», disse. Lei cercò di ignorare la sua allegria, ma era difficile non sentire un po' di cameratismo. Due sere prima si stavano ancora leccando le ferite in un ristorante, adesso tutto era cambiato. Fama, ricchezza e grandi sogni erano praticamente a portata di mano e in effetti, c'era una generale sensazione di salvezza. Molly si teneva in grembo la macchina fotografica, e il display brulicava d'immagini di quella strana e meravigliosa città. Dal buio arrivò Duncan. «Avete dato un'occhiata al camion? Ci saranno almeno dieci teste, dentro. Devi fare una foto», disse a Molly. «In pratica hanno decapitato la città... le teste sono sempre le prime a essere saccheggiate, visto che si trasportano facilmente e i collezionisti ci fanno follie. Sul mercato dell'arte si vendono in un lampo.» La notte restituì anche Samnang, che sedette muto a gambe incrociate. I capelli cortissimi trattenevano qualche goccia. Kleat gli lanciò un'occhiata e apparve confuso e irritato al tempo stesso, come uno che ha perso le chiavi di casa. «Non dovrebbero farlo», affermò Samnang. «Prendere le teste, come dei barbari.»
«Non è poi un gran prezzo da pagare», ribatté Kleat. «Se stai al loro gioco otterrai quello che vuoi, anzi lo otterremo tutti.» «Davvero non capisce?» gli chiese Samnang. Kleat lo liquidò con uno sbuffo. Domanda cretina. Fine della discussione. Il fuoco crepitava nel silenzio. Gli americani e Samnang si asciugarono sotto il tetto di paglia; tutti tranne Molly, che non riusciva a controllare la sudorazione. Improvvisamente famelica, attirò a sé la scatola delle razioni e scelse spaghetti e polpette. Offrì la razione a Vin e ai suoi fratelli, vicino al fuoco, ma loro declinarono l'invito, troppo occupati a contare i ricavi su una calcolatrice tascabile. Lei si sarebbe dovuta inventare un altro modo per far loro da mamma. Era assolutamente necessario che non li abbandonassero in quel posto. La volta perdeva a intervalli, un po' gocciolando regolare come un metronomo e un po' rovesciando colonne d'acqua verticali che cadevano qua e là. Era tutta una questione di causa ed effetto, nessun mistero. Una foglia piena d'acqua piovana si rovesciava creando una reazione a catena tra le foglie più in basso. Ogni manciata di minuti un altro scroscio si riversava nell'oscurità, e tutto sarebbe continuato finché la volta non si fosse un po' alleggerita. Una delle cascate in miniatura centrò dritta dritta il loro fuoco. Si alzò una nuvola di vapore e poi il capanno rimase al buio. I fratelli saltarono subito in piedi. «Ho», gridarono, ridendo. Poi la fiamma tornò a divampare. I tre si sedettero vicino al fuoco. Il terriccio e le braci a un'estremità della buca sembravano contrarsi per volontà propria, come se cercassero di lottare per liberarsi dallo strato sottostante. Molly si disse che era un gioco di ombre. Vin fu incaricato di offrire agli americani del liquido chiaro, che versò dentro le tazze vuote del tè. Kleat ne prese un sorso. «Gesù, l'acquaragia è meglio», commentò. «Così non va bene», mormorò Samnang dopo che Vin se ne fu andato. «Contenti loro.» «Non resteranno contenti a lungo», ribatté Duncan. I fratelli volsero gli sguardi dalla loro parte, e lui levò un brindisi nella loro direzione sorridendo. «Ho visto gente che si prendeva a colpi d'ascia, per roba come questa.» «E noi non abbiamo neanche una pistola», disse Kleat. Alzò il calice verso Molly, poi bevve un altro sorso dello stracciabudella e si sistemò il
giubbotto. Molly desiderò di averlo preso lei, non come protezione, ma perché era caldo. Era l'unica a sentire freddo? Se solo le fiamme fossero state un po' più alte. A Kampong Cham avevano giurato che sarebbero tornati indietro alla prima goccia di pioggia. Ripartire adesso, però, era fuori discussione. Sarebbe stato assurdo cercare di rintracciare la strada carraia di notte, e il fiume non si sarebbe ritirato fino alla mattina. Né Samnang né Duncan erano in grado di prevedere il tempo per il giorno dopo senza una radio e senza neanche vedere il cielo, potevano solo indovinare. La montagna fungeva da calamita per le prime precipitazioni, e magari quell'acquazzone era tutto ciò che il cielo conteneva per il momento. Si fecero venire in mente qualunque scusa, pur di rimanere. Avevano la presunzione di credere che la decisione spettasse a loro, che fossero completamente padroni di sé, che il lato emotivo non avesse niente a che vedere con la determinazione di restare, che il fatto di parlare di prudenza volesse dire che la cautela regnava ancora sovrana. Ma in verità le rovine li stavano incalzando. Tutti avevano qualcosa da guadagnare, in quel posto: la vicinanza delle ossa metteva Kleat su di giri, le meraviglie della città esaltavano Duncan, il saccheggio dava la carica ai fratelli. E persino il vecchio Samnang sentiva delle pulsioni... Molly lo vide disporre una fila di bastoncini d'incenso e capì che intendeva ritornare alla torre. Erano tutti ossessionati, lei compresa. Decisero che la pioggia segnalava l'inizio del monsone umido e non aveva niente a che fare con il tifone. Quello poteva essere morto nel Mar Cinese Meridionale, o magari colpirli più in là. L'incertezza più grave erano i fratelli. Duncan calcolò che ormai il camion custodisse reperti per circa mezzo milione di dollari. I tre avrebbero potuto semplicemente andarsene, la mattina, e abbandonarli là. Era tutta questione di come gli girava. Secondo Samnang intendevano restare, perché volevano di più. Il fuoco si riscosse un'altra volta. Là sotto c'era qualcosa. Molly lo vide di nuovo, come una mano invisibile che muoveva le dita fra i carboni ardenti. Una radice, decise. Il calore stava disseccando la linfa, e la radice si contorceva. Kleat dispose sul telo i pezzi dell'M-16 rotto. Il caricatore era vuoto. «Una volta finite le munizioni, ha cominciato a usare il fucile come un randello. Quanti gialli bastardi si sarà portato dietro?»
«L'ho visto quel film», disse Molly. «John Wayne. La battaglia di Alamo.» «E allora spiegaci tu com'è andata.» Kleat sollevò il fucile disastrato. «Ne abbiamo già parlato», rispose lei. «Se ci fosse stata una battaglia, avremmo trovato altri segni. Non solo nella torre ma anche nella città. Pallottole negli alberi, o nell'arenaria.» «Latente», la corresse Duncan. «Tecnicamente parlando. Alla prima estrazione è una pietra molto morbida, perfetta da scolpire prima che si indurisca.» «Altri segni», proseguì lei. «Tracce di razzi sui muri. Roba saltata per aria.» «Vedrai. Le ossa parleranno.» «Potrebbero essersene andati o fatti prigionieri.» «Allora spiegami le piastrine.» «E spiega Luke», disse Duncan. Cerchi dentro altri cerchi. Il sudore le faceva bruciare gli occhi. La notte era uno stato d'animo. Il VTC scintillava come una luna squadrata. C'erano stelle, libellule e lampi. E costellazioni di occhi animali che luccicavano rosse e gialle tra gli alberi. Con la delicatezza di un curatore di museo Duncan cominciò a esaminare i fogli trovati nella radio. Trattava quelle quattro paginette arricciate come i rotoli del Mar Morto. Minuscole termiti avevano percorso la carta in lungo e in largo. L'inchiostro si era scolorato. Duncan separò le pagine e le avvicinò al fuoco, cercando di leggere qualche parola. Non ci riuscì e allora cercò di distenderle con cura, ma ottenne solo di sbriciolarle come foglie morte. Kleat sembrò soddisfatto. «Comunque non ci avrebbero detto niente.» Duncan rimise insieme i frammenti meglio che poté, uno accanto all'altro, e si mise a studiarli con la potente torcia di Kleat. Non che ci fosse molto da decifrare: «'...non possiamo più restare... dove altro... più buia prima dell'alba, oh, Dio, la tua falsa promessa... nella vita della pietra...'» «In trincea non si trova mai un ateo», commentò Kleat. «Questo ragazzo mangiava pane e Bibbia.» «Qui c'è un pezzetto di un inventario: 'morfina, 7 fiale, calibro .50, 3...'.» Duncan si chinò e rimase a corto di parole. «Tutto lì?» chiese Kleat. Ci vollero altri cinque minuti per rigirare i frammenti. Duncan trovò qualcos'altro. «'...lui aveva ragione, ma noi abbiamo avuto torto a... lascia-
to andare come Caino, ma a ovest dell'Eden, a piedi. Forse avremmo dovuto...' E questo, 'ieri sera un'altra visita. Adesso vengono tutte le sere. Lo so che non ci dovrei parlare, ma l'ho fatto...'» «Cosa significa tutto questo?» chiese Molly. «Rimpianti», disse Kleat. «Il 'lui' dev'essere stato l'ufficiale in comando. E sembra che uno di loro sia riuscito a scappare prima che fosse troppo tardi. Avevano rimpianti per non aver seguito quello che era fuggito.» «Ma chi sono i visitatori della sera, quelli con cui non dovrebbe parlare? Gente di qualche tribù, forse?» «Ecco qui, c'è qualcos'altro, lungo i margini.» Duncan lesse alcuni versi di una poesia, qualcosa a proposito di linci che ringhiavano, vento che ululava e due cavalieri che si avvicinavano. Alzò lo sguardo. «Devono aver sentito una tigre. Stava arrivando il monsone, ed erano loro i due cavalieri... no? I loro due VTC che si avvicinavano alle mura della città.» «Roba inutile», sostenne Kleat. Sembra contento, pensò Molly, che la faccenda sia archiviata. Ma Samnang si chinò a guardare. «Bob Dylan», disse. Gli altri lo fissarono. «Sì, quelle sono le ultime parole di una canzone famosa.» Sembrava euforico per la sua scoperta. «All Along the Watchtower. Uno dei miei studenti scrisse una tesina sul suo vero significato.» «Quale vero significato?» ribatté Kleat. «È evidente. Erano in trappola. Stavano morendo. Volevano andarsene.» «E tuttavia il soldato scelse questa canzone», disse Samnang. «Una canzone che parla di rivoluzione. Perché?» «Lascia perdere queste stronzate da fricchettoni», rispose Kleat. «Lascia perdere i testamenti e le ultime volontà. Abbiamo bisogno di dati identificativi, nient'altro.» «Fammi provare», intervenne Molly. «Perché, ci vedi meglio?» Lei mostrò la macchina fotografica. «Guardiamo cosa si vede con questa.» S'inginocchiò davanti ai frammenti e scattò una foto di ciascuna pagina, poi Duncan si mise pazientemente a rigirarle. Fuori, accanto al fuoco, Doc ruggì un ordine. Con le mani piantate sulle gambe incrociate e i gomiti rivolti all'infuori assomigliava quasi a uno dei re che Molly aveva visto scolpiti nella pietra. La sua voce era troppo alta. Era ubriaco.
Vin scattò a eseguire l'ordine, rivoltando i carboni con il machete. Dopo qualche minuto, sollevò il bordo di un elmetto. O almeno Molly pensò che si trattasse di quello, dell'elmetto che aveva trovato Kleat. Lo stavano usando come pentola per la cena... ma si sbagliava. Era una tartaruga. Dovevano averla catturata nel pantano dei baray e seppellita sotto le braci ad arrostire. Molly sollevò la macchina e azionò lo zoom: non aveva mai visto una tartaruga cucinata. Dai fori per le zampe usciva del vapore. L'apparecchio tentò l'autofocus nella luce stregonesca: sfocava, inquadrava, sfocava di nuovo. Lei passò al fuoco manuale e stabilizzò l'immagine. Era ancora viva. Molly tenne la macchina fra sé e l'animale. Attraverso i filtri e gli specchietti poteva sopportare quasi tutto. La tartaruga riempì la visuale. Inequivocabile: le zampe si agitavano nell'aria, il collo allungato si muoveva. Ecco perché le braci non stavano ferme. Il fratello di mezzo prese il machete di mano a Vin. Sferrò un colpo lieve ed esperto al centro della placca ventrale. La tartaruga si aprì come per magia. La luce del fuoco pulsava, ma lo stufato degli organi interni pulsava per suo conto. Viva, ancora viva. Usarono bastoncini e coltelli per tagliarne via i pezzi. Doc vide che Molly stava fotografando e con teatrale ospitalità sollevò un organo viscido, a suo beneficio. Lei fece segno di no con la testa, e tutti risero. Anche Kleat. «Ecco», disse Duncan, ignaro del piccolo incidente. Il suo puzzle di frammenti era pronto. Molly si chinò e scattò le foto dell'altro lato. Una goccia di sudore le cadde su una pagina, macchiandola come fosse stato sangue. Samnang la guardò e notò il sudore. Lei si riposò appoggiata a una cassa. «Chiunque fosse quell'uomo», disse Duncan, «ha arrotolato le pagine, le ha chiuse in un preservativo e le ha nascoste dentro la radio ormai inservibile. Un messaggio in una bottiglia.» «Niente nomi, niente date», osservò Kleat. «Samnang ti ha mostrato il nome alla base della torre?» chiese Molly. Richiamò la foto sullo schermo della macchina fotografica. «'C.K. Watts. 20 agosto'. Ci dà un po' di contesto. E anche i resti di scimmia», aggiunse, tenendo lo sguardo ben lontano dalla tartaruga, «sono un contesto. Non siamo proprio senza indizi.»
«È un vicolo cieco, te lo dico io», rispose Kleat. Estrasse dalla tasca della camicia un mozzicone di sigaro e fece un fischio a Vin, che gli portò un rametto acceso. Molly si accigliò. Kleat si comportava in modo davvero strano, così distaccato, addirittura ostile rispetto a quelle possibilità. Però, per dirlo nel francese di Samnang, quella era la sua spécialité: lei era una giornalista, quindi un'investigatrice. «Conosciamo la data approssimativa del loro arrivo. Sappiamo che lasciarono qui almeno uno dei loro veicoli. Portarono con sé materiali, armi, filo spinato e alcuni, se non tutti, entrarono nella città e a quanto pare presero la decisione di nascondersi.» «Già. Idea brillante.» Con il sigaro e il giubbotto militare, Kleat sembrava un generale Patton dei poveri. «Una volta presa la decisione», continuò lei, «hanno dovuto portarla in fondo. Cercarono di chiedere aiuto via radio, ma l'apparecchio era andato. Fecero dei segnali ad aviogetti di passaggio, ma nessuno li vide.» «Un gran bel nulla.» Era come se stesse cercando di sabotarla. «Sette settimane più tardi», proseguì lei, «almeno uno di loro era ancora vivo: ha inciso il proprio nome nella torre. Sappiamo che avevano fame ed erano sfiduciati. C'è quel frammento sul buio prima dell'alba e sulla falsa promessa di Dio. Il ragazzo ha un tono sconsolato, come se non ci fosse più speranza sulla terra.» «La sola domanda importante è dove sono morti», ribatté Kleat. «Io ho bisogno di denti, di mandibole, di teschi interi se possibile. Schegge di ossa per le analisi del DNA... vere nuziali, anelli, orologi da polso con le iniziali. Le parole non contano.» «E invece contano», affermò Molly. «Sono la pista migliore, a questo punto.» Continuò a far scorrere le immagini sul display finché non trovò le pagine del diario. Intanto la batteria si stava scaricando un minuto dopo l'altro, in qualche modo rubava al futuro per dare al passato, usava energia che avrebbe potuto conservare per fare più foto. Ma lei giustificava la sua scelta pensando che anche quello era parte dell'inchiesta. Le prove parlavano. Esaminò le immagini manipolando la luce, ingrandendo particolari, penetrando le spoglie dell'inchiostro sul manoscritto. «C'è dell'altro», disse. «Anche se non so in che ordine vadano le pagine. E comunque pare che abbia scritto ovunque c'era spazio», rigirò l'apparecchio, «persino di sotto in su. Qui c'è un altro pezzo dell'inventario. E alcune parole fino a riempire i margini, e su questa pagina altri numeri, '17/7/70'.»
«Tre settimane dopo l'arrivo», osservò Duncan, «e un mese prima che Watts incidesse il proprio nome.» Lei inclinò di nuovo il display, sforzandosi di vedere meglio: «'Non possiamo più restare'», lesse. «'Ma dove altro potevamo andare? È finita nel momento che il CS ha preso la svolta sbagliata. Adesso dobbiamo sopportare le conseguenze. La tomba del CS sarà la torre, è stato il primo ad andarsene. E adesso sappiamo che non era vero, che amasse la città più di noi. Stava solo cercando di salvarci tutti'. Cos'è il CS?» chiese. «Il comandante di squadra», rispose Kleat. «Dovevano essercene due, uno per ciascun VTC, ma uno dei due aveva più anzianità. È stato lui il coglione che li ha portati qui.» Lei tornò con lo sguardo al display. «'C'è la morte nella vita della pietra. Ce ne accorgiamo ogni giorno sempre più. Cerchiamo di non badarci, ma le pareti ci parlano. Le statue parlano. La città canta. Gli occhi vedono. La pioggia ci sta uccidendo. Ogni giorno è peggio. Ci nascondiamo gli uni dagli altri, incerti su chi sia chi. Non mi sono mai sentito così solo.'» «Fuori di testa», disse Kleat. Molly passò a un'altra sezione. «'...aveva ragione, ma noi abbiamo avuto torto a diventare i suoi ribelli. È stato ammutinamento...' E poi questo. 'L'abbiamo lasciato andare come Caino, ma a ovest dell'Eden, a piedi. Forse avremmo dovuto ammazzarlo, per quello. Ma gli abbiamo permesso di condurci al peccato. Quindi siamo stati complici, e adesso è fatta. E noi siamo dispersi'.» Rimasero in silenzio per qualche istante. «E quindi?» chiese Kleat. «Sì, erano in guerra tra loro», rispose lei. «Voi volete la gloria, volete gli eroi. Ma loro avevano paura. Questi erano dei ragazzi che tentavano di cavarsela in un piccolo, sporco, orrendo vicolo cieco. E si ammutinarono. Fecero la rivoluzione. E poi morirono soli come bestie.» «Ah, i giornalisti», sbuffò Kleat. «Qui è successo qualcosa», ribatté lei. «Questa come ti sembra, di teoria?» riprese allora Kleat. «Il loro comandante scazza di brutto. Loro gli credevano, e lui li ha traditi con la sua stupidità. Avrebbero potuto ammazzarlo, invece lo hanno risparmiato e l'hanno cacciato via come Caino. L'uomo che li aveva mal guidati. È stato fortunato che non gli hanno sparato in testa.» «Ma ci sono altri modi di leggere queste parole», replicò Molly. «Qui dice che il comandante ha avuto la torre per sepoltura.»
«Per quello che vorrà dire.» «Una parte di questo testo è stata scritta nella loro terza settimana d'isolamento. Il resto suona come se fosse stato scritto più tardi, forse nelle settimane o addirittura nei mesi seguenti. Ma una cosa è chiara, fra loro c'era un dissidio. Qui si parla di ribelli, i 'suoi' ribelli. C'era un agitatore, e la tensione dev'essere stata fortissima. Nove uomini si sono trovati in gabbia. Pensaci. Prima o poi avrebbero cominciato a cercare un capro espiatorio. E in qualche modo il loro comandante è morto, e chiunque abbia scritto queste righe ha un tono colpevole. Parla di peccato.» «Sì, ma racconta anche di statue parlanti e città canterine», disse Kleat. Molly si bloccò. «Deciditi, Kleat. O il soldato era matto e niente di quello che scrive ha importanza, oppure nelle sue parole ci sono i fatti, solo che sono confusi dal tempo. Non puoi tenerti tutte e due le versioni.» Kleat emise una nuvola di fumo. La montatura d'acciaio barbaglio. «Non me ne importa niente.» I fratelli avevano finito di mangiare la tartaruga. Si stavano passando il guscio, terminando il brodo grigiastro. Molly spense la macchina, e lo schermo diventò nero. «Io vado a dormire», mormorò. Infilò l'apparecchio nella borsa, prese le scarpe e la torcia e scese dalla sporgenza dove stava il capanno. Duncan fece per seguirla. «Ti prego, no», fece lei. Non aveva più voglia di parlare. Lui rimase indietro. «Non mollarci adesso, hai ragione tu, qui qualcosa è successo qualcosa.» 26 Molly si svegliò di colpo, nel cuore della notte. Il fuoco di Samnang gettava un bagliore sulla parete della sua tenda. Erano passate alcune ore e i suoi vestiti si erano asciugati. Un sesto senso le disse di non muoversi. Stava piovendo di nuovo; l'acqua si strusciava sull'epidermide della foresta con un sibilo attutito. Una pioggia che cullava, pensò lei riaddormentandosi. Poi vide le sagome. Il fuoco le animava. Le silhouette sgocciolavano sui pannelli della sua tenda a igloo, chine, facendo oscillare i fucili avanti e indietro. I fratelli. Erano venuti a prenderla. Accucciati come gatti, strisciarono furtivi lungo il bordo del terrazzamento. Lei trattenne il fiato, in cerca della figura minuta di Vin. Forse lui
avrebbe potuto fermarli. Poi vide che là fuori c'erano più di tre persone. Non aveva senso. Proprio allora, colpi di arma da fuoco crepitarono dalle profondità del campo. Molly si rannicchiò dietro lo schermo di nylon e i picchetti in fibra di vetro, pensando che le sagome furtive dovessero essere il bersaglio. Si preparò per l'esplosione che avrebbero scatenato in rappresaglia. Ma nessuna delle ombre rispose al fuoco. Al contrario si fecero ancora più deformi, e anche i loro fucili, ricurvi e dissolti. Le braccia si trascinavano dietro viticci e divennero liane. La metamorfosi lasciò Molly a chiedersi che cosa avesse visto davvero... pezzi di foresta, nient'altro. In lontananza, di nuovo la sparatoria. Quella era reale, e lei raccolse le ginocchia al petto e serrò le palpebre. La parete della tenda frusciò. Uno di loro tentava di aprire. Lei pregò di diventare invisibile. «Molly», sussurrò una voce maschile. Era l'uomo nero dell'Oklahoma, era tornato. Lei non riuscì a trattenersi. Fai la brava. La paura le risucchiò l'aria dai polmoni. «Molly.» In silenzio si impartì delle istruzioni. Fatti da parte, non immischiarti, torna quando la situazione sarà sicura. Altri colpi d'arma da fuoco. «Molly», più forte stavolta. La cerniera cominciò a scorrere. Lei si vide rincantucciata il più possibile nell'angolino. Si vide pur tenendo gli occhi serrati. «Sono io», mormorò la voce. Allora lei si vide con gli occhi aperti. Nella luce fredda e fievole, Duncan occupava l'ingresso, i capelli lunghi e bagnati. I mitra crepitavano, in automatico. Lei gettò un'occhiata alla parete della tenda. Le sagome erano fuggite. Lui era solo. «Non aver paura», sussurrò. Lei cominciò a tornare in sé. «Ho pensato che potessi avere paura.» Lei era scossa da accessi di febbre. Sbloccò la mascella. «Duncan.» «Abbassa la voce. Sono ubriachi fradici. Passerà.» Lei aveva le convulsioni, ma da fuori lui non poteva vederla. «Volevo solo essere sicuro che stessi bene.» No, non stava bene. Era preda dei demoni. «Stai a terra», disse lui. «Tieni la luce spenta. Le pallottole ricadono giù,
ma la volta ci proteggerà. Sei al sicuro.» Poi lui cominciò a richiudere la cerniera, per sigillare dentro lei, sola con se stessa. «Non andartene», mormorò Molly. Lui s'interruppe. «Non lasciarmi.» «Se hai bisogno di me sono qui.» Ricominciò a chiudere la cerniera. «Che stai facendo?» domandò lei. «Resto qui, te lo prometto.» La sua galanteria la confondeva. Aveva intenzione di stare seduto là fuori sotto la pioggia come una specie di monaco guerriero? Lei aveva bisogno d'altro. «Vieni dentro.» Faceva così freddo... Lui rientrò, e sedette accanto a lei con le gambe incrociate. Lei batteva i denti, e finalmente lui se ne accorse. Le sfiorò la fronte con il palmo. «Tu sei malata.» «Ho freddo.» «Non posso portarti vicino al fuoco, non finché loro sono in questo stato.» «Stringimi.» Lui rimase sorpreso. Lei lo notò. Il modo incerto in cui sollevò il braccio perché lei potesse appoggiare la testa le sembrò una recita. Lui aveva scordato la tenerezza umana. Lei gli si accoccolò vicino. Era caldo. Non dissero nulla. Alla fine i colpi si acquietarono. Lei smise di tremare e si addormentò fra le sue braccia. 27 Fu il canto degli uccelli a svegliarla. La pioggia era cessata. La città aspettava. Molly aprì gli occhi. Durante la notte gli aveva buttato un braccio addosso. Aveva un orecchio appoggiato al suo petto e riusciva a sentirne il battito del cuore. La cassa toracica si alzava e si abbassava in lente ondate. Lei non si svegliava mai in quel modo con un uomo, abbracciata e stretta a lui. Non succedeva, nemmeno con gli amanti di cui si fidava. E benché lui non fosse un estraneo, non era neppure un amante... lo conosceva appena. E tuttavia, addormentata, gli si era rannicchiata contro. Molly rimase sdraiata e immobile, cercando il bandolo di quel nuovo sviluppo. Lui era caldo, e lei si era spaventata. Le tornarono in mente gli spari, e le strane figure. Ma tutto ciò non bastava a spiegare la fiducia che
avvertiva. Addormentato nella luce verdazzurra lui pareva quasi un ragazzino. Si sentiva un intenso profumo di fiori, e lei fece vagare lo sguardo fino alla tasca della camicia di lui. Il giorno prima aveva raccolto un'orchidea. Una parte di lei voleva svegliarlo e compiere nuovamente l'ascensione verso la città. Ormai sapevano come aggirarsi fra le rovine. Le aveva sognate la notte precedente, sogni folli su quelle rovine. La città viveva dentro di lei. Però esitava, riluttante a spezzare quel contatto splendido. Già due uomini le avevano fatto serie proposte di matrimonio, convinti di poter sconfiggere i suoi incubi. Nel modo più cortese possibile, lei aveva declinato le galanti offerte. Loro non avrebbero potuto salvarla. Lo stupro l'aveva bruciata. Molly si era rassegnata alla morsa delle proprie ferite. Allora come spiegare quella situazione? Molly era una miscredente incallita. Pretendeva la verità, buona, brutta o cattiva che fosse. Se come prova le avessero mostrato una ferita aperta, lei ci avrebbe subito cacciato dentro un dito. Perciò la ricerca delle ossa l'aveva tanto attirata. I soldati dispersi erano una ferita aperta, un appiglio, un pezzo da scrivere ma anche, a livello più profondo, un appello al suo istinto da missionaria. Alla fin fine, che cosa c'entrava Duncan in tutto questo? Non era certo lì per proteggerla dai pericoli. I complotti dei fratelli, il tifone e la paranoia di Kleat erano un pericolo per lui esattamente come per lei. Si trattava forse del fatto che lui sembrava occuparsi di lei tanto quanto lei si occupava delle rovine? Era stato lui a darle il benvenuto in Cambogia. Quando si era sentita perduta, lui l'aveva coperta con la sua sciarpa. Quando le armi avevano cominciato a cantare, la notte precedente, il suo primo pensiero era stato per lei, voleva che fosse al sicuro. Era strisciato fuori sotto la pioggia per vegliarla. Quel mattino lui sembrava poco più che ventenne. La luce tenue gli spianava le rughe intorno agli occhi e gli ammorbidiva il profilo aquilino, ma c'era anche dell'altro. Era come se gli anni si fossero dissolti sul suo viso: la linea della barba sembrava... arretrata. C'era solo un po' di peluria sul mento e sul labbro superiore. La gola era liscia. La giugulare pulsava. Per Molly era come assistere al battito del proprio cuore. Sopra l'orecchio sinistro gli correva diritta una lunga ferita, come una sferzata. Lei non l'aveva mai vista prima: di solito era nascosta dai capelli lunghi. Era sopravvissuto a un qualche terribile atto di violenza, ma non ne aveva mai parlato. Prima o poi avrebbe dovuto chiedergli qualcosa.
