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JOHN SKIPP & CRAIG SPECTOR L'ANGELO DELLA CARNE (The Cleanup, 1987) A Melanie Rose che ha aspettato il momento giusto per arrivare Ringraziamenti Gli autori vorrebbero ringraziare un sacco di gente. E ora lo faranno. Al primo posto, a pari merito, abbiamo Lou Aronica, Amy Stout e tutte le splendide persone della casa editrice Bantam; Adele Leone, Richard Monaco e Richard McEnroe della Adele Leone Agency; e le tolleranti compagne degli autori, rispettivamente Marianne Walter e Lori Houck. Senza le persone appena citate, gli autori di cui sopra sarebbero potute finire in un angolo della Bowery a ingurgitare schifosi beveraggi. Vorremmo inoltre ringraziare, incuranti di ogni ridondanza, Kathy, Matt, Annie, Eva, Greg, le nostre famiglie, Alan, Sandy, Sean, Phil, la Bay Ridge Typing & Copy e tutte le persone che avevamo già nominato nel nostro ultimo libro. Una menzione speciale a Jules, Judy, Jennifer, Johnny, Jan, Jimmy, Jane, Larry, Alfred, Claudia, Sherri, Niambi, Brian, Dave, l'inimitabile Robear e tutti gli altri ottimi amici che fanno del Chelsea Commons il miglior bar del mondo intero. Per quel che riguarda le fonti del libro, i debiti che abbiamo contratto non sarebbero completi se non citassimo Andrea Dworkin, Bernard Goetz, Bob Guccione, lo Stupratore del Centro e tutte le altre entusiasmanti persone che fanno di questo mondo un posto affascinante e divertente in cui vivere. Gli autori vorrebbero infine ringraziare la Divina Provvidenza che ha impedito loro di mettere fine alla propria o all'altrui esistenza nel corso dell'anno e mezzo incredibilmente rognoso che è stato necessario per partorire questo bastardo di un romanzo. Parte prima Sempre più a fondo C'è chi la vita
lo piega in modo strano, chi sembra destinato a soffrire in eterno. Il dolore li colpisce dritto sulla testa. La tristezza li cambia per sempre... Billy Rowe La svolta verso la vita Stanton Street Una linea con il gessetto bianco intorno al corpo della ragazza. L'agente iniziò dal piede sinistro senza fare troppo caso ai contorni e tracciando un segno che assomigliava più allo scarpone di Frankenstein che alla scarpa col tacco a spillo vagamente decadente che la donna indossava. Disegnò la curva di un grazioso polpaccio ricoperto da una calza a rete fermandosi al ginocchio, dove la gamba destra incrociava la sinistra, per scendere quindi lungo la tibia destra e tracciare con identica approssimazione l'altra scarpa. C'erano altri nove agenti lungo Stanton Street. Le loro automobili, parcheggiate sbilenche e abbandonate in tutta fretta, avevano isolato la zona. Le luci rosse delle auto lampeggiavano forsennatamente. Era arrivata anche un'ambulanza; un paio di infermieri erano appoggiati stancamente al retro della vettura con una sigaretta in bocca e i piedi in perenne movimento. Due agenti stavano ancora perlustrando il lato settentrionale della strada e la luce delle loro torce fendeva l'oscurità di un cantiere. Gli altri erano impegnati a contenere la folla che si faceva sempre più numerosa: più che altro si trattava degli inquilini dei caseggiati che occupavano il lato meridionale della strada. Le puttane a buon mercato e i loro clienti se l'erano filata al primo suono delle sirene, lasciando solo uno sparuto gruppetto di barboni della Bowery ad arrotondare l'inevitabile contingente di avvoltoi. Il tizio con il gessetto risaliva lungo la gamba destra da dietro. La linea curvò con una certa tenerezza intorno alla gonna nera e aderente, con lo spacco che metteva in risalto lo splendido sedere della ragazza, per poi passare a delineare lentamente il perimetro del giubbotto zebrato, della
schiena graziosamente arcuata. Ma dovette fermarsi quando giunse alla pozza di sangue. Il ragazzo si chiamava Billy Rowe e da quando quei due erano arrivati non aveva fatto altro che guardare fuori dalla finestra. Era sconvolto. Comprensibile. Billy Rowe era il loro principale testimone e quel che aveva visto era orribile. L'agente Frank Rizzo aveva trascorso invece gli ultimi dieci minuti, nella loro quasi totale interezza, a fissare la nuca di Billy. Un'esperienza fantastica, se andate pazzi per ciocche lunghe fino alle spalle di capelli biondi e luridi. Rizzo no, comunque. Anzi, non c'era quasi niente di Billy Rowe che Rizzo approvasse: né la sua voce, né la sua faccia, né il suo aspetto rinsecchito, né il suo schifoso appartamento e neppure il suo cane scemo. La sola cosa che apprezzava di Billy Rowe era la sua memoria. Fantastica. Era anche la caratteristica saliente del ragazzo, per quel che riguardava l'indagine. Per la sua memoria valeva la pena di tollerare tutto il resto. Anche se fosse stato intollerabile. E lo era. «Signor Rowe» disse Rizzo stancamente, continuando a rivolgersi alla nuca del ragazzo. «Ancora qualche domanda, se non le secca troppo.» «Un attimo soltanto» rispose Billy. Si accese un'altra sigaretta con il mozzicone della precedente. Era la terza di una nuvola ininterrotta di fumo che Billy aveva sparso intorno a sé nel breve tempo che avevano trascorso insieme. Quando gli agenti erano arrivati, c'era anche una bottiglia di Bud piena. Ora era quasi finita. «Nessun problema. Abbiamo tutta la notte. Forse, mentre aspetto, potrei sbracarmi davanti alla tele o trovare altre interessanti alternative.» Rizzo prese una sigaretta dal taschino della giacca, se la portò alle labbra e continuò a parlare. «Esiste qualche possibilità che il suo umore migliori nel giro di una mezz'oretta?» «Sa una cosa?» disse Billy con voce piatta. Generalmente aveva un tono di voce più acuto, ma ora stava seguendo il registro più basso. «Il mio compagno di casa è un attore dilettante. Dovrebbe conoscerlo. Sono sicuro che andreste d'accordo.» «Frank, per favore, lascialo in pace per un momento.» Questo era Dennis la Peste, fedele pupillo di Rizzo. Dennis Hamilton, ovviamente, stava giocando con il cane. Dennis Hamilton era un eterno bambinone. Rizzo gettò uno sguardo irritato al suo collega più giovane, la cui espressione era congelata in un sorriso alla Stevie Wonder mentre accarezzava energica-
mente i pochi, ridicoli peli che il cane aveva sul muso. Hamilton aveva la capacità miracolosa di trovare qualcosa di piacevole anche nelle circostanze più ripugnanti. Era una qualità straordinaria. Ma Rizzo si stava rompendo le palle. «E va bene» bofonchiò l'agente più anziano. Fece un lungo tiro dalla sigaretta e buttò fuori il fumo con un sospiro, poi lasciò vagare lo sguardo lungo l'affascinante arredamento dell'appartamento di Billy Rowe. Disgustoso. Con la possibile eccezione di porcile, non esisteva un termine che potesse dare l'idea di quello che aveva sotto gli occhi. Se scattavi una foto e sotto ci scrivevi: «Qual è l'elemento fuori posto in questa stanza?» la risposta esatta sarebbe stata: «Quante ore ho a disposizione per elencarli tutti?» Per prima cosa i panni sporchi. Erano almeno due mesi che non facevano il bucato. La biancheria puzzolente era sparsa su tutto il pavimento, stropicciata e intrisa di sudore. Puzzava come la merda. A essa si accompagnava, proprio ai suoi piedi, un'accozzaglia inconsulta di cianfrusaglie varie: un centinaio di dischi e di copertine, tutte spaiate; mezza tonnellata di albi a fumetti, libri economici e riviste; una tonnellata abbondante di quaderni e di singoli fogli di carta, tutti ricoperti dalla stessa calligrafia chiara e scorrevole. Era quella di Billy, senza dubbio. Dio solo sapeva che cosa stesse scrivendo. Poi c'erano i vuoti. Rizzo ne aveva viste, di bottiglie vuote, ma questo era davvero il massimo del massimo. Ce n'erano centinaia, sparse per la stanza. Quasi tutte coperte di polvere. Quasi tutte si stavano riempendo di muffa viscida. Sulle pareti c'erano dei manifesti con le orecchie agli angoli. L'unico che conosceva era quello di The Wall dei Pink Floyd, un film che non aveva mai provato la minima voglia di andare a vedere. Gli altri erano di gruppi musicali che non aveva mai sentito nominare o di raduni politici per cause che non si era mai sognato di sostenere. Three Mile Island sbucava da ogni parte. Dalla qualità dei manifesti, Rizzo dedusse che riguardavano questioni locali e non d'interesse nazionale. Non c'è da stupirsi che non siano riusciti a vincere, rifletté. Sconfitti sul fronte interno. Travolti dalla loro biancheria sporca. Ghignò ritornando con la mente alle legioni di straccioni che avevano infestato gli anni Sessanta: gente dallo sguardo vitreo e dai capelli in disordine, persa dietro un'utopia che chiamavano Speranza ma si leggeva Droga. Già allora gli
sembravano ridicoli. Ci sono cose che non cambiano mai. Nessuno aveva mai dovuto rimproverare Rizzo o fargli una ramanzina per la sua mancanza di igiene personale e di devozione religiosa. A Dio non badava molto, ma la pulizia personale era parte integrante della cura con cui svolgeva il suo lavoro. Manteneva in forma la sua brava macchina da guerra. Era come un esercizio fisico, un lavoro fisso. Come cambiare l'olio a una stupida auto. Mettici la testa, nel tuo lavoro, o ti useranno come straccio per i pavimenti. Squadrò di nuovo Billy Rowe: uno stronzetto cagato fuori dagli anni Sessanta, se mai ne aveva visto uno. Billy era alto un metro e settanta. Aveva ai piedi delle Adidas distrutte. I capelli, lunghi e sottili, gli scendevano dalla testa come spaghetti integrali esili e umidicci. La sua barba era un cespuglietto di peli gagliardi dai mille colori; uno di essi, grigio come il vello di un vecchio, gli penzolava tutto storto dal lato sinistro del mento. Sembrava vecchio, molto più dei suoi ventisette anni. C'erano dei solchi sul suo viso che non avevano alcun diritto di trovarsi lì. Era evidente agli occhi di Rizzo che quel ragazzo si stava ammazzando a furia di bere. Chissà se Billy se ne rendeva conto. Rizzo si chiedeva un sacco di cose. Ma non ci perdeva certo il sonno per nessuna. L'agente aveva deciso di passare intorno alla chiazza di sangue e riprendere subito sotto il gomito. La ragazza era caduta con il braccio piegato sotto il corpo, come se avesse cercato di attutire la caduta senza riuscirci. Billy strizzò gli occhi, barcollando all'indietro in preda a una vaga nausea. Un altro subdolo attacco di vertigini. Sentì il ronzio anonimo delle voci nella strada che si mescolava al rumore ininterrotto del gesso che raschiava l'asfalto, tracciava un segno lungo il bicipite nudo per poi tagliare verso l'interno, lungo la spalla, fino alla piega del collo... (tagliare) Riaprì gli occhi di colpo. La stanza si era inclinata di trenta gradi. (lungo la spalla) Impiegò un secondo per riprendersi. Buttò giù quel che restava della birra nel tentativo di placare il violento ronzio dei suoi nervi. Non funzionò. Ne era quasi sicuro: qualunque cosa avesse fatto, difficilmente avrebbe funzionato. In strada, il gessetto finì di tracciare il profilo della ragazza morta con un
segno arrotondato che se ne infischiava dei tratti del viso. Era la parte peggiore. La bocca e l'occhio visibile erano ancora aperti. Sembrava che avesse appena visto qualcosa di terribilmente triste. Per un istante a Billy venne da chiedersi se la ragazza riusciva ancora in qualche modo a vedere la mano che teneva il gessetto e che ora passava sotto il suo mento, poi disegnava un'ampia curva lungo il braccio sinistro disteso e tracciava un arco intorno alle dita esili, contratte e senza vita, alla fine della mano. Se era così, sperava almeno che non riuscisse a vedere lui. Bubba era grande. Hamilton se ne era convinto. Il proprietario di un cane così simpatico non poteva fare completamente schifo. Un punto a favore di Billy. Bubba era uno di quei bastardi che sembrano racchiudere in sé, in modo più o meno equilibrato, le caratteristiche più gradevoli di ogni razza presente nel loro albero genealogico. Era una bestia allampanata a pelo corto, con un muso lungo e appuntito e un tronco che sembrava fatto di gomma. A Bubba piaceva contorcersi e dimenarsi, con la lunga coda che sbatteva ininterrottamente a destra e a sinistra, un sorriso enorme che ospitava un respiro perennemente ansante e un guaito di gioia per ogni carezza che si beccava. Gli piaceva la gente e gli piaceva attrarre l'attenzione. Era anche scheletrico, ma questo sembrava aumentare la sua abilità nelle contorsioni. «Bravo cagnolino, vieni qui, forza! Bravo, sei proprio un cane educato.» Grat grat. Hamilton si fermò a riflettere sulle sue stesse parole. Perché i cani mi riducono sempre in uno stato di totale idiozia? si chiese. Misteri della vita. E comunque perché opporre resistenza? Gratta. Gratta. «Sei davvero un cagnuccio...» All'improvviso Bubba fece un balzo in avanti e iniziò a leccare la guancia di Hamilton. Era specializzato in sdolcinatezze, eseguite con un palmo di lingua di fuori. Hamilton fece una smorfia e girò il viso ridendo. I suoi occhi si posarono su Rizzo. Rizzo non rideva. Rizzo lo fissava, come sempre. Assomigliava a Harry Dean Stanton: stessa faccia emaciata, stessi capelli neri arruffati, stesso aspetto trasandato e stessa assenza totale di espressione. Era uno stramaledetto rompipalle con la puzza al naso, ma anche un collega eccellente e in privato una bravissima persona, anche se faceva di tutto per scordarselo. Bubba si dimenava e allungava il collo per raggiungere la guancia di Hamilton. Rizzo sbuffò con aria disgustata e lasciò cadere la cenere su una
maglietta tutta spiegazzata. Billy continuava a guardare fuori dalla finestra. Povero ragazzo, pensò Hamilton. A parte il disgusto che provava, c'erano in Billy un sacco di cose che gli andavano a genio. Aveva conosciuto persone come lui all'università, profondamente creative e profondamente pigre, e ne aveva viste migliaia di altre lavorando alla Omicidi. Billy era in gamba, questo era poco ma sicuro. I suoi gusti in campo musicale lo confermavano ampiamente e incontravano il favore di Hamilton: rock progressivo, jazz progressivo, funky progressivo e musica tradizionale da tutto il mondo. Dalla Bothy Band of Ireland ai suonatori di tamburo del Burundi, passando per Mozart e Zappa con in mezzo una salutare porzione dei Beatles e di Springsteen. La sola, vera differenza fra le loro collezioni di dischi era che Hamilton generalmente teneva i propri nelle loro copertine e su uno scaffale. E se il musicista in Billy era ancora vivo, probabilmente era ottimo. Un altro ragazzo come tanti, ricco di talento e con un sogno dentro di sé, che sbatte la testa contro i muri di New York. E si direbbe proprio che i muri stiano vincendo, rifletté Hamilton guardando al di là del suo testimone. E fissando quella notte d'ottobre illuminata da lampi rossi. Il profilo tracciato dal gessetto era completo. Faceva apparire la ragazza molto più grossa di quanto fosse in realtà. Arrivarono gli infermieri spingendo una barella e un sacco per il cadavere, pronti a impacchettarlo. Per prima cosa la girarono sulla schiena. E Billy volse la testa di scatto. «Dio mio» gemette mentre sul viso compariva una smorfia di disgusto. Non era pronto per le ferite vere, che lo fissavano sotto la luce violenta del lampione. Il folle le aveva aperto la pancia e le aveva scavato dei buchi sul petto; qualcosa di umido minacciava di rotolare via dai tagli. Billy strinse le palpebre, cercando di allontanare quella visione... ... e poi l'immagine prese forma con una chiarezza che gli intorpidì l'anima. C'era un volto dai bordi lacerati, inciso abilmente nel tronco della ragazza. Le due ferite gemelle, due punti sopra i suoi seni, erano come due occhi; lo squarcio ricurvo che le attraversava il ventre era un mostruoso sorriso come quello delle zucche vuote che si mettono in testa i bambini a Halloween, enorme e pieno fino all'orlo di... «No» disse soffocando un conato di vomito e indietreggiando di un passo. La bile gli salì attraverso le pareti dello stomaco fino al fondo della
gola. «Tutto a posto?» Era l'agente di colore e la sua voce era accompagnata dal rumore di qualcuno o di qualcosa che si muoveva. Billy si girò e vide che l'uomo gli si stava avvicinando con Bubba alle calcagna. La vertigine passò come un'onda che si dilegua. «Per... per un momento mi era venuto da vomitare. Adesso però sto bene.» La bile, però, c'era ancora e gli rendeva la voce roca. Fece un tentativo per schiarirsi la voce, poi continuò a gracchiare: «Ho solo dato una bella occhiata alle ferite, ecco tutto». Hamilton corrugò la fronte. «Sarà meglio che non guardi. Ha già visto abbastanza.» «No, lei non capisce» disse Billy guardando negli occhi l'agente. «Io voglio vedere. Voglio imprimere questa scena nei meandri della mia memoria. Voglio portarla con me finché vivrò. Capisce?» «Sì» rispose Hamilton sostenendo il suo sguardo. «Credo di sì.» Billy riuscì a fare un mezzo sorriso. Bubba si fece largo fra la roba sparsa per terra e gli saltò addosso, poggiandogli le zampe anteriori sulle spalle e dimenando forsennatamente la coda. «Giù, Bubba, a cuccia» mormorò Billy. Poi tornò a guardare in strada. Stavano caricando la ragazza nel retro dell'ambulanza. La folla iniziava a disperdersi: l'eccitazione si era dissolta e aveva iniziato a piovere. Ancora qualche minuto e Stanton Street sarebbe tornata come era sempre stata, priva di ogni traccia che potesse ricordargli la tragedia, tranne... Tranne... La linea bianca di gesso, che risaltava sul marciapiede scuro: un fumetto vuoto che Billy stava per riempire di ricordi... Le immagini erano nitide come un sogno in pieno svolgimento. Vedeva tutta Stanton Street dispiegarsi davanti a lui: la bionda prostituta nera con i suoi pantaloncini color porpora che si sistemava le calze, appoggiata contro il lampione all'angolo con Chrystie Street; la testa che si alzava e si abbassava nella Rambler del '67 parcheggiata lungo il marciapiede; Fred Flintstone, uno dei ragazzi della Bowery, steso vicino al parcheggio del Ray Bari's Pizza Supplies; il traffico che sfrecciava sulla Bowery. L'oscurità che circondava il cantiere dell' edificio in costruzione. Billy stava giocherellando distrattamente con le corde della sua chitarra quando la ragazza svoltò l'angolo di Chrystie e imboccò Stanton Street. Era all'incirca un'ora e mezzo che Billy se ne stava lì fuori a perdere tem-
po. Non si sentiva ispirato, ma almeno teneva i problemi lontano dalla mente. O almeno ci provava. Ma le sole cose che gli tornavano in mente erano proprio i problemi. Parecchi e di vario genere. Gli incombevano dietro gli occhi. La festa, tanto per cominciare. Nelle ultime due ore aveva ricevuto cinque messaggi telefonici che lo rimproveravano per la sua assenza. Tre di Larry. Uno di Lisa. Uno di Mona in persona. Era importante per Mona che lui si facesse vedere alla festa. Era importante per Mona che si facesse vedere e che avesse un aspetto decente. Questa festa era uno degli eventi più importanti nella vita di Mona de Vanguardia. Mona voleva dividerlo con lui. Mona era la sua amante. Stava per raggiungere qualcosa che assomigliava al successo. Lui, invece, era seduto sulle scale esterne dell'uscita di sicurezza del palazzo, strimpellando la chitarra, e lasciava alla segreteria telefonica il compito rognoso di risolvere le sue grane. Aveva troppo da fare: doveva suonare la serenata ai topi e alle blatte e ai barboni e alle puttane e ai puttanieri. Poi la ragazza svoltò l'angolo e si diresse verso di lui. Quando entrò nel cono di luce del lampione, Billy la riconobbe immediatamente. Era la bigliettaia del cinema dell'Ottava Strada, dove andava spesso a vedere il film di mezzanotte. Aveva dato un tocco epico alla moda new wave: i capelli dritti in testa e i colori vistosi facevano di lei un vero schianto, in netta contrapposizione a quegli orrendi esempi di arte moderna in cui si erano trasformate molte sue coetanee. Aveva scherzato con lei, con un certo successo, in più di un'occasione. Era una ragazza dolcissima, con un senso dell' umorismo tutto suo, un gradevole sorriso e una bellezza dall'apparenza stravagante. Billy ricordava che il suo cuore aveva iniziato a battere più forte. Ricordava che i genitali avevano cominciato a pulsare in modo sordo, risvegliati dal pensiero di lei. Ricordava che pian piano le rotelle avevano cominciato a girare, che la musica sotto le sue dita si era fatta tangibile e forte, mentre si avvicinava un pubblico su cui valeva la pena fare colpo. La ragazza barcollava, quasi impercettibilmente. Billy immaginò che fosse ubriaca. Oppure erano le anfe o qualche altro intruglio di droghe, ma poteva sempre sperare per il meglio. La bionda prostituta nera la seguì con lo sguardo e nei suoi occhi Billy colse un vago disprezzo. Nella macchina tutto proseguiva come prima. Fred Flintstone continuava a dormire.
Billy si era ormai scatenato con la chitarra quando la ragazza passò nel cerchio di luce proprio sotto di lui. Fu allora che si fermò e lo guardò sorridendo. Era rimasta evidentemente colpita. Ed era evidentemente sotto l'effetto di qualche droga. Ed era altrettanto evidentemente più carina di quanto gli fosse mai sembrata. Pensò di invitarla a salire da lui. Ma certo! Tipico dell'immaginazione: immaginare il meglio, immaginare il peggio. Pensò a come sarebbe stato entrare piano dentro di lei che gemeva e gli accarezzava la schiena. Pensò a Mona e ai suoi caldi anfratti che conosceva così bene. Pensò a Mona alla festa, incazzata con lui. Pensò che la ragazza non ce l'avrebbe fatta a salire fino a lassù, con quelle scarpine ai piedi. La ragazza era ancora laggiù, sotto la luce del lampione, e gli sorrideva. Il pazzo uscì dall'ombra dietro di lei. Billy impiegò forse un secondo per reagire. Troppo. Ma non fu colpa sua. Il suo istinto non lo avvertì strepitando. Non sentì stridere i violini. Sbucò fuori dall'ombra in meno di tre secondi. E ormai era troppo tardi. Non era più alto della ragazza e neppure di Billy. Indossava un impermeabile grigio del tutto fuori stagione e un cappello di feltro floscio e sformato che impediva a Billy di scorgergli il viso. Si catapultò fuori dall'ombra come un masso contro un castello assediato, spingendo la ragazza in avanti di quasi un metro quando sbatté contro la sua schiena. Il suo braccio sinistro scivolò sotto la gola di lei, pronto a soffocare qualsiasi grido che fosse riuscita a emettere. Nella mano destra, come l'altra coperta da un guanto, c'era un coltello corto dalla lama decisamente acuminata, risplendente nella luce che li illuminava dall'alto. Billy vide che il sorriso della ragazza si trasformava in una smorfia, un ovale muto dal quale sporgeva la lingua. Vide la mano con il coltello scendere e poi risalire, con un suono simile a un nitrito, troppo forte per essere vero, e un fiotto rosso troppo acceso per poter essere altro che sangue. Il coltello aveva colpito la ragazza appena sopra il seno sinistro; lei si piegò all'indietro dalla vita in su, il bacino sporto in avanti come se si stesse offrendo a un amante. Poi il coltello che era stato sollevato ricadde nuovamente su di lei. Questa volta sopra il seno destro. Altro sangue. Uno spasmo appena più vigoroso. Billy ricordò di avere urlato. La terza pugnalata le aprì la pancia e indugiò dentro di lei, scavando
dolorosamente attraverso la parte superiore del suo osso pelvico. La mano guantata eseguì una svolta di novanta gradi, piegando violentemente verso destra. Quando la lama venne fuori, ne penzolava qualcosa, incuneata in un punto minuscolo fra le scanalature del bordo seghettato. Poi il coltello e la sua penosa traccia di carne ricaddero nuovamente. Intanto Billy continuava a urlare. Era balzato in piedi senza neppure accorgersene, piegato in due sulla balaustra di metallo. La chitarra gli era caduta ai piedi facendo un gran baccano, ma lui non se ne era neanche accorto o la cosa gli sembrava irrilevante. E il coltello si alzò. E il coltello si abbassò. E il corpo si afflosciò mentre il coltello si rialzava e il pazzo assassino lo trascinò con sé nell'ombra. Il corpo, praticamente già morto, tentò un'ultima corsa verso la salvezza. Si sciolse dalla presa, si gettò in avanti con passo incerto. La lama scese di nuovo, la colpì alla spalla, entrò in profondità poi scivolò nuovamente fuori. La ragazza avanzò barcollando, distese il braccio destro davanti a sé e cadde. Il folle la seguì con passo incerto. Billy urlò nuovamente. Questa volta il pazzo lo sentì. Alzò il capo e il viso sotto il largo cappello parve sorpreso e quasi perplesso. Billy non riuscì a scorgere gli occhi, ma colse distintamente il tremolio del turgido labbro inferiore, i denti storti e probabilmente guasti nella bocca spalancata, la fossetta grande quanto un'aspirina nel mento piccolo e tozzo, la barba che cresceva rada. Poi il pazzo scattò di corsa verso Chrystie Street, il coltello gli scivolò di mano e cadde con un pling sul marciapiede. La puttana bionda era già scomparsa. Ci fu qualche istante di confusione nella Rambler, con due teste che si agitavano sul sedile posteriore; poi anch'esse scomparvero. Dalle altre finestre si cominciarono a sentire delle voci che gridavano, ma Billy non riusciva a capire che cosa stessero dicendo. Era troppo impegnato a gridare anche lui. E la parola che stava gridando era «Nooooo...» La ragazza giaceva immobile nel punto in cui era caduta... e così rimase fino a quando non finirono di disegnare la sagoma con il gesso una ventina di minuti più tardi. Era morta. E Billy aveva visto tutto. Senza neppure alzare un dito per impedirlo. Squillò il telefono. Billy tornò di colpo al presente, come se avesse sentito schioccare una frusta. Si voltò e si accorse che nella stanza tutti lo stavano guardando: Hamilton, Rizzo, Bubba. Un rivolo di sudore scese a bru-
ciargli l'occhio destro. Se lo sfregò, bestemmiando sottovoce. Il telefonò squillò nuovamente. «Vuole rispondere?» domandò Rizzo. Billy scosse il capo. «Ci penserà la segreteria.» Rizzo si strinse nelle spalle e guardò Hamilton. Il telefono continuò a squillare. Hamilton lanciò a Rizzo un'occhiata con la quale lo invitava a calmarsi e mentre stava per aprire la bocca e dire qualcosa il messaggio di Billy e Larry esplose a tutto volume. C'erano due battute di introduzione con chitarra elettrica e battiti di mano; poi entravano le voci, sull'aria di Rock'n'Roll Is Here To Stay: Non far caso a quel che dicono da queste parti. Roth e Rowe sono qui e vogliono restarci. Al telefono quella cosa non si può fare se vuoi lasciarci un messaggio devi prima aspettare il BIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIP Hamilton scoppiò a ridere. Rizzo fece una smorfia. Billy e Bubba lo avevano sentito un milione di volte e quindi non rimasero particolarmente colpiti. Come anche, evidentemente, la voce all'altro capo. «Vorrei poter credere» cominciò «che la segreteria indichi che tu stia venendo qui.» Una voce di donna, profonda e sul glaciale. «Anzi, sono contenta di non poterlo credere, perché non farei altro che ingannare me stessa. E mi domando se non mi sto ingannando anche su un sacco di altre cose, Billy. Ti viene in mente a cosa mi riferisco?» Uno scatto attutito, amplificato dalla segreteria. Un paio di bip orribilmente acuti. E poi il silenzio. Nella stanza nessuno ebbe la scortesia di spezzarlo. Tranne Rizzo, che storse la bocca sorridendo e disse: «La presidentessa del suo fan club?» «Senta, non sono dell'umore adatto» disse bruscamente Billy. «Se proprio non ha cuore, potrebbe almeno tenere chiusa quella boccaccia del cazzo.» Poi si girò verso Hamilton e aggiunse: «Ha altre domande da fare o resta qui solo per molestare gli animali?» «Soltanto una cosa» disse Rizzo. Ogni traccia di presa per il culo era scomparsa dalla sua voce. Sembrava che le parole di Billy avessero colto nel segno. «Ha detto di essere rimasto lì fuori per un'ora e mezzo.» «Sì.»
«E non ha mai visto l'assassino in strada.» «Giusto.» «Né infilarsi nel cantiere.» «Se lo ha fatto, io non l'ho visto.» «Quindi è possibile che se ne sia stato tutto il tempo a guardarla, esatto?» Billy annuì, senza dire niente. «Chi lo sa, forse gli piaceva la sua musica.» Rizzo si strinse nelle spalle con un'espressione che diceva: tutto è possibile. «Una cosa però è certa. Lui sapeva che lei era qui, ma questo non gli ha impedito di uccidere la ragazza. È un po' strano, non le pare?» Billy si limitò a fissarlo. L'aria cominciò a crepitare. «Sarei pronto a scommettere che non la considerava una minaccia vera e propria.» Hamilton si lasciò sfuggire un fischio di incredulità. Billy sentì che qualcosa minacciava di spezzarsi dentro la sua mente. Guardò Bubba che lo stava fissando in modo strano. Rizzo riprese a parlare. «Ma potrebbe cambiare idea. E se lo fa, saprà dove trovarla. Se fossi in lei, ci penserei. Mi parerei il culo.» «Che cosa intende dire?» La voce di Billy era secca e bassa. La rabbia e il terrore battagliavano per la supremazia. Billy lottava contro entrambi. «Intende dire che deve stare attento» intervenne Hamilton con le mani alzate in segno di pace. «Dal modo in cui lo ha descritto, quel tizio sembra uno psicopatico. Non sappiamo cosa ha in mente di fare. Le consigliamo di starsene tranquillo qualche giorno. Cerchi di non girare da solo di notte. Si guardi spesso alle spalle. Cose così.» Il poliziotto di colore sorrise. Billy no. «E voi altri, nel frattempo, cosa farete?» Aveva l'aria di una sfida. «Non possiamo offrirle protezione ventiquattro ore su ventiquattro...» «Se vuole, può fare un corso accelerato di culturismo» si intromise Rizzo sarcastico. «... ma terremo la zona sotto sorveglianza e le nostre linee telefoniche saranno sempre libere per lei. Se succede qualcosa, faccia uno squillo e arriverà qualcuno nel giro di un minuto.» L'espressione di Hamilton indicava che non stava mentendo. «Va bene.» Billy non riusciva a sorridere. Non ce la faceva proprio a tirarlo fuori, un sorriso, ma si sciolse un po' e annuì. «Va bene. C'è altro?» «Sì» disse Rizzo e fece un gesto con la mano, indicando il pavimento.
«Chi è che le ha arredato l'appartamento?» «Lo sai che sei stato un vero bastardo con quel ragazzo?» disse Hamilton a Rizzo. Stavano scendendo le scale e avevano lasciato Billy in mezzo al disordine della sua stanza per tornare al chiasso della strada. «Sai, quando mi tocca farmi strada in mezzo a dieci tonnellate di merda» rispose Rizzo «divento un po' irascibile.» «Secondo me è colpa della tua artrite. Hai preso gli antidolorifici?» «Non cominciare, pivello, o ti butto in pasto ai giornalisti.» «Dio mio» sospirò Hamilton. Ormai dovevano essere arrivati. Lampi di macchine fotografiche e registratori, microfoni sbattuti in faccia. «D'accordo, farò il bravo. Te lo prometto.» «C'è sempre un gran casino quando muore qualcuno» borbottò Rizzo, apparentemente rivolto a se stesso. Poi si girò verso il collega e disse: «E se siamo fortunati, non ci saranno altri figli di puttana che si ammazzeranno fra loro stanotte». Hamilton voleva dire qualcosa ma non lo fece. Non gli piaceva il modo in cui Rizzo aveva espresso quel che aveva in testa, ma ne apprezzava il senso. Se non altro, era qualcosa in cui sperare. Alla festa Mona era incazzata, ma si poteva trovare un rimedio. Anche se il suo amato tesoruccio non si fosse presentato alla festa - soprattutto se non si fosse presentato, considerando il suo stato d'animo al momento - quella sera aveva migliaia di modi a disposizione per divertirsi. La Griffin Records aveva organizzato una festa in un nuovo locale della Avenue A, molto chic e specializzato in sushi, proprio ai margini della zona malfamata del Lower East Side. Non avevano badato a spese: conto aperto al bar, buffet a disposizione degli ospiti. La sola cosa chiusa era la porta. Questo però non aveva impedito a quasi novecento persone di accalcarsi nel locale. Dentro sembrava un inferno. Mona non riusciva a credere che ci fosse gente del calibro di Chaka Khan, Billy Cristal, Tom Petty, Billy Idol, Tim Matheson, Kelly Nichols... e l'elenco poteva proseguire ancora per molto. Perfino Andy Warhol si era fermato per qualche istante a valutare con la sua aria sparuta il livello qualitativo dei presenti.
Tutti gli altri invitati erano dirigenti discografici, membri dei gruppi, musicisti vari, tecnici del suono e operatori del settore, giornalisti, amici dei suddetti e superbi esemplari femminili importati per l'occasione. Poi c'erano le ballerine. E fra loro la star era Mona. Mona de Vanguardia lasciò il telefono pubblico e si immerse con eleganza nella folla. La sua notorietà non era mai stata così grande: appariva in tutti e quattro i video di David Hart and the Brakes che presentavano quella sera e molte teste si voltarono in modo significativo verso di lei mentre si faceva strada in direzione del bar. Il fatto non avrebbe dovuto sorprenderla, anche se in realtà non aveva mai cessato di stupirsene. L'attrazione principale quella sera era Dave, su questo non c'erano dubbi. Ma nei video, i suoi primi piani duravano all'incirca lo stesso tempo di quelli di Dave. Dopo Something For Nothing, i pezzi grossi avevano deciso di costruire attorno a lei una mitologia visiva. Era lei la donna per la quale Dave cantava. Era lei la donna che lo ossessionava in sogno. Da questo progetto era scaturita una serie insolitamente massiccia di video promozionali per il primo album del gruppo, che si chiamava anch'esso Something For Nothing. E anche il primo grosso balzo in avanti nella carriera di Mona, già lunga e di quando in quando piuttosto sordida. Mona aveva ventisette anni. Era alta un metro e sessantacinque e pesava cinquanta chili. Era una ballerina per vocazione, ma aveva fatto molta gavetta adottando anche il canto e la recitazione come attività collaterali potenzialmente remunerative. E ora si cominciavano a vedere i risultati. Ballava veramente bene e anche nelle altre due cose non se la cavava niente male. Ma era stata soprattutto la sua bellezza a permetterle di sfondare. Alla fine aveva dovuto accettare questo fatto, per quanto le sembrasse idiota. Anche se fosse stata perfetta nelle cose che faceva, avrebbero continuato inevitabilmente a guardarle le tette. Una volta deciso di sfruttare anche la bellezza come attività collaterale, era salita molto in alto. Mona colse un barlume della sua immagine riflessa negli specchi che ricoprivano ogni parete. In posti del genere c'erano sempre un sacco di specchi. La gente non faceva altro che controllare continuamente se era in ordine. Mona si unì agli altri per qualche istante, soddisfatta dei suoi capelli neri cotonati, dei grandi occhi castani, dei tratti del viso che la facevano assomigliare a una bambola di porcellana. Indossava un abito da sera nero che metteva in evidenza le sue forme e faceva risaltare la carnagione scura
latino-americana. Le piaceva il trucco che aveva adottato ed era contenta che tenesse. Passabile, concluse, lanciando un sorriso alla sua immagine nello specchio. Christopher Guest lo colse al volo, se ne appropriò e gliene spedì un altro. Christopher Guest in carne e ossa! Il cuore le balzò in gola. Poi una mano le si posò delicatamente sulla spalla da dietro. Alzò lo sguardo verso due occhi grigi e penetranti, verso i lineamenti sottili e classicheggianti della sua compagna di casa. «Ce l'hai fatta?» chiese Lisa. Mona si voltò verso di lei. «Niente. Sempre quella stupida segreteria. Giuro su Dio che a volte avrei voglia di spaccargliela in testa.» La bellezza di Lisa Traynor non era esotica come quella di Mona: per lei non era una fonte di reddito primaria, quindi non se ne curava particolarmente. Aveva però una capacità di sbalordire identica a quella di Mona. Quella sera Lisa si era spinta a livelli insoliti: aveva sciolto la massa ondulata di capelli biondi come il grano e lunghi come quelli di Raperonzolo, aveva scelto un trucco provocante e si era vestita in modo tale da stendere al tappeto chiunque. Come forme e misure era simile a Mona, ma i suoi lineamenti possedevano un'intensità cesellata, più minacciosa che seducente. Solo fino a quando non sorrideva, però, e allora ogni cosa intorno a lei si illuminava. In quel momento stava sorridendo, in modo dolce e amichevole. La mano indugiava ancora sulla spalla di Mona. «Forse dovresti lasciare che le cose vadano per conto loro» disse Lisa. «Forse dovrei lasciare lui» ribatté Mona, ma mentre parlava abbassò gli occhi. Lisa era brava come pochi a individuare le bugie e Mona non voleva vedere una luce accendersi dietro quello sguardo penetrante. «È depresso, Mona, sul serio.» «E sarebbe una novità?» chiese Mona con un sorriso amaro e la rabbia che le risaliva dentro. «Sono ormai sei mesi che è depresso.» «E tu non ne puoi più.» «Proprio così, cazzo!» Si accorse che stava gridando e abbassò immediatamente il volume. C'erano troppe persone importanti che la stavano guardando. Non sarebbe stato bello perdere la calma. «Intendo dire che lo vedo affondare ormai da così tanto tempo che mi chiedo se ce la farà mai a tornare a galla. E ogni volta che a me capita qualcosa di buono, questo lo fa ripiombare ancora di più nella merda. Sembra quasi che non riesca a sop-
portare l'idea che le cose vadano meglio alla sua ragazza che a lui.» «Sai che non è così.» La mano di Lisa lasciò la spalla di Mona. «Se stessimo parlando di un altro, ti direi che probabilmente hai ragione. Ma Billy non è fatto così, lo sai. Lui è fiero di te.» «Certo. Come no.» Mona roteò gli occhi e fece una faccia disgustata. «Per questo è qui a dirigere il coretto dei miei ammiratori.» «C'è bisogno che te lo dica chiaro e tondo?» disse Lisa, anche lei con un'espressione di vago disgusto. «Va bene. Stammi a sentire. Billy non è qui perché si vergogna. Lui sa perfettamente quanto vale e il fatto di non avere mai avuto un'occasione per dimostrarlo lo fa diventare pazzo di rabbia. Dave lo intimorisce, tanto che non prova nemmeno ad avvicinarlo. E Dave stravede per te, il che spaventa ancora di più Billy. La sua autostima, al momento, è sotto zero...» «Ottimo. Proprio quello che mi ci voleva.» Mona sentiva le guance che le andavano a fuoco e questo la faceva incazzare ancora di più. «Insomma, questo è il mio momento, i riflettori sono tutti puntati su di me! Ho lavorato come una matta per arrivare a questo! Dovrebbe essere il momento magico della mia vita! E invece no! Sono intrappolata dai sensi di colpa per colpa tua e per colpa del mio ragazzo, uno che fa di tutto per rimanere un fallito e che è troppo testardo per scendere a quei maledetti compromessi che farebbero di lui una stella!» Ora Lisa aveva un aspetto stanco. La sua voce prese un tono basso, che si percepiva appena nel chiasso della festa. «Vai a divertirti, Mona...» «No, no, no!» Ormai Mona era scatenata. «Non posso farlo, il mio povero Billy ha bisogno di conforto! Non posso divertirmi se so che il mio povero amore sta soffrendo le pene dell'inferno! I miei successi scompaiono di fronte alla terribile angoscia senza fine di quel coglione del mio fidanzato!» «Vai un po' sul pesante, non ti pare?» Il sorriso di Lisa, in casi come questo, era esasperante. «Volevo semplicemente che venisse qui per me.» La voce di Mona era micidiale, bassa e pacata. Tagliente come un coltello rovente nel burro. «Non credo che sia giusto che debba rovinarmi questa serata. Se non riesce a mettere da parte i suoi problemi per il tempo necessario a congratularsi con me per il mio successo, allora che si tolga dalle palle. Non ho bisogno di lui e delle sue stronzate. Non ne posso più.» Lisa alzò le spalle e fece un sorriso a denti stretti, con aria di sufficienza. Mona non aveva vinto. Poteva distinguere chiaramente le parole stampate
sul viso della sua compagna di casa: Con te non ci parlo, sei una stronza, vendicativa e isterica, ti lascio sola a sbollire la rabbia. Ma fu la commiserazione mista alla rassegnazione che lesse sul volto di Lisa a convincere Mona a voltarsi e andarsene. Si vergognava della rabbia che provava e quel senso di vergogna era l'ultima cosa al mondo con cui avrebbe voluto avere a che fare in quel momento. Era decisamente splendida. Intorno a lei c'erano persone che avevano fatto qualcosa di più che sognare: persone che si erano realizzate. Persone pronte ad accoglierla fra le loro fila. Se solo si fosse liberata di un peso morto. Un peso morto di nome Billy Rowe. «Dio, ho bisogno di qualcosa da bere» annunciò alla stanza intera. C'erano tre bar in funzione, collocati in modo strategico lungo tutto il locale. Si diresse verso il più vicino, alla destra del circolo di persone in mezzo alle quali aveva visto Dave per l'ultima volta. Al centro del gruppo, ovviamente. Dove ha tutto il diritto di stare, si disse con un sorriso crudele. Se lo è meritato. A differenza di un'altra persona di mia conoscenza. All'interno di quel circolo di persone c'era anche Larry Roth che cercava di mettersi in mostra. Come Mona, anche Larry si guardava intorno, stupito dal numero di celebrità che lo circondavano. Allungando il braccio avrebbe potuto toccare Cyndi Lauper e Jamie Lee Curtis, anche se quel che desiderava più di ogni altra cosa al mondo era fare due chiacchiere con Buck Henry. Da comico a comico. Un minuto soltanto. Non era chiedere troppo, no? Larry era alto e aveva un aspetto alquanto ridicolo. Assomigliava vagamente al suo omonimo dei mitici Three Stooges: stessi capelli crespi e stessa pelata lucida, stesso uncino in fondo alla vecchia proboscide. Aveva fatto diversi numeri di cabaret negli ultimi due anni, ma nessun film e non aveva mai avuto mezz'ora tutta per sé in programmi di successo. A volte temeva che non sarebbe mai riuscito a sfondare. Stasera, per esempio. Si sentiva surclassato senza speranza da quasi tutti quelli che vedeva. Ma Dave Hart non gli suscitava quella sensazione, il che era al tempo stesso gradevole e deprimente. A Larry piaceva credere che Dave fosse solo uno dei tanti Stronzetti che avevano avuto la fortuna di inciampare sui contatti giusti.
Ma non era vero e lo sapeva. Dave Hart aveva fatto centro perché aveva le carte in regola. I Brakes erano grandi, ma il materiale era tutto di Dave ed era la sua presenza che faceva scattare la scintilla. E inoltre l'improvvisa notorietà non sembrava averlo influenzato né trasformato. Dave Hart aveva il suo solito modo di fare, cordiale e spontaneo, non da rock star spocchiosa e condiscendente come ci si poteva aspettare da lui. Se non si faceva caso agli abiti costosi e al naso da sniffatore che si stuzzicava continuamente, Dave poteva essere scambiato per uno dei tanti tipi straordinariamente belli che c'erano nel locale. Cyndi e Jamie le perse di vista quando scomparvero alle spalle di un paio di grassi tecnici audio. Buck Henry era ancora lì, ma stava parlando a una donna bellissima di nome Veronica Vera. Larry era intimidito dalla notorietà di Buck e dalla scandalosa esibizione delle curve di Veronica. Forse avrebbe potuto incontrare qualcuno che conosceva dei pezzi grossi e farseli presentare. O forse mi sto solo prendendo per il culo, si disse e rivolse la sua attenzione alle risposte a raffica che stava dando la star della serata. «Sì, siamo stati scelti per una serie di concerti con Huey Lewis and The News. Dovremmo iniziare fra tre settimane. Il disco è già uscito. E anche il primo video. Direi che per un po' siamo a posto. Sinceramente, non riesco ancora a crederci.» Certo che puoi crederci, scemo, ribatté silenziosamente Larry. La fortuna l'hai acchiappata per le palle. Non le piaceva quel tono invidioso che avvertiva nella propria mente, ma che cosa poteva farci? Era come cercare di negare l'esistenza della protuberanza aquilina al centro della sua faccia. Riusciva a comprendere perché Billy non si era fatto vedere. Era da smidollati e da stupidi, e la sua assenza avrebbe certamente buttato alle ortiche i sogni di Billy, ma riusciva a comprenderlo lo stesso. Dave aveva fatto tutti quei passi che Billy si era rifiutato di prendere in considerazione: aveva ripulito e raffinato il suo aspetto, si era dedicato a canzoni d'amore lunghe tre minuti e mezzo, aveva assimilato il suono e la tecnologia degli ultimi cinque anni. E aveva messo a frutto ogni cosa. Ora Dave suonava al Madison Square Garden e Billy a Washington Square. Dave si poteva permettere un appartamento da 1500 dollari al mese nell'Upper West Side e gli avanzavano i soldi per la coca; Billy era indietro di tre mesi con l'affitto della sua metà di quel buco miserabile nella Bowery, e gli restavano a malapena i soldi per tenere sotto controllo la sua dipendenza dall'alcol e dalla nicotina.
Larry guardava Dave che si lavorava i presenti. Era uno spettacolo che valeva la pena godersi. I grandi occhi verdi, il sorriso sempre pronto, i riccioli biondo cenere che gli ricadevano sulla fronte e incorniciavano i lineamenti abbronzati e lupeschi. A Larry, Dave ricordava Robert Plant da giovane: la sua bellezza esasperante traboccava di una fiducia e di un entusiasmo che davano alla sua insicurezza un tocco sublime. Le donne che lo circondavano prendevano a sculettare ogni volta che Dave le guardava. Gli sembrava nauseante, ma anche questo era comprensibile. «Siamo entrati al settimo posto» stava dicendo Dave «rapidi come pallottole.» Larry era ormai talmente esasperato da volerne piantare una in quella testa colma di fiducia in se stesso. «Il nostro manager ha detto che si gioca le spalle se la settimana prossima non siamo al primo posto. O forse ha detto le palle?» Tutti intorno a lui scoppiarono a ridere. Facciamo un patto, pensò Larry. Tu dici le battute idiote, io ti scrivo i testi. Che ne dici? Sono pronto a tutto. Non aveva idea di quanto si sbagliasse. «Tutto solo» Stava cominciando a piovere: goccioloni grossi come biglie. La sua chitarra era ancora fuori, sulla scala di sicurezza, e l'acqua faceva risuonare la cassa e tintinnare le corde. Billy non riusciva a decidersi a toccarla. Non ancora. Era una Ovation acustica a sei corde con pick-up e retro di plastica sagomato. La sua patina lucida era stata rovinata per sempre da una birra che le era caduta addosso nel 1977, durante una festa di scoppiati. Era sopravvissuta a gite sotto le cascate e a raduni intorno al fuoco a zero gradi centigradi. Se non ce la faceva a sopportare anche un po' di pioggia, allora poteva andare a farsi fottere. Ma non era questo il punto. Fondamentalmente, Billy dava tutta la colpa alla chitarra. Per avere fatto tardi alla festa. Per la morte della ragazza. Per i dodici anni sperperati nell'inutile ricerca della fama. Si sedette sul bordo del letto. Fra le dita gli bruciava l'ennesima sigaretta. Fra le ginocchia pendeva salda l'ennesima bottiglia di Bud. Aveva visto andarsene l'ultimo degli agenti, le luci rosse allontanarsi girando vorticosamente per andare a illuminare altre finestre della Città dalle Opportunità Infinite. Aveva visto calare per l'ennesima volta il buio, carico di elettrici-
tà. Come la pioggia, che si faceva sempre più fitta. Come la violenza, che iniziava a trionfare. «Quanto sei intelligente» si disse Billy. «Sei tanto intelligente che mi fai venire voglia di vomitare.» A dire il vero, la nausea era ormai scomparsa quasi del tutto, gli restava soltanto una bassissima considerazione di sé. Era stato l'agente Rizzo, quel bastardo, a trasmettergliela (sarei pronto a scommettere che non ti considerava una minaccia vera e propria) in un modo che gli aveva fatto girare le palle ma contro cui trovava estremamente difficile obiettare. Soprattutto poi se pensava a (la presidentessa del suo fan club) Mona, che con ogni probabilità gli avrebbe staccato la testa a morsi se si fosse presentato in quello stato. Niente domande, solo il rumore inequivocabile dei canini che affondano nella carne. Non avrebbe aspettato che lui le raccontasse dell'omicidio. Non avrebbe aspettato per cercare di capire tutto il casino che era successo. Le sarebbe bastata un'occhiata, poi sarebbe andata fuori di testa. Ed è proprio quello di cui ho bisogno, pensò, per farla completa. Qualcosa di grosso sbatté contro il mi basso della chitarra, spedendogli un suono smorzato fin dentro le orecchie. Posò a terra la birra e si alzò di scatto. Niente vertigini. Bene. Si avvicinò alla finestra che portava alla scala di sicurezza. Si cominciavano a formare delle piccole pozze d'acqua; dei rivoli iniziavano a scendere lungo il manico della chitarra. Calcolò che dentro la cassa doveva esserci ormai mezzo centimetro di acqua. Male. La chitarra era la sua unica fonte di reddito; era anche la sua amica più vecchia e più fidata, il mezzo attraverso il quale esprimeva la sua personalità. La scossa improvvisa che provò quando si rese conto che le cose potevano anche andare peggio lo spinse a muoversi. Afferrò la sua Ovation per il manico gocciolante, la rovesciò e iniziò a percuoterne il dorso con la mano, come si fa quando si vuole far ruttare un lattante. Poi la scosse tutta e la rovesciò da ogni lato, facendo cadere tutta l'acqua che poté; infine la trasportò dentro e andò a cercare un asciugamano. Ne trovò subito uno, ovviamente per terra. C'era roba di ogni genere, sparsa sul pavimento della sua stanza. Un po' di biancheria sporca? Domanda retorica. C'è! Cerchi per caso una serie completa di vecchi dischi di
Jimi Hendrix, tutti senza copertina? Nessun problema! Si chinò per prendere l'asciugamano. Il tempo trascorso per terra lo aveva asciugato per bene. Lo prese e si diresse verso il letto, quindi si mise all'opera. Il disprezzo di Rizzo lo aveva contagiato. Billy scoprì che si sentiva a disagio nella propria pelle, e ancor di più a starsene seduto in quella stanza schifosa. Era deprimente, soprattutto se si considerava la testimonianza che essa forniva sulla sua condizione attuale. Ti stai perdendo, amico, si disse. Te ne stai a guardare la vita che ti crolla intorno senza muovere un dito. Invece dovresti fare una bella doccia, infilarti gli abiti più puliti che possiedi e correre come un invasato alla festa se non vuoi perdere per sempre la tua ragazza... Bubba abbaiò. «EHI!» strillò Billy facendo un salto in aria di dieci centimetri. Riatterrando guardò in direzione del suo stupido cane. Bubba abbaiò di nuovo e poi cominciò a ringhiare verso la vasca da bagno. «Che cosa c'è?» chiese Billy. Poi l'acqua della doccia si aprì. Bubba fece un balzo all'indietro con un guaito. Billy stava per fare lo stesso. La doccia sparava acqua con tutta la potenza possibile, la scaricava ruggendo nella vecchia vasca di porcellana e la schizzava su tutto il pavimento. Iniziavano già a sollevarsi densi pennacchi di vapore. L'acqua era bollente. Ma nessuno aveva toccato i rubinetti della doccia. Fra i due, Bubba era il più vicino alla vasca, ma si trovava a oltre un metro di distanza. «Cristo santo» disse Billy con voce sorda posando la chitarra sul letto e alzandosi lentamente. Il vapore si faceva sempre più denso, mentre l'acqua continuava a scendere fragorosamente. «Che strano» mormorò Billy avvicinandosi nervosamente alla vasca. Afferrò la bottiglia di birra che era appoggiata sul pavimento, pensando in un angolo della sua mente all'eventualità di utilizzarla come arma. La vasca, come anche l'unico lavandino, si trovava in un angolo della cucina, nello stile delle case popolari più classiche. Bubba aveva attraversato la stanza indietreggiando e ora uggiolava ai piedi della stufa. Guardò Billy con aria nervosa e indagatrice e Billy rispose allo stesso modo. Attraverso il vapore, Billy diresse lo sguardo verso il fondo della vasca. Il topo era grande più o meno come metà del suo piede, escludendo la lunghezza della coda. Era sdraiato a pancia in su e si contorceva debol-
mente mentre l'acqua caldissima che lo tempestava dall'alto aveva reso liscio e lustro il suo pelo di color marrone scuro e lo teneva immobilizzato contro la porcellana bianca. Aveva la bocca aperta, la mandibola che si agitava freneticamente. Ma non era un topo... «Dio mio» mormorò Billy barcollando all'indietro con gli occhi sbarrati. Il terrore lo aveva assalito di nuovo, accompagnato da una nausea che lo tempestava di pugni ai fianchi. Cercò di riprendere il controllo dei pensieri, ma la sua mente si rifiutava di concentrarsi. Non c'era niente che gli sembrasse reale. Niente che avesse senso. Quando chiuse gli occhi, l'oscurità gli crollò addosso. «No» sibilò quando si accorse che stava inciampando. Spalancò gli occhi, si accorse che stava cadendo e che il bordo superiore della vasca da bagno gli veniva incontro a tutta birra. Distese le braccia davanti a sé. La bottiglia volò via e si infranse nel momento esatto in cui lui si aggrappava al bordo della vasca. Schizzi di birra e scaglie di vetro gli finirono sulle mani e sul viso. Sei quasi svenuto, lo informò la sua mente. Sentiva un dolore acuto alla guancia destra, proprio sotto l'occhio; gli faceva male anche il dorso della mano sinistra. Si passò distrattamente il palmo della destra sulla guancia e lo sfregò contro il dorso della mano ferita, poi cadde in ginocchio sul pavimento. Il topo era morto. Un rapido sguardo alla sua destra glielo confermò. La bottiglia che si era rotta non aveva turbato affatto l'animale che se ne stava disteso, sobbalzando nella coreografia della doccia. Ma non era un topo... Le nuvole di vapore bollente erano roventi, accecanti. L'acqua calda e il sudore formavano gocce luccicanti sui vestiti di Billy, sulla sua pelle e sui capelli. Provò a muoversi, agitando la mano destra davanti alla faccia, nel tentativo di avere una visione più chiara della situazione... ... e quella cosa ricambiava il suo sguardo con occhi scuri, piatti e senza vita, denti gialli e aguzzi spuntavano dalla fenditura rosea del labbro. Non c'era niente che fosse giusto nell'angolo e nella forma del capo: le orecchie troppo lunghe e appuntite, il muso troppo corto e largo, le narici enormi e mostruose. Più lo guardava e più gli sembrava un pipistrellaccio mutante privo di ali. Anche le sue zampe irrigidite erano troppo lunghe e si attaccavano al corpo in modo strano... «Noooo» mormorò con voce indistinta, allontanandosi lentamente da
quell'orrore e riuscendo appena a percepire la propria voce al di sopra del fragore della doccia e del sordo ronzio della sua mente. Sentiva la follia, invece, il delirio dell'incubo, che gli si insinuava nel cervello come un pugnale. E la follia lo atterriva. Non riusciva a sopportarla. No, un'altra volta no. «Non sta succedendo niente» si disse. «Ora chiudo l'acqua e certamente qui non ci sarà niente...» Nella stanza da letto qualcosa di pesante cadde a terra e andò in pezzi. Sentì dei rumori chitinosi, dei passi rapidi. «CRISTO SANTO!» gridò Billy scattando in piedi. Tutt'a un tratto divenne perfettamente consapevole del pavimento sotto di sé: gli angoli in ombra, i posti dove si potevano nascondere... Indietreggiò fino al centro della cucina, col cuore che gli squassava dolorosamente il petto. Dietro di lui Bubba aveva cominciato a ululare. A Billy venne voglia di imitarlo. C'era qualcosa nella stanza insieme a loro. «Merda.» Sentiva le palle raggrinzirsi, il sudore freddo formicolare sotto le ascelle e intorno agli occhi. Fece un altro passo indietro e poi si immobilizzò di colpo mentre nella sua mente andavano in onda le scene di un film di poltergeist scatenati: la porta gli scivolava di mano e si chiudeva di schianto, poi sentiva che il lucchetto scattava da solo. I piatti pieni di scarafaggi si sollevavano sopra il lavandino, attraversavano in volo la stanza andandosi a schiantare contro il muro come aeroplani guidati da kamikaze. Vestiti sporchi e copertine di dischi roteavano in aria come delfini che danzano, con un movimento a spirale... ... e quelle cose che correvano rapide per la stanza, che si stringevano intorno alle sue caviglie con i loro denti aguzzi e i loro occhi scintillanti... Era terrorizzato all'idea di muoversi, ma non aveva la minima intenzione di restare lì dentro. Dietro di sé, alla sua sinistra, la stanza di Larry era immersa nelle tenebre. Forse stanno entrando dalla finestra del bagno, pensò gettando un'occhiata di soppiatto verso la porta che si apriva sul buio. Niente. Non sta succedendo niente, provò a dire fra sé e sé. Solo una stupida... Poi il lucchetto della porta d'ingresso si aprì. E la porta, lentamente, si spalancò cigolando. Bubba non perse tempo. Emise una sorta di squittio e sfrecciò attraverso
l'apertura, scomparendo alla vista. Billy rimase a guardare la porta spalancata mentre il pomello cominciava a girare da solo. Cik-cik. «E va bene» disse con un sibilo. «Va bene.» Alzò le mani come per scusarsi. Cercò di abbracciare con un solo sguardo la sua stanza, la doccia e la stanza di Larry mentre indietreggiava rapidamente verso la porta. Col piede urtò il guinzaglio di Bubba e istintivamente lo raccolse da terra. Chiunque fosse, era già lì dentro. La porta si era aperta per lui. La usò. Di nuovo alla festa Mona andò al bar e ordinò un Tangueray con acqua tonica. Il cocktail arrivò, scomparve e il bicchiere tornò al mittente per essere riempito nello giro di trenta secondi. Il barista ebbe il buon senso di non battere ciglio. Mona lo ringraziò con una mancia generosa e riprese a vagare fra la folla. Non riusciva a togliersi Billy dalla testa: era questo, in fondo, il problema. Ora che aveva iniziato a prendere seriamente in considerazione la possibilità di mollarlo, i ricordi si ammassavano come sacchi di sabbia sulla porta di un bunker. Ogni attacco dall'esterno, per quanto vigoroso, non riusciva a sfondare. C'erano solo lei, il suo gin e i filmini in superotto che le scorrevano nella mente. Quasi quattordici mesi di riprese... Si erano conosciuti a una festa con gli attori di un film splatter a basso costo dal titolo Mattatoio in un collegio femminile. Mona aveva fatto la sfacciata mettendo in ombra tutte le altre ragazze, soprattutto nella scena in cui si faceva infilzare la testa con un forcone. Billy era stato invitato da uno della troupe che, da quando aveva preso il calco del viso di Mona, aveva perso la testa per lei. Come capita spesso a New York nelle feste degli sconosciuti pieni di talento, il gioco più in voga si chiamava "Bene in mostra e lingua sciolta". Artisti, attori e modelle avevano pronti i loro album. Gli autori i loro manoscritti. I musicisti i loro nastri e a volte perfino gli strumenti. Come di consueto, i concerti improvvisati, le esibizioni soliste e i duetti andarono avanti in eterno. Mona, ovviamente, aveva un debole per i rockettari. I suoi ultimi quattro
fidanzati, in effetti, avrebbero potuto formare un gruppo: basso, chitarra, sax e batteria. Sapeva per dolorosa esperienza personale tutto quello che c'era da aspettarsi da una relazione con uno di loro: l'infedeltà, la scarsa considerazione, l'abuso di droghe e l'irresponsabilità in campo economico di cui era stata testimone superavano ogni immaginazione. Ma i musicisti erano la sua ossessione e di loro si poteva dire di tutto tranne che fossero noiosi. E quindi, ogni volta che il suo cuore provava il desiderio di scoccare una freccia, questa era sempre diretta a un musicista pazzo. Era rimasta sorpresa, ma non dispiaciuta, quando Billy era entrato nel raggio del suo arco. Fra gli elementi a favore di Billy c'era la questione del suo talento. Era di gran lunga il miglior musicista della festa. Il suo repertorio di canzoni dei Beatles, le sue canzoni originali che ti catturavano immediatamente, l'intensità grazie alla quale la voce e la chitarra riuscivano a far sembrare decenti anche i peggiori dei musicisti che lo accompagnavano: tutte cose che scesero delicatamente sul suo cuore, come il contatto della pelle di un amante sulla propria. E per quel che poteva vedere, dietro a quei vestiti trasandati e ai capelli in disordine si nascondeva un uomo decisamente attraente. E da qui si passava direttamente all'elemento principale a sfavore di Billy: l'assoluta mancanza di gusto per quel che riguardava l'aspetto fisico. Era penoso vedere come una persona così dotata non tenesse in alcun conto i dettami più sacri di Manhattan. Altri musicisti, per quanto presentassero lo stesso difetto, avevano almeno il buon senso di supplire alle carenze della loro immagine con l'immaginazione. Billy Rowe, invece, sembrava appena uscito da un porcile dopo aver dato da mangiare ai maiali. Mona esitò, con la corda del suo cuore già tesa e la freccia puntata. È veramente lui quello che voglio? si chiese. Poi partì il nastro e l'aria si riempì della sua musica. E il rumore della freccia piena di desiderio che veniva scoccata fu sommerso dalle note. Le canzoni del nastro erano gemme sfaccettate, complesse e magnifiche. C'erano delle pecche, è vero: una batteria schifosa, un missaggio latitante, degli arrangiamenti anomali, e di tanto in tanto la voce risultava coperta. Non erano delle gemme perfette. Ma in quella musica c'era l'anima. C'era il talento. C'era la visione. Perfino Lisa, per la quale gli uomini non erano altro che subumani sem-
pre intenti a menarsi l'uccello, era rimasta evidentemente colpita da lui. Erano insieme in un angolo e ridevano come pazzi di qualcosa di imprecisato; per un istante Mona rimase turbata all'idea che la sua compagna di casa fosse sul punto di fare una delle sue rare incursioni nel mondo dell'eterosessualità. E invece no: passandole accanto, la prima cosa che Lisa le disse fu: «Seduci quel tipo. Sarà divertente averlo in giro per casa...» Grazie tante, Lees, rifletté silenziosamente Mona tornando alla festa totalmente diversa che si stava svolgendo in quel momento attorno a lei. Un dirigente discografico di mezza età le fece l'occhiolino. Lei rispose accennando un vago sorriso e poi cominciò a fissarsi le scarpe. Non c'era modo di aggirare la malinconia che i ricordi riportavano a galla. Le facevano tornare in mente innanzitutto il motivo per cui si era innamorata di Billy e quindi le spiegavano come mai, nonostante i molti e ottimi argomenti a suo sfavore, era ancora innamorata di lui... Quella musica, le aveva spiegato Billy, era un nastro di prova della sua opera rock La vera guerra. Da come gliel'aveva descritta, doveva trattarsi di una composizione mastodontica: un poema epico lungo due ore che Billy aveva composto nell'arco di tre anni e che era stato impossibile piazzare sul mercato. Mona aveva notato un certo imbarazzo in Billy quando gliene aveva parlato: gli era stato detto certamente e più di una volta che cercare di sfondare nel mondo della musica con un'opera rock era come intestardirsi a praticare la microchirurgia con un martello pneumatico. Si notava però altrettanto chiaramente che Billy era orgogliosissimo di quello che aveva composto. E questo aveva suscitato una discussione sui motivi per cui aveva scritto La vera guerra ed era venuto alla luce il nocciolo duro di un idealismo sfregiato da mille battaglie che si celava sotto ogni azione e sotto ogni gesto di Billy Rowe. «La vera guerra» le aveva spiegato «è la battaglia contro la follia che c'è dentro di noi.» Era passato quindi a descrivere la trama della sua opera che comprendeva anche un complotto di uomini e donne illuminati che, dopo aver sconfitto i loro demoni personali, avevano deciso di elevare la coscienza dell'umanità e impedirne la distruzione definitiva. Mona aveva represso l'impulso di farsi beffe di lui. Opera rock, cambiare il mondo... sentiva puzza di quelle cazzate anni Sessanta che avevano trovato ben poco spazio nella sua vita di ogni giorno. C'era però qualcosa
di contagioso nella sicurezza di Billy: la sua fede sincera nella bontà che esisteva in fondo a ogni essere umano, oltre che nella bontà divina, andava a colpire un punto nell'anima di Mona in cui il desiderio di credere in qualcosa era ancora molto forte. Sei anni di New York avevano lasciato il segno sulla capacità di Mona di provare pietà per il prossimo. Era inciampata su troppi barboni sporchi di piscio; aveva dovuto difendersi da troppi talent scout il cui cervello, se proprio volevi trovare quel poco che era loro rimasto, dovevi cercarlo un palmo sotto l'ombelico; aveva visto il vecchio mondo spietato in piena azione: come avrebbe potuto conservare intatto un cuore traboccante di amore? Quasi tutta la gente che conosceva aveva adottato una sorta di cinismo elegante e alla moda: il distacco era la capacità di ridere e farsi gli affari propri mentre il resto del mondo urlava e sanguinava a morte. Se viene giù la Bomba, cerca di essere abbastanza fatto da riuscire a vederne la scia. Se la situazione si fa pesante, fai una provvista di ecstasy e vai a passare il fine settimana a un Club Med. Billy Rowe le dava ristoro. Parole che aveva sentito soltanto negli sceneggiati polizieschi, come onore e coraggio, gli uscivano dalla bocca con spontanea ostentazione e potenza innegabile. Dava l'impressione di essere disposto a sacrificare la vita per quello in cui credeva, e quello in cui credeva era l'amore. All'una di notte lasciarono insieme la festa. Alle tre, nell'appartamento di Mona, intrecciati insieme fino sembrare un solo essere con due teste, stavano conquistando con il loro sudore un'estasi paradisiaca. Le due ore di intervallo erano trascorse nei preliminari più dolci, lenti, sensuali e intensi che avessero mai fatto e ricevuto: colli e capezzoli, lingue e alluci, labbra e dita, testa e piedi, tutto insieme in un'orgia crescente di dare e avere, di torrida e sorprendente tenerezza. Billy era lì per lei: era questa la cosa più sconvolgente. Nella vita di Mona gli atleti del sesso non erano mai mancati, anche se la maggior parte di loro non sarebbe mai stata scelta nemmeno per i Giochi della Gioventù: maiali della palla, mastini in cerca di gloria che correvano verso la meta senza curarsi delle proteste della loro compagna di squadra. Ora, per la prima volta, l'espressione fare l'amore aveva finalmente un senso. Il sonno giunse, infine, quando i raggi del sole fecero capolino attraverso la finestra della camera da letto. Fu una notte senza sogni. Tutte le loro fantasie si erano realizzate. Ricordavano soltanto di essere caldi e felici e
sfiniti. Insieme. E che insieme sembravano destinati a rimanere... «Al diavolo.» Le parole uscirono come un sibilo dalla bocca, triste e amareggiata. Una lacrima le era sfuggita dall'occhio sinistro e ora le stava rotolando giù per la guancia. Molte altre erano pronte, in attesa. Poteva anche dire addio al suo trucco. Mona si precipitò nel bagno delle signore, pregando Dio che nessuno dei fotografi l'avesse immortalata nel frattempo. Il bicchiere di gin and tonic che aveva in mano si piegò da un lato lasciando cadere qualche goccia, analogo alcolico delle sue lacrime. Se qualcuno l'aveva notato, lo tenne per sé. I danni subiti dal trucco erano minimi. I tre minuti che impiegò per restaurarlo servirono anche a farle recuperare un certo contegno. Il contributo della respirazione profonda fu essenziale. E anche il gin and tonic. E anche il vago riaccendersi della sua rabbia. Che cosa ne è stato dell'idealismo di cui ti vantavi tanto, caro il mio signor Rowe? Domanda retorica, formulata soltanto a suo beneficio. Che cosa è successo al piccolo guerriero dell'arcobaleno? Eri il ragazzo che veniva spedito ogni giorno in presidenza, ma non perché fumavi o perché non andavi a scuola, ma perché sapevi tenere testa ai prepotenti del consiglio e dell' amministrazione. Eri il ragazzo che, finita la scuola, ha piegato il suo diploma, l'ha ficcato a forza in una scatola di fiammiferi dopo averne spedito delle copie a ogni insegnante che ti aveva fatto perdere tempo con un biglietto, con sopra scritto NON HO BISOGNO DI VOI. Eri il giovane che lottava contro il nucleare e le scorie chimiche, organizzava concerti di beneficenza, provocava fastidi al potere costituito a ogni possibile occasione. Che cosa era successo al cavaliere senza macchia e senza paura? Al Ralph Nader del rock'n'roll? Sorrise con una smorfia vagamente disgustata allo specchio, immaginando che ci fosse Billy davanti a lei. Ora te lo dico io. Si è arreso. È strisciato fino a casa con la sua stupida opera rock fra le gambe, ha staccato il telefono e ha aperto la prima di cinquantamila birre. Si è arreso, e da allora nessuno ha più sentito parlare di lui. È rimasto solo il suo guscio vuoto. Mi sento come la protagonista di Ho sposato uno zombie venuto dallo spazio e non è una bella sensazione. Quindi tanti saluti, Billy Rowe. Spero che un giorno verrai a riprenderti
la roba schifosa che hai lasciato da me. Mandami una cartolina se lo farai; non mi va di essere presente all'evento. «Ecco fatto» esclamò, come se con quel suo monologo interiore avesse sistemato ogni cosa. «Se ora avessi il fegato di dirgli davvero tutto questo...» Ma stasera non ci sarebbe riuscita. Questo era poco ma sicuro. Superman doveva essere da qualche parte, raggomitolato dentro una bottiglia a leccarsi le ferite, a cercare scuse per giustificare la sua assenza quasi totale di coglioni. Stasera, la cosa migliore da fare era sbatterlo fuori dalla mente il prima possibile. E c'era qualcuno che avrebbe potuto aiutarla. Fuori dal bagno, in mezzo alla calca. Di nuovo verso il semicerchio che... sì, c'era ancora, più fitto che mai. Quel che restava del suo cocktail serviva solo ad attutire il rumore dei cubetti di ghiaccio che sbattevano l'uno contro l'altro. Si fermò al bar per farsi riempire il bicchiere, lasciando che il gin producesse un'identica opera di ottundimento sulla sua coscienza. Poi avanti, forza, verso il centro del gruppo. Verso Dave Hart, che si bloccò a metà di una frase e si girò verso di lei sorridendo. Dopo meno di cinque secondi dal momento dell'avvistamento si verificò l'impatto. A Dave restò appena il tempo di increspare le labbra. Dove, ovviamente, non pensava che Mona stesse per insinuare la lingua. Mona lo baciò con un abbandono totale e premeditato. Dave impiegò qualche secondo prima di capire che quello che stava succedendo era reale, ma reagì in modo ammirevole. Ancora un po' e Mona sarebbe riuscita a sentire i fuochi artificiali che gli esplodevano nella mente. Quel che sentiva davvero le arrivava alle orecchie come in SenSurround: risate e applausi deliziati, l'incessante sniksniksnik dei rullini che si riavvolgevano, pronti a immortalare quel momento storico. I paparazzi e i pettegoli avevano pane per i loro denti, adesso. Tutti erano felici. E Mona era abbastanza sbronza e di malumore da potersi unire alla loro allegria. Poi, dalla porta, sentì esplodere delle grida. «TOGLIETEMI LE MANI DI DOSSO, STRONZI! CE L'HO QUEL VOSTRO CAZZO DI INVITO!» La voce si insinuò fra gli applausi, sopra il chiasso della festa e il bacio, tagliando l'aria come una sega elettrica. Mona si staccò bruscamente da Dave, gli occhi sbarrati rivolti verso il punto da cui proveniva quel rumore che diventava sempre più forte. Non riusciva a vedere niente a causa della gente che si frapponeva fra lei e la por-
ta. Ma era inutile. Sapeva già di chi si trattava. «Mio Dio» mormorò. Un blocco di ghiaccio le cadde pesantemente in fondo allo stomaco. Tutt'a un tratto le vennero le vertigini e fu colta dalla nausea. La voce stava urlando qualcos'altro. Il vocio confuso e pieno di eccitazione, però, la sommerse. «Che cavolo sta succedendo?» si informò Dave, avvolgendo automaticamente con un braccio protettivo le spalle di Mona. «Non lo so» disse uno dei fotografi che erano lì intorno. «Un ubriaco. Sembra che lo stiano buttando fuori...» «Tienimi stretta» gemette Mona. Sentiva il sangue che defluiva dal suo viso, le ginocchia che si piegavano. Dave abbassò lo sguardo su di lei e spalancò gli occhi, pieno di premura e di sorpresa. «Mona! Mona! Ti senti bene?» «Io...» Sto per svenire? Non lo so non lo so non è giusto non è leale. «Io...» riprovò nuovamente. «Oh, tesoro» mormorò teneramente Dave, stringendola a sé e dirigendosi lentamente verso il retro del bar. «Vieni. Ora ti trovo una sedia Vedrai che passa subito. Andiamo.» Mona lasciò che Dave si prendesse cura di lei, vagamente consapevole che il chiasso alla porta era cessato, mentre sentiva voci che ridevano frammenti di discorsi a proposito di quel pazzo scalcagnato, di come lo avevano sbattuto fuori col culo sul marciapiede e di come se ne era andato barcollando e lasciando il suo bastardo rognoso legato fuori dal locale.. Allora si mise a piangere e quelle voci, grazie a Dio, scomparvero una dopo l'altra e restò soltanto quella dolce dolce di Dave e un fiume di sciocchezze consolanti riversato nelle sue orecchie. Preghiera Cammina cammina, due Adidas distrutte trascinavano un peso morto. Strade grigie lisce di pioggia alla deriva senza senso accanto a lui come foschia sull'oceano. Una mezzaluna che ti fissava malevola nel cielo notturno senza stelle, fredda come l'occhio di un serpente. Billy Rowe guardava il mondo attraverso due occhi rossi e lucidi, lenti di dolore coperte di vaselina che offuscavano la sua visione. Billy Rowe e una bottiglia di Budweiser in una busta di carta che gli saliva incessante-
mente fino alla bocca per poi ripiombare lungo il fianco e così si teneva in sintonia con la Terra che non la smetteva di girare girare girare. Billy Rowe vagava da solo nel fondo della notte più buia che avesse mai visto. E intanto la sfilata dei mostri continuava. Sulla Settima Strada, fra la Seconda e la Terza Avenue, un vecchio marinaio ubriaco si faceva largo a forza verso Hell e l'East River. Braccia possenti su un corpo lungo ed esile, capelli corti e brizzolati, dritti su una nuca lasciata scoperta da una sfumatura altissima e che sembrava dura come il cuoio. Avanzava barcollando, con arroganza, alla cieca, nel buio e le labbra mormoravano bestemmie tratte dal suo vocabolario di odi privati. La sua mente era andata, il suo corpo stava crepando, ma la sua rabbia era come una maledizione vudù che lo spingeva avanti, sempre avanti, orribilmente avanti. Ad Astor Place, dove gli ultimi bancarellari rimasti cercavano ancora di offrire vestiti e dischi e paccottiglia in cambio di una bustina di oblio, c'era una lurida figlia dei fiori che ballava. Poteva avere quarant'anni, o forse sessanta: era impossibile dirlo. Con ogni probabilità non lo sapeva neanche lei. I suoi occhi erano vuoti come il parcheggio alla sua sinistra: troppi viaggi d'acido finiti male, troppi sogni infranti... ma dondolava come un angelo e sorrideva come una santa mentre la sua vocina infantile cantava la la la sui brandelli della melodia di una filastrocca che solo lei riusciva a sentire. Fra i capelli scarmigliati aveva dei fiori. I petali erano marroni e tutti appiccicati. Dietro l'incrocio fra Bleecker e la Broadway c'era un tizio giovane o vecchio con i pantaloni sporchi di piscio che si trascinava lungo un freddo muro di mattoni. Il sangue scorreva copioso da una ferita sulla fronte. Forse qualcuno gli aveva rotto in testa una bottiglia; il taglio era come un sorriso sfrangiato, semicircolare. Si lasciava dietro una scia di chiazze di sangue che Billy seguì per tre isolati prima che svoltassero verso Houston Street e il buco senza acqua calda in cui probabilmente il ferito abitava. E ce n'erano altri. Molti altri. Billy non poteva fermarsi a contare gli inferni privati che gli passavano accanto. Era troppo immerso nel suo. Più di cinque litri di birra gli sciabordavano nella pancia, riempendolo di bile acida. Il mondo girava e il sudore freddo delle vertigini gli scorreva nauseante sulla pelle. Nella sua mente le cose andavano ancora peggio: un collage incomprensibile di parole che lo ossessionavano e di immagini ripugnanti che scatu-
rivano come lava e macigni incandescenti. Quando chiudeva gli occhi, le immagini roventi si imprimevano nella sua retina, facendo calare trasparenze fantasmatiche che gli tremolavano davanti quando li riapriva. E le voci rifiutavano di andarsene. (fuori dai piedi, scemo, questa è una festa privata) Billy era all'angolo fra Bleecker e Thompson e si stava addentrando nel Greenwich Village. Le strade erano piene di turisti e modaioli, punk e studentelli, barboni e bohémien. Non riusciva a decidersi a guardarli negli occhi. Aveva paura di quello che avrebbe potuto vedere. (sarei pronto a scommettere che non ti considerava una minaccia vera e propria) «Oh, sì» disse scoppiando in una risata isterica. «Sono un poooooovero ragazzo impaurito.» Cominciò a dondolare sui talloni, lanciando un'occhiata interrogativa alla coppia di orientali che gli erano accanto sul marciapiede. Gli occhi gli si chiusero di scatto... ... e la sua chitarra piena di schizzi di pioggia era rovesciata su un fianco e versava un fiume di sangue al rallentatore in un monitor che esplose fra fumo e sibili assordanti e sullo schermo c'era il viso di Mona, che urlava mentre nere scariche elettrostatiche la avvolgevano... ... e la luce cambiò e Billy aprì gli occhi mentre i due si allontanavano spintonandolo. Proseguì facendosi trascinare dal flusso, lasciandosi spingere avanti, sopportando occhi indagatori che continuavano a voltarsi (qualcosa che non va?) verso di lui. Sul marciapiede opposto, Billy si fermò per un momento e protese la mano verso un segnale di divieto di sosta perché non ce la faceva a reggersi in piedi. Bleecker Street cominciò a roteare come una giostra sbilenca (t'ho detto di spostarti, stronzo) e Billy sentì il suo centro di gravità vacillare terribilmente mentre andava a urtare una ragazza carina con bracciali borchiati e capelli fosforescenti che... ... gli sorrideva dolcemente, le mani serrate intorno a un metro e mezzo di intestino tenue che penzolava come una lingua dall'enorme sfregio sorridente che le attraversava l'addome e la donna era Mona era Lisa era la ragazza morta circondata dalla linea di gesso bianco era tutte le donne bellissime che aveva conosciuto e... ... lo chiamò brutto stronzo e lo scansò con una spinta. «Scusa» mormo-
rò Billy risalendo con passo incerto Bleecker Street, il mondo (muoio sto morendo sto) girava sempre più veloce, la bile nello stomaco sguazzava e tornava su. Sentì la bottiglia che gli scivolava dalle dita, la vide cadere per terra e rotolare lungo il marciapiede dietro a una Trans Am nera e... ... la forma appiattita si infilò rapidamente nell'ombra sotto la macchina, la lunga coda nuda che si dimenava dietro di essa mentre... ... Billy avvertì il primo conato risalirgli lungo la gola. Si appoggiò barcollando all'angolo di una casa, evitò per un pelo di precipitare in un buco di oltre due metri che portava a uno scantinato e... ... ce n'erano altri due sulle scale, che svicolarono nel buio della stradina con le loro zampe anteriori incredibilmente lunghe... ... e cadde a sedere con un tonfo, gli occhi che mettevano a fuoco a intermittenza quello che lo circondava, cercando di tenere il ritmo dei disgustosi moti rotatori del suo stomaco. Si girò e vide le luci del Café Figaro. Sembravano attirarlo ma... ... si girò e li vide fermarsi a pochi centimetri dall'oscurità che consumava ogni cosa alla fine del vicolo, fermarsi e voltarsi a guardarlo, sollevarsi sulle loro anche deformi, squittire verso di lui... ... chiamarlo per nome... ... e Billy balzò in piedi, barcollando si protese in avanti mentre il mondo vorticoso gli trasformava in gomma le gambe e le viscere in gelatina. Per non cadere si aggrappò a un parchimetro con la mente che turbinava come un bambino su una zattera al centro di un vortice mentre la sua voce ripeteva monotona: «Non è possibile non è possibile non è possibile...» Tutte le luci della strada avevano un'aureola luminosa, raggi abbaglianti gli trafiggevano gli occhi. Ebbe un altro conato e la bocca gli si riempì di saliva calda. Sputò, furioso e terrorizzato, lottando disperatamente per placare la sommossa che avvertiva dentro di sé. Il Café Figaro si delineava davanti a lui, con la promessa di un cappuccino e di una comoda sedia, di salvezza e di sanità mentale... o quanto meno di un posto decente dove vomitare. Era la migliore alternativa che avesse a disposizione. La colse al volo. Quando Billy aprì la porta, qualcosa nella sua mente riprese a funzionare. Gli parve che tutte le ghiandole sudoripare del suo corpo si aprissero contemporaneamente, inzuppandogli gli abiti e purificandolo della pazzia.