Molly seguitò con le domande. Chissà come si sarebbe trovato a Boulder? Con quei capelli lunghi e gli stivali delle sette leghe, di certo lo avrebbero preso per l'ennesimo giramondo con il cuore da atleta. Fra le persone che s'incontravano laggiù, una su due sembrava in allenamento per degli immaginari giochi olimpici invernali o per la scalata all'Everest. Lei aveva scritto un articolo sulla leggenda degli abitanti di Boulder: età media 29 anni e mezzo, grasso corporeo medio 11 per cento. Lo aveva definito il «paradiso degli ortopedici», con tutti i ginocchi dello sciatore e le spalle dell'alpinista che si potevano desiderare. Fra loro Duncan si sarebbe certo mosso come un leone di mezz'età. Nei pomeriggi nevosi avrebbero potuto andare al cinema, bere un tè da Turley's, progettare nuove spedizioni. Con Duncan, forse, si sarebbe finalmente sentita a casa. Però c'erano le rovine da decifrare. Il destino di lui era lì, e anche quello di Molly. Lo sentiva con tutte le sue forze: non era finita laggiù per caso. Continuò a seguire con piacere il corso dei propri pensieri. Poi, lentamente, si accorse del bambù. Stava ritto dall'altro lato del viso di lui, un verde germoglio lucido e snello, immobile quasi come un serpente. Quella violazione la sorprese: la foresta aveva invaso la sua tenda. Sollevò il capo dal petto di Duncan. Il bambù aveva bucato il fondo della tenda e perforato anche il materassino. Aveva una punta dura e tagliente, l'asta fallica e levigata. Avrebbero potuto finire impalati nel sonno... no, via, quello era troppo. Al primo tocco si sarebbero svegliati. Solo allora Molly notò la parete della tenda: era deformata. Crollata per metà. Doveva esserci caduto sopra un ramo. Una canadese sarebbe crollata del tutto, invece la sua tenda a igloo aveva distribuito il peso su tutte le centine. Durante la notte la pioggia doveva aver staccato il ramo dalla volta, e poi era caduto. Duncan si svegliò. Cominciò a sorridere, poi mosse la testa di scatto per allontanarsi dal bambù e vide la parete deformata. «Come abbiamo fatto a dormire senza accorgerci di niente?» chiese. Cercò di tastare il ramo con un piede, ma riuscì solo a farne aumentare la pressione. La tenda scricchiolò. «Queste centine non reggeranno a lungo», disse Molly. Malgrado la silenziosa distruzione della sua tenda, si sentì grata per quel diversivo. Era troppo presto per stringersi le mani e farsi coccole mattutine. Fuggendo dalla tenda sarebbero fuggiti anche dall'imbarazzo. Non riuscirono a mettersi a sedere. Videro altri steli di bambù che uscivano dal pavimento. Duncan si mise sopra Molly a quattro zampe, pre-
mendo il dorso contro il ramo d'albero, e lei gli passò attraverso le gambe. L'apertura dell'igloo consumò la forza residua della struttura. Una delle lunghe centine saltò, e subito dopo un'altra. Lei sgusciò fuori e poi aiutò Duncan a liberarsi dal groviglio, e insieme osservarono il disastro. Non era un ramo caduto, ma un grosso rampicante. Quell'affare si era staccato dal gradone soprastante ed era rovinato sulla tenda. La punta si era conficcata nella giunzione fra due pietre. Nel giro di poche ore si era fatto strada verso il basso e le aveva rotto la tenda. Molly diede un'occhiata intorno, alla nebbia e alle forme che conteneva. Un dio gigante le fluttuò davanti con il suo sorriso placido, poi affondò. «È come un'ondata di marea, una marea verde», disse. «Ma davvero la roba cresce così in fretta da queste parti?» «La foresta doveva essere assetata. Alla prima pioggia è partita a razzo.» Duncan si sforzò di rimanere sereno, ma la cosa lo preoccupava. «Torno più tardi a sistemarla.» Ma chi voleva prendere in giro? La tenda era persa. Lei si sentì violata, sfrattata. Quel posto non le voleva bene. Prese la borsa della macchina fotografica dai resti dell'igloo. Duncan dovette usare il coltellino svizzero per estrarre le scarpe di tutti e due: un filamento di radici aveva invaso una fenditura nel pavimento e le aveva bloccate a terra. Lui finse che fosse una cosa normale. «Uomo contro monsone», cantilenò. «Chi vincerà la primordiale lotta?» Ma era in ansia, si vedeva benìssimo. Fecero il giro del gradone, saltellando tra i getti di bambù che crescevano fra una pietra e l'altra e certe liane grosse come cavi elettrici. Anche la tenda di Duncan era collassata. Lui si chinò su quanto ne rimaneva, ritagliò un'apertura da un lato e tirò fuori la sua valigetta d'acciaio. Completarono la discesa verso il fondo e seguitarono in mezzo alla foschia. Molly cercava i nomi incisi nei tronchi d'albero. «Eccoli là.» Diede uno strattone a Duncan, poi guardò più da vicino. Le lettere sanguinavano. «È resina», disse lui. «Ma la prima volta non facevano così.» «La foresta sta avendo un impeto di crescita. La corteccia si è strappata. È solo resina.» Densa e purpurea, sgocciolava da sotto i nomi delle amate. Lei rimpianse di aver aspettato a fotografarli. La mattina precedente erano luminosissimi sulla corteccia scintillante. Adesso piangevano, anche se magari era
quella la vena più adatta per la fotografia. Più avanti, sentirono un boato. «È il motore del camion?» chiese Molly. Si affrettarono, pensando che i fratelli stessero partendo. Ma il boato era il rumore di un incendio. Kleat stava impilando ciocchi, sembrava un inferno dantesco in miniatura. Le fiamme divampavano più alte del capanno, ritagliando un buco frastagliato nella nebbia in un crepitare di scintille causate dalla resina che bruciava. Il calore della fornace lo aveva infradiciato di sudore. Si era tolto la camicia, però indossava il giubbotto antiproiettile. Il viso e il cranio luccicavano come mercurio: sembrava un pazzo. «Cosa stai facendo?» gli chiese Duncan. Kleat caricò la pira con un altro grosso ciocco e attizzò l'altro lato delle fiamme. Gli occhiali riflettevano la luce. I suoi occhi erano due pozze di scintille rosso e arancio. Al centro della propria furia, sembrava spaventato. «Ben svegliati, eh?» gridò per tutta risposta. Molly era stata sul punto di provare compassione per lui. «Abbiamo sentito gli spari, ieri notte.» Il vello sul torace di Kleat era annerito come una paglietta di ferro. Lei fiutò il pelo bruciato e il sudore di maschio bianco, ma colse anche altri odori nel fumo, odori potenti, l'aroma di diversi tipi di legno, di felci, di fiori, di cocco e persino di cannella. Avendo un tempo fatto parte di un giardino reale, le spezie lì crescevano selvatiche. Il falò rivelava tutta l'abbondanza della foresta. «Vi siete persi la caccia», disse Kleat. «È quello che stavano facendo? Cacciavano?» Kleat li guardò. «Lui avrebbe dovuto avere più buon senso.» La forza del fuoco, il suo alito rovente sospinse Molly all'indietro. I brividi erano spariti. Quel mattino si sentiva bene. Si guardò attorno: sul limitare della foschia dissolta, sagome appena accennate si muovevano tra il Land Cruiser, avvolto in vapori bianchi, e il contorno più massiccio del camion. Lei contò tre figure armate di fucile. Mancava qualcuno. «Dov'è Samnang?» chiese Duncan. «Se l'è cercata.» «Spiegati», fece Molly. «Ha fatto casino.» «Kleat, cos'è successo?» «Ha aspettato che fossero tutti ubriachi, poi ha cercato vendetta. Ma non
poteva farla franca. Ovviamente l'hanno scoperto.» Ricacciò un moncone annerito tra le fiamme. Dalle cavità fuoriuscì un'eruzione di termiti bianche. «Quale vendetta, di cosa stai parlando?» «Ha distrutto i manufatti, i vasi, quella roba là. Gli altri li ha nascosti. Le teste mancano tutte. Per quello lo stavano picchiando, per fargli dire dov'erano, ma non chiedetemi altro, io non parlo la loro lingua. E poi una cosa ha portato all'altra.» «Tu li hai visti? L'hanno picchiato?» Tutto mentre lei dormiva della grossa. «Io sono venuto solo per le ossa.» Kleat le lanciò un'occhiataccia. «Lo sai benissimo.» «Però eri qui.» «Li ho sentiti discutere. Sono venuto giù e loro l'avevano preso. Lo stavano spintonando, lo colpivano con i fucili. Quello è un khmer rosso, te l'ho già detto, e loro lo odiavano. Poi lui prende e fa una stronzata del genere.» Erano andati a caccia. «Cosa gli hanno fatto, Kleat?» «Io non ho visto niente.» Si chinò a prendere altra legna. Ma era ovvio. «L'hanno ucciso.» Lei si guardò intorno cercando macchie di sangue, ma la pioggia doveva averle cancellate. Le venne in mente che con il fuoco stavano distruggendo qualunque prova: ecco la ragione di quel falò pazzesco alle prime luci dell'alba. «Era da un pezzo che si preparavano», continuò Kleat. «Ma poi sono sceso io, e di certo non l'avrebbero fatto davanti ai miei occhi. Così gli hanno dato un po' di vantaggio. È stata l'ultima volta che l'ho visto.» «Adesso dov'è?» «È sparito nella notte. Lui è un viscido vecchio bastardo, e loro erano sbronzi. Lo hanno inseguito, poi sono tornati, poi si sono allontanati di nuovo, ma avevano paura di abbandonare il fuoco troppo a lungo. Sono andati avanti per ore. Gli spari li avete sentiti, quei tre erano dappertutto.» «E tu sei rimasto lì a guardare?» «Io ho tenuto il fuoco acceso, quello era il mio lavoro. Me l'hanno fatto capire chiaramente. Un gran fuoco, quella era la cosa importante. Li ho tenuti dalla nostra parte. Qualcuno doveva pur assicurarsi che non ci lasciassero. Potevano andarsene. Potrebbero farlo ancora.» Altra legna sulla pira.
«Ma non subito.» «C'è stato un omicidio», disse Molly. «E tu non hai fatto niente.» Un lampo dalle lenti di Kleat. «Io ho fermato un'esecuzione. Sono sceso e loro l'hanno lasciato andare. Gli ho salvato la vita.» Aveva già razionalizzato tutto per benino. Da qualche parte c'era Samnang, morto, e lei riusciva già a figurarselo, a galla nelle vasche del baray o riverso sopra una radice. «Come puoi averlo salvato? Gli hanno dato la caccia, l'hai detto tu.» «Capirai che caccia, tre teppistelli contro un assassino incallito. Lo hanno perso.» Kleat si spostò verso il lato opposto delle fiamme. «Oppure se n'è andato, come Luke, dal portale anteriore. Oppure è morto, va bene? In ogni caso, non c'è più.» Spinse un altro ciocco nel falò. D'improvviso il pensiero la colpì. «Cosa c'è nel fuoco?» Tirò fuori un ceppo, poi un altro. Duncan la prese per un braccio. «Non farlo, Molly.» «Lui è là sotto», mormorò lei. «Stanno bruciando il cadavere. Stanno bruciando le prove.» «Molly...» mormorò Duncan. «Ripigliati, ragazza», disse Kleat. «Prima i cannibali, e poi che altro?» «Era solo un vecchio.» Distolse lo sguardo, gli occhi velati di lacrime. «Era un khmer rosso. Quei tre sono convinti che lui gli abbia ucciso i genitori, quello l'ho capito. Anche tu devi averli sentiti», fece rivolto a Duncan. «E loro come facevano a saperlo?» ribatté Molly. «Vin doveva essere in fasce, Doc poteva avere sì e no quattro anni.» «Ma è quello che si sono messi in testa», affermò Duncan. «Dicono che è il motivo per cui hanno accettato di venire con noi, era per affrontare Samnang e farsi dire la verità; il fatto che li avesse scelti mi aveva lasciato perplesso, a dire la verità. Come se anche lui volesse farla finita... una cosa così.» «Sono solo dei ladruncoli. Lo stavano picchiando per farsi restituire il bottino, non per sapere dei loro genitori», ribatté Molly. «E perché non tutte e due le cose?» replicò Kleat. «Loro sono dei ladri, e il vecchio era un macellaio.» Per qualche istante rimasero in silenzio. Alla fine Molly sussurrò: «Lui vegliava su di me». «E va bene, allora è finito in gloria», disse Kleat, «con tutte le sue buone azioni.»
Duncan scrutò nella nebbia. «Cosa stanno facendo laggiù?» «Si fanno coraggio a modo loro», rispose Kleat. «Va' e guarda da te.» 28 Lasciarono Kleat a curare il suo fuoco, sempre più alto. «Stammi vicino», disse Duncan a Molly. «Mantieni la calma, hai capito? Non peggiorare le cose.» «Ti ho sentito.» La radura era tutta cosparsa di cocci rotti. Il tappeto della foresta era tutto un solco fangoso, con pezzi di terracotta conficcati ovunque. «Che strano», osservò Duncan. «Alcune di queste impronte sono profondissime. Come se fosse passato un branco di bufali. Solo che sono impronte umane.» «La pioggia ha ammorbidito il terreno», suggerì Molly. «Non abbastanza per arrivare a tanto.» Duncan pestò forte il piede a terra ma non fece neanche una tacca. «È un po' difficile da credere, che Samnang da solo abbia fatto tanti danni. E perché solamente i vasi e non le teste? Dovevano essercene almeno quindici. Come ha fatto un uomo solo a portarle via così in fretta?» «Non ne ho idea.» Non le importava più niente di vasi, teste e impronte. Samnang era morto. Nella foschia si materializzarono i fratelli. Andavano avanti e indietro fra il Land Cruiser e il camion. All'arrivo di Molly e Duncan sollevarono i fucili di scatto. Lei non badò ai veicoli. Nessuno le aveva mai puntato un'arma contro. La brunitura sul metallo era consunta a tratti, come la finitura sulle chitarre di seconda mano. Quei fucili avevano fatto molti chilometri. Erano passati attraverso molte guerre prima di finire in quelle mani tatuate. Duncan pronunciò forte il proprio nome, le braccia spalancate, e loro abbassarono le canne. Stretto alla ventiquattr'ore d'acciaio come un piazzista d'assicurazioni, parlò a voce bassa. Doc, nella sua armatura d'inchiostro corporeo, gli urlò qualcosa in risposta e agitò l'arma. Duncan seguitò a parlare e ad avvicinarsi. Molly rimase indietro, odiandoli per quel che avevano fatto. Le ci volle più di un minuto solo per guardarli in faccia. Si era aspettata di vedere occhiaie da postumi di sbornia o sguardi truci da bulli, ma i loro occhi erano pieni di una paura ancestrale. Il loro panico la prese in contropiede.
Poi guardò finalmente il Land Cruiser, é il camion, e a sua volta si spaventò. Inclinati ad angoli assurdi, sommersi dalle liane, i veicoli erano intrappolati. La foresta se li stava portando via. Una radice d'albero dalla crescita rapidissima aveva sollevato la parte posteriore della jeep di trenta centimetri da terra. I freni dondolavano. Molly si avvicinò all'auto insieme a Duncan. Un rampicante si era infilato nella crepa del parabrezza. Le liane avvolgevano già il volante e stavano mettendo radici sotto il cassetto del cruscotto. E anche il vecchio camion stava per essere sopraffatto: le liane si erano intrecciate sul cofano e sulle portiere, ma per il resto la terra lo stava risucchiando. Le ruote posteriori erano affondate fino ai mozzi, facendo rizzare la parte anteriore come un toro che cercava di sfuggire alle sabbie mobili. In un'altra collocazione, per esempio un museo d'arte moderna, la cosa sarebbe stata ironica: la vendetta della natura. Ma lì, quel mattino, la spaventò. La sua mente corse in cerca di spiegazioni. La pioggia aveva scavato un acquitrino sotto il camion. Nel buio, la prima notte, senza rendersene conto avevano parcheggiato in cima a un tronco d'albero, e i rampicanti erano geneticamente programmati per spazzare via tutto. Madre Natura si stava facendo un trip di velocità, la colpa non era degli umani: quel pensiero era vagamente consolante. Erano tutte vittime, adesso. Tutti nella stessa barca. I fratelli erano fuori di sé. Vin brandiva il machete che avevano usato con la tartaruga la sera prima. Suo fratello So reggeva un'ascia. Lei gettò un'occhiata agli attrezzi, in cerca di sangue: ma non ce n'era e per un attimo lei sperò, anche se sapeva che era stupido farlo. Duncan aprì la valigetta e porse a Vin un pacchetto di Camel, ancora incellofanato. Ma che altro teneva, là dentro? Un bloc-notes, quello lo sapeva, anche se lui era troppo timido per mostrarle i suoi schizzi. Cartine, di certo, la sua ossessione. Forse un diario, e magari fotografie di un'amata da tempo perduta. Probabilmente aveva conservato per ricordo anche la matrice del suo biglietto aereo dagli Stati Uniti. Il pacchetto di sigarette fece il giro, e anche Duncan ne prese una. Gli Heng saltarono qua e là fra i rottami del loro prezioso bottino, imbambolati davanti ai loro preziosi veicoli, troppo spaventati per toccare qualcosa. «Come hanno fatto a dormire mentre succedeva tutto questo?» chiese Molly. Domanda stupida: lei ci era riuscita benissimo, nonostante la distruzione della sua tenda.
«Non sono certo che abbiano dormito», rispose Duncan. «Erano ubriachi. E avevano da fare.» Caccia nella foresta. «E adesso cosa facciamo?» «Dobbiamo lavorare con loro, Molly.» «Lavorare con loro, dopo quello che hanno fatto?» «Le ruote ce le hanno loro.» «Noi dovremmo andarcene e basta», sussurrò lei. «All'istante, Duncan.» Avrebbero potuto sparire nella nebbia, ritrovare il passaggio sopraelevato, fare la traversata oltre i baray e sgusciare fuori dal portale. Oltre le mura della fortezza c'era altra giungla da percorrere, ma una volta che avessero raggiunto il sole, o almeno il cielo, avrebbero potuto ritrovare la strada per scendere dalla montagna. C'erano dei villaggi, qualcuno avrebbe dato loro da mangiare. Qualche taglialegna li avrebbe raccolti. «Senza Kleat?» «Al nostro posto ci abbandonerebbe, e tu lo sai.» Duncan scosse la testa. «No, siamo tutti sulla stessa barca.» «Ah, molto edificante. Però guardati intorno. Qui le cose non possono migliorare.» «No.» Lui aveva deciso. «La cosa migliore è restare e cercare di aiutarli. Andrà tutto bene.» Si unì nuovamente ai fratelli, prese a muoversi con loro, valutando i danni. Posò le mani sul metallo e sul vetro e quell'atto semplicissimo contribuì più di qualsiasi cosa a spezzare il loro terrore. Finalmente Doc smise di urlare. I visi rigidi degli altri fratelli si rilassarono. Duncan suggerì qualcosa, e Vin gli porse il machete senza esitazione. Con la cura di un chirurgo, attento a non graffiare la vernice bianca, fece scivolare la lama sotto un rampicante che chiudeva la portiera e lo tranciò di netto. Poi tagliò altre liane, e dopo aver aperto lo sportello restituì il machete con un gesto teatrale. A poco a poco, Duncan mostrò loro come riprendere il controllo. Fece in modo che So cominciasse a districare i cablaggi dalle liane. Chiamò Molly, e in quattro riuscirono a piazzare un sasso sotto una delle ruote del Land Cruiser. «Adesso lo rimettiamo in piedi», affermò. Mise al lavoro Molly con una vanga. Dopo un quarto d'ora, più o meno, tornò dal punto in cui si trovava la jeep portandosi dietro uno zaino di tela riempito con altri sacchi. Vin gli stava alle calcagna con il machete e il fucile. «Bene, adesso andiamo a pren-
dere Kleat», disse. Appoggiò la vanga di Molly contro il camion. «Cosa stiamo facendo?» chiese lei con una vocetta che avrebbe voluto suonasse meno stridula. «Andrà tutto bene.» Kleat stava trascinando un altro ceppo dalla boscaglia. Il giubbotto antiproiettile era zuppo di sudore intorno al collo e sotto le ascelle. «Abbiamo fatto un patto», esordì Duncan. «Partiamo tutti oggi, ma prima abbiamo un lavoro da fare.» Kleat indovinò, con un'occhiata ai sacchi. «Vogliono che portiamo per loro altro bottino.» «Un piccolo lavoro di recupero.» Duncan parlò con Kleat nei medesimi toni suadenti che aveva usato con Doc. «Vogliono essere risarciti, o almeno è così che la vedono. Continueranno a scavare mentre noi torniamo su fra le rovine. Vin viene con noi.» Il ragazzo si era messo a giocare a calcio con un sasso tondo; se lo faceva rimbalzare tra i piedi, in attesa, con l'AK-47 buttato a tracolla. Kleat ebbe un oscuro presentimento. «Guarda che quello ci porta via per ammazzarci.» «No che non lo farà. Vogliono solo la loro parte di città, ecco tutto.» «Allora lo faranno quaggiù», disse Kleat, «più tardi, quando noi non gli serviremo più.» «Abbi un po' di fiducia, John. Una mano lava l'altra. Andrà tutto bene.» «Questi non stanno dalla nostra parte», ribatté Kleat. «Potrebbero farci qualunque cosa in questo posto. Guarda cos'è successo a Samnang.» «Ci ho parlato. Loro sostengono che è scappato. Lo stavano solo cercando. Volevano riportarlo al campo.» «Ah, stavano cercando di salvarlo?» ghignò Kleat. «Puntandogli un fucile alla testa?» «Sanno di avere sbagliato. Però dicono che anche quello che ha fatto lui era sbagliato. Volevano solo sapere dove aveva nascosto la loro roba.» «Gli davano la caccia come a un animale.» «Loro affermano il contrario.» «Cioè, era il vecchio a dar loro la caccia?» «No.» Duncan abbassò la voce. «I prêt. O così dicono loro.» Vin sentì la parola e interruppe la partitella. «I cosa?» chiese Molly. «Sono una leggenda della foresta, come quelli che i romani chiamavano spettri vaganti, lemures o larvae, la parola latina per gli spiriti ancora in
formazione. Chi fa una morte violenta...» Kleat fece una smorfia esasperata. «No, basta.» Drizzò il ciocco e lo lasciò ricadere nel fuoco. La corteccia umida del ramo crepitò mandando scintille dappertutto. «Secondo loro la foresta ne è piena», disse Duncan. «E tu ci credi?» Duncan esitò. «Ovviamente no, ma loro sì. Se gratti sotto lo strato buddista e indù, ci trovi una religione animista che ha come fulcro la neutralizzazione dei morti e la rapida cacciata dei loro spiriti più lontano che si può. Erano sbronzi. Era buio. Noi stiamo cercando resti americani. Mi sarei sorpreso se non avessero avuto delle visioni.» «E allora aggiungi un altro bel prêt alla tua collezione. Quel vecchio non farà tanta strada con una gamba di plastica.» Molly era ancora del parere di filarsela verso il camminamento e tornare alla civiltà con i loro mezzi. «E se fosse un trucco?» chiese. «Magari lui ci sta portando su così gli altri possono abbandonarci.» «No, non lascerebbero mai un fratello. Non vedi? È lui la nostra garanzia.» «A questo non riesco a crederci», mormorò Kleat. «Ci stanno consegnando un ostaggio.» «Questo non è l'atteggiamento giusto, John.» Il fuoco brillò sulle lenti di Kleat. «Lo terrò presente.» 29 Avrebbe dovuto essere facilissimo. Tutti quanti avevano visitato i portali e le loro statue almeno una volta, ma la città era più viva che mai. La foschia era come sabbie mobili. Nel giro di pochi minuti si erano già persi. Molly aveva cominciato a memorizzare il percorso di andata e ritorno dal cuore delle rovine, ma nella notte la corsa della foresta aveva distrutto i pochi punti di riferimento. Samnang aveva fatto dei nodi nella vegetazione, ma altra vegetazione era cresciuta, più alta e più fitta. Gli arbusti che con tanta cura lui aveva annodato a cerchio si erano sciolti nella pioggia ed erano cresciuti tanto da essere irriconoscibili. Era come entrare in un'altra città. Vin continuava ad agitare il fucile contro le forme che si materializzavano tra gli alberi e i templi. Con il fodero del machete buttato a tracolla e il manico ritto dietro la testa come un punto esclamativo, il ragazzo sembra-
va sovraccarico e a disagio. I soldati americani della ER-1 gli avevano insegnato a ballare come Michael Jackson e a masticare tabacco; Molly e Duncan lo trattavano da uomo, si erano interessati al suo sak da guerriero. Si vedeva benissimo che per lui era difficile usarli come una muta di cani da riporto. Vin rivolse la parola a Duncan, a bassa voce. Molly colse solo un «per favore». «In pratica ci sta chiedendo di cooperare», riferì Duncan. «Prima troviamo il portale e le statue, prima possiamo andarcene.» «Cioè, vuol fare amicizia?» rispose Kleat, gli occhi puntati sul fucile del ragazzo. «Riuscite a individuare qualcosa?» «Se solo riuscissimo a trovare la torre», disse Molly. Desiderava tornare nella stanza dei Buddha. Quella brama la riempiva tutta. Cancellava la paura di quel che stava loro accadendo, la disintegrazione del gruppo e la violenza strisciante. Come punto di riferimento la torre li avrebbe aiutati a orientarsi, ma quella era solo una scusa. Era la stanza in cima a quella vetta costruita dall'uomo, ad attirarla. Conteneva... qualcosa. Ma quella mattina, con una visibilità ridotta a meno di dieci metri, la torre sembrava essersi smantellata. A mano a mano che penetravano nell'erba alta fino alla vita, niente sembrava più lo stesso. Il viale, le vie laterali, i ponti e i canali erano tutti rimescolati. I faccioni proiettati all'infuori dalle torri più piccole e le creste delle piramidi appiattite non erano di nessun aiuto: quei sorrisi sereni non facevano che aumentare la sensazione del groviglio, di un esasperante giro dell'oca. Molly si sorprese a provare del rancore verso quelle placide espressioni pietrose. Scelsero un canale e si misero a seguire lo sgocciolio dell'acqua verso monte, sulla scorta del fatto che l'ascesa in verticale era pur sempre una direzione. Per lo meno, disse Duncan, non avrebbero continuato a girare in tondo. Lo stesso corso d'acqua non poteva avvolgersi su se stesso. Mentre continuavano l'ascesa tra le rovine, Vin tenne Kleat all'inizio della fila, dove poteva sorvegliarlo. Il ragazzo era forse un ingenuo, ma i fratelli l'avevano istruito per bene. Come aveva detto Samnang, con o senza denti avvelenati Kleat era comunque tossico. Come se avesse udito i suoi pensieri, l'uomo lanciò un'occhiata a Molly, e poi un'altra. Lei seguiva dietro Vin, il che le metteva a portata di mano il machete che gli dondolava fra le scapole e che per loro sarebbe stato una manna dal cielo. Lei capì perfettamente il messaggio. Kleat voleva che uc-
cidesse il ragazzo. Molly tentò di convincersi che Vin era un nemico mortale, ma non funzionò. Anzi si chiese, avendone la necessità, se sarebbe stata capace di uccidere anche solo un animale, per fame. Kleat le scoccò un'occhiata truce. Lei tornò con la mente alla torre. Dopo mezz'ora, si ritrovarono al ponte sul canale da dove erano partiti. Era impossibile, ma il ruscello si era riavvolto su se stesso. «Ma non può essere», obiettò Kleat. Vin non commentò. Per lui, il circolo perpetuo delle acque era solo un altro nodo arcano in una città di enigmi. Lui e Duncan ebbero una discussione su quale strada seguire. Dopo un minuto, quest'ultimo disse: «E va bene, correggiamo la rotta. Ci dividiamo a coppie e allarghiamo la ricerca. Dovrebbe essere semplice. Bisogna solo trovare una porzione di muro, e poi seguirla fino a uno dei portali e prendere quello che ci serve». Vin fece le squadre: lui con Duncan, Molly con Kleat. Kleat lo spaventava e anche la ragazza, anche se in un modo diverso. Era evidente che si era preso una cotta, ed evitò di scegliere lei per una questione di decoro e modestia. Era quasi tenero. «E cosa dovremmo fare se troviamo qualcosa, fischiamo?» domandò Kleat. «Cercate di stare a portata d'orecchio», rispose Duncan. «Non ci perdiamo.» Si separarono. Mentre Molly s'inerpicava tra i mucchi di templi e gli angusti corridoi, Kleat cominciò a inveirle contro. «Quel machete ce l'avevi proprio davanti agli occhi. Vogliono delle teste? E noi gliene portiamo una.» «È solo un ragazzino. Non ci farà del male», affermò lei. «È uno di loro. E noi avremo bisogno del suo fucile e del suo pugnale. Pensaci.» «Lascialo perdere, Kleat.» L'uomo si avvicinò fino a sfiorarle in viso. «Tu vuoi tornare a casa viva o no?» Nel corso della sua carriera lei aveva già avuto a che fare con la paranoia. L'aveva fotografata nelle prigioni e nei manicomi e in un centro di terapia per vittime della tortura. Ci aveva persino discusso, con la paranoia e con le proprie paure, in sedute d'analisi e da sola. Ma quella di Kleat era di un genere tutto particolare.