Le voci che sentiva nella testa vennero rimpiazzate dal chiasso degli avventori e dalla musica sommessa di un flauto e di una chitarra acustica in un angolo del locale. La luce soffusa della stanza sembrava sprigionare dall'atmosfera fumosa che ingentiliva con il suo bagliore dolce e onnipresente. Mosse qualche passo incerto nel locale, con una mano appoggiata alla ringhiera di ferro battuto che iniziava dalla porta. La proprietaria, una donna abbronzata dall'accento inglese e una t-shirt con sopra scritto WE ARE THE WORLD, lo accolse alla fine della ringhiera con uno sguardo indagatore prima di accompagnarlo a un tavolo. Billy fece un cenno col capo e distolse lo sguardo. La donna non aveva le viscere all'aria, ma non stava neppure sorridendo. E mentre la seguiva attraverso il guazzabuglio di tavoli antichi e moltitudini di frequentatori abituali del Village, su per una stretta scalinata che conduceva nel retro del caffè, comprese chiaramente che il suo aspetto non era dei migliori. Forse dei peggiori. Buona idea, pensò. Sistemami vicino al bagno degli uomini, non si sa mai. La cosa lo infastidì un po', ma gli parve anche una decisione sensata. «Questo va bene?» disse la donna. Non era una domanda vera e propria. Il tavolinetto di marmo per due persone era incuneato in fondo alla sala, dietro a una serie di separé. Billy notò che gli era stato chiaramente offerto un posto con le spalle al resto della sala. Per nasconderti meglio, mio caro, pensò. Ma faceva al caso suo. Si infilò a fatica fra la sedia e il tavolino, urtando una coppia di persone decisamente alla moda sedute dietro di lui, e iniziò a scrutare con noncuranza la carta da parati. Era un collage fatto con giornali francesi, ritagliati e incollati alla rinfusa. Billy non parlava francese, anzi era vagamente sospettoso di chi conosceva quella lingua. La proprietaria si allontanò, mettendo in guardia la cameriera con un'occhiata. Billy non se ne accorse neppure. Fissava la sedia vuota davanti a sé e la depressione tornò lentamente a galla. Le voci erano scomparse e questo era un bene; poteva chiudere gli occhi senza che visioni da incubo gli si profilassero davanti, e questo era ancora meglio. Ma la sedia vuota era, in un certo senso, molto peggio. Era reale. Non poteva farla scomparire sbattendo le palpebre. La stanza prese a girare, appena un po'. La parola no sibilò attraverso il pugno serrato che aveva portato con forza alle labbra. Si odiava per essersi lasciato andare in quel modo, per essersi dimostrato così debole, per essersi messo da parte, disorientato, mentre la gente intorno a lui sfondava o si perdeva.
E l'oscurità sgorgò come petrolio texano. E le mani salirono a coprirgli il volto, come se stesse pregando. «Mio Dio» mormorò. «Mio Dio. Mio Dio. Ti prego, aiutami. Non ce la faccio più. Sto morendo, il mondo sta morendo e non posso fare un cazzo per cambiare le cose.» Le lacrime gli scesero fra le dita e si fermarono nelle palme delle mani. «Ho tentato e ritentato e ti amo tanto e ho sempre creduto che tu mi guidassi per realizzarmi come meglio potevo. Poi, però, quando guardo al casino che è diventata la mia vita, penso Dio buono, non è giusto. «Non può essere giusto. No.» Billy emise un singhiozzo profondo e stridulo, seguito da un sussulto di sospiri rotti e fiochi. Le lacrime gli scivolarono lungo i polsi e tracciarono come delle vene lungo le braccia. «Per questo ti imploro, Signore, Dio, Creatore dell'Universo, o come altro vuoi che ti chiami. Ho perso il controllo della mia vita. Quello che sto facendo non mi piace... Non so nemmeno più che cosa sto facendo. Vorrei soltanto fare qualcosa di giusto.» Scrutò dentro di sé mentre le parole gli sgorgavano dalle labbra e capì che non stava mentendo. «Ma da solo non posso farcela, da solo non ce la faccio più. Se tu fossi qui... se mi ascoltassi... ti prego, aiutami. Mi sono perso e ho bisogno della tua guida per tornare indietro. Mi affido totalmente a te. Sono tuo.» Ascoltò le parole che gli uscivano dalle labbra e si sentì immerso nella forza, nell'abbandono del momento. Si arrendeva a un ordine superiore, a qualcosa di più alto della sua carne e delle sue esigenze. Resa totale all'Infinito. Alla fonte di ogni luce. E di ogni oscurità. «Sono tuo» sussurrò e quel momento fu più che sufficiente. La stanza stava ancora girando intorno a lui, ma ora provava una sensazione di gioia. Si sentiva leggero e trascendente, come uno spirito libero dal peso morto del corpo. Sto per avere un flashback! strillò una voce nella sua mente. Non ne tenne conto. Era qualcosa di più forte dell'acido. Era più forte di ogni altra cosa. «Sono tuo» ripeté con convinzione totale, senza sperare in una risposta. Senza sperare che una voce gli rispondesse: «Billy, non sai da quanto tempo aspettavo di sentirti dire queste parole». Christopher
L'angelo era bellissimo, più che bellissimo: il mondo diventava ridicolo di fronte a lui. Ogni tentativo di descriverlo non poteva che essere ridicolo. L'angelo era al di là di ogni descrizione. Era luce dotata di forma. Forma di proporzioni perfette. Certo, era difficile dirlo a causa della luce molto intensa: una luce dorata e divina che solo a guardarla la saliva di Billy si seccava a metà gola. Ma la fissò perché non poteva farne a meno, abbastanza a lungo da riuscire a scorgere gli arcobaleni che si rifrangevano intorno al suo nucleo. Il suo nucleo che era indubbiamente umano. La voce dell'angelo era più dolce degli archi della New York Philarmonic, più sonora dei suoi ottoni e dei suoi fiati messi insieme. Emanava un calore che penetrò sotto la pelle di Billy e lo colpì dritto al cuore. Fra le esperienze personali di Billy, non c'era niente che potesse aiutarlo a comprendere l'angelo. Che, nonostante questo, era seduto proprio di fronte a lui. «Vuh» disse Billy. A dire il vero, era il rumore che aveva fatto la bocca spalancandosi. «Come?» rintoccò la voce dell'angelo. «Cioè... buh» chiarì Billy. Non riusciva a muoversi. Non riusciva a parlare. Riusciva solo a fissare quell'apparizione con occhi grandi come due palle da basket e la bocca spalancata che ogni tanto si chiudeva e si riapriva senza senso. La risata dell'angelo sarebbe riuscita a trasformare il carbone in miele. Risuonò per un istante come un suono di eteree campane. Poi la sua voce disse: «Scusami. Forse ti ho sconvolto» e... ... ora c'era un uomo seduto al tavolo di fronte a lui. Era insolitamente bello: i capelli biondi e ricci come quelli di un bambino gli scendevano sul collo, gli occhi azzurri erano glaciali e penetranti come diamanti, i tratti del viso abbronzato erano ben delineati e perfetti. Se non fosse stato per il vago bagliore dorato che emanava, si sarebbe potuto tranquillamente scambiare per un essere di carne e ossa. Se la carne poteva essere tanto fortunata. «Così va meglio?» chiese l'angelo. La sua voce era armoniosa ed estremamente gradevole, ma non si poteva più dire che appartenesse a un essere immortale. Billy annuì senza proferire parola. «Allora cerca di riprenderti, amico! Devo fare due chiacchiere con te.»
L'angelo ammiccò con aria complice e si appoggiò allo schienale della sedia. Per la prima volta Billy notò l'eleganza del suo abito: largo ma dal taglio impeccabile, del miglior lino che avesse mai visto. Dava quasi fastidio guardarlo, si aveva quasi la sensazione di essere immersi nel fango, in confronto a lui. Billy era ancora intento a fissarlo quando finalmente arrivò la cameriera. «Cosa desidera?» chiese. Billy sobbalzò. «Ummmm... io gradirei un cappuccino.» Poi, in direzione dell'angelo: «E tu?» L'angelo sorrise, sollevando un calice da brandy pieno di un liquido dorato. Prima di andarsene, la cameriera lanciò a Billy uno sguardo perplesso quanto quello della proprietaria. Billy se ne accorse e la guardò senza capire. «Stammi a sentire, Billy» iniziò l'angelo. «Hai idea di quello che ti sta succedendo?» Billy scosse lentamente il capo. «Che ne diresti di avanzare un'ipotesi?» Billy scosse nuovamente il capo. «Su, andiamo!» si lagnò l'angelo. «Scommetto dieci a uno che ci azzecchi in meno di sei tentativi. È più facile che rubare un lecca lecca a un bambino. Non puoi sbagliare.» Billy scoppiò a ridere. Non riusciva a trattenersi. «Dai, prova» insisté l'angelo. «Non voglio» rispose Billy arrossendo. Si misero a ridere entrambi. «No, no e no... non voglio perché me la sto facendo sotto dalla paura. Sono uscito di testa completamente, vero? E niente di tutto questo è reale.» L'angelo lo fissò pensieroso per un istante. «È la tua prima ipotesi?» chiese alla fine. Billy annuì. L'angelo alzò le spalle. «Te ne restano altre cinque.» «Allora, immagino che... dovrei ripetere nuovamente la stessa ipotesi.» «Ottima scelta da parte tua. Se continui a sprecare così le tue possibilità, potrò tornarmene a casa e dire a tutti che mi ero sbagliato.» Alzò gli occhi al cielo con un gesto che poteva significare ma perché capitano tutti a me? e si accese una sigaretta. «Va bene, sei pazzo, ma questa non è la risposta esatta. Te ne restano altre quattro. Puoi ancora farcela, ragazzo!» L'angelo fece una lunga tirata ed emise nuvolette di fumo indescrivibilmente dolce dalle narici. Billy rimase a guardare il fumo che si diffondeva
nell'aria. Il suo bagliore luminoso lo faceva risaltare in mezzo alla nube greve di fumo nella stanza. La cameriera tornò con il cappuccino e Billy notò che il fumo sembrava in qualche modo aderire a lei, che se ne lasciava dietro dei tentacoli simili a lunghe alghe filamentose. Gli porse il cappuccino tenendosi a distanza di sicurezza. Stronza, pensò Billy. Mentre la ragazza si allontanava, Billy mormorò un vago ringraziamento che si perse nel chiasso del locale. Guardò intorno a sé i tavolini pieni di avventori. Sembravano abbastanza reali. Abbassò lo sguardo sul suo cappuccino: latte caldo e caffè forte, panna montata e un bastoncino di cannella. Sembrava abbastanza reale. Provò a bere un sorso: era abbastanza caldo da scottargli la lingua. Ma non se la scottò. «Va bene» disse alla fine. «Ammettiamo che io stia parlando davvero con te. Devo quindi concludere che tu sei un figlio di puttana che si è seduto al mio tavolo e ha cominciato a giocherellare col mio cervello.» «Una specie di Ipno, gran maestro del magnetismo, vuoi dire? Abracadabra! Quando ti risveglierai, penserai di essere un papero!» L'angelo si stava decisamente divertendo. «E come diavolo faccio a sapere che non è così?» Billy cominciava a stancarsi della situazione. «Mettiamo il caso che stavi passando da queste parti, hai visto un tipo strano seduto in un angolo e hai deciso di spassartela un po' con lui.» Si appoggiò allo schienale della sedia e sollevò la tazza. Era ancora bollente. Soffiò delicatamente sulla superficie. «E forse tutto questo è solo un'allucinazione.» «Una teoria di merda, se permetti, e lo sai.» «È la sola spiegazione razionale che mi viene in mente.» «La razionalità è una scocciatrice che si intromette sempre a sproposito. Sai anche questo.» «E va bene. Forse sei semplicemente capitato nel giorno sbagliato.» Si portò la tazza alle labbra. «Allora lascia che ti chieda una cosa» insisté l'angelo sorridendo. «I topi, sono anche quelli un'allucinazione?» Billy si vuotò addosso metà del suo cappuccino. «EHH!» gridò scattando all'indietro con la sedia. Urtò l'uomo seduto dietro di lui che rovesciò il suo liquore al caffè sul piano del tavolo e sulla borsa della ragazza. Anche loro cominciarono a urlare. In tre riuscirono a far girare tutte le persone presenti nella stanza. «Che grazia» borbottò l'angelo. «Che economia di movimenti.»
Accorsero immediatamente cameriera e proprietaria, accompagnate da un aiuto cameriere e da un tipo grosso che indossava un grembiule bianco da cucina. Billy cercava di scusarsi con la coppia seduta dietro di lui, ma senza molto successo e stava ripetendo per la terza volta «Santo Dio, mi dispiace tanto» quando la proprietaria si intromise. «Qual è il problema?» chiese. «Ho urtato per sbaglio questo signore, facendo cadere il suo bicchiere» disse Billy. «Sono spiacente.» «È un maledetto pazzo» gridò invece l'uomo che era stato urtato. «Da quando è arrivato non fa che parlare da solo!» «È vero quel che dice questo signore?» domandò la proprietaria. «Vede, io...» Billy gettò un'occhiata sopra la spalla al suo compagno. L'angelo non aveva fatto altro che fischiettare con aria indifferente, ma Billy aveva capito solo ora che nessuno tranne lui poteva sentirlo. «So che può sembrarvi un po' strano, ma...» Il tipo grosso della cucina iniziava a essere irrequieto. Sembrava uno di quelli che si divertono a picchiare la gente. «Volete che lo butti fuori?» indagò con discrezione. «... vedete, io faccio l'attore e sto provando la parte di un tipo che sente delle voci. Per di più, forse stasera ho bevuto troppo...» «A me non sembri sbronzo» sbottò il tipo dietro a Billy. «A me sembri soltanto stronzo!» «... e mi sono lasciato prendere un po' la mano» concluse Billy ma le parole dell'uomo lo colpirono. Non si sentiva più ubriaco. La stanza non girava più. La sua voce non era assolutamente impastata. «Mi dispiace» ripeté mentre le implicazioni della sua scoperta lo colpivano ancora più a fondo: la sbronza sembrava essersi completamente dissolta da quando aveva iniziato a chiacchierare con lo sconosciuto. «Offri loro da bere» suggerì l'angelo. «Sentite» disse Billy. «Permettetemi di pagare quello che stavate bevendo e di offrirvi un altro giro. È il minimo che posso fare.» E sorrise in segno di scusa. Tutti gli occhi si spostarono da Billy alle sue vittime pazienti che si scambiarono in silenzio un lungo sguardo. Poi, a malincuore, alzarono le spalle e annuirono. Il bestione della cucina sembrava vagamente deluso. Tutti gli altri, invece, erano sollevati. La cameriera si fermò al tavolo vicino per prendere le nuove ordinazioni. Gli altri se ne andarono. Billy accese una sigaretta, sperando che quel
gesto lo facesse apparire calmo e distaccato, poi si girò esitante verso l'angelo. «Smettila di parlare ad alta voce» disse l'angelo. «Tieni sotto controllo le tue reazioni. Dovrai abituarti a farlo, quindi tanto vale che cominci subito. D'accordo?» Billy fece cenno di sì col capo. «Non devi nemmeno annuire» insisté l'angelo. «Chiudi gli occhi, se questo può aiutarti. Fingi di pensare. Come fai sempre.» Sorrise. Billy si girò e fece un tiro dalla sigaretta, soffiando il fumo verso il soffitto. «Ottimo. Fermo così. Ora io parlerò e tu starai a sentire. Probabilmente avrai un sacco di domande da farmi, ma rimandale a un altro momento. Ti dirò alcune cose su cui dovrai riflettere per qualche tempo prima di riuscire a porre delle domande sensate. Quindi risparmia il fiato. Fino alla prossima volta devi essere tutt'orecchi e dimenticarti di possedere una lingua. Chiaro?» Pausa. Billy emise un cerchio di fumo perfetto. L'angelo sorrise. «Benissimo» disse. «Ora Stammi a sentire. Mi chiamo Christopher. Tu non mi conosci, ma io ti conosco molto bene. Ora, a volte ci credi, altre volte non ci credi per niente, ma il fatto è che tu sei una persona speciale. E intendo dire proprio speciale. Nello schema delle cose, qui sul vecchio pianeta Terra, la portata del tuo potenziale è semplicemente stupefacente.» L'angelo si protese in avanti. «E io lo so bene. Vedi, sono stato assegnato a te fin da quando eri ancora uno zigote.» Billy, sempre con lo sguardo rivolto al soffitto, non riuscì a trattenere una risatina. La coppia dietro di lui si girò circospetta. «In nome di Dio, Billy, o la smetti o dovremo uscire di qui a gambe levate.» Billy si zittì, riuscì a soffocare un'altra risata e poi si voltò verso il tavolo. «Così va bene. Posso proseguire? Non rispondere. Ascolta bene. Sai di cosa stiamo parlando? Della realizzazione della propria personalità. Hai passato la vita intera a sviluppare il tuo potere personale e un sistema di valori con cui tenerlo sotto controllo. La musica, i traslochi, le scuole, i lavori, le tue storie d'amore, le tragedie, la droga» disse l'angelo gesticolando «erano tutte cose che si sono innestate le une nelle altre per plasmarti e farti diventare l'uomo che eri destinato a essere.» Tacque mentre Billy continuava a fissare il tavolo. «C'è infatti un destino che ti attende. Sei un uomo eccezionale, con un compito eccezionale davanti a te. Anzi, una missione da compiere: uno scopo per il quale sei nato. Lo sai. Lo hai sempre saputo. E ora il momento
è giunto, Billy. Il momento di realizzare quello scopo. Il momento di diventare grande.» Billy aveva gli occhi chiusi e tremava. La sigaretta che gli era rimasta fra le dita aveva un centimetro di cenere sulla punta. Christopher gliela tolse delicatamente di mano e la spense nel portacenere. Le labbra di Billy si serrarono in una linea sottile, a metà strada fra un ghigno e un sorriso. «Quando ti sei arreso al Creatore» riprese l'angelo «ti sei aperto al potere dell'universo. So che suona come una balla cosmica, ma si dà il caso che sia proprio così. Mi hai conferito un ruolo attivo nella tua vita; e così hai fatto scattare le porte del tuo potenziale nascosto che ora sono spalancate. Stai per scoprire che da ora in poi tutto ti è possibile. E niente potrà fermarti. Niente.» Una lacrima solitaria lasciò una scia sulla guancia destra di Billy. Le unghie della sua mano sinistra affondarono nel palmo. «Lo giuro su Dio» disse l'angelo. Gli occhi di Billy erano ancora chiusi e aveva qualche problema a disserrare i denti. «Cazzate» disse a bassa voce, tranquillamente. «È un chiaro caso di psicosi.» «Mi spiace.» «Allucinazione compensatoria.» «È il tuo destino.» «Cazzate.» «No. È la verità.» Billy sentì la coppia alle sue spalle girarsi nuovamente, ma non ci fece caso. Se la sua pazzia era arrivata fino a questo punto, la loro opinione ormai non aveva la minima importanza. «Stammi bene a sentire» sibilò, riaprendo gli occhi di scatto. E li posò sulla sedia che aveva davanti. Vuota. Billy deglutì di colpo. Era scattato in piedi prima ancora di rendersi conto di quello che stava facendo e si guardava intorno con aria sconvolta. L'uomo dietro di lui bofonchiò qualcosa e Billy gli lanciò uno sguardo raggelante prima di rimettersi a sedere, completamente disorientato. «Stammi bene a sentire, stronzo!» grugnì il suo vicino preferito. «Ora...» «Ho rovesciato qualcos'altro?» chiese Billy. La sua voce sembrava un cavo d'acciaio teso. Si voltò di scatto verso di loro. I due trasalirono visibilmente. Sentiva le ondate di terrore che emanavano. «Vi sto dando fastidio? Se volete un matto, eccovelo. Vi mangerò il cervello se non vi togliete dalle palle. Subito. Chiaro?»
Billy fece schioccare le dita. La faccia del tipo era completamente priva di espressione. Billy si accorse che lo stava guardando fisso negli occhi e sentì la propria voce emergere dolcemente al di sopra del ronzio che sentiva nelle orecchie. «È tutto a posto» sentì dire dalla sua voce. «Me ne andrò fra un minuto. Rilassatevi. E godetevi la serata.» L'uomo annuì in modo insulso, poi si girò verso la sua ragazza che sembrava avere appena ingoiato un martello con tutto il manico. Billy fece un cenno cortese col capo verso di lei, poi tornò a fissare la sedia vuota. E gli oggetti al centro del tavolo. Davanti a lui c'erano due fogli di carta di ottima qualità ripiegati accuratamente e vergati con un'elegante calligrafia luminosa e dorata. Sopra di essi c'era un biglietto da venti dollari che non aveva mai visto l'interno di una tasca. Molto lentamente li prese in mano. Il biglietto da venti dollari era nuovo. Non c'era niente di sbagliato, dall'incredibile acconciatura di Jackson alle minuscole volute. Tornò a posarlo delicatamente sul tavolo e iniziò a leggere il messaggio. Caro furbacchione,credo che a questo punto sia meglio dirci adieu, altrimenti arriverà la Croce Verde. Prima del nostro prossimo incontro, però, ci sono altre due cosette che vorrei dirti. La porta è stata aperta, se così si può dire, e non si può più tornare indietro. La tua vita non sarà mai più come prima. Non posso rispondere a tutte le domande che adesso vorresti farmi perché non sei ancora pronto. E poi, comunque, non mi crederesti. Ma di me ti puoi fidare. Sono qui per guidarti. L'ho sempre fatto. E sempre lo farò. Non sei mai solo. Passiamo ora alla tua missione. È molto semplice. Tu hai un grande dono. Impara a usarlo. Usalo saggiamente. Hai il potere di ripulire la tua vita, di ripulire le strade, di ripulire tutto questo dannato pianeta se giochi bene le tue carte. Billy passò rapidamente al foglio successivo. Il cuore gli batteva forsennatamente. Come ti ho già detto, puoi fare qualunque cosa e niente può
fermarti. È questa la soffiata che voglio farti. Nessun limite. Assolutamente nessuno. Ti è stato affidato un immenso potere e un'immensa responsabilità. Sei stato scelto perché sei in grado di usarli saggiamente. E ci riuscirai. Ma per sapere se la minestra è buona, amico mio, devi prima assaggiarla e ti consiglio di cominciare a farlo subito. Non ci sono più scuse, né ragioni per ulteriori indugi. Hai solo del lavoro da fare. Solo del lavoro da fare. Palla a te, campione. Abbi cura di te e fai attenzione. Teniamoci in contatto. Christopher Ecco che cosa diceva il messaggio. Billy rimase a fissare i due fogli per un momento che sembrò allungarsi fino a diventare infinito, poi li ripiegò con cura e li infilò nella tasca posteriore dei pantaloni. Prese il biglietto da venti, tenendolo parallelo al piano del tavolo. Non si piegò neppure. Bene, pensò poggiando nuovamente la banconota sul tavolo. Dovrebbe essere sufficiente. Poi si alzò, notò che la testa aveva smesso completamente di girargli e lasciò il Café Figaro. Fu allora che si ricordò di Bubba. «Mio Dio.» Immaginò il suo povero amichetto sempre allegro abbandonato davanti a quel locale del cazzo troppo-figo-per-Billy-Rowe sull'Avenue A. Se qualche tossico non se l'era già preso, Bubba stava probabilmente per essere servito agli dei del rock'n'roll, spacciato per teriyaki di vitello. Quell'idea lo riempì di panico. «IDIOTA!» gridò a se stesso mettendosi le mani nei capelli. «Oh, Bubba. Non posso credere di averti fatto una cosa simile! Come vorrei che tu fossi qui...» Sentì abbaiare dietro di sé. Si andava a incominciare. Parte seconda La strada per diventare l'eletto C'è chi è al verde e c'è chi ha i soldi.
Chi si siede e se la spassa, chi si siede e fa la lagna. C'è chi dice di sapere chi desidera soltanto... Billy Rowe La svolta verso la vita Sogni di topo Quando Billy e Bubba tornarono a casa, la cosa a forma di topo nella vasca da bagno era scomparsa. La bottiglia rotta era sempre lì, naturalmente. Gli incubi non rimettono mai a posto i danni fatti dagli altri. Ma almeno la doccia non era aperta e il mostro era scomparso. Se c'è stato davvero un mostro, aggiunse Billy, ma era troppo stanco e stravolto per mettersi a discutere con se stesso. Erano successe troppe cose, troppe delle quali non avevano alcun senso. Ci avrebbe pensato la mattina dopo. Se ne avesse avuto voglia. Bubba, da parte sua, eseguì un'attenta perquisizione ficcando il naso in ogni angolo della stanza e quando ebbe finito agitò la coda in segno di approvazione: qui dentro niente mostri. Billy si spogliò, scaraventò i vestiti sul pavimento e arrancò fino al letto. Bubba lo raggiunse, rannicchiandosi accanto a lui. Ma anche con la luce spenta e le lenzuola tirate sopra la testa, la mente di Billy ruminava, tornando sempre sulla stessa domanda: perché proprio io? E mentre il sonno iniziava a insinuarsi fra i suoi pori, la vita gli si dispiegava davanti come una cattedrale immensa che in sogno doveva attraversare. Passo dopo passo dopo passo... Milwaukee, Wisconsin. 1960. Tre anni meno tre mesi. Nelle righe sottili di luce che le veneziane lasciavano filtrare, Billy riusciva a distinguere i particolari della stanza: le pareti azzurre, i quadri allegri, le sbarre e i giocattoli di plastica dai colori vivaci che delimitavano il suo lettino. Non conosceva il significato della parola febbre. Quarantuno gradi era un concetto che non significava niente per lui. E nel suo vocabolario non esisteva la parola morte.
Ma, nonostante questo, i primi due facevano parte di lui e la terza non era molto lontana. Nell'ora trascorsa da quando i suoi genitori lo avevano lasciato perché riposasse, la sua temperatura era salita di oltre due gradi; ora il pigiama era zuppo di sudore e le sue percezioni confuse e alterate. Era debolissimo e riusciva solo a emettere dei gemiti che si avvertivano appena nella stanza. Poi i mostri cominciarono a scendere giù dalle pareti. Gli occhietti di Billy si spalancarono per il terrore e il respiro, già stentato, gli si bloccò definitivamente nel petto pieno di muco. I mostri si erano accorti del suo terrore e ne erano entusiasti. Lo guardavano squittendo mentre scendevano dal soffitto, le bocche deformate da un ghigno che metteva in mostra tutti i loro denti. Erano migliaia. Ricoprirono le pareti in uno sciame quasi trasparente, allucinogeno, si riversarono sul pavimento e cominciarono ad avvicinarsi: gli occhi più neri del buio della stanza, le zampe che pulsavano mentre correvano tutti insieme verso di lui, senza fare il minimo rumore. Nessuno gli aveva mai detto che quelle cose, quei topi, erano malvagi: non l'aveva appreso dalle favole, dalla Bibbia o dai cartoni animati. Ogni minuscola parte del suo essere ardeva di ricordi ancestrali. Quando il primo di quegli orrori raggiunse il suo lettino, Billy emise il primo vero grido della sua vita. Poi risuonarono dei passi e si udì lo strepito di voci spaventate. La luce invase la stanza mentre la porta veniva aperta di scatto. C era Mamma e con lei anche Papà. Si gridavano delle cose mentre attraversavano correndo quel mare di mostri. Billy li vedeva confusamente attraverso le sbarre e sì accorse che quegli esseri schifosi si erano avvinghiati ai loro piedi. Protese le braccia, continuando a gridare. Papà gli appoggiò la mano sulla fronte e poi la tolse di scatto. Papà gridò qualcosa, poi qualcos'altro. Mamma uscì dalla stanza di corsa. I topi squittivano e sputacchiavano, con le lingue guizzanti... ... e poi Billy volava, le braccia di Papà lo stringevano forte forte, e via, fuori dalla porta, nel corridoio. Un fragore di tuono rimbombava dalla stanza da bagno. Gli riecheggiava follemente nella testa mentre schizzavano come razzi verso di essa... ... e i topi continuavano a scendere come un fiume in piena dalle pareti, strillavano la loro rabbia e si arrampicavano sulle gambe di Papà. Papà li ignorava, si faceva strada fra loro, con le dita intente a sbottonare quella pentola a pressione che era ormai diventato il pigiama di Billy...
... e poi il fragore del tuono coprì ogni cosa, il rumore della vasca da bagno che si riempiva, il boato delle voci dei genitori come quello di due divinità mentre l'ultimo dei suoi vestiti gli veniva strappato via dal corpo e Billy venne gettato nell'acqua gelida che avrebbe disintegrato la febbre. Uno dei mostri saltò nella vasca dietro di lui. Billy gridò... ... e il mostro gridò... «No, no, no» ripeteva il subcosciente di Billy, mentre il suo corpo addormentato si dimenava fra le lenzuola. E il sogno lo sospinse ancora avanti... Buenos Aires, Argentina. 1966. Nove anni. Il Dipartimento di Stato di Papà li aveva mandati al di là dell'equatore, due anni da passare in una terra diversa. In un mondo diverso. Il cielo era del colore della bandiera argentina; azzurro, con delle nuvole bianche che lo attraversavano. Sul campo era appena arrivato anche l'ultimo dei ragazzi. Stavano organizzando tre diverse partite a pallone, americani e anglo-argentini di tutte le classi mescolati e assortiti. Alcuni ragazzi erano rimasti sulle gradinate. Altri giocavano a rincorrersi. L'intervallo di mezz'ora era appena iniziato. Intorno al campo c'era una recinzione di filo di ferro alta nove metri con sopra altro mezzo metro di filo spinato che ne consacrava la cima come una sorta di corona di spine. Al di là della recinzione c'era un dislivello di una decina di metri che finiva in un dirupo e poi risaliva di tre metri per terminare in uno spiazzo percorso dalle lunghe linee dritte delle rotaie abbandonate. Da una parte e dall'altra delle rotaie, più in alto di qualche metro, costruiti su terriccio e ghiaia, c'erano dei tuguri: otto casupole basse e cadenti, fatte di fango e blocchi di calcestruzzo presi a caso o di lamiere ondulate. Nelle baracche vivevano immigrati cileni provenienti dall'estremità del continente, che per evitare le Ande avevano attraversato la Tierra del Fuego, la parte del continente più vicina all'Antartide, per poi risalire la costa argentina e accamparsi appena fuori dalla scuola americana che si affacciava sul Rio de la Plata. Billy si trovava a un metro dalla rete, a difesa dei pali che delimitavano la sua porta. I ragazzi avevano ancora venti minuti a disposizione e la partita era appena iniziata. Anche se l'azione si svolgeva lontano da lui,
Billy era tutto concentrato sui suoi compagni che si muovevano in modo rapido e confuso dalla parte opposta del campo. Sembrava proprio che Donald Foley stesse per segnare. Poi il primo veicolo della polizia militare scese giù per la collina accanto alla scuola, fermandosi nei pressi dei binari morti, sotto il campo da gioco. Poi ne arrivò un altro. E un altro. E un altro ancora. La sua squadra cominciò a gridare, «GOL! GOLASO!» ma Billy aveva perso il tiro trionfante di Don che aveva mandato la palla in rete. Stava guardando invece i primi militari armati, con i baffi e il viso scavato, che scendevano dalle berline e dai cellulari e avanzavano lungo i binari abbandonati. Uno di loro accese una torcia. Un altro brandiva un fucile mitragliatore Thompson. Una decina di soldati seguirono il primo, un'altra decina il secondo. Billy lasciò i pali della porta e avviluppò le sue piccole dita al grigio filo metallico della recinzione. Qualche altro bambino lo raggiunse. Furono le grida dei bambini a mettere in allarme i cileni. Erano tutti dentro le baracche. Il primo che mise la testa fuori lo fece giusto in tempo per beccarsi in faccia lo stivale di un ufficiale. Fu il primo, vero grido di angoscia e di terrore a far accorrere tutti gli altri bambini verso la recinzione. Una donna, probabilmente la moglie di Calcioinfaccia, si era messa a strillare mentre il marito cadeva a terra. Ora l'aria risuonava di grida. Billy ricordava di aver affondato la faccia nel filo metallico, cercando di avvicinarsi il più possibile a quel delirio che si stava svolgendo a pochi passi da lui. Da ognuna della baracche era sbucato fuori qualcuno per vedere che cosa stava succedendo. Rischiavano tutti nel migliore dei casi l'estradizione e nel peggiore dei casi il carcere. Entrambe le possibilità promettevano comunque violenza e terrore, elargite da chi si trovava in quel momento davanti a loro. La donna e i suoi tre figli vennero trascinati via con la forza dalla baracca. La prima torcia volò in aria e si schiantò all'interno. Tre porte più su, un tipo calvo uscì con un coltello da macellaio in mano. Partì la prima raffica. L'uomo crollò in ginocchio e si piegò in due, strillando e perdendo sangue. Cadde nel fango e i ragazzi della Lincoln American School cominciaro-
no a perdere la testa. Da cento bocche esplose un grido assordante che sommerse le grida e le raffiche delle armi semiautomatiche sotto di loro. Anche gli insegnanti, ora, si erano accalcati contro la rete. Alcuni di loro urlavano. Altre tre baracche presero fuoco. Billy si chiese come facesse il fango a bruciare in quel modo. Poi avvistò i mostri, per la seconda volta. Oltre la follia. Oltre il fumo. Nei cinquanta metri che separavano le baracche dalla sponda del fiume, dove si diceva che vivessero dei topi grandi come cocker spaniel, Billy li vide. Non erano topi. Non erano esseri nati da uova e sperma di questa terra. Le loro zampe anteriori erano troppo lunghe. I musi e i corpi avevano qualcosa di sbagliato. Alle sue spalle iniziò a suonare la prima campanella che segnava la fine della ricreazione e che suscitò un momentaneo sconcerto in tutti: nei curiosi, nelle vittime, nei militari, negli esseri mostruosi. Ebbe un impatto pavloviano attirando l'attenzione di tutti per un istante, in una reazione disorientante e condizionata. Uno dei soldati si immobilizzò per un attimo, poi calò il manganello sulla testa di un uomo che era uscito dalla settima baracca. Si sentì un rumore simile a quello di un melone che si spacca. Poi la campanella riprese a suonare. Gli insegnanti davanti alla recinzione riacquistarono la calma, raggiunti dai rinforzi provenienti dall'ufficio dell'amministrazione. Gli studenti che si trovavano nelle ultime file vennero presi, allontanati dalla recinzione e riportati nelle loro aule. Per quel giorno la ricreazione era finita. I mostri cominciarono a ballare. Billy continuava a guardare la scena. Dalla porta dell'ottava e ultima baracca, un giovane cileno di bell'aspetto di neanche trent'anni uscì con una bandiera argentina in mano. La sventolava freneticamente, ripetendo ad alta voce: «Yo soy patriota! Yo soy patriota!» Sono un patriota. Quelle parole, come gli orrori, turbinarono vorticosamente nell'aria. Sono un patriota. L'ufficiale, con aria divertita, si diresse verso il giovane e gli strappò la bandiera di mano. Sorrideva mentre prendeva a calci il cileno, gettava la bandiera nel fango, la calpestava con il tacco dello stivale e dava fuoco all'ultima delle baracche.
Orribili spire di fumo nero e denso si levarono verso il cielo. Un'orribile macchia di fango ornava la bandiera. Billy non riusciva a spiegarsi come le due cose potessero assomigliarsi tanto. L'ultimo degli immigrati illegali venne caricato e portato via. L'ultimo degli studenti venne trascinato su per le scale. Billy non riusciva a spiegarsi neanche questa somiglianza. Confusamente, attraverso il fumo, riusciva ancora a scorgere i mostri. Ci vollero cinque minuti per fargli staccare le dita dalla recinzione. Si dimenava e si agitava mentre il sogno lo sospingeva ancora più avanti, ancora più avanti, ancora più a fondo. Pensò alla sua vita. E alla prima notte. Del cambiamento... Guai «Allora, tanto per incominciare» disse Larry «abbiamo tre mesi di affitto arretrato da pagare. Albert minaccia di buttarci fuori. Non è la prima volta, d'accordo, ma questo non significa che un giorno o l'altro non lo farà. Se arriviamo a quattro mesi di ritardo, siamo fritti.» «Lo so» disse Billy con la bocca piena di dentifricio. «Ah, lo sai?» sogghignò Larry. Billy riprese a lavarsi i denti. «Allora probabilmente sai anche che ci hanno avvisato che ci taglieranno telefono e luce se non paghiamo le bollette arretrate. E forse avrai anche notato che in casa non c'è altro che birra.» «Credevo che la birra ti piacesse.» Scratch scratch. «Oh, sì, da impazzire. Vorrei mangiarla, dormirci e scoparci insieme. Purtroppo riesco solo a berla. E non è neanche facile riuscirci, da queste parti, dato che arrivi sempre prima tu.» Scratch. «Esattissimo, Larry. Vai avanti» Scratch scratch scratch. «Vai avanti!» Ora anche Larry si stava lavando i denti. Il suo pigiama di spugna penzolava mezzo aperto, i capelli erano tutti scompigliati e gli occhi dietro le lenti erano vagamente strabici. «Allora, che mi dici di tutta questa merda ammucchiata nel lavandino? Ti stai lavando i denti sui piatti della settimana scorsa. Sei immerso fino alle ginocchia nell'immondizia dell'anno scorso. Mi devi duecento dollari. Non ce li hai mai, ma le sigarette ce l'hai sempre e la birra pure. Ti rifiuti di prendere in considerazione
l'idea di un lavoro fisso perché dici che vuoi mantenerti facendo il musicista, ma non porti mai a casa più di quaranta dollari al giorno, e a volte nemmeno quelli perché stai fuori meno di un paio d'ore. Nel frattempo» proseguì «cavalchi i dubbiosi allori della tua opera rock del cazzo che, come potrebbe dirti ogni persona del giro, è come una battuta finale che si è persa la barzelletta che la precede. Sono sette anni che ti sto a guardare, Billy, e anno dopo anno dopo anno vedo che continui a ripetere l'errore più madornale che possa fare una persona creativa. Prima hai costruito la cima del tuo monumento del cavolo, poi cerchi di riempire il resto prima che la sommità precipiti sulla tua bella testolina furba. E non ci riesci mai. E tanto per aggiungere un'altra cosa, ti dirò che comportandoti in questo modo non fai altro che allontanare tutti quelli che hanno creduto in te: Mona, Lisa, la tua famiglia, me. Ci fai sentire degli scemi per avere avuto fiducia in te. Pronto, pronto, mi senti? C'è nessuno in linea? Hai capito quel che ti ho detto?» Seguirono quindici secondi abbondanti di silenzio. «Allora?» chiese Larry. Niente. Scrateh scrateh scrateh scratch. «INSOMMA!» muggì Larry. «CHE CAVOLO HAI INTENZIONE DI FARE?» Billy aprì l'acqua fredda e ficcò la faccia sotto il lavandino, riempendosi la bocca. Poi sputò un paio di volte, chiuse l'acqua, si rialzò e si girò. «Nel caso in cui tu non l'abbia notato» disse «questo era un atto squisitamente simbolico.» «Ti lavi i denti di ogni responsabilità?» disse Larry ridendo. «Furbo.» «La definirei piuttosto una purificazione» disse Billy. Aveva lo sguardo tranquillo, la voce ferma. Sorrideva, perfino. «Sciacquati di dosso la merda che ti è rimasta attaccata e riparti tutto pulito.» «E se invece va a finire che la ingoi?» «Un po' ne ho ingoiata.» «Ehi! Peccato, ho perso la scena.» «Stai a sentire, Larry.» Ora Billy aveva smesso di sorridere. «Anche l'acqua fredda faceva parte della metafora. Per calmare i miei bollori e concludere che per questa volta non ti avrei ammazzato. Chiaro?» «Il mio cuore! Il mio povero cuore» gridò Larry, barcollando all'indietro e portandosi le mani al petto. «Che paura! Questo è troppo!» «Larry, sono rimasto in silenzio ad ascoltarti. Adesso chiudi il becco e ascolta me. Tutto quello che hai detto è vero, va bene? Hai messo perfet-
tamente in evidenza tutto quello che sto facendo per incasinare la mia vita. Hai perfettamente ragione. Non ho niente da obiettare.» «Proprio niente?» Larry non credeva alle proprie orecchie. Ora aveva davvero un motivo per reggersi il cuore con le mani. «Niente di niente. Sono perfettamente d'accordo con quello che hai detto.» «Perché?» chiese Larry, improvvisamente sospettoso. «Che cosa ti succede?» Billy sorrise dolcemente, un pizzico di tensione appena visibile sul suo viso. Vieni» disse. «Ora ti faccio vedere.» Larry non riusciva a distogliere lo sguardo dalla linea bianca del gesso. Billy sapeva quello che provava Larry. Era una sensazione che aveva vissuto anche lui, con maggiore intensità. La storia dell'omicidio era stata appena raccontata nei minimi particolari e in tutto il suo splendore più sublime. Compresa la sua espulsione violenta dall'Avenue A, che Larry era stato abbastanza discreto da non approfondire. Escluso però Christopher e le creature simili a topi: Billy non si era ancora riconciliato completamente con la loro realtà. Nonostante il fatto che il biglietto si trovasse ancora nella sua tasca. Nonostante il fatto che sapeva che era successo tutto davvero. Billy si era svegliato quella mattina con una stranissima sensazione, talmente diversa dalla sua condizione abituale da spingerlo a verificare se era ancora lui. Era una sensazione di benessere: il corpo riposato, la mente sveglia, l'animo immerso in una pace senza precedenti. Non riusciva a comprenderne le ragioni, ma non gli andava neppure di opporsi a essa e tanto meno di cancellare il sorriso beato che aveva sulla faccia. E nell'ora che aveva preceduto il risveglio di Larry e la discussione che era immediatamente seguita, qualcosa di forte e nitido si era impiantato in lui. La sensazione che la sua vita stava per trovare un senso. La sensazione di trovarsi sul ciglio del destino, a un passo dall'abisso. Così, quando gli era stato letto l'elenco dei suoi peccati, Billy era riuscito a ricacciare indietro la rabbia e soffocare la voglia di difendersi con una facilità che gli era parsa quasi spaventosa. Nonostante Larry avesse affermato spiritosamente il contrario, Billy aveva ingoiato molta merda. Non era stata un'esperienza fantastica, ma era esattamente quello che ci voleva. E la verità li renderà liberi, disse una voce nella sua mente.
Larry era rimasto senza parole, il che non si poteva definire una disgrazia. Billy colse l'opportunità per raggiungerlo alla finestra e passargli il braccio intorno alla spalla prima di cominciare a parlare. «Non ti pare che sia qualcosa che dà da pensare?» «Direi proprio di sì.» La voce di Larry era fievole. Non riusciva a smettere di guardare in strada. Billy seguì il suo sguardo. «Ieri sera ho guardato in faccia la morte, amico mio. Ed è stato qualcosa che mi ha dato da pensare. Mi sento...» Esitò. «Mi sento come se fossi stato scaraventato fuori dal mio corpo. Provo un incredibile distacco. È strano. È affascinante. È come se ci fosse una parte di me che vive quello che sta succedendo, ma ne resta in qualche modo al di fuori, al di sopra. Impassibile. O se preferisci, che non si lascia coinvolgere. Ti è chiaro quello che...» Larry lo interruppe: «Capisci che significa questa storia, vero?» «Come?» Billy si accorse che Larry, mentre gli stava parlando, si era staccato da lui. «Significa che dobbiamo stare in guardia contro quel cazzo di maniaco!» disse Larry, alzando di colpo la voce. Si voltò verso Billy con gli occhi spalancati e decisamente terrorizzati. «Ma è folle! Cioè...» «Lo so.» «Sul serio?» Larry si girò, indietreggiò di un passo e protendendo le braccia prese Billy per le spalle. «Credo proprio di no, invece. Perdio! Quel tipo sa dove abitiamo, Billy! Lui...» «Sono io quello che ha visto tutto, non ricordi? Credo di saperne più di te su questa storia.» La voce di Billy era bassa e micidiale. Il suo io più elevato era stato momentaneamente travolto da un'ondata rossa di rabbia. «Parlarmi senza peli sulla lingua va bene, trattarmi con superiorità no. Ora calmati e discutiamone per un momento: vedrai che è tutto sotto controllo. Va bene?» «Ma...» «Sì, si tratta di una questione di vita o di morte.» La voce di Billy si era fatta intensa e penetrante. «Mi dispiace che sia andata così, ma non è stata un'idea mia. Trova un altro posto dove andare a sbattere, se ti fa sentire meglio. Se comincia a piovere merda, non sarà simpatico trovarsi da queste parti.» «Tu invece ci sarai, vero?» «Io voglio trovare quel tizio. Non si discute.» Billy fece un ghigno vendicativo che al tempo stesso gli illuminò il viso: il risultato di un equilibrio
perfetto. «Ma ci sono anche altre cosette che devo fare, e che rimandano direttamente al discorsetto che mi hai fatto poco fa. Quindi Stammi a sentire. Ecco il mio piano. Ho intenzione di uscire di casa molto presto ogni mattina e di non ritornare fino a che non avrò fatto almeno cento sacchi. Poi rimetterò in ordine l'appartamento fino a quando non cascherò dal sonno. E quando mi risveglierà ricomincerò da capo. Nel giro di una settimana avrò due mesi d'affitto già pagati e una dimora tirata a lucido.» «Se non ti trova prima il maniaco.» Il tono di Larry si era abbassato ma il terrore non era affatto scomparso. «Nel qual caso, gli farò il culo.» «Certo, come no.» «Aspetta e vedrai.» I loro sguardi si intrecciarono in modo inestricabile per un lungo istante inflessibile. «Billy, tu sei completamente pazzo.» «Questo rende la cosa ancora più facile» disse Billy con un sorriso. «E mi mette alla pari con quel bastardo segaiolo che ha ucciso la ragazza... solo che io ho Dio e la polizia di New York dalla mia parte.» «Ti stanno usando da esca, cervello di gallina! Come fai a non capirlo?» «Ti dico io quello che capisco, Larry. Capisco che butterei via una settimana intera se corressi a nascondermi da qualche parte. Ci sono molte probabilità che quel tizio non si faccia neanche vedere. E se invece dovesse farsi vivo... tanto meglio, perché ho ricevuto da fonte più che attendibile la notizia che niente può fermarmi. Quindi, staremo a vedere.» «Sei completamente andato» insisté Larry, che comunque aveva evidentemente perso ogni voglia di continuare a discutere. E Billy ne era felicissimo. «Andrà tutto bene» ripeté. «Giuro su Dio che tutto andrà bene.» Mona e Lisa Quando squillò il telefono, Mona stava facendo ginnastica con estrema veemenza. Il sudore le scendeva a rivoli dalla fronte, dalle braccia e dalla schiena, lasciando delle chiazze sul parquet e sugli attrezzi ginnici. Lisa, invece, sdraiata sul divano, aveva preso in mano per la millesima volta La mistica della femminilità di Betty Friedan. Avevano addosso entrambe soltanto una maglietta e un paio di mutandine. La maglietta di Lisa era viola con delle lettere minuscole sopra il seno sinistro. C'era scritto:
SEI PROPRIO UN FICCANASO. Le pale sul soffitto e il vecchio ventilatore quadrato celeste da tavolo andavano a tutta birra: l'umidità era salita fino a entrare in zona tortura e alle dieci di sera il termometro non si era mosso dalla linea dei ventotto gradi, temperatura del tutto insolita per quella stagione. Il telefono squillò di nuovo. Lisa chiuse il libro, infilando a pagina 312 un foglietto pubblicitario ripiegato di MRS. KAY: ASTROLOGIA E LETTURA DELLE CARTE. Era arrivata al capitolo intitolato «L'io sottratto». Quando sentì squillare nuovamente il telefono si tirò su a sedere girandosi verso Mona. «Cristo santo» sospirò Mona con i muscoli della bocca tesi per lo sforzo e tutto il resto. Indossava una maglietta rossa con sopra scritto IL MIO AVVOCATO È PIÙ FORTE DEL TUO. Le sue mutandine, come quelle di Lisa, erano nere, ma le sue gambe erano più scure e un po' meno muscolose. «Chiunque sia, gli dirò che sei in trazione» disse Lisa alzandosi e attraversando il soggiorno. Mona annuì. Il telefono squillò di nuovo. Lisa varcò la soglia, separando le delicate tende in batik, per entrare in camera sua. Più in là, in cucina, il telefono continuava a squillare. Passò accanto al ventilatore e lanciò un rapido sguardo al suo letto sfatto, alla maglia che Jody vi aveva lasciato sopra. Sprazzi di ricordi della folle notte d'amore trascorsa le guizzarono nella mente, rendendola al tempo stesso felice e angosciata. Jody lavorava per la compagnia di produzione che si era occupata dei video di Dave. Aveva i capelli di colore rosso acceso e una quantità incredibile di lentiggini disseminate su tutto il viso, lungo il collo e per l'ampia distesa di pelle che il suo vestito senza spalline lasciava scoperta. Avevano continuato a lanciarsi degli sguardi per tutto il tempo della festa, con occhi e sorrisi sempre più ammiccanti. All'una avevano iniziato a chiacchierare. Alle tre erano a letto insieme. Dio, era fantastica, disse Lisa mettendo a tacere il suo entusiasmo mentre entrava in cucina. Alzò la cornetta prima che il telefono squillasse per la settima volta. «Qui Mel, vendita di aragoste all'ingrosso» disse. «Ciao, Mel» disse la voce all'altro capo. «Posso parlare con l'aragosta, per favore?» «Billy!» Immediatamente la conversazione che aveva avuto con Larry gli sfrecciò nella mente. Dell'omicidio avevano parlato in televisione e non
le era stato facile scordarsene. «Come va? Stai bene?» «Tutto a posto. Oggi al parco, con la chitarra, ho tirato su settanta sacchi. Mi sento la testa sgombra e le gambe ben salde.» Fece una pausa. «Come sta Mona?» «Non pensarci. Sono preoccupatissima per te! Quando l'ho saputo, io... deve essere stato terribile!» «Hai parlato con Larry?» «Sì.» «Era ancora spaventato a morte?» «Tu no?» «Direi di no. Non per me, almeno. Credo di avere già visto il peggio.» «Tocca ferro.» «Al momento mi preoccupa soltanto Mona. È ancora intenzionata a uccidermi?» «Sai...» C'erano un paio di cose che non poteva dirgli e questo non le andava a genio. Voleva bene a Billy, a modo suo, tanto quanto Mona. Il pensiero di avere dei segreti per lui le si piazzò sullo stomaco come una roba gelatinosa. «È stravolta, a dir poco. Beve dalle nove di ieri sera.» «Le hai raccontato... quello che mi è successo?» «Gliel'ha detto Larry. È allora che è passata alla tequila.» «Oh, benissimo» disse Billy con una risatina mesta. «Non sa esattamente come si dovrebbe sentire» proseguì Lisa. «Ti consiglierei di proteggerti bene le palle prima di riparlare con lei. Sei in una situazione decisamente precaria.» «Capisco perfettamente quel che vuoi dire, ma avrei intenzione di affrontare la cosa diversamente. Pensavo che forse potevi dirle che la volevo al telefono.» «Non credo che voglia parlare con te.» «Chiediglielo.» «Non credo che sia una buona idea.» «Chiediglielo lo stesso.» «Che cosa speri di ottenere?» «Spero di esasperarla a tal punto da farle tirare fuori tutta la merda che ha dentro. Spero che riesca a gridare tutto quello che ha nella testa. Forse riuscirà a vederci più chiaro se riesce a buttarlo fuori.» «Mille grazie, amico.» «Lo so, mi dispiace. Mettiti le cuffie dello stereo. Tanto non durerà molto.»
«Sì, ma poi dovrò essere io a consolarla quando si apriranno delle cateratte nei suoi occhi.» «Ma se non vedi l'ora di farlo...» «È vero.» «Troia.» «Ogni occasione per tenermi Mona stretta al petto non andrà perduta. Ora vado a chiederle se ha voglia di parlarti.» Si interruppe. «Sei sicuro di quello che stai facendo?» «Sicurissimo.» «Va bene. Resta in linea.» Appoggiò la cornetta sul ripiano, si diresse verso il soggiorno ma poi si fermò per un istante. È una follia, informò se stessa. Tenetevi stretto il cappello, ragazzi. Sta per scoppiare una bufera. Passò nella sua camera da letto. Ora i suoi pensieri erano rivolti soltanto a Mona. Non sapeva quello che la sua compagna di casa avrebbe lasciato trapelare, ma in linea di principio era piena di timori. Mona e Billy avevano toccato il fondo. Se lui fosse riuscito soltanto a rovinare tutto per sempre, Lisa non ne sarebbe rimasta sorpresa. Sarà quel che sarà. E a questo non c'era molto da aggiungere. Se rompono, forse Mona si metterà con Dave. Forse per un po' starà con me. E se resta con Billy, meglio così. Quando vanno d'accordo, sono fantastici. Possono farcela. Vorrei che ci provassero, almeno. Lisa non riusciva a tacitare quello che un demonietto le sussurrava nel cervello, mostrandole l'immagine di Mona nuda che si dimenava dolcemente al suo fianco per tutta la notte. Un'immagine che passava sopra senza rimorsi al suo affetto per Billy e che la faceva sentire irrefrenabilmente calda e bagnata. Lisa scostò le tendine ed entrò nel soggiorno. Mona era seduta con lo sguardo perso nel vuoto. Aveva un aspetto fantastico, ma dentro di sé non sembrava che stesse meravigliosamente. «Il tuo tesorino vuole fare due chiacchiere con te» disse Lisa. «Quale tesorino?» Mona riuscì a imbastire un sorriso amaro, ma il suo sguardo era sempre fisso nel vuoto. «Quello vero. Quello che è sempre piazzato qui a guardare la tele.» «E se non ci volessi parlare?» «Ma che cavolo... Parlaci lo stesso!» «Che cosa ti fa pensare» disse Mona guardando Lisa dritto negli occhi «che sia lui il mio vero tesorino? Se avessi cambiato idea?» Cazzate, pensò Lisa, ma non disse nulla e si limitò ad alzare le spalle.
Mona rimase immobile ancora per un momento, poi si alzò stizzosamente in piedi e a passi pesanti si diresse verso le tendine, afferrando nel frattempo la bottiglia di tequila. «Ci parlerò» disse «ma non voglio essere ritenuta responsabile di quello che sto per dirgli.» Poi scomparve dalla vista di Lisa, con il suo delizioso sederino e tutto il resto. Lisa tornò al divano e riprese la sua scomposta posizione semiorizzontale. La mistica della femminilità era ancora dove l'aveva posato e lo riaprì nel punto esatto in cui aveva smesso di leggere. L'incapacità di comprendere pienamente le possibilità implicite, nella loro vita non è ancora stata studiata nelle donne come manifestazione patologica, in quanto viene considerata uno stato di adattamento normale per la donna, in America e in quasi tutti i paesi del mondo. Si potrebbero tuttavia applicare a milioni di donne che si sono adattate al ruolo di casalinghe le scoperte di neurologi e psichiatri che hanno studiato pazienti di sesso maschile a cui era stata asportata parte del cervello o schizofrenici che per altre ragioni avevano perso la loro capacità di relazionarsi al mondo reale. Si ritiene oggi che tali pazienti abbiano perduto la caratteristica fondamentale degli esseri umani, ovvero la capacità di trascendere il presente e agire alla luce del possibile, la misteriosa capacità di plasmare il futuro. «MI DISPIACE, BILLY!» la sentì gridare dalla cucina. «IO HO BISOGNO DI UN UOMO, NON DI UNO STUPIDO INCAPACE!» «Ehi!» mormorò Lisa, e il libro le scivolò dalle mani chiudendosi. «NON PUOI COMPORTARTI DA UOMO, UNA VOLTA TANTO? NON PUOI ESSERE DISPONIBILE PER ME SENZA CROLLARE IN PREDA ALL'UBRIACHEZZA?» Ho l'impressione che Billy avrà quel che cercava, rifletté Lisa. Poveraccio. «HO SENTITO QUEL CHE È SUCCESSO!» strillò Mona. «MI DISPIACE PER QUELLO CHE È SUCCESSO! MA NON POSSO FARE A MENO DI PENSARE CHE SE TU FOSSI VENUTO A QUELLA FESTA IDIOTA DOVE AVRESTI DOVUTO ESSERE A QUELL'ORA, NON SAREBBE SUCCESSO NIENTE DEL GENERE!» Proprio così, pensò Lisa, quasi con rabbia. Insomma, se Billy non fosse
stato lì a guardarla, la ragazza sarebbe ancora viva. Uno a zero per Billy. Mona, hai detto una sciocchezza. Le parole successive di Mona erano troppo sommesse perché Lisa potesse percepirle. Rimasero a parlare a bassa voce per un po'. Si sentiva il ronzio dei ventilatori. I minuti passavano. Poi si sentì piangere. Fu questione di pochi istanti, poi la tenda si spalancò e Mona entrò nella stanza, con le mani sullo stomaco. Il dolore traspariva chiaramente dal suo viso. Lisa fece cenno a Mona di sedersi sul divano accanto a sé e le sussurrò: «Vieni qui». Mona si sedette. Rimasero abbracciate per un intervallo indefinito. Mona non faceva altro che piangere come una disperata: qualche parola, mentre scuoteva il capo, e delle imprecazioni fra una parola e l'altra riuscivano a farsi strada attraverso il dolore. Nel frattempo Lisa le baciava la fronte, i capelli, le orecchie. Il pianto diminuì di intensità. I baci continuarono. Ci fu un lungo intervallo di gemiti. «Se mi tocchi le tette» sussurrò infine Mona «ti spezzo la mano.» «Non me lo sogno neppure» mormorò Lisa per tutta risposta. «Voglio solo che tu ti senta meglio.» «Ancora un paio di minuti e sarò a posto. Giuro. Non appena... merda...» Un'altra lacrima cominciò a scenderle lungo la guancia. «Lo amo, Lisa» continuò con voce roca. «Lo amo sul serio. È il ragazzo migliore del mondo. Solo che non capisco perché si odia tanto. E quell'omicidio... non riesco ancora a credere che sia successo...» «Lo so.» Lisa pensò a come Larry lo aveva descritto, compreso il ghigno sul corpo della ragazza. Immaginò di essere Billy che guardava in strada. Immaginò di essere la ragazza sotto i colpi del coltello. «Ma adesso non voglio averci niente a che fare» continuò Mona. «Lo rifiuto. È da egoisti?» «Direi di sì.» «Ma non credi che...» Il suo tentativo di difendersi era confuso ma sempre più deciso. «Shhh. Shhh. Non ho detto che non è comprensibile. Allora, che hai intenzione di fare adesso? Rompere con lui?» Una pausa inquieta. «Già fatto.» Lisa rimase per un secondo senza fiato. «Sul serio?» Mona annuì. «Hai intenzione di tenere fede a quello che hai detto o vuoi solo spaventarlo?»
«Non lo so. Io... non volevo neanche parlarne. Non volevo pensare più a Billy, a Dave, a ieri sera. Punto. «Voglio solo dello champagne.» Si sorrisero. «Ne è rimasto un po'?» «Ne ho riportata una bottiglia intera dalla festa di Dave...» Una minuscola fitta di angoscia passò dietro agli occhi di Mona sentendo quel nome. Poi tornò l'allegria. «Ce n'è ancora. Ne vuoi?» «Solo se poi torniamo qui a berlo tutte rannicchiate.» Lisa le strizzò l'occhio. «E poi, sesso orale.» «Non tentarmi, donna, o ti offrirò continuamente da bere.» «Me ne cospargerò il corpo» gemette Mona lasciva. Lisa, tuttavia, era tristemente incline a dubitare delle parole dell'amica. Nonostante quelle provocazioni, Mona alla fine si tirava sempre indietro. O almeno, quasi sempre, si corresse mentre un sorriso le attraversava furtivamente le labbra. C'era sempre da tenere in conto quella notte, per quanto il futuro potesse essere scarso di soddisfazioni. Almeno non sarebbe scesa nella tomba senza aver fatto gemere Lisa, e gridare e dimenarsi. Se quello non l'aveva spedita dritta in Paradiso, più niente ci sarebbe riuscito. Mona la stava fissando, come se fosse riuscita a leggerle nella mente. Lisa vide che la luce verde si spegneva dietro gli occhi di Mona e riappariva la spia rossa. Si rassegnò a restare una semplice amica. «Limitiamoci a prendere una sbronza e a divertirci, d'accordo?» disse Lisa precedendo Mona in cucina. Quesito Billy era completamente immobile, al centro della cucina. Non si accorgeva neppure di avere ancora la cornetta del telefono in mano. Aveva provato a richiamare, ma Mona aveva staccato il telefono. Ora una voce meccanica e compassata ronzava incessantemente attraverso la cornetta: Se desidera fare una chiamata, riappenda e riprovi. Se ha bisogno di aiuto, riappenda e chiami il centralino. (BIPBIPBIP) Billy abbassò lo sguardo sul telefono. Il telefono ricambiò il suo sguardo, un paio di enormi occhi scuri che dovevano essere i suoi. «Pronto, centralino» disse senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Mi passi la polizi-
a. Vorrei segnalarvi una storia d'amore che è passata a miglior vita... no, non so dire con certezza se si tratta di un omicidio o di un suicidio. E non mi pare che abbia molta importanza a questo punto, non vi pare?» (BIPBIPBIP) «Va bene. Ho la netta sensazione che abbia staccato il telefono» disse rivolto a se stesso, cercando di fare lo spiritoso. Ma non rise nessuno. Billy riappese la cornetta. A parte gli scarafaggi, nella stanza c'era solo Bubba che ronfava in pace sulla biancheria sporca, beatamente inconsapevole del colpo che il suo padrone aveva appena incassato. Bubba brontolò e si girò completamente sulla schiena, pancia in su, zampe spalancate, perso chissà dove nella landa dei Bubba. Si coprì il muso con le zampe anteriori. Billy sentiva una fitta al cuore ogni volta che Bubba faceva così. «Oh, Bubba» mormorò Billy. «Se solo sapessi...» Gli venne una strana idea. «Pensandoci bene, che cosa sai? Hai per caso idea di quel che ti è successo ieri notte? Hai per caso idea di quello che è successo a me?» Ora che era circondato dal disordine, sotto la luce della cucina, a quasi ventiquattro ore di distanza dagli avvenimenti della notte precedente, non avrebbe faticato molto a lasciarsi alle spalle tutta quella storia, giudicandola il prodotto di un'immaginazione ipereccitata e troppo stressata. Ma c'era quel biglietto nella sua tasca. E c'era la povera, splendida Jennifer Mason, si disse. Lui e la ragazza del gessetto bianco erano stati uniti post-mortem in ogni edicola e in ogni chiosco fra Stanton Street e il parco. La fotografia della ragazza, insieme alla promessa di particolari molto più sensazionali di quelli che potevano interessare a Billy, lo avevano preso d'assedio per tutto il pomeriggio. Alla fine aveva ceduto e prima dell'ultimo giro per il parco si era letto l'ultima edizione del Post. C'erano quattro riferimenti all'"unico testimone" nel testo, e in nessuno di essi compariva il suo nome. Jennifer Mason, ormai defunta e quindi priva della possibilità di difendersi, non era stata affatto fortunata neppure da questo punto di vista. Il suo nome, la sua età, il suo indirizzo, la storia della sua vita in due righe e le sue aspirazioni artistiche (aveva fatto la pittrice) erano tutte lì, nero su bianco. Billy aveva pianto leggendo il giornale. Poi, tornando a casa, lo aveva buttato via. Ma aveva tenuto la prima pagina. Compresa la pubblicità. Per paura di dimenticare.