Lei mantenne la posizione, o almeno ci provò. «Che razza di domanda è?» scattò. «Non credere che mi lascerò ammazzare, come un animale in gabbia», ribatté Kleat. «Qui non puoi avere il cuore tenero. Quando arriverà il momento buono, togliti di mezzo.» Proseguì a passo di carica, e Molly rallentò un po'. Il suono dei suoi passi pesanti attraverso la boscaglia si affievolì. Lontano il cielo tuonava. Sembrava presto. Senza pensarci, Molly controllò il suo inutile orologio. La nebbia si stava diradando, il mattino avanzava. Deviò un po' lungo un pannello di bassorilievi, e come quelli del giorno prima li trovò densi di storie aliene e familiari a un tempo. Le sculture parevano sussurrarle qualcosa. Lei s'immaginò iscritta nella pietra, come una solitaria donna-uccello abitante della giungla, una regina o una dea che vegliava sulla città, o come l'infante sollevato verso il cielo dalla madre. Poi per caso alzò lo sguardo, e vide che era lei a essere sorvegliata. Stavolta c'era un piccolo plotone di grigie scimmie spettrali, appollaiate fra i rami o sedute sugli antichi laterizi. Rimase turbata, come quel pomeriggio nella torre. Non che pensasse sul serio di essere attaccata: gli animali erano carini e pelosi, con qualche cucciolo attaccato alle lunghe mammelle e qualche giovane individuo con gli occhi spalancati. Ma erano selvatici, e non c'erano sbarre a separarla da loro. E la stavano guardando: non mangiavano e non giocavano, guardavano soltanto, proprio come le enormi e inevitabili teste di divinità. Persino i piccoli la fissavano. Erano reduci da una lotta. Piano piano Molly si accorse del sangue. Più che altro sui maschi adulti, i cui peni rossi spuntavano fuori dai cappucci pelosi fra le zampe. La pioggia doveva averne lavato via molto, ma si erano coperti di sangue e in qualche punto erano ancora macchiati. Avevano con sé qualcosa, là sulla sporgenza dove stavano, e lei pensò che avessero preso un pezzo di un animale. Quegli adorabili erbivori stavano mangiando un qualche genere di carne. Molly cominciò ad arretrare. Che mangiassero per conto loro. Uno si alzò in piedi sul cornicione e lei non poté fare a meno di guardare la cosa che aveva sollevato. Era una gamba rosea, striata di sangue. La sua mente scacciò il pensiero. Poi riconobbe la scarpa azzurra legata alla caviglia. Era la protesi di Samnang. Rimase raggelata. Che cosa gli avete fatto? La scimmia percosse la pietra con la gamba finta, tenendola dalla parte
del piede. Il messaggio era chiaro: lei stava violando il loro territorio. Restare lì o scappare? Molly non riusciva a decidersi. Sulle Montagne Rocciose uno cercava di sembrare più grosso: alzava le braccia sulla testa per farsi credere più alto e abbassava gli occhi. Se poi l'orso attaccava, si fingeva morto. Se era un puma, combatteva. Ma quelle non erano le Montagne Rocciose. Prima che avesse il tempo di risolvere il dilemma, la volta frondosa sopra di lei frusciò. Era una brezza leggerissima, un sospiro. Le scimmie si mossero. Si guardarono attorno, osservarono gli alberi e il corridoio fra le rovine. Il sospiro si stava avvicinando. Molly ricordò la raffica di vento che si era abbattuta su lei e Duncan il primo giorno lassù, e questa aveva la stessa forza crescente. Alzò lo sguardo per capire da dove venisse e come l'avrebbe colpita. Le scimmie fuggirono. Fu semplicissimo. Si buttarono fra i rami e sparirono. La raffica passò sulla testa di Molly, mancandola e abbattendosi a terra con un ululato. Molly rimase sola. Petali di fiori bianchi e arancio le si posarono lievi sul capo e sulle spalle. Il silenzio era così totale che riuscì quasi a sentirli atterrare. «Kleat», urlò. «Kleat, Duncan.» Attese. Nessuna risposta. Dopo qualche minuto, preparandosi alla carneficina, si arrampicò sul cornicione. Era peggio di quanto si fosse aspettata e al tempo stesso meglio. La gamba di Samnang giaceva dove la scimmia l'aveva mollata, e chiaramente era stata presa a morsi e strappata dal suo corpo in una lotta furibonda. Ma l'ingrediente del loro banchetto non era il suo cadavere. Una delle scimmie era rimasta uccisa, forse nel combattimento contro lo stesso Samnang. Quelle bestie avevano mangiato una di loro. 30 «Samnang?» chiamò ad alta voce. Dalla sporgenza si vedeva un boschetto di bambù altissimi, che ondeggiavano dolcemente. La volta frusciò di nuovo. La brezza riprese forza: da qualche parte la foresta le permetteva di passare. Stavolta Molly riuscì a fiutare l'arrivo della pioggia. Il bambù tremolava. Le cime piumate s'innalzavano a diverse altezze, gli steli sbatacchiavano, tutte linee e ombre che la seducevano. Samnang poteva essersi riparato là in mezzo, decise.
Penetrare tra i fusti verdi e gialli fu come trovarsi dentro un gigantesco carillon. Il bambù era un'erba e non una pianta, quello lo sapeva, ma alcuni steli erano spessi come barilotti. «Samnang», chiamò di nuovo. Il boschetto era vecchio di generazioni. Sui margini, gli individui più giovani le arrivavano solo fino alla coscia, i fusti sottili come matite, ma all'interno il canneto era più vecchio e più alto e più fitto. Mostri essiccati, grigi, morti, vecchi di trenta, cinquanta o cent'anni avevano perforato la volta. La brezza faceva oscillare le foglie lunghe come ali e tremare i fusti. Sotto le mani aperte di Molly, gli steli fremevano. Le si facevano addosso, poi si ritraevano. Resistevano ai suoi passi lunghi e arcuati. Samnang le uscì di mente, e lei quasi non si accorse che la sua attenzione si spostava da lui alla foresta. Come catturare tutto questo in una fotografia? L'urgenza di stringere a sé quella luce verde e quel momento montò in lei come un desiderio. Non c'era modo di controllare quella sensazione con il suo obiettivo. Arrenditi, pensò. Le venne come un sussurro. Il giorno precedente era stato una corsa contro la pioggia. Oggi Molly percepiva una sintonia con quell'acqua dal cielo. In qualche strano modo, la pioggia conferiva un vantaggio contro i loro secondini, se davvero Vin e i suoi fratelli lo erano. A meno che i cambogiani non battessero rapidamente in ritirata, il fiume li avrebbe intrappolati e la foresta avrebbe divorato i loro veicoli. Per contrasto, la sola cosa che loro rischiavano di perdere era una stagione dall'altra parte del mondo, e un po' di peso. Arrenditi. L'idea prese corpo. Lei e Duncan avrebbero potuto dissolversi nella foresta, ed essere là prima degli altri, ed ereditare le rovine. Se era scritto nelle stelle di quel luogo senza stelle, sarebbero diventati amanti. Sarebbero sopravvissuti. La città e la foresta avrebbero pensato a tutto. Le foglie ondeggianti le ricordavano i pioppi tremuli. La forma era diversa, come di minuscoli pesci, però vibravano e si rigiravano con lo stesso movimento giocoso, e i colori variavano dal rosso sangue al verde al giallo venato d'oro. Il bosco le s'infittì attorno. I suoi sensi acquistarono una nuova intensità. Ogni stelo pulsava di un ritmo proprio e lei riusciva quasi a gustare la luce sulla lingua. Molly procedeva adagio, cercando di sincronizzare la propria avanzata con il ritmo del bambù. All'inizio tentò uno schema semplice, avanti-
indietro o destra-sinistra, ma le cose erano più complicate. Bisognava usare anche il tatto, aprirsi un varco e poi invadere, sgusciare tra le aperture. Fare resistenza, arretrare, e ci si stancava moltissimo. Assurdamente, la sensazione si fece erotica. La foresta danzava con lei, la costringeva a inarcarsi, la trasportava. Come il giorno precedente salendo sull'albero, si sentì trascinare lontano dall'avidità e dalla confusione e dai pericoli della spedizione. Ma c'era anche qualcosa di più possente. Si sentì abbracciata. Si sentì desiderata. Il bosco s'infittiva ancora. Molly si trovò a strisciare tra i fusti, pochi passi alla volta. Si prendeva delle pause, come un barcaiolo si riposa tra le onde, scrutando il mare e mettendo da parte le forze. Poi si fermò. Le ci volle un momento per rendersi conto che, in qualche modo, era in trappola. Uno stelo verde le premeva tra le cosce, un altro era allineato contro la sua spina dorsale, ma era lei a cavalcarli e non loro a sforbiciarla. Non c'era niente di imbarazzante o di preoccupante. Doveva solo aspettare che il bambù si muovesse e la lasciasse libera. Intanto i fusti erbacei intorno a lei frusciavano. Il corposo stelo che le passava tra le gambe vibrò. Assurdo, pensò. Piacevole, però. In alto, le foglie dei bambù si erano intrecciate fra loro. Pazienza, ancora un momento, si disse. Ancora un momento... E successe di nuovo. Lo stelo si mise a pulsare dall'alto verso il basso, un sussulto vellutato che dal cielo giungeva al fondo della foresta. Lei fece resistenza, ma per poco. Arrenditi. Un altro tremore, e si sentì sollevare da terra. Era indescrivibile, ma... in effetti... quella pianta se la stava scopando. E lei non avrebbe mai potuto dirlo a nessuno in vita sua. Anzi, non riusciva a dirlo neanche a se stessa. Ma che alternative aveva? Lottare? Chiamare aiuto? Ancora un attimo e le foglie si sarebbero districate, il bambù si sarebbe diviso, e lei avrebbe ripreso il controllo di se stessa. Il legno vibrò di nuovo. Era come avere il diavolo tra le cosce. Le mozzava il fiato. Lei inarcò la schiena. Il bambù si piegò con lei. Allora Molly si chinò di lato, facendo impigliare la tracolla della macchina fotografica. Arrenditi. Che differenza c'era fra quel che stava accadendo e un tramonto, o il profumo di un fiore, o la polpa di un frutto? Le piaceva. E in ogni caso, cosa c'entrava la decenza con la natura? La terra morbida le forniva delle staffe. Il bambù le si offrì alle mani. Lei ci si aggrappò. Le foglie sopra la sua testa frusciavano. Lei rilassò i fianchi e sarebbe
andata fino in fondo, avrebbe lasciato che il bambù la sfinisse... ma mentre appoggiava la testa su un altro stelo, vide il soldato. Lo scheletro indossava un'uniforme lacera. I pezzi erano sparsi su una chiazza così densa che sembrava una foresta dentro la foresta. I gambi del bambù si aprivano e si chiudevano come alghe marine prese in una corrente. Molly si raddrizzò. Spinse forte il bambù, veramente forte questa volta, e la foresta la lasciò andare. Lei disincagliò le gambe e si rimise in piedi barcollando. Il boschetto ora la cingeva da tutti i lati, senza lasciarla andare avanti né indietro. Il vento aveva preso forza. Il suono della brezza fra gli steli era aumentato, non più musica di campanelli ma battito di denti. E là c'era un teschio, con gli occhi coperti dall'elmetto. «Kleat», gridò lei. «Duncan.» Il tamburellare divenne uno schianto di legno contro legno. Molly urlò di nuovo. In cima alla volta si abbatté un tuono. Molly urlò fino a perdere la voce. Era un'uniforme americana. Con accanto un fucile. La brezza si fece vento, e il vento si fece fortunale. Poi finalmente Molly vide una figura lontana che si avvicinava, menando fendenti doppi come una falciatrice, uno a destra, uno a sinistra. E dietro il primo, un secondo uomo. «Sono qui», urlò lei. Il primo era Duncan, armato di machete. «Ti sei fatta male?» le urlò. «Riesci ad arrivare qui?» «No, venite voi» disse lei. Dovevano vedere coi loro occhi. Più Duncan si avvicinava, più la sua voce sembrava lontana. Lo zacchete! della lama spariva nel fracasso che montava. Vin non era con loro, e Molly temette che Kleat gli avesse fatto qualcosa. Ma non vide il fucile del ragazzo, di certo Kleat se lo sarebbe preso. Cominciò a piovere. E non era il sgocciolio lento del giorno prima. Sospinte dal vento, le gocce avevano preso velocità. Pungevano la faccia. Mentre gli uomini si davano da fare per avvicinarsi, lei tentò ancora una volta di avvicinarsi allo scheletro, ma il bambù la trattenne come le sbarre di una prigione. Finalmente Duncan si aprì un varco fino a lei. Le posò una mano sulla spalla, come a riprendersela dalla foresta.
«Dov'è Vin?» Dovette urlare sopra il fracasso del bambù e del tuono. «Lo abbiamo mandato a cercare aiuto. Pensavamo che ti fossi rotta una gamba, o che ti avesse attaccato una tigre. Ci ha dato il machete.» «Ma non il mitra», urlò Kleat. Sembrava quasi deluso che lei fosse tutta intera. «Cosa diavolo ci fai lì dentro?» «La gamba di Samnang», gridò lei. «L'avete vista?» «Visto cosa?» «La gamba finta. Le scimmie devono avergliela rubata.» «Samnang è qui?» «Sono venuta a cercarlo. E guarda cosa ho trovato.» Indicò con il dito. Le ossa erano praticamente invisibili in mezzo al bambù che si agitava. Ci volle un momento perché vedessero anche loro. «E come facevi a sapere che era qui?» urlò Kleat. «Non lo sapevo.» E tuttavia era arrivata quasi difilato fino allo scheletro. Molly cercò di ricordare le fasi del suo ingresso, il ragionamento che l'aveva portata a quella deviazione. Era stata attratta dalle scimmie, e poi c'era la musica del bambù, e la luce, e la danza... e adesso, con gli steli di bambù che si schiantavano gli uni contro gli altri sotto la sferza della pioggia, le sembrava tutta una follia. «Non possiamo rimanere qui», disse Duncan. «Il vento sta peggiorando.» «Dammi quell'affare.» Kleat gli strappò il machete dalle mani. Molly e Duncan indietreggiarono mentre Kleat attaccava il bambù. Si gettò contro quella barriera con tutta la tensione che lo animava, a forza di bestemmie e grugniti. Ogni volta il machete si abbatteva sui rami già piegati dal vento, facendogli perdere la presa. Nei film, un colpo solo spalancava un'autostrada, ma lì il bambù faceva resistenza, li sospingeva di lato e all'indietro. Ingarbugliati in cima, tutti i fusti tagliati sbandavano e colpivano in ogni direzione, taglienti come coltelli tubolari. Ogni stelo doveva essere strappato dalla volta e buttato a terra prima che si potesse sferrare un altro colpo. «Così non funziona», gridò Duncan. Kleat si arrese, ma un po' si erano avvicinati, anche se il bambù ostruiva ancora il passaggio. Ora riuscivano a vedere chiaramente il soldato, con addosso un elmetto da carrista con i paraorecchie. Il fucile era legato stretto al costato dalle liane, con la canna all'insù, proprio come gli era caduto dalle mani. Lo scheletro era sorprendentemente integro. Fra le ossa lunghe erano cresciuti germogli verdi. Viticci tenevano insieme costole e spina
dorsale. Come la città, le ossa erano state razziate e conservate, insieme, dalla foresta. «Si è sparato», affermò Duncan. «Guarda il retro dell'elmetto, c'è un buco. E vedi la posizione del fucile?» «Cosa?» La pioggia rimbalzava sul cranio di Kleat. «Si è messo la canna in bocca», gridò Duncan. «Il rinculo gli ha fatto saltare i denti.» «Ma cosa ci faceva qui?» chiese Molly. «È un vecchio trucco dei combattenti nella giungla», rispose Kleat. «F&E, fuga ed evasione. Il bambù è un nascondiglio perfetto, fa la guardia mentre dormi. Appena si avvicina qualcosa, il bambù ti sveglia.» Duncan alzò lo sguardo verso il loro cielo di canne e foglie furibonde. Il rumore ricordava un clangore di spade e urla umane. I suoi capelli sbatacchiavano come la criniera di un cavallo. «La tempesta cresce», disse. «Sentite.» Molly si mise ad ascoltare. Sotto, in fondo al tambureggiare del bambù, c'era una mostruosa entità che digrignava i denti e faceva vibrare la terra. «È il vento», continuò Duncan. «La volta è sottoposta a un effetto paracadute, e smuove gli alberi. E gli alberi smuovono le rovine, il vento sta scuotendo tutta la città. Dobbiamo tornare al campo.» «Ma questa è la mia prova», gridò Kleat. «Me ne basta uno solo. Ho bisogno di lui.» Le nocche che stringevano il manico del pugnale erano sbiancate. «Potrebbe volerci un'ora per tornare giù.» Duncan indicò il cielo. «Questo è quello grosso.» Mekkhala, pensò Molly. L'angelo del tuono era arrivato. Ma sarebbe passato: potevano ancora impossessarsi della città. Quella era la loro chance di sbarazzarsi di Kleat. «Fammi provare», disse. Duncan la ignorò. «Quelle ossa non andranno da nessuna parte», ribatté. «Possiamo tornare a prenderle.» «Un tifone potrebbe abbattere l'intera foresta», affermò Kleat. Lei porse a Duncan la borsa con la macchina fotografica. Kleat era riuscito a portarli a tre metri dai resti. Lei premette le mani contro il muro di bambù, cercando di tastarne il polso. Due steli enormi si divisero e poi si schiantarono uno sull'altro. Quando si aprirono nuovamente lei era pronta e sgusciò oltre con un salto. I fusti si richiusero di scatto. Lei si rimise in attesa.
Il suo corpo ondeggiava con il boschetto. Attese e passò di nuovo, e poi un'altra attesa. In quel modo, riuscì a insinuarsi fino alle ossa. 31 Rimase in piedi con lo scheletro tra le gambe divaricate, senza sapere bene che cosa fare. Quelle spoglie mortali erano sotto la sua custodia, adesso; e il bambù ululava attorno a lei, e la pioggia scendeva sempre più forte. L'uniforme era ridotta a brandelli tenuti insieme da viticci. Negli spazi fra i pochi denti rimasti cresceva del muschio. Il rinculo della canna aveva sbalzato all'infuori gran parte dell'arcata. Tre denti sporgevano con angolazioni impensabili. Incalzata dal movimento della vegetazione, lei si chinò e prese la targhetta di riconoscimento, anche se sapeva che avrebbero avuto bisogno d'altro. Più denti. Una mandibola, il cranio intero. Se fosse riuscita a tenerli insieme, avrebbe potuto utilizzare le cinghie dell'elmetto a mo' di manico. Ma quando cercò di sollevarlo, l'elmetto rotolò via, rivelando la parte superiore del viso. Gli occhi di giada la fissarono. Molly emise un lamento e scattò in piedi, ma il bambù la spinse facendola inginocchiare. Qualcuno aveva infilato delle sfere di giada nelle orbite, chissà quanti anni prima. Sporgevano dalle ossa del viso con il loro colore verde pallido. Fra il teschio e gli occhi di giada era cresciuta una schiera di radichette, una maschera di vegetazione. «Moll-lii.» La stavano chiamando, anche se a lei sembrò un sussurro. Di colpo ricordò le 5W della scuola di giornalismo: who, what, when, where, why, chi, cosa, quando, dove e perché. Il bambù la spintonava. Lei non riusciva a pensare. Stava arrivando l'uragano. L'elmetto aveva conservato i capelli biondi dell'uomo. Devo prendere il cranio, si disse. Era bagnato. I capelli erano stopposi. Molly infilò le dita sotto l'osso per fare presa, il retro della testa era una caverna lacera. La mano scivolò, e tutto lo scalpo venne via. Era sul punto di vomitare. «Dio», uggiolò. Il teschio era fuso con la terra. «Moll-lii.» Un ramo le schiaffeggiò il viso. Lasciò il teschio. Quelli delle squadre
scientifiche avrebbero dovuto accontentarsi dei pezzi. Staccò dagli alvei i tre denti rimasti e li chiuse, insieme alla piastrina, nella pelle dello scalpo, poi si cacciò il fagotto nella tasca dei pantaloni. Si alzò e con la schiena mezza china, cominciò a uscire. Il bambù le picchiava le costole. Sbatteva e scricchiolava, ma lei non riusciva più a tenere il ritmo. Andava troppo piano o troppo in fretta. Il boschetto la colpiva, le afferrava le mani. Lei cadde e si rialzò. Poi Duncan cominciò a tirarla fuori. Senza una parola, le afferrò le braccia e la spinse di corsa lungo l'angusto sentiero che avevano ricavato nel bambù. Kleat era già sparito. Lei gettò un'ultima occhiata allo scheletro, sapendo che il teschio restava là con il suo sorriso di morte. Quel che non si era aspettata era l'espressione di consapevole autorità, che sembrava quasi annuire. I resti fluttuavano tra marosi di vegetazione, le braccia e le gambe che si allargavano e si alzavano e le facevano segno di tornare, o le dicevano addio, gli occhi fissi. Uscirono finalmente dal bambù e Duncan non si fermò. Il clangore svanì, ma adesso lei sentiva un rumore oceanico di pietra contro pietra. Stordita dalla bastonata presa nel boschetto, Molly controllò se le pareti si stessero spostando o le guglie s'inclinassero. Di certo la città stava andando in pezzi. Invece era intatta: si stava annidando nella terra. Le rovine si assestavano nelle fondamenta, infilandosi un po' più a fondo nella foresta. Nella verde penombra della pioggia, era come trovarsi su una gigantesca arca di pietra. La piena stava arrivando. Molly sentì odore di pelo bagnato e vide le scimmie, a decine, rannicchiate sui templi e in cima ai faccioni giganti, là a guardare loro, a passarseli da un paio d'occhi all'altro. Kleat li aspettava nell'androne di un edificio, al riparo dalla pioggia. Il bambù gli aveva fatto saltare una lente dalla montatura d'acciaio, mentre l'altra era appannata. Pareva frastornato, presente solo a metà. L'occhio visibile sembrava quello di un centenario, vacuo e iniettato di sangue. Per quanto fosse stato orribile in tutte quelle settimane, Molly sentì per lui una fitta di compassione, e perfino una specie di rispetto. A un'età in cui la maggior parte degli uomini passava il tempo sui campi da golf o a maledire le pagine finanziarie dei quotidiani, Kleat si faceva cuocere dal sole e frustare dai bambù, fedele alla memoria del fratello. Aveva con sé il machete. Dalla lama l'acqua sgocciolava lenta. Tra quello e la cicatrice sulla gola, sembrava fosse tornato da una battaglia in quel momento. «Cosa sei riuscita a prendere?» le chiese. «Prima siediti», intimò Duncan a Molly. Lei era in preda ai brividi.
Poi estrasse il fagotto di pelle. I capelli del soldato erano lunghi otto o dieci centimetri; erano cresciuti durante l'esilio tra le rovine. Aprì il cuoio capelluto e vide al suo interno le vene scure. Sopra c'erano i denti, ancora gialli di caffè dopo decenni. La targhetta era così rovinata che sembrava vuota. «Ottimo», ammise Kleat, «davvero ottimo.» Lei si sentì un mostro, china in quel modo sopra i pezzetti assortiti di un uomo. Posò gli oggetti su una pietra e si sfregò le mani contro il muro, cercando di sciacquare via la sensazione dei capelli. Che trasportasse tutto Kleat di lì in poi, lei aveva fatto anche troppo, pensò. «C'è un'altra cosa», disse poi. «Gli occhi di giada.» «Di cosa stai parlando?» chiese Kleat. «Erano nascosti dall'elmetto, ma quando l'ho spostato ho visto che qualcuno gli aveva messo delle pietre nelle orbite. Era come se lui potesse vedere.» «E chi avrebbe fatto una cosa del genere?» «Magari è un rito funebre», ipotizzò Duncan. «Ma non ho mai sentito che le tribù montane facessero cose simili. E le sole persone dentro la città erano i soldati.» «Andiamocene da qui», disse Kleat. «Chi lo sa?» proseguì Duncan. «Magari, dopo qualche mese qua dentro, i sopravvissuti hanno cominciato a perdere il senno. Hanno ritrovato il lato ancestrale, selvaggio. S'inventavano le cose. Magari l'hanno sepolto così, guerrieri moderni che emulavano guerrieri antichi.» «Ma non è stato sepolto», obiettò Molly. «Lo scheletro giaceva all'aperto. Quell'uomo si è sparato dove nessuno poteva trovarlo.» Duncan tacque. «Questa cazzo di città», disse Kleat. Si tolse gli occhiali, si pulì la lente annebbiata e si rimise sul naso quel che restava. «Almeno sapremo chi è.» Sollevò la piastrina verso la luce. Molly osservò la sua espressione. Lui batté le palpebre, ebbe uno scatto nei muscoli del viso. «Non può essere», mormorò. La lente si appannò di nuovo. Lui ripeté quelle stesse parole, in un sussurro. Duncan gli prese la medaglietta dalle mani e la girò per leggere l'incisione. Il viso si rabbuiò. «Non capisco», disse. Molly afferrò a sua volta l'oggetto. «'Yale'», lesse ad alta voce. «'Lucas M.'»
32 «Ci sta prendendo in giro», gridò Kleat dando loro le spalle. Era furibondo. «Ce l'ha tatuato sul braccio», affermò Duncan. «L'abbiamo visto tutti. Lucas Yale.» Si erano mossi di nuovo, diretti verso la scalinata. I naga si ergevano lungo tutto il perimetro. Dalle loro bocche di cobra l'acqua zampillava fin sul fondale dov'era il loro bivacco; i canali nascosti fra un terrazzamento e l'altro la facevano correre verso le cisterne in attesa. Duncan aveva detto che la storia della Cambogia era costituita dai suoi sistemi idraulici, e agli occhi di Molly cominciava a delinearsi quell'impero costruito sul dare forma a ciò che è senza forma, catturando la pioggia nelle proprie antiche geometrie. Il vento stava aumentando e colpiva la volta a raffiche, dando vita a enormi girandole verdi che roteavano sulle loro teste, cicloni nel cielo. Molly ricordò d'un tratto la Notte stellata di Van Gogh, e quel pensiero la mandò nel panico perché la notte si stava avvicinando. Per la fuga avevano bisogno di tutto quel che restava del giorno. Cercò di individuare il campo in fondo all'abisso, ma la pioggia le colpiva gli occhi. Radici e foglie cadute formavano un tappeto sdrucciolevole sotto i piedi, e l'acqua era calda come sangue. Lei cercò di non pensarci. C'erano un sacco di cose, ormai, a cui non doveva abbandonare la propria mente. «Qui era libero di muoversi come gli pareva. Ha trovato le ossa», disse Kleat. «Ha visto la targhetta e si è fatto fare il tatuaggio. Oppure si è fatto fare la targhetta e l'ha piazzata qui. Chi pensate che sia stato a mettere le giade negli occhi del teschio?» «Sì, ma a che scopo?» si chiese Molly ad alta voce. Kleat si volse di scatto nella sua direzione. «Ha profanato i morti, ecco cos'ha fatto», gridò. «Perché è matto da legare.» La sua indignazione era assolutamente sproporzionata, ma era vero che Luke avesse voluto iscrivere se stesso negli ultimi giorni dei dispersi del Blackhorse. Però i resti del soldato non erano stati dissacrati, al contrario erano stati adornati. Il ragazzo non aveva smosso nemmeno un ossicino. Al massimo li aveva decorati. Era Kleat a turbare Molly. Con la montatura sghemba, la lente che mancava e quel machete in mano sembrava ammattito. Il suo furioso modo di
razionalizzare lo rendeva irrazionale. La vera identità del soldato non si era persa, solo temporaneamente spostata. Avevano tessuto, capelli e ossa da far vedere ai laboratori della scientifica. Il soldato avrebbe riavuto il proprio nome... anche se l'azione di Luke la lasciava perplessa. Il furto d'identità esisteva, certo, ma attuarlo nel bel mezzo di una giungla? Che cos'aveva da guadagnarci? I conti non tornavano. «Stai dicendo che un pazzo scatenato si è preso il disturbo di falsificare una cosa tanto banale come una piastrina di riconoscimento?» chiese Molly. «E poi di nasconderla dove, con ogni probabilità, noi non l'avremmo mai trovata? E tutto, perché noi potessimo trovarla?» «Ci ha portati qua lui, sì o no? E ci ha attirato proprio con le targhette.» «Non ne sono più così sicura. Ci siamo venuti noi, con i nostri bisogni.» «Quella specie di zingarello è venuto dritto dritto al nostro tavolo, al ristorante. Ci stava sorvegliando da un mese e ha scelto noi, in mezzo a tutti gli altri. Col senno di poi, è tutto chiaro.» «A me non è chiaro per niente. Cosa ne ricava? E perché proprio noi?» «Forse aveva bisogno di provviste. Pensa a tutto il cibo e all'attrezzatura che ci siamo portati. Oltre a due mezzi motorizzati, con a bordo pirati per portare le sue ricchezze fuori di qui.» Poi aggiunse: «E una donna». «Ma tu hai detto che se n'è andato, che ormai ha quasi raggiunto la Cina.» «Forse mi sbagliavo.» Kleat non sapeva più quello che diceva. Voleva che tutto avesse un senso, che tutti gli elementi si collegassero fra loro anche se era evidentemente impossibile. Si mise a camminare, facendo oscillare le braccia e il machete come un pendolo. La lama strusciò contro il muro producendo scintille, e Molly ebbe voglia di scappare da lui. Sia che fuggissero quel giorno, o dopo una settimana o dopo sei mesi, avrebbero avuto bisogno del machete per mettere in piedi dei bivacchi, tagliare legna e sostentarsi, mentre nelle mani di Kleat quell'oggetto era solo un'arma. «E se lui fosse uno di loro?» chiese Duncan. «Uno di chi?» domandò Kleat in tono cauto. Non ne poteva più di sentir parlare di fantasmi. «Uno degli uomini dell'Undicesimo.» «Oh, Cristo.» Kleat accelerò il passo, lasciando perdere la faccenda. Molly rifletté. «Uno dei soldati dispersi?» «Sappiamo che sono stati qui. E se non fossero morti tutti?»
«Un disperso in azione, ancora vivo?» Molly si sentì percorsa come da una scarica elettrica. Questa era la madre di tutte le storie di sopravvivenza. Un Robinson Crusoe in tuta mimetica, che se la cavava per trent'anni in una città perduta, scansando i nemici. La sua storia diventava Luke, non la città. Se era vera. Ma non poteva esserlo. La liquidò rapidamente. «È solo un ragazzo. Avrà vent'anni.» Salvo per gli occhi, quello sguardo vecchio di millenni. «Sì, ci ho pensato anch'io», disse Duncan imperterrito. «Ma se lui fosse un disperso d'altro genere? Se fosse il figlio di Lucas? O il figlio di uno degli altri?» Lei si bloccò, e Kleat tornò verso di loro. «Stai dicendo che Luke è venuto a cercare suo padre?» chiese Molly. Poi ricordò il viso del giovane. La guerra era stata trent'anni prima, e il ragazzo aveva vent'anni. «Anche così è troppo giovane.» «No, se suo padre è sopravvissuto.» «Non ti seguo.» «Erano in trappola. Alcuni erano morti. Forse uno ha avuto il coraggio di scendere a valle. In questi luoghi ha infuriato una guerra dopo l'altra. Magari l'uomo è impazzito, o è rimasto ferito e soffriva di amnesia. E se si fosse spinto fra le montagne e una qualche tribù l'avesse accolto? E poi, vent'anni fa, ha avuto un figlio. Un figlio che poteva fare la guardia ai resti.» Un figlio vestito con brache da contadino e sandali da vietcong. Tutta roba raffazzonata. «Un angelo custode meticcio?» chiese Kleat. «Sto solo dicendo 'e se fosse'», ribatté Duncan. «E va bene, diciamo che lui è la sentinella e questo è il suo privatissimo monumento al milite ignoto. La cosa non spiega perché sia venuto giù e abbia scelto noi per raccontarci il suo segreto.» «Forse era questo il suo compito... trovare qualcuno che li riportasse a casa.» «È una pazzia. Quel ragazzino è occidentale. Occhi azzurri, capelli biondi, pelle bianca. E l'inglese dove l'ha imparato?» «Sì, questo è un problema», ammise Duncan. «Non parla inglese, parla proprio americano», aggiunse Molly. «Un accento come quello non puoi fingerlo. L'ho sentito. Quel ragazzo viene dal Texas, non dalle alture della Cambogia.» «Hai ragione», disse Duncan. «Stavo solo cercando di inventarmi qual-
cosa di diverso dai fantasmi.» 33 A metà scalinata li attendeva una sorpresa. Di lì riuscivano a vedere la radura, e i fratelli non se ne erano andati. Il Land Cruiser era pronto a partire, con il motore acceso; Molly riuscì a fiutare l'odore dello scarico anche nella pioggia. «Mio Dio», disse Kleat. Il sollievo si impadronì di Molly. Le venne voglia di lasciarsi andare: non doveva più resistere a tutti i costi. Tutto sarebbe andato bene. Se ne sarebbero andati di là in macchina. «Ehi, laggiù», gridò Kleat rivolto verso il basso, agitando il machete. Dal lato opposto del camion apparve una figura minuta che li salutò con la mano. «Poi dimmi se non siamo fortunati», commentò Duncan. Superarono le ultime sporgenze, e Molly vide i picchetti spezzati e il tessuto lacero delle loro tende fra la vegetazione inarrestabile. Dall'altra parte, dell'immenso falò di Kleat non erano rimasti che fango e ceppi bruciacchiati. Il capanno di paglia aveva la stessa aria desolata del VCT blindato fra gli alberi. La prossima volta che lei fosse tornata lì, la foresta avrebbe consumato tutto: il capanno, la fossa del fuoco e i resti delle tende. Sarebbe stato come se loro non fossero mai passati, e lei sentì una fitta di rimpianto. Sopra e dietro di lei, le vie d'acqua scorrevano e gorgogliavano. Molly avrebbe voluto vedere la città come l'aveva vista il suo popolo venti secoli prima, con l'acqua che animava i canali e le gargolle. La città non le sarebbe mai più appartenuta come la sentiva sua in quel momento. Arrenditi. Quella era la sua unica opportunità. In fondo alla scalinata, Kleat fece una pausa. «Allora, ascoltatemi bene. Qui dobbiamo fare squadra.» «Siamo già una squadra», lo rassicurò Molly. Sentì il caos nella voce di lui, e aveva ancora in mano quel machete. Le gocce di pioggia gli rimbalzavano sul cranio. Le vene si stavano ingrossando. Lui tirò fuori una mazzetta di dollari. «Ce ne partiamo a mani vuote, ma abbiamo ancora del contante. Duncan, non offrire niente per primo», poi continuò. «Vediamo prima com'è la situazione, con questi tre.»
«Buona idea, John», rispose Duncan. «Tu rimani a destra. Io entro da sinistra.» Si allacciò il giubbotto antiproiettile. «Non sarà necessario.» «Restiamo separati.» «Funzionerà», disse Molly. «Abbiamo quello per cui eravamo venuti», ammise Kleat tastandosi i pantaloni sulla coscia. La tasca era gonfia con i denti, lo scalpo e la targhetta. «No», urlò lei. Kleat la guardò con quell'unica lente appannata, e quell'occhio da uomo invecchiato, poi partì attraverso la radura. «Sta per ammazzarli», fece Molly a Duncan, «o per farci ammazzare. Avvertili.» «Ci sparerebbero di sicuro.» «Ma noi non siamo con lui.» «Siamo americani, Molly. Tu pensi che loro vedano la differenza?» «Allora dovremmo tornare sulla scalinata.» «E quanta strada pensi che potremmo fare?» «E allora fermalo.» Si precipitarono a raggiungere Kleat. In loro assenza, Doc e So avevano infilato legna e sassi sotto le ruote del Land Cruiser e l'avevano messo in una posizione sicura. Il motore era in folle. Il camion però era un'altra faccenda. La parte anteriore era sollevata come la prua di una nave che affonda, ben più di prima. Ormai era perso, ma i fratelli non si erano arresi. Con asce e vanghe, avevano passato la mattina a scavare intorno alle ruote e al semiasse. Il buco sembrava più una fossa che una vera speranza. Sul davanti era stato fissato un cavo arrugginito, pronto ad attaccarsi al Land Cruiser per un eroico rimorchio. All'avvicinarsi dei tre americani, Doc spuntò dalla buca fangosa, ascia alla mano. A Molly si annodò lo stomaco. I fucili probabilmente stavano sul sedile anteriore del camion, al riparo dalla pioggia. Cercò il viso amico di Vin. Poi fu la testa di So a sbucare dalla fossa. Coperti di fango nero, i due cambogiani avevano l'aspetto che doveva aver avuto Adamo nelle mani di Dio: melma dalla testa ai piedi e due occhi. Molly evitò di prendere la macchina fotografica. Duncan li salutò. Poi Doc iniziò a parlare. «Vuole sapere dov'è il loro
carico.» «Comincia a trattare», ordinò Kleat spostandosi a lato della buca. Ecco che cominciava. Molly avrebbe voluto congelarli tutti, immobilizzarli come le sculture. Ma Doc non si lasciò ingannare. «Vuole sapere perché hai tu il machete di Vin», tradusse Duncan. «Vuole sapere dov'è suo fratello.» So si tirò fuori dalla fossa, fra risucchi di fango. Era armato di vanga. «Diglielo», fece Kleat con un sorriso innocente. «Lo abbiamo mandato qui a cercare aiuto.» So rivolse loro dei latrati. «Affermano che qui non è mai arrivato.» «E allora deve essersi perso.» Kleat mostrò il denaro. L'acqua scivolava sulla lama d'acciaio lucido. Duncan parlò ai fratelli. «Gli ho detto che dovremmo cominciare a cercarlo. Le rovine si stanno muovendo. Potrebbe essergli caduta una pietra addosso, e poi ci sono gli animali. E il tifone non farà che peggiorare. È meglio che non restiamo qui stanotte.» «Bene» fece Kleat ancora sorridente, «siamo dalla loro parte. Continua a parlare.» Duncan si chinò per fare un disegno nel fango con un rametto. Cartine, sempre cartine. Doc si sedette sui talloni per aggiungere anche lui qualche linea al diagramma. So osservava da sopra le loro spalle, e anche Molly si avvicinò. Nessuno si accorse di Kleat finché la portiera non sbatté, più avanti. Lui diede una sgasata, e con uno sguardo da pazzo dietro gli occhiali rotti partì. Il Land Cruiser sparò una coda di foglie in aria e poi s'impennò in avanti sulle radici e le pietre rovesciate. Li stava abbandonando lì. Molly rimase sorpresa della propria sorpresa. Ma certo, quello era Kleat. I fratelli cacciarono un urlo, e anche Duncan. Fiato sprecato. Molly guardò tutto come un film. I due cambogiani girarono di corsa intorno al camion e afferrarono i mitra. Duncan agitò le braccia in aria e gridò di non sparare. Ma loro lo ignorarono e partirono all'inseguimento. 34
Da dietro, Molly non riusciva a distinguere una sagoma fangosa dall'altra. Uno dei due lasciò partire una lunga raffica che gli svuotò il caricatore, poi ne inserì uno nuovo senza perdere il passo. Lei si mise a rincorrerli. Acquistando velocità, Kleat raggiunse il passaggio di minerale verde che correva tra le antiche cisterne. Sterzò per schivare i ruderi di un naga, mettendo altra distanza fra sé e loro. Nessuno l'avrebbe fermato. I fratelli continuarono a correre. Il più veloce fece uno scatto in avanti, senza darsi la pena di sparare, scommettendo sul fatto che Kleat avrebbe potuto urtare una statua o che uno dei proiettili del fratello avrebbe potuto bucargli una gomma. Molly si affannava dietro di loro. Non voleva vedere Kleat punito, ma non voleva neanche che fuggisse. Voleva solo vedere. Era arrivata a metà del lungo camminamento. Il portale apparve di fronte a loro come la cruna di un ago. Dall'altra parte ci sarebbe stato il cielo azzurro, per così dire. Un fratello sparava, l'altro inseguiva. Il Land Cruiser saltò di colpo su un fiore d'arancio. Vale a dire, su una mina anticarro che fece scoppiare il serbatoio del carburante. Un boato spaventoso riecheggiò. Dalla distanza in cui si trovava Molly, sembrò che il Land Cruiser fosse stato scagliato nello spazio, sbalzato in avanti in un turbine di fumo e gasolio. Il veicolo fece per atterrare su un fianco, poi saltò di nuovo, sospinto da una seconda mina. Si capottò del tutto, ancora in movimento, e lo strepito del metallo tornò indietro fino a lei in stereo, sul pelo dei due stagni. Le fiamme divamparono, il fumo si alzò come un getto d'inchiostro. Poi partì il serbatoio di riserva. La palla di fuoco fu come un momentaneo sole in mezzo alla precipitazione. Si formò persino un arcobaleno artificiale. Da un finestrino si sporse un braccio. In qualche modo Kleat era sopravvissuto alle esplosioni, e stava cercando di tirarsi fuori dall'auto in fiamme. La vista dell'uomo che tentava di scappare rinnovò la furia dei fratelli; Molly ripensò alla tartaruga sotto le braci, la sera precedente. Non avrebbero avuto pietà. Era sicura che il rottame avesse smesso di scivolare, ma si mosse di nuovo. Da dove stava lei sembrò quasi che degli animali opalescenti sorgessero dall'acqua e si accalcassero intorno al veicolo che ardeva. Era la pioggia negli occhi, pensò Molly. Il Land Cruiser si mosse. Colpì una terza mina. Quel che rimaneva della
jeep si rovesciò a lato della strada. L'acqua era più profonda di quanto lei avesse immaginato. La sfera di metallo infuocata non si mise a galleggiare per poi andare giù in un'eruzione di bollicine: sparì immediatamente. Il lago costruito dall'uomo inghiottì il sole costruito dall'uomo in un sol boccone. Molly si fermò. Kleat non c'era più. Coperti di fango, i due fratelli levarono un ululato e spararono in acqua, privati del loro nemico. Lei non era sicura di che cosa provasse nei confronti di Kleat. Lui li aveva lasciati là a morire. E allora che se lo mangiassero i pesci preistorici. Però qualcuno doveva fare da testimone a quel che rimaneva, qualcuno doveva dire due parole su quell'acqua. Cupa, Molly si avviò. Nello spazio di un istante, sentì una mano avvolgerle la caviglia sinistra, bloccandole il piede in quel punto. Sentì le dita che stringevano. Appena il tempo di guardare in giù, e l'immagine del pugno scomparve. Rimase solo l'eco di una sensazione, una risonanza fisica. Poi fu come se non fosse mai successo. Sollevò il piede. Era solo un pezzo d'alga verde che correva sul ciglio della strada, piatto e floscio. La sua immaginazione era fuori controllo, si era inventata la mano per indurre se stessa a fermarsi. Sbirciò oltre l'orlo per vedere se era stata un'onda a gettare lì l'alga. L'incidente poteva avere causato un'increspatura o un deflusso dalla città. Ma l'acqua era calma, e picchiettata di pioggia. E occupata. C'era qualcosa. Molly spostò il capo da un lato. Era l'altro VTC. Era affondato e incastrato nel fango. Dalle canne delle mitragliatrici fluttuavano le alghe, in uno dei portelli s'infilò un pesce rosso delle dimensioni di una carpa. Un altro la guardava dalle profondità del secondo portello. Lei si sporse sull'acqua, cercando di vedere meglio. Gli occhi di quei pesci erano spaziati in un modo inconsueto, sembravano quasi umani. «Molly!» Lei si allontanò dall'acqua. Al limitare della foresta c'era Duncan, con il machete in mano. Il pacifista aveva preso le armi. «Torna indietro», le disse. «Kleat è morto», annunciò lei. Sentì di essere calma in modo innaturale. «E in quest'acqua ho trovato qualcosa.»
«Molly, per favore, prima che tornino loro. Gli bolle il sangue di sicuro, dobbiamo nasconderci.» Lei gettò un'occhiata sulla strada, ai fratelli. La stavano perlustrando da un'estremità all'altra, in cerca di qualche traccia della loro jeep o di Kleat. «Ma noi non abbiamo fatto niente, Kleat ci ha traditi tutti, anche te e me.» «Alla fine lo capiranno anche loro, ma sarà meglio se non siamo nelle vicinanze quando rientrano. Torna indietro. Prendiamo un po' di roba da mangiare e passiamo la notte fra le rovine. Andiamo a cercare Vin, la cosa potrebbe rabbonirli. Si sistemerà tutto.» Sembrava un buon piano. Caro, vecchio Duncan. Molly si voltò. Fuori, sulla strada, ci fu una quarta detonazione. Molly alzò lo sguardo in tempo per vedere un uomo che volava sul selciato, come un burattino gettato su un palcoscenico. Senza cerimonie, solo un botto. L'uomo si fermò di colpo, a mezz'aria. Lei pensò che fosse un'illusione ottica, che il tempo si fosse fermato. La parabola del volo sarebbe certo ripresa di lì a un attimo, doveva farlo... Poi vide un ramo d'albero tremare. L'uomo era rimasto impalato sulla punta e penzolava da là come una decorazione natalizia. No, neanche quello, come una cartaccia intrappolata fra le piante. Quaranta metri più avanti di Molly, l'altro uomo si raggelò. I fratelli erano figli dei campi minati. Li conoscevano bene, con un terrore e una familiarità che avevano qualcosa di medievale. Un altro passo, in avanti, indietro o di lato, e l'uomo sapeva che avrebbe potuto rimanere mutilato o ucciso. Restò immobile in quel punto come se anche la sua anima fosse a rischio. E per lui era così. Samnang le aveva raccontato che morire lontano da casa, lontano dai riti funebri e dalla famiglia, significava vagare per l'eternità. Per un intero minuto il giovane non si mosse. Coperto di fango e, per lei, irriconoscibile, era come un bambolotto di pece con un mitra ficcato in mano. Accanto a lui, più alto, un naga spalancava le fauci di pietra. L'uomo gemette. Non era una parola, solo un suono sfuggito dai polmoni, i prodromi del dolore. «Resta dove sei, Molly.» Duncan partì verso di lei, lentamente, con un bastone in mano, tastando foglie e ciottoli come se stesse leggendo in braille, passando in rassegna ogni centimetro attorno ai propri piedi in cerca di fili tesi o germogli metallici o qualsiasi altro segno di mine. Ci mise delle ore, o così parve. Molly non si muoveva. Il fratello rimasto
solo non si muoveva. Lei distolse lo sguardo dall'uomo appeso all'albero. Molly si sentiva pesante e al tempo stesso leggera, magnificamente leggera. Liberata. Benedetta, in qualche modo: era stata risparmiata ma, cosa ancora più importante, aveva visto. Quello era il punto cruciale. Era una fotografa e una giornalista, e si guadagnava da vivere catturando i momenti rivelatori della vita. In un articolo sulla normale attività giornaliera di un pronto soccorso aveva descritto nascite, sofferenze, le dita irrigidite della vìttima di un incidente d'auto; e pensava di avere visto tutto, attraverso i suoi obiettivi, e in un certo qual modo era così. Ma stavolta non c'erano: niente filtri, niente specchietti. Rimase dov'era, obbediente. Duncan stava venendo a prenderla. Era quasi da lei. Ancora una volta, come nel boschetto di bambù e quando era scesa dall'albero, Duncan la rivendicava. La stava tirando fuori dalla bocca mostruosa di quel posto. Alle spalle di lui, uno di quegli dèi dalla testa gigante sorrideva in direzione dell'acqua, gli occhi chiusi ma consapevoli, assorto nel proprio sogno, e il suo sogno erano loro. Molly non aveva bisogno d'altro: loro non erano che frammenti di quella pietrosa immaginazione. E tuttavia lei non smetteva d'interrogarsi. C'era il fiume cosmico di Samnang, ma poi c'erano gli enigmi del quotidiano, le mine apparse dove prima non c'erano. «Come è potuto succedere?» chiese lei. «I soldati», rispose Duncan. «Trent'anni fa. Devono averle messe loro.» «Ma noi siamo passati di qua con i mezzi. E guarda adesso.» «Fortuna», disse lui. «Destino. Sai come si dice, le mine sono una guerra infinita.» «No. Qualcuno le ha messe qui per noi.» Lei ne era certissima. Duncan la corresse. «Per qualcuno come noi. I soldati cercavano di difendersi.» «È come se non ci fosse consentito di lasciare questo posto», affermò Molly. «Non è vero», ribatté lui. «Sono state posate per tenerci qui.» «Non parlare così forte», mormorò lui. Quella frase la spaventò. Si accorse che lui non era davvero in disaccordo con lei. «Luke?» ipotizzò. «Non adesso, Molly. Una cosa per volta.» «E lui?» Il bambolotto di pece.
«Sarà il prossimo.» 35 Sarebbe anche potuta andare come aveva detto Duncan; lui l'avrebbe riaccompagnata nella foresta e poi sarebbe tornato dall'ultimo fratello. Però cominciarono a sentire il verso di un animale. All'inizio fu solo un flebilissimo lamento, e Molly pensò che doveva essere un macabro canto d'uccello. Poi si rese conto che proveniva dal cadavere trafitto sull'albero. La mina gli aveva fatto saltare le gambe, sotto il ginocchio, e le braccia erano spezzate all'altezza del gomito. E anche con il ramo infilzato nel petto come uno spiedo, quel che rimaneva di lui non era ancora morto. Eccolo là, appeso sopra l'acqua. Il grido si alzò di un'ottava. Era tremendo. Sembrava che l'uomo non prendesse mai fiato: come un goffo uccello tropicale, stava lassù ad agitare debolmente le ali e a cantare una sola nota. La pioggia, lavando via il fango, mandò in pezzi la finzione di Molly. Lei riuscì a vedere la carne rossa, da sotto. L'uomo sulla strada chiamò il fratello. Cercò di sollevarsi. Li separavano pochi metri appena, d'aria e d'acqua. Il fratello morente non diede segno di riconoscere l'altro. Il grido seguitò. Lo stagno fu scosso dal tuono, che salì attraverso la vena di minerale scavata nell'alveo della strada. Il vento ululava e pulsava per tutta la superficie della volta, e il ramo si mosse. L'uomo impalato dondolò nel vuoto. Il fratello posò il fucile e s'inginocchiò davanti alla carcassa sull'albero, le mani giunte. Molly riusciva a stento a respirare. L'uomo genuflesso dondolava avanti e indietro, innervosito e allo stesso tempo attratto dalla canzone di morte. «Non durerà a lungo», mormorò Duncan. Parlava del cadavere vivente o di suo fratello? «Non muoverti», le disse poi. «Mi hai sentito?» Resta con me, pensò lei. Ma lui era Duncan, il salvatore. «Sì», rispose. E lui ripartì, stecco alla mano, chiamando il giovane che nel frattempo era caduto in una specie di trance. Non si accorse di Duncan che lo sgridava e gli urlava ordini, avanzando un centimetro alla volta, tastando la strada e controllandone la consistenza. Il tronco d'uomo seguitò a cantare dall'albero, una grottesca sirena che attirava il fratello alla medesima distruzione.