Non è molto probabile che ci riesca, rifletté. Aveva appeso comunque la pagina del giornale sulla parete della sua stanza, proprio sopra al letto, così il sudore freddo del ricordo non si sarebbe mai allontanato da lui. «Adesso ho proprio voglia di una birra» disse rivolgendosi alla stanza che gli parve all'improvviso claustrofobicamente minuscola. Uno sguardo all'orologio gli comunicò che erano le undici meno un quarto. Giusto il tempo di procurarsi una confezione da sei da Mateo prima che chiudesse: un po' di carburante con cui ruminare sui suoi possibili futuri. Si diresse piano verso la porta per non disturbare il sonno di Bubba, il bell'addormentato, uscì sul pianerottolo e scese le scale. Verso la notte. E la prima delle sue prove. La notte era ancora torrida e incredibilmente umida. Billy si stava sciogliendo per il sudore quando arrivò al negozio di Mateo. Il ragazzo che stava tirando giù la serranda era nelle sue stesse condizioni. Ci fu da discutere, ma Billy riuscì a fare provvista della sua birra preferita prima di uscire dal negozio. Elizabeth Street si apriva come uno sbadiglio davanti a lui, silenziosa tranne che per il ronzio lontano del traffico su Houston e sulla Bowery. A Billy piaceva quel tratto di strada, con la sua imperturbabile atmosfera operaia: a un isolato di distanza dalla Bowery e dalla sua serie interminabile di massicce rovine, a un anno o quasi di distanza dall'inesorabile imborghesimento di SoHo che finirà certamente per trasformare tutto. «E ci daranno a tutti il benservito» disse mandando giù con un unico sorso un terzo della bottiglia che aveva in mano. Le parole gli uscirono dalla bocca con molta più amarezza di quella che provava realmente. Si sentiva bene, soprattutto se considerava le ottime ragioni che aveva per non provare quella sensazione di benessere. Un punto a favore di Billy Rowe. Billy finì la prima bottiglia all'incrocio con Houston. La strada pulsava per il flusso costante di traffico che attraversava la città, come ogni sabato sera. Alla sua sinistra si estendevano Broadway e il Lavaggio Macchine Scrub-A-Dub che continuava il suo tramestio nonostante fossero le undici e un quarto. Alla sua destra la Bowery. E i barboni. Erano usciti in massa stasera. Avevano tutti uno straccio lurido in una mano e un bidone di detersivo nell'altra: agitavano sistematicamente le
braccia davanti a ogni macchina ferma all'incrocio, spandevano tranquillamente lo sporco su tutto il parabrezza della loro sventurata clientela, che non aveva alternative. Sette giorni alla settimana, ventiquattro ore al giorno, trecentossessantacinque giorni all'anno erano lì, in ogni angolo, accalcati d'inverno intorno ai falò di cassette e barili, rincantucciati in estate all'ombra dei ponteggi dei cantieri durante i giorni di afa, a passarsi bottiglie di Thunderbird e di Olde English 800, ridendo e scambiandosi le ultime novità e le opinioni riciclate degli eterni emarginati. Stava attraversando Houston quando sentì risuonare il primo grido. «Merda» mormorò fermandosi sullo spartitraffico. Il ricordo dell'ultima volta che aveva sentito gridare era ancora un filo scoperto che gli penzolava nella testa, sputacchiando scintille bianche e blu di intensità letale. Jennie Mason ricomparve, viva quel poco che bastava per farla morire un'altra volta. Non poteva permettere che succedesse di nuovo. Billy finì per attraversare di corsa Houston Street, evitando di poco le auto che gli sfrecciavano accanto rumorosamente. Sentì risuonare un secondo grido, lungo Elizabeth Street, verso Bleecker. Billy puntò da quella parte, senza esitare... ... sperando che non fosse troppo tardi... Forse erano una famiglia, ma era difficile da credere. C'era un uomo. C'era una donna. C'era una mocciosetta di circa un anno in un passeggino sfasciato. C'era una Torino grigio ardesia con il tettino di vinile spellato come un cervo in calore: il pneumatico anteriore sinistro che ornava il marciapiede, la portiera di destra che penzolava, completamente spalancata. Targa dell'Arizona, ma colorito newyorkese. Probabilmente non avrebbe mai più rivisto l'Arizona. La donna e la bambina gemevano all'unisono, l'uomo faceva loro il controcanto urlando e mentre ululava prendeva della roba dal sedile posteriore dell'auto e la scaraventava sul marciapiede: giocattoli della bambina, una busta di Pampers, una valigia di vinile tenuta chiusa da una corda. Billy non riusciva a cogliere con esattezza le parole dell'uomo, ma non aveva importanza: il suo atteggiamento e il tono della voce erano più che eloquenti. L'uomo era alto e allampanato, con capelli lunghi e unti e una faccia subdola da donnola che sembrava sbozzata con una pala. La sua tuta da operaio era incrostata di sporco, come se fosse appena uscito da un garage.
La donna era una punk che aveva visto tempi migliori: se prima era rotondetta, forse perfino formosa, ora era solo una cicciona informe. Le sue gambe grasse erano inguainate in pantaloni di pelle che minacciavano di cedere alle cuciture, le sue grosse braccia sbucavano fuori da un maglione tutto strappato. La faccia grassa si stava gonfiando leggermente nei due punti in cui lui l'aveva colpita, mentre il mascara le scivolava copioso giù per le guance tonde, facendo l'effetto di crepe su un vecchio intonaco. La bambina era un modello in scala ridotta della madre. Solo i lividi erano di dimensioni identiche; sul viso della piccola occupavano una porzione più ampia ed erano più scuri perché risaltavano maggiormente sulla pelle rosea. La donna strillava come un'ossessa e scalciava con le sue gambe corte e tozze. L'uomo avanzò minacciosamente verso il passeggino, sollevando con occhio torvo il palmo della mano. «No, Rubin!» strillò la madre balzando in avanti. Il suo tenero amante la colpì senza preavviso sulle labbra, con tanta forza da farle schizzare del sangue misto alla saliva che le punteggiava le labbra mentre indietreggiava barcollando, strillando... ... e Billy era vicino ormai, molto vicino, una scintilla esplose e si accese dentro di lui, un ondata crepitante di Potere si sprigionò e fece tremare e ribollire l'aria intorno a lui... ... mentre Rubin si chinava ad afferrare una bambola di pezza vecchia e rotta dal marciapiede. Si piegò sul passeggino, con un ghigno malvagio, a pochi centimetri dal viso della bambina. «Piccolina non è contenta?» grugnì. «Piccolina vuole giocare?» La bimba scoppiò in un pianto dirotto. Rubin le fece atterrare la bambola in pieno viso. La madre gridò e si scagliò nuovamente contro di lui. Rubin la colpì col dorso della mano e rivolse nuovamente la sua attenzione al passeggino. «Piccolina vuole giocare?» «Rubin vuole morire?» Rubin si girò proprio mentre Billy lo colpiva in pieno petto col braccio teso, mandandolo a sbattere contro l'auto. Poi Billy posò a terra la sua busta di birre e gli si piazzò davanti, con le mani sui fianchi. «E tu chi saresti?» chiese Rubin. I suoi occhi porcini rossi e neri gli ruotavano nelle orbite. Era fatto di brutto, e si sarebbe detto che non era la prima volta. «Sono Devil» disse Billy. «L'uomo senza paura. E tu chi sei?»
«FUORI DALLE PALLE, STRONZO!» ululò Rubin, facendosi avanti. «Bel nome!» approvò Billy entusiasta. «Molto appropriato.» Fece anche lui un passo avanti. «Come si scrive esattamente?» Rubin scattò in avanti. Il suo pugno destro entrò in collisione con il palmo di Billy: il rumore sonoro del colpo inferto da una persona inferocita. Le dita di Billy si avvolsero intorno alle nocche del pugno chiuso. E cominciarono a stringere. «Lascia la bambola» disse Billy con gli occhi che trafiggevano quelli di Rubin. Esattamente come era successo la notte prima col tizio seduto al caffè vicino a lui: lo sguardo di Rubin divenne assente, la sua voce sembrava distante. Scariche elettriche lambivano l'aria. «Lascia la bambola» ripeté, stringendo più forte. Si sentì il rumore delle ossa più piccole che si spezzavano. Gli occhi di Rubin sembravano sul punto di uscire dalle orbite e la sua bocca si spalancò. La bambola cadde a terra. La punk strillò. Poi una cosa grossa e gonfia piombò addosso a Billy da dietro, sospingendolo in avanti. Lasciò andare la mano di Rubin, che cadde in ginocchio urlando. Billy diede un calcio alla busta di Pampers giganti e contemporaneamente inciampò su Rubin. La busta di pannolini esplose e il suo contenuto si sparse sul marciapiede. Rubin crollò di schianto, continuando a gridare e a massaggiarsi la mano. Billy cercò di conservare l'equilibrio. Deboli pugni lo bersagliavano da dietro. «Aspetta un momento!» gridò. «Cosa...» «CHE GLI HAI FATTO?» strillava la donna. Le parole erano quasi incomprensibili. Billy si voltò per guardarla in faccia e lei lo colpì sulla bocca: non tanto forte da fargli male, ma il gesto in sé era sbalorditivo. Le mani di Billy si alzarono istintivamente. Lei lo colpì nuovamente sull'avambraccio. «Ehi!» strillò Billy. Lei gli si avvicinò agitando i pugni. «Piantala!» Lei lo colpì nuovamente e lui la spinse via. Lei sbatté contro quel che restava della busta di Pampers e crollò con un grido rauco e un tonfo sordo a fianco del suo amato dal pugno facile. Billy rimase a guardare Rubin e la punk che strillavano all'unisono. Non sapeva cosa fare. Era successo tutto così in fretta... Ma la mano di Rubin era rotta. Questo era evidente. Si stava gonfiando come un pallone violaceo e le dita rifiutavano di aprirsi. Sono stato io a farlo, comunicò a Billy la sua mente. Fece un passo al-
l'indietro barcollando e le birre tintinnarono contro il tacco della sua scarpa. Non riesco a credere di essere stato proprio io... Billy si girò per raccogliere le birre e incontrò un paio di occhi grandi come due lune piene. Lo inchiodarono per un istante, gli ridussero al silenzio la mente, lo costrinsero a partecipare al suo evidente sgomento. La bambina non piangeva più. Lo stava semplicemente fissando, come se cercasse di stabilire con quale forma di vita aveva a che fare. Per la prima volta Billy comprese che il Potere era reale, che ormai non era più un uomo come tutti gli altri. «Omiodio» mormorò... ... e scappò via, le grida dell'allegro nucleo familiare alle sue spalle divennero un rumore confuso e lontano dietro di lui che correva, correva verso Houston Street, lontano da quello che aveva fatto... «Un lavoretto pulito, Sgominatore» disse l'angelo non appena Billy ebbe girato l'angolo. Billy urlò, con la busta che quasi gli cadeva di mano, e si immobilizzò. Christopher annuì condiscendente. «Oh, no!» gridò Billy. «E invece sì» insisté l'angelo. C'era una catena che delimitava un parcheggio all'angolo fra Houston ed Elizabeth. Billy vi si appoggiò sopra sperando che ce la facesse a reggerlo. Le gambe non gli funzionavano al meglio in quel momento. Chiuse gli occhi e li riaprì, sperando che Christopher nel frattempo fosse scomparso. Non ebbe questa fortuna. «Che cosa vuoi da me, allora?» gemette. «Voglio solo fare due chiacchiere. Parlare della strada che hai preso.» «È la strada di casa, amico. Tutto qui, niente di più.» «Non è così semplice come la metti. Dobbiamo parlarne più a lungo. Andiamo.» Con aria scocciata Billy si alzò e insieme a Christopher si diresse verso la Bowery. «Volevi parlare, no?» disse Billy pescando una birra dalla busta e stappandola. «Che cosa aspetti?» «Va bene» acconsentì l'angelo. «Cominciamo dal tuo numero da teppistello...» «Non sapevo cosa fare! Anzi, non sapevo nemmeno quello che stavo facendo!» «Lo so. Ma ora che ti sei fatto un'idea della tua vera forza, forse sarà il
caso che ci pensi due volte prima di agire. Non che non approvi come hai trattato Rowdy Rubin. Au contraire!» «Dio santo, Christopher!» gridò Billy. L'angelo sobbalzò. «Gli ho spezzato la mano!» «Almeno per qualche tempo, farà fatica a picchiare la moglie e la figlia, non ti pare?» «Da un certo punto di vista...» Billy fu costretto a sorridere controvoglia «... forse hai ragione tu.» «Lo sai che è così, e per di più avresti potuto ucciderlo, il che forse sarebbe stato eccessivo. O avresti potuto fare del male alla donna quando ti ha assalito. Ma non lo hai fatto. No, l'unica obiezione che avanzo al modo in cui ti sei comportato è che sei corso via quando tutto è finito. Non sei riuscito a sostenere la responsabilità di quello che avevi fatto. E questo è probabilmente il tuo difetto peggiore.» «Che cosa intendi dire?» Christopher sospirò. «Sei uno che scappa, Billy. Sei una persona in gamba, altrimenti non ti saresti ritrovato in questo casino, ma resti sempre uno che scappa, non c'è niente da fare. Fuggi dalle tue debolezze, poi usi la tua forza per convincerti che in realtà non stai scappando. E invece è proprio così. E queste scuse di merda devono cessare. Sei responsabile delle tue azioni e delle conseguenze delle tue azioni. Per esempio: ti intrometti per impedire che una donna e una bambina vengano picchiati. In questo modo, fai del male a qualcuno che se lo merita. Oh, che sciagura!» L'angelo fece un gesto plateale stringendosi le mani al petto. Billy soffocò un attacco di rabbia. L'angelo diceva la verità, certo, ma lui non era dell'umore adatto per farsi prendere in giro. «E dove cavolo è andata a finire la buona vecchia non-violenza?» «Un'opzione perfettamente accettabile. Molto più tosta del vecchio occhio per occhio, dente per dente, questo è sicuro; se hai in mente di adottare questa linea di condotta, dovrai lavorare un po' sul tuo carattere. Se questa è la strada che vuoi seguire, il potere ti pioverà addosso a palate. Ma ricordati che a Gesù non vennero le palpitazioni quando cacciò i mercanti dal tempio. E nessuno si scandalizzò o si lamentò in Paradiso quando Davide andò a rompere le scatole a Golia. Non voglio dire con questo che la solidarietà sia da escludere, anzi senza di essa sei perduto, ma non puoi combattere la Guerra Santa se non possiedi onestà e coraggio. Quindi smettila di scappare. Su questo non si discute. Sono stato chiaro?» «Sì» disse Billy. Si sentiva adeguatamente mortificato. «È più facile dir-
lo che farlo, però.» «E che cosa non lo è?» Erano arrivati all'angolo fra la Bowery e Houston. I barboni erano ovunque. Billy sapeva che non potevano vedere Christopher, ma sapeva anche che non gli avrebbero creato problemi: erano l'unico gruppo sociale all'interno del quale parlare da soli non era insolito, anzi costituiva una qualifica necessaria per entrarne a far parte. Quella riflessione, non appena gli balenò nella mente, lo gettò a capofitto in uno stato di malinconia. Era perfettamente consapevole di quanto fosse stato vicino a diventare membro di quella compagnia che si aggirava strascicando i piedi: senza casa, ubriaconi, sconfitti. Disprezzo per la loro debolezza, compassione per tutti loro: le due forze si affrontavano dentro di lui. Era un conflitto che generalmente applicava a se stesso e rendersene conto lo riempì nuovamente di un meraviglioso senso di distacco. Solo per grazia di Dio, rifletté. Solo per grazia di... «Stai pensando» lo interruppe Christopher. «Questo è un bene. Ora vediamo come metti in pratica i tuoi pensieri.» Billy alzò gli occhi. Uno dei ragazzi della Bowery si stava avvicinando strascicando i piedi. Era il turpe Fred Flintstone: i suoi lineamenti massicci e le sopracciglia cadenti erano inconfondibili. Una specie di zampa sudicia con le unghie spezzate era già protesa verso di lui. La lamentosa richiesta era già nell'aria. Billy non voleva sentirla. Non voleva avere niente a che fare con lui. Dare qualche spicciolo a quella gente era come dichiarare: Sì, hai fatto bene ad arrenderti alla vita, ecco, prendi, è per la tua prossima bottiglia, cerca di non pisciartela tutta nei pantaloni quando hai finito, d'accordo? Non voleva avere niente a che fare con tutto questo: evitarli era diventato il suo modo di affrontarli. Ma gli occhi di Christopher erano fissi su di lui e agli occhi di Christopher non sfuggiva niente. Billy si fermò (smettila di scappare) di fronte al barbone, i cui occhi rossi e cisposi (solo per grazia di) non dicevano niente. «Scusa, amico» iniziò Fred Flintstone. «Mi devi aiutare.» Billy si limitò a guardarlo. Il Potere iniziò a increspare l'aria intorno a lui. «Dai, amico» insisteva il barbone. «C'ho bisogno di una bottiglia, sul se-
rio.» «Non sono tuo amico» disse Billy, sentendo il Potere vivo e caldo dentro di sé. «Ma so perfettamente di cosa hai bisogno.» Il terrore balenò per un istante negli occhi del relitto. La mano protesa fece un ultimo, disperato tentativo di ritrarsi. Troppo tardi. «E io te lo darò» disse Billy prendendo la mano di Fred fra le sue. A guarire, Fred Flintstone impiegò meno di quindici secondi. Era stupefacente vedere la rapidità e la facilità con cui gli organi si rigeneravano da soli quando il Potere entrava in ballo. Il dolore psichico era più infido: l'unica cosa che Billy aveva a disposizione per combatterlo era l'amore. Ma piazzò una palla ardente di luce e di speranza al centro dell'anima del relitto umano e sperò che bastasse. Al quindicesimo secondo Billy alzò gli occhi e vide che Christopher stava sorridendo. Billy rispose con un altro sorriso. L'angelo strizzò l'occhio e scomparve, lasciando Billy di fronte a quel guscio vuoto che risorgeva come Lazzaro e si dirigeva fra i vivi. Allora Billy si fermò, consumato del Potere della Luce. Sì, si disse, credo che sia ora di tornare a casa. Era facile, in quel momento, credere che il peggio fosse ormai passato. Rickie e Rex «Un bel sorriso, carina.» Un singhiozzo soffocato. Un lampo di luce accecante seguito dal ronzio di minuscoli ingranaggi, che spingevano attraverso la fessura il risultato dell'incontro fra carta e chimica. Un ricordino. Rickie si appoggiò allo schienale della sedia, ammirando la sua opera. Era una pollastrella davvero carina, su questo non c'era niente da dire. Anche al buio, dopo che l'avevano presa a pugni in faccia, glielo faceva tirare ancora. Lui e Rex non sarebbero più stati lì quando i lividi avrebbero cominciato a cambiare colore, e inoltre avevano le foto fin da quando l'avevano appena rimorchiata. Bel visino. Anche il corpo era favoloso. Bel colorito. Molto pulita. Belle tette sode con capezzoli piccoli. Una fighetta stretta con un cespuglio biondo autentico. Era proprio tutto quello che potevano chiedere a una donna. Erano felici come porci che grufolano nel letame. Questa doveva essere la loro sera fortunata.
«Tesoro, vedrai che ti piacerà» stava dicendo Rex. Era contento che Rickie avesse finito in fretta, quella sera prima ancora del solito. Non vedeva l'ora di ficcarle dentro il suo porcello. «Ti garantisco che non hai mai provato niente di simile» aggiunse iniziando a sbottonarsi i pantaloni. Era il momento della verità e lui lo aspettava sempre con ansia. La ragazza aveva smesso quasi completamente di reagire dopo che lui l'aveva picchiata per l'ultima volta. Era stata decisamente mansueta nei tre minuti di prestazione dei dieci centimetri di Rickie, ma ora la situazione era completamente diversa. Riprendevano sempre vita quando mostrava loro quel che aveva da offrire. Era, come dire, una reazione unanime. Rex non era proprio un adone. Non c'era niente in lui che non fosse grosso e sgraziato: il naso, che si era rotto due volte, le orecchie, la mandibola. Superava il metro e ottanta e pesava più di cento chili. I suoi capelli neri e ricci erano scarmigliati e unti. Il resto del suo corpo era avviato sulla stessa strada. Ma aveva un uccello da pornostar e questo era evidente: ventotto centimetri di lunghezza, grosso come una stecca da biliardo. Era fiero della reazione che avevano le femmine: occhi spalancati e senza fiato. Gli sarebbe piaciuto di più se gli occhi di lei non fossero già stati pesti e chiusi. Se li ricordava fantastici. Intanto Rickie aveva lasciato la macchina fotografica, una SX-70 Sonar, ottima per i primi piani, e aveva preso il coltello. Glielo teneva puntato contro la gola, come faceva sempre. I pantaloni se li era tirati su, ma non li aveva ancora riallacciati. Sapeva che la sua esibizione serviva solo per scaldare il pubblico e che la star era un po' nervosa stasera. Se non ci fosse Rex, si disse, non ne beccherei una, di figa. Era una cosa da tenere a mente, per quanto gli desse un fastidio bestiale. Rickie era pelle e ossa, sembrava un sorcio, quasi l'opposto di Rex: cinquanta chili su una struttura complessiva di un metro e sessantacinque, tutta muscoletti e ossa sotto la pelle. Aveva gli stessi ricci e lo stesso colore dei capelli di Rex, ma la loro somiglianza finiva lì. Era una versione in miniatura del compare, in ogni senso della parola... compreso il suo arnese insignificante. Quando i pantaloni di Rex finirono per terra e la ragazza cominciò a gemere, Rickie le fece un taglietto sulla gola. «Se provi a far rumore, puttana, ti ammazzo» disse. «Se provi a scappare, ti ammazzo. Restatene lì sdraiata e prendilo dentro, mi hai capito?»
Stava sibilando, adesso, ogni consonante affilata e letale. «Stattene lì sdraiata e prendilo.» «Non esiste donna al mondo che può starsene tranquilla quando glielo ficco dentro, amico» si vantò Rex. Si inginocchiò fra le gambe della ragazza, si sputò sulla mano e la lubrificò un po'. «Ormai dovresti saperlo.» Rickie lo sapeva. Raddoppiava la stretta sui capelli della ragazza quando strillava, ma in quanto a lui teneva sempre la bocca chiusa. Sapeva che a Rex piaceva quando facevano un sacco di rumore. E sapeva anche che lui non sarebbe mai riuscito a far fare loro tutto quel rumore. A meno che non le picchiasse. Molto. Dio, come ti odio, pensò Rickie. Era rivolto a Rex e a se stesso, soprattutto, ma anche a quella donna e a tutte quelle come lei. Odiava il fatto che non ne avesse fatta mai venire nessuna, che non sapesse nemmeno come si faceva. Odiava il fatto che andassero con lui solo perché volevano i suoi quattrini. Odiava la loro bellezza, il loro sapore e il loro odore. Odiava il fatto che facessero di tutto per farlo impazzire dal desiderio. Rex, da parte sua, non le odiava affatto. Le amava come amava una bella bistecca o una Trans Am nuova di zecca. Rickie aveva sentito un milione di volte il motto di Rex, che univa una volta per tutte quelle tre cose nella sua mente: Le auto si rubano, le donne si chiavano, le bistecche si arrostiscono sulla griglia. Che cosa c'era di più semplice? Era più caldo dell'inferno, quel magazzino, e puzzava come la morte e il formaggio stantio. Ma Rex non sembrava curarsene. Si piegò sopra la bionda favolosa, le infilò una mano sotto al sedere e le sollevò il bacino di un paio di centimetri. «Ti farà impazzire, tesoro» insisté e poi le infilò dentro dolorosamente i primi otto centimetri. Le si mozzò il respirò di colpo, poi cominciò a piangere e a lamentarsi. Rickie le fece un altro taglietto sulla gola. E poi un altro. E un altro ancora. Sogni di chitarra Nel sogno...
Il lungo corridoio della sua vita si apriva ancora una volta davanti a lui. Mille porte, una dopo l'altra, a entrambi i lati della parete, lo invitavano a passare in rassegna secondo per secondo la sua vita sulla Terra in segmenti che la sua mente dotava di una coerenza propria. Nel letto... Billy Rowe, profondamente addormentato, immobile e silenzioso tranne che per il lieve gemito del suo respiro. Bubba ai piedi del letto, totalmente immerso nei suoi sogni. Le lenzuola scostate per il caldo e l'inconscio vigore che il sogno ispirava. Nella stanza... Una figura solitaria fluttuava al di sopra del disordine. E prendeva nota. Buenos Aires, Argentina. 1967. In occasione del suo decimo compleanno, mamma e papà erano passati al negozio di articoli musicali La Lucila per scovare qualcosa di particolare. Il suo amore per il rock'n'roll si era già manifestato con chiarezza: il fratello maggiore di Don Foley lo aveva consolidato una volta per tutte inviando loro pacchi di dischi dall'Estate dell'Amore di San Francisco. Billy e Don erano gli unici nel paese sotto i dodici anni che sapevano a memoria tutte le parole di Alice's Restaurant e potevano citare la fonte di ogni verso dei primi Grateful Dead. Ma il preferito di Billy era di gran lunga Jimi Hendrix. Per cui quasi veniva nelle mutande dalla felicità quando la carta che avvolgeva il regalo venne tolta per svelare in che cosa consisteva quel regalo un po' particolare. Era la copia di una Fender Stratocaster bruna, proprio quella che guardava con avidità tutti i giorni quando tornava a casa da scuola. Uguale a quella di Jimi. Ed era sua! E così, non appena si fu liberato del resto dei regali, all'incirca centoventi lunghissimi secondi più tardi, Billy percorse a tutta velocità la scala a chiocciola che portava nella stanza di sua sorella Becky, dove c'era lo stereo. La chitarra aveva in dotazione anche un filo grigio e dritto. Infilò il jack, accese l'amplificatore dello stereo e per la prima volta in vita sua toccò le corde con le dita. La chitarra era predisposta per 220 volt. L'amplificatore per 110. Nonostante il piatto trasformatore grigio posto fra l'amplificatore e il muro, la chitarra e l'amplificatore non erano compatibili. Quando Billy toccò le corde, ogni pelo del suo corpo si drizzò. L'elettri-
cità attraversò il suo sistema nervoso centrale bruciandolo dolorosamente, senza lasciare intatta alcuna terminazione nervosa. Cercò di staccare le dita dalle corde. Non ci riuscì. Era diventato una sola cosa con lo strumento. E stava per rimetterci le penne. Tutto il suo corpo era in preda a contrazioni quando Becky finalmente si precipitò verso la presa sul muro e staccò l'amplificatore. La tensione non era bastata a ucciderlo, ma aveva strapazzato la sua elettronica interna al punto che finì col provare una specie di sinestesia: sentiva i colori, odorava i suoni, i suoi sensi lo precipitavano tutti insieme in un incubo psichedelicida. In famiglia pensavano che la carriera di Billy come chitarrista sarebbe finita lì. Si sbagliavano. Era la notte dei sogni di chitarra, elettrici e sfrenati: una vita misurata a semitoni e toni interi, scale maggiori e minori. Nel sogno, ripercorreva anni di pratica e di esibizioni senza fine, alla velocità di un assolo di Eddie Van Halen. C'erano state mille feste, mille concerti improvvisati, mille notti da solo in preda agli spasimi della creazione estatica. Era impossibile fermarsi e riviverli tutti. Gli bastava gustarne la sensazione. E la sensazione era quella di essere liberi, la sensazione era quella di volare, il mondo un muro di suoni in costante metamorfosi che era libero di seguire sulle ali della canzone. Essere la melodia: ecco, in fondo, di che cosa si trattava. Riscrivere se stessi mentre lo spirito ti possiede. Improvvisare. Trasformare come per incanto. Plastico. Esplosivo. Urlo sabba rasoio farfalla per esprimere ogni passione ed emozione nel repertorio dell'esperienza umana. Un istante gli corse incontro. Un istante da ricordare. Nella cattedrale della sua vita era un avvenimento sacro. Si fermò davanti a esso, vi entrò. Ricordò... Harrisburg, Pennsylvania. 1980. Età: ventitré anni. Un cielo grigio e gonfio di nuvole riversava il suo livido pallore sulle migliaia di persone che erano riunite in quell'occasione. Ma non poteva fare nulla per deprimerli. Era il 28 marzo: il primo anniversario dell' incidente a Three Mile I-
sland. Alcuni gruppi antinucleari della zona avevano fondato la Coalizione del 28 marzo, che avrebbe patrocinato il festival di musica e di messaggi, espressione della solidarietà, l'evento per i media. C'erano persone che erano arrivate fin dall'Alaska per far sapere a Met Ed e alla GPU di essere incazzate come bestie. Alcuni grossi nomi erano lì per l'occasione: Pete Seeger, Dick Gregory, Linda Ronstadt, Stephen Stills. Ma per cinque minuti, quando la luna era appena sorta, il palco era stato tutto di Billy Rowe. Il titolo della canzone era "Vinceremo". Era un inno per gli anni Ottanta e senza dubbio la canzone più ottimista che avesse mai scritto. L'aveva scritta l'ultimo dell'anno per accogliere il decennio in arrivo. Sperava che avrebbe fatto apparire gli anni Sessanta come un riscaldamento preagonistico in vista di un salto evolutivo. La folla era talmente tanta da fargli credere che le sue speranze potessero trasformarsi in realtà. Era più che calorosa, più che entusiasta. Il novantanove per cento dei presenti non aveva mai sentito la sua canzone prima di allora, ma l'ottantacinque per cento si era unito a lui cantando il ritornello. Aveva preso in considerazione l'idea di portare sul palco un altro cantante per il coro, ma ora era evidente che la decisione da lui presa era quella giusta. Aveva tutte le voci che gli servivano, voci fantastiche. Quello che invece lo metteva in allarme era la Coalizione: l'infornata più dogmatica e meschina di gente ingorda di celebrità che la nuova sinistra potesse generare e che gli fosse mai capitato di incontrare. Entrare in contatto con loro era stata la sua prima, vera esperienza con le scorie fossilizzate del Movimento. Nonostante l'amore che sbandieravano per il Popolo, erano chiusi e settari come un ordine massonico del cazzo. E per quel che riguardava la loro immaginazione, Billy ne aveva vista di più negli annunci pubblicitari che dicevano: DISEGNA A OCCHI CHIUSI E TIRA SU UN SACCO DI GRANA!!! A Billy importava ben poco della Coalizione del 28 marzo. Alla Coalizione, del resto, importava ben poco di Billy. Ma c'era una causa che trascendeva l'ego di Billy e anche quello della Coalizione. C'era tutta quella gente, venuta da lontano per manifestare la propria indignazione collettiva e il proprio amore per la Terra. E c'era la musica, che per molti versi era la cosa più difficile da affrontare. Ma che in quel momento era solo e soltanto magica. Il pubblico era sot-
to l'incantesimo che Billy aveva gettato, ma le cose non erano così semplici. La musica lo teneva anche stretto per le palle: la sua voce e le sue dita erano schiave della canzone, che lo costrinse a ripetere il ritornello una volta in più del previsto, e il pubblico lo accolse con un ardore quasi sessuale. E fu a quel punto, ovviamente, che Max salì sul palcoscenico. Max Fogel era il Grande Capo della Coalizione. Era anche il presentatore di quello spettacolo. Aveva una barba alla Carlo Marx e l'attaccatura dei capelli che diventava più alta di giorno in giorno ma riusciva comunque a coprire un cervello che aveva smesso di crescere più o meno nel momento in cui Carlo Marx era defunto. Billy pensava spesso che Max avrebbe raggiunto l'apice della felicità solo quando qualcuno avrebbe infilato di soppiatto una strategica R in mezzo al suo nome. Billy era al centro del palcoscenico, con un microfono rivolto verso la chitarra Ovation e un altro verso la sua bocca. Stava concludendo la breve parentesi strumentale che precedeva il finale della canzone. Max arrivò a quindici centimetri dal microfono e disse con una voce che risuonò negli altoparlanti: «Il tuo tempo è scaduto». Per un istante lunghissimo il tempo parve immobilizzarsi. E l'aria intorno al palcoscenico iniziò a crepitare. Billy guardò il mare di volti davanti a sé e per la prima volta comprese che dipendevano tutti completamente da un suo gesto. Guardò Max, vide con quanta facilità poteva fare a fettine quell'uomo, trasformarlo in grasse strisce di pancetta. Provò una sensazione di potere incredibile in quel momento: la sensazione che il successo dell'intera manifestazione fosse tutto nelle sue mani, con la stessa sicurezza con cui la sua chitarra continuava a suonare. Potrei rovinarti, pensò Billy fissando Max negli occhi. Adesso. Davanti a tutta questa gente. Usando semplicemente la tua mancanza di tatto, tipica di quel maiale che sei. Potrei farti vergognare tanto che non oseresti mai più mostrare la tua faccia davanti a questa gente. Sarebbe facile. Sarebbe divertente. Ma poi tornò a guardare il pubblico e, oltre il pubblico, le torri di raffreddamento, appena visibili nella foschia sospesa sopra il fiume Susquehanna. Era quello il punto. Era quello il motivo per cui erano riuniti lì: non per bollare Max come uno stronzo ambulante, non per mettere in evidenza le ipocrisie del Movimento, ma per ispirare in questa gente un senso di fratellanza e la speranza che un giorno si potesse porre fine a tutte le
follie che uccidevano la Terra, si trattasse del nucleare o di qualunque altra cosa. E in quel momento Billy prese la sua decisione. «Ragazzi» disse la sua voce rimbombando nel microfono. «Mi hanno appena detto che il tempo a mia disposizione è scaduto. Mi manca soltanto un minuto per finire la mia canzone. Potrei andarmene subito, ma voglio domandare a tutti voi: volete sentirla fino alla fine?» «SÌÌIIÌ!!!!» fu la fragorosa risposta del pubblico. «Bene!» gridò Billy. Il pubblico applaudiva. Max lo fissava. Billy gli mandò un bacio. Non gliene fregava un cazzo se Max era contento oppure no. Il Popolo aveva deciso e fu al Popolo che Billy parlò mentre cantava gli ultimi versi della sua canzone: «Non arrenderti! C'è bisogno di te! Non arrenderti! C'è bisogno di te!» Tutti, tranne Max, si unirono al coro. Alla faccia della solidarietà. Il pubblico era in piedi ad applaudire quando Billy lasciò il palco, ma lui sentiva appena le ovazioni. Era totalmente immerso nel Potere. E nella consapevolezza di non averne abusato. Lievemente, lievissimamente, al di sopra del pavimento della camera e del boato della folla del sogno, un paio di mani invisibili applaudivano anch'esse. Il repulisti (prima parte) Billy si risvegliò sentendo un rumore di carta stropicciata nell'oscurità della sua camera. Balzò in piedi in un lampo trascinandosi dietro le ragnatele della terra dei sogni. La sua mano saettò verso la lampada sul comodino. Sentiva la paura comprimergli lo stomaco e il fuoco negli occhi mentre scrutava il buio cercando l'origine di quel rumore e accendeva di scatto la luce. Bubba, con la lingua penzoloni, gli sorrise stupidamente dal suo angolo. «Dio mio» mormorò Billy, rispondendo a Bubba con il suo sorriso per-
sonale di sollievo. Fra un minuto il cuore smetterà di rimbombarmi nel petto, rassicurò se stesso. Dio, pensavo che si trattasse di una di quelle cose... Il sogno tornò a galla: il flusso di ricordi. Per un istante si trovò nuovamente sul palco e rivisse quello splendida ondata di trionfo... ... poi tornò nella sua stanza, contemplò il disastro, vide che la sua vita non era cresciuta ponendo saldamente un pezzo sopra all'altro ma era crollata sparpagliandosi dappertutto... ... e poi guardò la sveglia digitale. Erano le due e trentacinque. Si sentiva completamente sveglio. C'erano ancora parecchie ore di buio prima che il resto del mondo si svegliasse. Puoi fare qualcosa, disse una voce nella sua testa. Ripulire la tua vita, ripulire le strade, ripulire tutto questo dannato pianeta se sai giocare bene le tue carte. Tutt'a un tratto, diverse cose si fecero straordinariamente chiare in lui. In particolare, da dove iniziare. (due e cinquanta) C'erano 187 bottiglie vuote nella stanza. Le contò mentre le allineava davanti alla vasca da bagno. Considerando una media di sei al giorno, facevano quasi cinque settimane. Erano quasi tutte sue. Doveva essere più o meno quello il periodo trascorso da quando lui e Larry avevano dato alla casa l'ultima ripulita sommaria. Il pavimento della cucina era completamente ricoperto di bottiglie, ma la sua stanza sembrava quasi nuda. Era incredibile quanto spazio occupavano. Se Larry si sveglia e vede quel che sto facendo, ci resta secco, si disse Billy facendosi più cauto, poi si fermò. La porta di Larry era aperta e il "Ronfo Infernale" (marchio registrato) di Larry Roth non era a portata di orecchio. Quando era in piena attività, quella sirena da nebbia riusciva a sovrastare il rumore dei vicini inferociti che battevano sui muri, sulle porte, sui pavimenti e sui soffitti. Larry non si svegliava mai. Faceva più rumore lui di un tamponamento a catena. La prognosi era semplice: se non si sentiva russare, Larry non era in casa. Il maniaco dal sorriso facile lo aveva terrorizzato. Probabilmente adesso è impegnato a scopare con la sua telefonista, rifletté Billy con un sogghigno. Gran bel pezzo di ragazza, Lar'. Punta sul suo buon vecchio istinto materno. Da un certo punto di vista, era un male che Larry non ci fosse. Russan-
do, sarebbe riuscito a spaventare l'assassino e a farlo scappare, se mai avesse pensato di trascinare il culo fin lì un'altra volta. E dubito che lo farà, aggiunse. Anche se vorrei che lo facesse. Billy stappò una Rolling Rock (188, notò distrattamente) e si sedette sul bordo della vasca. Aprì l'acqua calda e ficcò la mano sotto il rubinetto finché la pelle non gli diventò rosa e il vapore iniziò a salire. Non fa male. Era stupito dalla calma che mostrava. Non sono mai riuscito a toccare una cosa così calda per più di un secondo. La sento, ma non mi fa male. Bevve un lungo sorso di birra, tenendola con l'altra mano, mentre le labbra si piegavano in un sorriso intorno alla bocca della bottiglia. Guarda, mamma, senza mani! Poi con calma e accuratezza si mise a lavare tutte le 188 bottiglie, una per una. Molte bastava risciacquarle, ma ce n'erano alcune che potevano vantarsi di dare asilo a forme inferiori di vita, minacciose e tenaci, che aderivano al fondo come crostacei. C'era un pezzo di robaccia verde che sembrava della pancetta ammuffita. Altra roba che assomigliava a una stecca di nero. Altre con dei punticchi color turchino, come quelli che si trovano sulle focaccine un po' passate. Se trovo qualcosa che assomiglia a delle uova strapazzate, sarò nei guai, si disse con un po' di nausea. Se ne facessi un quadro dal titolo "Colazione a Visciland" diventerei un artista di fama internazionale. Non ebbe fortuna. Vide la sua fortuna defluire giù per lo scarico, onda dopo onda colorata. Decise di accontentarsi dei nove dollari e quaranta che avrebbe incassato riportando indietro i vuoti. Riempì due buste enormi. In tutto aveva impiegato quindici minuti. (tre e dieci) Altre quattro buste giganti si stavano riempendo sul pavimento vicino a lui: due per la lavanderia e due per la spazzatura. La lavanderia era in vantaggio, ma non di molto. Billy non vedeva più il pavimento da anni. Sembrava carino, ma un po' lurido. Fra le tasche e il pavimento, racimolò quaranta dollari. E trovò anche un sacco di altre cose che aveva perso. Decise di occuparsene in seguito e proseguì quel che aveva iniziato con fredda efficienza. Ci volle un'altra busta per i vestiti. La chiuse e poi trascinò l'immondizia in cucina. Quando tornò nella sua camera da letto, gli parve quasi una reggia. Erano passati altri quindici minuti.
(tre e venticinque) Pensò a tutto quello che gli restava da fare: pulire e mettere in ordine alfabetico i dischi e i nastri, lavare i piatti sporchi, mettere a posto tutte le carte. Eccetera eccetera eccetera. (tre e ventisei) Disse «vaffanculo», desiderando che fosse già tutto finito. Funzionò. (tre e trenta) Iniziò a riprendersi dallo shock. «Cristo» fu la prima parola che gli uscì dalla gola. In un tempo minore di quello che avrebbe impiegato a sbattere le ciglia - e molto più rapidamente di quanto i suoi occhi avrebbero potuto cogliere - tutta la casa si era ripulita. Completamente. Anche gli scarafaggi, vivi e morti, erano scomparsi. I piatti erano stati lavati, asciugati e sistemati al loro posto. La cucina economica (un incubo, da qualunque punto di vista si volesse considerarla) era tornata immacolata come prima del suo arrivo a Stanton Street. I pavimenti erano stati lavati con lo straccio, lucidati con la cera e ora erano splendenti. Le buste di immondizia si erano dissolte. Anche le buste pronte per la lavanderia non c'erano più: i vestiti si trovavano puliti, stirati e sistemati nei cassetti. Nove dollari e quaranta centesimi erano in una pila sul pavimento nel posto esatto in cui stavano prima i vuoti da restituire. I dischi, i nastri e le carte erano tutti sistemati; in ordine alfabetico, naturalmente. Samantha Stevens, mi fai un baffo, pensò Billy e iniziò a ridacchiare mentre nella testa gli danzava la visione di una Elizabeth Montgomery con la puzza al naso. Era troppo incredibile. Cominciò a girare vorticosamente al centro della stanza mentre la sua risata si faceva sempre più isterica. Billy era sbalordito ma al tempo stesso accettava tranquillamente il fatto che le leggi fisiche fossero state così stravolte. Gli tornò in mente il vecchio slogan del Firesign Theatre: tutto quel che sai è sbagliato. In quel contesto, non riusciva a trovare parole più appropriate. Poi il suo sguardo si posò sulla scrivania e l'ilarità ebbe bruscamente fine. Smise di roteare. Il cuore smise quasi completamente di battere.
Sulla scrivania c'era una pila di fogli in bella evidenza. Sapeva di cosa si trattava ancora prima di avvicinarsi abbastanza da leggere il primo foglio. «Ti avevo dato via tre anni fa» mormorò appena ripreso fiato. Le pagine non reagirono in alcun modo. Rimasero semplicemente dove erano. Sulla scrivania. Davanti a lui. C'era una poltrona di pelle a brandelli davanti alla scrivania. Billy ci si sistemò a sedere sopra. Stava tremando. Non riusciva a controllarsi. Era spaventato. Non riusciva a controllare neanche la sua paura. La luce nella stanza si fece più brillante e Billy si sentì trascinare via... ... a quell'estate del '77, subito prima del crollo nervoso, sul portico del suo amico Jeffrey, in acido, mentre la musica gli esplodeva dentro e il mondo esplodeva tutt'intorno a lui e la sola cosa che gli riuscì di fare fu riversare la sua anima su fogli e fogli e fogli di carta... Era la poesia. La poesia sono-pronto-a-morire. La poesia Dio-mio-perfavore-spiegami-che-cosa-sta-succedendo-perché-io-non-ce-la-faccio-piùad-andare-avanti-così che aveva scritto alla vigilia di quell'attacco di pazzia che lo aveva quasi annientato. A suo modo, nonostante la sua stranezza, era l'ultima preghiera che gli fosse uscita dalla bocca... ... prima di quella notte al Café Figaro. Quando era arrivato Christopher. «Stai cercando degli indizi?» si chiese Billy retoricamente. La sua voce era acuta e tremolante. Cominciò a leggere. Dio è un idiota della peggior sorta contorto creatore di labirinti tessitore della trama in cui siamo senza speranza impigliati penso «Dio, non si può smettere di danzare fosse pure per un secondo? Di roteare come idioti per il tuo divertimento da pagliaccio?» Ma no noi siamo la trama
non abbiamo scelta e danziamo idioti, tutti noi, sospinti dall'ansimare di Dio, il Grande Pagliaccio... «Noterai certamente» disse Christopher dietro di lui «l'aggressività implicita in queste parole.» «CHE...!» strillò Billy, balzando dalla sedia. «Questo posto ha un ottimo aspetto. Hai mai preso in considerazione l'idea di metterti a fare il casalingo?» «Non sbucarmi alle spalle così all'improvviso!» Billy fece un paio di sospiri profondi per riprendersi. «Dalle tue parti non si usa bussare?» «Niente porte e niente finestre. Si perde l'abitudine alla propria intimità. Se sai che Dio ti vede sempre, che senso ha fare finta di essere da soli?» «Christopher, tu sì che mi rechi sollievo quando il cielo è cupo. Ho sempre sperato che gli angeli fossero come te.» L'angelo sorrise. «Ti piacerebbe diventarlo da grande?» «È un ottimo lavoro, se riesci a entrare nel giro.» «Tu hai la stoffa del dirigente, ragazzo. Credi a me.» «Sì, certo. Splendido. Allora, che cosa vuoi da me? A cosa devo questo immenso piacere?» «Hai trovato la poesia.» Pausa. Billy deglutì nervosamente. «Sei stato tu a metterla lì, vero?» «Io!» L'angelo finse sorpresa e indignazione. «È importante, vero?» «Devi essere tu a dirmelo.» Christopher se ne restava immobile con un sorrisetto furbo sulle labbra. Più Billy lo fissava, più quel sorriso diventava enigmatico. «E va bene» disse Billy con un sospiro. «È importante, bastardo.» «Allora vai avanti a leggere. Non fare caso a me. Prendo solo qualche appunto sul mio quadernino.» «Accomodati» brontolò Billy accendendosi una sigaretta con dita nervose. Il portacenere, una volta tanto, era vuoto e bene in vista. Anche questo gli ricordava che le cose ormai erano radicalmente cambiate. Poi tornò alla poesia, alle diciassette pagine scritte a mano, e lasciò che lo trascinasse all'indietro.
Nella follia. (tre e cinquantacinque) Perché? Era questa la domanda in fondo a quelle diciassette pagine urlanti: un grosso, grasso perché metafisico, straziato dal dolore. Apparentemente sembrava una poesia, ma in realtà era una lettera isterica a Dio Padre in cui si chiedeva: perché il cielo è azzurro, papà? Perché la gente deve morire? Perché devo mangiare tutta la verdura? Perché? Perché? PERCHÉ? Non ci sono altre domande che riescono a farti impazzire altrettanto definitivamente, altrettanto rapidamente. Fu un lavoretto facile con il ventunenne Billy Rowe. Non era stato assolutamente in grado di accettare la risposta, l'unica vera risposta possibile. Ora, quasi otto anni più tardi, una nuova infornata di perché era giunta in porto: perché ci sono uomini che se ne vanno in giro ad ammazzare le donne? Perché vengo pedinato da angeli e demoni? Perché sta succedendo tutto questo? Ma ora Billy era in grado di accettare la risposta. Perché, sussurrò in risposta la sua mente, è esattamente così che vanno le cose. E fu un vero e proprio sollievo ammetterlo, abbracciare quella verità quasi definitiva. Perché è esattamente così che vanno le cose. Talmente semplice che non sembrava significare esattamente niente, quando invece diceva tutto quello che c'era bisogno di sapere. «E così ho il Potere» disse Billy ad alta voce. «E il mio tempo è giunto.» «Esatto» cinguettò Christopher dietro di lui. «Ti restava ancora qualche dubbio dopo l'altra sera, ma adesso... hai fatto centro!» Billy scoppiò a ridere. Aveva quasi dimenticato che Christopher era ancora nei dintorni. «E quale sarebbe il Premio?» chiese sistemando la pila di fogli sulla sua scrivania. «Il mio rispetto imperituro.» «Fantastico!» sogghignò Billy, cominciando a voltarsi. «Immagino che con il tuo rispetto non potrei permettermi nemmeno una riserva a vita di tavolette di ciocco...» Si bloccò. La stanza era vuota. «... lato» concluse Billy sbattendo le palpebre. Poi notò il quaderno sospeso a circa un metro da terra. Una penna argentea correva lungo una
pagina aperta. Sembrava fare tutto da sola. «Piantala!» gridò Billy. «Oh, scusami!» Christopher riapparve con la penna e il quaderno in mano. «Cercavo solo di non dare nell'occhio.» «Non riprovarci. La situazione è già abbastanza bizzarra di per sé.» La sigaretta che aveva acceso si era spenta nel portacenere, riducendosi in cenere. Billy se ne accese un'altra. «E ora che si fa?» «Non è a me che devi chiederlo, amico mio. Chiedilo a te stesso. Hai finito per stanotte?» «Non proprio. Senti, hai intenzione di rimanere qui a guardare?» «Ti dà fastidio?» «A dire la verità, sì» disse Billy. Christopher assunse un'aria ferita. «Senti, bello, non fraintendermi. La tua compagnia è deliziosa, ma c'è una cosa che devo risolvere da solo.» «Hai perfettamente ragione.» Christopher si infilò in tasca penna e quadernino e rimase a guardarlo. «Stai cominciando a rilassarti, vero?» Billy sorrise un po' impacciato. «Sì, proprio così.» «Vedrai che presto ti sentirai a tuo agio. Mantieni la concentrazione e non disperdere le energie. Il tuo esordio sarà fantastico.» «Grazie.» «Di niente. E in gamba... un momento!» «Cosa c'è?» «Io... c'è qualcosa che devo chiederti.» Billy sentiva che si stava curvando fino ad assumere la posizione di chi sa che sta per chiedere una stupidaggine ma non può farne a meno. «Spara.» «Dio è maschio, femmina, tutti e due o nessuno dei due?» «Sì.» Billy scoppiò a ridere. «Proprio come pensavo. Grazie.» «Nessun problema.» Christopher sorrise e lo salutò. «A dopo!» «Ciao!» Era come salutare un vecchio amico come tanti altri, solo che questo non doveva usare le scale. Christopher scomparve senza neppure un puf!, diretto solo Dio sapeva dove. Chissà se ci riesco, si chiese Billy. Gli era venuto in mente di materializzarsi nel letto di Mona, sopra di lei. Che sorpresa sarebbe stata! L'idea era talmente affascinante che stava quasi per provare. Poi nella sua mente si formò un'immagine: quando lui appariva nella sua
stanza, Mona non era sola. «Merda.» La faccia di Dave aveva tolto alla fantasticheria tutto il gusto. L'allegra telefonata di qualche ora prima danzava ancora nel suo cervello con ai piedi delle scarpette da golf. Cercò di allontanare con una smorfia la visione, i suoni, le sensazioni. Non smisero di aggredirlo, ma almeno gli diedero qualcosa da fare. Ti ha scaricato, amico, disse una voce nella sua mente. Una voce meschina. Continuò ugualmente ad ascoltarla. Era forte e chiara. Sei un peso per lei e lei ti ama tanto che ti ha lasciato diventare pazzo senza muovere un dito. Bella pietà del cazzo. Brava ragazza. Su di lei sì che puoi contare. Poi si fece sentire una voce un po' meno amareggiata. È ridicolo, diceva. Se non mi amasse, non avrebbe sopportato il mio declino così a lungo. Non riesce ad accettare di dover avere a che fare con le tue storie nel momento più importante della sua vita. Se tu non fossi così coglione, disse una voce vecchia e stanca, dovresti fare l'esame di coscienza. Guardati! Guarda la tua... Billy sorrise. Lo scatto che segnò il passaggio dal dentro al fuori fu forte e chiaro. «Siete dei vecchi nastri» comunicò alla sua mente conscia. «Parlate come se non fosse cambiato niente. Mi dite che questa stanza è un casino quando l'ho ripulita un'ora fa. AGGIORNATEVI!» I suoi pensieri, sbigottiti e mortificati, gli rimasero ancora per un istante nella mente. Quando l'immagine di Mona tornò, c'era lui con lei e Dave era scomparso. E quando aprì gli occhi, Billy si vide riflesso nel vetro della finestra: nonno Mosè, con una barba di cinquantamila anni. Gli venne in mente, per quella che gli sembrava la prima volta, che non vedeva la sua vera faccia dal 1974 e che la maggior parte delle persone che gli erano vicine non l'aveva mai vista. «Mona» si disse dolcemente. «Ti farò ritornare da me, tesoro. Se ti serve un uomo nuovo, quell'uomo sarò io. Per te.» Non aveva più dubbi sulla fase successiva. E il repulisti era solo all'inizio. Amore e guerra Avevano appena finito di sentire come vogliono divertirsi le ragazze
quando Mona cominciò a gridare dal soggiorno. Paula alzò gli occhi dalle tavole dello storyboard mostrandosi come sempre contrariata. Lisa sorrise, riconoscendo immediatamente il motivo di tutto quel chiasso. «Vieni» disse a Paula che le era seduta accanto sul letto. «Voglio che tu lo veda.» Paula Levin si alzò controvoglia dal materasso. Sembrava che fosse stata scolpita in un blocco di calcestruzzo da un neorealista nazi poco ispirato: figura tarchiata, colorito cinereo. Il suo sorriso più smagliante era una piega quasi invisibile a un'estremità delle labbra tese. In quel momento non stava sorridendo. Paula e Lisa entrarono in soggiorno e videro Mona seduta a gambe incrociate in mezzo alla stanza. MTV veniva sparata attraverso Manhattan Cable dritta nel loro Sylvania, che a sua volta scaricava il ritmo pulsante nella stanza. Della musica si occupavano Dave Hart and the Brakes. E Mona ballava dentro lo schermo. «Ma sei tu!» disse Paula. Mona annuì sorridendo, con gli occhi incollati allo schermo. In televisione, i suoi lunghi capelli neri erano pettinati in modo da sembrare una nube d'ebano che ondeggiava frusciando davanti al viso. Le sue ciglia color blu metallico erano abbassate in modo da celare in parte gli occhi scuri che saettavano sguardi bramosi verso l'obiettivo della telecamera. Indossava una gonna di seta nera che aderiva perfettamente alle sue curve ma che le scorreva su per le cosce quando l'accarezzava con la mano. Lisa rimase a bocca aperta, come le succedeva sempre quando vedeva Mona ballare. C'era nella sua danza qualcosa di profondamente sensuale, un'incredibile perfezione a cui l'occhio riusciva appena a credere. In movimento Mona era magica e Lisa era costantemente sotto il suo incantesimo, Paula, d'altra parte, non era affatto rapita. Anzi, il suo sguardo si era fatto torvo. In altre occasioni, questo sarebbe bastato per far sparire il sorriso dalle labbra di Lisa. Questa volta no. Mona scomparve dallo schermo e fu sostituita da Dave. Lisa dovette ammettere che anche lui aveva un aspetto favoloso, pur se più sul genere rock star. Con il gruppo alle spalle, Dave assunse un'espressione seria mentre cominciava a cantare: Prendi tutto il tempo che vuoi, ma saprai mai dare più di quel che ricevi?
La scena si spostava in un soggiorno in cui un Dave meno tirato era seduto su un divano logoro in compagnia di un bionda abbastanza carina, che però rispetto a Mona sembrava alquanto scialba. Il riflesso azzurrino di uno schermo televisivo tremolava sui loro volti mentre, fuori campo, la voce di Dave continuava a cantare: Prendi tutto quello che ti pare, ma saprai mai trovare l'oggetto del tuo desiderio? E Mona era lì dentro, nella televisione dentro la televisione, che si muoveva in modo provocante al ritmo della musica. La telecamera si soffermava sulla piega malvagia della sue labbra, sui guizzi seducenti della lingua umida. Paula grugnì battendo un piede a terra. Non era un tentativo da parte sua di segnare il ritmo. «Cosa c'è?» disse Lisa lanciando un'occhiataccia a Paula, che si stava gonfiando d'ira come l'omino Michelin. «È nauseante» dichiarò Paula, poi si voltò con un'aria di vago disprezzo verso Mona e disse: «Cosa si prova a essere un "oggetto del desiderio"?» «Si sta un po' meglio che a essere un oggetto di disprezzo» ribatté Mona sorridendo. «Non pensi che i maschi che hanno prodotto questo video provassero del disprezzo per te?» «No. Credo che mi rispettassero abbastanza da usarmi come...» «Come una puttana.» «... come un'attrice che incarna un oggetto del desiderio.» Mona si distese sensualmente all'indietro. «E credo che tu dovresti chiudere quella tua boccaccia di merda.» Lisa sobbalzò. La situazione era precipitata con una rapidità considerevole. Provò a pensare a un modo per tirare fuori Paula dal casino in cui si era cacciata, ma era troppo tardi. La battaglia era iniziata. Tornò a guardare la MTV, dove Dave stava cantando: Tu vuoi qualcosa in cambio di niente Ma è niente che ti porti via. Sullo schermo Dave era inginocchiato con aria implorante davanti alla sua televisione. La bionda rientrò in scena con una birra appena aperta per
lui. Dave la baciò distrattamente, afferrò la birra e riprese a fissare lo schermo. «Hai idea di quello di cui parla la canzone?» stava dicendo Mona. Era infuriata, ma si stava anche divertendo. Lisa cercò di smettere di sorridere, ma non ci riuscì. Quello scontro era affascinante. Decise di goderselo. «Ma certo» iniziò a dire Paula. «Ne dubito» la interruppe Mona. Fece un respiro profondo e poi proseguì. «È la storia di un tipo che ha una ragazza assolutamente perfetta, ma...» «La tratta come una schiava...» «... ha delle fantasie sulla donna perfetta che resterà eternamente giovane e che gli rovina il cervello ossessionandolo giorno e notte.» «E saresti tu!» esultò Paula trionfante. «Sei tu la donna che si mette in mostra e soddisfa le loro fantasie contorte!» «Presumo quindi che tu non abbia fantasie.» «Non di quelle che prevedono la sottomissione della donna.» «Ma di quelle che prevedono la sottomissione del maschio, vero? Immagino che siano molto meglio.» «Gli uomini sono tutti dei porci. E quando stai al loro gioco come stai facendo tu diventi la brodaglia della quale si nutrono. Tu degradi tutte le donne con il tuo comportamento.» «E tu» disse Mona «sei una stronza sempre pronta a piantare grane. È un ruolo molto più positivo da assumere, no?» Per un lungo secondo carico di tensione, sembrava che Paula stesse per picchiare Mona. Il solo pensiero fece innervosire visibilmente Lisa. Mona era robusta e agile e forte, ma si guadagnava da vivere con il suo aspetto fisico. Un occhio nero non era il massimo che le si potesse augurare. Il campanello squillò. «Vado io» disse Lisa, grata per l'interruzione. Non vi ammazzate mentre sono via, fu tentata di dire, ma le parole non le uscirono di bocca. Sfrecciò verso la porta riflettendo sul motivo del dissenso e chiedendosi con quale delle due fosse meno d'accordo. Di fondo c'era il fatto che a lei gli uomini non piacevano più di quanto piacessero a Paula. Aveva acquisito una salutare sfiducia nei confronti della maggior parte di loro fin dai tempi della scuola superiore, quando i fischi e gli approcci rudi cominciarono a crescere di pari passo con i suoi seni. Poi, anni dopo, lo stupro glielo aveva confermato. Gli uomini erano dei porci, se non tutti quasi tutti: anche i migliori di loro, se gliene davi anche solo mezza occasione, erano pronti a sbatterti sul letto e ficcartelo
dentro. Assumevano automaticamente un'aria di superiorità, il diritto del possesso. Sembrava che non ce la facessero a capire che anche le donne erano esseri umani. Ma quel che Paula non capiva era che Mona non si comportava così per piacere agli uomini. Lo faceva per se stessa. Usava quel che aveva per farsi strada nel mondo. Nonostante le decine di migliaia di esperienze orribili pagate sulla propria pelle, Mona era ancora attratta dagli uomini, e non era contraria a dormirci insieme se questo poteva portarla dove voleva andare. Li usava almeno tanto quanto loro usavano lei. Erano pari. E se riusciva nel suo intento, tanto meglio per lei. Mona, infatti, era femminista come tutte loro. Credeva nelle pari opportunità e nel salario parificato. Credeva che le donne avessero il diritto di crescere come esseri umani, senza essere costrette a diventare delle sciocchine senza cervello o delle madri di famiglia. Per lei si trattava di verità evidenti, che erano ormai entrate a far parte di lei tanto quanto la sua bellezza. Le uniche volte in cui doveva manifestarle espressamente era quando si trovava ad avere a che fare con un uomo di Neanderthal con la fissa della superiorità maschile e allora si batteva con la stessa forza con cui si sarebbe battuta Paula o qualunque altra donna che si fosse trovata al suo posto. A volte, effettivamente, Paula era una vera stronza (ma solo nei giorni che finivano con "dì"). D'altra parte era anche una regista di innegabile potenza e coraggio. Fra le nostre cosce era un attacco feroce alla supremazia maschile e aveva suscitato con ogni probabilità più polemiche di ogni altro film nella storia del cinema femminista. Lisa era onorata di collaborare al montaggio del film successivo di Paula Levin. Valeva la pena di sopportare quei rari momenti irritanti e sgradevoli. Sperando che non si facciano fuori a vicenda, concluse Lisa fra sé. Poi il campanello squillò nuovamente e lei spinse il pulsante che apriva il portone. Lo tenne premuto e il BRAZZZZZ nasale le ronzò nelle orecchie fino a che la porta non venne rinchiusa e sentì dei passi salire le scale. Allora tolse il dito dal pulsante e aprì la porta dell'appartamento per vedere chi stava salendo. Era un ragazzo non molto alto e magro, con i capelli tagliati come Mick Jagger e con quello stile multistratificato, alla Mad Max, che al momento impazzava. C'era qualcosa di vagamente familiare nel suo viso piacevole e ben rasato, ma non avrebbe potuto metterci la mano sul fuoco. «Ciao?» disse lei con aria interrogativa, mettendo fuori la testa.
Fu allora che lui sorrise e l'impatto che provò quando lo riconobbe la colpì con un'intensità talmente rapida e improvvisa che barcollò per un istante, rimanendo senza fiato. Un sorriso immenso le apparve sulle labbra e stava quasi per dire il suo nome, quando... «Shhhhh» fece lui con un sibilo, portandosi un dito alle labbra e ammiccando. Il video era quasi finito, ma ormai aveva perso di importanza. Mona lo aveva già visto prima e lo avrebbe rivisto altre volte, mentre una bella rissa con Paula Levin non capitava tutti i giorni. «Vedi, è proprio questo il punto» stava dicendo. «Io non ho niente contro la pornografia. Non credo che la tua teoria sia suffragata dai fatti. Insomma, lo stupro era già in auge ai tempi di Attila! Pensi forse che le sue orde si sedessero intorno al fuoco a leggere Hustler?Andiamo!» Paula sogghignò. «Il tuo è un ragionamento infantile. La pornografia non rende gli uomini abietti. Lo sono già da soli. La pornografia li incoraggia e dà loro i mezzi per controllare le donne e privarle della loro umanità.» «Ma la pornografia priva anche gli uomini della loro umanità! Non lo capisci? Santo Dio, parli come se gli uomini fossero felici e contenti dello stato di cose attuale, mentre la maggior parte di loro si sentono di merda almeno tanto quanto le donne di cui secondo te sarebbero gli oppressori.» «Ed ecco la prova vivente di quanto appena affermato!» disse una voce maschile dalla camera di Lisa. Oh, Cristo santo! Billy! pensò Mona, e sentì tutta la sua energia dissolversi nel nulla. Provò un'improvvisa sensazione di imbarazzo e i suoi occhi si fissarono sulla tenda mentre aspettava il momento della verità. Ma il tipo che entrò nella stanza non era Billy. Aveva la sua stessa altezza ed era fatto più o meno come lui, ma aveva un taglio alla moda e la barba fatta e i suoi vestiti non erano luridi o sbrindellati o... «Omiodio.» Una parola sola, appena comprensibile al di sopra della musica. «Omiodio.» Lo guardò con gli occhi spalancati. Non riusciva a distogliere lo sguardo. Billy fece un saltello di lato, spalancò le braccia e rimase immobile. «Ta Taaaaaahhh!» esclamò, raggiante come non mai. «Mona, c'è qui qualcuno che vorrei presentarti» disse Lisa sbucando alle spalle di Billy. Anche lei stava sorridendo. Sembrava una specie di malattia infettiva.
Per fortuna Paula non venne contagiata. Era benefico avere nella stanza una presenza che smorzava gli entusiasmi. Per un breve e fuggevole istante, Mona arrivò quasi ad apprezzare Paula. Poi la sensazione svanì e il suo sguardo tornò a posarsi su Billy. «Coooo» disse. Non riusciva ad articolare altri suoni. «Una nuova forma primitiva di saluto» mormorò Billy rivolto verso Lisa, che annuì con aria saccente. «Coooosa è successo?» riuscì a dire alla fine Mona. «Ho rapinato uno studente dell'Istituto di Moda e gli ho fregato i vestiti.» «E i capelli» aggiunse Lisa. «Ovvio. Che cosa orribile: nudo e pelato, ora giace privo di sensi nella tromba delle scale...» «Non c'è niente di divertente» lo interruppe Paula. «E invece sì!» Billy si permise di dissentire. «Dovresti vederlo!» «Billy!» Mona era esasperata. La sorpresa si stava sciogliendo in una confusione generale molto più logica. «Non capisco. Io...» Ma non riuscì a continuare e si limitò a scuotere il capo con un'espressione addolorata e implorante. «Vedi, a dire la verità» disse Billy con voce da duro «ho sentito dire che stavi facendo dei provini perché cercavi un nuovo fidanzato e pensavo di essere adatto per la parte.» Le rivolse un sorriso aperto e disarmante e scosse le spalle. «Tutto qui.» «Mi ha passato un biglietto da dieci sottobanco» disse Lisa rivolta a Paula «sperando che ce ne andassimo per un po' a lavorare al Commons.» «Ci piacerebbe taaanto restare da soooli» tubò Billy. Poi lanciò uno sguardo interrogativo verso Mona. «Sei d'accordo?» guaì. Mona non sapeva come comportarsi. La cosa più strana era che non provava il minimo senso d'ira. Tutta la sua collera se ne era andata a schiacciare un pisolino o era partita per una gita di una settimana al Club Med. Sentiva dentro di sé soltanto un vago timore e un'eccitazione che le dava le vertigini. Billy aveva un aspetto fantastico. Questa era la cosa più incredibile e terrificante. Era difficile credere che si trattasse proprio di lui. Sembrava che avesse dieci anni di meno e irradiava intorno a sé baldanza e sicurezza. Non poteva assolutamente dirgli di no, anche se non riusciva nemmeno a dirgli sì. Non riusciva a parlare, ecco tutto. Annuì appena col capo, gli occhi spalancati come quelli di una bambola.
«Favoloso» disse Billy e si girò verso Paula. «E tu chi sei?» chiese porgendole la mano. «Non mi sembra di conoscerti.» «Paula Levin» rispose lei prendendogli la mano e stringendola fin quasi a fargli male. Billy rispose alla sua stretta con altrettanto vigore, continuando a sorridere. «Ma vuoi scherzare?!» esclamò Billy pieno di entusiasmo. «Ho visto Fra le nostre cosce due volte di seguito! Un film fantastico!» Paula sembrava scettica. «Perché dici così?» si decise infine a chiedere. «Perché è così! Il film mi è piaciuto davvero. Ho trascinato tutti i miei amici a vederlo. Avresti dovuto vedere le loro facce. Erano furibondi.» «E tu?» gli chiese Paula. «Eri furibondo anche tu?» «Ma certo. Però mi piaceva. È un'esperienza interessante farsi prendere a calci nelle palle per un'ora e mezzo. Ti fa riflettere sul punto a cui sei arrivato.» «E su come ci sei arrivato» aggiunse Lisa. «Ma tu non concordavi con la tesi del film» indagò Paula. «Ero d'accordo su un sacco di cose. Per quasi tutta la sua durata, il film è sopra le righe, ma su questo non ho niente da ridire. Ho sempre sostenuto la necessità di esagerare.» Paula sbuffò. Billy proseguì. «Non era un contributo fondamentale alla storia della filosofia, ma c'era da divertirsi come pazzi.» «Sei pronta per uscire?» chiese Lisa a Paula che stava cominciando a fremere. «Per andare dove?» «Al Chelsea Commons. È quello splendido bar all'angolo. Si beve e si mangia magnificamente, l'atmosfera è ottima, è tranquillo e ci si lavora benissimo.» Lisa le strizzò l'occhio e fece un gesto con la mano. «Andiamo, vedrai che ti piacerà.» Paula si girò con evidente riluttanza e seguì fuori dalla stanza Lisa che salutò con la mano. Paula no. «Forse più tardi scenderemo anche noi così potremo continuare a discutere!» gridò loro dietro Billy. Mona non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. Billy si voltò verso di lei imitando lo sguardo truce di Paula. Sembrava un gorilla senza peli e non troppo intelligente. «Ti prego, basta!» gridò Mona. Rideva fino a star male. Non avrebbe sopportato un'altra di quelle smorfie con la mandibola pendula. «Sei incorreggibile» concluse. «Proprio così» disse Billy.
La porta dell'appartamento si chiuse sbattendo. Sentirono dei passi che scendevano le scale. La risata scomparve in un soffio d'aria rarefatta. Mona fu travolta dalla consapevolezza di essere rimasta sola con Billy. Aveva giurato a se stessa che non sarebbe accaduto mai più. Ma questa... questa persona era Billy e al tempo stesso non lo era. Una situazione difficile da affrontare. Non sapeva assolutamente cosa fare. Billy percepiva il vantaggio che aveva e questo le dava un po' fastidio. Mona sentiva però che Billy si era conquistato quella sua nuova sicurezza. Se non avesse rotto con lui, se le cose non si fossero incasinate fino all'esasperazione, avrebbe reagito immediatamente e spontaneamente con gioia e con orgoglio. Erano la repentinità, il tempismo tremendamente fuori luogo e al tempo stesso tremendamente appropriato, che la costringevano a vagare nel mare violento delle sue emozioni. «Ti va di parlare con me adesso?» le chiese. Il pagliaccio era scomparso. L'uomo che amava era tornato. Per la prima volta da secoli, rifletté Mona. Maledizione. «Va bene, per questa volta farò uno strappo.» «Grazie.» Billy sorrise, questa volta con prudenza, e le si avvicinò. «Posso sedermi?» «Certo.» Si sedette. Senza toccarla. «Lasciami cominciare» disse. Mona annuì. «Cercherò di non farla lunga, così potremo esaminare meglio la situazione da ogni lato. E comunque è dura.» Sospirò e si asciugò delle vere gocce di sudore dalla fronte. Poi la inchiodò con lo sguardo. «Vedi, le cose stanno così. Stavo andando a fondo. E tu mi guardavi affondare. Cercavi di aiutarmi, ma non potevi. Tu salivi, io andavo a fondo e le tue mani non potevano stringere le mie.» Negli occhi di Mona spuntarono delle lacrime. Avrebbe voluto che scomparissero, ma non volevano saperne di andarsene. Si girò per un istante verso la televisione. Something For Nothing stava per finire. Si allontanava danzando da Dave e se ne andava chiudendo la porta sulla quale luccicavano delle lettere minuscole che dicevano: Dave Hart and the Brakes, "Something For Nothing", SOMETHING FOR NOTHING, Griffin Records. Era un momento talmente intenso e così stupidamente appropriato che non impedì alle lacrime di scenderle giù per il viso. Non alzò neppure un dito per asciugarle.