Duncan non si lasciò mettere fretta. Sfiorava ogni foglia caduta sulla strada, girandola con il bastone. Saltò una chiazza di terriccio e passò sopra dei ciottoli sparsi. Sembrava che non ci fosse un posto dove nascondere una mina: la strada era tutta d'un pezzo, ricavata in piano dall'estrusione vulcanica. Olivina, pensò Molly, mettendo a fuoco il colore di quella parola. Che foto sarebbe. Era il diavolo a sussurrarle all'orecchio. Duncan raggiunse il mitra e si chinò per raccoglierlo. Sì, ne avremo bisogno, pensò Molly. Avevano davanti la prospettiva dell'estate, l'idillio nella foresta, pensò ancora. Avrebbero vissuto di noci e frutta, di carne presa dagli alberi. Il fratello era quasi sul limitare dell'acqua. E lì il suo ginocchio toccò la mina. L'esplosione non fu abbagliante né pirotecnica, solo un botto secco, più debole del rimbombo pesantissimo che aveva fatto saltare la jeep. Più che altro fu questione di polvere. Quando l'aria si schiarì, Molly vide che l'altro fratello non c'era più. Era stato sbalzato nell'acqua famelica, anche se lei non aveva effettivamente visto il volo. Duncan era fermo a guardare lo stagno. Si girò verso di lei e Molly vide che gli usciva fumo dal torace, ma forse si trattava di pioggia battente. Il fucile non c'era più, il ramo si era ridotto a un mozzicone di qualche centimetro. Si incamminò per tornare da lei, più rapido sulla via ormai memorizzata. Molly si accorse piano piano della ferita. La sua maglietta con su le ruote di una mountain-bike stava sanguinando. Oh, Molly, pensò. Attonita, prese il tessuto fra due dita e vide un piccolo foro fra i raggi di una ruota. Sollevò la maglia, e il foro proseguiva nel reggiseno. Lo sganciò e si guardò la superficie della pelle bianca e lentigginosa, e il sangue affluì al punto in cui la scheggia l'aveva colpita. Quel malvagio pezzetto di qualcosa si era infilato lì, da qualche parte... ma all'improvviso lei non volle sapere più niente. Si tirò giù la maglia. Più tardi. «Molly?» Sentì l'angoscia nella voce di Duncan, ma non riuscì a parlare per prima. «Stai bene?» Miracolosamente, le schegge l'avevano risparmiato. Tutto sommato gli dèi stavano proteggendo almeno uno di loro. «Devi stenderti», mormorò preoccupato.
«No», rispose lei. «Finché sto ancora in piedi, portami a casa.» Al campo, voleva dire; ma di colpo le gambe cedettero, e lei si mise a sedere di schianto. Il sangue rosso diventava di un rosa frivolo a mano a mano che si spandeva sulla maglietta bagnata. Non sentiva male, in realtà; solo il bisogno di sedersi. Volse lo sguardo all'acqua verde, sopra la quale fluttuavano ninfee grandi come tappetini da preghiera. La pioggia picchiettava sulla superficie. Quell'orribile verso d'uccello si era interrotto, grazie a Dio. Duncan apparve dietro di lei, e lei sentì le sue mani grandi sulle spalle. «È solo una scheggetta», cercò di tranquillizzarlo. «Sì, ma devo darci un'occhiata.» Non era così che Molly avrebbe voluto farsi vedere la prima volta, esaminata con sguardo clinico mentre stava schiena a terra sotto la pioggia, piena di paura. Aveva un bel seno, in effetti, era uno dei suoi punti forti... le sarebbe piaciuto mostrargli come una donna possa accecare un uomo, con il suo corpo. Lui non perse tempo con i ganci del reggiseno. Lei vide il coltello a serramanico e poi sentì l'elastico che cedeva. Lo guardò negli occhi e lui batté le palpebre. Per quant'era bella? Per com'era conciata? Lui sollevò un seno con entrambe le mani, attento più del necessario, anche se lei apprezzò la delicatezza. Adesso si accorgeva della scheggia d'acciaio. Era conficcata a fondo nella carne, come un tumore metallico. «Riesci a sentirla?» gli chiese, supplichevole. Di colpo voleva, con tutte le sue forze, che quell'affare uscisse dal suo corpo. Lui la guardò negli occhi spaventati. «Ci sto provando.» Fece scorrere delicatamente le dita sul resto del suo corpo, tastando qua e là. «Dimmi se ti fa male», continuava a ripetere. «No», diceva lei, «no.» Lui arrivò fino in fondo alle gambe. Niente di rotto, solo la scheggia. «Riesci a sederti?» Le riabbassò la maglietta e le confezionò una specie di fasciatura con il kroma rosso e bianco. Solo su quelle sciarpe Molly avrebbe potuto scrivere un intero articolo. Un giorno o l'altro. Poi lei alzò lo sguardo oltre la spalla di lui. «Dio, no», sussurrò. Le scimmie si erano radunate intorno al corpo sull'albero. Ci giocavano, gli tiravano i vestiti, gli facevano dondolare la testa. Lo saccheggiavano come lui aveva fatto con la loro città. Duncan si mosse per impedirle di guardare. «Stammi appiccicata, picco-
la», le mormorò. Si erano ammassate attorno al cadavere, se lo contendevano. Molly non aveva mai visto una cosa del genere. Lui la rimise in piedi. «Ti posso anche portare», disse. «Ma se riesci a seguirmi è meglio. Ce la fai?» «Andrà tutto bene», rispose lei. 36 Il vento infuriava, ma non riusciva a penetrare sotto la volta. Ululava e si abbatteva sulla foresta, e tra le foglie si formavano grandi mulinelli. Ma la membrana teneva, e per il momento erano ancora al riparo da tutta la forza bruta dell'uragano. Molly sanguinava più lentamente. Al campo, con la parete del gradone più basso alle spalle, lei si sentì quasi al sicuro. La pioggia non batteva così forte. Gocciolava giù dalla volta in aghi spessi e argentei, e s'incanalava attraverso la bocca da fuoco del VTC come il getto di urina di un cherubino scolpito. La notte sembrava vicina, ma Molly stava imparando che quella era una costante, in quelle giornate di perenne crepuscolo. Giaceva poggiata su un fianco nel capanno di paglia, davanti al fuoco che Duncan aveva ravvivato con della benzina e un razzo di segnalazione. Stava ravvivando tutto il campo, e la loro illusione di tranquillità. Di fatto, il campo e il fuoco erano proprio un'illusione: lui intendeva scappare una volta che fosse calata la notte. C'erano due possibilità. Luke aveva posato le mine andandosene, per intrappolarli nel suo stesso guscio, oppure era ancora vicino, armato con un vero e proprio arsenale d'annata, e giocava con loro al gatto e topo. «Pensa di essere Dio», le disse Duncan. «Che ci stia spiando o no, è convinto che adesso le mura ci trattengano. Siamo come animali nel suo zoo, ma anche i guardiani degli zoo dormono, ogni tanto.» Però Dio non dorme, pensò Molly fra sé e sé. Dal capanno riusciva a vedere gli occhi semichiusi dei Buddha che scrutavano la foresta, e nel loro sogno a occhi aperti sembravano minacciosi. Duncan era indaffaratissimo. Lei lo osservò andare e venire tra le fiamme e le volute di fumo piovoso, mentre lui spogliava il camion come un naufrago. La fossa che i fratelli avevano scavato per liberare il mezzo adesso era piena d'acqua fino all'orlo. Il muso si impennava sempre più a mano a mano che il veicolo scivolava all'indietro nella terra, al rallentato-
re. Con il machete, Duncan aprì una breccia nel telone e lo saccheggiò da quel lato, togliendone tutto ciò che restava. Tirò fuori quello che poteva trasportare, scatole incerate piene di razioni K, taniche di carburante, vanghe, asce, sacchi di tela, pezzi di tessuto e di plastica, un setaccio per separare i reperti dal terriccio, persino un paio di occhiali da sole e le chiavi dall'accensione. Fece una pila di tutto a un'estremità del capanno e poi tagliò via delle grosse foglie coriacee da un banano selvatico per coprire il fastello: più roba di quella che due persone potevano utilizzare in un mese, figurarsi in quello che restava del pomeriggio. Lei si addormentava a tratti. I cablaggi del camion si erano rovesciati fuori da una portiera come budella colorate, ingarbugliati fra le liane rampicanti che li avevano afferrati. La foresta aveva sviscerato la bestia. «Dovresti sistemare quei cavi, potresti farlo partire», propose Molly. Lui si chinò per guardarla negli occhi. Lei aveva di nuovo freddo: era lo choc o le era tornata la febbre? Lui le avvolse un pezzo di tela attorno alle spalle. Era rigido e scabro e puzzava di gasolio. «Il camion è andato», le disse. «E comunque non ci serve. Quella strada è una trappola. L'unico modo per uscire è passare attraverso le rovine, sopra il muro.» Su per i centoquattro scalini, attraverso il labirinto di notte? «Sei sicuro?» domandò. «Andiamo su e attraversiamo la montagna finché dura il temporale. Lui non se lo aspetta.» Lei avrebbe voluto che Duncan la prendesse fra le braccia, e basta. Ricordò quella mattina. Sembrava così lontana. Duncan fece un capannello di legna sopra il fuoco cosicché i rami bagnati si asciugassero e bruciassero. Kleat sarebbe stato fiero di lui: nel giro di qualche ora avrebbe tirato su un autodafè in piena regola. Le portò una tazza di latta piena d'acqua calda, spruzzata di cenere bianca, e ci mescolò dentro il caffè istantaneo della razione K. «Riposati», le disse. «Mangia. Bevi. Riprendi le forze. Se solo riuscissi a trovare la cassetta del pronto soccorso... e un fucile. Non si sa mai.» «Io so dove c'è una pistola», sussurrò lei con un sorrisetto complice. Lui la guardò con aria dubbiosa. «Davvero?» «Vai fino all'albero e tira la fune di lato, verso il tronco. Tirala forte.» Lui le sventolò l'indice davanti al naso, divertito dal trucchetto. «La pistola di Kleat? Avevi detto di averla lasciata nel cingolato.»
«L'ho fatto, ma dovresti riuscire a farla scivolare fin giù. A meno che non l'abbiano presa le scimmie.» Quelle maledette scimmie. «Lo farò quando sarà buio», decise lui, «caso mai lui ci stesse guardando. Per adesso, salviamo le apparenze. Io continuerò a radunare roba e legna da ardere, e tu... tu continua a sanguinare. Voglio che pensi che siamo allo stremo delle forze.» Tornò sotto la pioggia. Il camion era affondato fino al parabrezza. Duncan si mise in equilibrio sul cofano e sferrò un colpo al vetro con un piede di porco. Il parabrezza si screpolò e franò verso l'interno, e Duncan lo tolse di mezzo come una carcassa. Poi si calò nel veicolo. A Molly non piacque vederlo sparire sottoterra in quel modo. Passarono dei lunghi minuti, poi finalmente lei cominciò a vedere dei pacchi. Riconobbe la valigetta d'acciaio, e altre scatole di cibo e attrezzature. Infine riemerse Duncan attraverso il parabrezza, infangato e felice. Sollevò la cassetta del pronto soccorso come lo scrigno di un tesoro. A quel punto la ferita di Molly divenne la priorità. Lui slegò il bendaggio a fionda che aveva fatto e aprì la cassetta: dentro c'era persino un paio di guanti di lattice. Stavolta fu diverso. Là vicino al ponte avevano avuto entrambi paura, ma adesso il momento fu più consapevole. Lei lo guardò mentre cercava di affrontare il suo seno, e la cosa la divertì. Lui batté le palpebre e si schiarì la gola come previsto. Una parte del suo sgomento era causato dal frutto proibito in sé. L'areola di lei era ampia e scura, e anche se Molly aveva già passato la trentina il seno era sodo senza nessuna smagliatura. Però era anche perplesso, come lei. Un osso rotto lo raddrizzavi, un taglio lo suturavi, un'ustione la bendavi... ma che cosa potevi fare a una mammella morbida con una piccola ferita? Lui strinse i pugni guantati. Pareva che la scheggia fosse migrata più a fondo. Di nuovo lei sentì panico e avversione. «È lì dentro», gli disse. «È difficile da descrivere, riesco solo a percepire la sensazione.» Lui aprì una confezione di tintura di iodio e dipinse la zona di arancione. Poi le confessò che non sapeva che cosa fare. «Se lasciamo la scheggia dentro farà infezione, ma probabilmente ti causerei un'infezione anche cercando di tirarla fuori.» Alla fine, si limitò a metterle un cerotto sul buco e le abbassò la maglietta e strinse di nuovo la fascia. Rovistò nella cassetta del pronto soccorso fra le varie fiale e confezioni, leggendone le etichette. «Metà di questa ro-
ba non l'ho mai sentita nominare.» «Fammi guardare», disse lei. Trovò un flacone di Cipro, un anticarbonchio. Non era penicillina, ma era meglio che niente, perciò ne buttò giù una capsula con del caffè e poi si mise il flacone in tasca. «Ti porterò da un dottore», dichiarò lui. Poi la coprì di nuovo con il telo e ravvivò il fuoco. Le fiamme lambirono il tetto, tanto vicine da far arricciare la paglia. Ma lei non riusciva a scaldarsi. «Mangia qualcosa», la spronò lui. «Abbiamo davanti una lunga notte.» «Domattina», tentò di mercanteggiare lei. «Starò meglio...» «No, ti sentirai solo più rigida», rispose lui. «E poi abbiamo bisogno della tempesta. Ci darà le ali.» Tornò nella radura per ammassare roba e alimentare l'illusione che volessero fermarsi. Allineò una serie di taniche di benzina e gasolio lungo le pareti del capanno, cosa che preoccupò Molly. Con il fuoco così vicino, potevano esplodere come bombe. Ma si fidò di lui. Quando fu radunato tutto ciò che poteva essere estratto dal veicolo, Duncan cominciò a fare la ronda della radura, raccogliendo monconi marci e altra legna da ardere. Tutto quel teatro ingannò persino lei. Tornando da una delle sue sortite, lui buttò una bracciata di legna sulla pira e poi le passò furtivamente la pistola. «Sei veramente sveglia», le disse. La cosa le fece un gran piacere. Da ogni lato si sentiva il boato dell'uragano. I ciocchi cadevano nel fuoco facendo partire esplosioni di scintille. La pioggia sibilava e diventava vapore, in volute di caligine. «Posso aiutarti in qualche modo?» chiese lei. «Avremo bisogno della borsa dove tieni la macchina fotografica, ma senza la macchina. Deve rimanere qui. Mi spiace. Anche la mia roba resta qui. Non possiamo permetterci tutto quel peso e non abbiamo zaini. Avrò bisogno della tua borsa per portare cibo e medicinali. Ci aspetta una lunga camminata.» Lei avrebbe voluto ribattere, ma dovevano salvarsi. «Tira fuori la macchina e gli obiettivi, mettili in fila, come se volessi pulirli per bene. Ricordati che lui potrebbe osservarti e non deve capire le nostre intenzioni.» 37 Duncan se ne andò di nuovo, continuando la farsa di volersi stabilire in
quel luogo. Oltre le fiamme stava scendendo il buio, e Molly si chiese quando lui intendesse partire. Svuotò la borsa della macchina fotografica, fece asciugare l'apparecchio, pulì bene gli obiettivi e poi li dispose in una fila ordinata. Diecimila verdoni di filtri e specchietti... che se li tenessero pure la foresta e le scimmie. Il vero tesoro erano le sue immagini, e quelle poteva conservarle. Ci volle qualche minuto per trasferire le ultime foto nel drive digitale. Poco più grande di una calcolatrice tascabile, conteneva quasi un migliaio dei suoi scatti più belli. Avvolto in un sacchetto di plastica, poteva tenerselo nella tasca dei pantaloni e Duncan non se ne sarebbe mai accorto. Se non fosse riuscita a sopportare quei pochi grammi in più, non ce l'avrebbe fatta a uscirne viva. Già che c'era, decise di fare una sorpresa a Duncan prendendo anche qualcuno dei suoi tesori. Solo perché lui aveva deciso di sacrificare la sua valigetta, non significava che dovesse perdere tutto il contenuto. Una volta che fossero arrivati a Phnom Penh e la loro fuga fosse stata solo un ricordo, lei gli avrebbe restituito alcuni dei suoi ricordi più preziosi. Molly afferrò la ventiquattr'ore. Si chiedeva che cosa contenesse dal giorno che aveva conosciuto Duncan. L'acciaio inox era molto graffiato. Le cerniere e la serratura erano arrugginite. Non l'aveva mai visto pulire quell'affare dal fango o dalla polvere, neanche una volta. In un certo senso, quella trascuratezza rendeva i contenuti ancora più misteriosi perché la valigetta per lui non aveva alcun significato, era solo un guscio. Sollevò il coperchio e ne uscì una zaffata di muffa. Dentro c'era un gran caos: fotografie, ritagli di giornale, cartoline e lettere, il tutto mescolato a elastici corrosi e graffette arrugginite. All'inizio lei notò solo che dentro c'erano decenni di roba. La carta più vicina al fondo era chiazzata e ingiallita dal tempo mentre quella in cima, le acquisizioni più recenti, non era ancora stata rovinata dai tropici. Solo dopo Molly notò cosa fossero gli ultimi oggetti: i souvenir che aveva rubato dalla spedizione ER-1. Duncan era il ladro del campo. La copia di Hustler, per la quale i due marines avevano fatto a botte. Le istantanee e la posta di cui gli uomini avevano denunciato la scomparsa. Lei rimase di stucco. C'era una pagina del Wall Street Journal che risaliva a sei anni prima, sopra c'era una lista di aziende della new economy con gli indici azionari di cui lui aveva parlato con tanta competenza e sicurezza.
Trovò una monografia sulla flora e fauna cambogiana, pubblicata in francese nel 1903. Il blocco per gli appunti era pieno dall'inizio alla fine di scarabocchi e disegnini senza senso. C'era un capitolo strappato da un testo britannico sull'archeologia precedente il regno di Angkor, le lezioncine che aveva fatto a loro, parola per parola. Vide anche un articolo del New York Times dal titolo «Le piante secolari stringono templi antichi in un abbraccio mortale», completo del termine spong e del suo nome scientifico, Tetrameles nudiflora. La cucina con i pensili, il tavolo con il ceppo da macellaio e il pannello fatto con i fondi di bottiglie verdi, marroni e blu tenuti insieme dal piombo come in una vetrata colorata. Solo che non era una cucina, ma la pubblicità di una rivista. La fotografia del setter a pelo rosso con la bandana, insieme al quale era cresciuto, solo che il cane e la bandana appartenevano a tre bambini in un'istantanea con la data di due mesi prima. La sparatoria alla Kent State in tutti i suoi sanguinosi dettagli... in una edizione tascabile. Ecco Duncan, e tutti i brandelli che lo componevano, rubati per un compito in classe. Aveva dissezionato tutto. Sottolineato sezioni intere, cerchiato facce nelle istantanee, scritto note a margine, e poi aveva buttato tutto dentro a stratificarsi sopra altra roba simile. Aveva mandato a memoria una vita intera. Allora chi era veramente? Lei guardò fuori, nell'oscurità. I ciocchi scoppiettavano, aprendosi a scatti e botti rumorosi, offrendo la polpa bianca al sacrificio, rinnovando la combustione. La pioggia evaporava in una nube di fumo sopra la fiamma. Alla fine uno dei due avrebbe vinto, l'acqua o il fuoco. Per adesso stavano in perfetta parità. Duncan rientrò dal buio della notte. «Ti senti meglio?» Cominciò a chiudere il capanno come un gigantesco bozzolo, intrecciando strisce di corteccia sul davanti. «Una volta chiusa la porta d'ingresso», disse, «scapperemo dall'apertura sul retro.» «Non c'è nessuna apertura sul retro, Duncan.» Dai lati e dietro Samnang aveva intessuto pareti solidissime. «È quello che penserà anche Luke.» Continuò a intessere le fibre per farne uno schermo.
Lei si asciugò il sudore dal viso. Era scossa dai brividi. Il capanno le girava intorno. Se solo il suo corpo si fosse deciso: caldo o freddo. Lui era un assassino, oppure il suo salvatore. Forse entrambe le cose, come Jekyll e Hyde. Era stato lui a minare la strada dalla quale, adesso, voleva disperatamente salvare entrambi? Questo spiegava forse la sua riluttanza a seguire Luke: la consapevolezza che l'altra sua personalità, quella della foresta, era pronta a ghermirlo. Ma allora, chi era Luke? Il figlio di un soldato che aveva perso il senno nella parte selvaggia della Cambogia? Duncan le aveva forse già detto tutto? Molly si sforzò di mettere insieme i vari pezzi, ma il sudore le avvelenava la vista. Il fumo era difficile da respirare. Finché era ancora in grado, doveva giudicare quell'uomo. Avrebbe dovuto chiedergli delle sue finzioni, o lasciarsi andare alla corrente e sperare in bene? Lui avrebbe confessato il suo teatrino o si sarebbe professato innocente? Oppure era così pazzo che non si sentiva colpevole? E lei? Se si fosse arrivati a tanto, sarebbe stata capace di premere il grilletto? Non sembrava un mostro mentre era seduto a intrecciare strisce di corteccia verde. Però poteva essere l'uomo dell'Oklahoma, che divideva con lei un po' di cibo e di chiacchiere mentre tutti e due aspettavano che passasse la nottata e l'autostrada li portasse un po' più avanti. Proprio quella mattina lei era stata fra le sue braccia e si era inventata un'avventura sentimentale. Si era fidata di lui. Afferrò la pistola. Bisognava andare a fondo. «Chi sei?» gli chiese. Lui alzò lo sguardo, con quel sorriso da ragazzetto di campagna. «Chi, io?» Lei si tenne la pistola stretta contro la gamba, nascosta. «Ho frugato nella tua valigetta», continuò. Lui guardò la valigetta e poi di nuovo lei, confuso. «Sì, e allora?» «So chi non sei e voglio sapere, invece, chi sei.» «Molly, cosa ti prende?» Aveva fatto un errore. Non aveva la forza per questo confronto. Lui era troppo pratico della sua mascherata, oppure troppo fuori di testa. Ma ormai aveva cominciato. «Sto cercando di capire», gli disse. «Ma di cosa si tratta?» Lui era serio. Si mise la valigetta sulle ginocchia e la aprì. Estrasse le carte, il bloc-notes senza senso, un piccolo album plastificato di fotografie di qualcun altro, un passaporto britannico in decomposizione, una targhetta di plastica marcata UNTAC, l'autorità provvisoria dell'ONU in Cambogia. Vide quel che aveva visto lei, e a lui nulla, in quel-
la pila di roba muffita, sembrava strano. Era forse più innocuo da pazzo che da savio? «Dove hai preso quelle cose, Duncan?» Lui cercò di capire che cosa intendesse lei. «I miei documenti?» Parlò senza il minimo tentativo di autodifesa nella voce. «Quelli sono i tuoi bambini?» «I miei bambini?» «In quella foto con il setter.» Lui esaminò l'istantanea. Gli apparve una ruga sulla fronte. Non aveva mai visto prima quei bambini. Poi lo sguardo si schiarì. «Ah, vuoi dire i miei fratelli e le mie sorelle, insieme a Bandito. Quello sì che era un cane. Quella è la bandana che ti ho raccontato.» Le mostrò la foto. «Tu però non ci sei, lì» osservò Molly. Lui guardò di nuovo l'istantanea. Rifletté. «Papà mi stava insegnando a usare la macchina fotografica.» «Quanti anni avevi?» «Oddio, forse otto. Mi piacevano i cereali per colazione.» In un'altra foto c'era una scatola di cereali. «Duncan.» Non sapeva come altro chiamarlo. «Guarda la data.» Lui non riusciva a vederla. Aprì le mani, inerme. «I numeri digitali, di lato», disse lei. «Quella foto è stata fatta due mesi fa.» Lui schiuse le labbra. Avvicinò la foto al viso, poi sfregò la data con il pollice. Sussultò. Il suo viso invecchiò di colpo; uno scherzo della fiamma, pensò Molly. Le rughe ai lati della bocca divennero fitte e profonde. La fronte s'increspò per la preoccupazione. «Che cos'è questa roba?» borbottò. «Speravo che potessi spiegarmelo tu.» Lui stava riflettendo. La data lo confondeva, ed era chiarissimo che non aveva mai visto prima quei bambini. Si era appropriato solo del cane, nient'altro. E che male c'era? Frugò in mezzo all'altra roba. La copia di Hustler cadde e si aprì, tette e vulve ovunque. Cartoline, fotografie, ritagli ingialliti. «Da quanto tempo fai così?» chiese Molly. «Da quanto tempo, cosa?» Lui era disorientato. Lei scelse con cura le parole. Meglio non fare accuse brusche. D'improvviso, le sembrava così fragile. «Prendi a prestito delle cose», affermò.
«Metti insieme una mascherata.» «Molly...» Lui pronunciò il suo nome come se fosse un'àncora di salvezza. Lei voleva credergli. L'amnesia lo aveva graziato. L'aveva reso una controfigura di tutte le persone a cui aveva sottratto qualcosa, e praticamente gli aveva reso la verginità. Il che spiegava la rivista per soli uomini con i suoi nudi e tutto il resto. Lui stava semplicemente cercando di mettersi in pari con il mondo. A ogni modo lei si tenne stretta la pistola. Qualcuno aveva messo le mine sul ponte e li aveva intrappolati lì. La luce cambiò nuovamente direzione, e i lineamenti sul viso di lui si afflosciarono ancora un po'. Non fu un collasso totale, ma era come se una qualche parte di lui si fosse svuotata. Le ombre lo stavano invadendo, le vampate della fornace divennero più fioche. La pioggia, pensò Molly disperata, senza staccare gli occhi di dosso a Duncan. Sta vincendo la pioggia. Aveva proprio fatto un errore: ferita e ammalata, aveva scelto l'apice di una bufera, l'inizio della notte per forzare la follia di quell'uomo. «Il fuoco», gli disse. Se fosse riuscita a tenere viva la luce, a tenere Duncan occupato, se fosse riuscita ad affaticarlo, se avesse tenuto duro fino all'alba, forse poi avrebbe intravisto uno spiraglio. Lui la sbirciò. Gli occhi erano vitrei, come coperti dalla cataratta. Un vecchio, pensò lei. «Scusa?» chiese lui. «Il fuoco ha bisogno di altra legna.» «Sì, ci penso io», rispose lui adagio. Sembrava che dentro di lui si fosse rotto qualcosa. Molly dovette far ricorso a tutta la sua forza di volontà per non allungarsi verso di lui e accarezzargli il braccio. Lui l'aveva salvata tante volte, e lei non voleva essere costretta a pronunciare un verdetto di condanna. Che differenza c'era tra un angelo e un diavolo, se non la caduta nel peccato? Era forse colpa sua, se si era trovato a vagare fra quelle rovine? Lui chiuse la valigetta e mise da parte le strisce di corteccia. Si spolverò le gambe. Le mani grandi sembravano dimagrite. Le dita gli tremavano. Non le era mai apparso fragile, e il cuore di Molly batteva forte. Gli aveva forse spezzato la ragione? Oppure lui stava solo fingendo... di nuovo? Duncan si affrettò verso il vano della porta, poi si bloccò. Qualcosa, fuori, lo bloccò. Molly strinse forte la pistola, pregando che lui non le si rivoltasse con-
tro. Ma lui continuò a fissare avanti a sé. E anche lei lanciò un'occhiata verso la porta. Là fuori c'era Luke, che li aspettava dall'altra parte del fuoco. 38 I ciocchi che Duncan aveva messo sul fuoco caddero su se stessi in un'eruzione di scintille e vapore. Molly distolse gli occhi dalle fiamme e tornò a guardare Luke che era ancora là. Stava così vicino al fuoco che i suoi cenci fumavano. La maglietta si era strappata e mostrava una spalla bianchissima, prova della sua mortalità. La pioggia scorreva sul suo viso come sulla ceramica, lui non aveva più capelli. Si era rasato la testa completamente. Era lui l'imbroglione, era sempre stato lui. Chi altri, se no? Il loro aguzzino, il demonio. Duncan si era raggelato. Non si muoveva. Molly pensò che Luke era lo spettro di Duncan. O il suo padrone. Quale dei due? Da fotografa aveva imparato prima a sparare poi a far domande, ma lei sparava solo flash. E se si fosse sbagliata? Si tenne la Glock di Kleat nascosta dietro la coscia. «Dove sei stato, Luke?» gli chiese. «Ci sei mancato.» Lui non rispose. Stava fissando Duncan. Dentro Duncan. «Ci siamo preoccupati», continuò lei. «Ti abbiamo chiamato. Abbiamo pensato che te ne fossi andato.» «Il nostro fratello errante», disse Luke rivolto a Duncan. Fratello, non padre. Lei capì che Duncan se n'era andato. Ma adesso era tornato. Provò a fare la dura. «Cosa diavolo vuoi?» Poi tirò fuori la pistola dal nascondiglio. Quell'oggetto portava in sé il volere di Kleat, come uno spirito che lo pervadeva. Altrimenti, come spiegare il fatto che lei la stesse puntando contro un altro essere umano? Quella era la sua mano, ma di certo non la sua volontà. L'arma trovò il proprio posto nello spazio vuoto fra loro. «Sei stato tu a posare le mine?» Luke si voltò a guardarla. Lei rammentò i suoi occhi al ristorante, azzurri come fiordalisi. Ora erano rovesciati nelle orbite, mostrando solo la parte bianca. Lei aveva conosciuto un recluso che faceva la stessa cosa: ogni volta che tentava di fotografarlo, quello rovesciava i bulbi oculari all'indietro, come in un rito sacrilego.
«Avete un lavoro da fare», ordinò Luke. Proprio come lei aveva temuto, non avrebbe permesso loro di andarsene. «Duncan», implorò lei. Non sapeva che cosa chiedere, con quell'arma in mano. Una dichiarazione di colpevolezza? Una promessa d'aiuto? Una resa? La fine delle ostilità? Di' qualcosa, pensò rivolta a Duncan. Ma lui era collegato con Luke, o Luke con lui. «Abbiamo visto cosa hai fatto alle ossa», affermò Molly. «Ce ne sono altre», promise lui. Altre carneficine? O altre ossa? Un movimento attirò la sua attenzione. Alle spalle di Luke il buio si muoveva. Lei scrutò attraverso la fiamma: occhi animali apparivano e scomparivano. Una sagoma scese da un albero, poi un'altra. Stavano arrivando le scimmie, pensò Molly. Ma si comportavano da sciacalli. «Cosa vuoi?» chiese finalmente Duncan, con la voce rotta. Aveva paura. «È ora», disse Luke. Duncan non si mosse. «Non ti capisco.» Teneva il capo chino. «Avevamo giurato di seguirti fino all'inferno», gli spiegò Luke. «E l'abbiamo fatto. Solo che ci è voluto tutto questo tempo.» Fuori di testa, pensò Molly, lui e noi. Posseduti dai cadaveri della guerra. Perché non aveva dato ascolto a Kleat? Lui li aveva avvisati, al ristorante. Aveva detto che quell'uomo era un predatore. E tuttavia nemmeno Kleat aveva creduto al suo stesso avvertimento. Era stato lui a insistere più di tutti perché seguissero Luke in quel limbo di alberi con nomi che sanguinavano e ossa nascoste. «Lei lasciala fuori», disse Duncan. Sembrava incerto. Stava tentando di superarlo. Cercando un riparo sicuro. «Fuori da cosa?» sussurrò Molly. «Non lo so», rispose lui in tono supplichevole. «È quasi finita», ammise Luke. «Sei stato tu», riprese Molly. «Tu hai minato la strada.» Il fuoco diminuì. Per un attimo, le orbite vuote di Luke la fissarono. Era uno scherzo dell'oscurità. Poi le fiamme ripresero a divampare. Lei gli vide di nuovo gli occhi. «Io gli avevo detto di raccontarti tutto», continuò Luke. «Lui si è perso insieme a noi. Adesso Johnny non potrà più andarsene.» «Johnny», ripeté Duncan, tentando di ricordare. «Lascialo stare», disse Molly. Dovette ricordare a se stessa che la pistola l'aveva lei. «Molly», sussurrò Luke. Ma la mascella non si era mossa. Non era la
sua voce. Noi. Qualcuno sussurrava dietro di lui. Le scimmie aumentarono di statura. Si raddrizzarono. Si era sbagliata: quelle non erano scimmie, per quanto poteva vedere. Nel gruppo c'erano individui seminudi e altri vestiti di stracci. Qualcuno solo di epidermide. Non tutti. Lei distolse lo sguardo da quelle figure in ombra. Non erano reali. Era la febbre. La pistola si fece più pesante, tremò. Liberò il braccio dalla benda per stabilizzare la mira. «Cosa vuoi da lui?» chiese a Luke. «Lui?» rispose il ragazzo. Volevano lei. «Cosa vuoi?» Riuscì a malapena a sentire la propria voce. «Ti abbiamo aspettata fin troppo a lungo, non credi?» fece Luke. Ricordò una frase simile giù allo scavo. Luke le sorrise e lei li riconobbe, i denti verdi di muschio. Solo che adesso ne mancavano altri tre, i tre che lei aveva staccato dal teschio quel mattino. Non si era rasato i capelli: li aveva persi. Lei si era portata via il suo scalpo. Lucas Yale non era una finzione: era morto. Molly premette il grilletto. Lui non si era mosso. Non aveva fatto altro che sorridere. Nessuno al mondo l'avrebbe definita legittima difesa. Tuttavia lei fece fuoco. Uccise la sua impossibilità. Si udì un grido e il rumore di un corpo che cadeva nel fuoco. Torce legnose saltarono fra le fiamme. La pioggia sibilava. Fumo e vapore si levarono in un turbine verso l'alto, risucchiati dal vento. La luce fu sul punto di spegnersi. «Duncan», urlò lei. Lui la guardò, guardò la pistola, guardò il corpo che bruciava tra i ciocchi. Uscì dal capanno. Gli uomini ombra, i primati, erano fuggiti. Molly strisciò fuori dalla capanna con la pistola in mano. La pioggia la sferzò come una gragnola di sassi gelidi. La sua ferita sembrava lontana, non più custodita nell'incavo del braccio. Per il momento, non era degna d'attenzione. Lei e Duncan girarono attorno alle fiamme e al corpo. Gli abiti erano troppo bagnati per rendere davvero fuoco, ma loro sentirono di nuovo quell'odore, il puzzo dei capelli che bruciavano. Quali capelli? E quando gli era comparso quel fucile sulla schiena?
Duncan trascinò il corpo, con i capelli in fiamme, fuori dal fuoco. Lo rigirarono a viso in su, e non era Luke a guardarli con i suoi occhi di giada; non era lui, con quei tatuaggi rozzi sulle braccia e i denti d'oro che scintillavano tra le labbra arse. Molly aveva appena ucciso Vin. L'arma le cadde di mano. Nel suo stato febbrile, aveva scambiato il ragazzo disperso per un fantasma. Oppure la pioggia l'aveva infettata. Era buio. La notte era contaminata di ombre. Duncan raccolse la pistola da terra. Lei era troppo inorridita per preoccuparsene. Lui prese la mira. Lei lo guardava come attraverso un obiettivo appannato. La sua mente si stava chiudendo. Il boato dei colpi le risuonò negli orecchi. Duncan stava sparando a bruciapelo dentro il capanno. Si era scordata delle taniche ammassate là dentro. Gliele ricordò l'odore di carburante. Che stava gocciolando in discesa, verso il fuoco. Lui aveva costruito una bomba davanti ai suoi occhi. «Corri», disse Duncan. Lei ci provò, e cadde. Lui la riprese, e lei pensò che l'avrebbe portata su per la scalinata. Sarebbero fuggiti nella notte, sulle ali del tifone. Ma Duncan era troppo debole. Dopo solo pochi passi, gemette: «Non ce la faccio». Il suo supereroe la rimise a terra. Sembrava fragile o forse era ferito. Mentre ripartivano, con il braccio di lei attorno alle spalle esili di lui, Molly non avrebbe potuto dire chi stava portando chi. 39 La radura prese fuoco come un calice di luce. E come la moglie di Lot, Molly non poté resistere e si voltò a contemplare la distruzione. Cercò gli scimmioni fantasma, ma la luce li aveva allontanati. Non restava che il corpo. Lei si era immaginata Luke, un morto, gli aveva persino parlato, e poi aveva premuto il grilletto. Ma nel liberarsi di un'allucinazione, aveva assassinato un povero ragazzo perduto. Cieco con delle pietre al posto degli occhi. Oppure aveva immaginato anche quello? Molly avrebbe voluto dare la colpa alla febbre, ma temeva il peggio. La pazzia era innata nei suoi geni. La madre naturale era ritornata come una maledizione. «Vai su», le ordinò Duncan.
Un'altra tanica s'incendiò. I visi dei giganti di pietra pulsavano tra gli alberi. Le ombre si disperdevano e poi si riunivano. «Dobbiamo tornare indietro, devo seppellirlo», rispose. Da chi stavano scappando, oltre che da se stessi? Luke era frutto della sua fantasia e lei aveva ucciso un ragazzo e gettato quel fragile eremita che era Duncan in un tale panico da indurlo a far esplodere la benzina. Le venne in mente che poteva essersi immaginata anche tutta quella sequenza di azioni, e che poteva essere stata lei a scaricare l'arma sulle taniche e a distruggere le loro ultime speranze. Sarebbe stato in linea con le tradizioni famigliari: il suicidio lento, questa volta in mezzo alla giungla anziché nella neve. «Sali», le sussurrò Duncan. «Loro verranno a cercarci.» Lei lo costrinse a fermarsi, semplicemente appoggiandosi alla sua spalla. Dov'era finita tutta la sua forza? «Tu li hai visti?» Lei confessò il proprio miraggio. «Quegli altri, nell'ombra?» «Non lo so.» Ma l'urgenza che sentiva era certa. «Dobbiamo continuare a muoverci.» Qualcuno dava loro la caccia. Duncan non lo disse apertamente, forse perché credeva che lei non si sarebbe più mossa. A metà scalinata, la pioggia aveva ormai soffocato gli ultimi fuochi e il rogo principale. L'oscurità le diede speranza. Forse Luke e il suo squadrone della morte sarebbero stati ridotti a brancolare nel buio come lei e Duncan. Si arrampicarono sui gradoni, riposandosi più spesso di quanto avrebbero voluto. La spossatezza di Duncan era quella di Molly. Lui sembrava debole e confuso quanto lei. Lui vacillava, lei vacillava. Con i suoi dubbi, Molly lo aveva ferito. Però doveva esserci dell'altro: lei si rammentò del fumo che gli era uscito dal petto quel pomeriggio, e temette che anche lui fosse stato colpito. Era stata così presa dalla propria ferita da non accorgersene nemmeno? Si strinsero l'uno all'altra come invalidi. Lei posò il capo sul dorso di lui e sentì le costole contro lo zigomo. Lei ricordava la stretta di lui ampia e solida, ma adesso la mano di Duncan le sembrava sottilissima. Diede la colpa a se stessa. Lui l'aveva protetta così tante volte che lei lo aveva reso diverso da ciò che era: un uomo stanco, al termine di una giornata lunghissima e tremenda. Finalmente completarono la salita.
Quella notte la città era viva. Lei ricordò l'abbraccio di Duncan, quel mattino, e il meraviglioso battito del suo cuore, la città in quel momento era così. Pulsava d'acqua, gli ingranaggi si muovevano, la pioggia l'aveva resuscitata. O meglio, la pioggia si era fermata e persino il vento, ma la città era in azione. Le sue arterie erano piene. Molly pensò che l'uragano fosse finito. Le gocce di pioggia avevano smesso di pungerle gli occhi. Il terribile frastuono sopra la volta taceva. Ma Duncan non avrebbe voluto quella calma. Voleva altra tempesta, altra furia a coprire la loro fuga. «È la nostra unica speranza», disse. Tra le foglie gocciolava la luce della luna, non a raggi diretti ma per riflesso da una foglia all'altra. Avvolgeva le rovine in un buio argenteo, sufficiente a far vedere qualcosa. A destra e a sinistra, lungo il perimetro, dalle bocche di cobra delle gargolle naga si riversava acqua. Monumenti e guglie formavano profili di fiori e fiamme lungo i bordi. Enormi teste andavano alla deriva come asteroidi dal volto umano. I due si addentrarono più a fondo. Quella città era un monumento idraulico, una celebrazione dell'acqua che un tempo era stata il motore dell'impero. Anche terrorizzata e dolorante, Molly era sgomenta di fronte a quella ingegnosità. Duemila anni prima gli architetti avevano progettato degli edifici che risuonassero con l'acqua. Nascosta tra le ombre della luna, Molly riusciva a sentire le note. L'acqua traboccava da una cisterna all'altra in cascatelle armoniose. Scorreva tra le scanalature della pietra, costringendo l'aria a passare attraverso canne sibilanti. Batteva un suo ritmo contro i pannelli che fiancheggiavano i canali. Ogni struttura sembrava avere una propria canzone incastonata tra gli sfiatatoi e i doccioni. Le fosse e le canalette erano molto più che semplici arterie di drenaggio: erano gole progettate per cantare. Gli uomini del reggimento Blackhorse avevano udito quella musica, i frammenti del diario lo provavano. Avevano percepito la meraviglia che sentiva lei? Avevano ascoltato? Quelle note la chiamavano dai sentieri laterali e dalle scalinate, persino da sotto i piedi, sotto le pietre del lastrico. Lei avrebbe voluto fermarsi e perlustrare la città, ascoltarne ogni parte. «Senti», disse lei. Era rapita. La musica era più forte dei loro inseguitori. Sembrava più potente di ogni pericolo. L'attirava, e lei non riusciva a capirne il motivo.
Duncan si mantenne immune alla tentazione. «Continua a muoverti», le sussurrò. Raggiunsero la torre, e lei sarebbe stata felice di riposarsi un po' su quella sommità. Da lassù avrebbero potuto osservare Luke e le sue ombre, e Duncan avrebbe potuto scaldarla tra le sue braccia. Avrebbero potuto dimenticare, con il canto della città che si levava fino a loro. Ma Duncan proseguiva, e ogni volta che lei restava indietro diceva: «I portali». «Ma sono chiusi», osservò lei. «Sono ostruiti da liane e filo spinato.» «Da uno o dall'altro passeremo», le rispose. «Lo so.» Lo enunciò come un dogma di fede. «Sono stanca, Duncan.» «Ancora un pochino.» «Possiamo riposare nella torre.» «Ci troveranno.» La prese per mano, sospingendola su un ponte. L'architettura cominciò a rimpicciolirsi. Apparve l'alto e serpentino dorso delle mura della fortezza. Il fossato interno ululava di scrosci. Quanti nemici erano stati risucchiati fino alla morte, nel tentativo di saltare quel mostro? Duncan si fece più cauto, costringendo entrambi a spostarsi da un cono d'ombra all'altro. La luce cominciò ad affievolirsi, la tempesta stava tornando. La luna venne coperta da nubi. Il bagliore argenteo scomparve, inghiottito dall'oscurità. Il vento stava ritrovando la forza. Il loro scalpiccio sulle foglie venne sostituito da tonfi sui rami simili a passi di gigante. Duncan avrebbe ottenuto l'altro uragano. «Eccolo là», sussurrò a Molly. Il torrione multicefalo del portale attraversava il muro. Un banco di nubi oscurò nuovamente la luna. Ma loro avevano capito dov'erano. «Vado io per primo», mormorò Duncan. Ha paura delle mine, pensò lei. Luke aveva sigillato un ingresso, perché non anche gli altri? Quella era una furberia che dovevano controllare. E se c'era uno che poteva sciogliere quel nodo di filo spinato e vegetazione, quello era Duncan. La disperazione era dalla loro parte, e i loro cacciatori avevano un'intera città da perquisire. Procedettero a tentoni, Duncan davanti con Molly che teneva una mano sulla sua spalla. Il vento saliva e il rumore aumentava, l'effetto paracadute cominciò a schiacciare le fondamenta della città. Anche al buio, Molly riusciva a percepire la vicinanza del portale. Co-
minciò a sentire quel vago e familiare senso di claustrofobia, che cresceva a ogni passo, come una risacca di malattia e scoramento. Ma che cosa si erano messi in testa? La barriera era impenetrabile. Una maledizione per chi tentava di violarla. Quell'idea la pervase tutta. Sentì uno schiocco sordo e improvviso. Duncan emise un grido di sgomento e ricadde all'indietro, contro di lei. Precipitarono entrambi, e Molly pensò: Siamo morti. 40 Lui lottò per prendere aria. I suoi piedi sfregavano la pietra sdrucciolevole. Lei era certa che qualcuno gli avesse sparato. «Che cos'hai?» sussurrò. Poi si rese conto che lui premeva all'indietro, per allontanarsi dal portale. Si rimise in piedi e lo trascinò per la camicia, lontano da quel punto. Fu sorpresa: pesava poco più di un bambino. Duncan aveva accessi di tosse bestiali e il fiato corto. Sopra la volta, le nubi si aprirono per un istante. Il bagliore della palude li illuminò. Olio nero... anzi no, sangue, che si spandeva dal suo naso rotto, dalla bocca e da un taglio sull'occhio. «Cosa...» gemette lei. Ma doveva essere forte. Adesso era il suo turno di salvarlo. Lui non riusciva a parlare, solo rumori strozzati e nasali, attraverso il sangue e la ferita. La mascella si era deformata. Gli avevano sparato in faccia? Molly sedette accanto a lui, in cerca dei loro assalitori. Davanti al tunnel si ergeva una foresta di guerrieri di terracotta. Le teste erano state rimesse al loro posto. Gli occhi di giada imbevuti di minaccia. Molly tentò di comprendere. Le statue si erano rialzate. Fianco a fianco, non erano più rovesciate o confitte nel terreno. Qualcuno, Luke o Samnang o altri ancora, aveva sollevato i guerrieri dal terreno e li aveva rimessi in piedi per bloccare l'uscita. Erano allineati in colonna, più di quanti lei potesse contarne. Il riverbero della luce li faceva sembrare vivi, anche se erano solo gusci vuoti. Ma con quegli occhi incandescenti, sembrava che fossero stati loro a ferire Duncan. Lei cercò di vedere se Luke si nascondeva fra le statue. Ma tutto era immobile. La luna si spense di nuovo. L'oscurità li avvolse. Lei si tenne Duncan stretto in grembo.