«Amore» disse Billy. Allungò la mano per asciugare le scie bagnate sulle sue guance. Mona si ritrasse per un istante ma non lo fermò. Le dita di Billy si ritrassero umide. Se le portò alle labbra e le assaporò con la punta della lingua. «Spegni la televisione» singhiozzò Mona. «Buona idea.» Billy allungò nuovamente la mano e con le dita ancora bagnate girò la manopola. Lo schermo si oscurò. Il silenzio calò nella stanza come un panno di seta gelida. «L'uomo che amavi non stava andando a fondo» disse Billy. «L'uomo che amavi non sapeva organizzarsi per un cazzo. Non era una stella del rock, ma non era nemmeno un fallito. Aveva ancora il suo orgoglio. E lottava per arrivare a qualcosa...» «L'uomo che amavo eri tu» disse lei facendo fatica a parlare. Fiumi di lacrime le scendevano ora dagli occhi. Non era poi così terribile. Era un dolore che riusciva a sopportare. «Sì, e ora sono tornato» disse Billy. «E non voglio più andare al tappeto. Lo giuro su Dio, Mona.» «Mi piace sentirti dire il mio nome.» «Mona... Mona.» Billy sorrise. Mona sorrise. Lui le prese i capelli fra le mani. Una sensazione incredibile. Le massaggiò le tempie. Lei si sentiva morire. «Billy Rowe» disse. «Voglio essere il tuo uomo. Voglio essere un uomo. Farò tutto quel che posso in questo mondo di merda per non perderti. Mi credi?» «Voglio crederti.» «Mi basta.» Anche Billy aveva cominciato a piangere. Mona si chinò verso di lui e gli leccò le lacrime dal volto. Lui leccò le lacrime sul viso di lei. La conversazione si interruppe. Il pavimento era nudo. Ma ora non aveva alcuna importanza. Per niente al mondo Mona avrebbe interrotto quell'istante. Si distesero per terra, lui appena sopra a lei. Si baciarono, quasi freneticamente. Billy si ritrasse per un istante, poi si avvicinò nuovamente a Mona, questa volta con maggiore delicatezza. Provarono la magnifica esperienza del tempo che si fermava. Le mani di Billy sul viso di lei. Le mani di Mona sulla schiena di lui. Mona passò piano la mano sul davanti, sul petto di Billy, sul suo stomaco e infine si fermò in mezzo al bacino. Era duro come un martello e soffice come seta. Mona impazziva di gioia
nel toccarlo e continuò a frugare sotto la cintura. Billy mugolò di piacere nella sua bocca e abbassò le mani fino a percorrere lievemente la rotondità dei suoi seni, i suoi capezzoli. Anch'essi erano al tempo stesso duri e soffici. Li mise dolcemente alla prova. Ora la questione essenziale era liberarsi dei vestiti. La cosa migliore da fare era toglierli dalla circolazione. Mona si occupò per prima cosa della cintura di Billy, slacciandola con grazia cieca. Billy fece scendere le mani fino alla vita di Mona per abbassarle i suoi pantaloncini da ginnastica sulle caviglie. Mona sollevò i fianchi in segno di collaborazione e attese che essi si staccassero completamente da lei. Poi aprì abilmente la lampo dei pantaloni di Billy ripetendo il gesto che lui aveva appena fatto su di lei. Quando i pantaloni gli furono arrivati alle ginocchia, Billy si tolse gli stivali con un calcio e il resto dell'operazione procedette senza impedimenti di sorta. Poi passarono alla parte superiore. Nessun problema. Né Mona né Billy indossavano un reggiseno, il che accelerò notevolmente le cose. Entrambi iniziarono a sudare. A nessuno dei due importava niente. Anzi, ora avevano un altro liquido di cui occuparsi. Le labbra di Billy si fecero strada dalle labbra al collo di Mona, poi dal collo alla gola, dalla gola alla spalla all'ascella al capezzolo sinistro. Mona emetteva dei piccoli mugolii che si intensificarono quando Billy passò alla parte destra del suo seno. Poi scese giù. Giù. Giù. Ci fu un breve intervallo, fra il momento in cui le labbra di Billy raggiunsero le calde pieghe del suo corpo e quello in cui Mona venne per la prima volta, in cui i brutti tempi passati sfrecciarono nella sala di proiezione privata della sua mente. Era come cercare di guardare i segnali stradali a centocinquanta all'ora. Non significavano niente. Non avevano niente a che vedere con il fatto che lui la stava facendo impazzire con le dita e le labbra e la lingua e che il suo corpo ben allenato era inerme ora non poteva fare altro che tremare e fremere e tutta la realtà si era incanalata giù per le dita e la lingua e le dita e la lingua e la bestia calda umida dolce tuono e fiamme che usciva fuori ora lasciava le sue profondità più nascoste e saliva fino a incontrare e unirsi con la lingua di lui e gli inondava la bocca con grida di estasi liquida... ... e mentre veniva i brutti tempi passati erano scomparsi, non erano mai esistiti, non esisteva niente tranne la realtà orgasmica della sua carne e la
tecnica dolce e inesorabile di Billy che la incalzava, esplorando e accarezzando ogni angolo nascosto e segreto di desiderio delle sue labbra... ... e poi la cavalcata era finita, il lungo aggraziato volo che sembrava eterno finiva e si atterrava sul pavimento di legno duro, i muscoli si scioglievano, la tensione usciva sibilando da lei come il vapore da una valvola di sicurezza. Mona si accorse che riusciva nuovamente a parlare ma decise di non farlo. Billy era ancora intento a giocare con il suo corpo e Mona pensò che avrebbero avuto tempo più tardi per parlare. Tutto il tempo del mondo. Poi Billy si fermò, alzò gli occhi e le sorrise al di là del solido altopiano del suo stomaco, incrociò il suo sguardo fra le vette gemelle dei suoi seni. «Mmmm» disse Billy. «Mio caro, hai la lingua più abile dell'universo.» «Senti chi parla.» «Devo provartelo?» «Ti sfido a farlo. Anche due volte, se vuoi!» «Lasciami riprendere fiato...» «Non preoccuparti, lo riprenderò io per te.» Strisciò sopra di lei e sigillò le sue labbra con un bacio. Mona si sentì in bocca il suo stesso sapore. La bestia in lei si risvegliò gridando il nome di Billy. «Amore» disse spostando delicatamente le labbra. «Non so come ho potuto lasciarti andare via.» «Con un piccolo aiuto da parte mia.» «Sì, ma...» «Lasciamo perdere. È roba vecchia ormai.» La baciò una volta, rapidamente, poi si ritrasse sorridendo. «Se non sbaglio abbiamo una gara impegnativa che ci attende.» «Ah, certo.» Scivolò via da sotto il corpo di Billy e lo rovesciò sulla schiena. «Siamo al secondo tempo. Si cambia campo» disse con il tono di un telecronista sportivo. Billy cominciò a ridere e fu allora che le labbra di Mona si strinsero intorno a lui. «Oh!» esclamò Billy restando senza fiato. Mona si accorse che lui si irrigidiva. «Vedo che non fai altro che confermare quel che sostenevo.» Ma Mona decise di non rispondere e di continuare a tenere la bocca affaccendata altrove. Era il modo migliore e più bello per dirgli quanto lo amava e come era felice che fosse tornato e quanto era orgogliosa del suo ritorno dalla terra di chi si era perduto per sempre. E per un breve istante rimase disorientata perché era pronta a giurare di
aver sentito la voce di lui nella propria mente che le sussurrava anch'io ti amo, Mona. Giocare per vincere Sei meno un quarto di un nuvoloso martedì pomeriggio. Billy sorrideva. Era stata una buona giornata, da ogni punto di vista. L'incasso era stato fenomenale. Aveva in programma un altro incontro a tarda notte con Mona. Quando aveva cominciato a suonare si sentiva al meglio della forma e da quel momento in poi non aveva fatto altro che migliorare. La reazione del suo pubblico non si era fatta attendere. Ma il motivo fondamentale del suo sorriso era puro e semplice autocontrollo. Una volta tanto, rifletté, mi sembra di riuscire davvero a controllarmi. Una volta tanto... Era cominciato tutto alle cinque e mezzo della mattina, quando i primi, tenui tentacoli dell'alba iniziavano a muoversi nel cielo. Billy aveva lasciato Mona e la loro torrida riconciliazione con la promessa che la notte seguente avrebbero fatto molta altra strada insieme. La passeggiata da Chelsea fino a casa era stata per lui fonte di ispirazione più che di fatica: qualcosa dell'aroma di Manhattan all'alba lo aveva riempito di un senso di realizzazione imminente. Sentiva la città nelle sue mani. Era arrivato a Stanton Street, aveva portato fuori Bubba e preso gli attrezzi del mestiere. Poi era saltato su un taxi fino a South Ferry, si era fatto un caffè e un toast e si era procurato un posto eccellente sul suo traghetto preferito per Staten Island, in attesa dell'ora di punta. Era un ottimo modo per iniziare la giornata: tre ore buone avanti e indietro di porto in porto, a cantare e suonare di fronte a una nave gremita di ascoltatori catturati dalla sua musica. Era anche un percorso molto remunerativo ma da tempo Billy non trovava più l'intraprendenza necessaria per tirare via il sedere da sotto le lenzuola e correre a farlo. Ma oggi era diverso. Tutto era diverso. Passata l'ora di punta, sei giri completi e quarantasette dollari e cinquanta più tardi, si diresse con calma verso Liberty Plaza e avvistò un posticino niente male, diagonalmente alle ombre gemelle del World Trade Center. Alle undici e mezzo stava allegramente cantando la serenata al flusso infinito che lasciava il distretto finanziario e i cubicoli isolati con l'aria condizionata per godersi una mezz'ora di libertà. Billy doveva competere per far
spiccare la sua musica su un'altra mezza dozzina di persone, complessini che suonavano jazz, suonatori bianchi di funky, attori di strada e prestigiatori. Ma non c'era confronto. Decisamente. Billy suonava e cantava come un angelo, e la folla era tutta dalla sua parte. E anche i soldi. Alle due, Billy era in trionfo. Smise di suonare mentre gli ultimi impiegati tornavano in ufficio dopo la pausa per il pranzo e si fermò ad accettare le congratulazioni e qualche spicciolo da un gruppo di telefoniste. «Siamo in ritardo di venti minuti, il capo ci ucciderà, ma è tutta colpa tua!» gli aveva detto una rossa particolarmente formosa. Aveva resistito alla tentazione di farsi dare il numero di telefono per poi rispondere in privato alle sue domande. Alle tre si trovava di nuovo a Stanton Street. Un paio di fette della pizza di Ray, una doccia tranquilla, un cambio d'abito e mezz'ora a giocare con il suo amichetto ricoperto di peli gli avevano lasciato il tempo sufficiente per raggiungere Washington Square e incrociare la folla che la sera si andava a divertire. Mentre si preparava, non poteva fare a meno di pensare a come quel giro funzionasse alla perfezione. Sarebbe stata un'ottima abitudine da prendere, l'equivalente di un'occupazione fissa per un artista in lotta per emergere. Quel giro l'aveva progettato per la prima volta l'estate precedente con Junior, il suonatore nero di sax che era suo amico. Junior si era mostrato subito entusiasta dell'idea. Ma oggi era la prima volta che Billy la metteva in pratica. E ci si sente davvero bene, pensò. Ci si sente benissimo quando si tiene la situazione sotto controllo. Se vado avanti così, riuscirò a pagare Albert e potrò continuare a lavorare alla mia musica. Come ha detto quel tipo? Posso fare tutto. Si avviò verso il perimetro orientale della vasca che era il cuore del parco, con l'amplificatore mimetizzato subdolamente sotto il giubbetto a causa di un recente decreto contro l'inquinamento acustico. La legge veniva fatta rispettare in modo alquanto selettivo, a seconda di come girava al pubblico ufficiale: non si poteva mai sapere se e quando avrebbe colpito. Le sue cose erano sul marciapiede davanti a lui: un microfono malconcio ma adattissimo all'uso, in precario equilibrio su un'asta traballante. Non era molto, ma era tutto quello che gli era rimasto dopo il furto che aveva subito l'anno prima.
Non preoccuparti, si disse per l'ennesima volta, le cose miglioreranno certamente. Una sfilza di costose attrezzature per migliorare la qualità del suono gli danzavano nella mente mentre attaccava con la prima parte del suo repertorio: un insieme selezionato con cura di pezzi dei Beatles, di Jackson Browne e degli Steely Dan. Billy sapeva per esperienza che la parte introduttiva richiamava sempre al massimo l'attenzione del pubblico. Si sentiva bene quella sera. Avrebbe potuto suonare di tutto. Al diavolo, si disse. Potrei suonare perfino Stairway To Heaven. La musica cresceva di volume. Cominciava a formarsi una piccola folla. E Billy sorrideva. Alle sette e un quarto Billy era in uno stato d'animo che rasentava il panico. Si aspettava che si sarebbe fermata molta gente. Si aspettava un certo entusiasmo e quella specie di euforia che derivava dall'aver colto il punto giusto della sensibilità del suo pubblico. E inoltre, si aspettava anche che nella custodia della chitarra si accumulassero un sacco di soldini, con Bubba che se ne stava come ipnotizzato ad ascoltare il tintinnio delle monetine che cadevano sulle monetine, sui bigliettoni e su altre monetine. Ma il ragazzo non se lo aspettava proprio. E il ragazzo era veramente forte. Nella vita di un musicista di strada è normale che qualcuno si avvicini e inizi ad accompagnarti con un altro strumento. C'è sempre qualcuno che inevitabilmente sbuca fuori e vuole suonare con te. A volte hanno già uno strumento in mano. Altre volte vogliono solo cantare. Il guaio è che la maggior parte di loro ha la sensibilità musicale di un rimorchio per trattore pieno zeppo di maiali, lanciato a centoventi all'ora, e immancabilmente se ne rimangono vicino a te fino alla fine del tuo numero, facendo scappare il pubblico e suggerendoti di fare coppia fissa. A volte ti puoi ritenere fortunato se tutto quello che vogliono è metà dell'incasso. E così quando il ragazzo si staccò dalla folla con un flauto malconcio in mano, Billy contemporaneamente trasalì e ringraziò il Signore perché non si trattava di uno strumento più rumoroso. Se le cose andavano proprio male, poteva sempre alzare il volume e cacciare l'intruso sovrastandolo col suono della chitarra. Ma il ragazzo era FORTISSIMO. Non poteva avere più di quindici anni e sembrava uscito da Menudo, ma riusciva ad andare dietro a ogni minima sfumatura di tono che Billy seguiva. Si metteva da parte quando Billy can-
tava, lo incitava fra un pezzo e l'altro e seguiva i cambiamenti di tonalità senza neppure guardarlo. Se ne stava piegato sopra il suo tubo d'argento annerito e ci soffiava dentro come Ian Anderson dei Jethro Tull, dondolando avanti e indietro e accompagnando con i movimenti sinuosi del suo corpo il pulsare delle corde di Billy. Dopo un po' Billy smise con le canzoni, limitandosi a suonare. Passava da un accordo all'altro, cambiava tonalità senza preavviso e senza sapere con certezza dove sarebbe andato a finire. Era musica di strada improvvisata ed era magia allo stato puro. Il ragazzo lo seguiva nota dopo nota. Il suo pubblico lo adorava. Billy si allontanò dal microfono e lasciò la scena al ragazzo. La musica volava sempre più in alto. La folla aumentava. Erano completamente circondati, ormai, annidati in una delle nicchie formate dalle spalle di un arco, con gente davanti, dietro, sopra e sotto di loro. Tutti rapiti. Tutti intenti ad ascoltare. Il parco si stava trasformando in un vortice benevolo di carne che si muoveva al ritmo della musica. Poi Billy alzò lo sguardo mentre le mani si muovevano da sole e vide un guardia del parco che arrivava come un lampo verso di loro su una macchinina elettrica modificata. Nella sua mente passò come un fulmine la faccia del buon vecchio Max Fogel che sbucava da dietro le quinte alla manifestazione di Three Miles Island; e gli venne in mente che ancora una volta si trovava al centro di qualcosa di più grande di tutti quelli che erano radunati lì. C'era energia intorno a lui, in dosi stupefacenti e, se finiva male, la situazione poteva diventare veramente pesante. Il ragazzo si girò verso di lui, con i grandi occhi pieni di rammarico. Continuava a suonare, ma attraverso il flauto si sentirono distintamente le parole: «Oh, merda». Billy si mise a ridere e continuando a suonare disse muovendo le labbra, rivolto al ragazzo: Lascia fare a me. Sapeva cosa doveva fare. La guardia stava blaterando qualcosa nel suo walkie-talkie ai margini della folla. Una macchina della polizia stava arrivando dalla Quinta Avenue diretta verso di loro, rispondendo al richiamo della guardia. La folla continuava a ondeggiare. La guardia iniziò a farsi largo, lasciando vaghe vibrazioni negative sulla propria scia. Billy sentiva crescere la musica, accorgendosi che stava per raggiungere il culmine. Si chinò sulla chitarra con le dita che correvano come impazzite, salendo e scendendo lungo il manico mentre il ragazzo soffiava nel flauto come un pazzo, trillando quando cambiava gli accordi, crescendo di intensità a ogni
frazione di secondo... ... ed esattamente in quell'istante, nel momento ideale, con un rapido sguardo di conferma, smisero insieme di suonare; Billy lasciò cadere una cascata di tenui suoni armonici, il ragazzo un trillo da togliere il respiro. Perfetto. La folla andò in estasi. Sembrava di stare al Madison Square Garden. L'applauso era assordante. La gente cominciò ad accalcarsi intorno a loro, a gettare monetine, a stringergli le mani e a dare pacche sulla schiena e dire siete fantastici, voi due, da quanto tempo suonate insieme, perché non avete mai suonato insieme prima d'ora, Dio mio, è stato incredibile... ... e poi arrivò l'agente che si faceva forte della sua autorità, pronto a emettere il suo ultimatum. Billy lo fissò negli occhi e spinse, appena un poco. Lo sguardo dell'agente divenne opaco. Provocherà un casino infernale, agente, pensò Billy reprimendo la voglia di sghignazzare. Poi gli mandò un messaggio dritto nel cervello e lo sentì ripetere dalle labbra dell'agente. «Mi scusi» disse. «Volevo solo dirvi che siete davvero grandi.» «Grazie» disse Billy con grande espansività. Il ragazzo era sbalordito. Gran parte della folla reagì allo stesso modo. «Nessun problema» proseguì l'agente con lo sguardo completamente vacuo. «Potete continuare per tutta la notte, per quel che mi riguarda. Siete grandi.» La pattuglia intanto, vedendo che tutto era sotto controllo, proseguì tranquillamente. «Grazie di nuovo» disse Billy e lasciò la presa. La guardia apparve confusa per un istante, poi sorrise debolmente e si diresse barcollando verso il suo veicolo elettrico. «Cos'è successo?» chiese il ragazzo ad alta voce. Billy si voltò, vide lo sguardo vitreo negli occhi scuri del ragazzo e comprese per la prima volta da quando avevano iniziato a suonare insieme che tutto quello che era successo era opera sua. Niente di cui essere fieri. Un semplice dato di fatto. Quel ragazzo non aveva mai suonato così bene in tutta la sua vitaccia. Sono stato io a farlo suonare in quel modo! Ma non era tutto. Gli occhi del ragazzo erano vitrei, questo sì, ma non completamente svuotati come quelli della guardia. C'era una luce nuova dietro di essi, che risplendeva come in preda a un'intuizione improvvisa.
Forse non aveva mai suonato così prima di allora, ma sarebbe riuscito a rifarlo. Questo gli era chiaro come il sole. «Oh, niente» rispose Billy strizzando l'occhio e alzando il pollice in direzione della guardia. «È diventato uno dei nostri più accaniti sostenitori.» Il ragazzo annuì come qualcuno a cui vengono date delle informazioni stradali in una lingua straniera: troppo imbarazzato per ammettere di non aver capito niente. Dovrà imparare a vivere senza saperne di più, rifletté Billy. Gli auguro tutto il bene possibile. Sono grandi, si disse. Christine Brackett era rimasta a guardare i due musicisti in mezzo al gruppo dei loro ammiratori dopo quel che era successo. E qualunque cosa fosse successa, ne era certa, si trattava di qualcosa di grandioso. Da molto tempo non vedeva o sentiva qualcuno per strada che valesse la pena fermarsi ad ascoltare. A Washington Square Park, poi, erano secoli. Era terra bruciata, ormai: la mecca di chi era ancora risoluto a vivere a piedi nudi nel passato. O di chi era cresciuto troppo tardi, pensò. Non si poteva certo fare a meno di notare che un sacco di quegli hippy e di quegli spiriti liberi che se ne stavano sdraiati sul prato a fumare erba erano ancora dei mocciosi quando il Movimento si trovava all'apice della notorietà. Ma nonostante questo riteneva un suo dovere passare di tanto in tanto da quelle parti. Non si sa mai cosa può spuntare fuori. Ed è bene vedere cosa ti sei lasciata alle spalle, aggiunse. Ti aiuta a capire dove sei diretta... Nel giro di dieci minuti Christine avrebbe trovato un telefono pubblico per informare Roger che quello era il suo giorno fortunato. Roger era il suo capo, il suo amante saltuario e la più grande palla al piede che aveva sul lavoro. E Roger era nei guai. Il buon vecchio Roger Ferris, il ragazzo fantastico che non ne sbaglia una, era nei guai fino al collo. Roger procurava musicisti alla Polynote Records e le sue ultime tre scoperte, pezzi da novanta, investimenti sicuri al cento per cento, erano precipitati come meteore a tempo di record nel dimenticatoio, non prima di aver prosciugato di migliaia di dollari le casse della Polynote a forza di sniffate. Le alte sfere, al momento, non erano particolarmente soddisfatte del vecchio Rog: girava voce che il suo sedere corresse un pericolo mortale. Il che non preoccupava particolarmente Christine se non fosse stato
che... Roger era il suo capo. Roger era il suo amante. Più o meno. E soprattutto Roger sapeva essere all'occorrenza e generalmente era un implacabile e insolente figlio di puttana; e se lo defenestravano, avrebbe cercato di trascinare con sé chiunque si trovasse a portata di mano. E soprattutto lei, prima di ogni altro. Quindi Christine Brackett, donna elegante e intelligente di trentaquattro anni, si tirò indietro la chioma bionda lucente e mechata alla moda, accompagnò un biglietto da cinque al suo biglietto da visita e si avvicinò ai due musicisti con quel cane dall'aria scema legato alla custodia della chitarra. Sulle sue labbra splendeva il sorriso dei vincenti. Ed era pronta a piantare i suoi ami nella loro psiche ignara con la sua parlantina di prim'ordine. Con il giusto produttore e un buon gruppo d'accompagnamento, potevano essere proprio loro la nuova ondata nel turbolento mare dell'industria musicale. E potevano salvare il culo di Roger, che era così in pericolo. E al tempo stesso anche il suo. Inoltre, se c'era qualcuno che meritava un'audizione, erano quei due. Erano grandi. Camera da letto. Interno Bip bip. La sveglia di Mona annunciò doverosamente l'ora. Le due del mattino. Bip bip. Fatto il suo dovere, riprese a misurare lo scorrere dei microsecondi dalla sua postazione sul comodino della camera di Mona con le lancette che brillavano nel buio verso il ventilatore sul soffitto. Nessuno le badò minimamente. Ed essa ricambiò la loro indifferenza. Nel letto, il tempo si era fermato. Billy era sdraiato sulla schiena, con una mano stretta alle sbarre della testata del grande letto d'ottone di Mona come se si trattasse di una questione di vita o di morte. Le palpebre gli scivolarono sugli occhi ma riusciva ugualmente a vedere con chiarissimo nitore: le sue braccia avvinghiate attorno alla nera criniera della testa di Mona, i suoi piccoli capezzoli che si indurivano a contatto con la pelle liscia e tesa di lei, che saliva e scendeva saliva e scendeva e gli appariva in tutto lo splendore del technicolor attra-
verso la parete sottile delle palpebre. Mona dava il ritmo, teneva sotto controllo l'orizzontale e il verticale. Billy non poteva fare altro che assecondarla e aiutarla mentre lei lo scaraventava ancora una volta dentro quel Paradiso di frutti color rubino, ancora e poi ancora e poi ancora. L'aria era pregna di estasi bestiale, di ritmi funky, di aromi che si scontravano. Si teneva stretto alle sbarre della testata fino a farsi sbiancare le nocche, soffocando le grida e stringendo i denti e lottando come un pazzo per impedire che le sue palle, come era inevitabile, scaricassero il loro contenuto, per far tacere l'ospite matto che aveva nel cervello e che alla fine della partita avrebbe detto signore e signori, è giunto nuovamente il momento che tanto aspettavamo! E un fremito li attraversò all'unisono quando quel momento giunse e l'assalto furioso dell'orgasmo venne siglato da un lungo bacio delle loro anime. I loro corpi restarono uniti, bagnati di sudore e del dolce nettare della lingua. Respiravano a fatica, felici ed esausti. I loro muscoli vibravano e un fremito riecheggiava in loro come colpi di fucile nelle Caverne di Carlsbad. «Devo... chiederti una cosa» riuscì a dire Mona. Billy sorrise. «Credo... di sapere di cosa si tratta.» Il suo respiro non era ancora tornato normale. «Come mai funziona così bene tra noi, indipendentemente da tutto il resto che ci succede? Riesci a trovare una spiegazione?» «No. Ma non ho intenzione di lamentarmi.» Mona annuì, poi lentamente si staccò da lui. «Oh» dissero contemporaneamente. Mona ricadde sulla schiena a fianco di Billy e si mise a fissare il ventilatore sul soffitto che sibilava senza fare rumore. Una gradevole brezza rinfrescava i corpi nudi. Quell'istante di silenzio passeggero era dolce e prezioso. «Terra chiama Billy» disse infine Mona a bassa voce. Si girarono di lato fronteggiandosi. Le loro dita si tesero dolcemente a cercare la pelle dell'altro. «Non voglio smettere di toccarti» disse Billy. «C'è qualcosa che ti costringe a smettere?» «Non voglio smettere mai mai mai.» «Potrebbe essere un po' scomodo mentre ballo.» «Che ne diresti di un trapianto cutaneo?» «Mio Dio.» Mona sospirò e per un istante si girò dall'altra parte. «Sai, amarti non è la cosa più semplice del mondo.»
«Niente si dà per niente.» «E niente nemmeno qui dentro» disse Mona puntandogli un dito sulla fronte. Billy fece una faccia da mongoloide. Mona roteò gli occhi e distolse lo sguardo. Quando lo riportò su di lui, la sua finta esasperazione si era trasformata in preoccupazione autentica. «Hai paura di qualcosa, non è vero?» le chiese Billy sommessamente. Mona esitò un momento prima di annuire. «Vuoi parlarmene?» «Non lo so. Lascia che ci pensi per un minuto.» «Forza, la confessione è un'ottima cura per lo spirito.» «Anche la meditazione interiore.» «Anche un coltello elettrico bene affilato. Dei tre, continuo a preferire la confessione.» «Va bene, va bene.» Si girò di colpo. «Vuoi proprio sapere di che cosa ho paura?» «Sì, è più o meno questo che vorrei sapere.» «Ho paura di quello che ci succederà. Sul serio. Sembra che ogni cosa intorno a noi cospiri per separarci... e l'amore sia tutto quello che abbiamo davvero in comune. E non so se basta, da solo, a tenerci uniti.» Billy si lasciò sfuggire un enorme sospiro. Mona si girò verso di lui, ma ora fu Billy a girarsi sulla schiena, lo sguardo incollato alle pale rotanti del ventilatore. «Mi sto semplicemente sforzando di essere realista» proseguì Mona. «Sono a un punto di svolta fondamentale della mia vita...» «Anch'io, della mia.» «... e non so che cosa ha in serbo per me il futuro» continuò Mona senza fare caso all'interruzione. «Dave ha accennato alla possibilità di portarmi in tournée con lui. Che succede se sto fuori quattro o cinque mesi? Te la senti di startene tranquillo ad aspettarmi?» «Lo farei in ogni caso.» «Ma perché lo dovresti fare?» «Perché la donna che amo ha qualcosa di importante da fare e io, da parte mia, ho un sacco di cose da fare e perché diavolo non dovrei aspettarti? Dio mio, a dire il vero non credo che avrei niente di meglio da fare!» «Non perdere la calma.» «E chi cazzo perde la calma?» chiese Billy. Poi scoppiò a ridere. Lei non lo imitò. Non era affatto divertente. «No, tesoro, stai a sentire» riprese Billy. «Non so fino a che punto il fatto di amarmi ti limiti. Non dovrebbe andare così. Tutto quello che pretendo da te è il diritto di precedenza e
anche in questo caso solo fino a che anche tu lo vuoi. Se nel frattempo ti capitasse di conoscere qualcuno, basta che tu non mi dica chi è o dov'è perché in tal caso dovrei farlo fuori.» «Come sei comprensivo.» «E anche gentile.» Una pausa. «È tutto?» «Non so, io...» «Si tratta di Dave?» Una lunga pausa. «Sì, c'è questa piccola questione da risolvere.» «È pazzo di te, vero?» «Vero.» «E tu?» «Ummmm...» Le parole un po' anch'io si formarono nella sua mente. Ma a Mona parvero troppo ordinarie e si rifiutò di pronunciarle ad alta voce. Ma non per questo scomparvero. «Ho sentito» disse Billy con un sorriso triste sulle labbra. «Cosa?» «Che dicevi "un po' anch'io".» «Come?» Per un istante un terrore freddo la invase tutta. Poi pensò che forse il suo viso l'aveva tradita. «Così hai imparato a leggermi nella mente, eh?» disse, fingendo indifferenza. «Ho molti poteri, mia cara, dei quali non sei affatto a conoscenza.» «Come il potere di fare congetture.» «Esatto.» Le fece l'occhiolino con aria cospiratrice e amichevole. «E che cosa faresti se ti dicessi che non voglio Dave... e che non voglio nessun altro tranne te?» «Ne sarei entusiasta, ovviamente» rispose Billy sorridendo. «Ma saprei che è una cosa che potrebbe anche non durare per sempre. L'hai detto tu poco fa: non sappiamo quello che ci riserba il futuro. E io ne ho di strada da fare prima che il mio conto in banca possa provvedere per me e per te.» «E allora?» «Dave può farlo subito.» «Te lo ripeto» disse Mona un po' alterata. «E allora?» «Allora io sono uno sfigato come te. Se l'amore bastasse, saremmo già sposati. Ma l'amore deve essere sostenuto dai fatti, sia per il bene dell'altro che di noi stessi. «Io non ho la minima possibilità di raggiungere il successo, al momento. Tu sì. Dave ancora di più. Se vuoi essere realista, devi accettare il fatto che Dave può prendersi cura di te molto meglio di me. Può aiutarti più di
quanto possa farlo io. Direi a occhio e croce che ha 87.000 cose di vantaggio su di me». «Ma non mi ama come mi ami tu.» «E come ti ama?» «Non sono certa che quel che prova per me si possa chiamare amore. Lui dice che mi ama...» «Ma lo dice anche a tutte le altre?» «All'incirca è così.» Mona scoppiò a ridere. «No, non è vero. Di solito le attira nel suo letto, regala loro uno dei suoi dischi con autografo e poi le saluta. Ciao, ciao. O almeno così ho sentito dire.» «Ma con te si è comportato più seriamente...» «Che cosa ne sai?» lo interruppe Mona bruscamente. «Sembra quasi che tu voglia cedermi a lui. E la cosa non mi piace affatto.» «Sto solo cercando di essere realista.» Billy ebbe il buon senso di non imitare la voce di Mona. «E voglio che tu sappia una cosa.» «Che cosa?» «Ti voglio.» I suoi occhi andarono a trafiggere quelli di lei. «Ti vorrò sempre. Finché non morirò.» Mona cercò di distogliere lo sguardo. Lui non glielo permise. Le sue mani le tennero ferma la testa. «E farò tutto quel che è in mio potere per meritare te e riuscire a tenerti vicino a me. Ma non voglio essere ritenuto responsabile di averti trascinato a fondo con me.» «Va bene.» «Se vai con la rock star, lo capisco.» «Va bene.» «Mi ucciderò, ma lo capisco.» «Io ti ucciderò!» esclamò Mona afferrandolo alla gola con entrambe le mani. Billy rotolò sulla schiena e lasciò penzolare un pezzo di lingua fuori dalla bocca. Ridacchiando Mona continuò a stringere. Billy emise un gorgoglio e agitò le braccia. Mona si gettò su di lui e gli baciò le labbra in silenzio. «Diventa una rock star» gli sussurrò quando le loro bocche si staccarono. «Hai tutto quello che serve per diventarlo. Io credo in te. Quella tipa della Polynote crede in te. Tutti quelli che ti conoscono davvero credono in te...» «Che altro mi serve?» «Quarta ripresa.» «Oddio» gemette Billy, il viso contorto in una smorfia di finto terrore. Il
suo pene rattrappito tremò in segno di solidarietà con lui. «Non riuscirà più a suonare il violino.» «Stai a vedere» rispose Mona prendendoglielo in mano. Dopo un paio di mosse esperte, Billy emise dei suoni che ignorava di possedere nel suo repertorio. Paganini si risvegliò per la quinta volta quella notte. Per correttezza, Billy affondò un paio di dita dentro di lei. «Non fermarti» gemette Mona. Il suo viso ardeva, di profilo accanto a quello di Billy. «Mai e poi mai» convenne Billy. Poi vennero un'altra volta insieme. Fino in fondo. Come se fosse stata l'ultima volta. Christine Dopo sei ore e diversi Old Peculier, a Christine venne finalmente un'idea geniale su come gestire la questione. Tutti i suoi tentativi di raggiungere l'irreperibile Roger Ferris erano falliti e non aveva la minima intenzione di lasciare un messaggio così importante sulla sua segreteria telefonica. Aveva deciso quindi di procedere da sola, convocando immediatamente una riunione con se stessa come unica partecipante al fine di stabilire una strategia per la promozione del prodotto che avrebbe fatto a Roger pelo e contropelo. Alle due e un quarto aveva buttato giù i principi basilari della campagna. Ma aveva in corpo anche qualche Old Peculier di troppo. Non che fosse ubriaca, ma il fumo e il rumore nel locale erano superiori alla norma. Che era già di per sé considerevole. Aveva gli occhi arrossati, non riusciva più a concentrarsi e la preponderanza di yuppy e yuppy in erba le faceva venire la nausea. Quando la porta si spalancò e altri cinque o sei di loro si precipitarono dentro, Christine decise che era ora di andarsene. Il pavimento era un po' più in pendenza di quanto si aspettasse. Sbandò appena ed evitando per un pelo una cameriera con un vassoio pieno si trovò davanti un terzetto di studentelli. La fissarono tutti per un istante. «La vita fa schifo» annunciò lei solennemente. «E alla fine si muore.» Sbiancarono visibilmente. Nessun problema. Il mondo andava avanti lo stesso. La cameriera era scomparsa e gli studenti si affrettarono a occupare il tavolo che lei aveva
lasciato libero. Forse, dopo tutto, era davvero ubriaca. No, pensò. Solo che quel posto era gremito in modo inverosimile, i tavoli erano strapieni di gente che sembravano lemming morti ai piedi di una scogliera. La clientela del Peculier era giovane in modo allarmante e normale in modo esasperante. Studentelli pretenziosi racchiusi nel loro bozzolo con i colori della loro università e uno spruzzo di laureati che avevano già subito una metamorfosi trasformandosi in yuppy. Comunque la prendesse, non riusciva a farsene una ragione. Era cresciuta in un'epoca in cui i giovani facevano almeno finta di pensare più agli ideali che ai capitali. Era stata un'era ingenua e balzana, ma almeno si trovavano anni luce più avanti di quello che ciascuno di questi androidi poteva offrire. Christine aveva trentaquattro anni: aveva raggiunto il pieno rigoglio della sua giovinezza durante la sfida psichedelica degli anni Sessanta. Era stata a Woodstock. Aveva vagato per il Village a piedi scalzi, con minuscoli puntini color porpora e il messaggio metafisico dell'amore che le esplodevano nel sistema nervoso come un tatuaggio fosforescente. Si era innamorata della musica che sembrava offrire molte cose: la sensazione che esistesse davvero una direzione da prendere, un'unità di tutte le cose. La sensazione che ci fosse ancora speranza. Aveva impiegato dieci anni per ricomporre i pezzi della sua vita. Ma ora si era rimessa in riga, si era fatta strada nel mondo del lavoro, aveva accettato i cambiamenti del gusto e si era adattata ai tempi nuovi, corollario inevitabile di ogni spinta in avanti. Era troppo giovane l'ultima volta in cui le cose erano cambiate radicalmente. Era determinata a esserci quando sarebbe successo di nuovo, ed era certa che non mancava molto. E aveva fatto di tutto per essere pronta, con una tenacia ostinata che avrebbe terrorizzato metà dei presenti in quel locale. Altri sei studenti dall'aria pulita e tutti uguali si precipitarono dentro mentre lei stava per arrivare alla porta. Li evitò e uscì nella notte. Erano le due e venticinque. La vita notturna del Greenwich Village si stava spegnendo. Incrociò pochi gruppetti sparsi di pedoni e qualche macchina mentre scendeva per Waverly, diretta verso Jane Street e l'accogliente casetta di arenaria dove viveva. I suoi lunghi capelli biondi risplendevano passando sotto i lampioni. Dopo le insegne e i neon illuminati della Miller e della Stroh's, erano la cosa più luminosa in circolazione. Era quasi arrivata a Jane Street e alla Nona Avenue quando le venne in
mente Roger e la pazza storia di sesso, droga e rock'n'roll nella quale si era ficcata. Il rock'n'roll le dava una grossa spinta: era splendido trovarsi dove succedevano le cose importanti, dove giravano i grossi nomi, anche se solo nella posizione periferica di un'impiegata del reparto amministrazione. Anzi, il fatto che fosse arrivata proprio lì dov'era, pensò, non era soltanto splendido, ma rappresentava un aspetto implicito del suo destino che si stava realizzando. E le droghe non erano un vero problema, non per lei, almeno. Era una storia che aveva superato anni prima. Ora per lei tirare la coca era come gettare nella tazza del cesso un lingotto d'oro e tirare lo sciacquone. In quanto alle sostanze psichedeliche... Come diceva Alan Watts? pensò. «Quando il messaggio ti è chiaro, riattacca il telefono.» La droga non la interessava più di tanto. Ma il sesso... Vide qualcosa davanti a sé che si muoveva. Le si bloccò il respiro mentre un ratto grande come una palla sbucava fuori da un tombino e attraversava la strada. Si infilò nell'ombra di un camion parcheggiato in sosta vietata e scomparve. «A proposito di Roger...» mormorò e le venne involontariamente da ridere. Dopo tutto, era lei che gli permetteva di continuare a comportarsi da quel testa di cazzo che era. In parte era colpa sua. Ma solo in parte. «È necessario» si disse. Considerava i bisogni distorti di Roger con lo stesso atteggiamento di un cavaliere alla ricerca del Graal che si fosse imbattuto in una palude durante la sua missione: una tappa sgradevole ma inevitabile del viaggio. E non bisognava fare caso alla puzza. Era per questo che permetteva a Roger di scoparla in vista di un avanzamento di carriera. Era per questo che doveva sorbirsi le corde e il lattice e quell'abominevole biancheria e le sue scialbe fantasie misogine. Ed era sempre per questo che aveva qualche timore a piantarlo, anche se il disgusto cominciava a travolgerla. Ormai c'era quasi, accidenti! Ancora un po' e avrebbe raggiunto una posizione di primo piano. Il suo destino si stava per compiere. Non è il boccone peggiore che ho dovuto ingoiare, rifletté, da quando ho capito su che fragili gambe si reggeva la palafitta dell'Utopia. A ripensarci meglio, aggiunse, forse è proprio il peggiore. Roger Ferris era un vero pezzo di merda e tutte le sue visioni luminose di un futuro radioso non potevano farle dimenticare questo semplice fatto. Era un tipo tranquillo, divertente e molto acuto, finché ignoravi quel che
c'era sotto; era bello e carismatico, finché ti attenevi alle apparenze; era bravo nel suo lavoro e sapeva come trattare gli altri se non erano suoi subordinati. Ed era meglio lasciar perdere com'era a letto. Dopo i primi trenta secondi, era molto difficile continuare a pensare che Roger fosse una persona amabile. Il massimo che si poteva fare era pensare che fosse parte integrale del panorama. Era lì, immutabile, e se volevi raggiungere un obiettivo dovevi scontrarti con lui o riuscire in qualche modo ad aggirarlo. Christine aveva trovato un modo per aggirarlo. Aveva funzionato, ma non era piacevole. Si chiese se un giorno sarebbe ancora riuscita a sentirsi pulita. Christine Brackett imboccò rapidamente Greenwich Street, ultima tappa del suo viaggio. Sentiva in fondo al cuore un ultimo brandello di Luce: un granello di innocenza che era rimasto limpido e brillante come una reliquia della sua gioventù e come un presagio del suo destino. Non era affatto entusiasta del mondo in cui viveva e la Luce che il centro del suo essere emanava diventava sempre più fioca, giorno dopo giorno. Ma non voleva morire. Così quando vide quell'ombra sbucare fuori all'improvviso da un piccolo cantiere, dietro di lei, sulla sinistra, il suo spirito si accese come un fuoco d'artificio. Cominciò a girarsi, il corpo teso per l'adrenalina e la voglia di farcela a non morire. I suoi occhi, come sempre, fissi sul suo assalitore con una lucidità psicotropa... La mano ricoperta da un guanto si strinse sulla sua gola, spremette tutta la riserva d'aria, tenendola dolorosamente ferma. In un lampo ebbe un immagine chiara e completa del viso: occhi incavati nascosti all'ombra della falda di un cappello, naso porcino, labbra tumide e doppio mento, un'ombra di barba, come quella di una vecchia matrona italiana, con una fossetta sul mento grande quanto la gomma infondo a una matita. Christine Brackett cercò di urlare ma dalla gola non le uscì alcun suono. L'assassino era stato bene attento. Il suo corpo rifiutava di muoversi, anche se il cervello e lo spirito le gridavano di scappare! Ma era troppo tardi. La lama saettò. Le fece un buco grande come un brufolo nella carne, poi penetrò dentro di esso, aprì la strada alla parte più larga e seghettata della lama che scavò un grosso solco increspato attraverso il polmone sinistro e le si conficcò nel cuore che esplose prima che il dolore avesse la possibilità di essere percepito dal cervello.
E quello fu solo l'inizio della fine. La città dei sogni e delle speranze Billy si svegliò da un sonno senza sogni alla melodia cadenzata dei camion dell'immondizia sulla Decima Avenue. Il passaggio dal sonno alla veglia fu netto e immediato. La mente limpida. Nessuno sforzo. Nessun pensiero in testa. La sveglia di Mona, che risplendeva ancora sul comodino, segnava le quattro e trentacinque. Gli addetti ai rifiuti erano rumorosi quanto i loro camion. Se ne fregavano del casino che facevano. Il loro, rifletté Billy, era uno dei lavori più odiosi e ingrati di tutta Manhattan, ma serviva a evitare che otto milioni di persone rimanessero sepolte sotto la montagna dei propri rifiuti. In una notte come le altre, Billy si sarebbe innervosito. Ma questa non era una notte come tutte le altre. I suoi sensi erano trasparenti come il cristallo. Il cigolio dei macchinari che stritolavano e inghiottivano i rifiuti. Perfino i commenti spiritosi o le lamentele degli uomini. I coperchi dei bidoni della spazzatura che sbattevano e le buste che venivano lanciate nei camion. Il rumore caratteristico dei motori. La gomma che strideva sul cemento umido. Ma soprattutto avvertiva la presenza di Mona: il suo calore, il suo odore, lei accanto a lui nel letto. C'era qualcosa di incredibilmente perfetto in tutto questo, di indicibilmente bello, tanto che la sua mente razionale era insolitamente felice di restarsene in silenzio mentre i suoi sensi se ne impregnavano. Ti amo, pensò sorridendo verso di lei. Il suo braccio destro le circondava le spalle curve, tenendola stretta a sé. La luce che penetrava dalla finestra era sufficiente a svelare ogni curva del suo corpo sotto il lenzuolo. Il viso addormentato era sgombro da ogni traccia di preoccupazione: tenero, ignaro, troppo fantastico per essere descritto a parole. È troppo bello, si disse assaggiandola con la punta della lingua. Ma ora devo alzarmi, disse un'altra voce che era comunque la sua. Tanto non riuscirei a riprendere sonno. Sono completamente sveglio. In silenzio e delicatamente tolse il braccio destro da sotto di lei e si liberò dal peso del suo corpo. Mona emise un miagolio breve e dolce, si accoccolò sopra il cuscino e tornò immobile. Era evidente che niente avrebbe potuto svegliarla, neanche i cinquanta megatoni del rombo dei camion
dell'immondizia. Billy impiegò un minuto a recuperare tutti i suoi vestiti sparsi sul pavimento: erano stati letteralmente scagliati in ogni direzione. L'impresa di vestirsi in silenzio al buio sarebbe stata abbastanza ardua. Pulire la mia stanza è stato più facile, rifletté. Riuscì a stento a reprimere una risata. Nella sua mente balenò un pensiero: Vorrei essere già vestito. E naturalmente funzionò. Poi pensò no, e in silenzio si spogliò e poi si rivestì, mettendosi i vestiti uno dopo l'altro. Troppo comodo, nell'altro modo. Billy lanciò un ultimo sguardo di adorazione verso Mona, poi infilò la porta. Recuperò il giubbetto sul divano del soggiorno. Attraversò in punta di piedi la camera di Lisa pensando, Dio mio, questo deve essere il Paradiso delle belle donne, mentre sbirciava il suo profilo sotto il lenzuolo. In cucina si fermò a scrivere un biglietto. Poi se ne andò. Tutto era tranquillo nella città dei sogni e delle speranze mentre Billy scendeva senza una meta precisa lungo la Decima, verso la zona dei macelli. Sapeva perfettamente che lì c'era gente già al lavoro, zuppa di sangue, a preparare le carcasse che sarebbero state poi imballate per il banchetto quotidiano. Un tassista gli passò accanto guardandolo con aria interrogativa. Billy scosse il capo e il taxi proseguì per la sua strada. Camminare, era questo che voleva. Camminare. E pensare. Non poté fare a meno di chiedersi perché quel tassista era venuto a New York. Era un artista? Uno scrittore? Uno stilista? Un potenziale re del mercato azionario che teneva i suoi operatori a ululare sul pavimento, a dieta rigida di Maalox e coca? New York era una città di pellegrini. Era Gerusalemme. Era la Mecca. Era la domanda della costa orientale a cui la costa occidentale rispondeva con Hollywood, lo spauracchio temuto e riverito e l'icona sacra venerata in tutto il mondo. C'era gente che era nata qui, su questo non c'era dubbio: parte integrante del suo tessuto, destinata come tutti gli altri a sfondare o ad andare a fondo. C'era gente che cresciuta completamente schiava del sogno. Ma la maggior parte delle persone era venuta lì da Saigon o da Porto Rico, da
Londra o da Marrakesh, da Eugene o Tucson o dalla buona, vecchia York, in Pennsylvania, riversando influssi sempre più eterogenei nel crogiolo razziale in costante espansione. I pellegrini arrivavano tutti a New York con una speranza. E un sogno. E io, constatò Billy, non faccio eccezione. Sapeva perché era entrato nel Ventre della Bestia: per i soldi e la celebrità e l'impatto che la sua musica avrebbe potuto avere. Proprio come Mona, con la sua danza. Proprio come Larry, con le sue battute. Proprio come Lisa, con il suo lavoro nel cinema. Proprio come tutti gli altri. Ma ora era diverso. Era come quando si beve un Irish Coffee, sobrietà e delirio che interagiscono nello stesso bicchiere fumante. Posso fare tutto, aggiunse. Ma cosa farò? Billy tagliò per la Quarta Ovest, prendendo la strada verso casa, molto più frequentata. C'erano dei gay che uscivano barcollando o con aria tracotante da Westworld e dagli altri empori dove vendevano Crisco e manette. C'erano studenti punk in abiti stracciati che si godevano rumorosamente la nottata. C'erano poveri relitti umani che crescevano di numero mentre si dirigeva verso est, gente che aveva dimenticato i propri sogni affondando in un liquido oblio. C'era anche qualche nuovo ricco in cerca di emozioni senza troppi rischi. Una linea invisibile chiamata Broadway separava la zona occidentale da quella orientale. Billy la incrociò su Bleecker e si addentrò nella tana dei ragazzi della Bowery. Erano ancora in giro con i loro stracci e le loro puttane, raschiando il fondo senza mai trovarlo. Vorrei aiutarvi tutti, pensò. Vorrei avere un minuto da trascorrere con ognuno di voi. Ma non posso. Non mi restano così tanti minuti. Siete troppi. Troppi sogni infranti. Una rapida occhiata alla popolazione presente gli indicò che non c'era traccia di Fred Flintstone. Lo considerò un buon segno. Forse il vecchio Fred aveva intenzione di rimettersi in riga. O almeno così Billy voleva credere. «Dio ti benedica, vecchio mio, dovunque tu sia» esclamò ad alta voce e poi attraverso la Bowery lungo Houston Street. I ragazzi provarono ad abbordarlo per farsi dare qualche soldo. Erano troppi. Si limitò a sorridere
e a proseguire lungo Houston, poi girò l'angolo verso Stanton Street. Una strana fitta lo colpì mentre imboccava Stanton Street. Gli ci volle un secondo per riprendersi. Poi la sua mente tornò come un lampo a quattro giorni prima, quando ogni cosa era cambiata, e si concentrò sull'avvenimento che aveva scatenato tutto. Il cantiere. L'omicidio. La ragazza. «Cristo santo» mormorò. «Quattro giorni.» Quante cose erano successe in così poco tempo. Non era incomprensibile, era peggio. Jennifer Mason era quasi completamente scomparsa dalla sua mente e questo non gli piaceva affatto. Non era solo una questione di insensibilità. Gli parve una cosa oscena. Che cosa aveva fatto con il suo miracoloso Potere per vendicarne la morte? Aveva trovato l'assassino? Non aveva alzato neppure un dito per provarci! O quasi. Si sentiva una merda. Ora camminava lentamente lungo il cantiere su Stanton Street, e riportava a galla i ricordi ripercorrendoli avanti e indietro. Si fermò nel punto in cui l'assassino si era nascosto. Sbirciò nell'ombra, come per cogliere qualche traccia o il suo odore. Poi si voltò a fissare la linea di gesso che stava scomparendo, ormai quasi invisibile, eppure stranamente più resistente del sangue... ... e poi si ritrovò nuovamente sulla scala di sicurezza. La lama che balenava, le ferite che si spalancavano. Vedeva la faccia sorridente che sputava sangue e prendeva forma, riusciva a comprendere l'intenzione di uccidere dietro di essa. Vedeva la parte inferiore del viso dell' assassino, una mezzaluna dall'espressione decisa con i denti marci e una fossetta sul mento. Riusciva a percepire un vago senso d'allarme nella bocca che si spalancava, a cogliere in essa una sorta di umiliazione, come di chi viene sorpreso con i pantaloni alle caviglie... E la follia, che brulicava dentro di lui come un nido di vermi... Poi si ritrovò nuovamente sul marciapiede, con i ricordi nuovamente freschi e l'animo amareggiato. Alzò lo sguardo verso la scala di sicurezza, cercando di immaginare quel che vedeva il maniaco (Sarei pronto a scommettere che non ti considerava una minaccia vera e propria)
mentre se ne stava nascosto nell'ombra, aspettando il momento di colpire... Poi guardò oltre l'isolato, in direzione di Chrystie Street. La bionda prostituta nera era al suo solito posto. Rimase per un lungo istante elettrico a contemplarla. Lei non lo aveva notato. Era appoggiata al lampione, come sempre, le gambe lunghe e lisce scoperte fino al sedere, nascosto appena dalla microminigonna. Non sarebbe stato difficile abbordarla; tirarle fuori qualche informazione, invece, poteva essere molto più complicato. A meno che... «Staremo a vedere» mormorò allegramente. Poi si voltò e si avviò verso l'angolo. Gli occhi castani della puttana lo seguirono con aria impassibile mentre si avvicinava. A Billy venne in mente che la ragazza non aveva mai visto prima di allora il nuovo Billy Rowe. L'avrebbe colta di sorpresa e questo sarebbe andato a suo vantaggio. «Ehi» mormorò lei quando Billy fu abbastanza vicino. Non manifestava molto entusiasmo. «Cerchi compagnia?» Billy sorrise. «Sì» disse. I grandi occhi della ragazza si illuminarono poi si spensero di colpo. Per essere un clone sotto costo di Tina Turner, non era poi affatto male. Le gambe e le labbra erano identiche. Gli zigomi più o meno. Gli abiti e i capelli facevano quel che potevano. La maggiore differenza fra la prostituta e Tina Turner, a parte il reddito, era negli occhi. Quelli della ragazza erano grandi e bellissimi. Ma erano completamente assenti. «Per un pompino fanno quindici dollari» disse. «Se vuoi chiavare venticinque. Per ogni extra il prezzo sale. D'accordo?» Billy annuì. Lei scosse le spalle. «Andiamo.» Si diresse verso la fila di auto parcheggiate sul bordo della strada. Ancheggiò come era abituata a fare, in un modo non del tutto privo di attrattive. La prostituta si fermò, come era prevedibile, davanti alla Rambler del '67 che non era stata spostata dalla notte dell'omicidio, né ormai da diversi mesi. Un tremito nervoso attraversò Billy al pensiero di doverci salire. Era un misto fra una stanza d'albergo e una provetta su quattro ruote dove erano in corso esperimenti su colture batteriche. «Sveltina questa carriola?» chiese lui con un mezzo sorriso. Sembrava
che lei non avesse capito la battuta. O almeno non sorrise. Forse non le sembrava molto divertente. Aprì la portiera posteriore. Billy fece un respiro profondo ed entrò. La puttana si infilò dietro di lui. La portiera si chiuse alle loro spalle. Billy fu travolto dal cattivo odore. Evidentemente i finestrini della Rambler non venivano aperti da parecchio tempo. La puzza di depressione e di passioni morte era stantia e acre come una tomba appena dissotterrata. Una situazione tutt'altro che eccitante. Cercò di ignorare quello che lo circondava. Non ci riuscì. «Allora, che vuoi.» Non era una domanda. Il tono era troppo esausto per essere una domanda. Billy rifletté per un istante. Mentre pensava, la guardò. Non provava alcun amore per quello che stava facendo, né provava amore per lui. Testa o croce: lancia una monetina per quella differenza di dieci dollari. Era tutto quello che le importava. Si immaginò sopra di lei, i pantaloni alle caviglie, le mani immerse fino ai polsi nel rivestimento rancido dell'auto. Immaginò che glielo infilava dentro, ma oltre questo la sua immaginazione si rifiutò di andare. Era troppo assurdo. Era troppo e basta. Era come cercare di immaginare cosa si provava a bere da una fogna o a tirare fuori un panino da un bidone della spazzatura e mangiarlo. Per un momento aveva pensato di scavare nella sua esperienza, di entrare nella sua mente, di riaccendere il suo animo. Quel momento era passato. Non voleva sapere cosa si provava a essere lei. Voleva solo uscire da quella macchina. «Voglio... parlare con te per un minuto» disse. Si sentiva la voce roca e la gola incrostata come l'interno della Rambler. «Merda.» La puttana non mostrò alcun segno di sorpresa. Si voltò e mise la mano sulla maniglia della portiera, depennandolo dalla lista dei suoi guadagni. «No, aspetta.» La mano andò al rotolo di banconote che aveva in tasca e gliele mostrò. «Non ci impiegherò molto e vedrai che ne varrà la pena.» «Certo, come no.» Fece un ghigno che non aveva niente da invidiare a Tina Turner. «Cinque minuti, dieci dollari. Non devi fare niente. Solo rispondere a un paio di domande. Come bere un bicchier d'acqua. D'accordo?» Tirò fuori un biglietto da dieci e glielo porse. «D'accordo?» Lei prese il denaro, lo infilò nella borsetta e attese.
«Bene» disse Billy con un cenno d'assenso. «Riguarda la notte dell'omicidio.» Non era quello che lei si aspettava. I suoi occhi ebbero un guizzo e la tradirono. «Che vuoi sapere?» chiese. «Ho visto quello che è successo. E anche tu l'hai visto. Voglio semplicemente sapere se tu hai visto qualcosa che a me è sfuggito.» «Non ho visto un cazzo.» Aveva un'espressione impenetrabile. «E con gli sbirri non ci parlo.» «Non sono uno...» Senza preavviso, la ragazza si girò e cercò nuovamente di aprire lo sportello. Billy reagì istintivamente con una velocità incredibile. Prima che uno dei due se ne accorgesse, stringeva già in mano il polso di lei che, furibonda, cercava di liberarsi della stretta. Poi il suo sguardo divenne più assente di quanto già fosse. «Pensaci bene» disse lui, e non era più una domanda. «Sei stata sulla strada per ore quella sera e c'era qualcun altro in macchina. Hai visto il tipo che ha ucciso la ragazza... lo hai visto quando è arrivato qui?» Scosse debolmente il capo. La sua fronte cominciava a riempirsi di sudore. «Lo avevi visto da queste parti prima di allora?» «Noooo.» Appena un bisbiglio. Il sudore sulla sua fronte era gelido. Billy si rese conto che la ragazza era certa che lui volesse ammazzarla. «Non voglio ucciderti» la rassicurò sorridendo. «Voglio solo trovare l'assassino. Mi hai capito? Tutto qui.» Un fremito le attraversò il corpo. Parte della tensione se ne andò con esso. Un paio di cose divennero chiare a Billy. Primo, quell'approccio era stato completamente inutile: dieci dollari sprecati, la ragazza spaventata a morte o quasi, con la possibilità che uscisse da quella macchina con la bocca più cucita che mai. Non poteva certo definirlo un successo travolgente. Il che lo lasciava lì, in quella tana di germi su quattro ruote, con una ragazza terrorizzata e le stesse informazioni che aveva prima. Ho già usato su di lei il mio Potere, pensò. Tanto vale sfruttarlo al meglio. La guardò. La paura e il Potere l'avevano spogliata della scorza di durezza. Restava soltanto un essere umano disperatamente infelice con un lavoro al cui confronto lo stile di vita degli uomini che si occupavano dei
rifiuti sulla Decima Avenue sembrava principesco. La pietà che prima non era riuscito a sentire ora lo travolse. Come un calore ardente che gli spuntò dalla mano e le entrò nel cuore. «Come ti chiami?» le chiese. «Roxie.» «Roxie, devi cercare di cambiare vita.» «Non ci riesco.» Deglutì e i suoi occhi cominciarono a inumidirsi. Cadute le difese, ora le sue emozioni erano crude e aperte come un piatto di sushi. «Puoi fare tutto quello che vuoi» insisté Billy stringendole più forte il polso. «Lo so per certo.» «Non ci riesco!» ripeté la ragazza scoppiando in un pianto dirotto. Billy sentiva le pareti interne della prostituta che si frantumavano, assaporò la sua angoscia come sangue sulla lingua. Gli crollò addosso e lui la prese fra le braccia, lasciandola piangere e sfogarsi sulla sua spalla. E mentre la teneva stretta, colse nello specchietto retrovisore il riflesso di loro due abbracciati. Era strano, molto strano, e tornò con la mente ai giorni dei drive-in, adolescenti con il palmo delle mani sudaticcio, il sedile posteriore un'arena in cui si mescolavano in proporzioni diverse desiderio e terrore, una fusione più innocente... ... e si chiese chi fosse questa donna bambina che gli era crollata fra le braccia. Dove era cresciuta. Com'era stata la sua vita in famiglia. La natura delle sue tempeste adolescenziali. Si chiese che cosa l'avesse condotta qui, nella città dei sogni e delle speranze, per poi lasciarla disperata e senza sogni. «Roxie» mormorò. I singhiozzi della ragazza si erano stabilizzati su un tono sommesso e continuo. «Se tu potessi fare qualsiasi cosa, che cosa ti piacerebbe?» «Io... io non lo so.» Tirò su col naso mentre parlava e Billy si accorse che stava riflettendo. «Un posto dove ti piacerebbe andare. Qualcosa che ti piacerebbe essere.» Lei scosse il capo. «Non lo so, non riesco a pensarci...» «Non importa, non c'è fretta» le disse dolcemente. «Pensaci con calma. Se ti serve aiuto, cercami. Sarò da queste parti. «E ti aiuterò. Lo giuro su Dio, lo farò. «Perché, sai, io posso fare tutto.» La ragazza alzò lo sguardo su Billy che abbassava il viso verso il suo. La
sua prima e istintiva reazione fu di paura, e si ritrasse mentre lui le sfiorava la fronte con le labbra, come se si aspettasse il bacio della morte. Mentre, in realtà, quello era il bacio della vita. Un momento di pace Un'ora dopo. Le lacrime sul viso di Billy non si erano ancora asciugate, avevano solo cambiato forma. Billy era nel suo appartamento e ne assaporava l'ampiezza e la pulizia, si godeva i primi raggi dell'alba che si insinuavano lentamente dalle finestre. Le lunghe ombre non nascondevano più sorprese terribili, solo un misto agrodolce ed equilibrato di gioia e di malinconia che si trasformava in un senso di pace interiore. Aveva messo sullo stereo La vera guerra, dall'inizio alla fine. Di tutte le trecento e più canzoni che aveva scritto negli anni, il materiale per la sua opera rock era di gran lunga quello che preferiva. Era pieno dell'ardore e della convinzione che lo aveva tirato fuori dalla pazzia: abbastanza folle da credere in un mondo migliore, abbastanza deciso da mostrare le difficoltà implicite nel tentativo. Ed era così che si sentiva quella mattina: folle, deciso e ottimista. Si sentiva anche un po' sopraffatto dalle dimensioni della sua missione, per quanto cercasse di delimitarla. Certo, poteva toccare un Fred Flintstone o una Roxie, scegliere pochi individui fra i milioni di possibili casi disperati della sola città di New York; certo, poteva convincere gli sbirri a non interromperlo quando suonava; certo, poteva perfino spezzare qualche costola, se proprio doveva, come aveva fatto con quel Rubin. Ma cosa posso fare su scala più vasta? si chiese. Cosa posso fare per influenzare più di una manciata di persone alla volta? La risposta più ovvia si stava riversando in quel preciso istante dagli altoparlanti: la sua musica. Avrebbe toccato più persone di quante avrebbe potuto fare il suo corpo fisico. Era quello il suo vero talento, più ancora di quello di farsi degli amici o di fare casino, o di entrambi messi insieme. Ma sarà abbastanza diretto? si chiese. Si può davvero cambiare il mondo con la musica? Dio, vorrei proprio conoscere la risposta a questa domanda... Come in risposta alla sua invocazione, comparve Christopher. «Buona, la chitarra» disse l'angelo. «Chi la suona?» «Pensavo che sapessi tutto e vedessi tutto» rispose Billy un po' seccato.
Era contento di non essere trasalito. Sì, cominciava davvero ad abituarsi. «È così, ma ogni tanto qualche cosa me la scordo. Sei tu?» Billy annuì. «Avevo dimenticato quanto eri bravo.» «Quanto sono bravo.» «Quanto sei bravo.» Risero. «È proprio un peccato che tu non sia stato dietro alla tua musica. È roba di prima classe. Sarebbe stata eterna.» «Non c'è niente che mi impedisca di provarci ancora» ribatté Billy. Aveva sentito una fitta quando Christopher aveva usato il passato. «Nel caso che tu non l'abbia notato, sto rientrando nuovamente in gioco.» «Devi ammettere, però, che il tuo materiale è un po' datato.» «Allora scriverò roba nuova! Qual è il problema?» Billy notò che la sua voce stava salendo di tono e di volume. «Ho colpito un punto debole, vero? Scusascusascusa.» Christopher si portò una mano al cuore in segno di pentimento. Nonostante tutto, però, non sembrava sincero. «Stai forse cercando di dirmi che non dovrei perdere tempo col rock?» Il volume e il tono si erano abbassati, ma l'irritazione si avvertiva ancora, forte e chiara. «Billy Rowe senza rock'n'roll è come un giorno senza sole» disse l'angelo, imitando alla perfezione Anita Bryant. Era la prima volta che Billy glielo vedeva fare. Si mise a ridere, nonostante la rabbia che provava. «Lasciami dire, tuttavia, che la musica da sola non basta alla tua missione.» «D'accordo» disse Billy momentaneamente placato. «Ma era proprio a questo che stavo pensando e...» «Lo so. Te l'ho letto nella mente.» «Fantastico.» Billy allargò le braccia con aria desolata. «Allora perché perdo tempo a parlare con te?» «È una buona terapia.» «Come sei gentile, Christopher!» La rabbia era tornata, acuita dal risentimento. «Come mai non posso leggere anch'io la tua mente? Potremmo far riposare i nostri muscoli facciali, no?» «La mia mente non funziona come la tua. Mi dispiace. È una di quelle limitazioni con cui ti devi abituare a convivere.» «Aspetta un attimo.» La sua testa stava andando in tilt. «Mi sembrava che mi avessi detto che potevo fare tutto.» «È vero. Scusa ancora, questa volta sul serio.» La sincerità era evidente sul viso di Christopher. «Quando ti ho detto che ti era possibile fare tutto, era in parte un fatto assoluto, in parte un fatto relativo a un contesto ben
preciso. Rispetto a quello che tu pensavi di poter fare, teoricamente non hai limiti. Rispetto a tutto quello che può accadere nell'universo, allora... dovrai applicarti molto se vuoi vedere dei risultati. Ecco tutto.» «Quindi non posso far diventare all'istante tutta la popolazione mondiale bionda e abbronzata?» «No. Decisamente no.» «Peccato.» Sorriso perplesso che scomparve immediatamente. «Parlando seriamente, se la musica non va e io non posso limitarmi a pensare che il mondo diventi migliore, che cosa posso fare in pratica?» «Come ho detto prima, caro mio, un passo alla volta.» «Ma porca puttana, Christopher... Io voglio fare qualcosa subito!» Sbatté il pugno sul palmo dell'altra mano, poi lo strinse. «Devo sapere quel che posso fare! Ho bisogno di una strategia per agire!» «Allora usa la testa e ragiona! Nessuno ti ha detto che questo non lo puoi fare.» «D'accordo.» Billy chiuse gli occhi e si strofinò la fronte per un momento. Pensò a tutta la gente che conosceva e che non aveva mai saputo come aiutare... ... poi pensò a Jennifer Mason, al mostro umano sulla strada sottostante, e alla sua incapacità di salvare entrambi dall'orrore di quel momento... ... e disse: «Che ne diresti dell'assassino? Se lo trovassi? Se lo eliminassi dalla faccia della terra? Se lo consegnassi alla polizia? Se eseguissi su di lui una guarigione istantanea perché non uccida più?» «Decidi tu.» «Mi sei di immenso aiuto.» «Scusa, carino, ma pensavo che ti avessero già informato che se cerchi qualcuno che ti dica quello che devi fare, tanto vale che ti arruoli nell'esercito. O ti trovi un lavoro rispettabile. Per quel che ne so, è il libero arbitrio che fa girare il mondo.» «Che gira, gira, gira e nessuno di quelli che ci stanno sopra sa se sta facendo o no la cosa più giusta. E va bene. Mi farò venire in mente qualcosa. Mi affiderò all'istinto.» «Buona idea.» E a Billy venne una buona idea. Fu come un lampo di genio, improvviso e abbagliante, che passò dal cervello alla bocca con una rapidità tale che non ebbe neanche il tempo di soffermarsi a riflettere. «Allora» disse «voglio che tutti a New York vivano per trenta secondi in pace...»
«NOOOO!» gridò Christopher, ma era già troppo tardi. Il Potere scaturì da Billy sotto forma di un'ondata che superava di gran lunga ogni cosa che egli avesse mai provato: come scendere lungo le cascate del Niagara dentro una botte, spinto fino all'orlo del precipizio per poi precipitare a velocità pazzesca verso le rocce che tuonavano... ... e poi il dolore lo colpì, un tormento indicibile che stridette in ogni nervo del suo corpo e poi si concentrò nei suoi chakra, i centri d'energia che andavano dall'inguine al centro della fronte. Era un dolore incandescente, accecante e insopportabile, mille volte peggio della scossa elettrica della sua chitarra argentina e altrettanto restio a dargli tregua... ... e poi il buio, l'oblio totale e beato. Mentre nella città che lo circondava, il sogno cominciava a diventare reale... La pace scese come un velo celeste a coprire tutta Manhattan, prosciugando nello spazio di un secondo l'odio e la passione travolgente in oltre otto milioni di persone. Nell'ottanta per cento dei casi, il fenomeno si verificò mentre le persone dormivano. Gli incubi svanirono. E con essi dubbi e sensi di colpa freudiani. E anche tutto quel cicaleccio irrilevante che occupava tanto spazio inutile nel panorama onirico. Ma chi era sveglio avvertì qualcosa di completamente diverso. I tassisti, perennemente incazzati alla guida, divennero improvvisamente tranquilli e non sentirono più il bisogno di suonare il clacson e gridare oscenità. Anche i loro passeggeri videro scomparire da un momento all'altro la loro rabbia verso coniugi traditori, compagni fastidiosi, subalterni piantagrane, superiori arroganti, quello stronzo sulla LeSabre che si rifiutava di andare a più di cinquanta all'ora. Le cameriere dei locali aperti ventiquattr'ore su ventiquattro si accorsero che non avevano niente di cui lamentarsi e che nessuno si stava lamentando di loro. I portinai scoprirono un'armonia totale fra loro e le loro scope. I papponi e gli uomini di pattuglia a Times Square si sorrisero, per l'unica ragione al mondo che avevano voglia di farlo. Un killer professionista di nome Vic Scampetti vide il suo bersaglio che lasciava il Gramercy Park Hotel nel momento stesso in cui la pace scendeva su di lui. Il suo Smith and Wesson modello 3000 era carico e pronto a sparare. Lo zoppo, uno spacciatore sovrappeso che aveva pestato qualche piede di troppo, era già in vista...
... e fu allora che un fremito percorse l'intero universo, gli si annebbiò la vista e sentì come una puntura di spillo in mezzo alla fronte. Un secondo dopo era tutto finito. E subentrò in lui un incredibile senso di benessere. Guardò il calibro dodici fra le sue manone scure. Guardò il ragazzo a cui avrebbe dovuto far saltare la testa. Guardò la propria immagine riflessa nello specchietto retrovisore. Poi posò il fucile sul sedile accanto a sé. Tutt'a un tratto, non gli sembrava giusto. Uccidere non gli sembrava la cosa giusta da fare, tutto qui. Niente su cui tormentarsi. Non si lasciò andare a una sequela di mea culpa, mea culpa. Decise semplicemente che non avrebbe fatto fuori quel tipo. Dino avrebbe dovuto accettarlo e basta. Vic accese l'Eldorado e si avviò lentamente lungo il marciapiede. Si sentiva meglio di quanto si fosse mai sentito in trentasette anni di vita. Davanti a lui, il ragazzo si trovava adesso sul lato nord di Gramercy Park e camminava verso ovest seguendo allegramente un ritmo che aveva nella testa. Vic sorrise e svoltò all'angolo, si affiancò al tipo e si sporse fuori dal finestrino. «Come va la vita?» chiese. Il tipo cominciò a sorridere... ... poi l'emicrania lo colpì con una forza bestiale e travolgente, una valanga di dolore gli trasformò la vista in un magma di lava incandescente. Il piede pigiò istintivamente il freno e il mondo cominciò a girargli intorno. Accanto a lui, il tipo si era appoggiato barcollando al recinto di ferro battuto che circondava il parco, si era portato le mani alle tempie e gemeva. Vic si sentì travolgere all'improvviso da un'ondata di odio e da una confusione ancor più bruciante e pensò che cazzo sto facendo, devo ammazzarlo, questo qui, cosa mi ha preso sono impazzito e afferrò il suo Smith and Wesson e lo appoggiò sulla spalla e mirò. Il ragazzo si accorse di quello che stava per succedere. Cominciò a urlare. La sua bocca aperta era un bersaglio perfetto. Vic mirò al centro del bersaglio e fece fuoco. Non ci fu bisogno di sparare una seconda volta. Gli pneumatici stridettero mentre ripartiva. E il dolore calò nuovamente su Manhattan come un immenso rapace. La pace era durata esattamente trenta secondi. La prima cosa che Billy vide quando riprese i sensi fu il rosso. Poi i particolari della sua camera cominciarono a prendere forma, vaghi e sfocati. L'emicrania era uniforme e straziante, adesso, come aveva sempre immaginato che fosse un'emicrania. Emise un gemito e quel suono fu come un ago piantato nel cervello.
Poi vide Christopher chino su di lui con un'espressione che non aveva mai visto prima d'allora sul viso dell'angelo. Non erano la rabbia e la preoccupazione, entrambe presenti in dosi identiche, l'elemento incongruo, ma la paura. Non aveva mai visto Christopher impaurito prima di allora. «Non parlare» disse Christopher. Le parole scesero come tonfi nei timpani di Billy. «Resta sdraiato e cerca di dormire. Sei uno stupido coglione.» Billy cercò di formulare uno sguardo interrogativo. Ma muovere la faccia era troppo doloroso. «Devi stare a sentire quando ti parlo.» Il tono di voce era basso e piatto, del tutto privo di ironia. «Potevi anche friggerti il cervello, lo sai? Potevi incasinarti la testa una volta per sempre. E non saresti servito più a nulla a te, a me e a nessun altro. Hai capito?» Billy prese in considerazione l'eventualità di rispondere con un cenno del capo, poi sollevò debolmente le braccia facendo segno di aver capito. «Bene.» Christopher sorrise, ma quel sorriso non avrebbe ingannato nessuno. «Adesso riposati e dormi un po'. Ne avrai bisogno per sopravvivere a quello che hai fatto. Ma poi starai bene. Ti prometto che starai bene.» Sorridere gli faceva troppo male. Quando Billy ci provò, venne fuori una smorfia. Le luci si spensero e Christopher scomparve. Billy si trovò solo al buio con addosso una spossatezza che lo consumava e lo stordiva. Provò a pensare a quello che era successo. Inutile. Il sonno salì come un grande oceano scuro e piano piano lo trascinò via. In sogno, sentì delle vocine nella stanza che ridacchiavano e lo chiamavano per nome... Visite di cortesia Martedì mattina, ore otto e tre quarti. Billy era seduto sul bordo del letto e si massaggiava le tempie, guardando il sole che cercava di aprirsi un varco in uno strato impenetrabile di nuvole. Senza successo. Billy non se ne stupì eccessivamente. Spostò lo sguardo sulla parete, verso la pagina di giornale con la foto di Jennifer Mason. Era una vecchia foto che risaliva al suo periodo prepunk. Immaginava il giornalista che si presentava alla porta della dimora della sua famiglia, bussava e diceva mi scusi, signora, non avrebbe una foto della sua povera figliola per l'ultima edizione? Aveva i capelli lunghi, ma il viso era identico: sorriso smagliante, occhi
luminosi che risplendevano sotto un trucco impeccabile. Il viso era vivace e molto bello, anche se in un bianco e nero sgranato. Era fantastica. Un casino meglio di come è adesso, pensò e ci mise una pietra sopra. Non serviva a niente continuare a recriminare, per quanto fosse inevitabile. O almeno non portava a niente di buono, e inoltre la testa gli doleva troppo. Non sentiva certamente la necessità di stare peggio. Eppure non poteva fare a meno di continuare a fissare la fotografia. E intanto l'aria nella stanza iniziò a formicolare. «Non è giusto» disse. «Quello che è successo non è giusto. Eri così giovane, così bella, così affascinante. Non ha senso. Non è giusto. «Vorrei che fosse possibile averti ancora qui, di nuovo...» ... e lei fu di nuovo lì, a meno di un metro da dove era seduto Billy, si chinò verso di lui e gli sorrise, con le mani allacciate sullo stomaco. «Oh, certo che puoi farmi tornare indietro» disse avvicinandosi. «Puoi avere quello che vuoi. L'unico problema è...» Tese le braccia verso di lui, preparandosi ad abbracciarlo. «... quanta parte vuoi di me?» E il ventre le si spalancò in un ampio, umido sorriso e le viscere rotolarono fuori, verso di lui... ... e fu allora che Billy si risvegliò sobbalzando, gli occhi sbarrati come un vampiro in un film horror della Hammer. Un urlo sulle sue labbra si era spento nel passaggio alla veglia: venne ricacciato in gola e divenne un grumo doloroso e difficile da inghiottire. «Dio mio» gracchiò. Poi il campanello del portone cominciò a suonare. Bubba si risvegliò e si alzò dal suo posto ai piedi del letto. Scambiò con Billy uno sguardo pieno di confusione e di sconcerto. «Chi cavolo sarà?» disse Billy tanto per dire qualcosa. Sentì un gran fragore nella testa mentre parlava. Le parole potevi anche friggerti il cervello gli risuonarono nella testa, riportandogli alla memoria la causa del dolore che sentiva dentro di essa. Il campanello suonò per la seconda volta. Sembrava che gli stessero strofinando vigorosamente le pareti interne del cranio con una paglietta di lana d'acciaio. Posò faticosamente lo sguardo sulla sveglia sul comodino. Le otto e tre quarti. Poi alzò gli occhi sulla foto di Jennifer Mason. Questa volta non espresse alcun desiderio. «Eccomi, arrivo» mormorò Billy quando un ultimo fuoco di fila prove-
niente dal campanello lo colpì in pieno. Provò ad alzarsi in piedi, barcollò per un istante poi si avvicinò faticosamente alla finestra per vedere chi fosse. Gli agenti Hamilton e Rizzo gli restituirono uno sguardo cupo. Se solo fosse un altro brutto sogno, pensò sbattendo le ciglia un paio di volte. Non scomparirono. Aveva le chiavi in tasca. Non era riuscito a spogliarsi prima di perdere conoscenza. Non era in grado di fare tre piani di scale a piedi. Scendere sarebbe stato terribile, ma risalire era inconcepibile. E non riusciva neppure a gridare loro di salire. Quindi si ficcò una mano in tasca, tirò fuori le chiavi, le fece dondolare fuori dalla finestra, le indicò con un dito dell'altra mano e le lasciò cadere sul marciapiede sottostante. Quindi si concesse un minuto con gli occhi chiusi e pulsanti prima che l'interrogatorio iniziasse. Alle otto e cinquanta Larry Roth era saldamente al suo posto dietro la scrivania nei venerandi uffici della Front Line Media. Usciva fresco fresco da una doccia bollente e dalle lenzuola dell'appartamento di Brenda Porcaro, dove il lavoro di otto settimane di pre-produzione seduttiva aveva dato i suoi frutti impetuosi. Brenda faceva la telefonista per la Front Line ed era stata evidentemente scelta per gli attributi esteriori più che per quelli lavorativi: lo stesso Larry aveva avanzato l'ipotesi che Brenda non avrebbe passato il test sulla solidità dei suoi seni non perché questi fossero cascanti ma perché la matita da infilare sotto le tette sarebbe stata troppo contenta di restare lì dov'era per desiderare di cadere. Larry sorrise e si appoggiò allo schienale della sedia nonostante il mostruoso mal di testa con cui sia lui che Brenda si erano svegliati quella mattina. Aveva davanti una tazzona di caffè leggero, un panino con un uovo, due Tylenol extra-forti e una giornata intera di stronzate. Si ficcò in bocca i due antidolorifici e li mandò giù con un sorso di caffè, ripensò ancora una volta appassionatamente a Brenda in azione, poi si preparò spiritualmente per il lavoro che lo attendeva. La prima cosa da fare era leggere e rispondere alla posta urgente del giorno prima: più che altro, richieste di informazioni da parte del comitato per la difesa del consumatore, delle poste e del ministero della giustizia. La Front Line Media faceva largo uso di trucchetti e sotterfugi ai limiti della frode vera e propria. Appena al di qua di quei limiti. La corrispondenza odierna presentava diverse richieste di informazione
sulla "Società per l'Arte e la Letteratura Erotica", che ricomprava libri d'arte vera e varia (quella con le donne nude, per intenderci) nei negozi di libri di seconda scelta a un dollaro a volume e li rivendeva attraverso la sua pubblicazione truffaldina Better Lifestyles a soli quattordici dollari e novantacinque, più tre dollari per le spese di spedizione. C'erano un sacco di appassionati d'arte decisamente contrariati che volevano contattare "Felix Cunningham", lo pseudonimo di Larry in questo specifico progetto. Larry si occupava dei "rapporti con il cliente", il che praticamente stava a significare che era lui a beccarsi gli insulti e a spalare la merda. Aveva uno pseudonimo per ogni truffa che escogitavano, il che dava l'illusione di un vasto impero mediale e lo proteggeva da possibili rappresaglie di clienti insoddisfatti. Inoltre lo aiutava a prendere le distanze dal fatto che era di lui che si servivano per sottrarre milioni di dollari ogni anno a migliaia di persone. In fondo non era un imbroglione ma un attore. Questo lavoro serviva a tenerlo in vita nei giorni che lo separavano dal Grande Evento. C'era chi, come Billy, non lo approvava. Ma quel lavoro non costava poi molto a Larry che non perdeva il sonno né la stima in se stesso. Lo faccio per vivere, rifletté, poi diede un morso al panino. Analizzare le sottigliezze dell'etica lavorativa era difficile con l'aroma intenso di burro, sale, uova e Brenda Porcaro nella bocca. Si aprì un varco nel panino e fece notevoli progressi con il caffè quando gli capitò sotto gli occhi la prima lettera di insulti. E fu allora, ovviamente, che il telefono cominciò a squillare. «Forza. Alza la cornetta» sibilò Billy. «Ti prego...» Dennis Hamilton vedeva chiaramente quanto cazzo era sconvolto Billy. Per cominciare, gli avevano appena comunicato la peggiore notizia possibile. E per di più il suo mal di testa sembrava essere immensamente peggiore di quelli di cui i due agenti si stavano lamentando all'incirca dalle cinque e mezzo del mattino. E come ciliegina sulla torta, Frank si stava comportando da stronzo di prim'ordine. Come per confermare il fatto, Rizzo disse: «Gradirei sentire un alibi di ferro». Billy si voltò di scatto, continuando a tenere la cornetta del telefono appiccicata all'orecchio senza alcun successo. Dalla mano libera, un dito si protese in direzione di Rizzo. «Sa cosa mi piace di lei?» disse seccamente.