Lui continuava a toccarsi la faccia, lei lo sentiva mentre lo faceva; si tastava le ferite, e la cosa la spaventò ancora di più. Erano diventati creature del fondo marino, ridotti a conoscere il mondo con tentacoli e antenne. Benché temesse di fargli più male, Molly si costrinse a sfioragli il viso. Percepì del sangue e la sporgenza ossea della mascella, e l'altra ferita sopra l'orecchio. Gli fece scorrere una mano sulla testa bagnata e qualcosa si staccò, come una lunga ciocca. Lei si disse che dovevano essere erbacce o muschio, ma mentre se li toglieva dalle dita le sembrarono capelli. Duncan gemette. «Mi dispiace», sussurrò lei. Lui le toccò la mano, per rassicurarla. Poi lei sentì che lui si afferrava la mandibola, e capì che cosa intendeva fare. Infilò sotto i pollici, si afferrò la guancia e diede uno strattone all'osso. L'articolazione emise uno schiocco e lui gemette di nuovo, ma la mascella non tornò al suo posto. Molly fu sul punto di vomitare. La luna rifece capolino. Duncan si chinò in avanti per lasciarsi scorrere il sangue dal naso e dalla bocca. Lei si inginocchiò e si tolse il kroma e glielo avvolse intorno alla fronte. Che cos'altro poteva fare? Le statue la spaventavano. Luke le aveva messe lì come avvertimento. Quali altri tranelli aveva posizionato nella galleria? Riuscì a far alzare Duncan. Era così magro. «Mettimi un braccio intorno alle spalle.» Sostenere lui diede forza a lei. L'effetto delle endorfine, pensò Molly. Lui sembrava tanto leggero da potersi portare in braccio. Poi le nuvole si rimangiarono la luna. Il portale era fuori discussione, e sarebbe stato da pazzi cercare di tornare verso la torre al centro della città. A quel punto ormai i loro persecutori sarebbero stati fra le rovine come segugi. Molly condusse Duncan lungo il sentiero del fossato, seguendolo a orecchio. Faceva ogni passo con cautela. Un solo scivolone ed entrambi sarebbero stati spazzati via. Si trascinarono sempre più in alto, lungo il muro. Il vento prese a ululare, come se volesse strappare la volta frondosa sopra di loro. Sulla montagna si abbatté un tuono. Lei sentì di nuovo la vibrazione del bambù, e le liane che li sferzavano come scudisci. I ruderi scricchiolavano come le viscere di un ghiacciaio. Molly si sentì impotente. Erano dei morti viventi, e se anche ci fosse stata una breccia nel muro, quanto lontano potevano sperare di arrivare? Che
cosa c'era là fuori ad aspettarli nella notte? Finché ne aveva ancora la forza, aiutò Duncan a girarsi verso la città. C'era solo oscurità, niente più luna. La bufera li assalì. Molly trovò la strada seguendo il canto degli antichi edifici. Tentò di captare un vuoto e trovò una porta. Lì riuscirono a ripararsi dalla pioggia, ma il fondo era mezzo allagato. Tastò e sentì una scaletta che saliva fino a una sporgenza. A tentoni, tremando per la febbre, sistemò Duncan contro il muro più in fondo e raccolse muschio e foglie per coprirlo. Quando lui fu ben rimboccato, s'infilò sotto il cumulo per stringerlo a sé. La pioggia avrebbe lavato via le loro tracce e il loro odore e ogni altra prova del loro passaggio. La mattina, sarebbero ripartiti. 41 Molly si svegliò reggendo una bracciata di foglie. Quella sporgenza era un'antica veranda che guardava sulle rovine. Forse un tempo gli amanti salivano là sopra per rinfrescarsi e condividere la vista della strada sottostante. La luce azzurra si andava facendo verde, e la nebbia precipitava di sotto. Era l'alba in città. Lei rimase immobile sopra il fiume fantasma. Poi vide una libellula, un gioiello alato. Le divinità, con i loro visi aberranti, la invitavano a sognare ancora. Il tifone era passato, le pietre non scricchiolavano più. Il canto dell'acqua si era ridotto a un flebile sgocciolio. Duncan era sparito. Lei si guardò le mani vuote che spuntavano tra le foglie. Lui se n'era andato per attirarli lontano da lei. Così era fatto Duncan. Ma dalla caligine salirono dei mormoni. «Molly», la chiamavano. Sapevano che era lì, da qualche parte. Avevano fatto una deviazione per lei, il che poteva significare soltanto che avevano già ammazzato Duncan. Le sue orme o il suo odore, quale che fosse la traccia, portavano fin lì. Lei nascose le mani tra le foglie. Con gli occhi spalancati, li guardò dall'alto. Loro emersero nella nebbia della strada, indizi fantasma della loro presenza: una spalla nuda, una schiena ingobbita, una ciocca di capelli neri, stracci color kaki. Era una parata di miraggi, anzi di reliquie. Stretta da qualcuno a lei invisibile, la canna di un fucile, imperlata di ru-
giada, oscillava qua e là. Erano solo frammenti di foschia, silenziosi salvo che per qualche parola sibilata. Avrebbero potuto essere una serpe gigantesca che scivolava attraverso il labirinto, la pelle che sussurrava contro le mura. Molly attese, odiando profondamente l'adrenalina che l'aveva svegliata. La ferita causata della scheggia bruciava, ormai infetta. Sulle gambe percepiva un solletico d'inserti e la suzione delicata delle mignatte. Poi finalmente i suoi cacciatori svanirono. Lei s'impose di aspettare, contando i secondi nella testa, cercando di fare piani. Gli dèi sorridevano della sua follia. Le pareti della fortezza erano intatte. Non c'era via d'uscita. Lei strisciò fuori dal marciume. La sua vista annaspava in una messa a fuoco impossibile, prima opaca e poi acuta, vicina e poi lontana. Lucide sanguisughe nere stavano aggrappate alle sue braccia. La foresta si stava appropriando di lei. Ci volle tutta la sua forza per rimettersi in piedi e quando guardò in basso, vide un giaciglio che sembrava una tana da animali. Mentre scendeva verso la strada le tremavano le gambe. Andò dalla parte opposta rispetto agli inseguitori, sia per evitarli sia per capire come l'avessero rintracciata. Era là che dovevano aver lasciato Duncan. A mano a mano che la nebbia si diradava le guglie si facevano più alte. Tutto intorno, la foschia sgocciolava da ogni edificio. Sbucava fuori dalle porte vuote e ruzzolava giù per le scale. Esalava dalle bocche delle teste giganti. Tra uno sbuffo e l'altro, vide pappagalli e altri volatili più piccoli intrecciare rotte nell'aria mattutina. Sopra la sua testa le scimmie saltavano qua e là come spie. Cervi invisibili bramivano al suo passare. La stavano denunciando, anche se la sua presenza era già nota. Ormai lo aveva accettato. Ovunque sulla strada erano sparse armi e scatolette arrugginite di razioni K, buttate fuori delle porte come immondizia. I soldati erano diventati così incauti da disfarsi dei fucili? No, erano stati gli animali, lo sapeva. Con il passare degli anni avevano frugato tra i resti e li avevano portati all'esterno. Sua madre era stata sparpagliata per un chilometro di crinale montano. Tutto quello che poteva fare era tenersi in piedi. Sbirciò dentro una stanza. Le pareti erano imbrattate di cartine schizzate a mano, come foglie bagnate. L'inchiostro era sbiadito, ma era ancora possibile vedere i tentativi di tracciare una mappa delle rovine. Ognuna aveva una data in un angolo; prima luglio, poi agosto, poi fine settembre... tre
mesi dopo il loro arrivo. Ciascuna era stata cancellata, ridisegnata, appallottolata e poi ripresa. I cartografi improvvisati non erano mai riusciti a comprendere quel luogo. Le rovine li avevano sconfitti fino alla fine. Quando uscì dalla stanza, Molly vide la bocca nera della canna di un fucile puntata dritta contro di lei. Il rifugio del cecchino era praticamente invisibile tra i ruderi, ma il suo sguardo arrivò diritto fino a lui. Lei non riusciva a spiegarsi quel dono che aveva, di vederli sempre. Il cecchino sedeva sulla biforcazione di un ramo, legato all'albero. Il fucile era bloccato in quella posizione, stretto alla spalla dai rampicanti. Il teschio poggiava contro il tronco, a prendere una mira infinita con gli occhi tondi di pietra. Come a Luke, anche a lui era stata data una vista di giada. Era come se la città guardasse se stessa, attraverso i loro occhi. Dell'uniforme non rimaneva nulla, benché lui indossasse ancora le giberne e un asciugamano attorno alle vertebre del collo, e il teschio sfoggiasse una specie di turbante. Le ossa delle gambe e gli stivali erano da tempo caduti a terra, ma dalla cintola in su il soldato teneva d'occhio la strada come un falco. Il senso del dovere c'entrava, certo, ma qui Molly aveva di fronte qualcos'altro. Oltre a legarsi all'albero, l'uomo si era rinchiuso in un bozzolo di filo spinato. Il suo ultimo atto, portare fin lassù il filo e poi farne una palla informe, la lasciò perplessa. Da che cosa aveva sperato che lo proteggesse? Dalla fame, dalla disperazione, dalla pazzia? Si era forse messo in gabbia da sé per impedirsi di vagabondare? Lei ricordò le scimmie che avevano saccheggiato il cadavere, il giorno precedente. Lui aveva forse scelto l'albero come tomba e poi rinchiuso i propri resti mortali per proteggerli dagli animali? Chi altri avrebbe potuto temere, tra i suoi compagni moribondi o già morti? Molly seguitò a fatica, passando sotto di lui. Uno dei commilitoni, o forse, un olandese che avevano percorso l'Indocina nel diciassettesimo secolo, aveva intagliato una croce nella pietra. Un altro muro più riparato era adorno di una bandiera sudista, bianca e rossa, e di un simbolo della pace bianco e nero. Avevano inciso i nomi di mogli e fidanzate anche in mezzo alle ninfe aspara danzanti, dai seni rotondi. Attraversò il canyon con i pannelli scolpiti che lei e Duncan avevano condiviso, ma le sculture si erano modificate. Adesso il corteo dei prigionieri decapitati giaceva a terra. Il dragone si era ritirato nel mare. Le divinità a forma di scimmia avevano sconfitto i guerrieri umani. I coccodrilli avevano afferrato il pavone e lo stavano trascinando per le zampe nell'ac-
qua. Lei capì finalmente, comprese tutto, la morte dei prigionieri, il passaggio del tifone, il trionfo delle scimmie, e i loro corpi e spiriti che venivano trascinati nell'aldilà. Arrivò fino a un piccolo cimitero. Avevano sepolto i loro morti, o almeno i loro primi caduti finché avevano ancora la forza e il senno per farlo. Ma trent'anni di vita animale avevano disfatto la loro fatica. Le ossa bianche giacevano sparse sul fianco della collina, a centinaia. Quel mattino i resti le sembravano così evidenti... era come se i soldati dell'Undicesimo reggimento Blackhorse fossero usciti allo scoperto. Molly pensò che forse la bufera aveva assottigliato la volta facendo entrare più luce o che la febbre rendesse i suoi sensi più acuti. Le ossa l'avevano praticamente salutata. Lei non aveva idea di quanti uomini avesse contenuto il cimitero. Duncan o Kleat avrebbero potuto dirlo, stimando le ossa; si erano allenati a lungo. Ma loro non c'erano più. Lei era l'ultima rimasta. Quella fu la sua prima ammissione conscia. Stava morendo. Se non l'avesse trovata Luke se la sarebbe presa la febbre o l'infezione. Era solo questione di tempo. Ma poi, chi avrebbe riportato a casa i soldati? C'era un fucile in piedi, conficcato nella terra dalla parte della canna, con sopra un elmetto. Un'inquadratura classica. Nella sua mente Molly sistemò lo scatto, l'arma, le ossa bianche, il terriccio scuro. Poi batté le palpebre. Ricordava quel terriccio. Era lo stesso humus denso e nero che era caduto sulla loro tovaglia, al ristorante. Era da qui che Luke aveva portato via manciate di fango, e le piastrine. Era qui che il viaggio era cominciato. Il cerchio si stringeva, e Molly stava per raggiungere il centro. 42 Ritrovò la torre guardando in basso, anziché in alto. Durante la notte la pioggia aveva riempito una lunga vasca rettangolare che si stendeva sotto gli alberi. Questo era un nuovo approccio, diverso dalle sue precedenti sortite nel centro della città. L'immagine della torre era riflessa sulla vasca, sospesa all'altra estremità, rovesciata come in uno specchio. Là, tra i rami, solo cento metri più avanti, c'era il basamento. Ho ritrovato la strada, pensò Molly. Ecco la sua destinazione. Mentre oltrepassava la vasca, un'increspatura percosse la pietra. Lei si fermò e l'acqua tornò calma. Le ninfee, immobili. Molly attese e, come il
giorno prima alla cisterna, qualcosa si mosse nel profondo. La superficie sembrò aprirsi. Sul fondo era posata una mitragliatrice, ingarbugliata d'alghe. I nastri di munizioni stavano diventando verdi, come vecchie monete. L'arma non era montata su un treppiede, né posizionata con cura. Sembrava una cosa gettata via, senza più importanza. Poi la superficie si richiuse, divenne nuovamente uno specchio, e lei si ritrovò di fronte al mitragliere, o alla sua immagine riflessa. Alzò gli occhi. Quel che restava dello scheletro, la colonna vertebrale afflosciata, il cranio e qualche costola, pendeva da un cappio. La corda si mosse, il teschio si voltò e le piantò addosso occhi di giada. Prima Luke, poi il cecchino nella sua gabbia di filo spinato, e ora quest'uomo. La disperazione si era impadronita di loro come un virus. Anche lei la sentiva, intrappolata com'era al centro della terra, inseguita da pericoli incerti. Moribonda. Quella era la cosa peggiore, quella sensazione del tempo che avanzava a dismisura, l'ossessione per le cartine piene di cerchi. Persino quello aveva senso, adesso. Persino il suicidio aveva senso. Ma perché si erano separati gli uni dagli altri? Quando avevano più bisogno della reciproca compagnia, quegli uomini si erano rifugiati nella desolazione e nell'estraniamento. Si erano ritirati in nascondigli distanti e solitari, il cecchino appollaiato sull'albero, Luke nella sua tana di bambù, il mitragliere in un cappio. Non c'erano segni che il nemico li avesse trovati. Forse gli uomini avevano cominciato a darsi la caccia a vicenda? O si erano immaginati prede di qualcuno? Perché no? La carne di scimmia poteva averli contagiati con una febbre cerebrale. Erano forse stati uccisi dai loro stessi fantasmi? Lei volse lo sguardo in alto, al sorriso onnipresente di Dio. Dove stava lo scherzo? Nella sofferenza e nella confusione di quegli uomini? Da qualunque parte ci si girasse, quella città sembrava deridere chiunque. Lei incassò la testa nelle spalle, cercando di contenere la rabbia. Da ogni parte, quel luogo faceva impazzire. La torre sembrò muoversi adagio verso di lei. Di certo Duncan li avrebbe portati là, ma era più un desiderio che un calcolo; in realtà lei non aveva tempo per il resto del labirinto. Raggiunse il bassorilievo alla base della torre. Lo guardò di nuovo e le figure si stavano davvero muovendo. Uno dei bimbi di pietra, una bambina, si voltò e la guardò negli occhi. Molly se li coprì con le mani e corse via, sulla scala.
Duncan era passato di lì. La sua sciarpa bianca e rossa giaceva come un fagotto sugli scalini. La pioggia doveva averla ripulita, perché non si vedeva una goccia di tutto il sangue che aveva perso la sera prima. Lei se l'avvolse intorno al collo e poi prese coraggio, passo dopo passo. Salì sempre più in alto. Lottava contro le vertigini tenendosi precariamente sull'estremità più esterna. Le porte le sussurravano messaggi, facendole venire la tentazione di entrare e fermarsi un po'. Ma lei resistette, imponendosi di andare avanti. Quando stava per raggiungere la cima, un movimento nell'erba la costrinse ad appiattirsi contro gli scalini. Stavolta non c'era nebbia a nasconderli, e la luce verde era il meglio che si potesse chiedere. Tuttavia, loro sfuggivano ancora a un'ispezione completa. Apparivano a pezzi dall'imbocco di uno dei viali più grandi. Molly intravide una spalla e un braccio umano, che poi affondò nuovamente nell'erba. Dopo vide una testa che guardava a destra e a sinistra prima di nascondersi dietro una colonna. Riapparve la schiena ingobbita. Qualcuno era nudo e portava la barba. Altri indossavano tute lacere rubate dal cimitero. Alcuni camminavano scalzi. Coltelli e zaini dividevano il mare d'erba. Era un corteo di armi ed equipaggiamento. La pelle e le ossa erano poco più che veicoli per loro. Tutti portavano addosso la giungla; lei pensò che le liane e le erbacce dovessero far parte del loro camuffamento. Ma poi notò i piccoli animali che si muovevano sopra di loro, lucertole, un serpente e persino una scimmia che si faceva trasportare, maestosa, sulla spalla di uno di loro. La foresta li abitava: loro avevano venduto l'anima a quel posto. Non erano fantasmi. Molly si rifiutò di chiamarli così. Si aggrappò al potere della ragione. Se li avesse definiti esseri soprannaturali avrebbe perso ogni contatto con il mondo razionale. Non che rifiutasse l'idea dei fantasmi: anche sua madre lo era. Ma gli spettri si dovevano possedere, controllare, non viceversa. I fantasmi erano dati, pezzi del passato di ogni persona. Consentivano di dialogare con se stessi, e non possedevano alcuna realtà salvo quella che si concedeva loro. E lei non voleva concedere nulla. Non era stata lei a evocare quegli avvoltoi che giocavano a nascondino strisciando nell'erba là sotto. Per arcano che fosse, Luke era comparso ben prima che lei avesse una qualsiasi intuizione di lui, o di loro. Non potevano esserci fantasmi del Blackhorse perché il reggimento non faceva parte del passato di Molly. Lei non aveva al-
cun legame con l'Undicesimo cavalleria corazzata. E quindi, per quanto infestassero le rovine ed emulassero i morti, quegli uomini erano in qualche modo reali. Se solo fosse riuscita a concentrarsi. Non era riuscita ad affrontare i loro sussurri e le loro sagome fuori dalla tenda e il loro avanzare nella nebbia, ma lei poteva mettere in discussione la loro irrealtà. Loro la stavano cacciando. Lei si stava nascondendo da loro, chiunque fossero. E con ogni probabilità Duncan si era sacrificato per proteggerla. Tutto invano. L'avrebbero trovata, prima o poi. La vera competizione, a ogni modo, non era con loro ma con se stessa. Non aveva alcuna speranza di sconfiggerli: erano troppi, e quello era il loro territorio, e lei si stava spegnendo in fretta. Non avrebbe potuto batterli, ma poteva fare in modo che loro non battessero lei. Rimanere in possesso delle sue facoltà mentali sarebbe stata già una grande vittoria. La fila di uomini - saccheggiatori, pazzi o cacciatori d'uomini dei tempi del Vietnam - avanzò in diagonale attraverso la piazza incolta. Si muovevano come una pattuglia, a distanza di sicurezza, prendendosi il tempo che ci voleva. Avevano quasi raggiunto gli alberi dall'altro lato quando caddero in un'imboscata. All'inizio Molly non riuscì a capire che cosa stesse succedendo: le sembrò più un turbine di vento abbattutosi sull'erba che un attacco. Il caos esplose da dietro gli alberi. I rami si piegarono, le foglie si divisero. Gli uccelli volarono via da dov'erano appollaiati e riempirono l'aria di strida e colori. Da tre lati, dei solchi tagliarono trasversalmente la distesa verde dell'erba. Sbirciando dalla torre, Molly vide solo delle sagome, delle figure degradate, pezzi di creature che erano anche meno di quei frammenti di uomo. In teoria erano umani, umani nel contorno; ma in realtà, lei non avrebbe potuto dire con certezza che stava davvero vedendo qualcosa. Nell'uscire in massa dagli alberi, quegli esseri sembravano in parte animali e in parte fatti di vetro o d'acqua. Gettavano ombre come quelle dei pesci, amorfe e distorte, facendosi largo a forza nella luce verde. Molly vedeva le loro armi meglio di quanto vedesse loro, e non erano rimasugli dell'arsenale del Blackhorse ma oggetti antichi, spade e asce che falciavano l'erba, e quelle armi sembravano quasi muoversi per volontà propria, in cerca di vittime. Le sagome della foresta si lanciarono verso la pattuglia. La battaglia non assunse una forma precisa e durò pochi secondi. L'erba venne spazzata in una furibonda centrifuga di forme. Si piegò, venne sferzata e si appiattì. Lei sentì il boato di mille voci maschili che urlavano. Poi
l'intero miraggio di violenza sparì. Era stato come se il vento si fosse posato per un istante e poi fosse ripartito. Gli uomini, o quelle idee d'uomini, svanirono. Lei non si mosse per un altro minuto. Là sotto era successo qualcosa di primordiale, come una microturbolenza o la danza di un derviscio. L'erba era là, appiattita e strappata in una spirale ribollente, e il boato riecheggiò ancora per qualche secondo nella foresta come se fra le mura della fortezza stesse turbinando una battaglia di spiriti. Poi le ombre si placarono, e gli uccelli tornarono sui rami. A quel punto Molly sarebbe potuta scendere. I suoi inseguitori erano spariti, o così pareva. Ma dove poteva andare? Le gambe non la reggevano più. Se anche fosse riuscita a tornare all'accampamento, là non c'era altro che cenere. Riprese ad avanzare a quattro zampe. Era terrorizzata di perdere le ultime forze lì, all'aperto. Voleva mura intorno a sé. Voleva un asilo. Una torre da fiaba dove i cattivi non potessero trovarla. Dovette convincersi ad arrivare in cima: «Ancora un pochino». Mai prima di allora aveva sentito così il peso della carne. Arrivò finalmente sulla sommità e si guardò intorno. Di sotto la città girava in un cerchio cosmico, un mandala di ruderi ed erbe smeraldine. E proprio mentre guardava riapparvero i cacciatori. La pattuglia emerse dall'imbocco di uno dei viali più grandi. Una spalla e un braccio umano, che poi affondò nuovamente nell'erba. Una testa che guardava a destra e a sinistra prima di nascondersi dietro una colonna. Riapparve la schiena ingobbita. Tutto si ripeteva, all'infinito. Fantasmi davvero, pensò Molly. 43 L'infezione si era diffusa. La cavità toracica, le spalle e la schiena bruciavano per lo streptococco. Tuttavia lei riuscì a rimettersi in piedi davanti alla porta. Il riflusso del sangue le fece girare la testa. Molly fu paziente e attese che finisse. L'amazzone di pietra che era caduta dalla nicchia era stata rimessa a posto. Molly non riusciva più nemmeno a capire quale delle due fosse rotta. Anche la porta sembrava restaurata. L'architrave imbarcata adesso era diritta. Le colonne rossicce sembravano più lucide, ripulite dal muschio.
«Duncan?» chiese lei in un sussurro. Ma non ebbe risposta. Entrò e le due donne di pietra le permisero di passare. La stanza era esattamente come l'aveva lasciata. Nel punto in cui lei, Duncan e Kleat avevano spostato il tappeto di foglie il pavimento gridava ancora il suo nero SOS. Le pietre erano cosparse di bossoli. Dall'apertura nel tetto la luce verde si riversava sul muro opposto. Molly era sola con i resti dei Buddha. Quel mattino la profanazione che avevano subito non la sconvolse. Adesso capiva tutto. I soldati avevano visto la verità dietro quei sorrisi siderali. La calma della città era una menzogna: dietro la facciata, quel santuario fortificato era una trappola mortale. Facendo saltare i visi dei Buddha con i loro proiettili, gli uomini avevano cercato di sradicare quel terribile inganno. «Duncan?» Sentì un rivolo di sudore freddo lungo la spina dorsale. Vicino alla porta perse la presa, poi ritrovò l'equilibrio. Lo pretese. Una volta a terra, non si sarebbe più rialzata. Passò in rassegna la stanza per trovare un pezzetto di pavimento accogliente. Dai resti del fuocherello sporgevano le mani di scimmia. La radio smontata era al suo posto vicino al muro. Avanzi di guerra e ombre fetide affollavano gli angoli. Ogni cassa e lattina era impiastricciata di escrementi d'animale. Era una cosa importante, la scelta del suo letto di morte. Quello era il suo momento: un giorno o l'altro, di lì a cent'anni, un'altra spedizione sarebbe salita su quella torre. E anche se non poteva fargli trovare una Bella Addormentata, per lo meno poteva sistemare i propri resti mortali senza arti di scimmia e immondizie a farle da sfondo. Posò lo sguardo sui Buddha mutilati. Costantemente sfocati, sembravano fluttuare in quel bagliore verde, luminosi e distaccati dal mondo, separati uno dall'altro, separati persino dal muro. Per quante efferatezze avessero subito, per tante che fossero le carneficine cui avevano assistito in quella città di spiriti, promettevano ancora pace. Ora, se solo un po' del loro karma fosse passato in lei, magari al prossimo giro sarebbe potuta tornare in vita come un essere umano completo. Molly attraversò la stanza, trascinando i piedi tra le foglie e le blatte. I Buddha si ritirarono nelle loro nicchie. Deturpati dai proiettili, sembravano più dei lebbrosi che delle divinità, parevano le vittime e non i padroni dell'universo. Molly alzò lo sguardo verso la volta. Niente sole, nemmeno un raggio? Sarebbe stato così dolce, accoccolarsi su una chiazza di pietra riscaldata.
Arrivò fino al coltello piantato nel muro. Quel coltello era una cosa sbagliata, un marchio di spregio. Chi fosse venuto dopo avrebbe pensato che era stata lei a pugnalare i Buddha? Kleat ci aveva provato e lei sapeva che la lama era incastrata, ma afferrò comunque il manico. Il coltello scivolò fuori. Il vento doveva aver scosso la volta, che aveva scosso gli alberi, che avevano scosso le pietre. Le giunte si erano aperte. Il coltello praticamente cadde fuori dal muro. Il braccio di Molly non ne resse il peso, poco più di due etti. Le sfuggì dalle dita. Lei fissò stupidamente quella cosa ai suoi piedi. La lama era graffiata e macchiata, ma sopra il colatoio per il sangue c'era inciso un nome. Al prossimo temporale le pietre si sarebbero spostate di nuovo, incastrando il coltello. Lei era passata di lì al momento giusto, nient'altro. Dalla bocca le usciva un rivolo di saliva. Ma che bel quadretto. Ormai istupidita, Molly alzò gli occhi. «Dio mio», sussurrò, ed ebbe uno scatto all'indietro. Le statue stavano cambiando. I buchi dei fori di pallottole si stava appianando. I Buddha stavano riacquistando il loro incarnato pietroso. Doveva essere un'illusione ottica. Sopra la volta stavano passando delle nubi, come balene a solcare l'abisso. Molly chiuse gli occhi e barcollò, appoggiandosi al muro. Non era quello il momento di avere delle visioni. Sua madre ci era morta, di allucinazioni. Tuttavia Molly sentiva il muro contro i palmi e contro le gote, e la superficie fresca e scanalata si stava davvero rammendando. Si allontanò dalla parete. Aveva passato la vita a imparare le regole. Gli yeti e gli unicorni erano permessi, però bisognava strizzare l'occhio. Era anche consentito alle città perdute di saltar fuori come un coniglietto dal cilindro di un prestigiatore. Si poteva persino sperare nel paradiso. Ma questo no, le regole non lo permettevano. Il muro, l'intera sfilata di pietre e statue, stava guarendo. Le tracce dei proiettili si dissolsero. Tredici sorrisi scintillarono tornando in vita, come tanti gatti del Cheshire che venivano a farle visita. Intorno ai sorrisi si formarono delle facce. Molly inciampò in una liana. Avrebbe potuto perdere conoscenza, invece sorrise a quel sogno febbricitante. La metamorfosi proseguì indisturba-
ta. Dall'altra parte della stanza, dove la facciata era stata fatta saltare, le macerie presero a ricomporsi. Sdraiata, Molly non trovava le parole per descrivere ciò che vedeva. I sassi sparsi non volavano per l'aria per poi tornare a posto, era come se il muro riportasse indietro il tempo a prima della distruzione. E lei si fece prendere da quel piacevole delirio. A mano a mano che le crepe si chiudevano e i proiettili di piombo ricadevano sul pavimento come grandine e le figure sfregiate tornavano alla primitiva bellezza, lei dimenticò il dolore e la spossatezza. Molly sparì quasi dalla sua stessa mente. Perse conoscenza, poi si riprese. Forse il muro non era mai stato distrutto. Forse si era immaginata tutto. Oppure, di nuovo quel pensiero mirabile, forse le rovine avevano immaginato lei. Se le pietre potevano comandare a un popolo di trasformarle in una città, se la città non era altro che uno strumento per il canto del monsone, perché non poteva darsi che lei fosse la bambina scolpita in mezzo a tutte le altre storie? Che cos'altro era il genere umano, anzi la vita tutta, se non un sassolino che vorticava nel tempo? Aprì gli occhi. Il muro era tutto intero. La guerra era finita, no, non c'era mai stata. Ma che pensiero virtuoso, si disse. Una vera figata cosmica, uno sballo. Si sdraiò supina, tanto per cambiare visuale. Sopra la testa i pappagalli baluginavano come fiammelle. Un geco faceva la sua passeggiata lungo il muro. Qualche scimmia stava appollaiata sul cornicione. In quello stesso modo, in una resa incondizionata, sua madre doveva aver guardato la neve cadere. 44 Poi arrivò il tuono del pomeriggio. Eruppe dalla terra, non dal cielo. Era ancora troppo lontano per poterlo sentire, ma le vibrazioni le ronzarono nel cranio. Si rammentò di esser stata a sedere in un ristorante lungo un fiume, tanto tempo prima, e di aver visto il crepuscolo tremare. Che piova pure, pensò. Sia quel che sia. Stava entrando in una zona di felicità. Poi vide il soldato. Era seduto sul lato più lontano del muro, dove le macerie erano scomparse. Trent'anni prima qualcuno gli aveva dato una violenta sepoltura, con l'esplosivo al plastico. Ma adesso lui era nudo di fronte
al mondo. Le gambe e gli stivali erano completamente schiacciati. Il resto dello scheletro era poggiato in una precaria verticale. Doveva aver fatto caldo il giorno che era morto, perché lui era senza maglietta. Ma come Kleat, temendo guai, portava un giubbotto antiproiettile. Lo conosceva, o meglio sapeva qualcosa di lui, non il suo nome o che aspetto avesse, ma la sua leggenda. I frammenti del diario avevano parlato di lui. Era il loro comandante. Ecco là l'uomo che li aveva fatti perdere e poi aveva trovato loro un rifugio, e infine li aveva condannati tenendoli in mezzo a quelle rovine. La torre era la sua tomba. Lei si trascinò più vicino, animata dalla curiosità. I loro scopritori li avrebbero collegati, un uomo e una donna, un soldato e una civile, due americani intrappolati in un paese lontano. Pazienza se lui era morto quando lei era nata... dettagli. La storia era troppo bella e li avrebbero fatti passare per Romeo e Giulietta per l'eternità. Le macerie gli avevano schiacciato la mano sinistra in grembo; sembrava un intricato fossile. Lui portava una vera nuziale. Il cranio era appoggiato sul petto come se l'uomo fosse stato colto a metà siesta. L'unica ferita era una crepa nell'osso temporale. La pallottola non gli aveva forato la testa; forse l'aveva solo stordito, nel qual caso lui era stato sepolto vivo. Molly non toccò nulla. Lo scheletro sembrava un castello di carte pronto a disfarsi. Rimase là accanto a lui, a riposarsi e a cercare altri indizi. Questo non era l'ennesimo suicidio. Tanto per cominciare, c'erano modi più sicuri per spararsi, e l'osso non era strinato né polverizzato. Inoltre, non c'era un'arma nelle vicinanze. E ancora, il foro della pallottola non sembrava mortale. Qualcuno gli aveva sparato e poi l'aveva seppellito. Molly alzò lo sguardo: tutto sotto gli occhi dei Buddha. Com'era andata? Lui li aveva sorpresi mentre stavano per sparare alle statue e si era messo tra le armi e il muro. I frammenti del diario presero a sussurrarle all'orecchio. Non era vero, che amasse la città più di noi. Stava solo cercando di salvarci tutti. Loro l'avevano saccheggiata, almeno in parte, infilzando una testa di terracotta sul tubo di scappamento. Lui aveva forse cercato di proteggere i Buddha? E forse qualcuno aveva continuato a sparare? Lei riusciva a vedere una ferita sola. Non trovava altri fori d'entrata né macchie di sangue sulla mimetica pressata o sul giubbotto antiproiettile. Solo quell'unico colpo in testa. Da un unico sparatore.
Era stato un incidente o un'esecuzione? Avevano cercato di rianimarlo, o erano stati presi dal panico e l'avevano dato per morto? Non importava. Avevano fatto saltare quella sezione di muro e coperto le tracce del misfatto sotto una tonnellata di sassi. E quello non era certo un incidente. Qualcuno aveva deliberatamente cercato di nascondere le prove. Quel corpo, vivo o morto, li condannava. E così l'avevano tolto dalla loro vista. Il diario diceva che un uomo aveva fomentato l'ammutinamento. Ma una volta ucciso il comandante, i ribelli avevano completato la loro discesa negli inferi. Per lo meno l'autore del diario aveva espresso il proprio pentimento. La storia cominciò a prendere forma: un delitto. I soldati avevano spinto chi aveva sparato... come Caino, il fratricida. Era lo stesso uomo che li aveva incitati alla rivolta. Molly ne era certa. L'assassinio aveva scioccato gli insubordinati al punto da farli desistere dalla ribellione. Dopo l'uccisione si erano sparpagliati, e l'ammutinamento si era dissolto. Chi aveva sparato era partito a piedi, a ovest dell'Eden. Significava che era fuggito verso Phnom Penh, oppure che era uscito dall'ingresso occidentale, o soltanto che l'autore del diario che si era fatto prendere la mano dalla metafora biblica? Non importava. Da qualche parte là fuori l'assassino era andato incontro alla propria fine. Gli altri uomini del Blackhorse erano rimasti in città, agonizzanti, divisi, malati e affamati, a scivolare nella pazzia e, come lei, troppo deboli per andarsene, a morire in tane da animali fra i ruderi. Fine della storia. Tutti, a quanto pareva, avevano espiato il loro peccato. In un certo senso il comandante aveva avuto fortuna: di tutte le ossa che aveva visto in quella città, le sue erano le sole che avevano avuto qualcosa di simile a una sepoltura permanente. Però il coltello era ancora un problema. Avrebbe potuto essere il loro modo di segnare la tomba, ma perché farlo se si vuole che nessuno la trovi? No, pensò Molly. Qualcuno l'aveva aggiunto al muro come tocco finale, dopo la sparatoria, dopo l'omicidio, forse dopo l'esplosione, come ultimo segno di rabbia. Il coltello apparteneva all'assassino. Molly lo seppe, d'istinto. Era stato lui a pugnalare il muro. Lontano s'increspava il tuono. Un alito di brezza smosse la volta. Si strinse fra sé e sé, gelata e fiera. «E adesso?» sussurrò alle ossa accanto a lei. I conti non tornavano ancora. Loro l'avevano portata lì. Proprio lei. Luke
aveva detto così. Ma tutta quella strada, perché? Lì c'era solo l'ennesimo soldato morto di una guerra morta. Il Vietnam non aveva niente a che fare con lei. Lei aveva una vita sua. Ancora per un po'. Gli alberi ondeggiarono, il pavimento rabbrividì, oppure fu lei a rabbrividire. Era come stare sulla banchina di un porto, che sembra muoversi perché si muove l'acqua. Il grande fiume la stava aspettando. Non ancora, si disse. Dov'è il mio anello mancante? Quello se lo meritava. Ancora un po' d'energia, un collegamento qualunque, un legame che le sfuggiva. I tremori sconvolsero il precario equilibrio delle ossa. In un acciottolio di bastoncini e spolette vuote, il soldato andò in pezzi. Il teschio atterrò di fronte a lei, la bocca aperta, ma la mandibola ancora saldata ai tendini. Sotto il peso di vertebre e costole, il giubbotto antiproiettile le cadde in mano. Era solo questione di tirar fuori la targhetta di riconoscimento. Avrebbe dovuto saperlo. «'O'Brian'», lesse ad alta voce. «'Duncan A.'» La mascella rimase immobile, semiaperta, colta in flagrante. C'era la data di nascita. Lei fece il calcolo. Lui era stato ammazzato il giorno del suo compleanno, o poco dopo, a ventun anni. Si era invaghita di un uomo più giovane. Molly piegò la testa per guardare il teschio. I lineamenti si facevano sempre più chiari. Era quasi come stare sdraiata con lui in tenda, osservare il suo viso giovane mentre dormiva. La fronte ampia e gli zigomi affilati, i denti bianchi che si era sempre religiosamente lavato. Lei cancellò dalla mente la povera creatura che si spegneva nella pioggia la sera precedente, che le perdeva i capelli lunghi in mano, quel fantasma che si era afflosciato sotto il peso dei suoi sospetti. Chiuse gli occhi e rivide Duncan all'alba, nella luce verdazzurra. Lui aveva forse avuto il dubbio che la sua carne ospitasse uno spettro? Lei ricordò la ventiquattr'ore piena di scampoli e la sua confusione quando lei gliene aveva parlato. E la sua strana riluttanza a seguire Luke verso quelle rovine. Non che avesse cercato di farli fessi. Duncan era stato vero per quanto potesse ricordare, con il suo pettinino in tasca, solo uno spirito che si ricomponeva un pezzo qua e uno là, proprio come Luke e tutti gli altri. Quando era scappato da quelle rovine? Ovviamente Luke era stato mandato a prendere il suo commilitone per riportarlo alla fonte, nell'aldilà. Ma perché trascinarci anche lei?
Aveva fatto dei sogni a occhi aperti, pensando di portarsi Duncan a casa. Negli ultimi giorni le era parso che quello fosse il suo destino: riaccompagnarlo in America. Ma lui aveva ribaltato tutto, non conoscendo se stesso. Era stato lui a portarsi a casa lei. Altri brividi, altro sudore. Gli occhi le si rovesciarono nelle orbite. L'oscurità la minacciava. Molly lottò per non perdere conoscenza. Quali erano le leggi di quel posto? La pioggia li avrebbe purificati entrambi, le sue ossa si sarebbero mescolate a quelle di lui. E poi? «Duncan», chiamò lei rivolta al suo spirito. Si era forse unito a quella ronda senza fine intorno alla torre? O era stato assunto in cielo, nel verde della volta di fogliame? «Dove sei?» Di colpo ebbe paura, avrebbe voluto essere rassicurata. Non aveva risposte, solo altre domande. Sarebbe tornata nel mondo con lui, oppure sarebbero rimasti lì a vagare fra le rovine? Come funzionava? Dovevano assumere delle false identità? Visitare metropoli, attraversare oceani? Perseguitare il futuro? Avrebbero potuto vivere mille vite. Ma nel mettere al mondo se stessi, avrebbero dimenticato le ossa che li ancoravano là? Avrebbero finito per dimenticarsi uno dell'altra? Possedevano delle voci. Dov'era la voce di lui? «Duncan?» Il giubbotto si era aperto. Nella tasca interna c'era qualcosa, un bordino di plastica. Lei lo tirò fuori, era una custodia con dentro un'istantanea. La foto era piena di orecchie e terribilmente sbiadita. Ma anche senza leggere DIC. '69 scritto dietro a penna, Molly ne avrebbe riconosciuto l'epoca dalle sostanze chimiche e dal tipo di carta. Avrebbe indovinato anche l'inquadratura di base. Usciva dritta dritta da un film di guerra, la classica foto della fidanzata. Moglie, si corresse, lanciando un'occhiata alla vera nuziale. Anche la giovane donna ne portava una. E la sfoggiava con orgoglio, come un trofeo, sorridendo come per uno scherzo noto solo a loro due. Incinta di sei o sette mesi, era coperta ai minimi termini da un bikini colorato. Aveva acciuffato il suo uomo appena in tempo. Molly posò il capo sul giubbotto e studiò la fotografia, scivolando nella storia che raccontava. L'aveva scattata Duncan, sulla spiaggia. Alle Hawaii, a metà strada nel viaggio verso l'assegnazione in Vietnam. Lei portava una collana di fiori. Molly la trovava simpatica. Era audace, tonda come un frutto maturo, e pazzamente innamorata del fotografo. Un fuoco d'artificio. Fece i suoi calcoli. Duncan aveva vent'anni. Pochi mesi dopo era diven-
tato papà. E pochi mesi dopo ancora, aveva affrontato il suo assassino in quella città di morte. Ma Molly non riusciva a vedere il viso della ragazza. I capelli lo mettevano in ombra, e quella pancia sporgente attirava tutta l'attenzione. Ma non era quello il problema. Il viso non aveva senso. Quella ragazza aveva un sorriso a cento watt e uno sguardo verde a mandorla. Sopra i capelli neri e folti stava appollaiato un paio di occhiali da sole con la montatura rosa. L'umidità aveva mandato all'aria il bel taglio di capelli. Molly ne sapeva qualcosa... capelli atomici, li chiamava lei. Perciò se li era tagliati da sola con le forbici da chirurgo. Le chiome nere irlandesi non andavano d'accordo con i tropici. Molly s'interruppe. L'aria le sgocciolò via dai polmoni. Stava guardando se stessa. Rifiutò l'idea. Di sicuro stava proiettando. La febbre la faceva sragionare. Le rovine si stavano impadronendo di lei come era accaduto a loro, nel buio e nella nebbia. Ancora un passo, pensò, e mi disintegrerò. L'immagine si offuscò, poi tornò a fuoco. Lei combatté contro quella foto, poi insieme a lei, tentando di trovare la propria strada al suo interno. Come poteva sembrarle così aliena una cosa tanto familiare? Gli occhi, la loro forma, il naso, il sorriso, i capelli... non poteva negarlo. C'era la sua faccia, in quella fotografia. Molly gettò un'occhiata alle ossa silenziose di Duncan, cercando di capire. Che cosa significava? Lei era forse morta e aveva vagato senza meta e poi era stata finalmente condotta dal suo amore? Poteva essere l'orfana di se stessa? Dagli alberi cadde una goccia di pioggia. Non ancora, ordinò lei al cielo. C'erano dei fatti e lei li rievocò: un necrologio nel Denver Post datato 1971, il referto del medico legale, una lapide tra i fiori selvatici. Si frugò nel marsupio che conteneva il suo passaporto e aprì il velcro e tirò fuori la sua personale reliquia, la patente rilasciata nel 1967 a Bay City, nel Texas, a una certa Jane Drake di anni diciotto. I capelli neri erano lunghi e stirati con la piastra, alla Cher. Gli occhi erano verdi e pieni di cielo azzurro, come se lei avesse tutta la vita davanti. Era la stessa faccia che Molly vedeva nello specchio, anche se più giovane e più dolce e più liscia. Ma era anche il viso sepolto sul cuore di un soldato morto. Come poteva essere? Dalla volta cominciò a filtrare la pioggia. Una goccia cadde proprio sulla foto. Molly cercò di pensare in fretta.
C'era una volta, azzardò disperata. C'era una volta una sposa di guerra che perse il suo unico amore. Lui fu dato per disperso, e lei pure scomparve. Lei si mise a vagare verso la follia, fra gli zingari delle montagne, e infine tra le fauci di una tormenta. Tutte quelle cose erano vere. Jane Drake era morta in una baracca di minatori senza il tetto, durante una bufera di neve sul Boreas Pass. Era quindi tornata dal regno dei morti, un fantasma a caccia di un altro? Molly si frugò nella memoria cercando le Hawaii e il giovane Duncan e il diamante su quel dito, e la capanna di minatori e la tormenta. Cercò di sentire quei ricordi come propri, ma non ci riuscì. Le gocce di pioggia si sparsero sulla foto. L'immagine si stava dissolvendo davanti ai suoi occhi. Sbrigati, pensò. La giornata doveva durare. Quella notte per lei sarebbe stata l'ultima. La foresta l'avrebbe ridotta a un cumulo d'ossa; lei si sarebbe unita agli spiriti vaganti e non avrebbe ricordato niente più che il suo nome. Molly batté le palpebre bagnate di pioggia. Metti da parte quei fantasmi. Era troppo piena di fantasmi. Fidati dei tuoi occhi. Qual era il pezzo che mancava? Avvicinò la fotografia al viso. Guardò il teschio rovesciato. Ecco là una donna nella gloria della giovinezza. Ecco là le ossa che le avevano spezzato il cuore. E, d'improvviso fu così ovvio, in quel ventre dormiva la loro bambina, Molly. I muscoli del suo viso si rilassarono. Il labirinto si dipanò intorno a lei. Non più straniera a se stessa, lasciò che la città la prendesse. I suoi canali divennero le sue arterie. Le sue pietre raccontavano la sua storia. I fili ingarbugliati nella sua mente erano solamente sentieri fra le rovine. Era stata sua madre a mandarla, si chiese Molly, o suo padre ad attirarla? Ma che cosa importava? Loro non avevano mai voluto liberarsi di lei. Avevano fatto il meglio che potevano, ma il mondo se li era portati via, il soldato perso nella guerra, la moglie persa nel dolore. Lei non doveva far altro che perdonarli per il loro amore. Posò la foto tra le ossa, e lasciò che la pioggia le scorresse sugli occhi. 45 Molly prese diverse forme. Si trasformò nel geco che stava attaccato al
muro, e si aggirava intorno al palmo di un Buddha. Si fece dare un passaggio da un pappagallo posato tra i rami. Divenne una farfalla che si riparava dalla pioggia. Da lassù spiò se stessa. Sembrava una strega di Macbeth che infestava i margini di un campo di battaglia, pugnale alla mano. Gli occhi iniettati di sangue brillavano troppo, in quella maschera di cenere e fumo. Il tuono era stato maestoso davvero. Lei era strisciata fino al coltello, che nella mano le era parso un oggetto dell'età del ferro. Adesso conosceva i dispersi del reggimento Blackhorse. Anche le ossa ancora nascoste nella foresta le avevano detto i loro nomi. Erano tutti presenti all'appello, persino il nono uomo, il capo dei ribelli che aveva sparato a suo padre. Il nome era inciso sulla lama: JOHN KLEAT. Nessuno avrebbe mai saputo dove avesse vagato Kleat dopo che lo avevano bandito dalla città. Adesso lei comprendeva il suo odio per i khmer rossi più di quanto lo avesse capito lui. Le sue ossa ricordavano ciò che lui non rammentava più, il nemico che gli aveva tagliato la gola. Forse un giorno anche lui sarebbe risorto dall'acqua nera dei baray, e sarebbe fuggito da quelle mura, e avrebbe ricominciato a cercare i propri resti. Magari avrebbe trovato il fratello inesistente che a sua volta era sepolto nelle colline o in una risaia o era stato gettato in un pozzo. Ma più probabilmente avrebbe dimenticato e si sarebbe unito alle creature del fango. Tutti quei morti insepolti erano spinti da una necessità. Dove la memoria cominciasse, lei non avrebbe potuto dirlo. Stavano aggrappati ai propri nomi, quello era certo, ripetendoli all'infinito; e inoltre, qualunque cosa fossero diventati, non potevano fuggire da se stessi. Lei aveva avuto ragione a credere nella bontà di Duncan. Ovunque lui fosse. «Duncan», gridò ancora. Continuava a entrare e uscire dal delirio. La pioggia cadeva lenta. «Molly», sentì. Lasciatemi dormire. Dalla foresta continuavano a chiamare il suo nome, gli uccelli, le scimmie e i guerrieri fantasma, pronunciando tutte le varianti a cui lei avrebbe potuto rispondere, Molly, Moll-lii, Molli. La stavano aiutando a ricordare il suo nome per la prossima vita. Era quella la sua speranza, che loro fossero gentili e l'accogliessero bene. D'altro canto, l'avevano convocata per portare a casa suo padre e loro, e lei aveva fallito. Non aveva ragione di sperare nella loro misericordia. Si scoprì a sussurrare un'Avemaria ai Buddha. «Molly.» La voce era appena fuori della porta, e non era quella di Dun-
can. Lei rimase immobile, anche se il cuore galoppava. Se solo Duncan fosse venuto da lei. La soglia si oscurò. Lui era una cosa emaciata fatta di stracci, metà uomo e metà osso. Entrò. Lei chiuse gli occhi. Il sacco d'ossi si avvicinò ticchettando. «Molly», ordinò. Era venuto per i suoi occhi, non per prendere ma per dare. Ora lei apparteneva alla città. Avrebbe usato un cucchiaio? E di quale sfumatura di verde sarebbero stati i suoi occhi di giada? Per favore, pensò lei. La sentì sussurrare o magari la fiutò. «Sei viva», disse. Lei aprì gli occhi. Una delle gambe era un bastone, non un osso, legato alla coscia con delle liane. Lei lo spinse via con il coltello. Fu un gesto flebile, e lui le mise un piede sul polso e le portò via l'arma, lei capì che non era il caso di resistere. Lasciaglielo fare, pensò. «Sta' buona», mormorò il fantasma. Stava sopra di lei come un macellaio che prende le misure per il taglio. Lei gli cercò gli occhi per stabilire un contatto, ma la pioggia le offuscava la vista. Voleva lasciarsi andare, gettarsi fra gli animali, sgattaiolare, volare e strisciare via. Ma di colpo si trovò ancorata alla propria carne. Non riusciva a lasciare il proprio corpo. Lottò, un movimento minuscolo, un guaito. Lui sfiorò una sacchetta, e una decina o più di sfere verdi di giada rotolarono sul pavimento. Gli occhi corsero fino alla guancia di Molly, lei gemette e distolse lo sguardo. La città la stava preparando, estrema unzione, maschera funeraria. Ma era ancora viva o era già passata dall'altra parte? Come faceva a saperlo? «Non fare resistenza», disse lui. «Stai facendo un sogno. Riesci a sentirmi?» Le sollevò la maglietta e guardò sotto. Lei serrò le palpebre e pianse lacrime di pioggia. Il dono degli occhi nuovi le avrebbe fatto male? Avrebbe urlato forte? Dov'erano il suo geco e la sua farfalla? «Bevi.» Lui le tenne una foglia vicino alla bocca, come un imbuto. La pioggia le sgocciolò sulla lingua. Una gentilezza prima della mutilazione. «Te ne stai andando», continuò la voce. «Porta gli altri con te. Loro non sono più di questo mondo. Mi capisci?»
«No.» Erano morti. Come potevano non essere più di questo mondo? Il limbo aveva dei confini? «Si erano persi e la città li ha presi.» La voce scorreva come acqua nella sua mente. «Li ha protetti dall'uragano. Perché proprio loro, dei barbari? Compassione, forse, o la curiosità di Dio, non so. La città li ha accolti come bambini. Ha dato loro la vista, ha mostrato la strada. Ma loro si sono rifiutati di vedere. Sai quanti grandi guerrieri sono arrivati qui e hanno abbandonato l'armatura? Ma non questi uomini. Tutti, tranne Duncan. Lui aveva capito qualcosa, credo.» «Erano solo dei ragazzi», sussurrò lei alla pioggia. «Ciechi sono venuti», parole molto severe, «e ciechi se ne vanno. Io sono andato da ciascuno di loro e gli ho portato via il sogno.» Chino su un ginocchio, la operava con il coltello di Kleat. Lei sentì la lama d'acciaio sotto il diaframma. Con uno strattone divise in due la maglietta e la sbucciò come una scorza. Una gamba alla volta, le segò via i pantaloni. Aveva così tanta paura. Ah, ma la sensazione della pioggia era stupenda. Le lavava la carne ardente. La scaldava come una coperta. Le sue labbra si aprirono all'acqua. Le mani di lui cominciarono a muoversi su di lei, incomprensibilmente. Lei non osò guardare. Per quel che ne sapeva, poteva averla aperta in due ed essersi rannicchiato accanto a lei, a divorarle gli organi interni. E le scimmie, si erano radunate là in attesa della loro parte? Lui le aprì a forza le palpebre e la pioggia si schiantò sul cervello di Molly. I miei occhi, pensò. Lo specchio dell'anima. «Non farlo, ti prego», disse. «Manca poco», la consolò il fantasma, togliendole le mignatte di dosso. «Poi tutto sarà chiaro.» Dopo sistemò dei rametti sotto un'ampia foglia per costruirle un riparo per il viso, e le coprì tutto il corpo con grandi foglie di banano. Lei si sentì affogare. «Sei libera. Li hai liberati.» Sollevò una biglia di giada. «Queste però rimangono qui. Prendi solo le ossa e dimentica la città. Ricorda solo il sogno.» L'oscurità li avvolse. Lei tornò cosciente proprio mentre lui se ne andava. La gamba di legno suonava come un metronomo, allontanandosi. Poi lei fiutò l'aroma denso. Sotto un'altra foglia, lui aveva infilato una manciata di bastoncini d'incen-
so. Il fumo lento si levò verso i Buddha. Solo allora lo riconobbe. «Samnang?» sussurrò. Ma lui era sparito tra le rovine. 46 Quando si svegliò, la pioggia batteva sulla sua coperta di foglie e i bastoncini d'incenso erano diventati cenere. I suoi abiti macchiati di sangue formavano un mucchietto sul pavimento. Era nuda e ricoperta di fango nero. Stava calando la notte. Loro stavano urlando di nuovo il suo nome. Erano là fuori, dappertutto. Le voci salivano le scale. Duncan, ti prego, salvami. Una luce abbagliante dalla porta. Sagome scure accalcate dietro. Altre luci. Le figure portavano lenzuola come fantasmi di Halloween. Dei poncho, capì poi. «Molly?» La voce rimbombò per la stanza. Lei guardò da sotto la sua crisalide di foglie, perfettamente invisibile agli occhi. «Non è qui», disse uno. «Ma lui ci ha detto nella torre.» «È vuota. Abbiamo beccato la torre sbagliata.» «Avremmo dovuto fargli disegnare una mappa di questo posto.» «Adesso è troppo tardi. È un miracolo che sia durato tanto a lungo. L'hai visto in che stato era quando l'hanno trovato. Una ferita al ventre, si stava dissanguando. Quelle merde gli hanno perfino rubato la gamba.» «Ma in cosa diavolo è rimasta invischiata, lei?» «Cattive compagnie, te lo dico io.» Uno aveva la tosse. Altri erano sfiatati. Le voci le sembravano tonanti, quasi avesse passato i suoi ultimi giorni a sussurrare. La stanza si illuminò di verde per un lampo lontano, poi tornò buia. Il cielo rumoreggiava. «Questo non è il nostro posto», si lagnò una voce. «Il comandante ci ha dato due ore. Si sta facendo notte. Ci potremmo perdere, in un luogo del genere.» «Sam ha detto che l'avremmo trovata qui. Ecco qui la città ed ecco qui la torre.» «Quello è stato ieri. Da allora potrebbe essere andata ovunque. Domattina riproviamo. Con la luce sembrerà tutto diverso.»
Era come risalire a nuoto da una caverna in fondo al mare. Sam? Il capitano? Lei conosceva quelle voci. La squadra ER-1 era venuta a prenderla. E adesso se ne stavano andando. Molly cercò di parlare, ma la sua lingua si era fatta di cuoio. Non aveva abbastanza fiato nei polmoni, nemmeno per una parola. Le luci baluginanti se ne andarono. Era finita. Lei non sarebbe mai sopravvissuta alla notte. Ma poi le ossa accanto a lei sospirarono. «Ragazzi», sospirarono. Duncan. Un alito del suo spirito. In qualche modo loro sentirono anche con il rumore del tuono. Lui li afferrò. Le luci rifecero il giro. Uno calpestò il teschio. «Oh, Cristo, ce n'è un altro. Con il giubbotto, guarda.» Attraversarono la stanza in un assedio di stivali e uno stridio della plastica bagnata e con quello che continuava a tossire. Uno inciampò nella sua gamba. «Qui c'è qualcosa.» Le si fecero attorno in cerchio e le tolsero le foglie di dosso, fissandola dalle cavità dei loro poncho, senza volto, sgomenti. Persino sotto la pioggia lei riuscì a fiutarne l'odore. E la colpì, l'odore dei vivi. «Respira ancora?» «Cosa ha combinato, si è fatta del male?» Uno si chinò vicino a lei. «Molly, mi senti? Siamo noi.» «Ma cosa sta fissando?» «Ti abbiamo trovato, Molly.» Voci come tuoni. Riempivano la stanza. «Prendete una barella. Portate delle funi. Ditelo al comandante.» Si tolsero i poncho per fare un tetto sopra di lei, e assunsero dei visi familiari, quei cacciatori di morti. Si tolsero le maglie e rimasero seminudi per scaldare lei. Sembrava che non sentissero l'inno della città. Lei guardò nella pioggia, lo ascoltò svanire, ma era sempre più difficile per lo sferragliare di attrezzi e il tonfo di piedi e lo scricchiolio delle fasce. Dal cornicione della torre altri uomini urlavano per riferire la buona notizia. Così leali, pensò lei, quei guerrieri inviati per arare il sottosuolo e togliere dai ceppi l'anima di ogni americano rimasto laggiù. Anno dopo anno davano la caccia alle ossa, anche se i frammenti sprofondavano sempre più, spostati dagli insetti, dalle radici, dal moto stesso della terra. Alla fine la loro ricerca avrebbe ceduto, i vermi avrebbero vinto.
Ma per il momento era come se si fosse combattuta una grande battaglia, e loro l'avevano vinta. Nel ritrovarla viva, anche se lei non era una di loro, i soldati potevano mettere da parte la morte. Avrebbero potuto sognare se stessi quella notte, liberi di credere che erano qualcosa in più di un sogno delle rovine. Ringraziamenti Questo libro sceglie la casa infestata dai fantasmi. Per poterla ricostruire e abitare in modo credibile, sono andato a cercare uomini e donne che hanno vissuto vari aspetti di quella storia. Saranno loro i primi a notare che mi sono preso delle licenze riguardo a procedure, dettagli e fatti. Ogni inesattezza è mia e mia soltanto. Vorrei ringraziare il tenente colonnello dell'esercito Gerald O'Hara, il maresciallo dell'esercito Tom Monroe, e il sergente maggiore dei marine in congedo Joe Patterson del JPAC, il comando unificato per il recupero dei prigionieri di guerra e dei dispersi in azione. Con grande pazienza mi hanno raccontato nei particolari lo snervante lavoro di ricerca e recupero dei soldati americani dispersi nelle guerre combattute all'estero, e in particolar modo in Vietnam, Laos e Cambogia. Poiché la mia storia si svolge nel 2000, tre anni prima della costituzione del JPAC, ho fatto riferimento ai due precedenti organismi similari, la JTF-FA e il CILHI. Sono in debito con Earl Swift, redattore del quotidiano The VirginianPilot. Benché all'epoca stesse scrivendo un libro sulla ricerche medicolegali condotte dai militari americani (Where They Lay, un saggio assolutamente magistrale), quest'uomo generosissimo non ha esitato a regalarmi diverse ore di racconti della sua esperienza da civile al seguito di spedizioni con il JPAC. Molte grazie al colonnello dell'esercito in congedo Charles L. Schmidt per aver sopportato tutte le mie domande e avermi offerto il suo consiglio riguardo all'Undicesimo reggimento di cavalleria corazzata in Vietnam. E grazie anche a Geof Childs, che ho tempestato di telefonate sulla vita militare e sul Vietnam. Sono particolarmente grato a Sophea Chum Satterwhite per avermi guidato attraverso la storia, la lingua e i costumi cambogiani. L'altra mia guida in Cambogia è stata Melissa Ward, la persona più coraggiosa che io conosca. Durante il suo incarico in seno all'Autorità Provvisoria delle Nazioni Unite in Cambogia nel 1993, mi ha mostrato la devastazione e la ripresa
economica di questo paese. Ovunque tu sia nel mondo, Tiger Lady, grazie. E tieni la testa bassa. Devo anche sentiti ringraziamenti ai miei editor Emily Bestler e Mitchell Ivers, che si sono rifiutati di abbandonarmi tra le mie rovine. E poi, con umile apprezzamento, il mio grazie a Sloan Harris, il mio agente e sensei letterario. E infine, Barbara e Helena, io ringrazio il cielo per avere voi ogni giorno. FINE