«Niente! Assolutamente niente!» «Stai attento, ragazzo.» Anche Rizzo non scherzava in quanto a tensione. «Cominci a stancarmi.» «E ALLORA, CHE CAZZO VORREBBE FARE?» Fece squillare il telefono un'altra volta inutilmente, poi sbatté giù la cornetta. «Pensa forse di non avermi già scocciato con quell'aria di superiorità? Pensa forse che mi diverta a vedere la sua faccia? L'assicuro che non è così.» Hamilton si tenne pronto a intervenire. Si era inginocchiato come l'altra volta accanto al buon vecchio Bubba per dargli una grattatina, ma Bubba si era irrigidito quando il suo padrone aveva alzato la voce ed era indietreggiato mettendosi in posizione d'attacco. Se Bubba aveva la sensazione che ci fossero dei guai in vista, Hamilton pensò che avrebbe fatto bene a tenersi pronto anche lui per questa evenienza. «Voglio dire» riprese Billy «perché dovrei uccidere qualcuno che intende farmi firmare un contratto? Non ha assolutamente senso. Quella era l'ultima persona che avrei voluto uccidere, se per caso mi fosse venuta voglia di ammazzare qualcuno! Perché avrei dovuto farlo? Eh?» «Sei tu che devi dircelo» disse Rizzo reprimendo a stento la rabbia. «Non posso dirvelo perché non ho niente a che fare con questa storia!» esplose Billy. Hamilton sapeva già come avrebbe risposto Rizzo e capì che i due non avrebbero fatto altro che sfogarsi l'uno sull'altro... ... e così lasciò che la mente tornasse indietro nel tempo fino al motivo della loro visita: il corpo che avevano trovato su Greenwich Street con intagliati addosso quell'orribile faccia del cazzo. Ma c'era di peggio. Il peggio era che la donna era stata masticata: era caduta o era stata gettata in un canale del cantiere, dove era rimasta senza che nessuno se ne accorgesse per almeno quattro ore, il tempo più che necessario per entrare a far parte della catena alimentare. I topi, probabilmente, l'avevano trovata quasi subito e si erano dati da fare sulle braccia, sulle gambe e sul viso. Ma non sul tronco. Oh, no. Non su quell'osceno ghigno mostruoso che li aveva accolti quella mattina, chiaro come il sole. I piccoli bastardi le avevano rosicchiato le estremità fino all'osso in cinque o sei parti, ma avevano lasciata intatta l'opera dello psicopatico, come se... ... come se avessero voluto incorniciarla. Dennis Hamilton rabbrividì involontariamente. La testa gli pulsava allo stesso ritmo dei brividi. Si accese l'ennesima sigaretta, la quattordicesima da quando si era alzato, e non erano ancora le nove. Poi si dedicò nuova-
mente all'allegro scambio verbale che era ancora in corso. «Stai a sentire, Rowe» diceva Rizzo. «Non so cosa pensare. Tutto quel che so è che negli ultimi quattro giorni ci siamo imbattuti in due cadaveri che avevano tre sole cose in comune: erano due donne, giovani, belle e affascinanti, avevano entrambe un taglio sulla pancia come quello di una zucca di Halloween e il tuo nome continua a spuntare fuori. Non pensi che sia un po' strano?» «Certo che è strano! Cosa pensa, che sia demente?» «Era un'eventualità che avevo preso in considerazione.» «Frank. Basta.» Hamilton si stava massaggiando la fronte. Bubba era sempre pronto ad attaccare. «Così non arriveremo a niente.» «Perché non vi prendete gioco del mio appartamento?» si mise a urlare Billy. «L'ultima volta vi sembrava così divertente! E perché non prendete a calci il mio cane? Ci sarebbe da ridere, no?» «E la smetta anche lei, Rowe» disse Hamilton bruscamente. Non servì alzare la voce per mettere a segno il colpo. «Questo mal di testa mi sta uccidendo e non credo che potrei sopportare altre chiacchiere inutili. Chiaro?» Billy e Rizzo si scambiarono uno sguardo, poi parvero comprendere che avevano qualcosa in comune e si chiusero in un risentimento pieno di imbarazzo. Questo concesse a Hamilton un altro minuto di gradito silenzio nel quale tentare di convincere il suo cranio a smettere di fare chiasso. «Devi venire alla stazione di polizia con noi» disse infine Rizzo. «E perché?» chiese Billy. Entrambi usarono un tono accettabile. «Vogliamo avere un ritratto il più possibile esatto» intervenne Hamilton nella speranza che le cose non peggiorassero nuovamente «della faccia dell'assassino.» «Per quel che ne ho visto...» aggiunse Billy. «Basterà. E vogliamo continuare a cercare la sua ragazza: non perché pensiamo che sia stato lei a farle fuori, ma perché sarebbe bene chiarire definitivamente che non è stato lei. Chiaro?» «Credo di sì.» Billy non aveva un'aria felice ma sembrava rassegnato. E probabilmente era anche lui distrutto da tutte quelle urla. Hamilton tentò di mettere a confronto il ragazzo con quel fascio di nervi scoperti che aveva interrogato insieme a Rizzo il venerdì precedente. Non era facile. Era qualcosa che andava al di là della barba rasata e degli abiti nuovi o del taglio di capelli alla moda. Al di là della metamorfosi stupefacente di quel buco di appartamento, che ora risplendeva come nuovo.
No, pensò Dennis Hamilton. È qualcosa che scorre più in profondità. C'è qualcosa di nuovo dentro quel ragazzo. Qualcosa di forte. Qualcosa di spaventoso... Anche Rizzo se ne rendeva conto. Era evidente che non sapeva come comportarsi con il nuovo Billy Rowe e la cosa lo infastidiva. Gran parte dei motivi per cui a Rizzo quel ragazzo stava sulle palle si erano dissolti non appena i due agenti avevano messo piede nell'appartamento. Ma l'antipatia era rimasta, forse si era perfino intensificata, al punto che ogni scambio razionale di idee fra loro era ormai impossibile. Di solito Rizzo non era così. E questo non lasciava presagire niente di buono per il suo mal di testa nelle ore successive e ancor meno per l'indagine nel suo complesso. «Andiamo» disse Rizzo dirigendosi verso la porta. Hamilton annuì e Billy sorprendentemente fece lo stesso. Bubba lo prese come un invito per avviarsi anche lui con aria disinvolta verso la porta. Billy lo dovette prendere, tenerlo fermo e spiegargli che la loro consueta passeggiata mattutina era rimandata a più tardi. Quindi uscirono, scesero le scale, si ritrovarono in strada e salirono sulla Plymouth verde scuro ultimo modello parcheggiata in sosta vietata all'angolo della strada. Proprio allora il telefono di Billy cominciò a squillare. «Accidenti» bofonchiò Dave ritraendo l'antenna del senzafili e riponendolo al suo posto. Il grigio pallore del mattino filtrava attraverso le finestre del soggiorno della sua spaziosa abitazione sulla Settantanovesima Strada Ovest. Il cielo aveva lo stesso aspetto di come Dave si immaginava l'interno della sua testa: fosco, tetro, demoralizzante. Nemmeno i ficus, le felci e le altre piante, disposti in modo da dare un'impressione di aria e di luce, riuscivano a scalfire tutta quella desolazione. Dave Hart era seduto al centro esatto della casa che gli faceva anche da studio e si espandeva da ogni parte intorno a lui. Si stava strofinando la fronte come se fosse stata una lampada magica. I suoi tre desideri erano già pronti. Non vorrei sentirmi così male. Vorrei sapere che diavolo sta succedendo. Vorrei che Mona rispondesse a questo telefono del cavolo. Ma sembrava che nessuno dei tre desideri si stesse per realizzare. Per ogni eventualità, Dave continuò a strofinare. Tutto intorno a lui i LED lu-
minosi, gli occhi dei suoi macchinari, lo osservavano: uno studio di registrazione a quattro piste, una batteria elettronica digitale, ogni genere di congegno sonoro ultratecnologico computerizzato. Gli occhi di Dave si posarono sul monitor: la forma d'onda del suo ultimo programma per tastiere si dispiegava in strutture che si ripetevano all'infinito. Come la mia vita, rifletté. Come la mia vita. Si era svegliato alle sei meno un quarto, lottando contro questo stupido mal di testa e i suoi sentimenti per la torrida signorina de Vanguardia. Ne stava venendo fuori una canzone, con discreto successo: aveva già registrato un'ottima sequenza di accordi e una passabile sezione ritmica nelle sue linee essenziali. Le parole le aveva trovate con straordinaria facilità: Hai un ometto pelle e ossa che ti ama come il sole, ma non si occupa di te. È cosi da troppo tempo. Tu vai al lavoro, lui va a suonare, poi ti porta fuori a cena, e finisce che paghi sempre tu. Non ti è mai venuto in mente che stai sbagliando tutto? Mona! Mi sono innamorato di te quando ti ho vista danzare sullo schermo. Mona! Sentivo il tuo corpo vibrare. Che senso ha? Dave stava cercando inoltre di dimenticare il sogno che aveva fatto. E non aveva avuto fortuna neanche in questo. Assolutamente. Era un sogno del cazzo, proprio strano. Era rimasto in piedi fino a tardi: su MTV era in programma una selezione senza interruzioni dei video dei Brakes e lui aveva invitato il gruppo e qualche amico, senza Mona, a casa sua per festeggiare. Avevano fatto baldoria per tutto il programma e anche dopo. Dave era finito barcollando a letto verso le quattro. Era crollato come un sasso, aiutato da una combinazione di erba giamaicana di ottima
qualità e una bottiglia di Moët. E i primi tentacoli del sogno si erano avvolti attorno al suo cervello... All'inizio non era male, anzi: il mondo si dissolveva, si ritraeva e scompariva fino a che non rimanevano solo loro due. Niente notorietà. Niente fama. Nessuna interferenza. Solo Dave, Mona e l'attrito senza fine della pelle sulla pelle. E la musica di Dave, così come gli risuonava nell'anima prima che l'industria impiantata nel suo cervello se ne appropriasse e la trasformasse in un prodotto. Era eterna e senza tempo, gli scorreva fuori dalle dita e accarezzava Mona meglio di quanto sapesse fare la carne. Mona danzava per lui. Per lui solo. Si allontanava danzando e poi tornava accanto a lui, con la stessa brutalità piena di desiderio che aveva portato con sé nei suoi video e nel suo letto... ... e poi sentì quegli occhi sopra di loro. Occhi freddi. Occhi crudeli. Che li guardavano. Che li odiavano. Dave corse verso Mona, urlando con i polmoni privi d'aria nell'immenso spazio nero che li separava. Mona si girò verso di lui, con le braccia protese... ... e un secondo prima che le loro dita si stringessero, le sue mani cominciarono a piegarsi e a contorcersi. Indietreggiò, sempre continuando a gridare, guardando pieno di impotente terrore le sue dita che si saldavano le une alle altre, ribollendo ed emanando fumo... «No» disse Dave cercando di ricacciare indietro quel ricordo. Era ridicolo che un sogno dovesse generare in lui tanto terrore. Si guardò le mani. Erano come nuove. Anzi meglio: un paio di nuove mani non sarebbe mai riuscito a eseguire le acrobazie musicali che le sue dieci dita perfettamente addestrate erano in grado di realizzare automaticamente. Dovette ammettere, però, che avevano un aspetto particolarmente fragile: le alzò tenendole contro la luce della lampada che aveva accanto e vide la luce rossa attraversare la pelle membranosa fra le dita. Dieci piccoli ramoscelli pelle e ossa, facili da spezzare e usare per accendere un fuoco... «No. No. Cancellare tutto. Basta.» Strizzò gli occhi e sentì i tonfi sordi nel suo cervello acuirsi fino a raggiungere una chiarezza cristallina. Quando si portò le mani alla testa, le dita gli parvero fragili, artritiche. «NO, accidenti!» gridò, allontanando di scatto le mani come se volesse spezzare la stretta di uno sconosciuto. C'erano un paio di bottiglie di birra Kirin in frigo. Dave ne tirò fuori una
e l'aprì con dita tremanti ed estranee. Ne mandò giù metà con un lungo sorso, fece un respiro profondo e la scolò. Poi passò all'altra bottiglia e fece lo stesso. Alla fine della seconda bottiglia, l'ottundimento al cervello era tornato e la sensazione che le sue mani fossero controllate da qualcun altro era quasi scomparsa. Era la terza volta che gli succedeva da quando si era svegliato. Recuperata la calma, Dave fu pronto a dedicarsi a questioni più allegre. Una parola di quattro lettere si impose immediatamente alla sua attenzione: cominciava per M e finiva per ONA. A quel pensiero si accompagnò un ampio sorriso. Poi Dave iniziò a scavare più a fondo. E la depressione riprese forza. Mona era tornata con il suo fidanzato buono a nulla. Se lo sentiva nelle ossa. Nel migliore dei casi questo stava a indicare che la tabella di marcia delle registrazioni future sarebbe stata completamente scombussolata e avrebbe visto una serie infinita di musi lunghi alle feste, in coincidenza con i tentativi da parte di Mona di assistere il suo fidanzato perennemente indeciso. Nel peggiore dei casi (e Dave fece una smorfia al solo pensiero) significava vederla affondare sempre di più in un rapporto rovinoso che avrebbe potuto mettere a dura prova la sua carriera, la sua felicità e il suo futuro. Se nessuna di queste prospettive lo entusiasmava, l'idea di starsene con le mani in mano mentre Mona precipitava a rotta di collo era ancor meno attraente. Sapeva perfettamente che venerdì lei l'aveva usato per vendicarsi di Billy, ma sapeva anche che qualcosa era passato fra loro, oltre ai semplici fluidi corporei. Una scintilla. Un minuscolo ping! in fondo al cuore. Una possibilità: forse l'ultima. Dave Hart, infatti, non voleva più saperne di storie di una sola notte, di cortei senza fine di troiette decerebrate che non riuscivano a scorgere l'uomo dietro la star. L'amore in lui scorreva più a fondo e da moltissimo tempo ormai quella parte di lui non era stata più stimolata, tranne che nelle sue canzoni. Voleva una donna, una donna sola, e voleva darsi a lei completamente. Nessun problema, disse una voce nella sua mente. Devi semplicemente portarla via a quel poveraccio del suo fidanzatino. Si ritrovava fra le mani un problema etico spinoso come un porcospino che lo pungeva e si dimenava mentre cercava di trattenerlo. Altre voci, ma non la sua, gli comunicarono che era un figlio di puttana stronzo e senza cuore.
«Vaffanculo» disse. «Se devo scegliere fra lui e me, allora scelgo me. Fine del problema.» E non dimentichiamo, aggiunse, che anche un "oggetto del desiderio" potrebbe avere un'opinione su questo argomento. Decise nuovamente di cercare di scoprire quale fosse. Dave accese una sigaretta avvicinandosi al telefono, prese il ricevitore e fece il numero di Mona. Il telefono squillò una volta, due volte. Prima del terzo squillo risposero. «Pronto?» disse Dave sorridendo. «Mona?» «Sono contento che hai chiamato. Stavo proprio pensando a te.» «Puoi giurarci, testa di cazzo. Anch'io stavo pensando a te. E pensavo a come sareste carini tu e il tuo amico ingessati da capo a piedi.» Larry si rabbuiò e l'emicrania lo assalì nuovamente. Le cose andavano schifosamente. Ma le sue conversazioni mensili con Albert non andavano mai meglio. Nell'ambito dei padroni di casa, Albert si classificava a metà strada fra Topolino e Mussolini. Era un tappetto tracagnotto e puzzolente il cui gradevole aspetto era eguagliato solo dall'attenta cura che dedicava alla sua igiene personale. Larry era convinto che le mutande di Albert non avessero cuciti sopra i giorni della settimana ma i mesi dell'anno. Per il momento, Larry si teneva per sé le sue opinioni. Non era un ottimo affare insultare qualcuno a cui si devono dei soldi per l'affitto, in particolare se quel qualcuno ha una copia delle chiavi e la tendenza a ricorrere a dei tipacci per risolvere le situazioni più sgradevoli. A dei tipacci molto antipatici. Larry passò al tono di voce tranquillo e rassicurante del dj radiofonico con il quale era solito affrontare i creditori per questioni private o professionali. Fu come versare del Dom Pérignon su un pezzo di merda. «Albert» mormorò sommessamente «non c'è alcun bisogno di diventare isterici...» «Che cazzo dici? Chi diventa storico?» farfugliò Albert. «Te la do io la storia, stronzo! Se non pagate tutto entro venerdì, vedrai che storia ti monto su, testa di cazzo!» «Ma...» «Niente ma, coglione! Dalle mie parti, "non ho i soldi ma ti pagherò" ha come logica conseguenza "io ti spacco le ossa"! Mi hai capito?» Larry sobbalzò. Albert faceva lo spiritoso. Era sempre nauseante quando
Albert faceva lo spiritoso. «Forte e chiaro» mormorò Larry, ingoiando il primo scoppio salato di bile. Albert riattaccò bruscamente. Larry ringraziò rapidamente il Signore per aver avuto pietà di lui e poi si concesse il lusso di un attacco d'ira. «Che cazzo di deficiente» sibilò nella cornetta muta. A chi si riferisse esattamente non era chiaro: Albert era un possibile candidato, ma poteva anche trattarsi di Billy che si stava comportando da tale, o anche di se stesso per aver permesso che la situazione degenerasse fino a quel punto. E perfino di Brenda dall'ampia poitrine, per avergli passato quello stronzo. Aveva già il dito sull'interno, pronto a farle assaggiare il pieno impatto della sua ira dirigenziale. Poi la sua mente si perse a pensare alla notte precedente e l'immagine dei due zeppelin gemelli mise un freno alla sua ira facendola sbollire totalmente. Meglio scoparla sul serio stanotte, sogghignò dentro di sé, che farle metaforicamente il culo adesso. Giusto? Giustissimo. E spostò immediatamente il suo armamentario mentale verso questioni più impellenti. Sollevò la cornetta. Prese una linea esterna. E fece un numero. «First Choice Messenger Service. Cosa posso fare per lei?» Era sempre uno spasso sentire Ralph rispondere ai clienti. Era come stare a guardare un rospo che faceva l'imitazione di Sir Laurence Olivier. «Caviale su un formaggio puzzolente» mormorò Lisa, reprimendo l'impulso di imprecare. Ralphie continuava a fare il gentile al telefono. Lisa tirò fuori la sua cartella dalla borsa di tela nera che aveva attorno alle spalle. Pensiero positivo, si disse, accoppiato al motto dei boy scout. Non le piaceva affatto lavorare per la First Choice. C'era finita per forza. Quando la Your Kind of Messengers, Inc., era stata venduta alla First Choice, nel contratto di vendita era previsto che tutti i fattorini passassero alla nuova società. La maggior parte dei fattorini non era tanto ricca da potersi permettere di rimanere senza lavoro per troppo tempo. Lisa era una di loro. E così si era ritrovata a girare come una trottola per le strade di Manhattan al servizio della più sordida banda di stronzi coglioni che fossero mai
finiti tutti insieme sotto il marchio di un'unica compagnia. Teppisti, sfigati, ubriachi e tossici la circondavano ogni volta che metteva piede in ufficio. La nauseavano. La rendevano furiosa. E le rendevano oltre duecento dollari a settimana. Fino a che non arrivavano i soldi di Paula, non c'era alternativa. E anche dopo, avrebbe dovuto lavorare come fattorina per qualcuno: non si diventa ricchi con due o tre lavori di supervisione l'anno. Ma c'erano almeno cento altri uffici di fattorini a Manatthan e dovevano essere tutti meglio di questo. «Ho qui una cosa per te, tesoro» gracchiò Ralphie, riattaccando la cornetta e rivolgendosi a lei. «Front Line Media, 1775 Broadway. Muovi il sederino.» «Lo farò non appena riuscirai a spostare il culo fin qui per darmi il tagliando.» Ralphie fece schioccare le labbra mettendo in mostra i suoi denti verdastri. «Perché non vieni qui» mormorò melodiosamente «a prendertelo.» «Ai fattorini non è permesso andare dietro il bancone» rispose gelida Lisa. «È una delle tante regole.» «Nel tuo caso potremmo fare...» «No. Direi di no.» Lisa tagliò corto. «La regola è la regola. Dovresti saperlo. Ne hai stabilite tante.» È inutile, si disse Lisa. Come gettare perle ai porci. E il porco di quel modo di dire aveva preso forma proprio lì, davanti a lei, e grufolava sogghignando nel suo recinto. E ce n'erano altri cinque uguali a lui, tutti con l'aria maligna ed ebete. Sì, d'accordo, adesso vengo lì dietro insieme a te. Ma poi non voglio ripulire quel che resterà di te, quando avrò finito. «Allora, vuoi farmi andare o no?» chiese stancamente. «Bel caratterino, no?» disse Ralphie dando di gomito al cretino accanto a lui. Il porcile esplose in una serie di grugniti ridanciani. «Che c'è che ti rode, bella, le tue sorelline non ti trattano bene la notte?» «Va bene» disse Lisa. Le parole non devo reagire a queste provocazioni del cazzo rimasero dove dovevano, ovvero dentro di lei. Sarebbe servito solo a eccitare ancora di più quegli idioti. Si voltò per andarsene... ... e si ritrovò un fiore in faccia. Il cuore di Lisa perse un colpo. Involontariamente si ritrasse. Le cose che le venivano sbattute sulla faccia le davano sempre fastidio. Poi sorrise. Era tutto a posto. Era il suo amichetto.
«Oooooh, Stanley!» Roger fece un fischio, lanciando uno sguardo da porco in direzione di Lisa. «Sembra proprio che il caro Stan abbia un regalino per te, signorina.» «Stai attento, Stanley! Le sue amichette ti faranno nero!» strillò un altro. «A cuccia, Stan» attaccò un terzo. «Non vorrai che una lesbicaccia ti prenda a pedate nel sedere, no?» «Quanto cazzo siete spiritosi» li interruppe bruscamente Lisa. Poi si rivolse al reietto con il fiore in mano. Stanley Peckard era una bizzarra unione di Peter Lorre e Wally Cox. Aveva gli occhi da rospo del primo circondati dall'aria compita da ritentore anale del secondo. E come entrambi era cerebralmente piatto. Ma era un vero tesoro, e su questo non c'era niente da eccepire. Sotto quell'abitino elegante con tutti i bottoni abbottonati... sotto la cravatta a farfalla a pois e i capelli precocemente ingrigiti che sembravano pettinati con lo sputo... sotto quell'aspetto anacronistico da squallido babbeo batteva un cuore dolce come zucchero filato. Ed era vero che si era preso una cotta tremenda per lei: ogni volta che entrava nella stanza, gli occhi di Stan si facevano lucidi come biglie. E nel giro di un paio di secondi tirava fuori il regalo del giorno: un giocattolo di plastica, un fischietto o, come aveva fatto una volta che le cose andavano particolarmente storte, un pennarello. E oggi un fiore. Un fiore scaldato dal sole, notò Lisa. L'aveva evidentemente colto di nascosto in una delle aiuole spartitraffico ben curate di Park Avenue. Sulle ginocchia aveva delle macchie di fango. probabilmente per lui è stata un'avventura incredibile, pensò. Il fiore era ancora davanti al suo viso, tutto tremolante. Lisa accettò il dono e lo tolse delicatamente dalle mani di Stanley. «Grazie» disse. «Mi hai rallegrato la giornata.» Stanley fece un sorriso che lo fece assomigliare a una zucca di Halloween, mettendo in mostra i denti storti e fragili. In mezzo al mento gli apparve una fossetta grande come un ditale. Affilato La giornata andò avanti come tutte le altre, un altro anello nella catena infinita che si stringeva sempre più intorno al collo di Stanley Packard. Corse avanti e indietro agli ordini di Ralphie, con il farfallino stretto intorno al collo mentre la suola delle sue Kinney si assottigliava in seguito
all'attrito con il cemento implacabile. Almeno una dozzina di volte, nel corso della sua giornata lavorativa al minimo sindacale, Stanley avrebbe voluto svignarsela, infilandosi in tasca il farfallino dove nessuno avrebbe potuto vederlo, sbottonarsi la camicia e rimboccarsi le maniche. Ma non poteva. Stava lavorando e quando lavorava doveva avere un aspetto (affilato) distinto o non avrebbe mai fatto strada. Glielo aveva detto la mamma e lui non lo aveva mai dimenticato. Neanche dopo che lei era morta. Ma ora tutto andava per il meglio. Stanotte si sarebbe scatenato. C'era una seratina speciale in serbo per lui. Il solo pensiero gli aveva dato la forza di tirare avanti per tutto il giorno. E lo rendeva felice. Stanley si mise a canticchiare una delle sue canzoncine preferite. Doveva averla sentita un milione di volte alla televisione: Ecco qui, amici miei, una serata davvero speciale per voi... Alle cinque e cinque minuti aveva chiuso tutto ed era pronto ad andarsene. Si incamminò per Park Avenue diretto a sud, verso la Tredicesima Strada e il suo appartamento. Camminava rapidamente, con passo vivace, senza perdere tempo a godersi lo spettacolo dei palazzi altissimi o del parco con i suoi buffi scoiattoli che scendono a prenderti le noci dalle mani quando gliele offri. Alla cinque e venticinque era a casa: un letamaio cadente di sei piani sulla Tredicesima, a est dell'Avenue A. Salì di corsa i quattro piani di scale, con la velocità che gli permettevano le sue gambe scheletriche. Le scale puzzavano di Clorex e di urina rancida, ma lui non se ne curò particolarmente. Lo aspettava una seratina speciale. Stanley Packard aveva un appuntamento con una ragazza. Alle sei meno un quarto era di nuovo in strada. Non era ancora ora dell'appuntamento. Oh, no. Ma c'era qualcosa che doveva fare, e in fretta. Alle sei meno cinque entrò nel negozio con un sospiro di sollievo che si mischiava al rantolo che gli usciva dalla bocca mentre tentava di riprendere fiato. Era da maleducati presentarsi a un appuntamento senza un regalo e questo negozio era il suo preferito per fare compere. Chiudeva alle sei e quindi doveva fare in fretta. Non aveva tempo, questa volta, per gironzola-
re fra gli scaffali pieni di utili oggettini, pratici e lucenti, e di sorprese per occasioni speciali. Per fortuna trovò subito quel che cercava: era in fondo, vicino alla cassa. Sopra un lindo bancone, su una striscia magnetica messa lì apposta per tenere tutto bene in ordine. Era davvero qualcosa di speciale e quando gli era passato accanto gli era quasi sembrato che saltasse su e lo chiamasse per nome. Lo prese in mano: era lungo quindici centimetri e aveva un'impugnatura di vero legno. Acciaio inossidabile. Splendido splendente. E il nome inciso in lettere minuscole. Un nome di classe. Per un appuntamento di classe. Mastro intagliatore. A lei sarebbe piaciuto da morire. C'erano dei demoni dentro la sua testa. Non ci voleva un genio per capirlo. A volte se ne rendeva conto vagamente, altre volte non riusciva a pensare ad altro. Ma sapeva sempre, in fondo a quel che restava della sua mente, che c'erano sempre dei demoni che impazzavano in quello che un tempo era il suo cervello. E avevano sempre, sempre fame. Uscì dal negozio di ferramenta sulla Seconda Avenue con il regalo premuto contro il petto. C'era una macelleria all'angolo, già chiusa. File di lucidi uncini d'acciaio, appesi in vetrina, in paziente attesa delle merci del giorno seguente. Rimase a fissarle come un bambino avrebbe guardato un sacco pieno di giocattoli natalizi e mormorò qualcosa, così piano che solo i demoni riuscirono a sentirlo. «Pezzi di carne.» Era questo che aveva detto. Poi si diresse verso casa. Ad attendere la notte. E l'ora dell'appuntamento. Sullo schermo... Ballavano ancora. Ragazzi e ragazze. Curve mozzafiato inguainate in jeans aderentissimi che si dimenavano. Dietro di loro l'oceano. Ai loro piedi la sabbia. Labbra sensuali e denti perfetti. Come sempre, lui guardava le ragazze. Riusciva a sentire il battito del loro cuore. Nella stanza...
Una comoda poltrona che aveva visto tempi migliori ricoperta di vinile verde, proprio di fronte allo schermo tremolante. Un buco in cui sarebbe passato un pugno intero nel grosso bracciolo destro, con ciuffi di imbottitura bianca che sbucavano fuori e graffi profondi nel legno. Un grosso incavo dove il cuscino si era conformato al peso sedentario del sedere. Sulla sinistra un tavolinetto da caffè ricoperto di buste e tovaglioli di carta bianchi, vassoi per la cena vuoti che sembravano bluastri sotto la luce dei puntini fosforescenti. Le stesse cose erano sparse sul tappeto opaco e pieno di macchie, sotto il tavolinetto. Più in là, contro il muro, un vecchio divano in stile coloniale. Un impermeabile lurido e spiegazzato e un capello floscio di feltro abbandonati su di esso. Sulla parete, sopra il divano... Un paio di fotografie sgranate in bianco e nero. Ritagli di giornale, ornati di titoloni scandalistici. Il tutto tenuto da pezzi di nastro adesivo, sistemato di sghembo. Erano le bellissimissime fra le bellissime. E lui le aveva rese famose. Le aveva fatte sorridere. Alla porta... Una luce demoniaca filtrava attraverso il buco della serratura. Il pomello della porta girava. Non era mosso da mano terrene. Lo stavano chiamando. Impazienti. Affamati. Lo chiamavano. Girò intorno al tavolino da caffè, si lasciò dietro la poltrona e si diresse verso la porta. Il pomello smise di girare non appena la sua mano vi si posò sopra. Ma era caldo. Caldo come la carne umana. Sullo schermo... La danza era cessata. La luce tremolante si stava spegnendo. Nella stanza... Delle cose minuscole si muovevano. Gli portarono cappello e impermeabile. C'erano dei demoni nella sua testa che gli facevano fare delle cose. Non era sicuro che gli piacessero quelle cose che gli facevano fare, ma questo era del tutto irrilevante. Lo mettevano all'opera e poi lo riportavano a casa. Si assicuravano che i suoi conti venissero pagati puntualmente. Lo tenevano buono e quando parlava gli mettevano in bocca parole che tenevano gli altri a distanza. Lo proteggevano da chi rischiava di avvici-
narsi troppo, da chi avrebbe potuto interferire con il Piano. Lo condussero giù per le scale, nella notte. Fermarono un taxi per lui all'angolo fra la Quattordicesima e Avenue A. Lo portarono abbastanza lontano, come facevano sempre quando aveva un appuntamento. E come sempre, fecero in modo che il tassista si dimenticasse della sua faccia. La voce del demone giunse senza che lui l'avesse evocata. Non era una voce vera e propria, ma piuttosto una sensazione inconfondibile, un formicolio rivelatore alla base del cranio, che gli diceva che (erano arrivati) non avrebbe dovuto aspettare molto, sarebbe giunta da un momento all'altro. Cominciò ad agitarsi guardandosi nervosamente intorno, arrivò perfino a scendere dal marciapiede per attraversare la strada e (ERRORE) il formicolio si trasformò immediatamente in una fitta incandescente che gli scavava buchi sanguinolenti nel cervello. Si girò su se stesso e si trovò di fronte la bocca spalancata di un androne. La fitta si attenuò e tornò a essere un formicolio e lui si sentì (molto meglio) pronto a cominciare. Non voleva arrivare in ritardo, essere (una delusione) accusato di averla fatta aspettare. Non lo avrebbe mai fatto. Lui (come sempre) avrebbe trovato un posticino dove nascondersi per farle una sorpresa. Forse lei (si sarebbe divertita) gli avrebbe sorriso. Scelse il luogo con cura: facile da raggiungere, ma al sicuro, nell'ombra, nella bocca dell'androne. Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto sudicio, si asciugò delicatamente il sudore dalla fronte e se lo rificcò in tasca. Rifletté per un istante sulla ragazza con cui aveva appuntamento. Non l'aveva mai vista. Non le vedeva mai. Almeno non prima. Era una delle regole. Ma sapeva come farle sorridere. Bastava avere un aspetto (AFFILATO!) carino e mostrarsi (AFFILATI!)
forti e avere pronta per loro una (AFFILATA!) sorpresa. Allora avrebbero sorriso. Sorridevano sempre. Aveva una canzone nel cuore, come spesso gli succedeva. Cominciò a canticchiare a bassa voce: Come sei bella voglio conoscerti più a fondo... Poi sentì il rumore dei tacchi che si avvicinavano lungo il marciapiede. Come sei bella e questo è tutto... Sbirciò fuori. Stava arrivando qualcuno. Si chiese se era lei e (!!!!!!!!) il groppo che aveva in gola divenne un getto di dolore incandescente e arroventato che bruciava come olio bollente. Indietreggiò fino a urtare il muro con le spalle e rabbrividì tenendo le braccia incrociate sul petto, sforzandosi sforzandosi sforzandosi di non urlare. Ai demoni non piaceva che lui si mettesse a urlare. Avrebbe rovinato la sorpresa. Ripiombò nell'ombra e attese che i passi leggeri scomparissero e smettessero di scavargli dei fori nella polpa del cervello. Li sentì avvicinarsi, passargli accanto e poi proseguire, e ogni passo gli scavava un foro nella testa e poi si dileguava negli spazi vuoti del suo cranio. Infine se ne andò. La fitta era tornata un formicolio. Ed era felicissimo. Perché, all'apice del tormento, Essi gliel'avevano mostrata. Era la prima volta. Il motivo per cui Essi avevano deciso di svelare il suo volto era un mistero che perdeva d'importanza di fronte al fatto che se l'era vista davanti per un istante, un'immagine nitida come il riflesso in uno specchio d'acqua placido e limpido... ... ed era magra e slanciata, con delle gambe fantastiche e un sacco di capelli nerinerineri... Non vedeva l'ora... Sarebbe stata la bellissimissima delle sue bellissime ragazze.
La musica nella sua testa era molto più forte, ora, assordante come un coro da stadio che lo acclamava e lo incitava, milioni e miliardi di voci tutte insieme. Sbirciò fuori dall'ombra e gli parve quasi di vederla tornare, sentì il clic clac clic clac dei suoi tacchi a spillo. Stanely Packard era eccitato. Sembrava proprio che lei fosse (AFFILATA!) ormai sul punto di sorridergli. La guerra, in primissimo piano L'appartamento di Paula Levin era un buco, all'angolo fra la Sedicesima e la Nona, ma lei era riuscita a gremirlo fino a farlo quasi scoppiare con ottimi risultati. Ogni centimetro di muro che non era coperto dalle librerie era soffocato da foto, le più oscene che si potessero immaginare: porno con bambini, cani e cavalli, donne legate e stuprate da uomini con maschere di pelle e così via. Lisa era attonita. «Disgustoso, no?» disse Diane sorridendo. «È questo il problema di fondo» riprese Susan. «Se vogliamo combatterli, dobbiamo affrontarli senza indietreggiare.» «Però...» intervenne Lisa. «Niente esitazioni» la interruppe con voce tonante Paula, sbucando dalla cucina con una bottiglia di vino e quattro bicchieri in mano. «È un dato di fatto che non puoi fare altro che accettare.» Non necessariamente, pensò Lisa, tenendosi per sé il commento. Stava guardando la foto di una bellissima bionda, incatenata e bendata. Nello splendore del Technicolor, stava succhiando la canna di una 357 Magnum. Era una fotografia estremamente irritante, su questo non c'erano dubbi. Lisa fremeva di rabbia quando le capitava di vedere immagini eccessive come questa, ma la situazione in cui si trovava ora era particolare. E aveva a che fare con queste donne. Quella sera avevano organizzato una riunione per la preparazione di Pezzi di carne, il film successivo di Paula Levin. Dal momento che la sceneggiatura non era stata ancora scritta, si trattava di un incontro a metà fra un libero scambio di opinioni e un processo di sintesi e di unificazione. Paula aveva sottolineato la necessità di "essere tutte d'accordo" sul progetto. Lisa l'aveva trovato sensato ed era stata ben lieta di aderire. Ma ora non si sentiva più così sicura.
«Siediti pure» disse Susan Silver. Era la produttrice del film di Paula e collaborava alla sceneggiatura. Si conoscevano da meno di cinque minuti, ma Lisa aveva già avuto l'impressione che parlare con Susan fosse come usare una lima da unghie come filo interdentale. Aveva l'aria pensierosa, la voce stridula e sembrava completamente asessuata, anche se i tratti del suo viso non erano del tutto sgradevoli. Il suo invito, teoricamente amichevole e affettuoso, aveva il tono di un interrogatorio nazista. «Un momento solo» disse Lisa. La sua attenzione si era spostata nuovamente sulle foto che ricoprivano la parete. Due ragazze non ancora adolescenti stavano leccando il cazzo a un brutto ceffo mentre nella foto accanto la pornostar Ginger Lynn subiva una penetrazione tripla. Una pagina intera di titoli dedicati al bondage quali Botte alla troia e La banda dei molestatori di ragazzine spiccava in mezzo a un collage di annunci pubblicitari per abiti, liquori e automobili che presentavano tutti dee/modelle dai seni immensi. Lisa riusciva a capire quel che aveva di fronte, poteva perfino apprezzare l'uso artistico di quelle fotografie. Il problema, però, non stava affatto nella magica trasformazione in senso femminista di quelle immagini. Era il fatto di usare quella merda come carta da parati che dava fastidio a Lisa. Era come se un ebreo avesse tappezzato la sua stanza con istantanee di Auschwitz. C'era qualcosa di insano e di ossessivo in tutto questo. «Prova il vino» disse Diane. «Ti aiuterà. Credimi.» Fece l'occhiolino a Lisa, allegra e maliziosa. Diane costituiva per Lisa un vero mistero. Era intelligente, era divertente, non era dogmatica e non aveva niente a che fare con il film. Aveva detto che sarebbe rimasta in città per qualche giorno senza dilungarsi sui motivi per cui si trovava lì (aveva accennato all'intenzione di "fare un sacco di danni") ma neanche questo spiegava perché si trovasse insieme a Paula e Susan. A giudicare dalle apparenze, non sembravano neanche andare molto d'accordo fra loro. «Ha un ottimo colore» disse Lisa. «Arrivo subito.» «Bene» disse Susan. «Così forse potremo passare alle cose serie.» Sul suo viso non compariva la minima espressione. Paula, anche lei espressiva come una parete bianca, versò il vino. «D'accordo» disse Diane, avvicinando una sedia al tavolo per Lisa. Assomigliava a uno spiritello dei boschi, Diane, senza alcun dubbio: grandi occhi grigi in un visino rotondo, pettinatura alla paggio, capelli castani e sulle labbra un immancabile sorriso da elfo. Dal momento che l'unico sog-
getto bendisposto nei suoi confronti in quella stanza era lei, Lisa non poté fare a meno di accettare l'invito. «Grazie» disse ricambiando il sorriso. Diane le strizzò l'occhio. Lisa si sedette. Diane prese posto accanto a lei e avvicinò la sua sedia a quella di Lisa, tanto per non lasciare spazio a equivoci. «Propongo un brindisi» disse Paula alzando il bicchiere. Le altre la imitarono. «Alla fine della supremazia degli uomini e delle loro atrocità. Con ogni mezzo necessario. Una volta per tutte.» Paula e Susan si intendevano alla perfezione. Avevano gli stessi occhi freddi e penetranti. Mentre alzavano i loro bicchieri, entrambe fissarono in silenzio Lisa. Anche Diane la guardò, ma mentre lo faceva appariva raggiante. Lisa capì come doveva sentirsi un paramecio sottoposto a indagine microscopica. Non era un'esperienza gradevole. Le ricordava un'altra orribile esperienza, quella di trovarsi da sola con i ragazzi dell'agenzia di spedizioni, circondata da alieni che non aveva la minima intenzione di stare a sentire e tanto meno di capire. Voglio proprio farlo questo film? si chiese. Voglio lavorare con queste persone? Poi perfezionò il quesito: Voglio prendere ancora tempo e decidere dopo quello che succederà nella prossima mezz'ora? Lisa annuì, si sforzò di sorridere e si unì al brindisi. Fecero tintinnare i bicchieri. Diane vuotò il suo in un sol colpo. Paula e Susan si limitarono ad assaggiarlo appena. Lisa si sentì costretta ad assumere una posizione intermedia. I bicchieri vennero posati sul tavolo. E Paula aprì la discussione. «Sapete tutte» iniziò «che Pezzi di carne riguarda la violenza sulle donne e che intendiamo darne una descrizione completa. Oltre cento casi recenti sono stati raccolti da me e da Susan negli ultimi sei mesi: oltre cento esempi di tortura, stupro e omicidio nella sola New York. «Il problema è il seguente: abbiamo incontrato molte difficoltà nel trovare una storia talmente straordinaria da conquistarci entrambe. Un centinaio di casi d'appoggio vanno benissimo, ovviamente, ma il preventivo che chiederemo non può essere giustificato da un prodotto come quello, con storie messe insieme come capita.» «Abbiamo bisogno di una storia» aggiunse Susan. «Una storia che ci serva come metafora per illuminare tutte le altre.»
«Qualcosa di sensazionale» disse Lisa annuendo. Le sembrava di aver capito. «NO!» esclamarono Paula e Susan contemporaneamente. Si scambiarono uno sguardo poi Susan lasciò la parola all'altra. «Il sensazionalismo è proprio di una prospettiva maschile. È un procedimento usa-e-getta, privo di comprensione umana. Quel che cerchiamo noi è l'intensità, una cosa completamente diversa.» «Scusate» disse Lisa. Avrebbe sollevato più tardi, in privato, le sue obiezioni a questa affermazione. «In alcuni casi eravamo quasi certe di aver trovato quello che cercavamo» disse Susan «ma poi c'era sempre qualcosa che non andava. Le donne morte, per esempio, erano molto difficili da intervistare. E le persone che le erano state vicine mostravano una disdicevole reticenza a parlarne.» «È per questo» aggiunse Paula fissando Lisa «che siamo alla ricerca di donne che facciano parte del nostro giro di conoscenze. Qualcuno, o i loro conoscenti, che sia disposto a parlare.» Una pausa. «Conosci qualcuno che può fare al caso nostro?» «Non direttamente» rispose Lisa. «Conosco gente che ha avuto brutte esperienze, ma temo che ricadano nel campo delle esperienze comuni, non particolarmente intense.» «E Linda Lovelace ha già dato» intervenne Diane sorridendo. Paula e Susan la fissarono per un istante. Lei alzò le spalle e si versò un altro bicchiere di vino. Lisa si chiese nuovamente cosa ci facesse quella gente nella stessa stanza tutta insieme. Ma l'affermazione di Diane le aveva fatto venire in mente qualcosa. «Perché non usiamo qualcuno del giro del porno?» chiese Lisa. «Se riuscissimo a trovare la stella di Botte alla troia, per esempio...» «Le donne che lavorano nel porno non sono bendisposte nei nostri confronti» disse Susan mentre l'ombra vaga di un sorriso le attraversava il viso. «Gli uomini che le schiavizzano hanno fatto loro il lavaggio del cervello. Molte sono davvero convinte che quel che fanno sia utile e valido.» «Come la tua amica» disse Paula. «La ballerina.» Lisa ricacciò indietro la rabbia che le era montata alla testa sentendo nominare Mona e comprese in un attimo che Paula, con quel suo commento, voleva semplicemente farla scoprire. Per un brevissimo istante provò l'impulso di arrossire sotto il peso di quegli occhi, poi sentì la sua mente che alzava la testa e quel che diceva era con chi diavolo credono di avere a che fare?
Lanciò un'occhiata a Diane e le si chiarirono le idee. Diane affronta Paula e Susan semplicemente comportandosi come meglio crede. Non si lascia innervosire. Non si lascia intimidire. Perché non faccio lo stesso anch'io? «Sì» disse Lisa vagamente beffarda. «Come la povera, vecchia Mona.» Poi sorrise e tornò a guardare la parete. La bionda stava ancora succhiando la canna della pistola. Lisa si chiese se la donna era stata costretta a fare quella fotografia o se era invece una delle poche donne bellissime alle quali piaceva davvero succhiare la canna di una pistola, o se invece, cosa più probabile, era come tutte le altre persone al mondo e faceva cose disgustose perché a volte è necessario farle se vuoi cavartela. Al momento, l'ultima ipotesi sembrava a Lisa quella più attendibile. «Posso avere ancora del vino?» chiese. La foto successiva la mostrava mentre urlava con la bocca piena di sangue e di denti spezzati mentre un immenso stallone la montava da dietro. Non c'erano dubbi sull'autenticità della fotografia. Il sangue era vero. Lo stallone era Rex. E la foto l'aveva scattata Rickie. Era la moretta che si erano fatti l'altra notte. Non era deliziosa come la bionda di sabato, ma chi cazzo se ne frega? Per una scopata basta e avanza. E aveva una vocina stridula che era un piacere sentirla strillare quando la tagliuzzava... Rickie stava mettendo insieme una vera e propria collezione: cinque troie nelle ultime due settimane, per un totale complessivo di ottantasette foto passabili. La maggior parte erano rintanate in fondo al suo cassetto della biancheria, ma le migliori erano custodite gelosamente negli scomparti plastificati del suo portafoglio. C'era stato un periodo in cui gli piaceva guardare i prodotti massificati dell'immaginazione di altri: film, video, peep show, riviste, esibizioni dal vivo allo Show World. Ma non erano mai abbastanza, mai: non lo coinvolgevano fino in fondo, almeno nel modo in cui lo coinvolgevano adesso le sue avventure. «EHI, PENDEJO!» gridò Rex dall'altra stanza. «VUOI STARTENE A MENARTELO CON QUELLE STRONZATE TUTTA LA NOTTE O VUOI USCIRE A DIVERTIRTI!» Non era una domanda. Rickie sorrise e chiuse il cassetto. Aveva già in
tasca il portafoglio. Aveva già la macchina fotografica intorno al collo. E la notte stava per cominciare. La scelta Le luci erano soffuse al Chelsea Commons. Ombre gradevoli riempivano la stanza, rendendo più intimo il legno scuro e lucido e le pareti in mattoni. Alcuni clienti abituali erano seduti al banco. Ridevano e bevevano e scherzavano bonariamente. Erano pochissimi i tavoli occupati alle undici di un mercoledì sera. Mona e Dave erano seduti a uno di quei pochi. «È un posto carino» disse Dave. «Sembra confortevole.» «Lo è. Io e Lisa veniamo sempre qui. È splendido avere un locale così vicino casa, dove i maschietti non ti infastidiscono e il barista sa quali sono i tuoi gusti.» «Brindiamo!» esclamò Dave sollevando il bicchiere: Dos Equis ghiacciata con uno spicchio di limetta. Mona fece tintinnare la sua tequila contro il bicchiere di Dave. «La cameriera non mi ha neanche guardato strano per quello che ho ordinato.» «Ti succede spesso?» «Sempre. Ma ce la faccio lo stesso ad andare avanti.» Si strinse nelle spalle, le strizzò l'occhio e mandò giù con aria di sfida la birra con ghiaccio e limetta. «E se qualcuno ha qualcosa da ridire, vada a lamentarsi con Dio. Vedrai come li starà a sentire!» Mona abbassò il bicchiere e per un istante rimasero in silenzio. Nonostante il conforto fornito dal Commons, era tutt'altro che tranquilla. La tequila stava annegando le farfalle che le svolazzavano nello stomaco. Stava facendo un buon lavoro, ma non erano ancora morte. Voglio passare una bella serata, si disse. È ridicolo prenderla così male. Dave è un bravo ragazzo. Lavoriamo insieme, fra alti e bassi, ormai da mesi. Ci siamo divertiti insieme. Perché stasera dovrebbe andare diversamente? Perché ti vuole. Un'altra voce, dentro la sua testa. Sì, ma mi ha sempre voluto. Sì, ma hai ceduto una volta. E questo cambia tutto e lo sai benissimo. Ma non potrei passare una serata normale con lui, da amici? Sorpresa! Non durerà a lungo. E poi, Billy...?
Smise di ascoltare quella voce. Dave la stava guardando incuriosito. È così facile capire quello che ho dentro? Sì. Ora taci. «Cosa c'è?» chiese Dave. «Niente.» «Ma certo. Anche il muro di Berlino era niente.» Mona sospirò e non aggiunse altro. Dave sospirò e allungò la mano attraverso il tavolo per prendere quella di Mona. Lei stava per allontanarla bruscamente, poi cambiò idea e lo lasciò fare. Non si accorse che anche lui era stato sul punto di ritrarsi altrettanto bruscamente. «Sei preoccupata» disse «per quello che è successo fra noi.» «Sì.» «E come mai?» disse Dave sorridendo. «Mi sembrava che fosse stato fantastico...» La porta del locale si spalancò all'improvviso. Mona alzò lo sguardo e istintivamente si liberò dalla stretta di Dave. Entrarono quattro persone che non conosceva. Quando abbassò nuovamente lo sguardo, la mano di David era stretta a pugno. «Oh, Dave, mi dispiace.» Questa volta fu Mona a sporgersi verso di lui e a prendergli la mano fra le sue. «Solo che... ero nervosa perché pensavo che...» La porta si spalancò nuovamente. Ed entrò Billy. Li vide immediatamente. Era impossibile non cogliere lo sguardo di freddo terrore di Mona. Nell'istante in cui i loro occhi si incontrarono, Billy capì quello che stava succedendo, capì quello che provava Mona e capì come la sua presenza avrebbe influenzato le dinamiche di quella serata. Non era stato un giorno memorabile per Billy. Dopo quasi cinque ore trascorse al distretto di polizia, era tornato a casa e se ne era andato a dormire, cercando di smaltire il mal di testa. Non aveva suonato una nota, non aveva cantato e non aveva guadagnato niente. E ora anche questo. Billy fece un lieve cenno col capo e con un gesto della mano fece capire a Mona che fra un minuto sarebbe andato da loro. Quella sera erano presenti alcune persone che aveva conosciuto nelle sue frequenti tappe al
Commons e Billy si fermò a salutarle, prese una Rolling Rock e diede sportivamente a Mona la possibilità di ricomporsi. E a se stesso la possibilità di ingoiare la bile che gli era salita in gola al pensiero di dover affrontare Dave, che da parte sua non l'aveva ancora visto. Anzi, non aveva mai visto il nuovo Billy Rowe versione riveduta e corretta, mentre Billy aveva visto Dave e non era affatto felice di quello che si sentiva dentro. Sentiva già il Potere che accumulava energia. Gli sembrava di essere sotto delle linee di alta tensione: lo stesso formicolio della carica statica che gli faceva rizzare in testa i capelli corti. Chissà che succederebbe se tenessi una lampadina in mano? si chiese e gli venne da ridere. Poi la paura spazzò via il suo senso dell'umorismo. Aveva il terrore che l'incazzatura gli facesse perdere il controllo. Nella testa gli passavano dei pensieri di violenza e di vendetta che erano cosa buona e giusta, a patto però che se ne restassero dov'erano. La faccia di Dave che esplodeva. L'uccello di Dave che cascava per terra. L'uccello di Dave che gli spuntava lentamente in mezzo alla fronte mentre le sue mani da rock star si trasformavano lentamente in pinne... NO! gridò la sua mente soffocando con forza quelle immagini mentali e il Potere. Non poteva più godersi il lusso di concedersi innocenti e riprovevoli divagazioni mentali: il passaggio dall'immaginazione alla realtà era troppo facile, troppo spontaneo e incontrollabile. Calma. Calma. Era quasi come un mantra. Rilassati. Bevi la tua birra. Bevi tutta quella cazzo di birra o non avrai il coraggio di andare da loro e affrontarli. Billy rovesciò la testa all'indietro e si versò la birra direttamente in gola. Da ragazzo era stato abbastanza bravo a farlo, quando uno dei riti di passaggio della sua banda delinquenziale era spararsi una lattina intera di birra in gola senza boccheggiare, senza soffocare e senza sputacchiarla su tutto il pavimento. Concentrandosi sulla sua gola, Billy si dimenticò di Dave. La bile venne spazzata via. Nel giro di un minuto era pronto. «Ehi» disse Dave. Era evidentemente sbalordito. «Sarebbe lui quello scoppiato di Billy di cui si sente tanto parlare?» «Uh-uh!» mormorò Mona scuotendo però contemporaneamente il capo. Aveva gli occhi incollati su Billy che stava ordinando ancora da bere. C'era stato un momento lungo e gelido in cui era quasi riuscita ad avvertire la
rabbia che scaturiva da lui in ondate taglienti e stridule. Ora era passata. Sicuramente aveva immaginato tutto. Ma questo non cambiava minimamente il fatto che aveva provato un'improvvisa e incomprensibile paura di Billy. Non venire qui, sentì una voce in lei che implorava in silenzio. Ti prego, Billy, non fare un'altra scenata. Era inevitabile. La sua speranza era ridicola, ma avrebbe voluto tanto essere lei a scrivere il copione di quella scena: avrebbe fatto balenare un sorriso di comprensione sulle labbra del suo ragazzo che poi si sarebbe girato e avrebbe infilato la porta. Nella realtà, la prima parte dei suoi desideri si realizzò. Un sorriso balenò sulle labbra di Billy. Poi si verificò esattamente l'opposto di quello che aveva sperato. Come capita spesso con i desideri. «Merda» gemette Mona mentre Billy si avvicinava al tavolo. «Abbiamo compagnia?» Dave cercò di fare lo spiritoso e scrollò le spalle. «Dave, per favore» Gli lanciò un'occhiata colma di panico, poi tornò a guardare Billy. «Non perdere la calma. Non provocarlo. Se finisce in una rissa, non so se riuscirò a sopportarlo.» «Lo giuro su Dio» disse Dave alzando entrambe le mani come per fare una promessa solenne. E incrociò le dita. Mona non rise. «Parlo sul serio» la rassicurò Dave. E Billy si fermò accanto al tavolo, fissando entrambi. «Ciao» disse. Aveva un sorriso teso, ma che era in parte autentico. «Ciao» disse Mona, distogliendo lo sguardo. «Come va?» concluse Dave porgendogli la mano. «Tu sei Billy, vero?» Billy lo guardò per un momento prima di stringergli la mano e rispondere. «Sì. E tu devi essere Dave.» «E ovviamente Mona la conosciamo già» disse Dave. La stretta di mano aumentò di intensità. Divenne una morsa. L'aria cominciò a ronzare intorno a loro. A Mona sembrò di trovarsi al centro di una fortissima scarica di energia statica: sentiva i capelli ritti, come se si fossero sollevati di un metro sopra la testa, rigidi come aghi di porcospino, e la pelle sembrava letteralmente accapponarsi intorno alle ossa. Il terrore era tornato, molto più forte di prima. Non riusciva a distogliere lo sguardo dai due uomini davanti a lei:
uno digrignava i denti come se fosse stato intento a compiere un terribile sforzo, l'altro aveva lo sguardo assente e si contorceva come un pesce preso all'amo. A Dave sembrava che gli stessero infilando a forza nel cervello delle tenaglie arroventate e pulsanti che strizzavano e squarciavano la materia grigia e la trasformavano in una pappa viscida e urlante. Il dolore era accecante come una nova. Le sue terminazioni nervose erano contratte come una fetta di pancetta carbonizzata. La pelle sembrava friggere e sfumacchiare. Restava solo il dolore, totale e massacrante. Il resto del mondo, compresa la sedia sulla quale si dimenava, non esisteva più. E Billy era impegnato in una cavalcata selvaggia attraverso i ricordi di Dave Hart, con la caparbietà di una pallottola diretta al cervello. Non vedeva le immagini secondarie che scorrevano all'indietro verso quella che cercava; erano confuse, mosse, irrilevanti come le scene che passano davanti alla finestra di un cieco. Quando trovò quello che voleva, si sentì gelare il sangue e il dolore scaturì in lui fino a raggiungere quello di Dave. Era un fotogramma a luci ultrarosse quello che passò davanti al proiettore della mente di Billy ormai in fiamme, mostrando tutto quello che c'era da mostrare e poi sciogliendosi fino a trasformarsi in lava che gli scavò dei canyon crepitanti nel cranio e i suoi nervi diventarono tizzoni ardenti mentre un grido si faceva strada nella gola lacerandola... La stretta di mano si sciolse. Nel bar calò il silenzio. I due uomini si fissarono, vivi e indolenziti. Mona e Dave si appoggiarono allo schienale delle loro sedie, Billy rimase in piedi sbandando leggermente. Il sangue parve dileguarsi da tutti e tre i loro corpi contemporaneamente, lasciando un terzetto di spettri spauriti e con gli occhi sbarrati. Poi Dave gridò: «LE MIE MANI!» e crollò sul tavolo. Mona emise un grido quasi impercettibile e si sporse in avanti, stringendogli la nuca. Aveva gli occhi di una pazza e il viso era contratto in una maschera che tuttavia non aveva perso ogni attrattiva. Billy indietreggiò barcollando e urtò il tavolino vuoto alle sue spalle. Rubin e la punk e la loro bambina si profilarono dietro ai suoi occhi suscitando in lui un senso di nausea, una visione da incubo che ebbe appena la forza di cancellare. «CHE COSA GLI HAI FATTO?» gridò Mona, tanto per peggiorare le
cose. La scintilla che si accese quando i loro sguardi si incrociarono era tale da far bruciare i capelli di Billy in una combustione spontanea. E la sua mente era un mosaico impazzito di parole, la rete tessuta da un ragno in acido, deforme e costruita con frammenti di realtà che gli farfugliavano in fondo alle orecchie e dicevano Mio Dio, ho perso il controllo, non volevo vedere quel che ho visto, non volevo vedere lei sopra di lui, che sorrideva, non volevo sapere quel che lui provava nel momento in cui... «Non sono stato io» disse, ma era poco più di un sussurro. Distolse lo sguardo. Le mani di Dave non stavano fumando. Era troppo sconvolto per sentirsi sollevato dall'assenza di orrore. «Lo giuro su Dio, non sono stato io» ripeté allontanandosi dal tavolo e indietreggiando verso la porta. Poi si girò e incominciò a correre, e la distanza fu coperta in un istante, i quattro deficienti a fianco della porta niente più di un asterisco per una nota a piè di pagina che non sarebbe mai stata letta mentre Billy passava accanto a loro come un razzo, urla silenziose e non udite, la porta che si spalancava e lo accompagnava nella massa oscura e grave della notte... Gli orrori Gli orrori iniziarono senza indugio alcuno alle undici e tre quarti, con una sincronia e una cadenza degne di un coreografo esperto. In alto, nel cielo, la luna argentea formava un artiglio perfetto, il vento gelido era umido e pesante come l'aria che esce da un polmone trafitto. Il vuoto sembrava riempire le strade, le rendeva strette e paranoiche anche se in giro non c'era nessuno. Era una notte perfetta per gli orrori. Aspettavano da tempo una notte come quella. Ora l'attesa era finita. Il loro momento era giunto. Mona salutò con la mano la nuca di Dave mentre il taxi risaliva lentamente la Decima Avenue. Non riusciva ancora a capire che cosa era successo. Non riusciva a credere che un giorno avrebbe forse potuto capirlo. Ma Dave era bianco come un cadavere, con una punta di verde, quando lo aveva trascinato fuori dal Commons. Il mal di testa che affliggeva tutta Manhattan lo aveva nuovamente aggredito, diecimila volte più forte di prima. Riusciva appena a camminare, ma non certo a darle la buonanotte con un bacio. E quello di cui voleva parlare con lei gli era ormai passato di
mente e avrebbe dovuto aspettare un'occasione migliore. Che cosa è successo? continuava a chiedersi Mona mentre i suoi nervi formicolavano ancora per l'eccessiva vicinanza alla fonte del Potere. Le immagini rifiutarono di scomparire, si accumularono come boccali di birra vuoti fino a che non le riempirono il cranio. Continuava a vedere Dave, i suoi occhi assenti, la sua pelle molle... ... e continuava a vedere Billy, la terribile concentrazione che si trasformava tutto a un tratto in angoscia. Continuava a vederlo gridare mentre il terrore gli inondava gli occhi e la mano si staccava da quella di Dave come se fosse in fiamme... ... e il crepitio nell'aria intorno a loro si placava... ... e continuava a vederlo mentre diceva con voce rotta che non era colpa sua e indietreggiava barcollando come un ubriaco e poi usciva dal locale di corsa... Mona accese l'ultima delle sue sigarette con le dita che le tremavano, accartocciò il pacchetto, lo gettò nel cestino all'angolo. Il negozio chiude fra un quarto d'ora, sentì mormorare una voce interiore. Vuoi altre sigarette. Ne avrai bisogno. Andiamo. Guardò nel locale da dietro i vetri. Quasi tutti gli avventori la stavano fissando. Comprensibile. Anche lei lo avrebbe fatto. L'imbarazzo, che era stato soppiantato dall'incredibile singolarità dell'accaduto, riprese possesso della sua psiche. Mona indicò la sigaretta e fece un gesto che significava Tutto a posto. Jules, da dietro il banco, formò con le labbra le parole In gamba. Gli avventori del bar annuirono gravemente. Mona rispose con un altro cenno del capo, fece un fievole sorriso e si diresse verso est, lungo la Ventiquattresima. Quasi tutte le strade a Manhattan sembrano dei canyon che passano in mezzo a pareti alte da cinque a cento piani. La Ventiquattresima Strada Ovest non faceva eccezione. Alla destra di Mona, i London Terrace Apartments incombevano su di lei, oltre trenta piani e un intero isolato cittadino che puzzava di vita comoda e all'antica. Alla sua sinistra si estendeva una linea dritta di case in arenaria, ben tenute, con il cortile davanti chiuso da una siepe e immerso nelle tenebre. Era una strada tranquilla, sicura e abbastanza per bene. Mona non ricordava di aver provato in passato, percorrendola, alcuna sensazione d'allarme. Ma il freddo rendeva i sensi più acuti, troppo acuti, amplificando il rumore secco dei suoi passi. Non c'era nessuno in giro, né pedoni né auto-
mobili. E la paura di Billy era ancora fresca nella sua mente. Non aveva alcun senso, se ci pensava: come avrebbe fatto Billy a provocare quel che era successo? Non riusciva però a scrollarsi di dosso la sensazione che la colpa in qualche modo fosse proprio sua, che la fonte di quel terribile potere fosse proprio Billy. «Oh, Billy, cosa c'è che non va?» sentì la sua stessa voce che piagnucolava. Ma la notte immobile soffocò le sue parole. E Billy non era vicino a lei per udirle. Stanley Peckard era nell'androne buio, con ai piedi vetri rotti e pezzi di intonaco. Aveva uno sguardo sconvolto e sulle labbra un sorriso estatico da idiota, reso ancor più agghiacciante dal freddo riflesso dell' acciaio che teneva in mano. Sentiva i passi che si avvicinavano ticchettando, sempre più vicini, ormai quasi accanto a lui... Era lei. Era bellissima: capelli neri lunghi e splendidi, immensi occhi castani sopra due zigomi che sembravano quelli di una bambola di porcellana. Naso fine. Labbra carnose e incantevoli. E due gambe lunghe, lunghissime. Esattamente come Loro gliel'avevano descritta. Il cuoio nero si stringeva attorno all'impugnatura del Mastro Intagliatore, inguainava la sua mano sudaticcia. Il sorriso si allargò fino a mostrare i denti guasti mentre la ragazza si avvicinava, ora era a poco più di un metro da lui, a cinquanta centimetri, a dieci centimetri... Nel buio, dietro di lui, i Piccoletti cominciarono a cantare. La ragazza non li sentì. Le ragazze non li sentivano mai. Billy camminava in fretta, come se i suoi piedi cercassero di tenere il passo imposto dalla mente. Era inutile. Per quanto ci provassero, non riuscivano ad andare alla velocità del pensiero. E i suoi pensieri andavano a tutta birra, con teste-code da Gran Premio e giri della morte nel circuito della mente. La paura e il senso di colpa erano al primo posto, seguite da una massa di pensieri confusi. La cosa che lo spaventava di più era Dave: c'era stato un momento in cui tutto si era fermato ed era stato certo che Dave stesse morendo. L'aveva sentito. Il cervello fritto e le dita inchiodate sul tavolo. Quella sensazione
lo seguiva ancora, come un'immagine spettrale su un vecchio televisore in bianco e nero, e si sovrapponeva alla sensazione delle sue gambe che filavano come un treno mentre voltava a sinistra per la Quattordicesima, diretto a Washington Square, verso il centro acciottolato del distretto in cui sorgevano le macellerie. Poi c'era la questione del suo futuro con Mona. Non sapeva quel che lei provava, ma sapeva che provava qualcosa. Era stata chiarissima quando aveva urlato. CHE COSA GLI HAI FATTO? Era la voce acuta di una pazza e gli ghermiva le pareti interne del cranio. Gli strizzava lo stomaco come se avesse dentro una bolla di gas che sta per esplodere. Sapeva di averla terrorizzata in un modo che lei non sarebbe riuscita a spiegarsi. Ma non aveva importanza. Era un ulteriore elemento a suo sfavore. I timori più vaghi sono anche quelli più difficili da combattere. Billy era circondato da magazzini di morte immensi, grigi e tozzi. Da dove si trovava, non riusciva a leggere il nome di quello alla sua sinistra. Quello alla sua destra, invece, era la sede della Golden Packing. L'aria su Washington Street non era meno pesante che nel canyon della Ventiquattresima, ma era già impregnata dell'odore dei cadaveri. Sopra di lui, alla sua destra, c'era una specie di cavalcavia: forse una volta era una ferrovia, oppure una strada. Non lo avrebbe saputo dire con certezza. Dei rampicanti salivano lungo le mura e scavalcavano la ringhiera del ponte. Doveva essere coperto di vegetazione e certamente non era più in uso da molto tempo. Finiva contro un piano alto della Golden Packing, chiuso da una parete recente di mattoni, e ripartiva dall'altro lato dell'edificio. E proseguiva fino a svanire davanti a lui, così come si perdeva in lontananza alle sue spalle. C'erano un paio di telefoni pubblici all'angolo fra Washington e la Dodicesima Ovest, illuminate dall'interno e sotto il cerchio di luce dei lampioni. La Dodicesima Ovest gli era sempre piaciuta da impazzire. I suoi occhi si posarono sulle cabine telefoniche, per qualche ragione che non riusciva a comprendere. Si fermò in mezzo alla strada e si frugò in tasca in cerca di una sigaretta, continuando a fissare i telefoni. Si ficcò in bocca una Lark 100, cercò un fiammifero ma non riuscì a trovarlo. Accese mentalmente la sigaretta. Facile. Troppo facile. Cominciava a farsela sotto dalla paura. Gli sembrava di essere una bomba a orologeria di cui era impossibile sapere quanto tempo mancava all'esplosione, un evento che aspettava solo di realizzar-
si... (mona) Si immobilizzò: piedi, cuore, respiro, tutto. Non era la sua voce. Non era la voce di Mona. Non era una voce umana. Ma (il coltello) era reale; e anche se non aveva la minima idea di quello che stava per succedere, sapeva che si trattava di qualcosa di brutto e si trovò a guardare il telefono pensando se ce la faccio a beccarla prima che vada via non succederà niente non deve succedere niente. È impossibile che non faccia in tempo... ... e poi si mise a correre, il Potere saliva dentro di lui, per la velocità sembrava che i ciottoli diventassero incandescenti, i suoi piedi scivolavano senza esitazione su di essi, si levavano in aria, le cabine telefoniche sempre più bianche e luminose e vicine e lui che saltava sul marciapiede e afferrava il telefono più vicino e alzava la cornetta e la portava all'orecchio... ... e pensava ce la farò a fermarti, tesoro. Non ti succederà niente di brutto. Te lo prometto. Troppo tardi. C'era ovviamente un edificio, nella zona, che non era di arenaria e lontanissimo dalla media degli altri: il numero 411 della Ventiquatresima Ovest. Era uno squallido edificio più piccolo degli altri, di soli due piani: aveva una facciata di legno scrostato dipinto di bianco, sbarre di metallo sulle porte fragili e sulle finestre rotte, una lunga storia di sgomberi per i diseredati della zona. Uno di loro era proprio davanti alla porta in quel momento e ci pisciava contro. Gli lanciò una rapida occhiata mentre passava. E notò con la coda dell'occhio che il lucchetto sul cancello di metallo era spezzato nettamente in due... ... e poi la mano si strinse intorno alla sua gola bloccandole il respiro, mentre l'urlo che cercava di risalire dai suoi polmoni venne soffocato e si spense... ... e il cancello si aprì stridendo con un rumore che la notte assorbì e Mona venne trascinata all'indietro in una stanza ingombra di vetri rotti e di intonaco... ... e il Mastro Incisore colpì in pieno il bersaglio, fece un taglio di quin-
dici centimetri sopra a uno dei seni e poi si sollevò, scivolò nell'aria densa per affondare con un suono umido dall'altra parte, con una simmetria impeccabile e bisbigliante... Billy sentì il grido e sbatté giù la cornetta. La sua mente, la sua mente cominciò a roteare, la sua mente impazzì mentre cercava di scoprire da dove provenisse quel rumore: era proprio dietro di lui, era lontanissimo... Poi un altro urlo e questa volta la provenienza era chiara. Veniva dalle banchine per caricare le merci che si trovavano dietro di lui, una distesa di asfalto interminabile avvolta dall'ombra del ponte abbandonato. L'oscurità era impenetrabile. Cercò di sbirciare nel buio: aveva paura di addentrarsi alla cieca lì sotto, ma non sapeva che altro poteva fare. Qualcosa di lungo e liscio e topesco sfrecciò squittendo lungo il marciapiede. «Merda» gemette Billy, soffermandosi per un secondo con lo sguardo sulla luce confortevole delle cabine telefoniche. Una voce dentro di lui gli diceva di chiamare la polizia. Fai il 911... Poi la ragazza gridò nuovamente e Billy capì che la polizia non sarebbe mai arrivata in tempo e neanche lui sarebbe arrivato in tempo se non muoveva subito le chiappe e... ... e poi si trovò immerso nell'ombra, con l'asfalto che declinava piano sotto i suoi piedi come se stesse lentamente scendendo agli inferi. I suoi occhi cominciarono a cogliere qualche dettaglio delle banchine per il carico e lo scarico delle merci: la parete di fittissima rete d'acciaio nera alla sua destra, con le luci che risplendevano come stelle attraverso le migliaia di minuscoli fori; gli enormi piloni di cemento che sorreggevano il ponte; i mucchi di immondizia e di macerie contro il muro e i piloni; la ragazza... Era rannicchiata in un angolo, dove la rete di ferro finiva e cominciavano i mattoni. Era alta e vistosa, chiaramente una puttana, lunghe gambe bianche sotto un abito nero e corto, lunghe mani esili a coprirle il viso. Stava singhiozzando debolmente e voltandosi verso di lei vide la massa bionda dei suoi capelli. È sola, gli comunicò la sua mente, e stava iniziando a chiedersi perché... Poi fu sopra di lei e mentre le parole Tutto a posto? iniziavano a scivolargli dalla labbra, la ragazza si tolse le mani dal viso e Billy si accorse che non era affatto una ragazza ma una sua ingegnosa imitazione, un bel travestito che lo fissava con un sorriso maligno sulle labbra e neanche una lacrima in quel bel visino falso...
... e Billy sentì un rumore alle spalle, si girò appena in tempo per vedere l'altro uomo che stava sibilando Sei morto e protendeva la mano in avanti. Per un secondo il tempo si fermò. Il coltello, incredibilmente nitido nel buio, parve immobilizzarsi nell'aria anche se Billy sapeva che continuava a muoversi verso di lui. Venti centimetri di acciaio nero e liscio, privo di riflessi, seghettato da un lato, con la punta piegata verso l'alto e il sangue che cominciava a scorrere lungo la lama. Poi il tempo ripartì. Il movimento del coltello divenne indistinto, troppo rapido per poterlo seguire con lo sguardo. Billy sentì il centro dello sterno che si schiantava, la lama gelida che gli entrava dentro, tornava fuori per un istante e poi affondava ancora. Il mondo diventò rosso, accecante. E Billy Rowe perse la testa. «NOOOO!» gridò e allungò le mani per afferrare al collo l'assassino. «NOOOOOO!!!» ripeté facendolo ruotare dietro di sé e sbattendolo contro la rete di acciaio che risuonò con un rumore sordo. La mano lasciò andare il coltello. La lama rimase dov'era, piantata fino all'impugnatura nel petto di Billy. Il nome dell'assassino era Bobby Ramos. Aveva ventiquattro anni. Era la terza volta che insieme al suo amichetto Johnny attirava un poveraccio dalle buone intenzioni e lo infilzava. Cominciava a diventare un vizio. I primi due erano andati giù senza un grido e Bobby non vedeva perché il terzo si sarebbe dovuto comportare diversamente. Non ebbe occasione di chiedersi dove aveva sbagliato. Gridando, Billy Rowe prese Bobby per le orecchie, ci ficcò dentro i pollici e cominciò a sbattergli la testa contro il muro e gridava gridava e il primo colpo fece spuntare una lieve linea sulla nuca, segno di una frattura, mentre le stelle danzavano intorno agli occhi di Ramos, quegli occhi appannati che fissarono quelli di Billy e dentro videro rosso, un rosso inumano, ardente e folle... ... e poi la sua testa sbatté ancora contro il muro e le luci si spensero per sempre e una crepa verticale di quindici centimetri si aprì sulla fronte, la rete d'acciaio nero si piegò sporca di sangue e carne e capelli ma questo non bastava perché Billy stava morendo e questo stronzetto lo aveva ammazzato e il controllo di sé non contava più un cazzo, era una beffa del passato, niente aveva senso nell'universo intero che gira gira gira universo di immondizie e schifezze e travestiti che urlano e demoni che strillano se non il coltello nel petto e la testa nelle mani e la rete che si piegava mentre Billy gli spaccava la testa in due contro di essa, gli sfondava il cranio e la
poltiglia rossa del cervello scivolava fuori e si spiaccicava contro le minuscole aperture della rete, stillando lentamente dall'altra parte... ... e poi non rimase più niente da distruggere e il corpo gli crollò pesantemente ai piedi e Billy si appoggiò alla rete, le dita che scivolavano lungo i fori imbrattati di sangue, e si tenne stretto a essa e il cuore gli rimbombava in petto come un elefante che scappa in preda al terrore. Non si era reso conto di aver gridato per tutto il tempo. Gli ci volle quasi un minuto per smettere. Il silenzio calò sulla banchina. Se il travestito era ancora lì, non respirava più. Con calma Billy riprese il controllo del proprio respiro. Aveva paura ad aprire gli occhi. Aveva paura di non farcela. Lentamente ci riuscì. Il coltello era ancora lì, spuntava fuori dal petto come una tetta supplementare. Anche il corpo era lì, disgustoso e col cervello sparso tutto intorno. Vomitò e staccò la dita dalla rete, poi si avviò barcollando verso la strada. L'odore lo seguì, gli aveva impregnato le mani e i vestiti. Ma non provava alcun dolore; e in quell'istante Billy comprese che non stava per morire, che non sarebbe mai morto e che Christopher aveva ragione quando aveva detto che niente avrebbe potuto fermarlo. Non sarebbe. Mai. Morto. Ma posso uccidere, pensò Billy cadendo in ginocchio sul marciapiede. Posso uccidere. In preda a un conato, si piegò in due afferrandosi lo stomaco con le mani. Posso uccidere. Come un nobile negli ultimi spasmi del seppuku, con il coltello ancora in petto. E fu allora che i mostri iniziarono ad applaudire. Pit pat pit pat. Rumori di zampe minuscole che butteravano quel silenzio esagerato. Pit pat pit pat. Forse in tutto quindici zampette, che battevano con evidente entusiasmo. E poi, ovviamente, quei suoni acuti e striduli. Se li ricordava benissimo. Da una vita. Billy aprì gli occhi e se li vide davanti: dovevano essere una quindicina, raggruppati nella parte più buia della zona. C'era una scala di ferro battuto che portava al ponte abbandonato. Alla sua base si trovava la maggior concentrazione di immondizia e di macerie. Sembrava che fosse un posto di ritrovo anche per i mostri. Riusciva a percepire appena le loro sagome che si confondevano nell'ombra, ma riusciva a vederne gli occhi ed erano più terrificanti di ogni
altra cosa. Erano vuoti, neri e privi di vita come li ricordava, ma ora li scorgeva chiaramente nell'oscurità più totale. Come se fossero più neri del nero, più neri di ogni altra ombra esistente al mondo. Più neri dell'inferno. E tutti lo stavano guardando. Billy cominciò a indietreggiare sulle ginocchia, urtò contro il muro. Gli applausi si fecero sempre più scatenati, sempre più entusiasti. Non pensava che avrebbe avuto ancora la forza di gridare, ma riuscì a tirare fuori un urlo dalla bocca con sorprendente determinazione. Gli applausi di incoraggiamento aumentarono ancora di più, quasi come a parodiare il suo grido. «ANDATEVENE FUORI DALLE PALLE!» tuonò Billy. «BRAVO! BRAVO!» gridarono alcuni di essi. Gli altri continuarono a ridacchiare o a scimmiottare le sue grida. «LASCIATEMI IN PACE!» «BIS! BIS!» ululò una voce, ancor più raggelante e bizzarra delle altre. «LASCIATEMI IN PACE! LASCIATEMI IN PACE!» Seguì uno scroscio di risa mostruose, costellate di grida e di rumori che Billy non riuscì neppure ad afferrare. Alcuni di essi iniziarono ad avvicinarsi e fu allora che Billy si ricordò del coltello. Afferrò l'impugnatura con entrambe le mani, tirò, sentì la punta ricurva trascinare qualcosa con sé e la lama dentellata raspare, strinse i denti contro l'orrore e tirò ancora più forte. Il pugnale uscì, la lama nera e priva di riflessi come quando era entrata. Niente sangue. Niente dolore. Niente ferite. Uno dei demoni si era alzato in piedi sulle tozze gambe posteriori dimenandosi come un cavallino imbizzarrito, il capo deforme gettato all'indietro in un attacco di risa. Billy emise un grido e scagliò il coltello che attraversò sibilando la banchina a incredibile velocità. La sagoma oscura si spaccò in due e crollò a terra. Alcuni degli altri mostriciattoli accorsero su di lui. Non sembrava che avessero intenzione di aiutarlo. Poi si sentì il rumore di qualcosa che veniva mangiato e la follia divenne una gemma luminosa che cominciò a risplendere dietro la fronte di Billy. Si tirò in piedi a fatica e cominciò a correre, diretto nuovamente verso la Dodicesima Ovest che in futuro non gli sarebbe più piaciuta molto. Le voci beffarde degli orrori lo seguirono per oltre un isolato, poi si persero nel buio. Nell'ultimo tratto di strada che percorse correndo furono solo le
voci che sentiva dentro di sé a tormentarlo. All'angolo fra l'Ottava e Greenwich Avenue, Billy incrociò il primo essere umano: un'anziana matrona con un paio di pechinesi penosi. «Non mi hai visto» sibilò, e così fu, anche se i cani continuarono ad abbaiare come se fossero impazziti. E continuò così durante tutti i venti minuti che impiegò per tornare a casa. Nessuno poteva vederlo. Nessuno poteva vedere il sangue. Una vita normale Quando Billy arrivò in cima alle scale vide che la porta del suo appartamento era spalancata. Christopher, radioso e vivace come sempre, incorniciava la porta di una tenue luce chiara. Sul viso aveva un'espressione di compatimento, nelle mani una bottiglia di Bud. La porse a Billy, in segno di pace, e disse: «Prendi, amico. Entra. Mi dispiace tanto...» La mano di Billy si mosse con rapidità incredibile. La bottiglia andò a schiantarsi contro il muro. L'angelo non ebbe il tempo di reagire. La mano di Billy scattò verso l'alto e colpì Christopher sul viso. Poi Billy giunse a pochi centimetri da lui e sibilò: «Fuori dalle palle! Vai all'inferno!» Christopher spalancò gli occhi per un istante e dentro di essi si leggevano rabbia, dolore e un guizzo di paura. Poi li chiuse e quando li riaprì c'era solo una vaga traccia di disappunto a guastare la sua calma angelica. Non disse una parola. Non si mosse. «Mi hai sentito!» riprese Billy a voce sempre più alta. «Ti ho detto di toglierti dalle palle.» Aveva gli occhi rossi, gonfi e doloranti, ma non si staccò da quelli di Christopher neppure per un istante. Le scale erano intrise del fetore della morte che gli era rimasto incrostato addosso, la violenza impazzava nel suo corpo in ondate travolgenti. Quando vide che l'angelo non reagiva, Billy cercò di colpirlo di nuovo, questa volta con un pugno. Christopher intercettò il colpo con il palmo della mano e gli strinse il pugno: senza fargli male, ma molto fermamente. «VAFFANCULO!» strillò Billy mentre gli ultimi brandelli della sua calma si disfacevano. Cercò di liberarsi dalla morsa dell'angelo ma non ci riuscì. I due continuarono a fissarsi e a poco a poco Billy sentì la rabbia che si dissolveva. La sua furia era ancora scatenata, ma non aveva più la terra
sotto i piedi. Continuando a fissare l'azzurro irremovibile degli occhi di Christopher, Billy si sentiva sempre meno sicuro e sano di mente. Poi le lacrime iniziarono a scendergli lungo il viso e non riusciva a fermarle e così lasciò che con esse se ne andassero gli ultimi residui della sua forza e andò proprio così e passò barcollando a fianco di Christopher ed entrò in cucina dove crollò sulle ginocchia e scoppiò a piangere. Un latrato, a metà fra il verso di una mucca e quello di un cane, eruppe dalla porta della camera da letto. Billy alzò il viso e con gli occhi grondanti di lacrime vide Bubba con il pelo arruffato sul corpo rigido e tremante. Gli parve che Bubba guardasse attraverso di lui, senza riconoscerlo affatto. L'ululato gli perforò le orecchie infilzandogli degli aghi lungo la spina dorsale. «BUBBA, STAI ZITTO E VA' A CUCCIA» gridò. E Bubba crollò di lato con un tonfo muto, quasi comico. Di colpo. Billy smise di piangere e lo guardò. Per un istante gli parve che Bubba non respirasse più. Strisciandoci accanto, vide che il petto del cane si alzava e si abbassava dolcemente e si rilassò. Se Bubba fosse morto, pensò, sarebbe stato troppo. Sarebbe stata la fine. Quel pensiero evocò delle unghie che passarono stridendo sulla lavagna della sua mente. Quando chiuse gli occhi, delle immagini andarono ad accompagnare il suono, già patologicamente vivido: crani che si accartocciavano come lattine di birra, che si disgregavano come case sotto i colpi delle macchine demolitrici. Tutto l'orrore per quello che aveva fatto ripiombò su di lui, come era già successo miglia di volte nelle centinaia di migliaia di secondi che erano seguiti al massacro sul retro della Golden Packing. E le lacrime gli risalirono agli occhi. Più di prima. «Sentiva il tuo odore, ma non riusciva a vederti» disse Christopher dietro di lui. «Fondamentalmente è stato questo. Però c'era anche il sangue. Credo che lo abbia sconvolto.» Tacque per un istante. «Neanche a me piace da impazzire.» Billy si girò, sempre in ginocchio, molto lentamente, fino a trovarsi davanti Christopher. Stava ancora piangendo, ma un sorriso spettrale, scettico e ampio si stava facendo largo a poco a poco fra i suoi lineamenti. Allargò le braccia, come per lodare Allah. Due sorgenti gorgoglianti di sangue gli eruppero dalle palme delle mani. «E come credi che mi senta io?» gridò Billy mentre il sangue gli scen-
deva lungo le braccia e andava a imbrattare il pavimento. «Come cazzo vuoi che mi senta? Ho ancora dei pezzi di quel tizio sotto le unghie! Ho..» E a quel punto crollò definitivamente portandosi al viso le mani da cui continuava a sgorgare sangue e completando così il suo orrendo battesimo. «Per quel che ricordo» intonò la voce di Christopher «quell'uomo stava cercando di ucciderti. Tecnicamente, secondo i normali criteri dei mortali, ormai dovresti essere morto più di un cadavere. «Se avessero l'opportunità di esprimere il loro parere, suppongo che molti sarebbero lieti che sia stato tu a uscirne intero e non l'altro. Se tu non l'avessi fermato, quello avrebbe continuato a spassarsela, derubando e uccidendo a suo piacimento, fino a che qualcun altro non avrebbe messo fine alle sue attività. Mi sono spiegato?» Billy aveva sentito tutto. Ma questo non impediva al sangue di continuare a sgorgare né alle lacrime di scorrere lungo il viso. I singhiozzi e le stimmate non subirono mutamenti. E neppure la voce di Christopher. Che riprese... «Vuoi sapere che cosa ci facevano là quei mostri? Vuoi sapere perché applaudivano? Lascia che te lo spieghi. «Aspettavano che tu perdessi la testa, caro Billy. Credimi. Aspettavano di mettertelo nel culo. E vuoi sapere perché? Perché tu hai il Potere, amico, e il Potere può andare in un verso o nell'altro. Allo stesso modo in cui la Luce vuole te, ci sono cose nell'Oscurità che ti vogliono con uguale forza. E se non stai molto attento, finiranno col prenderti. «Ecco perché devi sempre mantenere la piena padronanza delle tue azioni.» Padronanza di sé. Billy pensò che era una cosa che non aveva mai avuto. Non riusciva a tenere sotto controllo il Potere. Non riusciva a dare una regolata alla sua vita. Non riusciva nemmeno a tenere a freno le proprie emozioni. Tutti e tre potevano scivolargli di mano in qualunque momento, e lui non sarebbe riuscito a fare altro che guardarle andar via a bocca aperta, come un personaggio affamato dei cartoni animati davanti a un piatto di pop corn che gli scappano via da sotto il naso. «Hai perso il controllo di te e della tua vita ormai da tempo, Billy. La tua carriera non è mai decollata, la tua storia d'amore non sei riuscito a tenerla in piedi, non sei riuscito a tenere pulita neppure la tua stanza. Il momento migliore che hai avuto è stato un paio di giorni fa, prima che ti venisse quell'idea balzana della Pace in Terra agli Uomini di Buona Volontà. E da allora non hai fatto niente di sensato.»
Billy tirò su col naso e iniziò lentamente a calmarsi. La cascata di sangue diventò prima un rivolo e poi si interruppe definitivamente. Ora ascoltava Christopher, catturato, pur se contro voglia, dal senso delle sue parole. Ma la rabbia non se ne andava. Come il Potere, trasformava il mondo che lo circondava in una melma sfrigolante, i cui ingredienti venivano sbattuti insieme in uno stufato saporito ma uniforme. Aveva un sapore troppo buono per rinunciarvi e saziava una fame che non si fermava al fondo del suo stomaco. «Ho una domanda da farti» sentì dire dalla sua voce, che aveva un tono affaticato e angosciato. «Dimmi.» «Stai forse cercando di dirmi» e la sua voce esitò per un istante «che è stato un bene che io abbia ucciso quel tipo, ma che avrei dovuto fare... un lavoretto più pulito?» Christopher rimase in silenzio per un momento. Billy si asciugò il sangue dagli occhi e li riaprì. L'angelo lo stava fissando. Senza espressione. Lo fissava e basta. Billy sentì qualcosa che gli si irrigidiva dentro. Si solidificava. E i singhiozzi cessarono, all'improvviso e per sempre. Sentiva il Potere, il suo formicolio vibratonico, che spazzava via ogni dubbio e lasciava al suo posto una lucidità totale. Sta per succedere qualcosa di grosso, disse una voce nella sua mente e Billy era propenso a crederci. «Sai, Christopher» riprese sorridendo «vorrei davvero che rispondessi alla mia domanda. Ho sbagliato a uccidere l'uomo che mi aveva pugnalato o a perdere il controllo delle mie azioni? Insomma, tu vorresti che io me ne andassi in giro ad ammazzare i criminali? È questo che vorresti farmi fare?» Christopher sospirò. «Vogliamo solo che tu faccia ciò che è giusto.» «E che cos'è giusto?» gridò Billy. «Sta a me deciderlo, con la mia ben nota tendenza a non imbroccare mai la cosa giusta? Quel che vorrei sapere è perché avete dato il Potere proprio a me, se sono così idiota! Non ha senso, Christopher! Mi sembra quasi di essere stato scelto deliberatamente per combinare un gran casino e che tu sia stato mandato apposta per deprimermi ancor di più mentre io continuo a fare danni! Capisci? È come se qualcuno mi stesse facendo uno scherzo del cazzo. E se è così, allora non ho intenzione di restarmene buono e vedere come va a finire. Mi dispiace. Questa merda buttala addosso a qualcun altro.» «Non puoi dire questo.» Christopher aveva assunto un aspetto severo più
che sconvolto. «Sturati le orecchie» disse Billy e ora il suo sorriso era decisamente pieno di ostilità. «Il tuo Potere del cazzo non lo voglio più. Puoi prenderlo e ficcartelo su per quel tuo culo virtuoso. La prossima volta che vedi Dio, puoi dire a Lui di fare lo stesso. Non ho mai pensato di diventare ebreo per amore di Gesù e non voglio diventare un assassino in Suo nome. Del Potere non so cosa farmene. Puoi tenertelo. Basta che ti togli dalle palle e non ti fai più rivedere.» «Non è facile.» L'angelo era turbato. Billy fremeva dall'eccitazione. «Come sarebbe a dire non è facile? Il Signore dà, il Signore prende, non è così che si dice? Allora prenditelo e portatelo via, amico mio! E non farmi più vedere quel tuo brutto muso sorridente! Fai un salto nella redazione di Soldier of Fortune! Vedrai che saranno entusiasti all'idea di ripulire le strade per conto tuo.» «Ho detto che non è facile, Billy, e non stavo scherzando.» «Sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che il Potere è tuo. È sempre stato tuo. Non sono stato io a dartelo; io sono venuto da te per offrirti dei consigli quando tu stesso hai risvegliato il tuo Potere e hai chiesto aiuto. E se ci pensi, ti ricorderai di quel momento.» Una bolla luminosa di vergogna esplose dalle parti del cuore di Billy mentre ripensava alla notte in cui tutta quella storia era iniziata. «Ma non sono stato io a chiederlo» gracchiò. Per un istante, si sentì come un pallone aerostatico che era stato gonfiato a dismisura, un secondo prima di esplodere. «Lo so, però lo hai accettato, no? Quindi potresti anche stare calmo e ascoltare quello che ho da dirti.» «Ma potrei anche non volerti più stare a sentire.» Billy si sentiva completamente svuotato. «Potrei anche essermi stancato di ascoltarti.» «È possibile, ma questo non cambia il fatto che ci sono ancora un paio di cosette che dovresti sapere.» «Per esempio?» «Per esempio che non puoi più tornare indietro. Per quanto tu lo voglia con tutte le tue forze, e non credo che tu lo voglia tanto intensamente. Il fatto è che ti sei mosso come una lanterna nella notte. Ti hanno visto. E non intendono lasciarti agire indisturbato. Ti osserveranno attentamente, come io osservo te. Per sempre.» «Ma chi?»
«I demoni.» La voce di Christopher prese un tono gelido che immediatamente abbassò la temperatura della stanza. «Come ti ho già detto, ti vogliono. E se tu non ti dai una calmata e non ti riprendi in fretta, finiranno con l'averti completamente nelle loro mani. Comprende? E sarà una grande vittoria, considerando il Potere che hai. Sarà l'emozione più forte della loro miserabile esistenza.» «E allora» disse Billy tremando, mentre i musi fosforescenti di quelle specie di topi risplendevano negli angoli più oscuri della sua mente «che cosa dovrei fare?» «Non devi fare niente, idiota! Pensavo di essere stato chiaro su questo punto. È della tua anima immortale che stiamo parlando e la scelta è tutta tua. Ci sarebbero comunque un paio di consigli amichevoli che potrei darti. «Il primo è di abbandonare tutti i sogni del vecchio Billy Rowe.» «COME?» «Sturati le orecchie» disse Christopher, scimmiottando la voce di Billy. «Se il vecchio Billy Rowe non è morto nel momento in cui ha ricevuto il Potere, allora è morto nella banchina dietro la Dodicesima Ovest. E le sue illusioni dovrebbero essere ormai morte insieme a lui. Se tu le tieni in vita, allora la tua è follia bella e buona.» «Quali illusioni? Di che cosa stai parlando?» «Per prima cosa, puoi scordarti di condurre una vita normale. Niente casetta in campagna. Nessuna amorevole mogliettina con tre virgola due fanciulli sorridenti ad aspettarti in cortile. E nessun paradiso del rock. Puoi tranquillamente dire addio a tutto questo perché tanto non si avvererà mai.» «E CHI LO DICE?» gridò Billy. «LO DICE DIO!» gli rispose Christopher di rimando con altrettanto vigore. «Vuoi litigare? Forza, allora! Non me ne frega niente! Anzi, se devo dire la verità, comincio a stancarmi di ripetere cose ovvie a qualcuno che non è nemmeno in grado di capire il dono che ha ricevuto! Avrei fatto bene a dare il Potere ai redattori di Soldier of Fortune. Almeno loro le palle ce l'hanno!» «Le palle ce l'ho anch'io! Non ci credi? Ora te ne accorgerai!» La rabbia si innestò distintamente sulla paura, creando un ibrido che gli era fin troppo familiare. «Mi avete incastrato con questo cazzo di Potere, vero? E va bene! Ma sarò dalla parte di Dio solo se fa in modo che da ora in poi non debba rivedere mai più la tua faccia da cazzo. Non mi piaci, Christopher.
Non mi piaci per un cazzo. Non so che cosa farmene dei tuoi consigli di merda e mi sta sul cazzo il fulgore nauseabondo della tua presenza che dovrebbe incutere soggezione. Se devo scegliere io quel che è giusto e quel che è sbagliato, allora la mia prima decisione ufficiale è che preferirei leccare le palle a Satana piuttosto che dover posare lo sguardo su di te per un altro secondo ancora. Chiaro?» Christopher lo fissava, furioso e indubbiamente offeso. «CHIARO?» ripeté Billy. «Allora è proprio così che finirai» disse Christopher con freddezza. «A leccare le palle a Satana. L'hai voluto tu. Lui ne sarà entusiasta. Io meno. Ma così va la vita.» «Fuori dalle palle» disse Billy. «Subito.» L'angelo annuì e scomparve. Billy lo vide sparire. Nella stanza calò il silenzio, interrotto solo dal respiro un po' stridulo di Bubba. Billy fissò l'involontaria espansione/contrazione dei polmoni del suo migliore amico, con particolare attenzione per le costole che li racchiudevano. Con quanta facilità avrebbe potuto spezzarle. Christopher aveva detto un sacco di cose e tutte con l'intenzione di fare colpo su di lui. Ma la cosa che lo aveva colpito più di ogni altra era stata quando gli aveva detto puoi scordarti di condurre una vita normale. E fu proprio allora, ovviamente, che il telefono iniziò a squillare. Parte terza Il repulisti C'è chi fa l'amore e chi non fa niente. C'è chi è troppo contorto per amare qualcuno... Billy Rowe La svolta verso la vita Il seme del mostro Gli occhi del ragazzo erano palle di vetro striate di rosso, lucide e con qualcosa di più di un tocco di pazzia. La carne tenera intorno agli occhi virava leggermente al rossiccio: li aveva strofinati troppo, o almeno così
sembrava. Betty Ward non ne rimase particolarmente sorpresa. Aveva visto degli occhi così almeno un milione di volte prima di allora. Quella notte c'erano ventitré persone nella sala d'aspetto del Pronto Soccorso del St. Vincent. Nella maggior parte dei casi si trattava soltanto di variazioni sul tema. Dolore, angoscia, terrore atterrito e sbigottita incredulità. Se Betty Ward avesse letto dieci romanzetti sordidi alla settimana per il resto della vita, non ne avrebbe ricavato che un miliardesimo dei drammi strazianti a cui assisteva in una notte qualsiasi dietro il banco dell'accettazione. C'erano mille modi diversi di morire. Non se lo sarebbe mai aspettato prima. Non aveva avuto occasione di pensarci. A meno che non siamo proprio noi a superare la linea in cui la vita e la morte si incontrano o a meno non che non ci siano ragioni precise che inducono a riflettere sulla questione, non si tratta che di pensieri morbosi e di preoccupazioni senza senso. O almeno così Betty aveva sempre creduto. Ma ogni notte il Pronto Soccorso presentava una sequela di polmoni trafitti e fegati spappolati, trombosi coronariche e tracheotomie da coltello a serramanico. C'era gente che veniva annientata nel proprio letto o nella propria auto, da sconosciuti o da persone amate, in proporzioni più o meno uguali. Raramente trascorreva un'ora senza che morisse nessuno negli immediati dintorni del St. Vincent. Di conseguenza la sala d'aspetto era sempre gremita, se non altro da gruppetti sparuti di anime in pena che cercavano di farsi forza o si lasciavano andare completamente al dolore, tracciando ogni variante possibile dello stato d'animo di chi capitava in quell'ospedale. Stato d'animo che il giovanotto davanti a lei mostrava inequivocabilmente in quel preciso istante. Aveva anche altre caratteristiche in comune con gli altri, in particolare con quelli della fascia che andava dall'una alle cinque del mattino: barba lunga, aspetto stravolto, il senso di estraniazione di chi non si sente ancora del tutto sveglio. Betty Ward aveva fatto l'abitudine a camicie sbottonate, chiusure lampo aperte, capelli arruffati, era abituata a balbettii, rapidi movimenti oculari, espressioni tremolanti che straziavano il cuore ed erano del tutto involontarie. Ma nella persona che aveva davanti c'era qualcosa di lievemente diverso, qualcosa che riscontrava in un caso su un milione e anche meno. Qualcosa che la spaventava. «Sto cercando Mona de Vanguardia» disse con la voce impostata sul re-
gistro più acuto. «Ho saputo che è qui.» «Un attimo che guardo» disse Betty, felice dell'opportunità di allontanare da sé quegli occhi e chiedendosi che cosa ci fosse in lui che le faceva battere il cuore più in fretta del consueto. Non si trattava di qualcosa che poteva identificare con sicurezza: la razza umana possiede un ampio repertorio di gesti impalpabili che separano l'uomo dal mostro, il ragazzo dalla bestia. Avrebbe dovuto osservarlo attentamente per identificare i segni rivelatori. E non aveva alcuna intenzione di osservarlo attentamente. Per nessuna cosa al mondo. Il nome in questione le comparve davanti agli occhi mentre scorreva le pagine dell'elenco dei ricoverati. Mentre si soffermava su di esso, si ricordò che qualcun altro era venuto a cercare la signorina de V., ed esattamente una ragazza molto carina, stranamente somigliante a Verushka, con litri di mascara che le colavano dagli occhi. La paziente era stata trasferita alla stanza 617 dopo che un rapido esame aveva stabilito che le sue condizioni erano semplicemente serie. Quando Verushka lo aveva saputo, se ne era andata quasi immediatamente. Forse questa notizia gli darà un po' di conforto, pensò Betty, e anche lui se ne andrà. A volte anche le persone più spaventose riprendono una forma umana quando sentono buone notizie. Si preparò a sfoggiare il migliore dei suoi sorrisi professionali prima di rialzare gli occhi su di lui... ... e fu allora che un'ondata di luce chiarissima e senza peso la travolse, morbide dita che sondavano una mente che non riusciva più a collocare in un luogo preciso, sopra le sue spalle... ... e sentì una voce lieve che diceva: Io non sono qui, tu non mi hai visto... ... e poi aprì gli occhi di scatto, momentaneamente stordita, e vide le ventidue persone che si trovavano nella sala d'aspetto del Pronto Soccorso. La confusione svanì. Si chiese che cosa le avesse preso. La stanza 617 aveva una porta grigio scura che si trovava a una cinquantina di metri dal banco del Pronto Soccorso. Anche se sapeva di essere invisibile, al momento di aprire e di richiudere la porta Billy si sentì un po' teso. Ma ci riuscì senza dare particolarmente nell'occhio. Nella stanza 617 c'erano quattro donne, separate da pannelli divisori bianchi. Un rapido esame sensoriale gli rivelò che Mona era quella in fon-
do a destra. Avanzò verso di lei, invisibile e senza far rumore, superò il divisorio e si fermò, travolto da un improvviso scempio emotivo. Mio Dio, gemette in silenzio. Ti prego, dammi la forza... Non era intubata, per fortuna. Non era collegata a monitor per il controllo del battito cardiaco o delle onde cerebrali. Aveva una flebo nel braccio ma a parte questo si sarebbe potuto credere che stesse semplicemente dormendo. Solo che la donna nel letto d'ospedale non assomigliava affatto a Mona. Il suo viso non aveva niente a che vedere con quello di Mona: naso piatto e deforme, labbra grosse e tumide, lineamenti gonfi e orribilmente pallidi. Chiunque l'avrebbe scambiata per una bambina mongoloide. Non riesco a capire perché cazzo non l'hanno ammazzata! La voce di Lisa gli risuonò nella mente. Ci sono andati così vicino! La voce scomparve. Il silenzio gli inondò le orecchie, rotto solo dal respiro regolare delle quattro donne prive di sensi. La fioca luce dei lampioni che penetrava dalle finestre era l'unica fonte di luce della stanza: minuscole strisce luminose che tagliavano l'area di oscurità quasi totale che si chiudeva su di lei. Billy represse l'impulso di gridare e piangere e buttare giù le pareti. E avanzò lentamente verso di lei. Stranamente, il suo incontro con il sangue e la morte si era ritirato in una zona del cervello dove dominavano insensibilità e mutismo. Pensarci era come ricordare un vecchio film visto molti anni prima. Era un'ombra. Non era reale. Non suscitava in lui alcun senso di angoscia. Tutta la sua riserva di dolore era rivolta esclusivamente a Mona. E poi c'era un'altra cosa: non provava più alcun senso di colpa per aver ammazzato Billy Ramos. Il suo unico rimorso era di non aver fatto la stessa cosa a quel brutto figlio di puttana che aveva ridotto Mona in quello stato. Prima che ce la riducesse. Prima ancora che nascesse. Amore, sussurrò mentalmente, rivolgendosi a lei. Andrà tutto bene. Vedrai che riuscirò a mettere tutto a posto. Vedrai che ti guarirò. E poi, se Dio mi aiuta, qualcuno dovrà pagare. Billy si inginocchiò accanto a lei e si lasciò riempire dal Potere. Liberò la sua mente da ogni altro compito tranne quello che doveva svolgere. Le sue dita si posarono sulle tempie di Mona madide di sudore. La sua coscienza si fuse con l'incubo nella mente di Mona...
... e Mona cadeva all'indietro e la grossa mano si stringeva intorno alla sua gola, interrompendo il dialogo aereo fra i polmoni e il cervello, mentre le sue scarpe sbattevano contro i tre gradini di cemento e poi sul pavimento dell' edificio devastato. Non aveva avuto il tempo di reagire. Non aveva avuto la minima opportunità di difendersi. Quella forza inesorabile l'aveva sorpresa alle spalle e l'aveva trascinata fra i vetri rotti e i pezzi di intonaco sparsi su quel pavimento lurido e desolato... ... e poi ci fu un secondo di libertà, forse meno di un secondo, praticamente un millesimo di secondo prima che l'altro uomo arrivasse, le tirasse un pugno nella pancia che le mozzò il fiato e mentre lei cadeva a terra lui rideva e agitava qualcosa davanti alla faccia... ... e diceva Fai un bel sorriso, bella... ... e poi quella luce, indicibilmente accecante, che durò un solo momento e poi il buio dilagò nuovamente, pieno di puntini color verde marcio che danzavano tremolanti sulla faccia del primo uomo che la costringeva a girarsi, non riusciva a vederne i lineamenti ma il pugno era fin troppo chiaro quando si abbatté sul suo viso e incontrò il suo naso e il rumore delle ossa e della cartilagine che si schiantavano le rimbombò nelle orecchie, il dolore lancinante come un ago e ancor più accecante del flash, il pavimento che le veniva incontro e sbatteva contro di lei prima ancora che si accorgesse di essere caduta a terra... ... e capì quello che stavano per farle, ne avvertì la rossa ineluttabilità quando le sue dita si chiusero attorno a un pezzo di vetro e con esso colpì alla cieca la prima ombra che le piombava addosso, ma senza successo. Niente da fare. Sentì una mano enorme che le afferrava il polso e lo stringeva con forza. Sentiva il vetro che le affondava nelle dita e nel palmo della mano fino all'osso. Sentiva il polso che si piegava all'indietro e si spezzava come una carota croccante e gigantesca, con un suono confuso e lontano... ... e Billy guardava digrignando i denti serrati, il corpo teso che pulsava come un intreccio di fili in un cavo elettrico ad alto voltaggio. Era impossibile dire dove finisse il suo tormento e iniziasse quello di Mona. Vedeva con gli occhi di lei, percepiva attraverso i suoi nervi, sentiva quel che sentivano il suo cuore e la sua mente e la sua anima. Billy era Mona, viveva l'orrore per la prima volta mentre lei vi veniva trascinata nuovamente dentro. C'era però una parte di sé che rimaneva intatta. Era una parte di cui era
appena consapevole, ma nella quale, una volta che c'era entrato, si sentiva perfettamente a suo agio. Il suo sguardo era freddo come quello di un serpente, distaccato come quello di una telecamera, intenso come quello di un predatore che ha avvistato la sua vittima. Un vecchio detto gli attraversava la mente con una voce micidiale e sottile come un ghiacciolo: La vendetta è un piatto che si serve freddo. Come un mantra. Ripetuto continuamente. La vendetta. Mentre guardava. È un piatto. E guardava. Che si serve freddo. E l'orrore proseguiva senza sosta... Quello più piccolo aveva un coltello. Lo usò per spogliarla tagliandole i vestiti. Gli occhi di Mona erano gonfi e in pratica non riusciva più a vedere niente con chiarezza, ma sentì il freddo lato smussato della lama scivolarle lungo tutto il torso mentre la lama tracciava una fessura seghettata nel mezzo della sua maglia. Quando arrivò alla cintura di pelle, l'uomo si fece strada a forza, sbattendole ripetutamente l'impugnatura nello stomaco. Mona buttò fuori l'aria che, passando per la gola, le parve un vetro tagliente. Il tipo grosso era dietro di lei, le teneva ferme le braccia, la sua enorme erezione schiacciata contro la cerniera lampo e strofinata contro la nuca di Mona. Era a causa sua che non gridava. L'aveva informata che, se lo avesse fatto, avrebbe ucciso lei e chiunque fosse stato tanto stupido da accorrere in suo aiuto. Ed era propensa a credergli. Non sembrava che stesse scherzando. Ma una parte di lei, incredibilmente, era ancora sveglia. Dopo l'assalto iniziale, il tempo aveva iniziato a rallentare e ora procedeva come una lumaca, come nei film di Sam Peckinpah. In quell'universo soggettivo, aveva molto tempo per pensare. Forse troppo. Ho già scopato prima d'ora, si disse, per ottenere quel che volevo. E ora, quel che voglio è solo sopravvivere. Non era sufficiente per permetterle di fingere che le piacesse, ma poteva bastare a convincerla a rinchiudersi in un angoletto privato dentro di sé dove le dita che rudemente le strappavano le mutandine e la denudavano non potevano toccarla. Era anche questo che la tratteneva dal gridare.
I suoi occhi semichiusi si erano ormai abituati al buio e i puntini verdi erano scomparsi. Riusciva a scorgere chiaramente l'ometto che si rialzava sopra di lei e si tirava giù i pantaloni. Riusciva a scorgere la sua pelle scura, i capelli neri e untuosi, i baffi sottili. Vedeva i suoi occhi, anch'essi scuri e untuosi. Vedeva il bagliore cupo dei suoi denti sporchi. Vedeva i suoi ridicoli genitali, l'uccello eretto non più grande di un pennarello color carne. Le parole Che uccello ridicolo gli scivolarono dalla mente alla bocca e poi uscirono dalle labbra, infischiandosene del tempo soggettivo, prima che riuscisse a fermarle... ... e allora lui le saltò sullo stomaco con le ginocchia nude e il tempo ripartì a tutta velocità. Il suo pugno le apparve come un immagine confusa prima di scomparire dal suo raggio visivo e abbattersi sui denti. Sentì chiaramente che quattro sopra e due sotto si schiantavano, sentì le terminazioni nervose impazzire come un istante prima della morte, sentì il sangue scorrere e le ossa spezzarsi. Sputò qualcosa in un conato irrefrenabile, poi inghiottì involontariamente. Cinque denti vennero sputati fuori. Uno lo ingoiò. Non aveva idea di quale si trattasse. Poi il pugno tornò ad avvicinarsi e si allargò fino a diventare un palmo disteso. Il tizio ci sputò sopra. Vide la mano che scendeva e le spalancava le ginocchia. La sentì bagnare le labbra della vagina. Il dente le sì piantò nell'esofago. Le sembrava di soffocare e non poteva farci niente, sentiva i suoi bordi taglienti scavarle i muscoli della carne. Quello grosso la sollevò appena e la colpì con un pugno sulla schiena. Il dente le risalì dolorosamente in gola e volò fuori, accompagnato da sangue e saliva che le colarono giù dal mento e le macchiarono il seno nudo. Poi lui le entrò dentro. L'ometto dall'uccello ridicolo cominciò a dimenarsi. A Mona sembrava di non essere più lì. Quella parte di lei che era stata risvegliata dal dolore si allontanò di nuovo, si ritrasse in quella zona privata in cui si poteva scendere a ragionevoli patti con le scopate più disgustose, con quel minimo di distacco che le aveva permesso di sopravvivere a insegnanti di danza, direttori artistici, potenziali finanziatori e chiunque altro... ... l'avesse trascinata in un edificio abbandonato, l'avesse pestata e le avesse strappato i vestiti con un coltello... ... e fu allora che il paragone non resse più perché i paragoni erano impossibili, perché non c'era modo di dare un senso a quello che stava succedendo alla luce di altre cose che le erano già successe, non c'era alcun modo in assoluto di dare un senso a quello che le stava succedendo. Si
sentì colmare da un odio freddo che la ottundeva. E nonostante i sensi frastornati, si costrinse a restare cosciente con tutta la brutalità che aveva ancora a disposizione. Adesso non posso fermarvi, sibillò una voce nella sua mente mentre si sforzava di aprire gli occhi gonfi per cogliere e memorizzare ogni particolare del loro viso. Ma ce la farò a beccarvi. Sì che ce la farò e mi farò servire le vostre palle su un piatto fumante. E in quella zona privata in cui nessuno poteva toccarla, le immagini delle scopate strategiche del passato vennero sostituite da immagini di vendetta... ... che Billy divideva con Mona, inconsapevole della terribile tensione a cui il suo corpo, ormai trasformato in una massa di sudore e di acciaio, era sottoposto. In quel momento le sole sensazioni e i soli pensieri che sentiva erano quelli di Mona... ... e poi Uccello Pennarello venne, grugnendo e gemendo, e Billy fu sorpreso dalla chiarezza con cui avvertiva lo sperma che schizzava, quanto sperma, e gli ultimi colpi soffocati scivolarono dentro e fuori meno dolorosamente. Ora so chi sei, pensò Billy fissando attraverso gli occhi di Mona quel viso piccolo e sudaticcio. Ora conosco il tuo odore, testa di cazzo. Mi serve solo di sapere il tuo nome... Per tutta risposta, il tipo grosso che teneva ferma Mona disse: «Forza, Rickie Ricardo. Adesso tocca a Big Rex spassarsela...» E il piccoletto uscì da lei e i due cambiarono di posto. Il coltello tornò al piccoletto che lo tenne puntato alla gola di Mona mentre passava dietro di lei sussurrando vedrai che ti piacerà, tesoro, quel ritmo magico ti farà impazzire mentre il suo compagno diceva non ha visto niente fino a che non vede Rex che fa il suo numero e Mona capì all'improvviso in un'incredibile e nauseante ondata di follia che stavano facendo una gara e lei era il campo da gioco della loro schifosa competizione, il gioco del mio uccello è più grosso del tuo uscito fuori dagli spogliatoi dei maschi e scatenato per le strade. La rabbia ribollì nuovamente in lei, offesa dall'atrocità insensata di quello che le stava succedendo. Cominciò a dimenarsi, con un ruggito che le stava per esplodere in gola... ... e fu allora che Rickie Ricardo la ferì per la prima volta col coltello, tirandole indietro la testa per i capelli con una mano e tracciando col col-
tello una linea sottile e superficiale rossa e gocciolante sotto al mento di Mona. Era più bravo col coltello che con il cazzo. Era un taglio da esperti. Il dolore che arrecava, per quanto terribile, impallidiva davanti al terrore che suscitava. Tutto cambiò quando il coltello le tagliò la gola. Tutto. Stanno per ammazzarmi, comprese. Sto per morire. Quella consapevolezza la riportò al suo posticino privato solo per scoprire che non era più lo stesso. Lo stordimento si era diffuso, aveva preso possesso di lei, perfino i suoi pensieri fissavano pieni di immobile orrore Rex che si slacciava la cintura, si apriva i jeans e se li tirava giù fino alle ginocchia. Mio Dio, mormorò, e fu allora che Rickie la colpì per la seconda volta col coltello. Mona scoppiò a piangere e Rickie la colpì nuovamente dicendo apri la bocca un'altra volta e sei morta, mi hai capito, troia, un'altra volta e sei morta... NOOOOOO!!! gridò Billy dentro la sua mente, ma non servì a niente, non riuscì a fermare quello che era già successo e così continuò a urlare soltanto perché non riusciva a smettere mentre Rex piombava con la sua massa putrida sopra di lei e le ficcava dentro quella cosa mostruosa e ripugnante... ... e Mona stava quasi per urlare e Rickie le fece un altro taglio e Billy lo sentiva, sentiva tutto, il dolore che penetrava in lui come una scheggia, taglio dopo taglio, l'indicibile tortura lacerante delle sue pareti vaginali, la loro completa e totale violazione, la certezza assoluta che non poteva durare ancora a lungo, che lei non ce la faceva più, che l'avrebbe ammazzata, per favore, uccidetemi, subito... ... e non smetteva e non smetteva e c'era un gemito acuto che le si contorceva nella gola e che neanche il coltello riusciva a far tacere nonostante continuasse a colpire e tagliare e colpire perché qualcosa stava crescendo dentro di lui adesso, un'ondata enorme di lava fusa, un acme di angoscia dai denti taglienti come rasoi che non aveva niente a che fare con il sesso o con il piacere ma che aveva invece a che fare con la fine che si avvicinava, la fine splendida serena nera della morte... ... e le immagini iniziarono a balenare ancora una volta nella mente di Mona, ma questa volta Billy vide se stesso a letto con Mona, Dave a letto con Mona, Lisa a letto con Mona, un ragazzo che non conosceva neppure a
letto con Mona... ... ed erano ricordi bellissimi che però non le furono di nessun aiuto perché la realtà di quel momento li avvelenava, li rendeva brutti e patetici e tristi... ... mentre il tuono ribolliva fino a raggiungere l'apice... ... e poi Mona si spegneva, si spegneva, i suoi pensieri e il suo corpo e il mondo svanivano, portati sulle ali nella notte nera eterna nera... ... e Billy crollò sul pavimento dell'ospedale con i nervi in fiamme. Non riusciva a smettere di tremare. Riusciva a malapena a respirare. Il dolore al naso e alla bocca e alla gola e al polso e alla schiena e all'inguine pulsava ancora dentro di lui come la fitta fantasmatica di un arto amputato. Ma era tutto nella sua mente, ed era questa la cosa più atroce perché la rabbia e il terrore e l'odio e il dolore e l'impotenza a reagire alla morte si erano impresse nel suo sistema nervoso centrale come se fossero acido solforico e ogni secondo che passava scavavano sempre più a fondo. Era impossibile sfuggire a quelle immagini, alla loro spietata brutalità, alla totale devastazione che portavano con sé. Si era avvicinato all'esperienza femminile dello stupro più di quanto ogni altro uomo si è mai sognato di fare. Ed era solo una microscintilla impalpabile di quello che Mona, e altri milioni di donne prima di lei, erano state costrette a conoscere in prima persona. E Billy capì che non sarebbe stato mai più lo stesso. Mai più. Mai più. Lo stesso. Dio mio, mi dispiace, sentì che stavano dicendo i suoi pensieri, amore mio, mi dispiace tanto non posso crederci non posso credere che sia successo proprio a te... ... mentre la parte gelida della sua mente, quello sguardo da serpente dentro di lui, gli ricordava che non era stato lui a farlo, come non era stato lui l'uomo bianco che aveva rinchiuso gli indiani nelle riserve o quello con il cappuccio bianco in testa che rideva mentre lo sporco negro penzolava da un ramo... ... e mentre giaceva a terra, con il pavimento dell'ospedale freddo come
un cadavere contro la guancia, Billy iniziò a ritrovare la calma. Era una calma terribile, come l'occhio di un uragano, ma i suoi pensieri riuscivano a raccogliersi con una certa coerenza grazie a essa e questo era tutto ciò di cui aveva bisogno o che sperava di ottenere in quel momento. Nel giro di qualche minuto era pronto. Si rialzò sulle ginocchia, anche se i suoi nervi stavano ancora friggendo. E vide, con occhi ormai abituati alla penombra, la prova evidente che l'incubo era reale. Portò nuovamente le mani alle tempie di Mona. Questa volta per dare e non più per ricevere. Sentiva il Potere che lo attraversava. Che usciva da lui. Che entrava in lei. E cominciò a parlare senza emettere alcun suono. Mona, disse la sua voce. Sentì in lei una sorta di increspatura, che gli fece capire che istintivamente era pronta a ricevere. Mona, ti amo, proseguì. Presto starai bene. Te lo prometto. La sentì sospirare dentro di sé. Finora, tutto bene. Prima di continuare, anche lui si lasciò sfuggire un profondo sospiro. Non cancellerò il ricordo di quello che è successo. Non sono neppure sicuro di poterlo fare, ma comunque non ci proverò. Credo che tu voglia ricordare. Ne hai passate troppe per voler dimenticare. Le dita di Billy si spostarono sul naso rotto di Mona. Ma a questo cercherò di rimediare come meglio posso. Mentre la membrana e la cartilagine e i nervi riprendevano la loro forma originaria, i capillari rotti risucchiavano il sangue versato e si richiudevano senza lasciare traccia. E a questo. Le dita scesero fino alla bocca: le labbra gonfie, le gengive insanguinate, le schegge delle ossa frantumate. La punta delle sue dita stimolò i poteri rigenerativi di Mona. Un tocco ed entrarono in azione. Il gonfiore scomparve. Le gengive lacerate si chiusero. E i denti ricrebbero, perfetti. E a questo. Le dita passarono sui tagli lungo la gola e le spalle e il seno. Le ferite divennero dei segni rossi appena un po' gonfi e dei graffi temporanei. E a questo. Il polso rotto guarì e il taglio sulla mano si rimarginò.
E a questo. E scese fino a coprire delicatamente con la mano la sua vagina martoriata. Non osò entrarle furtivamente dentro. Inviò ondate di Potere risanante dal di fuori. Da dentro di sé. E il dolore e i danni scomparvero dalle pareti vaginali brutalizzate. E anche a questo, disse muovendole le dita lungo tutto il corpo e occupandosi delle mille lacerazioni causate dai vetri e dai detriti prima di tornare a soffermarsi sulle sue tempie. Ti vendicherò, disse. ... e nel momento finale, prima che il legame si spezzasse, dal fondo della sua incoscienza attonita, Mona riuscì a percepire con innegabile chiarezza una microscintilla di angoscia maschile che il legame aveva reso possibile. Sentì dietro le ultime parole di Billy una convinzione profonda. Sentì il Potere. E questo le diede coraggio e al tempo stesso la fece sentire smarrita. Alleviò alcune delle sue paure. E ne ingigantì altre. Mistero «Cristo santo dei miei coglioni» imprecò Dennis Hamilton facendo un lungo tiro da una Winston che puzzava di stantio e maledicendosi per aver scelto proprio quel lavoro. Non era la prima volta che gli succedeva quella settimana. La ragazza si chiamava Marcy Keller e fino a circa tre ore prima era stata un vero schianto. Ma ormai era storia del passato. Come ogni altra cosa per lei, se si escludeva un viaggio al St. Vincent in un sacco chiuso da una cerniera lampo e quello che eventualmente la aspettava all'altro mondo. Dennis aveva la nausea. Allo stomaco. In fondo all'anima. Vaffanculo Rizzo e le sue chiacchiere del cazzo, pensò. Non lo aiutavano a prenderla meglio e l'abitudine non lo aveva reso insensibile a quella brutalità orribile e inspiegabile. Se mai, l'aveva reso ancor più sensibile: ora lo seguiva fino a casa, lo tormentava, gli faceva venire voglia di trovare quel figlio di puttana prima di chiunque altro. Avrebbe voluto buttare quel testa di cazzo giù dalle World Trade Towers per poi stare a guardare mentre si spiaccicava contro il freddo e duro marciapiede sottostante. Tutto quello che ricavava da quei pensieri, però, era un eccesso di bile e
un sacco di sonno in meno. E la situazione non migliorava. Dennis alzò lo sguardo. Due troupe televisive rivali stavano quasi per venire alle mani per avere il privilegio di essere i primi a dare la notizia e scegliere la prospettiva migliore per il servizio straordinario che avrebbero mandato in onda. I media stavano trasformando quella storia in una specie di circo in cui un leone mangiava i cristiani, scavando nel passato delle vittime, giungendo a elaborate deduzioni sull'assassino basate su teorie fragilissime, e perfino litigando sul nome da dargli. L'Allegro Sfregiatore. Il Maniaco che Sorride. L'Assassino Sorrisino. Tutte le stazioni televisive e i giornali più dementi della città avevano proposto un nome nella speranza che il grosso pubblico lo adottasse. Alle conferenze stampa sembrava di trovarsi in un'arena, mentre la chiassosa battaglia del soprannome finiva praticamente per soppiantare la qualità dell'informazione. Non che ci fossero comunque molte informazioni da dare e quelle poche erano qualitativamente scarse. Ricordava un po' i tempi del figlio di Sam e i giorni in cui Hamilton era ancora una recluta, ai margini dell'esercito messo in piedi per dare la caccia a quello psicopatico. Centinaia di uomini e milioni di ore di lavoro a oliare il meccanismo fino a che quel tipo non ci rimase incastrato. E questo, per quanto iniquo, era il solo filo di speranza a cui aggrapparsi. Il pazzo con cui ora avevano a che fare, oltre a tutto il resto che si poteva dire di lui, era certamente ambizioso. Tre ragazze in cinque giorni: era uno che si dava parecchio da fare. E se reggeva quel ritmo, con un po' di fortuna avrebbero finito per beccarlo. Ma al momento tutti loro, compreso Dennis, non si sentivano particolarmente fortunati. Tornò con lo sguardo sulla scena del delitto. Rizzo si stava dirigendo verso di lui. Marcy era stata ficcata in un sacco con sopra il suo nome ed era pronta per andarsene. Le troupe televisive stavano mandando in onda i loro servizi, ansiose di essere le prime a gettare i ricordi della ragazza ai leoni di cui sopra. «Forza, ragazzo, andiamo via» disse Rizzo passandogli una mano insolitamente amichevole sulle spalle. «Qui abbiamo fatto tutto il possibile.» «Non abbiamo fatto un cazzo» ribatté Hamilton. Rizzo scrollò le spalle come a dichiararsi d'accordo col collega. «Comunque è ora di tornare in ufficio.» Dennis Hamilton annuì stizzosamente, mosse il culo e seguì il suo collega più anziano verso l'auto. I visi delle ragazze morte lo ossessionavano,
erano un tatuaggio fosforescente dietro le sue palpebre e imploravano giustizia ogni volta che chiudeva gli occhi. E non avrebbe voluto avere tutta quella responsabilità. E avrebbe voluto farcela a catturare l'assassino. E avrebbe voluto scordarsi del distintivo e delle regole. Solo per un momento. O anche per sempre. Lisa era in piedi davanti al lavandino. Riempiva la teiera e lasciava che le lacrime le scorressero giù per le guance. Era tornata a casa da più di un'ora ma a dormire non ci pensava neppure. Non avrebbe dormito stanotte. Stanotte l'aspettavano solo lacrime e paure e inutili recriminazioni. Insieme a una conclusione irremovibile. Mai più, sussurrava la sua mente, e le parole erano come pugnali. Mona, morirò prima di permettere che ti succeda di nuovo. Era una strada che aveva percorso due volte, e una volta era già troppo. La prima volta era toccato a lei. Quasi sei anni e tremila chilometri di tessuto cicatrizzato separavano la prima notte dalla seconda, ma la rabbia e la sensazione di essere stata tradita giacevano come una bestia morta buttata in fondo a un pozzo, appena sotto la superficie della coscienza, e avvelenavano ogni sua emozione, dando l'apparenza della verità alle sue paure più ignobili. Sugli uomini. Su se stessa. Sulla vita. Non è poi così tragico, si disse. Paula e Susan l'avrebbero superato nel giro di un secondo. Tuttavia si trattava della sua storia e la mente tornò a scorrere lungo i suoi contorni, come una cieca che legge qualcosa in braille. E ricordava... Ricordava... Era iscritta al secondo anno alla Cal Tech ed era stata inserita in un progetto di ricerca su un film insieme a due suoi colleghi, anch'essi del secondo anno. Come si chiamavano? Sbuffò con tono di scherno, continuando al tempo stesso a preparare il tè, con dei gesti automatici che lentamente cercavano di placarla. Roy. Gordy. Non li avrebbe mai dimenticati. Mai. I loro nomi le trafiggevano il cervello e lo riempivano di piccole fessure sanguinolente nelle ore piccole di quelle notti in cui cadeva in preda a morbosi attacchi di introspezione. Roy e Gordy. I suoi amichetti ricciolini. Lavorarono come pazzi insieme per tre
mesi: un sacco di notti passate chini sopra la moviola nei laboratori, sempre sotto pressione. Un sacco di notti, finito di lavorare, a cazzeggiare e a bere nell'appartamento di Gordy, che si trovava a tre isolati dal campus e aveva un grande stereo. Ottimo posto per sfogare la tensione di una serata passata a montare un film sulle abitudini alimentari e riproduttive dei grandi squali bianchi. Divennero sempre più intimi. Lisa non poteva evitarlo. Gordy era dolce e timidissimo. E Roy... Lisa ebbe un fremito. L'acqua cominciò a bollire. Aveva sempre saputo in fondo al cuore che l'idea era stata di Roy. Non poteva provarlo, ovviamente, anzi non poteva provare niente, ma ne era certa. Successe a tarda notte, dopo che avevano finito di montare la terza bobina, nella quale avevano stabilito un punto fermo: fra il comportamento aggressivo dello squalo e la sua tendenza a compiere attacchi a sorpresa non esisteva un rapporto diretto. Si sentivano di ottimo umore e così andarono a festeggiare da Gordy con una sfilza ininterrotta di Seven and Seven e i Police sparati dalle casse dello stereo. Ricordava di essersi addormentata sul divano, completamente sbronza. Si risvegliò nel letto di Gordy. Nuda. Insieme a Gordy e Roy. Gli squali erano pazzi di cibo. E lei era l'esca. I ricordi risalirono a galla nella sua psiche e traboccarono come un'ondata di vomito. Gordy e Roy, ubriachi anche loro, viscidi come serpenti, che sghignazzavano e grugnivano e cercavano di convincere se stessi che Lisa cercava di divincolarsi solo per gioco. Gordy e Roy che avevano approfittato del momento in cui Lisa era più che mai vulnerabile per fare i loro porci comodi e spingere e succhiare e strofinarsi su di lei. Per violare il suo corpo. E farle odiare qualcosa che non le sarebbe dovuto, no, non le sarebbe dovuto sembrare disgustoso. E farle odiare anche loro. Alla fine svenne, un'ondata nera e clemente dovuta all'eccesso di alcol e allo shock terribile. Roy e Gordy andarono avanti per un tempo indefinito, lasciandole solo un vago e orribile ricordo dell'incubo. Da allora non sopportava che le sbattessero qualcosa in faccia. E il giorno dopo sembrava che non fosse successo niente. Niente. Nessuna scusa. Nessuna ammissione. Al lavoro come sempre.
Se ne andò prima della fine della settimana. E in un certo senso da allora non aveva smesso di fuggire. Lontano da quella notte. Lontano da sé. E verso... Mona... Lisa soffocò un singhiozzo e si ritrovò in cucina. Sentiva la rabbia crescere dentro di sé come l'acqua del bollitore il cui vapore usciva con un fischio acuto. Pensò al bellissimo volto di Mona, gonfio, deforme e pieno di lividi. Pensò al collo e al seno di Mona attraversati da sottili linee di sangue. Sulla tazza che aveva in mano c'era un'immagine di Snoopy e la scritta diceva: È STATA UNA GIORNATA MAGNIFICA. Lisa emise un grido che non aveva quasi più niente di umano e scagliò quella stupida tazza del cazzo contro il muro. E quando la tazza si schiantò in mille pezzi, con essa si ruppe quella paralisi che la teneva prigioniera. Lentamente Lisa si voltò e tornò in cucina, spogliandosi. Quando arrivò in soggiorno aveva addosso soltanto una maglietta e le mutandine. La lampadina sul soffitto emise un ronzio mentre ne abbassava l'intensità fino a livello di lume di candela. Non se ne curò. Ormai non si curava più niente. Non aveva saputo cosa fare, sei anni prima. Adesso invece sapeva cosa fare. Lisa, nella luce fioca. Lisa, occhi fissi nel vuoto che si muovono con fluida determinazione attraverso l'ampia distesa del pavimento. Colpisci. Ferma. In posizione. Calcio. Controllo del respiro, in perfetta sincronia con il ritmo del movimento. Lisa, persa nel movimento, tutt'una con il movimento, padrona del movimento. Pugno. Giro su se stessa. In posizione. Calcio. Il suo corpo fluido e lucido di sudore, illuminato solo dalla luce alogena della strada che entra dalla finestra e dal fioco bagliore sopra di lei. Esegue i kata, i riti del guerriero, come prescritti dal suo sensai, il suo istruttore. Lisa, cintura marrone, cinque anni di ju-jitsu, incanala la sua furia nella ripetizione infinita del ciclo rituale fino a che il suo corpo non vibra come un filo d'acciaio teso. Un'ora dopo e ancora non basta. Terminati i kata, si inchina cerimoniosamente alla presenza invisibile del suo sensai, una bellissima donna di nome Gloria che vive a Brooklyn. Sente il suo corpo carico, vivo, in uno stato di totale equilibrio.
Ma l'anima grida ancora perché vuole espiazione. Lo sguardo si posa sulla libreria dalla parte opposta della stanza. Se la sono costruita da sole, un oggetto d'arredamento comune fra i giovani e fra chi non è riuscito a sfondare. Sei file di scaffali, costituiti interamente di tavole di pino grezzo e blocchi di scorie di calcestruzzo. Attraversa la stanza con quattro lunghi passi e inizia a tirare giù i libri, buttandoli sbrigativamente sul divano. Libri umoristici, di storia, di arte e di politica finiscono tutti in un mucchio confuso. Le opere complete di Andrea Dworkin, di Susan Brownmiller e di una schiera di altre ideologhe femministe militanti vengono messe da parte dopo essere state degnate appena di uno sguardo. Lisa non ha alcun bisogno in questo momento delle loro interminabili tirate sulla natura della condizione femminile. Lisa conosce la natura della condizione femminile. L'ha vissuta sulla propria pelle. E ora ha bisogno di agire. Dopo aver svuotato e smontato la libreria, passa a risistemarla. Quattro blocchi, a gruppi di due, con un metro di spazio fra ciascuno di essi. Una tavola, poggiata su di essi in tutta la sua lunghezza. Perfetto. Lisa è in piedi davanti alla tavola, la fissa e si bilancia. Si immobilizza. E con un secco keai! (mai più!) spezza la tavola in due parti perfette colpendo di taglio con la mano destra. Senza fermarsi, avvicina i quattro blocchi e vi poggia sopra le due parti della tavola spezzata. Un altro keai! (mai più!) e un rapido colpo del gomito verso il basso. Le tavole si spezzano in quattro parti. Le pulsazioni del suo cuore aumentano. Senza parlare, sistema due dei blocchi e vi poggia sopra i quattro pezzi di tavola in fila. Non ha mai provato con quattro tavole prima d'ora, tanto meno con quelle più corte. Ma non ha importanza. Libera la mente, un breve respiro purificatore e KEAI! Otto pezzi di legno cadono sul pavimento. Lisa si rialza lentamente, con movimenti controllati, come un sommozzatore in una camera di decompressione.
E poi lo fa un'altra volta. E un'altra volta ancora. Fratelli e sorelle Alle undici e cinque del mattino seguente, Mona de Vanguardia venne dimessa dal St. Vincent perché non erano sorte complicazioni. Dalla cartella clinica ai piedi del letto risultava in ottime condizioni fisiche. Alla sezione di farmacologia le diedero una salutare infornata di calmanti. Non dovette pagare niente per la permanenza in ospedale. I medici, le infermiere, gli inservienti e le guardie di sicurezza la salutarono con un sorriso. Billy si occupò di ogni cosa. Bubba stava aspettando sul marciapiede quando uscirono dalla porta girevole. Quando li vide accennò un allegro cha-cha-cha, senza alcuna imbeccata da parte di Billy. Sulle labbra di Mona spuntò l'ombra di un sorriso. Presero un taxi sulla Settima. Generalmente, Bubba avrebbe creato dei problemi, ma Billy si occupò anche di questo. Il tassista si disinteressò completamente del cane. Durante il tragitto verso casa, Mona rimase irrigidita, in silenzio e chiusa in sé. A un certo punto, mentre Mona usciva con passo incerto dall'ascensore dell'ospedale, Billy aveva cercato di entrare nella sua mente. Il grido silenzioso che apparve negli occhi di Mona fu più che eloquente: non voleva assolutamente essere toccata. «Come vuoi» aveva detto Billy. Furono le uniche parole che si scambiarono. Fu il solo momento in cui i loro occhi si incontrarono davvero. Come vuoi, le ripeté in silenzio guardando il grigio panorama che scorreva rapido accanto a loro sotto lo spesso strato di nuvole che soffocava il cielo. Billy non sapeva quello che Mona ricordava della sua visita della notte precedente, quanta ombra si estendesse dal momento in cui aveva perso conoscenza a quello in cui si era svegliata in condizioni fisiche notevolmente migliori. Non poteva e non voleva utilizzare i mezzi che gli avrebbero permesso di saperlo. Non più di quanto voleva assillarla con le chiacchiere. Non più di quanto avrebbe voluto cancellarle totalmente i ricordi. Tocca a te, proseguì, rivolgendosi a lei in una conversazione interiore e immaginaria. È una lotta che solo tu puoi vincere. Ti ho risparmiato un
corpo sfigurato e mesi e mesi di penosa convalescenza. Risparmiarti altro sarebbe stato risparmiarti l'opportunità di crescere. E non mi avresti mai perdonato se lo avessi fatto. C'è dell' integrità nell'affrontare il dolore. C'è dell' integrità nell'affrontare l'orrore. Tutto quello che la vita mi ha insegnato ha trovato conferma negli ultimi giorni. Non sarò io a sottrarti la tua integrità. Non importa quanto ti possa fare male. Non importa quanto faccia male a me. Il finestrino posteriore destro era aperto quel tanto che permetteva a Bubba di infilare il muso attraverso la fessura. Billy se lo teneva stretto, si crogiolava nel suo tepore animale, in quella semplice purezza di vivere e amare che era lo stato naturale di Bubba. Billy aveva bisogno di quel calore, ora più che mai. Intanto il loro viaggio volgeva al termine. Dave Hart stava suonando il campanello del portone da quasi due minuti quando il taxi si fermò sul marciapiede accanto a lui. Avvertiva ancora un sordo dolore nel cranio, una sconcertante dose di terrore nel cuore e un immenso mazzo di fiori nella mano destra che gli sembrava appartenere a un altro. Quando Bubba saltò fuori dal sedile posteriore, pensò che buffo cane. Quando dietro di lui scese Billy, pensò Mio Dio e i fiori stavano per precipitare sul marciapiede. Quando dietro di loro apparve Mona, si aggrappò ai fiori con tutta la sua forza e il terrore divenne una cosa viva che gli strisciava nel petto. «Mona» mormorò facendo un paio di passi verso di loro. Nonostante la sua voce avesse di solito la forza di quella di un cantante, ora non riusciva a tirare fuori il fiato. «Dave» disse Billy instaurando quel contatto oculare che Mona evitava. «Stai tranquillo.» La prima cosa che Dave avvertì fu un formicolio alle mani, tiepido e fragrante come una lozione. La seconda cosa che provò fu uno scoppio di terrore improvviso quando il cane si diresse saltellando verso di lui. Poi un chiarore luminoso gli esplose nella testa. E, quando riprese coscienza un millesimo di secondo più tardi, la sua paura si era dissolta. E fu un bene perché in quel momento Bubba si sollevò sulle zampe posteriori e poggiò quelle anteriori sul petto di Dave, esaminandolo con tutta
la sua esuberanza canina. Dave si mise a ridere, accarezzando istintivamente con una mano la testa del cane e allontanando i fiori con l'altra. Mona lo oltrepassò in silenzio dirigendosi verso la porta. Aveva già le chiavi in mano. Billy la seguiva da presso, a passo con lei, pronto a intervenire al minimo segno di debolezza o di sbandamento. Ma non successe niente del genere e la porta si aprì. Billy se ne uscì con un avanti, ragazzi, entrate che a Dave parve sorprendentemente caloroso. E tutti e quattro salirono le scale. «Non riesco proprio a capirvi» stava dicendo Lisa girando come un derviscio dal lavandino al fornello. «E secondo me dovreste andarvene prima che arrivi. Chiaro?» «No» disse Paula. Accanto a lei c'era Susan. «Non credo che tu ci stia offrendo l'opportunità...» «Lo so che non vi sto offrendo nessuna opportunità!» gridò Lisa con una scarica di riso gelido. Si girò e puntò un dito verso la testa di Paula. «Anzi, ti ho offerto l'opportunità di comportarti da essere umano quando ti ho telefonato per dirti che non sarei potuta venire alla riunione oggi pomeriggio e venti minuti dopo mi trovo la casa invasa dall'intera banda che cerca di fare pressione su di me perché convinca Mona a parlare con loro!» «Non stiamo facendo alcuna pressione su di te» la informò freddamente Susan. «Si tratta di un atteggiamento masch...» «CAZZATE!» proruppe Lisa sbattendo il pugno sul fornello. Sembrava che gli occhiali di Susan cominciassero ad appannarsi. «Avete sempre tutto pronto, no? Tutto quello che suona male è un dogma della supremazia maschile. Poi però voi fate le stesse cose ma usate slogan più accattivanti. Come definireste quello che siete venute a fare qui? "Egoismo illuminato"?» «Non devi permettere alle tue emozioni private di ostacolarci» disse Paula con voce bassa e misurata. «Siamo qui per combattere una guerra...» «Ho una cosa da dirti, sorella» la interruppe Lisa. «Se hai perso la capacità di provare pietà, l'hai già persa, la guerra.» Dalle scale si sentì il rumore di passi che salivano. Gli occhi di tutte si spostarono verso la porta. Lisa sibilò fra i denti: non sarebbe riuscita a buttarle fuori prima che arrivasse Mona. «Se una di voi prova a rivolgerle la parola» disse «giuro che le spezzo il collo...» La minaccia ebbe un secondo di tempo per essere recepita prima che la
porta si spalancasse... ... e Bubba saltellasse dentro, dimenandosi come un matto. Gli piaceva l'appartamento di Mona e di Lisa. Gli piaceva l'odore: l'aria impregnata di profumi e incenso e sudore di ragazza soavemente muschiato. Bubba tornava sempre cucciolo quando veniva a fare loro visita. Al momento, la sua regressione si manifestava in una serie di salti intorno al tavolo della cucina. E lì accanto c'era Lisa, che traboccava di entusiasmo per quell'inattesa allegria. Fece una giravolta e poi le saltò addosso, affondando il naso fra i suoi seni mentre lei lo grattava dietro le orecchie. Ma c'erano anche altre persone nella stanza, persone che non aveva mai visto, sconosciute, e quindi ricadde a terra e fece un'altra folle piroetta rivolgendo la sua attenzione a quella più grossa e tarchiata. Era in calore, in quel momento. E Bubba andava pazzo per le persone in calore. Senza un solo istante di esitazione, le ficcò il naso fra le gambe strofinandosi contro il suo ginocchio sinistro con dissoluto abbandono. «FUORI DAI PIEDI!» strillò Paula allontanando il cane con entrambe le mani. Bubba ricadde all'indietro con un'espressione perplessa e inebetita. «VAI VIA!» ripeté, portando il piede destro all'indietro, pronta a sferrare un calcio. «Bubba, no.» Una voce maschile dalla porta, calma e vagamente autoritaria. Il cane indietreggiò e l'uomo entrò nella stanza. Era il tipo che aveva visto due volte Fra le nostre cosce, il ragazzo della ballerina. Non aveva affatto l'aspetto ripulito dell'ultima volta in cui si erano visti. Ma sembrava molto più intenso. E non sembrava felice di vederla. Decisamente no. Paula lanciò uno sguardo a Lisa, che aveva gli occhi spalancati come due enormi monete d'argento e stava fissando la porta con una strana mistura di gioia e di perplessità sul viso. Paula impiegò un istante prima di capire perché. Poi Mona entrò nella stanza. Non era su una barella. Non aveva nemmeno le stampelle. Non era avvolta da bende di alcun genere. Non le mancava neppure un dente. «Mona» disse Lisa. Ma Mona non diede segno di aver riconosciuto la sua compagna di casa. Non diede segno di aver riconosciuto nessuna di loro. Si diresse immediatamente, con passi misurati, verso la porta della camera da letto di Lisa e la
superò. Paula capì che quella donna era distrutta dal dolore. A prescindere dalle ridicole minacce di Lisa, questo non era né il luogo né il momento adatto per parlare a Mona di qualcosa. Domani sarebbe stato meglio. E anche il giorno dopo. E il giorno dopo ancora. E tutti gli altri giorni, fino a che non avrebbe ottenuto quel che voleva. Nonostante la deplorevole assenza di un naso rotto. Mona era perfetta. Dopo la prima parola soffocata, Lisa si ritrovò nella più totale incapacità di parlare. Dovette appoggiarsi al fornello quando Mona uscì dalla cucina e la porta scorrevole si chiuse alle sue spalle. È impossibile. Furono queste le uniche parole che riuscirono a prendere forma nella sua mente. Era terrorizzata, era sommersa dalla gioia, era stupefatta fino al midollo. Si sentiva come un servizio di porcellana che per magia fosse rimasto intatto sul tavolo dopo che un prestigiatore gli aveva strappato la tovaglia di sotto. Ma io l'ho vista. Quel pensiero si fece strada con forza nella sua mente trascinando con sé una serie di immagini. Riusciva chiaramente a vedere i denti rotti, un bozzo deforme di carne e cartilagine color porpora fra gli occhi e la bocca, la terribile quantità di sangue già secco o che ancora sgorgava dalle ferite quando gli infermieri avevano tirato fuori quel che rimaneva della sua migliore amica dalla casa diroccata al numero 411 della Ventiquattresima Ovest. Si girò verso Billy che era rimasto sulla sinistra della porta e rimase stupefatta nel vedere che c'era anche Dave, con un omaggio floreale stretto nella mano. L'immagine di Billy e Dave uno a fianco dell'altro era poco meno inesplicabile di quella di Mona rimessa a nuovo. E non contribuì a farle riprendere i contatti con la realtà. Si chiese per un momento se non si trattasse di un sogno incredibilmente spietato. «No» disse Billy come in risposta al suo pensiero. «Non è un sogno.» «Ma io...» iniziò Lisa. «Ieri notte la situazione sembrava peggiore di quanto fosse realmente» la interruppe Billy. «Ecco tutto.» «Ma io...» tentò nuovamente Lisa, con una nota frenetica nella voce. «Non ora» insisté Billy con la traccia di un sorriso gelido sulle labbra. «Abbiamo visite. E credo che non mi dispiacerebbe sapere che cosa ci fan-
no qui.» Lanciò uno sguardo gelido in direzione di Paula e Susan. «Siete venute qui a porgere le vostre condoglianze o che altro?» Lisa si girò verso le due donne, che non risposero alla provocazione di Billy. Bravissime a fare fronte, osservò. E a ignorarlo come se fosse l'ultimo dei pezzi di merda. L'uomo che ha accompagnato a casa la donna brutalizzata è il nemico, solo perché è un uomo. Quanti strati di stronzate mi separano ancora dalla verità? Nel frattempo Dave si sentiva in tutto e per tutto fuori posto. La sensazione che aveva provato fin dall'inizio non era cambiata di una virgola. Ma ora veniva risucchiato sempre più dal dramma che si stava svolgendo davanti a lui. Le donne erano senza dubbio le femministe del gruppo di Lisa. Gente del Movimento, impossibile sbagliarsi: abbigliamento triste, taglio di capelli serioso, niente trucco, neanche a parlarne! Erano risolute, intelligenti e fredde come una pagnotta di pane del giorno prima. Chiarissimo, fin dalla prima occhiata. La sorpresa maggiore era costituita da Billy, o più succintamente dal modo in cui quel tipo lo aveva colpito. Era questo il perdente che Mona gli aveva descritto mille volte? Era questo l'uomo la cui stretta di mano aveva scatenato in lui il peggior incubo allucinogeno della sua vita? Era questa la persona a cui era pronto a portare via Mona, se non altro per il bene di lei? E quest'ultima convinzione stava cambiando rapidamente, anche se contro la sua stessa volontà. Billy, infatti, se la stava cavando splendidamente in una situazione in cui Dave avrebbe fatto dei disastri. Appena saputo dello stupro, era andato in tilt: era troppo assurdo e il panico lo aveva travolto. Spingersi fino in centro, fino a casa di Mona, era stata, se doveva essere sincero con se stesso, una delle esperienze più difficili della sua vita. A parte offrirle dei fiori, non aveva idea di quello che avrebbe dovuto fare. Billy, invece, dominava la situazione e lo faceva in modo impeccabile. E poi non si era comportato da figlio di puttana quando lo aveva visto, e questo lo aveva colpito ancora di più. Billy sembrava avere sotto controllo ogni ramificazione di quell'incubo. Perfino nei riguardi delle femministe, la cui presenza puzzava a dir poco di losco. E questa era la cosa che lo aveva colpito più di ogni altra.
«Avanti» insisté Billy. «Da parte vostra mi aspetto tutto meno che il silenzio. Siete molto più schiette. Dite qualcosa.» «È impossibile che tu riesca a capire» disse Susan. «L'impossibile per me è pane quotidiano» disse Billy. «Mettetemi alla prova.» Non era una domanda. Le due donne lo stavano fissando e Billy rispondeva con uno sguardo di uguale intensità. Billy teneva loro testa, anzi le stava surclassando. Dave sentì che il rispetto per lui iniziava a trasformarsi in solidarietà maschile e si accorse che il proprio senso di estraneità cominciava lentamente a retrocedere insieme alla sua compostezza. «Ho capito» disse. «Stavate vendendo i biscottini delle ragazze scout di porta in porta e siete passate anche di qua.» Billy scoppiò a ridere. Lisa emise una specie di grugnito poi gli lanciò un'occhiata che voleva dire per favore, non incominciare. Le altre due donne si infiammarono come fiammiferi sfregati sulla carta vetrata. «E tu, che sei venuto a fare qui?» gli disse Paula per tutta risposta, indicando i fiori. «Romeo di riserva?» Dave esplose sudando furiosamente. «Sono qui perché l'amo!» sbottò. Billy sollevò un sopracciglio e la parola oops sfrecciò attraverso la mente di Dave, ma ormai era troppo tardi per preoccuparsene e poi era la verità. «E invece voi due» disse Billy «sembrate in cerca di reclute per il vostro esercito. E se le cose stanno così, lasciate che vi dica che la vostra tempestività è la peggiore che mi sia mai capitato di vedere.» «Inqualificabile» convenne Dave scambiando un mesto sorriso con Billy. «Ora basta» disse Lisa mettendosi al centro della stanza. «Credo che sia meglio che ve ne andiate tutti.» «Ma...» iniziò Susan. «Non intendo mettermi a discutere con te, Susan.» La sua voce era ferma e tagliente come la fiamma di un becco ad acetilene. «Non intendo mettermi a discutere con nessuno, chiaro? Non stiamo facendo un dibattito politico. Non siamo a quella cazzata del Don Rickles Show. L'ultima cosa di cui Mona ha bisogno in questo momento è di sentire voi quattro che vi buttate merda addosso. Nel caso in cui ve lo siate scordato, vorrei informarvi che c'è un essere umano in pessime condizioni nella stanza accanto. «E Mona viene prima di ogni altra cosa.» Ora si stava rivolgendo alle due donne, come Dave vide chiaramente. Gli sembrava che Billy avesse visto giusto quando le aveva paragonate a due soldati a caccia di reclute.
«Su questo non si discute. Per prima viene Mona. Chiaro?» Tutti annuirono col capo, anche se alcuni sembrarono più colpiti di altri. Dave, da parte sua, si sentiva umiliato. Era giunto lì preoccupato e ansioso ed era finito a stuzzicare due lesbiche. Che stupido. Si sentiva piccolo e meschino. «Solo una cosa» disse Billy. «Voglio che Bubba resti qui con voi.» Lisa lo fissò col viso privo di espressione. «Tu non potrai essere sempre in casa e Bubba è un buon cane da guardia. Può prendersi cura di lei e tenerle compagnia. Sono certo che lei sarà d'accordo.» «Va bene» disse Lisa annuendo. C'era l'ombra di un sorriso sul suo viso inquieto. «Poi, più tardi, devo parlarti.» «Quando vuoi.» «E io vorrei che le dessi questi» disse Dave, porgendole i fiori. «Da parte mia.» «Certo.» Mentre prendeva il mazzo di fiori, Lisa quasi sorrideva. «Sono sicura che li apprezzerà molto.» «Vogliamo andare?» disse Billy. «Anche subito.» «Allora andiamo.» Dave aveva lasciato aperta la porta dietro di sé. Si voltò e Billy lo seguì. Le parole e voi ragazze, se volete, lasciate pure qualche opuscolo gli attraversarono la mente ma saggiamente decise di farle restare dov'erano. Quando la porta si chiuse dietro di loro, si asciugò il sudore dalla fronte con la mano e disse: «Cristo santo, è stata dura!» Billy annuì in segno di approvazione. «Non so tu che ne pensi, ma a me andrebbe una birra.» Dave sorrise. «Che ne dici del Chelsea Commons?» «Per me va benissimo.» Scesero insieme le scale. Dave era sbalordito per l'assurdità della situazione. C'era qualcosa di incredibilmente logico nel fatto che andasse a bere qualcosa con Billy: una tregua concordata all'ombra dell'atrocità. «Billy» disse fermandosi a metà delle scale e voltandosi a fissarlo con uno sguardo penetrante. «Pensi che ne uscirà bene?» «Sì» rispose Billy sorridendo, con l'aria di chi sta per fare una triste confidenza. «Credo che ne uscirà bene. Ma ci vorrà un po' di tempo.» «Ti prenderai cura di lei.» Non era una domanda ma un'affermazione. «Sì» «Probabilmente hai intuito» e Dave rimase stupefatto dalla tranquillità
con cui quelle parole gli uscivano di bocca «che anch'io sono un po' pazzo di lei.» «Nessun problema.» Billy appoggiò la mano sulla spalla di Dave e gliela strinse amichevolmente. «Non c'è mai troppo amore al mondo.» «Sei una brava persona.» «Anche tu, amico.» «Perché non ci sposiamo?» Billy lo fissò inebetito per un istante, poi scoppiò a ridere. «Lieto di conoscerti, Dave. Finalmente.» «Lo stesso vale per me!» disse Dave entusiasta, porgendogli istintivamente la mano. Billy gliela strinse. «E ora andiamo a sbronzarci, che te ne pare?» «Ottima idea!» gli fece eco Billy. Solo molto tempo più tardi Dave si accorse che le mani, per la prima volta da ore, gli sembravano nuovamente le sue. Consiglio di guerra BILLY! dicevano le lettere maiuscole e inferocite del biglietto. ALBERT MI HA TELEFONATO IN UFFICIO STAMATTINA E MI HA DETTO DELLE COSE POCO CARINE. MI HA MINACCIATO FISICAMENTE SE MILLE DOLLARI, E NON UN SOLDO IN MENO, NON SARANNO IN MANO SUA ENTRO LE SEI DI DOMANI SERA. SONO RIUSCITO A RACIMOLARE LA MIA PARTE. NON POSSO E NON HO COMUNQUE LA MINIMA INTENZIONE DI TIRARE FUORI I SOLDI ANCHE PER TE. E SE NON RIESCI A PROCURARTI LA TUA QUOTA ENTRO DOMANI, SAPPI CHE TI STRAPPERÒ GLI OCCHI E LE PALLE A MORSI. Il biglietto era firmato: CARISSIMI SALUTI DAL TUO AMICO LARRY ed era appeso al centro esatto della porta della camera di Billy, dove non gli sarebbe potuto sfuggire una volta tornato a casa. PS., terminava il biglietto, NOTO CON PIACERE MISTO A STUPORE CHE L'APPARTAMENTO HA UN OTTIMO ASPETTO. SPERIAMO CHE DOMANI SIA ANCORA IN MANO NOSTRA. Billy dedicò a Larry sessanta secondi di gravi riflessioni. Il tono di Larry si era fatto minaccioso. Billy non ne era sorpreso. In quei giorni risuonavano ovunque intorno a lui sorde minacce, e Larry non faceva certo eccezione.
Chi è senza peccato... intonò la voce del Buon Pastore. Larry era un'amena inezia nell'ordine generale delle cose. Deviare le bordate dell'Ufficio al Servizio del Consumatore non era esattamente quel che Billy associava all'idea di devozione religiosa. Era solo imbastire una scusa idiota per non fare quello che era giusto. E queste stronzate non le avrebbe più tollerate. Mai più. Ma c'erano cose più importanti e impellenti su cui riflettere, e Billy lo sapeva. Il pagamento dei debiti, per esempio. Anche se il creditore era Albert, uno che se ne fregava di tutto e di tutti tranne che di se stesso fin da quando, a sei anni, aveva scoperto quanto gli piaceva strappare le ali alle mosche. Non puoi tirarti indietro. Non puoi mancare alla parola data. Era un imperativo di fondo, come respirare. Se non possiedi un codice... pensò Billy, e quel pensiero lo riportò al punto in cui era arrivato prima che il biglietto urtasse così gradevolmente la sua coscienza. Sì, il denaro era importante. Sì, rispettare i propri obblighi era importante. E questo era il punto dolente. Doveva capire quali erano realmente i suoi obblighi. Billy tolse il biglietto dalla porta, lo piegò in quattro parti e se lo ficcò in tasca. Poi entrò nella sua camera chiudendosi la porta alle spalle. Il peso delle priorità. E l'importanza di rimetterle in riga. Si andava a incominciare. C'era un solo punto delle pareti della sua stanza che fosse ancora libero per poterci appendere sopra qualcosa. Era la parete dei manifesti, che andava dalla scrivania alla porta. Relitti del passato la ornavano come molluschi su una nave affondata da secoli. Era ora di disfarsene. Glielo comunicò mentre li tirava giù. Il manifesto della Coalizione 28 marzo fu il primo ad andarsene, increspandosi per il terrore e per la brezza proveniente da Stanton Street mentre si posava dolcemente sul pavimento. Poi toccò ai suoi vecchi manifesti musicali. Il fatto di liberarsene gli parve terribilmente appropriato alla situazione. E non ci sarà neppure un paradiso del rock'n'roll per te, gli aveva detto Christopher. Per quel che interessava a Billy, Christopher poteva anche ingozzarsi di cacca di elefante, ma quello che aveva detto era esatto, pur se sconcertante, alla luce dei
più recenti successi di Billy. Nessunissimo di loro, si colse a pensare, nessunissimo di loro è degno neppure di essere menzionato. Era una triste riflessione, ma la superò con relativa facilità. Quasi tutti i manifesti della stanza precipitarono al suolo, l'uno sull'altro. Il solo sopravvissuto era quello di The Wall dei Pink Floyd: il volto urlante che vi era disegnato assomigliava molto al tormento sommerso in fondo alla sua anima. Lo stupro di Mona. Le tre donne morte. Il suo assassinio. E l'uomo che aveva ucciso. Sul muro, quando infine anche il manifesto di The Wall si abbatté al suolo, rimasero soltanto i ritagli di giornale con le notizie della morte di Jennifer Mason, Christine Brackett e Marcy Keller. Per l'ultimo nutriva in quel momento un interesse quasi morboso. Marcy Keller sembrava quasi la sosia di Mona. E in tutto questo c'era un monito. Certo che c'era. Sentiva quasi le voci nasali e stridenti dei demoni che dicevano per questa volta la tua ragazza l'abbiamo risparmiata. È stata solo stuprata e pestata e sfregiata e a un passo dalla morte. Ma quel passo potevamo farglielo compiere e se fosse morta che cosa avresti fatto? Pensaci, sant'uomo. Pensaci. E infatti ci stava pensando. Non sapeva esattamente cosa fare, ma quel pensiero si era impiantato nella sua mente. Come poteva proteggerla, a parte starle accanto costantemente? E come poteva rimanerle sempre accanto se doveva pagare l'affitto? E se le fosse rimasto sempre accanto, come avrebbe potuto fare tutto quello che doveva? «Facile» mormorò rivolto verso le pareti. «Non potrei.» Non era un'ammissione che lo rendesse lieto. E gli lasciava soltanto una strada da seguire. Se mai aveva avuto la possibilità di scegliere. Billy arrotolò i manifesti in un unico, grosso tubo, ci fece scivolare intorno un elastico e lo infilò sotto il letto. C'era una pila di schede accanto al suo ginocchio destro con dietro diverse scatolette di puntine da disegno. In tasca c'era un pennarello nero. Aveva tutto quello che gli serviva per una
riproduzione a budget limitato della mitica sala del consiglio di guerra del Dottor Stranamore. E in effetti stava pensando di entrare in guerra. In effetti. In guerra. Tirò fuori il pennarello. Tolse il cappuccio. Era pronto. Prese la pila di schede e se le posò sulle ginocchia. Scrisse L'ALLEGRO SPREGIATORE sulla prima e la posò sul pavimento. Scrisse RICKIE E REX sulla seconda e la posò accanto alla prima. Fissò per un istante i due fogli, uno accanto all'altro. Rifletté per un po'. Poi ricominciò a scrivere. A BREVE TERMINE, scrisse con lettere più grandi che occupavano tutta la scheda successiva. La poggiò a terra sopra le altre due, in mezzo. A LUNGO TERMINE, scrisse su una quarta scheda e la posò lontano dalle altre tre. Bene, pensò. In questo modo potremo capire quello che sta succedendo. E riuscire a tenerlo sotto controllo. Gli venne in mente un'altra categoria: IN GENERALE. Lo scrisse su due schede e le sistemò sotto le categorie a breve e a lungo termine. Fece lo stesso con due schede su cui scrisse: IN PARTICOLARE. L'ALLEGRO SPREGIATORE e RICKIE E REX finirono sotto la categoria «in particolare/a breve termine». Quel che seguì trovò facilmente una collocazione. Ormai era scatenato. STUPRO, OMICIDIO e FURTO, ognuno con la propria scheda, finirono sotto «a breve termine/in generale». GUERRA, CARESTIA e DETENZIONE PER MOTIVI POLITICI finirono sotto «a lungo termine/in generale». Ancora niente sotto «a lungo termine/in particolare». Avrebbe trovato qualcosa, ne era certo. Bastava dargli tempo. Come? fu la domanda successiva che gli si presentò alla mente, trascinandosi dietro i suoi cinque amici del cuore: chi, che cosa, dove, quando e il famosissimo perché. Si accorse che nelle sue liste c'erano solo cose truci. Male. Non devo esagerare troppo. Si fermò per riprendere fiato. Andò in cucina e si stappò una Bud che portò con sé in camera. Notò che c'erano due bottiglie da un litro e sei lattine vuote sparse per la casa, insieme a un cambio completo sporco e una maglietta, tanto per fare numero. L'inizio della decadenza. Dovrò occuparmene, si disse e poi tornò alla questione che più gli premeva. Pensieri positivi. Buone vibrazioni. Si orientò verso di essi. AMORE, scrisse e lo copiò altre tre volte, mettendo una scheda sotto ciascuna delle
categorie. Quindi scrisse MONA, esitò per quasi un minuto e scrisse il nome su un'altra scheda, ponendole sotto entrambe le categorie particolari. Poi scrisse su due schede MUSICA e la collocò sotto la categoria generale. Poi si bloccò. Perché diavolo ci sono così poche cose specifiche? si chiese irritato. La prima parola era la migliore ed esaminò diverse diramazioni, ma senza successo. Qualcosa però iniziava a prendere forma in fondo alla sua mente. Una visione del mondo. Qualcosa a cui la sua strategia poteva fare riferimento. Sorrise mentre i suoi succhi creativi ribollivano. Un altro percorso da esplorare. Che cosa hai intenzione di fare? si chiese, fissando l'albero della logica che gli cresceva davanti. Concentrò la sua attenzione sulle schede classificate come «a breve termine/in particolare» e si bloccò nuovamente. Non sapeva come trovarli. Non sapeva neppure chi erano. Aveva dei volti, un mezzo volto nel caso del maniaco assassino, ma New York era piena zeppa di volti. E c'erano un sacco di posti dove potevano nascondersi. In preda alla frustrazione passò alla categoria "a breve termine/in generale". STUPRO. OMICIDIO. FURTO. Qui era tutto più facile. Molto più facile. Che cosa si sapeva già. Perché era chiarissimo. Chi si presentava come un fumetto vuoto, una linea di gesso che aspettava di prendere corpo. Quando era qualcosa che penzolava, saporito, sulla punta della lingua. Billy spostò la sua attenzione sul dove. Questione interessante. Sorrise mentre rifletteva. I dintorni di casa sua pullulavano e su questo non c'era da dubitare; ma nello schema generale delle cose, a nessuno fregava niente di quello che succedeva a quattro coglioni del Lower East Side. La stessa cosa per Harlem. Forse poteva pestare qualche merda dalle parti della Dodicesima Ovest, ma a parte Bobby Ramos e il suo amichetto del cuore, non aveva particolari vendette da compiere sugli omosessuali. E in città c'erano senza dubbio dei posti peggiori. Posti più intensi, per quel che interessava a lui. I parchi. La parola suonava giusta. Dove si aggirano di notte i figli di puttana? si chiese e la risposta era già pronta su un piatto d'argento. I parchi: Washington Square, Madison Square, Union Square, Bryant... E la risposta non si fece attendere, talmente ovvia che fu costretto a soffocare il riso. Immagini di Charles Bronson iniziarono a danzargli come zuccherini davanti agli occhi.
Sì, pensò scolando la birra e poggiando la bottiglia sul pavimento, a fianco di tutte le altre. Sì, ripeté, battendo le mani allegramente. Sì, concluse afferrando il suo giubbetto per proteggersi dal freddo della notte d'ottobre, pronto per la prima fase del suo piano. Passeggiata a Central Park Billy esitò per qualche istante all'estremità settentrionale di Grand Army Plaza e si guardò intorno. Vide la Pulitzer Fountain e il Plaza Hotel, al numero 9 della Cinquantasettesima Ovest e al 767 della Quinta, il centro di Manhattan che si levava verso il cielo, il cuore pulsante della nazione che si diramava intorno a lui. C'era del potere, in quel punto, immenso e sempre in movimento, splendido e terribile e profondo come l'oceano. Perfino ora, con la luna delle dieci alta nel cielo, quando quasi tutta la frenesia si era spostata all'interno di quattro mura o verso altre parti della città, l'angolo sud-est di Central Park era un'arteria che vibrava della vita della città e del mondo. Billy sentiva la forza che muoveva montagne e nazioni. E lo spingeva. Avanti. La prima volta che era stato a New York, moltissimi anni prima, aveva assaporato il sapore di rame di quella scarica elettrica rovente che attraversava l'aria, e se ne era innamorato. Qui posso fare tutto, si era detto con assoluta convinzione. E ora, finalmente, le sue parole si erano avverate. «Attenta, piccola, sto arrivando» comunicò alla distesa di grattacieli. Si sentiva come Davide sul campo di battaglia che pullulava di Golia dai volti inespressivi. Non aveva paura. Era caricatissimo. Era pronto. Billy lanciò rapidamente uno sguardo prima alla sua destra e poi alla sua sinistra, vide che non c'erano agenti o moto in arrivo, attraversò la strada e prese il primo sentiero pedonale, diretto verso lo zoo. In mano aveva una bottiglia di Bud appena aperta. Quando le tenebre del Central Park lo avvolsero, ne bevve un lungo sorso. A meno di dieci metri di distanza lungo il sentiero, vide un groviglio di sagome bianche frastagliate, disegnate per terra. Rimase perplesso per un istante, ma poi si ricordò di un articolo che aveva letto sul Village Voice. Un artista, per protestare contro la minaccia nucleare, si era preso la briga di disegnare rozze figure di esseri umani e altri animali, come per esempio un cane e qualcosa che poteva essere un gatto, uno scoiattolo o anche un
topo molto grosso. Ognuna delle sagome si protendeva fino a toccare l'altra. Insomma, una specie di Michelangelo. Billy sbuffò e scosse il capo. L'arte con la A maiuscola gli faceva quell'effetto. E anche se non avrebbe mai voluto ferire i sentimenti dell'artista, dubitava fortemente che quelle sagome tracciate in fretta avrebbero posto fine alla minaccia nucleare. Anzi, non facevano nemmeno pensare alla minaccia nucleare. Gli veniva da pensare invece a Jennifer Mason e all'agente, molto più dotato da un punto di vista artistico, che aveva disegnato con il gesso bianco il profilo del suo corpo. A quel ricordo bevve un altro sorso e proseguì. Spingendosi sempre più a fondo nell'oscurità. Kennan Wyeth era alto e magro, con la testa piena di capelli color biondo cenere, la pelle abbronzata che gli dava un'aria perfida e il viso pieno di minuscole rughe, dono del tempo e delle avversità. Farsi la barba non gli piaceva. La barba gli cresceva più scura dei capelli, ma sembrava sempre corta, al massimo di un paio di giorni. Secondo lui, lo faceva assomigliare a Don Johnson. Ma si sbagliava. Questa sera Kennan sfoggiava un giubbetto di pelle nero, una maglietta nera dei Motorhead, dei jeans neri a tubo e degli stivaletti alle caviglie, ornati di catenine d'argento. Nella tasca posteriore dei pantaloni aveva anche un coltello con la lama di venti centimetri. Gli teneva caldo mentre il mondo intorno a lui diventava freddo. Il mondo, di recente, si era fatto gelido per il buon vecchio Kennan Wyeth. Nonostante i suoi sforzi, il mondo rifiutava di collaborare. Dio gli era testimone, aveva provato con un lavoro fisso, ma quel mondo di merda non sputava mai fuori qualcosa che andasse davvero a genio a Kennan. Era uno spirito irrequieto, dalle grandi ambizioni, e nessuna di esse prevedeva un lavoro di merda o la frequenza di una scuola. Kennan Wyeth aveva trentaquattro anni. Gran parte dei sedici anni precedenti li aveva passati entrando e uscendo da Riker's Island. Era perfettamente d'accordo con gli assistenti sociali che davano la colpa di tutto alla società, anche se loro personalmente erano un branco di stronzi fumanti che lui odiava né più né meno dei giudici, degli sbirri, degli avvocati, dei secondini e dei pederasti dai quali cercavano di salvarlo. Era tutta colpa della società per le sette accuse di possesso di droga, le tre accuse di porto d'arma impropria, le cinque accuse di resistenza a pubblico ufficiale e l'accusa di omicidio di secondo grado. Era un'idea che lo sollevava.
E così, quando Kennan avvistò il succhiacazzi che se ne stava a oziare sul muretto di Gapstow Bridge, non entrò in conflitto morale con se stesso. La colpa di quello che stava per fare ricadeva tutta sulla società. E se era fortunato, la società non lo sarebbe nemmeno venuta a sapere. Il laghetto era abbastanza vicino alla Cinquantanovesima Strada da riflettere la luce della città. La superficie dell'acqua luccicava come un miliardo di coltelli increspati. Una vegetazione alta e rigogliosa circondava il perimetro interno e Kennan camminava all'ombra degli alberi, settecento metri all'interno del parco. Si muoveva fra l'erba senza far rumore e non era facile scorgerlo. Cosa su cui faceva affidamento. Il Gapstow Bridge si trovava nella parte settentrionale del laghetto. Era un ponte per pedoni: solida pietra, circa venti metri di lunghezza da un capo all'altro. Le pareti erano alte meno di un metro e mezzo alle estremità, qualcosa di più al centro. Il nullafacente si era sistemato all'imbocco del ponte, nel punto in cui c'era una specie di monumento. Ci si era appoggiato contro con la schiena, aveva allungato le gambe davanti a sé con i piedi sul muretto, e ora si fumava una sigaretta bevendo una birra e si fissava un buco nella scarpa, o almeno così pareva. Volgeva le spalle a Kennan, che aveva percorso una quindicina di metri ed era arrivato sul sentiero pedonale. La fase di avvicinamento furtivo era terminata. «Ehi» disse Kennan e i suoi stivaletti risuonarono mentre si avvicinava al ragazzo. Aveva una vocetta adenoidale, intrisa di brooklynese. Sulle sua labbra comparve un ghigno mentre parlava. Pensava così di assomigliare a Jimmy Dean. Ma anche in questo si sbagliava. Il ragazzo non rispose. Continuò a fumare e a bere e a guardare dritto davanti a sé. Kennan si sentì contrariato. «Ehi, ragazzo» ripeté quando arrivò a cinque metri da lui. «Hai le orecchie otturate, per caso? Sto parlando con te!» Nessuna risposta. Kennan cominciava a incazzarsi. Notò che il ragazzo aveva anche lui una giacca di pelle e la barba lunga. Ma queste somiglianze non fecero sbocciare in lui alcun sentimento di amore fraterno. E il coltello a serramanico che aveva in tasca gli dava calore. Era giunto ormai a meno di un metro dal ragazzo, praticamente gli stava davanti e quello ancora non rispondeva. Anzi, quello stronzetto non alzava nemmeno la faccia. Kennan si sentì avvampare di rabbia ma la soffocò con decisione. Gli erano capitati dei casi ancora più ostinati. Quando li colpiva, però, sanguinavano tutti.
«Stammi a sentire, testa di cazzo!» gridò, senza riuscire a nascondere il lieve tremolio della voce acutissima. «Faresti bene a stare a sentire quando parlo!» A quel punto il ragazzo bevve un altro sorso dalla bottiglia. Era troppo. Kennan emise una specie di ringhio e colpì la bottiglia con il dorso della mano, facendola volare via per andarsi a schiantare sulle rocce, una decina di metri sotto di loro. Questo smosse quella merdaccia di piccione che si mise a ringhiare anche lui e alzò la faccia. Ma ormai Kennan aveva tirato fuori il coltello, la cui punta era sospesa nell'aria a un centimetro dal naso del ragazzo. «Fuori i soldi, stronzetto. Forza» disse... ... e allora il ragazzo gli strinse il polso della mano con cui teneva il coltello con una rapidità tale che Kennan non lo vide neppure muoversi. Restò a bocca aperta dallo stupore, cercò di liberarsi dalla presa ma non ci riuscì. Era una stretta d'acciaio. L'altra mano del ragazzo si stava avvicinando, con il palmo aperto rivolto verso la lama. Kennan aveva gli occhi fuori dalle orbite per lo stupore. Non è possibile, furono le uniche parole che gli attraversarono la mente. E si rendeva conto che era un pensiero da deficienti. Il coltello gli perforò il palmo e uscì dall'altro lato come un pupazzo a molla ricoperto di sangue. Il ragazzo non batté ciglio. Spinse la mano ancora più a fondo, lungo la fredda lama d'acciaio, fino all'impugnatura. Kennan iniziò a borbottare qualcosa che nemmeno lui capiva. La sua vescica scaricò un flusso caldo e pungente che gli fece aderire i jeans alle gambe. Vide la mano infilzata percorrere l'ultimo centimetro e chiudersi intorno alla sua. La stretta non era indebolita dal fatto che i muscoli della mano dovevano essere ormai recisi. Sentiva le ossa delle nocche che si tendevano contro la pelle. Ma la cosa peggiore era la faccia del ragazzo. Priva di dolore e di pietà. Era quella di un giudice, o di un demonio, o di entrambi. Quando il ragazzo cominciò a sorridere, il buco del culo di Kennan, dalla circonferenza notevole data l'assidua frequentazione delle prigioni, iniziò a palpitare come una gallina decapitata. «No» disse il ragazzo. «Facciamo il contrario, amico. Perché non dai tu a me tutti i soldi che hai?» Kennan impiegò un minuto per comprendere il senso esatto di quello che aveva sentito. L'intuizione lo stimolò ad agire, la mano sinistra affondò nella tasca destra dei pantaloni mentre la testa andava su e giù come quella
dei cani sul cruscotto delle auto. Tirò fuori un rotolo accartocciato di banconote, i cinquanta o sessanta dollari che aveva tirato su quella sera, e glieli porse. La mano che gli stringeva il polso lo lasciò andare per prendere i soldi. La mano con il coltello rimase ferma dove si trovava. E anche Kennan. «Ottimo» disse il ragazzo. «Come ti chiami?» «K-K-Kennan.» Il viso lucido per il sudore, le lacrime, il muco e la saliva. «K-K-Kennan W-Wyeth.» Il ragazzo si infilò in tasca i soldi continuando a sorridere. «È stato un piacere avere a che fare con te, K-K-Kennan. Buona serata...» ... e tutt'a un tratto Kennan si accorse che stava volando, il ragazzo lo aveva scagliato verso l'alto e poi, come se fosse stato un sacco di fagioli, lo aveva scaraventato oltre il muretto del ponte, a testa in giù a inseguire la bottiglia di birra. Il coltello gli sfuggì di mano e in quello stesso momento la presa d'acciaio si dileguò e il vento cominciò a fischiargli intorno alle orecchie. La luce della strada, ancora più fioca sotto il ponte, risplendeva ancora sull'acqua verso la quale stava precipitando come Superman. Finirò in acqua, pensò. Non finirò certamente sulle rocce. Andrà tutto bene... Ma si sbagliava di nuovo. «... e che dovevo fare a quel punto, ci ho rotto con quella troia» si lamentava Dewayne Peterson. Niente di nuovo. Quella storia, con continue revisioni e distorsioni dei fatti, Richie Grover se l'era dovuta sorbire almeno trenta volte nelle due settimane trascorse da quando la moglie di Dewayne se l'era filata insieme ai bambini. Richie roteò gli occhi e fece un altro tiro dal cannone. Era erba colombiana di infima qualità, la stessa merda che spacciava. Se ne fumavi molta, però, qualcosa faceva e lui ne aveva fumata moltissima. Insieme a quello schifo di Thunderbird, poi, aveva sciolto tutte le sue inibizioni e ora si sentiva come il fetente signore dell'universo intero. «Dewayne» gracchiò con la canna in mano «sai una cosa? Sei uno stronzo.» «Succhiami l'uccello, sporco negro» ribatté argutamente Dewayne cercando di riprendersi il cannone. «Succhiatelo da solo, dato che sei tanto bravo.» Ma intanto la bomba aveva cambiato padrone e il silenzio discese nuovamente. Il parco di notte era tranquillo. Silenzioso. I rumori della strada erano lontani. Seduti accanto al lago, con l'erba fresca sotto di loro, riuscivano
quasi a scordarsi della vita schifosa che facevano. Richie guardò Dewayne e Dewayne ricambiò lo sguardo. Si frequentavano praticamente da quando erano in fasce, erano cresciuti nello stesso isolato della Centoottava Est ed erano finiti più o meno negli stessi guai. A volte si sarebbero scannati come bestie, ma avevano comunque troppe cose in comune per potersi separare. Erano entrambi neri, al verde, ventitreenni e americani. Erano stati entrambi espulsi dalle superiori. Erano entrambi fattorini con il minimo di salario e vivevano in famiglia. Dewayne, con un figlio già nato e un altro in arrivo, era ancora attaccato alle gonne della mamma. Avevano gli stessi gusti in fatto di musica e di droghe. E avevano in comune anche un odio inveterato per il mondo dominato dalla razza bianca. E quando videro quella stupenda pollastrella bianca che attraversava il Bow Bridge, a meno di cento metri da loro, la stessa lampadina si accese nella loro mente. Era troppo bello per essere vero ed entrambi se ne resero conto. Quando la bocca di Dewayne si aprì per emettere l'ululato del coyote, Richie si portò immediatamente un dito alle labbra scuotendo la testa. No, no. Veniva proprio verso di loro. Non dovevano fare altro che aspettare. Era alta e bionda e incredibilmente formosa. Aveva due tette perfette, grosse ma non cadenti. Aveva due fianchi profondi, nel miglior senso della parola. La tuta da jogging che indossava aveva scritto sopra "dollari" in ogni sua fibra e aderiva al corpo come la pelle di una salsiccia. La pelle era bianca come la panna. I capelli le scendevano fino al sedere. «Che cazzo ci fa qui a quest'ora?» sussurrò Dewayne. «Non lo so. Chiudi il becco.» Il sibilo con cui Richie rispose era freddo come un ghiacciolo. Ora stava scendendo giù dal ponte, ma sembrava scesa dalla copertina di Vogue. Entrambe le cose erano insensate. Ma i due amici se ne fregavano. Se c'era un modo per farla pagare all'uomo bianco, violentare la sua donna era l'ideale. La soddisfazione che ne avrebbero ricavato era la più gelida e svergognata fra quelle disponibili. Richie non poteva fare a meno di sorridere, pregustando il momento in cui sarebbe affondato in quella dolce carne morbida. Gli era già diventato duro. Fremeva tutto dall'eccitazione. Dewayne spense il cannone sulla suola della scarpa. Un'insolita pensata
geniale. Meno davano nell'occhio e meglio era. La ragazza stava percorrendo il sentiero pedonale che l'avrebbe portata a cinque metri da dove ora stavano acquattati. Con un po' di fortuna, non si sarebbe accorta di loro fino a che non le si sarebbero attaccati al culo. Poi la ragazza svoltò e prese il sentiero che si addentrava nel Ramble. Dewayne si lasciò sfuggire un'imprecazione soffocata, imitato immediatamente da Richie. Poi però ripensarono alla scelta che aveva fatto la ragazza. Molto bene, si rallegrarono in silenzio. Benissimo. Il Ramble era la zona più buia e sperduta del parco: un labirinto vero e proprio di sentieri che si intrecciavano e portavano al cuore di quel mistero che era Central Park di notte. Lì gli alberi crescevano più folti e le ombre erano più scure. Non si vedevano nemmeno i palazzi più alti. Era il posto più intimo del parco. E quello che metteva più strizza, agli sbirri e a chiunque altro. Di notte. «Andiamo, amico» sibilò Richie alzandosi a fatica in piedi. Dewayne sogghignò, cogliendo al volo le intenzioni dell'altro. La ragazza era sparita lungo il sentiero e ormai era inevitabilmente finita nel Ramble. La seguirono di soppiatto, con passo veloce e particolarmente guardingo. Furono inghiottiti anch'essi dalle ombre. Il sentiero faceva una curva e poi iniziava a salire. Continuarono a percorrerlo. Impiegarono tuttavia un minuto prima di intravedere nuovamente la ragazza davanti a loro. Dewayne diede una leggera gomitata a Richie e gli lanciò un'occhiata che sarebbe bastata a farlo sprofondare dritto all'inferno. Richie annuì con un ghigno bestiale. Accelerarono il passo. La ragazza si fermò girandosi quasi completamente verso di loro. Richie non riusciva a vedere l'espressione del suo volto, ma avrebbe giurato che non era divertita. Poi riprese a correre, con le lunghe gambe che andavano su e giù senza tregua. La caccia era ufficialmente aperta. «Cavolo!» disse Richie dopo neanche un secondo. La ragazza era un fulmine. Avevano guadagnato un paio di metri su di lei grazie al fattore sorpresa, ma già li avevano perduti. Dewayne accelerò ulteriormente per tenersi al passo con lei, ma Richie sentiva che stava per rimanere indietro e imprecò. Per prima cosa, la strada era in salita, secondo, beveva e fumava troppo e da troppo tempo. Mistura devastante per i muscoli. La ragazza arrivò a un bivio e svoltò a sinistra. Dewayne la seguì. Richie
fece una smorfia a labbra serrate che nelle sue intenzioni doveva essere un sorriso. La svolta a destra era una scorciatoia che finiva nello stesso punto dell'altra. Se accelerava, poteva farcela ad arrivare prima di loro. In quel posto fantastico. Richie girò a destra e corse corse corse lungo il sentiero che andava verso sud e poi piegava bruscamente a sinistra. Una ventina di metri davanti a lui la salita terminava. Riusciva già a vedere il tetto dell'altare su cui avrebbero sacrificato il diritto di scelta della donna. Era una capanna a forma di pagoda, uno dei quindici gazebo costruiti lungo tutto il parco negli anni Sessanta del secolo scorso. Una struttura ottagonale, aperta da entrambi i lati, con pavimento e soffitto ornati e massicci. I piloni di supporto erano tronchi d'albero che non erano stati squadrati e levigati ma lasciati intatti, nodosi e con la corteccia, e i loro rami salivano fino a fondersi con il soffitto. Non c'erano pareti, ma sei degli otto lati erano circondati da panchine e ringhiere. Nell'insieme, aveva un aspetto primitivo ma al tempo stesso complesso, naturale eppure meticolosamente scolpito. Era come se fosse spuntata fuori, già completa in ogni sua parte, da un seme mutante. Aveva 125 anni e se li portava magnificamente. Sembrava nata qualche ora dopo l'inizio del Tempo. Il sentiero era tornato in piano sotto i piedi di Richie quando la donna sbucò dal buio alla sua sinistra. Dewayne si trovava a non più di cinque passi dietro di lei. La salita li aveva spompati entrambi, ma la ragazza era chiaramente più provata del suo inseguitore. Ancora qualche secondo e Dewayne l'avrebbe raggiunta. Richie era contrariato. Aveva sperato di metterle le mani addosso per primo, ma sembrava proprio che non sarebbe stato così. Era come quando da bambini giocavano a rincorrersi. Chi acchiappava l'altro, poi vinceva il premio. La ragazza era riuscita a entrare nel gazebo quando Dewayne le piombò addosso da dietro. Le ginocchia di lei si piegarono sotto il suo peso. Crollò al suolo. Ma senza gridare. Nonostante la delusione e la fatica, Richie riuscì a pensare che qualcosa non quadrava. Seguì i due dentro la bizzarra struttura mentre il suo amico costringeva la ragazza a girarsi e con un ginocchio le allargava le gambe. Richie si fermò accanto a loro, osservando il viso di lei che si contorceva selvaggiamente. Ma c'era proprio qualcosa che non quadrava. Sembrava quasi che stesse
sorridendo. Si inginocchiò per guardare più da vicino e il terrore gli esplose nel petto come una bomba dirompente. Stava sorridendo davvero, proprio così, e il sorriso le cresceva letteralmente sulle labbra, attraverso il viso, le ossa scricchiolavano mentre la mandibola si allungava e i lunghi denti acuminati si protendevano in fuori. I suoi occhi erano globi iridati di oro luminoso da cui partivano raggi di luce che si conficcarono in quelli di Dewayne, facendoli risplendere di un bagliore innaturale... Richie era un assiduo frequentatore delle sordide sale della Quarantaduesima. Le cose che gli piacevano di più erano gli spettacoli per segaioli, i fantastici film di kung-fu e quelli di paura. Mentre teneva gli occhi fissi su quella creatura che si stava trasformando sotto di lui, non poteva non pensare alla vampira di Ammazzavampiri, alle scene di trasformazione di L'ululato e di Un lupo mannaro americano a Londra. Non era mai stato così preso da quei film da credere a quello che vedeva. Ma ora doveva crederci. La bocca di Dewayne si spalancò ma non ne uscì alcun grido. L'unico rumore che Richie sentì assomigliava a quello di un radiatore che perde. Il corpo di Dewayne era diventato rigido. Cominciò a sobbalzare, contorcersi e a tremare. I suoi capelli crespi sembravano tendersi e torcersi come serpentelli neri. Poi delle linee sfrangiate di un chiarore abbagliante cominciarono a imprimersi sulla fronte di Dewayne mentre il sangue colava dalla carne che si apriva sotto quella luce. Richie cadde all'indietro gridando, ma non riuscì a distogliere lo sguardo da quell'orrore. Si stava formando una parola, lettera per lettera, come se la faccia di Dewayne venisse marchiata. Una parola in lettere maiuscole di fluorescenza infernale. STUPRATORE. Dewayne venne scaraventato improvvisamente in piedi, anche se Richie sapeva per certo che il suo amico era morto. Dita invisibili sembrarono aprire con uno strattone la cintura del morto, tirargli giù la lampo e abbassargli i pantaloni fino alle ginocchia. Qualcosa di bagnato schizzò verso il basso insieme a loro: morendo, era venuto per l'ultima volta. Il corpo rimase eretto mentre la creatura spuntava fuori da sotto di esso, poi crollò in avanti e rimase immobile a terra. Il mostro sorrise a Richie. Richie si mise a urlare e cominciò a correre.
Fuori dalla pagoda, dall'altare sul quale il suo amico era stato sacrificato. Giù per il sentiero, lontano dalla strada dalla quale erano arrivati, lontano dall'incubo che lo inseguiva. Il sentiero che degradava zigzagando. La creatura che lo inseguiva a quattro zampe come un mastino sbucato dall'inferno. Un lago gli apparve davanti. L'acqua sembrava nera e fetida. Richie inciampò e ci precipitò dentro, sbattendo la testa su una pietra a meno di un metro sotto la superficie. L'universo divenne per un istante confuso e opaco, giusto il tempo di capire che aveva cominciato a bere acqua. Allora cercò di riprendersi e la sua testa spuntò fuori dalla superficie del laghetto appena in tempo per vedere che il mostro era arrivato sulla sponda. Si sentì il rumore di una palla di cannone, il ka-boooom di un tuffo, il consueto zampillo di spruzzi d'acqua. Richie si girò rapidamente e gridando con voce stridula cominciò a nuotare, ma si muoveva al rallentatore, era atroce vedere le sue mani che sbattevano freneticamente nell'acqua come le zampe di un cane. Sott'acqua, nessuno se ne accorge se te la fai sotto. Era l'unica cosa che in quel momento lo rassicurasse. Giunto a poco più di venti centimetri dall'altra sponda sentì una mano che lo afferrava alla caviglia. La sua gola si preparò a emettere un terribile grido e invece si trovò inondata di un litro di acqua scura. Gli entrò anche nelle narici, soffocandolo, mentre intorno a lui salivano a galla centinaia di bollicine angosciate. Si aspettava di vedere la vita scorrergli come un lampo davanti agli occhi, ma non vide nient'altro che il buio, solo il buio e il corpo ben tangibile del mostro che lo teneva stretto, lo afferrava per le braccia e lo riportava nuovamente a galla. Il mostro era un uomo. Richie sputò e tossì e sbavò, con gli occhi fuori dalle orbite. Il mostro era un uomo: non era più una donna, non era più la cosa che aveva massacrato Dewayne. Il mostro era un uomo dalla pelle bianca e dai capelli castani e dagli occhi penetranti. Gli sorrise mentre le sue mani lo stringevano alla gola e gli inchiodavano la testa alla sponda, come in una morsa d'acciaio. «Ora sai cosa si prova» disse il mostro. «Divertente, vero? Non avevi mai pensato a come ci si sente quando si ha a che fare con un testa di cazzo come te?» Richie scosse il capo freneticamente, ma non certo per rispondere alla domanda.
«Bene, ora lo sai. O forse ancora non lo hai capito.» L'uomo-mostro lo fissò negli occhi per un istante. A Richie venne in mente cosa era successo al suo amico quando lo aveva guardato in quel modo e chiuse di colpo gli occhi tenendoli serrati. La voce continuò, proveniente da una fonte misericordiosamente invisibile. «No, non credo che tu abbia afferrato il concetto fino in fondo.» La voce era uniforme, piena di forza e priva di rimorsi. «Hai bisogno di qualcosa di più esplicito. Di più sensazionale, oserei dire. «Nessun problema.» Richie si accorse che qualcosa in lui stava cambiando. La pelle gli iniziò a bruciare. E già questo sarebbe stato abbastanza terribile. Il bruciore simile a quello di un trilione di aghi che gli tatuavano la pelle tutti insieme. Poi sentì il rumore delle ossa che si tendevano, le sentì allungarsi: schiena, fianchi, braccia, gambe, cranio. Il dolore che provava era indicibile. Nella sua testa risuonavano suoni irrazionali. E intanto il Potere martellava dentro di lui come il rombo di una turbina. Lo intorpidiva e lo dissociava dal colore della sua pelle che diventava bianca, dal suo petto che si gonfiava, dai suoi fianchi che si arrotondavano, dai suoi genitali che scomparivano in un'umida fessura appena formatasi in mezzo alle sue gambe. Non riusciva a sentire i propri capelli che diventavano biondi, che gli scendevano lungo le spalle. E certamente non riusciva ad avvertire i suoi lineamenti che cambiavano. Poi la tempesta cessò. E la voce disse: «Guarda!» E si ritrovò a fissare il suo riflesso nell'acqua. L'uomo che aveva un'espressione indescrivibilmente felice. La donna i cui occhi stralunati lo fissavano dall'acqua con un'espressione attonita. La donna che lui e Dewayne avevano aggredito. La donna che lui era diventato. «In un certo senso te la sei cavata con poco» disse l'uomo-mostro. «Se ce la fai ad arrivare a casa, vedrai come potrai spassartela da solo. «Se ce la fai ad arrivare a casa» ripeté ammiccando. Richie Glover indietreggiò, urtò la sponda del laghetto e toccò terra strisciando sull'erba come un granchio. Lentamente comprese quale sarebbe stato il suo destino. Vide le sue tette nuove di zecca, sode e bianche che luccicavano sotto la costosa tuta da jogging. Percepì l'immensità di Central Park che si estendeva tutt'intorno a lui come una grande giungla buia, piena di bestie selvatiche e arrapate. Immaginò il momento in cui si sarebbe
presentato alla porta dell'appartamento dei suoi genitori, l'espressione stupefatta (Chi cazzo sei?) sulla faccia di chi avrebbe aperto la porta. «Se fossi in te, comincerei a scappare» lo consigliò l'uomo-mostro «prima che cominci a trovarti carina.» E Richie iniziò a correre con le sue nuove gambe lisce, lunghe e femminili. Sentì la risata di Billy e il cuore che gli batteva all'impazzata nelle orecchie come un tamburo dell'Africa nera. E si inoltrò correndo in un parco che non gli era mai parso tanto scuro e spietato. Si inoltrò correndo in un'oscurità senza fine. Al femminile All'una di notte Billy aveva settecento dollari in tasca e tredici tacche insanguinate sull'anima. Larry era sprofondato nell'ormai rituale abbraccio di Brenda Porcaro. Albert stava telefonando ad alcuni soci in affari per una questione riguardante due suoi affittuari inadempienti. Stan Peckard si stava sedendo al centro esatto della prima fila della galleria del Variety Photoplays, appena in tempo per il sensazionale momento culminante di Oggetti del desiderio («AFFONDA DENTRO LA SENSUALITÀ TOTALE!!!»). Dennis Hamilton era seduto da solo in un bar elegante dell'Upper West Side, lottando contro quello che l'istinto gli stava suggerendo su un tale William Rowe. Dave Hart era seduto da solo nel suo elegante appartamento dell'Upper West Side, alle prese con una canzone su un amore non ricambiato che non riusciva a terminare. E Mona era da sola, in un mondo di sogno pieno di tranquillanti e di devastazione. Dove l'incubo non aveva mai fine. Ma cambiava soltanto di forma. Lisa era rannicchiata sul divano e stava facendo fuori il decimo greyhound della giornata. Stava rimpiangendo di aver smesso di fumare. C'erano ancora della vodka e del succo di pompelmo, quel che bastava per un altro cocktail. Ancora un minuto e si sarebbe diretta barcollando verso la cucina a prepararselo. Beveva lentamente e inesorabilmente fin da mezzogiorno, a un ritmo che le permetteva di non essere mai troppo sbronza ma neanche completamente sobria. Ne aveva ricavato un ottundimento costante che aveva cancellato
in lei ogni inibizione ma aveva lasciato fondamentalmente intatta la sua capacità di coordinare i movimenti. Aveva trascorso in tutto tre ore a giocare col buon vecchio Bubba. Aveva trascorso altre quattro ore tenendoselo stretto mentre piangeva come una stupida fino a rimanere senza lacrime. A mettersi a leggere non ci pensava nemmeno, cinque morsi di un panino con formaggio e cavoletti di Bruxelles era tutto quello che era riuscita a ingerire. Aveva un suo progetto su come utilizzare i piani della libreria rimasti intatti, ma temeva di svegliare Mona. Le restava quindi soltanto la televisione, che era rimasta accesa con il volume al minimo e dietro la quale poteva perdersi di tanto in tanto per un massimo di cinque minuti di seguito. Le restava fin troppo tempo per pensare. Sullo schermo iniziò il telegiornale, una lenta ebollizione di atrocità assolute di cui Lisa si stancò subito. Spostò quindi la sua attenzione alle pile di libri che circondavano il divano, agli scaffali della libreria smontati, alle imperfezioni sul pavimento bianco. Sulle sue dita notò alcuni peletti che avrebbero richiesto un esame più approfondito... ... E poi comparve Mona che si dimenava nello schermo privato della sua mente: un migliaio di fotogrammi luminosi che alternativamente placavano ed eccitavano i suoi occhi. Mentre ballava, provocante come il peccato originale, nel video di Dave Hart. Mentre piangeva e le annunciava che aveva rotto con Billy. Mentre gemeva sotto le sue dita fino a raggiungere l'orgasmo. Mentre sorrideva con orgoglio e diceva la sua a Paula a proposito della dinamica del rapporto maschio-femmina. Mentre era priva di sensi, col viso pesto, irriconoscibile. Mentre attraversava la cucina con il viso inespressivo ed esteriormente guarita, come per miracolo... «Merda» si lasciò sfuggire Lisa. Le rotelle della sua mente, girando all'impazzata, avevano scavato un Grand Canyon psichico di sciocchezze nelle ultime tredici ore. Come rispondere a un quesito irrisolvibile? Come spiegare l'inesplicabile? «È facile» mormorò. «Non si può spiegare.» Era una risposta decisamente insoddisfacente, ma non riuscì a trovarne di migliori. La sola persona che avrebbe potuto rispondere alle sue domande dormiva da quattordici ore e lei non avrebbe voluto interrompere per alcun motivo al mondo quel sonno ristoratore. Preferiva diventare pazza, piuttosto. E l'alternativa non guastava, dato che era esattamente questo che le stava
succedendo. C'era un ultimo sorso rinfrescante in fondo al suo bicchiere. Si portò il freddo bicchiere alle labbra e lo inclinò verso la sua bocca. E il viso di Mona comparve sullo schermo. Lisa rimase quasi soffocata. La maggior parte del greyhound ricadde nel bicchiere, qualche goccia appiccicosa e dolciastra le schizzò sulla mano, sulle ginocchia e sul pavimento. Una raffica di colpi di tosse la fece piegare in due dal dolore, poi balzare in piedi di scatto. La forza di gravità e le vertigini complottavano per farla precipitare di nuovo a sedere. Lisa resistette e, barcollando sulle gambe malferme, si diresse verso lo schermo televisivo. Il volto della presentatrice aveva sostituito quello di Mona; non era altrettanto bello ma la riempiva ugualmente di terrore. Non farmelo perdere, pregò Dio e Channel 4 mentre crollava in ginocchio davanti alla televisione e alzava il volume. «... stata la terza vittima dell'uomo soprannominato "Assassino Sorrisino"» stava dicendo la presentatrice. «La sua morte segue di un solo giorno quella di Christine Brackett, trentaquattrenne impiegata della Polynote Records...» «Merda» ripeté Lisa mentre le sue dita abbassavano nuovamente il volume. Poi tre fotografie in bianco e nero comparvero sullo schermo. La mano di Lisa si bloccò. Erano le fotografie delle tre donne morte e quella sulla destra era Mona. Ma non era Mona. Riuscì a emettere soltanto un suono rauco di sorpresa. La somiglianza era impressionante. Nonostante il volume alto, Lisa non riusciva a sentire la voce della donna a causa del cicaleccio impazzito della sua mente. Stava collegando il momento in cui Mona era stata aggredita a quello della morte di Marcy Keller. Stava collegando la morte di Marcy Keller a quella di Jennifer Mason. Stava collegando l'uomo che aveva assistito alla morte di Jennifer Mason a quello che aveva riportato Mona a casa. Erano tre fili di colore diverso in un ricamo elaborato che si intrecciavano, si sovrapponevano e si fondevano in un disegno che era più grande della somma delle sue parti. Un disegno in cui le varie sezioni si univano. Per formare il viso di Billy. «Non ha senso» le comunicò la sua mente mentre sentiva in lontananza la voce della donna che annunciava la formazione di squadre anti-mostro
in tutta la città. «Direi proprio di no. Insomma, che cosa può avere a che fare Billy con questa storia?» Un gemito terribile esplose dietro di lei. Lisa si voltò di scatto, spruzzando sul pavimento le ultime gocce riciclate di greyhound senza neppure accorgersene. Un altro suono, identico al primo. Veniva dalla camera di Mona. Nel sogno era circondata dal fuoco. Topi dai musi mostruosi squittivano attraversando le pareti, il pavimento e il soffitto, con il pelo screziato in fiamme. Qualcosa di grande e di terribile si ergeva su di essi, al centro delle fiamme. E la fissava. Sorridente. E Billy era lì, proprio davanti a lei. Era coperto di sangue. Era impossibile capire se il sangue fosse il suo o quello di qualcun altro. Non è poi così terribile, le disse dolcemente e le mani che grondavano sangue si protesero verso la sua gola. E Mona urlò, la sua mano sinistra strinse da sotto l'avambraccio di Billy mentre la destra lo colpiva dall'esterno sul gomito... La reazione di Lisa fu istintiva. Senza un istante di esitazione sfuggì alla presa e fece un balzo all'indietro, assumendo una posizione di difesa: il corpo in perfetto equilibrio, le braccia piegate e pronte a scattare, gli occhi che lanciavano fiamme sulla sua assalitrice. Tutto questo nel giro di un secondo, senza neppure riflettere. Poi Mona cominciò a piangere. Lisa impiegò diversi secondi per ripiombare nel mondo dei deboli e dei sofferenti. Una parte della sua mente era sbalordita dal fatto che Mona avesse eseguito così bene la mossa per bloccarle il braccio, nonostante fosse immersa nel sonno; un'altra parte della sua mente stava soffocando la scarica di adrenalina, la reazione che l'abitudine aveva immediatamente scatenato. Le ho insegnato io quella mossa, le ricordò una voce mentale. Ancora un istante e mi avrebbe frantumato il braccio. C'era dell'orgoglio in quella voce, misto però a una buona dose di terrore. Mona si allontanò dall'amica e si rannicchiò come un feto nell'utero, mentre il cuscino soffocava la violenza dei suoi singhiozzi. Lisa restò a guardarla, consapevole della sua incapacità di poter fare qualcosa per aiu-
tarla. «Mona» disse con voce sommessa avvicinandosi in punta di piedi al letto. «Mona, tesoro, mi dispiace averti spaventata.» Si sedette piano sul materasso senza mai lasciare con gli occhi la schiena di Mona, curvata e scossa dai singhiozzi. «E voglio...» «NON MI TOCCARE!» gridò Mona all'improvviso. Il suo corpo si ritrasse dall'altra parte del letto. Volgendo le spalle a Lisa, Mona continuava a emettere dei singhiozzi che, senza più il cuscino a soffocarli, non erano meno acuti del suo grido. Lisa scattò in piedi istintivamente, si allontanò dal letto e indietreggiò verso la porta. «Scusa... mi dispiace...» riuscì a balbettare mentre le lacrime tornavano a tormentarla. «Se hai bisogno di me... sono nell'altra stanza...» Poi perse completamente la capacità di pronunciare frasi sensate e si precipitò nel soggiorno. Atterrò sul divano a faccia avanti, usando i cuscini per soffocare i propri singhiozzi mentre i pensieri le giravano vorticosamente nella mente. Non toccarmi. Lisa conosceva bene quelle parole. Benissimo. Non toccarmi. Era stato il messaggio che aveva rivolto al mondo per dodici mesi dopo la storia di Roy e Gordy. Aveva dovuto percorrere strisciando mille miglia di terrore prima di riuscire ad accettare che qualcuno, fosse pure una donna, la toccasse. E anche allora quella voce aveva continuato a risuonarle nel cervello: non toccarmi, non toccarmi, non toccarmi... Quelle parole risvegliarono l'odio di Lisa, rovente e gelido come un ghiacciolo infilato nel cuore. Odio per gli uomini senza volto che avevano ridotto Mona in quello stato. Odio che superava con un solo balzo gli anni e andava a colpire Roy e Gordy, dispersi nelle nebbie del tempo, e tutti gli uomini che almeno una volta avevano pensato di stuprare una donna. Odio di incredibile intensità per Paula Levin. Sì, proprio così, sibilò rivolta a una Paula immaginaria, che nella sua mente era diventata ancora più brutta e tozza di quanto fosse in realtà. Questo è un ottimo momento per parlarle. Prendila a calci finché è a terra. Tanto può solo spezzarsi. Di rabbia e di dolore ne ha avuto fin troppo. Trasformala in un bravo soldatino. Piegala alla tua causa. Fregatene del suo cuore. Sei mai stata violentata, Paula? Si rendeva conto che la sua mente cominciava a esagerare. E allora? Chi cazzo se ne frega? Ne dubito. Dio solo sa perché il femminismo è diventato il tuo idolo. Non andava bene una
squadra di calcio? Non potevi prendertela con un consiglio di azienda? Si disse di chiudere il becco: ora stava esagerando davvero. Ma non riusciva a togliersi di dosso la certezza che Paula fosse un'opportunista da capo a piedi, come gli oppressori maschilisti contro i quali si batteva, come quelle puttanelle che chiamava traditrici. E si chiese che genere di sudiciume avesse Paula dentro di sé, nascosto dietro la sua rigida moralità... L'opinione che Diane Beekman aveva di Paula Levin era più oggettiva e indubbiamente molto più esatta. Essere brutta e sgradevole, in fondo, non era una passeggiata: e l'intelligenza non faceva che peggiorare le cose. Diane aveva un'idea chiarissima del motivo per cui Paula era diventata quello che era. Lei, al contrario, sapeva perfettamente che cosa significava essere desiderati. Il suo paparino l'aveva desiderata da impazzire. Fino alla fine. Diane si trovava nel cuore di Hell's Kitchen. L'Ottava Avenue e la Quarantaduesima Strada le formavano attorno un'enorme croce di cemento che brulicava di vermi, a piedi o in auto. Tossici, spacciatori e pervertiti, quasi tutti maschi, la circondavano sul marciapiede. Sperava che la seguissero tutti, uno dietro l'altro. La luce del semaforo cambiò e il segnale verde per i pedoni illuminò la parte settentrionale della Quarantaduesima. Diane procedeva di buon passo, nonostante il suo fardello che, tenuto fermo con del nastro da pacchi, premeva contro la parte interna del cappotto. Le luci sgargianti dello Show World erano proprio di fronte a lei e attirarono la sua attenzione come il paginone centrale rosa di Hustler. Si diresse verso di esse sorridendo. In attesa che il rosa diventasse rosso. Lo Show World era il più lurido dei negozi più luridi di New York, con quattro piani che promettevano piaceri onanistici a uomini di scarsi scrupoli, solitari e senza amore. Il piano numero 4 offriva spettacoli dal vivo, quasi tutti di una noia mortale. Il piano numero 3 ospitava un'infinità di cabine davanti alle quali le ragazze si dimenavano o dicevano porcherie mentre dei tipi patetici si menavano l'uccello. Il piano numero 1 presentava attrattive più o meno identiche. A quell'ora della notte questi tre piani erano ormai chiusi e tutte le ragazze che vi lavoravano se n'erano già andate. Perfetto.
Il numero 2, il pian terreno, era quello che le interessava. Entrò dall'ingresso della Quarantaduesima Strada. La libreria dello Show World le si apriva davanti come una puttana. Un cartello sulla porta dichiarava a chiare lettere che era vietato l'ingesso alle donne non accompagnate. Non si lasciò intimidire. Era già stata lì dentro altre due volte. Abbastanza per farsi un'idea. Non ebbe problemi con l'uomo dietro al bancone della libreria. Grazie al pesante cappotto invernale e ai suoi lineamenti da ragazzo, al taglio di capelli e allo Stetson che aveva in testa la potevano scambiare senza difficoltà per un grazioso efebo o per una ragazzaccia in cerca di avventure. In ogni caso, a nessuno fregava niente di lei. Attraversò il negozio con lo sguardo che vagava lungo le pareti alla sua sinistra. Dappertutto videocassette e riviste dalle copertine lucide. Sulla maggior parte di esse si intravedevano uccelli enormi che stavano per penetrare uno o più orifizi femminili o l'avevano già fatto. Le classificò mentalmente mentre passava: pompino, pompino, pompino, scopata semplice, pompino, pompino, penetrazione anale, penetrazione anale, pompino e un'interessante penetrazione tripla. L'effetto era al tempo stesso eccitante e deprimente. C'è una cosa da dire sul porno, si disse allegramente. Si può amarlo o si può odiarlo, ma non si può restare indifferenti. La sua ripetizione infinita, però, era come un'anestesia locale all'inguine. Il paese delle fantasie dentro la mente di ciascuno: è lì che c'è l'azione. Nel suo, la vista di tutti quei cazzi in tutte quelle bocche risvegliò l'inevitabile ricordo del suo paparino. Quante centinaia e centinaia di volte l'aveva costretta a eseguire quell'atto? Un numero incalcolabile. Come le file e file e file di riviste che si confondevano le une con le altre, simili granelli di sale in uno shaker. E come sempre glielo stava staccando con un morso: il sangue caldo in bocca... Ma no. Le esplosioni erano meglio. Le esplosioni erano più vere. Per ogni sogno di castrazione con i denti, ne aveva fatti esplodere almeno una dozzina nella realtà. Ed era molto meglio. Oh, sì. Decisamente meglio. Il tizio che vendeva i gettoni all'ingresso dello Show World vero e proprio le creò qualche problema. Non perché fosse una donna, ma perché aveva con sé una lattina di Pepsi in una busta di carta marrone. «Qui den-
tro con quella non si entra» la informò. «Se vuoi una Pepsi, prendila dal distributore automatico.» «Almeno fammela finire, va bene?» disse Diane. «La prossima la prendo dalla macchina. Tanto ho intenzione di restarmene qui per un bel po' di tempo.» Lo guardò dritto negli occhi mentre parlava, senza esitare. E neanche il suo sguardo era titubante, anche se per un istante ebbe paura. La lattina era fondamentale per il suo piano. «Che ti prende? Non muore mica nessuno se finisco di bere la mia Pepsi» continuò sorridendo. «E poi in fondo credi che a loro freghi qualcosa?» Fece un gesto in direzione della trentina di rincoglioniti che vagavano da una cabina video all'altra. L'uomo seguì il suo sguardo e annuì svogliatamente. La luce verde della vittoria si accese dentro di lei. «D'accordo» disse lui ricambiando il sorriso. Era un nero alto e spolpato con un maglione a collo alto color rosso porpora e occhi da tossico. Quando sorrideva lasciava intravedere dei denti enormi. «Comunque, entrare dentro ti costerà un dollaro.» Diane sbatté un biglietto da cinque sul banco e disse: «Dammi l'equivalente in gettoni. Te l'ho detto, ho intenzione di restare dentro per un po'». Il sorriso del tizio dei gettoni si allargò. «Ti piace guardare, vero?» «Adoro guardare» assicurò lei. «Bene» rispose il nero e fece cadere i gettoni davanti a lei. «E se hai bisogno di aiuto, fai un fischio.» «Penserò a te» disse Diane con un sospiro protendendosi verso di lui «quando sarò da sola.» Il tizio fece una risatina perversa facendole capire che le piaceva. Una risata affettuosa. «Sei una matta» disse. «Non sai quanto» concordò lei ammiccando mentre raccoglieva i gettoni. E si ritrovò dietro di lui, nel corridoio a elle che era il dominio incontrastato delle cabine video. Avevano le dimensioni di un armadietto della biancheria: non c'era spazio per più di una persona. Una porta. Uno sgabello. Un video spento con uno o due schermi. E una serie di fessure per i gettoni, che offrivano da due a quattro possibilità. Come sempre, non credeva ai suoi occhi mentre notava quante persone brutte e sole vagavano per quei corridoi attorno a lei: Nonostante l'ora, dovevano essercene almeno trenta. Patetico, come sempre. Se si fosse potuta concedere il lusso di provare un po' di compassione per loro, se la sua capacità di provare pietà non fosse morta per sempre nella pace della sua
casetta, mille anni prima, il suo cuoricino avrebbe sanguinato a litri. Così come stanno le cose, invece, li informò silenziosamente, a sanguinare sarete voi. Rivolse quindi la propria attenzione alla scelta della cabina più adatta ai suoi scopi. Ce n'erano molte. Era difficile fare una scelta. Dal momento che non era lì per guardare i video, la difficoltà diminuiva; d'altra parte, però, c'erano tante cose che non aveva ancora visto. La scarsezza delle visioni proibite la distraeva. Avrebbe scelto un doppio, Tina bocca di sapone e La regina del clistere, o avrebbe optato per un fremito interraziale più tradizionale, come La figlia del proprietario della piantagione e Magia nera, puttana bianca? Che dilemma. Avrebbe potuto passare un'ora a tormentarsi. Ma le restavano soltanto otto minuti. Diane scelse alla fine La bambina del suo papino e Scopata di famiglia: le sembravano particolarmente appropriati e non li aveva mai visti. Aprì la porta, si assicurò che nessuno l'avesse lasciata aperta nella speranza di trovare compagnia, entrò e chiuse la porta dietro di sé. Gli piaceva il rumore del lucchetto. Era così comodo. La prima cosa che fece fu far scivolare quattro dollari e settantacinque centesimi in gettoni nella fessura A e premere il pulsante (l'ultimo gettone lo tenne per ricordo). Poi, sotto la luce gentilmente fornita da La bambina del suo papino, si aprì il cappotto e guardò dentro. C'erano altre due lattine di Pepsi attaccate con del nastro da pacchi sullo stomaco, entrambe avvolte in buste di carta spiegazzate. Le tirò fuori e le avvicinò all'orecchio, una alla volta. Ticchettavano ancora entrambe. Bene. All'interno, le lattine erano foderate di C-4, l'esplosivo al plastico in dotazione all'esercito. Nei giri del mercato nero, piazzare C-4 era facile come spacciare un etto di erba colombiana di qualità non eccelsa. Diane aveva trasformato il perimetro delle lattine in ciambelle ripiene di morte con i detonatori annidati contro di esse come uova fecondate sulla parete di un utero. Per il resto, le lattine era piene di ordinaria polvere da sparo, disponibile in ogni buon negozio di articoli da caccia. Non ce n'erano molti a Manhattan, ma era riuscita a trovare un posto a Long Island che era perfetto per le sue esigenze. Il resto del materiale se lo era procurato a Canal Street: un orologio da
polso dozzinale, una batteria da nove volt e del filo. Il resto era stato un gioco da bambini. Diane bevve un sorso dalla vera Pepsi che aveva in mano e si concesse un minuto per vedere com'era La bambina del suo papino. L'uomo sembrava vecchio, la ragazza sembrava giovane, tutto sembrava esatto o quasi. Ma la ragazza aveva dei fiocchi nei capelli, e Diane non li aveva mai avuti, e l'uomo la scopava da dietro, cosa che il suo paparino non aveva mai fatto. Lui voleva guardarla dritto negli occhi, rafforzando il potere che aveva su di lei. Il suo paparino non era uno di quelli che si infilano dentro dalla porta posteriore. E, elemento più importante, nel video il terrore era completamente assente. E lei di terrore ne aveva avuto a chili. Gli anni delle violenze sessuali le attraversarono come un lampo la mente, riempiendola della foga e della rabbia che i suoi ricordi non mancavano mai di suscitare. Lo vedeva attraverso gli occhi di una dodicenne. Lo vedeva attraverso gli occhi di una diciassettenne. Lo vedeva attraverso gli occhi di tutti gli anni che erano trascorsi in mezzo. E lo vedeva la notte che lo aveva seguito fuori dal Brandywine Inn. Lo vedeva barcollare ubriaco verso la sua Plymouth Fury color blu metallico del '67. Gli vedeva la nuca mentre guidava, sbandando leggermente, lungo l'Interstatale 81 alle quattro meno un quarto del mattino. Vedeva la breve raffica di scintille mentre il paraurti anteriore della sua auto toccava la fiancata sinistra posteriore della Fury e la mandava a schiantarsi contro il guardrail per poi volare sopra la scarpata di sessanta metri e finire sulle rocce sottostanti. Ma la cosa migliore di tutte era stata l'esplosione... Diane Beekman tornò di colpo al presente e agli oggetti che le ticchettavano davanti. Uno sguardo al suo orologio le segnalò che le restavano meno di sei minuti. Se voleva fare un po' di spesa, avrebbe fatto meglio ad andarsene in fretta. Scolò la Pepsi e fece scivolare la lattina vuota sotto il cappotto, dove prima aveva nascosto le bombe. Una di queste la ficcò nella tasca esterna, mentre l'altra la tenne in mano. Il video si spense e Diane lasciò la cabina. C'era un cestino traboccante di rifiuti a un'estremità del corridoio. Vi depositò delicatamente il primo dei suoi doni. Poi voltò l'angolo e si diresse verso la libreria. Il tizio al bancone dei get-
toni stava facendo entrare un dirigente di mezz'età... ... ed era il suo papà, che era tornato, gli occhi neri e morti scavavano dei buchi nei polmoni di Diane che era sul punto di lasciarsi sfuggire un grido assordante... ... solo che quell'uomo non era il suo papà, e non sembrava nemmeno il suo papà, era solo uno stronzo coglione appena entrato lì dentro. Una risata salì a prendere il posto del grido. Diane li soffocò entrambi, si asciugò il sudore freddo dalla fronte e riprese a camminare. Non sapeva come mai aveva quelle visioni di tanto in tanto. Era come se la sua mente fosse (ACUTA!) come una scimmietta e le piacesse scherzare. A volte, la vittima dello scherzo era lei stessa. Faccia Paffuta era ancora fermo al banco dei gettoni quando Diane gli passò accanto. Hai finito con le riunioni di affari, vecchio mio, lo informò in silenzio tirando fuori dalla tasca la seconda bomba. Vedrai come sarà contenta la tua segretaria. Faccia Paffuta non badò a lei. Una delle cose più belle in posti come lo Show World è il fatto che nessuno guarda gli altri. Si presuppone che si debba agire in modo furtivo. Se qualcuno la guardava, lo faceva di sbieco. C'era un altro cestino per i rifiuti pieno accanto al bancone. Ci ficcò dentro la seconda bomba con cura, poi proseguì verso la libreria senza una parola. Ora alla sua sinistra c'erano gli scaffali con i tascabili. La sezione sadomaso la colpì particolarmente. C'erano alcuni titoli che la buona, vecchia Paula avrebbe certamente gradito: Mike il Dominatore, Sonjia ha quel che si merita, Violentatemi così per tutta la notte! Paula era così divertente! Diane era nel giro da anni, ma raramente aveva incontrato una ideologa così rigida. Prendere seriamente la politica era una cosa, gran parte delle persone nel Movimento lo fanno, almeno a livello viscerale. Ma trovare una combinazione di intelligenza così elevata e di mancanza totale di buon senso era certamente una cosa rara. Le sue piccole buffonate hitleriane si palesarono distintamente fin dal primo incontro, ma non erano mai state così chiare come nella loro ultima conversazione. Paula e la sua compagna avevano stabilito che quindici minuti era il tempo necessario a far sgomberare il locale. Diane si era permessa di dissentire. Due minuti, aveva detto, erano sufficienti perché tutti muoves-
sero le chiappe fuori di lì. Se avessero avuto più tempo a disposizione, avrebbero potuto trovare le bombe, chiamare aiuto e forse perfino disinnescare gli ordigni. E sarebbero aumentate le possibilità che qualcuno si ricordasse di lei. Sarebbero aumentate le possibilità che le bombe non facessero in tempo a esplodere. Ma Paula era stata irremovibile. È la cosa più umanitaria da fare, aveva detto. Come se te ne fregasse qualcosa di quel che succede a quella gente, aveva ribattuto Diane. Faremo come dico io, aveva tagliato corto Paula, con piglio autoritario. E non ammetto ulteriori discussioni. E così era stato. Almeno per quel che riguardava la seconda metà della frase di Paula. «Paula, tesoro, sei uno schianto» si disse Diane mentre sceglieva tre titoli dagli scaffali e si dirigeva alla cassa. Uno sguardo all'orologio le comunicò che mancavano tre minuti e dieci secondi. Un sacco di tempo. Sorrise mentre pagava i libri. Poi lanciò un'ultima occhiata alla configurazione dello Show World. Avrebbe voluto filmare il momento in cui sarebbe cambiata. Le bombe che usava erano esplosivi a due tempi. Quando la lancetta dei minuti sarebbe arrivata all'una e trenta, i detonatori avrebbero fatto esplodere il C-4. Le esplosioni risultanti sarebbero state fortissime e probabilmente avrebbero scaraventato a terra le porte di tutte le cabine. Ancora meglio, avrebbero ionizzato ogni particella di polvere presente nell'aria nello stesso istante in cui avrebbero disperso e ionizzato la polvere da sparo. Come due cariche che si respingono, la polvere da sparo e la polvere del locale avrebbero reagito con violenza, potenziando terribilmente la seconda ondata dell'esplosione. E moltiplicando l'effetto dirompente. Chi non fosse morto sul colpo, sarebbe bruciato vivo in quindici secondi al massimo, con i capelli e i vestiti splendenti sulla carne carbonizzata. Carino. Se solo avesse potuto filmare la scena. «Peccato» sospirò mentre usciva sul marciapiede. E sentiva il telefono che iniziava a squillare. Diane visualizzò la conversazione mentre attraversava la Quarantaduesima al semaforo. Paula avrebbe informato l'uomo dello Show World che avevano quindici minuti di tempo per andarsene. Lui le avrebbe detto che era una stronza e che ricevevano minacce del genere tutti giorni. Lei a-
vrebbe insistito dicendo che non stava scherzando e si sarebbe imbarcata in una tirata polemica a metà della quale il tipo si sarebbe rotto le palle e avrebbe riappeso la cornetta. Se ce la faceva ad arrivare fino a metà. Il biglietto della corriera per Chicago era nella tasca del cappotto di Diane, il suo bagaglio in un armadietto alla Port Authority. Un lavoretto pulito pulito. Cercò di immaginare la faccia di Paula quando le bombe le sarebbero esplose proprio sotto le orecchie. Troppo divertente. C'era un venditore di hot-dog sul marciapiede di fronte alla Port Authority. Diane ne ordinò due con senape e salsa piccante, poi si spostò lungo la strada in una posizione dalla quale poteva vedere la vetrina dello Show World. Il tizio era ancora al telefono. Splendido. Aveva appena affondato i denti nel primo hot-dog quando le bombe esplosero. La casa in cui abitava Johnny L'ambulanza sfrecciava lungo Central Park West con la sirena che ululava a un ritmo frenetico e incessante. Billy non riusciva a vedere le luci rosse dal punto in cui si trovava, al centro della Settantaduesima Strada, ma poteva distinguere chiaramente il suono stridente che si ritagliava un solco di dolore nell'aria viva della notte. Billy si trovava di fronte al Dakota, appoggiato al muro di uno dei grattacieli più bassi. Si era procurato una Fisher d'importazione da un litro in un localino chic della zona e si era attaccato allegramente al collo della bottiglia. Gli avvenimenti della serata avevano stimolato la sua voglia di qualcosa di speciale. Non gli mancava certo la scusa per festeggiare. Decisamente no, si ritrovò a pensare. Niente angoscia, anche se si sentiva troppo indifferente per provare orgoglio. Hai ucciso diciotto persone stanotte. Non sentiva dentro di sé neppure una punta di rimorso. L'ambulanza era sempre più vicina. La sirena strideva dolorosamente nel perimetro del suo campo uditivo. Si voltò verso destra e la vide svoltare l'angolo e perdersi nel parco. Dove fosse diretta lo sapeva bene. «Ringrazia Dio che non è venuta a prendere te» disse una voce familiare dietro di lui. Billy si voltò lentamente, annuendo rassegnato. Ma certo, si disse, certo.
«Già fatto» disse. «Fuori dalle palle.» «Oh, Billy» mormorò Christopher disgustato, con tono di sufficienza. «Andiamo, non vuoi davvero sapere cosa me ne pare di questa tua ultima pensata?» «No.» «Non sei curioso neanche un po'?» «Per niente.» Il tono della voce dell'angelo si fece più serio. «Non cominci a stancarti di mentire a me e a te stesso?» Un altro sorso dalla bottiglia. «No.» «Non importa» sospirò l'angelo. «Sarò costretto a dirtelo ugualmente.» Billy si girò per andarsene. Christopher lo seguì e lo raggiunse. Billy accelerò il passo. Christopher fece lo stesso. Billy, in un folle bagliore mentale, vide se stesso e Christopher sfrecciare a tutta birra attraverso Central Park. Troppo ridicolo. «Senti» disse fermandosi e girandosi verso l'angelo. «Che te ne parrebbe se ti dicessi come mi sento io dopo quest'ultima mia pensata?» «Mi va bene» disse Christopher appoggiandosi al palazzo e incrociando le braccia sul petto. «Spara.» Billy scoppiò a ridere. L'espressione usata da Christopher era quanto mai appropriata. «Mettiamola così» cominciò. «Per qualcuno che è stato pugnalato quattro volte e che si è beccato tre pallottole in piena faccia, mi sento in piena forma!» «E hai un aspetto favoloso!» gigioneggiò Christopher. «Neanche un capello fuori posto!» Billy lo ignorò. Gli venne in mente l'ultima vittima di quella notte, il modo in cui le pallottole gli si erano ficcate nella fronte, nel naso, nel mento. Ricordava l'espressione di quell'uomo, che passava dalla sicurezza più brutale al terrore assoluto nel momento che il suo brutto muso impiegò a sparire in un lampo di luce. «Vuoi sapere che cosa mi è sembrato strano?» disse Billy, sempre concentrato sui propri ricordi. «Non ho battuto ciglio. Sapevo che non mi avrebbe fatto male, quindi praticamente me ne fregavo.» «Non dovevi fare altro che rilassarti e spassartela, giusto?» Non era esattamente una domanda. Billy annuì, con un sorriso sardonico. «Proprio così» disse. Stava facendo lo spaccone, ma in realtà quello che diceva corrispondeva in parte alla verità. Era stata, in fondo, un'esperienza gratificante.
E sapeva che Christopher lo sapeva già. «Quindi l'idea di fare il vendicatore urbano ti gusta, no? Uccidere la gente non ti dà più fastidio?» «No, quella gente no» rispose Billy senza esitare. «Tutti quei figli di puttana, fino all'ultimo, si meritavano quello che hanno avuto.» «Chi l'ha deciso?» «L'ho deciso io, amico! Non ti ricordi? Giudice Assoluto del Bene e del Male, Padrone del mio Destino.» Sentiva la rabbia ribollire dentro di sé ed era bene che fosse così. Tutto pur di tenere a cuccia quel gelo terribile che aveva provato. «Cosa c'è che non ti convince?» Christopher scosse il capo. C'era della severità nei suoi occhi. «Non sono le morti in sé, quelle non sono un problema. Il problema è che tu ci hai preso gusto.» «Non si riesce mai ad accontentare tutti, non ti pare?» «Poi, a essere sinceri, c'è un altro problema: mi stai liquidando.» «Che cosa ti aspettavi, Christopher?» Sperava che il disgusto nella sua voce fosse pari a quello che provava dentro di sé. «Sei un gran rompicazzo. Non riesco a ricordare quando è stata l'ultima volta in cui hai approvato quello che ho fatto. Perché non te ne vai a fare in culo?» Stavolta toccò a Christopher mostrarsi disgustato. «Questo non è degno di te, campione. Questa è ribellione allo stato puro. È una cretinata. Alla James Dean. Perché non...» «Perché non vai a farti un giro da un'altra parte?» gridò Billy. «Perché non ti togli dalle palle? Non venirci a cercare! Ci faremo vivi noi! Siamo stati chiari? Ti è entrato in quel cervellino di gallina?» «Come vuoi» disse l'angelo alzando le mani come a dire mi arrendo. «Ma vorrei che tenessi una cosa bene a mente. La prossima volta che mi chiamerai, può darsi che non risponda. E forse sarà quando avrai bisogno di me più che mai.» «Correrò il rischio» ribatté Billy, ma un vento gelido gli attraversò la schiena mentre pronunciava quelle parole. All'angelo non sarebbe sfuggito. Christopher annuì e sorrise mestamente. «Sia fatta la tua volontà» disse. E scomparve. Lasciando Billy, che si sentì all'improvviso tremendamente solo, a contemplare l'ingresso del Dakota. Una serie di immagini spettrali lo stavano ossessionando qualche istante prima che l'ambulanza e l'angelo lo disturbassero. Riportò la sua attenzione su di esse. John Lennon era una persona che aveva cercato di cambiare il mondo
con la sua musica, e anche se non si poteva certo dire che come uomo fosse stato un fallito, non era comunque riuscito a portare la pace nel mondo. Il sogno era finito per Johnny su un pezzo di marciapiede davanti a casa sua. Era finito con una breve ma fatale scarica di pallottole. Billy si ritrovò a chiedersi che cosa sarebbe accaduto a John Lennon se il Potere fosse stato dato a lui: cosa sarebbe accaduto a Mark David Chapman e al mondo in generale. Non gli venne in mente alcuna risposta. «Abbiamo provato a dare una possibilità alla pace, caro Johnny» disse la voce di Billy. «Ora è giunto il momento di provare con qualcosa di diverso.» La birra, mentre la mandava giù, era fredda quasi quanto lui. Contatto Erano le due e trentacinque di venerdì mattina quando Rizzo e Hamilton si presentarono alla sede del Ventiduesimo Distretto di Polizia a Central Park. L'Ottantacinquesima Strada era ridotta a un minuscolo sentiero da quando la marea di macchine parcheggiate aveva costretto la polizia a transennare la zona. Come mosche sulla merda erano calati quelli dei notiziari: uno sciame ronzante di insetti che ficcavano dappertutto luci, telecamere, microfoni. Dappertutto meno che dove, secondo Rizzo, avrebbero dovuto ficcarli, vale a dire su per il loro sedere. C'erano anche molte auto della polizia. A quanto pareva, qualcuno aveva mobilitato tutte le truppe. Rizzo sospettava che, come spesso accade, fossero troppe e per di più troppo in ritardo. Ma se il massacro era stato terribile, come gli aveva detto Bartucci, allora quella reazione esagerata era perfettamente comprensibile. Riuscirono a penetrare in qualche modo nella stazione di polizia senza essere bloccati e costretti a rilasciare dichiarazioni. Dentro sembrava di essere piombati nell'incubo di un pazzo. L'unico termine adatto per descrivere la situazione era pandemonio. Fu Hamilton a individuare Bartucci, nascosto dietro a tutto quel caos. «Vieni» disse prendendo Rizzo per la manica. Bartucci aveva l'aria truce e quando li vide li invitò con un cenno a raggiungerlo. Lo seguirono nel suo ufficio e si chiusero la porta alle spalle. «Bene» disse Bartucci con un'espressione che stava a indicare come le cose non andassero affatto bene. Sembrava invecchiato di vent'anni nelle
ultime tre ore. Era un italiano calvo e grassoccio, famoso per il suo ampio sorriso e il quadruplo mento. Ora il sorriso era scomparso e i menti erano ricoperti da una barba ispida che tendeva al grigio. C'era poca differenza fra i suoi occhi scuri e le borse sottostanti. «Bene» ripeté. «Nei casini ci sono io, non voi, e la cosa non mi fa impazzire di felicità. Non augurerei questa merda a nessuno. Ma vi ho fatto venire qui perché volevo che sentiste il nastro per vedere se vi fa scattare qualche associazione mentale. D'accordo?» Rizzo annuì. Hamilton abbassò lo sguardo sulle proprie mani, senza fare alcun cenno. Stava diventando un'abitudine. La storia del Maniaco dal Faccino Allegro gli stava facendo perdere la testa e la sua simpatia per quella specie di hippie stava mettendo seriamente in pericolo la sua capacità di giudizio. In cinque secondi Rizzo passò dalla rabbia alla preoccupazione per il suo collega. Poi il nastro partì. E il resto dell'universo si fermò e stette ad ascoltare. «Stazione di polizia, Ventiduesimo Distretto» disse una voce. «Parla il sergente Reilly...» «Stai zitto» lo interruppe una voce profonda e roca. «E ascolta.» Si sentì una terza voce. Era diversa dalle altre due praticamente sotto ogni aspetto: il tono acuto, le parole sparate a raffica. Il motivo di quella diversità divenne subito evidente. Il proprietario della terza voce era terrorizzato. «Dovete sapere» cominciò «che l'idea è stata di Toby. Lui voleva...» «Whap!» Un colpo secco nel quale si distinguevano ossa e carne. La terza voce urlò. Poi si sentirono sillabe più chiare, più rapide e più terrorizzate di prima. «MI CHIAMO TODD JOHNSON!» Ognuna delle parole era un urlo che continuava. «SONO QUI PERCHÉ HO SPARATO AL MIO AMICO IN TESTA E QUESTO TIZIO MI HA PRESO E LUI NON VOLEVA MORIRE...» Si intromise la seconda voce, questa volta più confusa. Disse qualcosa che sembrava: «Ora di cena». Poi l'inconfondibile rumore di una pistola che sparava, l'inconfondibile tonfo di un corpo che cadeva a terra. Sia Rizzo che Hamilton sobbalzarono. «Ecco un coglione che non suonerà mai più il piano» disse distintamente la seconda voce. Evidentemente aveva ripreso possesso del telefono.
«Lo troverete vicino al campo giochi di Tavern-on-the-Green. Sto usando il vostro posto telefonico che si trova lì, come se non lo sapeste.» «Porca puttana.» Era la voce del sergente Reilly. Il terrore nella voce del terzo uomo, ormai defunto, lo aveva contagiato. «Lo riconoscerete senza problemi» proseguì la seconda voce «È quello che ha il calcio della pistola in mano e la canna in bocca. Se trovate qualcun altro che corrisponde a questa descrizione, controllate il nome sui documenti.» Un riso rauco. Rizzo fissò incredulo i suoi compagni. Non era solo la freddezza di quella voce e dell'atto che l'uomo aveva commesso; non era solo il fatto che aveva appena ascoltato l'equivalente audio di uno snuff movie. Quello che lo aveva colpito davvero era la voce. Anche quella era inconfondibile. «Clint Eastwood» disse. «Esatto» confermò Bartucci con un sorriso a denti stretti. «Proprio bravo, non vi pare?» «E una volta lì» continuò Clint «che ne direste di recuperare anche gli altri ragazzi? Sono sparsi per tutto il parco, ma ora vi indicherò esattamente dove cercare.» I tre minuti successivi del nastro erano occupati dalle descrizioni dei cadaveri e dalle indicazioni su come trovarli. Se si doveva dare credito alle descrizioni, la varietà delle morti era impressionante. «L'ho spaventato a morte. Non sapete quanto.» Degli inquietanti scoppi di risa costellavano il suo discorso, anche se si sarebbe detto che quel tizio non aveva perso neppure per un attimo il controllo di sé. «È tutto esatto?» volle sapere Rizzo. «I posti dove i cadaveri sono stati rinvenuti sono esatti» disse Bartucci. «In un paio di casi, è difficile dire che cosa li abbia uccisi con esattezza. Stanno cercando di scoprirlo al reparto di Anatomia Patologica, ma a giudicare dalle apparenze, il tizio non ne ha sbagliata una. Li ha uccisi tutti lui. O almeno ha contribuito a farli fuori.» «C'è un'altra persona in cui forse vi imbatterete» proseguì la voce. «Una donna bionda e molto bella: era con lei che il mio amichetto stupratore si trovava quando, per così dire, l'ho sistemato.» Di nuovo quella risata. «L'ho vista scappare verso il Ramble, poi l'ho persa di vista. Date un occhiata da quelle parti e forse troverete anche lei.» «L'avete trovata?» chiese Rizzo accendendosi una sigaretta. «Ce l'aveva quasi fatta ad arrivare alla Settantanovesima Strada.» Bar-
tucci spostò il portacenere dall'altro lato della scrivania. «Violentata diverse volte, si direbbe. E certamente accoltellata.» Hamilton alzò la testa di scatto. «Qualche somiglianza con...» «Non è il modus operandi del vostro assassino, no. Questo è un fatto casuale. Ha incontrato un gruppo di ragazzi che volevano spassarsela, tutto qui.» Poi Bartucci si portò un dito alle labbra e disse: «Ora zitti, questa è la parte che voglio farvi sentire». «Probabilmente vi chiederete perché l'ho fatto» riprese la voce. «Non scervellatevi, ora ve lo dico io. Voi avete le mani legate, io no. È questo che mi fa impazzire di felicità. Quei figli di puttana che ho fatto fuori per voi stanotte non potevano fermarmi, anche se ci hanno provato. E neanche voi riuscirete a fermarmi. Anzi, non perdete tempo a provarci. La cosa migliore per voi è far sapere alla città quel che segue e dichiarare che sono stato io a dirlo: Sono qui, gente. Mi aggiro per le strade. Vado in cerca dei ladruncoli e degli stupratori e degli assassini. Vado in cerca dei rapitori, dei papponi e dei teppisti. Quando li trovo li ammazzo e non perdo un solo secondo di sonno pensando a quel che ho fatto. PER I CRIMINALI, DA OGGI IN POI NON PIÙ PAROLE, MA FATTI! Sono stato chiaro?» Tre secondi di silenzio scesero sulla stanza: una pausa melodrammatica sul nastro, un silenzio attonito da parte dei tre agenti. «Ho anche un messaggio speciale per Rizzo e Hamilton, gli agenti assegnati al caso del cosiddetto Assassino Sorrisino. Sbrigatevi a prenderlo se volete portarlo davanti a un tribunale. Io no. Lo voglio tutto per me.» Seguì il rumore della linea telefonica che veniva interrotta e Bartucci fermò il nastro. «Allora, che cosa ne pensate?» domandò. Hamilton guardò fisso Rizzo. Rizzo sapeva quello che il collega stava pensando. Si rifiutò di prendere in considerazione il significato di quello sguardo. «Credo» disse Rizzo «che questo figlio di puttana sia un pazzo scatenato.» «Questo è poco ma sicuro. C'è una cosa, però: è in gamba.» Bartucci si alzò, fece qualche passo e poi si fermò. «Sapete, ne ho vista di merda nella mia vita, a carrettate, ma questa storia le batte tutte. Alcune delle cose che ha fatto non riusciamo proprio a spiegarcele. Ci sta facendo uscire pazzi.» «Per esempio?» chiese Hamilton. «Per esempio i ragazzi bruciati vivi, per cominciare. Erano sei, neri co-
me l'arrosto che ha fatto mia moglie la settimana scorsa. Dal laboratorio abbiamo saputo in via riservata che non è stata trovata traccia delle sostanze che potrebbero aver provocato le fiamme. Niente benzina, niente cherosene, niente fosforo, niente napalm, niente di niente. E a peggiorare le cose, pare che i corpi presentino delle ustioni uniformi. Come se il fuoco fosse divampato contemporaneamente in ogni parte del corpo. Mi seguite?» Rizzo e Hamilton non lo seguivano. Sui loro volti era comparsa la stessa, identica espressione di totale incredulità. A bocca aperta e scuotendo la testa, sembravano seguire le indicazioni di uno stesso coreografo. «Ma non ha senso...» cominciò Rizzo. «Proprio così. Non c'è niente che abbia senso in questa storia. Prendete quel ragazzo che è morto di paura: pare che sia successo proprio questo. Sul suo corpo non c'era nemmeno un graffio. Oppure pensate a quel tizio che abbiamo trovato nel Ramble con la parola STUPRATORE incisa in mezzo a quella sua cazzo di fronte. Un ferro rovente non sarebbe bastato. E non sono stati usati neppure coltelli o bisturi. Non ho mai visto un raggio laser all'opera, ma immagino che possa fare qualcosa del genere.» «Che cosa intendi dire?» chiese Rizzo. «Che quel figlio di puttana ha una pistola a raggi laser?» «Non lo so quello che sto dicendo! Riporto i fatti che abbiamo accertato, ma non so cosa significano!» Bartucci si oscurò in viso e i suoi quattro menti iniziarono a tremolare. Poi capì che se la stava prendendo con la persona sbagliata, e una risatina di sgomento imbarazzato gli contrasse le labbra. «Scusate. Non lo so. Non pensavo a una pistola a raggi laser. Se ne possiede una, ci troviamo davanti a qualcosa che non abbiamo mai affrontato prima. E comunque questo non spiegherebbe... no, basta. È troppo.» Si interruppe e si asciugò la fronte. Presumibilmente gli doleva. Aveva gli occhi pieni di angoscia quando rialzò lo sguardo e aggiunse: «Sapete che cosa significa tutto questo?» Rizzo impiegò un secondo prima di rispondere. «Hai saputo delle bombe, vero?» «Sì, sulla Quarantaduesima.» Il mento di Bartucci vibrò tutto mentre annuiva. «Significa che questa città sta impazzendo.» «Proprio così» intervenne Hamilton. «Ma le bombe sono un'altra storia. Questo vigilante, invece, sembra che si senta provocato dal nostro assassino. Certo, non si può mai dire...» «Sarebbero una coppia fantastica» sbuffò Rizzo. «Chi sa, forse si incon-
treranno, si ammazzeranno a vicenda e i nostri guai saranno terminati. Secondo me, sono fatti l'uno per l'altro.» L'uno per l'altro. Rizzo sentiva che quelle parole prendevano corpo nella stanza, come se avessero una vita propria. Avvertiva il loro impatto su Hamilton, sentiva il suo collega che si concentrava su di esse con l'astratta tenacia della lingua che va a stuzzicare il dente che duole. E non riuscì a impedire che un brivido di freddo gli attraversasse la schiena... Eroi Era un venerdì mattina soleggiato e fresco. L'inizio di una giornata fatta apposta per sentirsi di buon umore, di quelle che suscitano sorrisi allo stesso modo in cui la pioggia gelata fa uscire in strada le puttane. New York era quindi già di ottimo umore quando si sintonizzò su Good Morning America o andò a comprare il giornale del mattino. Su alcuni attenuò l'impatto del massacro, per altri fu motivo di ulteriore compiacimento. C'era un nuovo eroe in città. Che vi piacesse o no. E lo chiamavano il Vigilante di Central Park. I media non riuscirono a ricavare molto dal legame con l'ispettore Callaghan. Clint Eastwood stava girando un film sulla costa occidentale, quindi il suo alibi era a prova di bomba. Si premurò tuttavia di informare i pezzi grossi delle televisioni e dei giornali che se avessero chiamato quel demente "Vigilante Clint Eastwood", lo avrebbero fatto a loro rischio e pericolo, economico ovviamente. "Vigilante Harry la Carogna" non suonava altrettanto bene. E così a diversi geniacci in varie parti della città venne in mente lo stesso nome, che si diffuse in un batter d'occhio. Evidentemente, la diffusione della notorietà del Vigilante di Central Park significava che il momento era maturo. Tutti parlavano di lui per le strade, in quella splendida mattinata. Riuscì a staccare di molto perfino le trentadue vittime dell'esplosione allo Show World. Il terrorismo anonimo e insensato era una cosa, la reazione eroica tutt'altra. Dominava i titoli dei giornali, i notiziari televisivi, le discussioni negli uffici durante le pause lavorative e intorno ai tavolini del Chock Full O'Nuts. Le interviste all'uomo della strada e i sondaggi venivano consumati freneticamente. Si trattava evidentemente di un evento che coinvolgeva
il grosso pubblico e tutti aspettavano notizie a bocca aperta. Quando apparve l'ultima edizione del Post, correva voce che secondo i sondaggi il settantacinque per cento dei newyorkesi tifava per il vigilante. Era in questa allegra atmosfera carnevalesca che Billy Rowe passeggiava per strada. Non si sentiva così bene da giorni; forse non si era mai sentito così bene. Si crogiolava nella fama e nell'anonimato: senza quest'ultima, non sarebbe riuscito a nuotare immerso fino al collo nella prima. E la sua notorietà era reale, testimoniata dalle televisioni più importanti del mondo. Come erano reali le controversie che suscitava e che accendevano dibattiti furibondi fra persone che non si conoscevano affatto e che ancor meno conoscevano lui. Non aveva a che fare con un gruppo di amici che si sedevano a chiacchierare di quanto fosse bella la sua nuova canzone o di quanto avesse talento. Aveva sfondato. Era innegabile. Era la verità nuda e cruda. E mi amano! continuava a ripetere la sua mente, sgomenta e felice. Mi amano davvero! Era sbalorditivo. Non c'era altro da dire. Era il riconoscimento che aveva sempre desiderato. Fece un plateale inchino all'angolo fra la Quattordicesima e la Terza Avenue, salutando la vernice verde del Carmelita's Social Club. E fu allora che Lisa lo avvistò. «Ehi, straniero!» gli gridò salendo sul marciapiede. «Ci inchiniamo di fronte a Megalopoli, vedo!» Billy alzò lo sguardo, la vide e si illuminò. «Ehi!» le gridò di rimando. «Dimmi tu se non è la bicicletta più brutta di tutta New York!» Ed era vero. Lisa aveva una bicicletta da corsa sverniciata che aveva ridipinto con il tono di verde più vomitevole che si potesse immaginare. Così, insieme a tre dei migliori lucchetti in circolazione e una catena che pesava almeno un quintale, Lisa riusciva a tenere lontani dal suo amato bene le orde di ladri di biciclette. E funzionava. Era uno dei pochi fattorini che non fosse mai stato derubato del suo mezzo di trasporto. L'unico problema era che la bicicletta, per contrasto, metteva ancor più in risalto la sua bellezza. E dava ai buzzurri qualcosa a cui fischiare, un potenziale che raramente rimaneva inutilizzato. Infatti un operaio del cantiere accanto con la testa di un bulldog si avvicinò sbirciandola con malizia, si fermò spudoratamente ad ammirarla e
disse: «Ehi, bambina, come ti butta?» «Bene, tesoruccio» sibilò Billy, fissando l'uomo negli occhi. «E a te?» Gli occhi dell'operaio si fecero di ghiaccio e la sua carnagione virò al marrone. Lisa scoppiò a ridere. Billy continuò a fissare il bulldog negli occhi fino a che l'uomo non filò via tutto vergognoso. «Mio eroe» disse Lisa. «Il piacere è tutto mio, signorina» biascicò Billy alzando la falda di un cappello immaginario. Un minuscolo pizzico del suo Potere e quel tizio se l'era quasi fatta sotto. Dio, quanto si divertiva! «Un lavoretto di ordinaria amministrazione per il Vigilante di Central Park...» proseguì. Poi si fermò. Lisa non sorrideva più e i suoi occhi erano passati a uno sguardo da microscopio elettronico. Era uno sguardo che conosceva bene. Spesso sospettava che quello sguardo attraversasse perfino il piombo: con i suoi meccanismi di difesa, quanto meno, non aveva mai avuto problemi, per quanto Billy li rinforzasse come meglio poteva. In passato quello sguardo l'aveva terrorizzato: Lisa l'aveva beccato a nuotare nella merda, aveva portato a galla cose di cui lui si vergognava. Ci sono poche cose più terribili che essere trasparenti come un libro in mano allo studente più bravo della classe. Ma Billy non era mai stato così spaventato come in quel momento. Non aveva mai avuto tante cose da nascondere. «Dai, santo Dio» sentì la sua voce balbettare. «Sto scherzando!» «No, non stai scherzando» disse lei bruscamente. Billy si sentì avvampare sotto il calore del suo sguardo, sentiva due raggi laser che percorrevano ogni canale e ogni ansa del suo cervello. Le parole se te lo dicessi non mi crederesti risalirono dal profondo della sua coscienza e gli sbucarono fuori dalle labbra prima che potesse fermarle. «Provaci» disse Lisa. Alla fine del primo giro, aveva fatto il nome di Christopher. A metà del secondo giro, se la stava cantando alla grande e tutti i misteri su Billy e Mona erano stati svelati. Lisa si limitava ad annuire, incoraggiandolo a continuare senza dire una parola. Il che era ottimo. All'inizio del terzo giro, Lisa era abbastanza ubriaca e cominciò a parlare anche lei. Guardò il suo amico dall'altra parte del tavolo. Billy non piangeva più, aveva ripreso il controllo di sé, sarebbe potuto essere ancora la persona che
conosceva da poco più di un anno. Ma non del tutto. Perché non era più la stessa persona e lei ormai sapeva troppe cose per non essere costretta ad ammetterlo. C'era una parte di lei che voleva una manifestazione magica (ehi, ragazzino, ora tiro fuori un coniglio dal cappello!) come prova, ma quella parte di lei era completamente travolta dalla consapevolezza che era tutto vero, che il vigilante era proprio Billy, che lui aveva guarito Mona, e che lei non stava diventando pazza. Ma se lo avesse visto fare anche un solo giochino con le carte, sarebbe uscita di testa. «Ehi, viso pallido» disse Billy dolcemente, attirandola a sé con lo sguardo. «Di' qualcosa. Avanti. Io ti ho detto tutto, ora tocca a te.» «Billy...» «Billy Lilly Trilly Frilly» la prese in giro lui, smussando la tensione con l'umorismo. «Giochiamo pulito. Il minimo che puoi fare è dirmi quello che provi.» «Non lo so quello che provo» disse lei sinceramente. «Insomma, mi hai appena raccontato la storia più incredibile che abbia mai sentito. Avevo dei sospetti, ma non potevo immaginare una cosa così incredibile. Non so che cosa pensare! Io...» «Non pensare. Parla e basta. Se io avessi continuato a pensare, le tue domande non avrebbero mai avuto una risposta. Se tu continui a pensare, io dovrò tenere per me le mie domande per il resto della vita.» «Oh, Billy. Io...» Billy aveva ragione, ovviamente, ma questo non cambiava minimamente quello che lei provava. «Io... devo saperne di più.» «Ah sì?» Billy aveva scritto piantala a lettere cubitali sulla faccia. «Di che altro hai bisogno, Lisa? Non c'è più un solo angolo della mia anima che non abbia masticato per poi sputarlo fuori.» «Devo sapere in che direzione sta andando questa storia.» Capì che erano quelle le parole giuste nel momento stesso in cui le diceva. La rendevano più forte, più sicura del luogo in cui si trovava e del motivo per cui era lì. «Ho bisogno di avere qualche indicazione sul modo in cui stai pensando di indirizzare il tuo destino. Credi che sia sufficiente ripulire le strade o pensi di spingerti più lontano?» Fu Billy, questa volta, a rimanere in silenzio. Non era un male. Dava modo a Lisa di cercare di rimettere in funzione le proprie facoltà raziocinanti. «È questa la tua idea di eroe?» aggiunse prima che Billy riuscisse a ri-
spondere alla prima serie di domande. «Un eroe» disse lui in modo conciso «è qualcuno che è disposto a rischiare ogni cosa per quello in cui crede e per coloro che ama.» Il suo tono stava cambiando, si era fatto più aspro. «Ma da quello che mi hai detto» ribatté Lisa «tu non rischi un cazzo. Non c'è niente che possa farti del male. Niente che possa ucciderti. Non hai niente da perdere...» «SOLO LA MIA ANIMA IMMORTALE DEL CAZZO!» gridò lui di rimando. «E LA VITA DI COLORO CHE AMO! NON DIRMI CHE NON È NIENTE, PER DIO, PERCHÉ È QUALCOSA CHE MI SENTO ADDOSSO FIN DA QUANDO QUESTA CAZZO DI STORIA È COMINCIATA!» Si accorse che stava gridando e tacque bruscamente. «Scusami» disse Lisa prima che potesse farlo Billy. «Non avevo intenzione di esasperarti.» Billy non disse nulla. Si limitava a guardarsi le mani, chiuse in un unico pugno, sul tavolo davanti a sé. Aveva un'aria talmente amareggiata, talmente tesa che Lisa si sentì struggere fino alla punta delle dita. Con la massima delicatezza si sporse attraverso il tavolo e strinse le mani di Billy nelle sue. Gli occhi di Billy si chiusero e un lieve sorriso comparve sul suo viso. Era un sorriso pieno di angoscia. Lisa sapeva quello che Billy voleva dire. Una lacrima da parte di uno di noi, le disse una voce soffocata nella mente, e temo che perderemo completamente la testa. «Sai cosa vorrei?» disse Billy spezzando il silenzio con voce sommessa. «Vorrei che al mondo non esistesse il male. Non puoi sapere come stavo bene qualche giorno fa...» Rise e scosse il capo. La voce gli si spezzò in gola. «Avrei potuto passare il resto della vita a suonare, a guarire gente rovinata dalla vita e a rotolarmi nel letto con Mona per nottate intere. Sarebbe stato stupendo. Sarebbe stato fantastico. «E invece no. Dio doveva creare il male, il che, se ci pensi, è stata proprio un'idea di merda. Mi viene da ridere quando i cristiani parlano di Adamo ed Eva e di come quell'orribile Serpente arrivò a rovinare tutto. Chi credono che abbia creato il serpente, cazzo? Era tutta una messinscena!» «Anche il Diavolo contribuisce al piano del Signore» aggiunse Lisa. «Non ti viene voglia di sapere qual è questo piano?» «A me sì.» «Io credo, a dire la verità, che Dio sia completamente schizofrenico. La sua creazione è in conflitto perché Dio si trova in costante conflitto con se
stesso. C'è una guerra in corso nella mente del Creatore e noi siamo tutti coinvolti.» «E quindi noi dove saremmo, nel piano divino?» «Proprio in mezzo al campo di battaglia.» I loro sguardi si incrociarono e le loro labbra si sorrisero. Era un sorriso come quello che si possono scambiare soltanto due spiriti simili, in comunione con la fiamma. «Ora mi sento molto meglio. Grazie» disse infine Billy. «Lo stesso vale per me, amico. Mi sento molto meglio anch'io.» «Avevo un bisogno disperato di parlare con un altro essere umano.» «Eccomi qui!» «Ma ho una paura terribile. Quello che sai...» «Niente lobotomie psichiche, per favore» lo interruppe Lisa. «Sono stata io a volerlo. Avevo bisogno di sapere.» «Ho solo paura che in questo modo diventerai un bersaglio...» «Stammi bene a sentire, Billy. Se sono un bersaglio adesso, probabilmente lo sono sempre stata. Non cambia niente.» «Ma...» «Se avrò a che fare con roba di carne e ossa, me la caverò.» «Vuoi smetterla di interrompermi?» «Vuoi smetterla di parlare come mia madre, Cristo santo?» disse Lisa ridendo. Ma Billy non rideva. «Sono già un bersaglio, se è così che mi vuoi chiamare, perché mi sto prendendo cura di Mona. E ucciderò chiunque o qualunque cosa tenti di farle del male.» «Ci credo.» «Fai bene a crederci.» Sorrise. Lui ci provò. «Sul serio, Billy, non considerarmi una handicappata. Io so combattere. E nella grande lotta fra il Bene e il Male, io sono dalla tua parte. D'accordo?» Silenzio. «D'accordo?» ripeté Lisa. Le mani di Billy non erano più intrecciate, ora si erano strette a quelle di Lisa. Senza dire una parola, le portò tutte e quattro alle labbra e baciò quelle che non erano le sue. «Ti voglio bene, Lisa» disse. «Anch'io ti voglio bene» disse Lisa con voce rotta. Sentiva il Potere scorrere fra loro. Ed era bellissimo. «D'accordo» disse Billy.
Terra bruciata Erano le otto e un quarto quando Billy tornò a casa. Tre boccali di Beck's lo avevano reso svagato, sentimentale e curiosamente in pace con se stesso. Notò con piacere, per esempio, che Roxie la puttana non era al suo posto, al solito angolo. E anche l'auto è vuota. Brava ragazza, rifletté Billy girando la chiave nella serratura del portone. La porta si aprì, consentendogli di accedere all'atrio olezzante di orina e a un'altra porta. Era buio e putrido e orribile lì dentro, come sempre. Quando si stava in quell'atrio, ci si sentiva come un pezzo di sapone in una latrina. Senza dilungarsi troppo aprì la seconda porta ed entrò in un corridoio più luminoso e meno fragrante. Dove un altro odore lo colpì, acre e pungente e impercettibile a un naso comune. Che cazzo sarà? si chiese la sua mente. Sapeva per istinto che stava per capitargli fra capo e collo qualcosa che esulava dalla sfera della normalità. Il Potere fremeva in lui. Fece un passo verso luoghi più salubri e si fermò con la testa dritta e le narici bene aperte per cercare di comprendere da dove veniva quell'odore. Ma non ci riuscì. Gli ricordava però qualcosa che era successo subito prima di incontrare Lisa, quando era passato davanti al Variety Photoplays. Aveva avvertito distintamente una folata di qualcosa, in quel momento. E anche se non era uguale a quella che avvertiva adesso, fra quei due odori c'era una certa somiglianza. Non sembravano reali. Ed erano immondi... L'odore rimase un mistero. Sapeva soltanto che c'era, che era strano e che era importante. Proseguì lungo il corridoio con tutti i sensi all'erta, mentre il suo incontro con Lisa gli passava completamente di mente. Sulla parete alla sua destra, a lettere maiuscole, lesse le parole AFFOGHIAMO ALBERT NEL SUO SANGUE SCHIFOSO incise con adeguata cura maniacale. Billy sorrise: mai furono scritte parole più sensate. Era una delle cose migliori che Larry avesse mai fatto. Dio avrebbe dovuto salvare la sua anima solo per questo... Nella sua mente cominciarono a risuonare dei campanellini. Albert. DING! Il pensiero e il suono erano una cosa sola. Come se il suo
cranio fosse diventato un flipper: la pallina argentea era la sua coscienza, i flipper erano la volontà e la verità faceva DING ogni volta che segnava un punto. Larry. Ding! La puzza. DING! DING! DING! «Bonus» annunciò al corridoio, al quale non poteva fregare di meno. Una forma mostruosa iniziava a profilarsi nella sua mente. Non riusciva a comprendere ancora che cosa fosse, ma sapeva che non indicava niente di buono. L'affitto, pensò. E nella mente risuonò un DING! Ma c'era qualcosa di più e Billy lo sapeva. C'era un bonus ancor più ricco che lo aspettava e che doveva ancora beccare. Ci girò intorno mentre arrivava in fondo alle scale, ma senza successo. In quel punto l'odore si diramava in due direzioni diverse. Lungo il corridoio, verso la porta di Albert. E su per le scale, verso la sua porta. DING! DING! DING! «Bene» mormorò Billy, accettando la sfida. Mentre il Potere si addensava, la sua mente esaminò rapidamente le varie possibilità. Il solo appartamento a piano terra era quello di Albert, di questo era certo. C'erano dodici appartamenti sopra di lui, uno solo dei quali era il suo, e ognuno di essi poteva celare la chiave del mistero. Ma l'odore si fa più forte salendo, lo informò la sua mente e un campanello cominciò a suonare. Iniziò a salire le scale, cercando di visualizzare quei pochi vicini che conosceva. Non ci riusciva, ma non aveva importanza. Nella sua mente non squillava alcun campanello e questo lo rassicurava. Seguì la traccia lungo le scale. Per certi versi non fu affatto sorpreso quando si accorse che portava proprio davanti alla sua porta. Larry non era al culmine della felicità quando Billy entrò in casa. Aveva una borsa piena di cubetti di ghiaccio premuta sull'occhio sinistro, che era ancora gonfio e dolente. Con il destro osservava la carneficina. «Arrivi in tempo, stronzo» disse con notevole freddezza. «Perché non rompi una bottiglia di champagne sulla porta? Questo disastro bisognerebbe dedicarlo a te.»
Non si accorse dell'aria stravolta del suo compagno di casa. Quel poco di cui si rese conto lo attribuì allo stato dell'appartamento. Dio sapeva come si era sentito stravolto lui dopo essere rientrato a casa. «Cosa è successo?» disse Billy. Era quasi un bisbiglio. «Ora te lo racconto» rispose Larry con un certo sarcasmo. «Cosa ne diresti di una visita guidata al campo di battaglia? Così ti renderai conto esattamente di quel che è successo.» Afferrò per le spalle il suo compagno di casa e lo spinse verso la porta della camera. «Fai conto che siamo in gita scolastica. Sarà come tornare studente.» La cucina che stavano attraversando era in condizioni pessime: tutti i piatti e tutti i bicchieri erano stati buttati per terra e fatti a pezzi, la porta del frigorifero era aperta e il suo contenuto era stato sparso fra i frammenti dei piatti e le schegge dei bicchieri. Ma quando Billy entrò in camera di Larry, dentro la quale venne spinto a forza, si accorse che, in confronto, in cucina non era successo niente. «Oddio!» mormorò Billy. «Che idea!» rispose Larry con un sibilo di disprezzo. «Forse se ci mettiamo a pregare, la casa tornerà a posto da sola! Che te ne pare?» Il suo modo di fare era crudele. Ma Larry se ne fregava. Gli bastava dare un'occhiata a quello che era successo e ogni senso di solidarietà nei confronti di Billy si disperdeva come elio da un dirigibile forato. Non era un sentimento del tutto ingiustificato. Gli bastava soltanto un'occhiata. Larry si era costruito un letto soprelevato: la stanza era più alta che lunga ed era conveniente sfruttare il più possibile l'altezza. Un tempo. Ora non più. Larry si era costruito anche un impianto stereo che valeva un migliaio di dollari, ovviamente non assicurato. Neanche questo esisteva più. I supporti in legno che sostenevano il letto erano stati completamente distrutti. Quando il letto era crollato al suolo, era andato distrutto anche tutto quello che c'era di sotto. Compreso lo stereo, tutti i suoi dischi e qualche altro pezzo scelto degli oggetti preferiti di Larry Roth. «Tutto questo non mi rallegra affatto» disse Larry, a rischio di sembrare ovvio. «Immagino che sia duro da mandare giù. Ma non hai ancora visto il meglio.» Fece voltare Billy, lo guardò dritto negli occhi e si tolse la borsa di ghiaccio. Intorno all'occhio sinistro era comparso un arcobaleno tendente al viola,
con il rosso e il blu come colori primari. Non era carino come potrebbe sembrare dalla descrizione ed esteticamente Larry non ne era soddisfatto. «Ecco cosa succede quando ci si ritrova indietro di tre mesi con l'affitto» disse sperando di chiarire ulteriormente con la sottigliezza il punto che più gli stava a cuore. «Quanto cazzo mi dispiace che non sia successo a te.» «Che cosa è accaduto, esattamente» disse Billy. Non era una domanda. E il tono era un po' troppo gelido per i gusti di Larry, al momento. Poco adatto alle circostanze. «Adesso te lo spiego» disse Larry con una smorfia. «Torno a casa alle sei e mezzo. Trovo Albert in fondo alle scale che discute con un piccoletto, un portoricano tutto imbrillantinato. Tutti e due cominciano a fissarmi e io chiedo se c'è per caso qualcosa che non va. «All'improvviso un cazzone mi prende da dietro.» Mimò la presa del cazzone. Sembrava spaventosa. «Cerco di divincolarmi ma non ci riesco. È allora che Albert mi domanda dove sono i soldi dell'affitto. «Io gli do la mia parte, ma non basta.» Larry si interruppe per sottolineare quello che aveva appena detto. «Allora quello grosso mi costringe a voltarmi e mi dà un pugno nell'occhio e poi tutti e tre si dirigono verso l'appartamento di Albert.» «E tu sei salito quassù...» proseguì Billy per lui. «Ed ecco quello che ho trovato» concluse Larry. «Quei figli di puttana erano già passati e hanno ridotto la casa in questo stato.» Si interruppe per deglutire. «Vorrei proprio che facessero anche a te la metà di quello che hanno fatto a me.» Billy aveva uno sguardo strano: in parte era uno sforzo di comprendere Larry, in parte era odio. Larry sentì il gelido punteruolo del terrore scavare un buco dentro di sé, invisibile come la fonte di quel terrore stesso. Istintivamente si ritrasse quando Billy gli passò accanto e si diresse verso la sua stanza. Ma che cazzo? si chiese la sua mente con una voce sottile e acuta, ma la bocca non riuscì ad articolare quelle parole. Il terrore che lo aveva colto era improvviso, nitido e assoluto: la pallottola di un cecchino, venuta dal nulla, che lo faceva secco prima che avesse il tempo di accorgersi di quello che stava succedendo. Poi Billy sparì nella sua camera e il terrore di Larry divenne un ricordo sordo che gli riecheggiava nella mente, ma almeno gli permetteva di riprendere a far girare le rotelle, di pensare a quello che era successo. Ma questo generò soltanto un'altra ondata di terrore, diversa dalla prima,
che gli rosicchiò l'anima. Billy non è a posto, sentì dire dalla sua stessa voce. Billy è uscito di testa. Guardò la serratura alla porta d'ingresso e una nuova ondata di soffocante impotenza lo travolse. La serratura serviva per tenere lontani i pazzi. Ma se i pazzi avevano le chiavi... Un sordo gemito si levò nella quiete mortale che aveva avvolto l'appartamento. Un suono bestiale. Di dolore. Larry sentì i peli che gli si rizzavano sul collo mentre il gemito si faceva più forte e più acuto. Veniva dalla camera di Billy. Veniva da Billy. Mio Dio, pensò Larry scrutando istintivamente fra i detriti in cerca di qualcosa da usare come arma, senza riflettere su quel che implicava quel gesto. Poi Billy scoppiò a ridere. Stranamente, quella risata assomigliava molto a un grido. Ma era peggio. Avevano fatto a pezzi i suoi dischi. Fu questa la prima cosa che vide. Tutti i suoi vecchi album di Hendrix, dei Beatles, degli Airplane e dei Dead penzolavano fuori dalle loro copertine distrutte, ridotti in frammenti grandi come delle fette di torta. Il pavimento ne era sommerso. Le casse che li contenevano erano state prese a calci e di una rimanevano soltanto delle schegge di legno. Non aveva molta importanza, ormai. Nella stanza non era rimasto più niente da metterci dentro. Era stato allora che aveva iniziato a lamentarsi. Ma non era quello il motivo del suo lamento. Era l'odore che c'era nella stanza, che appestava invisibile l'aria, violento come gas esilarante e rancido come il buco del culo di un morto. Gli bruciava nelle narici, gli faceva lacrimare gli occhi. Le pareti si rigonfiarono come in un incubo, un'allucinazione videodromica. Nelle grinfie di quella visione, il lamento cominciò a crescere d'intensità. Fece un altro passo nella stanza. Quasi tutto il resto era rimasto intatto. Seguì il naso più degli occhi e arrivò alla scrivania, dove il fetore era insopportabile. C'erano alcune fotografie sparse sul piano della scrivania. La prima su cui gli cadde l'occhio era quella di Mona (DING! DING! DING!) e immediatamente comprese che cosa significava quella puzza, capì per-
ché lo aveva trascinato fino a lì. La forma orribile si era fatta ormai nitida ed era peggio di quel che poteva immaginare. Ma era anche splendida. Indicibilmente, perfettamente splendida. Ed era stato allora che aveva cominciato a ridere. «Bastardi» disse inframezzando le parole con singulti di fredda gioia. «Dio, sei stato buono con me» aggiunse e poi si diresse nuovamente verso la cucina. Larry era ancora lì, in piedi al centro della stanza. Aveva una sgradevole espressione pusillanime sul viso. Sobbalzò quando Billy comparve sulla porta, e il suo occhio sano si spalancò. «Sei riuscito a cogliere i nomi» iniziò Billy «dei due cortesi galantuomini che accompagnavano Albert?» A parte la differenza di altezza e la mancanza di pelo, in quel momento Larry assomigliava moltissimo a Bubba quando veniva sorpreso a defecare sul pavimento. Billy si mise a ridere. Larry taceva. «Suvvia, amico mio» continuò Billy sbarazzino e gioviale. «Pensaci per un momento. Non è che per caso hai sentito i nomi di quei due?» L'espressione di Larry rimase immutata, ma fece un minuscolo passo all'indietro. Ragazzo mio, hai un coraggio da leone, pensò Billy. Non espresse questo pensiero ad alta voce, ma ridacchiò un po' mentre lo sentiva risuonare all'interno delle sue orecchie. «Allora, ti farò un'altra domanda» insisté. «Hai detto che si trattava di un portoricano piccoletto e con i capelli imbrillantinati. Non è che per caso aveva due baffetti ridicoli?» Larry annuì muovendo lentamente il capo. «Adesso concentrati bene. Non è che per caso il suo nome era Rickie?» L'occhio sano di Larry si spalancò ulteriormente. Quindi Larry annuì di nuovo. «Ah!» disse Billy sorridendo. Era soddisfatto. La domanda successiva ormai era quasi inutile. «E il grosso. Quello grosso. Non ti pare che si chiamasse...» «Rex.» La parola che uscì dalla gola di Larry era quasi impercettibile. Ma quel balzo della sua memoria gli accese una strana luce negli occhi: anche quello pesto brillava come se Larry avesse iniziato a comprendere qualcosa e un mucchio di domande inespresse presero forma in quel bagliore. «Rex» ripeté. E Billy sorrise. «Ora vado a liquidare Albert» disse. La mano gli scivolò in tasca e rie-
merse con un enorme mazzo di banconote. «Gli darò tutto quello che gli devo. Poi penso che sistemerò i suoi scagnozzi. Che te ne pare del progetto?» «Billy...» cominciò Larry. Le domande inespresse iniziavano a prendere forma. Ma Billy non aveva la minima intenzione di rispondere. Aveva semplicemente un'altra cosa da dire. «Zitto. Ascolta. C'è una cosa che voglio che tu abbia ben chiara in mente.» Si avvicinò a Larry. Larry indietreggiò. Billy gli arrivò quasi addosso. Larry avvertiva quasi il morso affilato dei suoi denti. «Non provocarmi più, hai capito?» disse. «Non provocarmi, non rompermi le palle, non alzare più la tua vocina. Potresti pentirtene amaramente se lo fai, te lo dico in tutta sincerità.» Poi si voltò, lasciando il suo compagno di casa tutto tremante in mezzo alle macerie, si diresse verso la porta e uscì dalla stanza. Albert Il tutto durò meno di dieci minuti. E andò così: Albert era a letto, il corpo nudo e obeso sdraiato sopra le lenzuola. Nella luce azzurrina della televisione le sue tonnellate di ciccia zuppe di sudore avevano assunto una sgradevole lucentezza. Aveva un sacco di peli sul corpo, gran parte dei quali appiccicati alla pelle per lo sforzo e per il caldo. Aveva appena finito di scopare e puzzava. Albert sguazzava nei suoi effluvi come un porco in mezzo al fango. Per una felice coincidenza, Cinemax aveva programmato Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan come film di punta del venerdì notte. Gli omicidi del vigilante avevano portato alle stelle la loro quota di spettatori. Generalmente Albert guardava invece Knight Rider. Clint stava facendo fuori il primo giovane sbirro traditore quando la porta dell'appartamento di Albert si spalancò. Albert sobbalzò e si sedette sul letto. Afferrò il cuscino dietro di sé, usandolo per coprirsi le parti intime. I suoi occhi, mentre si voltava verso la porta, erano enormi e sbarrati. «Salve» disse Billy lasciando che la porta gli si chiudesse alle spalle. «Credo di essere in debito con te.» Albert passò dalla paura alla rabbia nel tempo che impiega l'ala di una
mosca ad alzarsi e riabbassarsi. «Che diavolo ci fai qui?» domandò. «Non vuoi quello che sono venuto a portarti?» disse Billy sorridendo. Avanzò di un altro passo. Albert era in preda alla confusione più totale. Un fiotto di paura lo attraversò nuovamente. Quel sorriso non gli piaceva e il fatto di essere nudo come un verme lo poneva in uno stato di netto svantaggio. «Come hai fatto a entrare?» domandò di nuovo, stavolta meno bruscamente. «Passando per la porta. Credevo che mi avessi visto.» «Ma...» «Voglio farti io un paio di domande, se non ti dispiace. E credo che risponderai senza fare storie.» «Stammi a sentire, brutto stronzo!» muggì Albert. «Non ne posso più di sentire le tue cazzate. Che cazzo fai, entri qui dentro senza nemmeno bussare e poi cerchi di intimortirmi? Ma vaffanculo! Fuori dalle palle!» Aveva detto: «Fori dalle palle» con un pessimo accento spagnolo. Anche il verbo intimortire non era male. Billy scoppiò a ridere. «Sarà meglio che ti infili le mutande prima di cominciare a blaterare ordini a destra e a sinistra. È difficile prenderti sul serio.» Albert avvampò. «Certo, prenderti sul serio è sempre stato difficile.» «Fori dalle palle!» Con la tozza mano destra indicò la porta mentre con la sinistra si teneva stretto il cuscino. Il corpo nudo era tutto rosso e sussultava. Dall'imbarazzo. E dalla rabbia. Billy fece ancora qualche passo nella stanza. Ora non sorrideva più. «Hai accompagnato un paio di tipi nel mio appartamento poco fa. Voglio sapere chi sono. Voglio sapere dove abitano.» Albert fece sfoggio del suo famoso ghigno. «Non puoi provare niente.» «Non c'è niente che devo provare. So già tutto, voglio solo un paio di nomi e di indirizzi. E subito.» «Non so di cosa stai parlando!» «Non prendermi in giro, Albert, o ti rovino.» Albert assunse un'espressione sbalordita. «Mi stai minacciando, per caso?» «Direi proprio di sì, non ti pare?» Il grasso padrone di casa ora sudava ancor più copiosamente. Strisciò lentamente all'indietro per tutta la lunghezza del letto. Si sentì un rumore dal bagno. Roxie. Albert pensò che con un salto sarebbe riuscito a raggiungere il bagno per tempestare di pugni la porta. Ci pensò ancora. Billy
era sempre più vicino. Ci pensò sopra un'altra volta e fu troppo tardi. «Se mi tocchi, figlio di puttana, ti farò diventare un mucchio di carne marcia!» Aveva un tono stridulo e gorgheggiante. Molta apparenza ma ben poca sostanza. Furono però le parole a colpire Billy. Si fermò di colpo, con lo sguardo perso nei propri pensieri. Un sorriso gli illuminò lentamente il viso. «No, no, caro mio» disse senza scomporsi minimamente. «Sarai tu a diventarlo.» E toccò lievemente Albert sulla fronte. Il padrone di casa strillò. Il buffetto sulla fronte era stato più leggero di una farfalla, ma aveva sentito una scintilla, come se Billy gli avesse acceso un fiammifero sulle rughe della fronte. E con orrore notò che la pelle della fronte e la punta delle dita sembravano sciogliersi l'una nelle altre, soffici e cedevoli come prugne ammaccate. Strillò nuovamente. «Sei morto» disse Billy. «Ancora non lo sai, ma sei un cadavere che parla e cammina. Verifica tu stesso.» Sullo schermo Harry Callaghan era coinvolto in un'impegnativa sparatoria. Dal bagno venne un fievole piagnucolio. Con uno scatto secco, Billy tirò via da un dozzinale comò di legno uno specchio largo un metro e mezzo e alto una sessantina di centimetri. Ma lo schianto venne soffocato dalle grida che continuavano mentre una scarica crepitante attraversava il corpo di Albert, avvolgendogli la testa e sfrecciando attraverso le sue spalle per poi saettare lungo le braccia o giù per i fianchi. Non era tanto il dolore quanto la sensazione che il suo corpo si stesse addormentando: lo strano torpore formicolante che gli percorreva il torace, che aggrediva i genitali, che si faceva rapidamente strada lungo le gambe. Il fetore nella stanza iniziò lentamente a peggiorare. «Verifica tu stesso» ripeté Billy tenendo lo specchio sollevato. Albert si vide. E cominciò a urlare sul serio. Perché stava marcendo, la pelle diventava bianca e verdastra e viscida per qualcosa che non era soltanto sudore. Dei grossi lividi gli si stavano formando sul sedere e sulle cosce: il sangue vi stagnava, violaceo e disgustoso. Un sapore ripugnante si era posato sulla sua lingua. Sapore di putrefazione. Sotto i suoi occhi il colore verdastro si fece sempre più evidente. «NOOOO!» ululò ma lo sforzo si rivelò in breve estenuante. I suoi mu-
scoli non funzionavano come avrebbero dovuto e gli sembrava che la saliva fosse scomparsa all'improvviso. La carne incominciava a gonfiarsi, a dilatarsi, come una carcassa abbandonata lungo la strada sotto un sole estivo. E impietoso. «Bene, mio caro amico» disse Billy, tenendo saldamente in mano lo specchio. «Dimmi quei nomi. Dimmi dove posso trovarli. Forse invertirò il processo. Forse.» Albert faceva fatica a concentrarsi. A giudicare dall'immagine allo specchio, sembrava che la carne avesse cominciato a raggrinzirsi. Il suo stomaco si dilatava come se fosse stato orribilmente gravido, centimetro dopo centimetro. Distolse lo sguardo da quell'immagine d'incubo, con gli occhi fuori dalle orbite fissi sulla porta del bagno. Era la sola porta chiusa dietro la quale riparare. Era la sua unica possibilità nell'inferno in cui stava rapidamente sprofondando. «Roxie!» cercò di urlare, ma uscì solo un borbottio confuso. Si alzò in piedi barcollando e si diresse verso la porta del bagno, mentre il cuscino gli cadeva dalle mani. Il deteriorarsi dei suoi meccanismi interni influenzava fortemente il controllo motorio. Riuscì a stento a trascinare la sua mole fino alla porta e picchiarci contro con i pugni. «ROXIE!» gridò a squarciagola. Piangeva senza più lacrime, ormai. Le sue mani rimanevano attaccate alla porta mentre la colpiva, poi si staccavano con un suono molliccio. Chiazze melmose rimanevano attaccate alla superficie del battente. «Roxie» disse la voce dietro di lui, avvicinandosi sempre più. Sembrava quasi malinconica, come se all'improvviso fosse venuto in mente a Billy il piatto preferito della mamma, quello che lei gli preparava sempre. Sì, proprio così. Sembrava quasi affamata. Roxie Wray, un fiorellino di rosa anche se il suo nome era leggermente diverso, se ne stava tutta nuda, rannicchiata nella vasca da bagno, quando la porta volò via dai cardini. Non si piegò né si sfondò come se qualcuno l'avesse spinta da fuori, e non crollò neppure al suolo. Esplose per tutta la stanza come se fosse stata colpita da un proiettile di cannone, si schiantò contro la parete di fronte e poi crollò al suolo. Sulla
sua scia penetrò nel bagno una terribile raffica di vento rancido e nauseabondo che la colpì alla schiena. Poi Albert entrò barcollando nel bagno. Nell'accecante luce fluorescente della stanza, il brulichio sulla pelle di Albert apparve ora chiaramente per quel che era. Tutti i vermini bianchi che si dimenavano dentro e fuori risaltavano nettamente sulla sua mole sempre più scura. Roxie strillò e strillò e strillò, consumata dall'orrore. I suoi occhi fuori dalle orbite, involontaria parodia di quelli di Albert, si fermarono sull'immagine di quest'ultimo, riflessa nello specchio del bagno. La lingua infestata dai vermi sporse come un orribile lampone penzolante mentre Albert provava a emettere un grido privo di fiato. Quel che uscì dalla sua bocca fu soltanto un gorgogliante rantolo di morte. Poi piombò sulle mattonelle con uno schiocco umidiccio. E qualcun altro entrò nella stanza. Oh, no, sussurrò la sua mente. Oh, no. Oh, no. La presenza del ragazzo coronava l'incubo. Le parole Va' e non peccare mai più ondeggiarono attraverso la sua coscienza con una voce che non era la sua. E lei era lì e aveva peccato ancora: un peccato odioso che detestava, che le era stato imposto con la forza e con le minacce da quel testa di cazzo di Albert e da quell'altro testa di cazzo di Cool... «SONO STATI LORO A COSTRINGERMI!» strillò e poi la raffica la colpì nuovamente e il calore crepitante si infranse contro la sua pelle... Billy si fermò. Non era facile. C'erano troppe cose da considerare. Primo, lei era una testimone. Secondo, lui l'aveva toccata e lei lo aveva deluso e la delusione lo rendeva furioso. Terzo, il Potere scalciava e impazzava dentro di lui. Non gli interessava chi avrebbe colpito. Billy comprese con disgustata certezza che il Potere desiderava soltanto uscire fuori. Billy si fermò, deglutì la palla che stava rotolando fuori di lui e la rispedì al suo posto. È solo una vittima, gli ricordò la sua mente. Non dovresti ucciderla. Dovresti salvarla. Immaginò Albert che la costringeva con la forza a scopare con lui e l'idea era molto più ributtante della massa putrida e fumante sul pavimento. Roxie stava farfugliando la sua storia. Billy la ascoltò con gelido distacco. Diceva che lei ci aveva provato a opporsi, ma Cool l'aveva punita fa-
cendola lavorare nel sedile posteriore della Rambler e lei Albert non lo poteva vedere ma non poteva rifiutarsi di andare con lui perché Cool l'avrebbe pestata a sangue e si fermò a mostrare a Billy i lividi, qui e qui e qui, e si puntava un dito contro la schiena e contro le cosce, e lei era lì contro la sua volontà e per favore, non la doveva ammazzare... «Quindi, tu Albert non lo potevi soffrire, esatto?» le chiese. Roxie scosse il capo energicamente, ricacciando indietro le lacrime. «E non racconterai niente a nessuno.» «No» piagnucolò, continuando a scuotere il capo. Il pensiero di Billy andò per un momento ai seicento dollari che aveva ancora in tasca. «Doveva pagarti qualcosa?» Una crosta di odio si aprì in fondo a lei e il sangue le salì al viso. Forse aveva capito che Billy non l'avrebbe uccisa e la sua voce si fece più sicura. «Lui è il proprietario del palazzo di Cool. L'ho dovuto fare gratis.» Piangeva ancora, ma le sue labbra si piegarono in un ghigno. Sollevò lo sguardo incrudelito fino a incontrare quello di Billy e disse: «Sono contenta che sia morto». Billy sorrise a denti stretti e ficcò la mano in tasca. Divise il mucchio di banconote in due parti uguali porgendone uno alla ragazza. «Rivestiti e vattene da questa cazzo di città» disse. «Torna a casa, se ce l'hai. Vattene in California a goderti il sole. Eccoti dei soldi, poco più di trecento sacchi. Vattene da questa merda. A Cool penserò io.» Lo sguardo di Roxie vagava dal denaro a Billy e ritorno. I suoi occhi erano ancora umidi e spalancati, ma non per il terrore. Rabbrividì: il suo sistema nervoso centrale era sovraccarico. «Grazie» balbettò. «Grazie a Dio. Grazie a Dio.» «Svelta» disse Billy. Non riusciva a credere alla propria freddezza, al distacco che provava di fronte alla gratitudine della ragazza e alla propria generosità. Indicò il ventre di Albert gonfio come un pallone e aggiunse: «Pare che il nostro amicò stia per avere un grave attacco di aerofagia. Non credo che sarà piacevole trovarsi qui quando se la lascerà scappare». Roxie annuì e rimase immobile, con il denaro stretto contro il petto. Anche dentro di lei qualcosa era diventato freddo. Arricciò il naso in segno di disgusto, fissando la schiena di Albert ornata di vermi e poi gli sparò addosso uno sputacchio sorprendente. Albert sembrò infischiarsene. Billy guardò la ragazza. Ripreso il controllo di sé, era ancora bellissima. Billy si chiese quanto l'avrebbero portata lontana quei soldi, per quanto tempo le sarebbero bastati. Pensò ce ne sono altri uguali a questi.
Le porse l'altra metà delle banconote. «Riga dritto. Trovati un lavoro. Male che vada, vendi il culo a qualcuno che ti paghi per quel che meriti. Ma se ti rivedo lavorare ancora a quell'angolo, finirai per somigliare al nostro amico qui per terra. Chiaro?» Roxie annuì mentre il terrore si impossessava nuovamente di lei. «Questa è una nuova prospettiva di vita. I termini li conosci. Ora vai.» Roxie annuì nuovamente, prese il denaro e si precipitò fuori dalla stanza. Billy non la vide mai più ma l'immagine di lei che flessuosamente usciva dalla sua vita gli rimase per sempre impressa nel cervello. «E ora a noi due» disse rivolto al putridume che si spandeva ai suoi piedi. Si fermò accanto a esso. «A noi due.» Albert era ancora cosciente. Era questa la cosa peggiore in assoluto. La morte del corpo non aveva liberato la sua mente o la sua anima. Non fu facile per Billy chinarsi a toccare la nuca di quella testa in suppurazione. Il fetore era insopportabile, ma la consistenza della pelle era molto peggio. Billy si turò il naso con una mano e allungò l'altra. E seppe tutto ciò che gli serviva. Quando quell'orrore grottesco ebbe finalmente termine, sia Billy che Roxie se ne erano andati da tempo. Non erano trascorsi in tutto nemmeno dieci minuti. Ma Albert continuò a percepire quel che gli stava succedendo ancora per molto, moltissimo tempo. Un posto dove succede qualcosa Era buio all'interno del Variety Photoplays. Proprio come piaceva a lui. Gli uomini soli erano sparsi per tutta la sala, i loro volti chiazze indistinte. Le poche coppie erano sedute in fondo, vicino alla cabina dell'operatore, dove gli uomini pagavano per masturbare o per essere masturbati dai loro compagni. Ovviamente per Stanley Peckard le cose non stavano in questi termini. Tutta la sessualità umana ricadeva sotto l'egida delle Porcherie: se le facevi non saresti mai stato perdonato ma a guardarle ti divertivi in un modo un po' malizioso. Era fiero di poter affermare di non aver mai fatto Porcherie con nessuno. Anche sua madre sarebbe stata fiera di lui. Aveva fatto qualche cosetta da solo, e si era sentito (cattivo cattivo cattivo)
eccitato e stuzzicato e curioso su come poteva essere farlo con una donna o perfino con un altro uomo. Certo, c'erano i Brutti Pensieri che erano la cosa più terribile dopo le Porcherie. Si era rassegnato ai Brutti Pensieri, più o meno come si era rassegnato alle cose che faceva con la mano e alle cose che le Voci gli facevano fare a quelle ragazze e col Mastro Incisore. Non poteva farne a meno. E quelle cose (doveva farle) non dipendevano da lui. Sperava che Dio e sua madre lo avrebbero capito. La colpa non era sua. Stanley era seduto in galleria, in prima fila, e guardava delle persone belle e nude farsi a vicenda delle fantastiche Porcherie sullo schermo. Erano (malvagi) enormi, molto più grandi delle persone reali, e i loro gemiti e i loro sospiri e le loro ritmiche contorsioni riempivano la sala e gli ottundevano i sensi. Sembrava che si divertissero da pazzi! Quanto doveva essere magnifica e viziosa la loro vita! Stanley aveva una Porcheria tutta sua con cui giocherellava quando vedeva il film. Quando chiudeva gli occhi, vedeva le sue amichette, quelle che le Voci e i suoi Piccoli Amici gli avevano dato. Erano tanto carine. Erano come le ragazze dello schermo. Gli sarebbe piaciuto diventare un grande attore e fare un sacco di Porcherie con le sue amichette, farle (sorridere) felici ed eccitarle e stuzzicarle come era eccitato lui in quel momento. Poi pensò a Lisa, la sua amica e giocherellava e giocherellava e la sua Porcheria gli disse che presto sarebbe stato tutto Appiccicaticcio, ma era bello, era bello, era bello, non era per niente sporco, e la vide gemere e dimenarsi sotto di lui come le ragazze del film ed era (AFFILATO!) ed era (AFFILATO!) e poi era tutto Appiccicaticcio e si pulì e si ritrovò nuovamente nella sala con gli uomini soli e i gemiti sullo schermo e il buio. Stasera sarebbe stata Speciale. Glielo avevano detto le Voci. Era pronto per quel che stava per succedere, pronto più che mai, chi è dentro è dentro chi è fuori è fuori sono pronto e adesso vengo.
Stanley Peckard si alzò in piedi, voltò le spalle allo schermo e si trovò davanti una piccola folla alla sinistra dell'operatore. C'era una parete dietro l'ultima fila con degli uomini dai visi indistinti appoggiati contro. Un ometto bianco dai capelli grigi con un completo costoso e occhiali Poindexter era chino su un grosso coreano che sembrava un camionista. Un'unica grande famiglia, scarsamente illuminata dalle ombre gigantesche che danzavano sullo schermo. C'era un uomo seduto due file dietro di lui che si faceva fare delle Porcherie da una delle puttane che passavano ripetutamente durante la giornata per il Variety Photoplays. Stanley si avvicinò alla coppia, giocherellando involontariamente con il Mastro Incisore che aveva in tasca. Pensò a come sarebbe stato farli sorridere e (!!!!!!!) il dolore divenne incandescente alla base della colonna vertebrale. Vacillò, le gambe non lo reggevano, ma attese che il dolore passasse. Così fu. Guardò la testa della ragazza che si muoveva su e giù, dimentica di tutto. Pensò all'Appiccicume che si era lasciato dietro. Non era meglio e non era peggio. Era (ora di andare) completamente indipendente da lui. Era (ora di andare) così che andavano le cose, tutto qui. Las putas Rickie Perez era seduto sulla veranda del numero 527 della Centonovesima Est. In una mano aveva una lattina di King Cobra al malto e sulle ginocchia un registratore stereo. La luna era un grosso cerchio rotondo di luce nel cielo che sovrastava Spanish Harlem. E tutto nel mondo filava liscio. Se il venerdì sera fosse stato più mite, la strada sarebbe stata brulicante di gente: bambini che giocavano sul marciapiede o in campi costellati di rifiuti, in giro fino a tardi perché il giorno dopo non c'era scuola; anziani per i quali l'inglese era soltanto una seconda lingua che affollavano i circoli e le bodegas lungo la strada. In un venerdì sera meno gelido e rigido, Rickie non sarebbe stato così prossimo a uno stato di totale solitudine. Non che a Rickie fregasse un cazzo di niente. L'ultima cosa che avrebbe desiderato era vedersi sfilare davanti agli occhi un mucchio di scimmie di
merda. Al momento, il suo era l'unico ghetto Master del quartiere degno di questo nome. E doveva trovare un testo per quella musica. La sua musica preferita, sparata così forte che dagli altoparlanti ormai in stato di fusione uscivano soltanto contorte scoregge ritmiche: «Oh, Rickie Come sei bello Come sei bello Mi fai impazzire Ehi, Rickie! Ehi, Rickie!» Rickie sollevò la lattina, fece un brindisi alla propria salute e si versò le ultime gocce giù per la gola. C'era un mucchio di lattine vuote all'ingresso del vicolo. Mirò e lanciò la sua. Mancato. «Merda!» gridò nel tentativo di intimidire il mucchio di rifiuti. Alla sua sinistra un gruppo fitto di muscolosi pendejos adolescenti scomparve dietro l'angolo, in cerca di guai. Alla sua destra, dall'altra parte della strada, intravide una figura solitaria che svoltava l'angolo e si dirigeva verso di lui. Passò un'auto e poi un'altra. Nessuno di loro sembrava curarsi del fatto che avrebbe potuto scatenare la sua ira. Vaffanculo, pensò. Chi se ne fotte? Batté il piede seguendo il ritmo e cominciò a muoversi goffamente, come un ballerino di hula hula in preda a un attacco di emorroidi. Ma anche di questo se ne fotteva. Il fatto era che Rickie si sentiva bene. Si sentiva in forma. Un'amfetamina lo aveva già sballato a sufficienza e Rex si era messo sulle tracce di roba di prima scelta alla quale in breve tempo il suo setto nasale avrebbe fatto onore. Tutto filava splendidamente. E Rickie era pronto a spassarsela. Poggiò a terra lo stereo e tirò fuori il portafoglio: grosso e nero, di pelle, a tre pieghe, con sopra, da un lato, le lettere R.I.P. che risaltavano nettamente: Ricardo Ignaseo Perez. C'erano dentro delle foto, tutte disposte con cura in diverse bustine di plastica. Variazioni su un identico tema. Teneri ricordi di divertimenti trascorsi. Las putas. Sorrise ai loro volti immobilizzati e pesti. Le puttane. «Tu, troia» disse rivolto alla fotografia. Vuoti occhi di carta lo fissavano terrorizzati. «Non eri mica tanto arrapante.» Passò alla serie successiva di
foto, poi a quella seguente, mentre l'amfetamina gli correva nelle vene come un evento che cercasse un luogo dove realizzarsi. Poi passò alle acquisizioni più fresche, le foto del prima che si era procurato più recentemente di quelle del dopo, e la sua mente scivolò allegramente all'indietro. All'origine... Avevano fatto un lavoretto niente male in cucina, rapido ed essenziale. Non c'era un piatto rimasto intero dopo due minuti dal loro ingresso. I pochi oggetti del frigo che non contenevano alcolici avevano fatto la stessa fine in ancor meno tempo. Poi Rex si era messo al lavoro sul letto della stanza accanto, lasciando a Rickie il compito di occuparsi dell'altra camera. Non era altrettanto facile da devastare. Dovette fare prima un giro esplorativo. La collezione di dischi era stata la prima cosa che aveva fatto fuori: un sacco di vecchie schifezze che non interessavano minimamente a Rickie. Poi era toccato alla scrivania vicino alla finestra: aveva frugato dappertutto, in cerca di soldi e di droga o di qualsiasi altra cosa che poteva colpire la sua fantasia. La fotografia della ragazza era saltata fuori sotto i suoi occhi proprio in cima al mucchio. Nonostante il naso non fosse rotto, era impossibile dimenticare quella faccia. Rickie rimase lì per almeno cinque minuti, a ridere come un pazzo mentre paragonava il prima al dopo. Il contrasto era notevole. Denti, niente denti. Sorriso, niente sorriso. Fantastico. Quando il letto nell'altra stanza crollò al suolo, Rickie decise di andare a dare una mano al suo amico. A questo tipo non serviva fare altro. Gli avevano fatto già abbastanza. Rickie ridacchiò: la pasticchetta gli faceva ondeggiare il cervello nel cranio. La vista gli si offuscò un paio di volte e la testa scattava involontariamente a ogni contrazione delle palpebre, come se fosse stato un cane con delle pulci nelle orecchie. Se solo Rex si fosse sbrigato a portare... (RICKIE) Il pensiero si interruppe. Rickie si immobilizzò sulla sedia. La sua vista per un istante si fece confusa e opaca mentre il tuono sordo della voce che gli rimbombava nelle orecchie si perdeva lentamente nell'oblio. Era assordante, come una bomba che gli scoppiasse in bocca.
(RICKIE, STAMMI BENE A SENTIRE) Il portafoglio cadde a terra; le mani di Rickie si strinsero sulle orecchie. Il suo corpo sobbalzò e lo stereo precipitò al suolo. Riusciva appena a sentire la sua musica distorta. Ma la voce era più forte che mai. (VOGLIO MOSTRARTI QUALCOSA) Rickie urlò, ma i suoi occhi si spalancarono. Confusamente, vide una grossa forma scura dietro i fari delle auto che si avvicinavano. Confusamente, vide l'uomo passare davanti ai fari. Il tempo si contrasse fino a rallentare e fermarsi quasi del tutto un secondo prima che il furgone piombasse addosso all'uomo a circa sessanta all'ora. La vista di Rickie si schiarì all'improvviso. Riusciva a vedere l'espressione di terrore sul viso dell'autista, la vittima che veniva sollevata e scaraventata lontano al momento dell'impatto. Il sorriso sul volto della vittima. Rickie balzò in piedi barcollando. Non credeva ai suoi occhi. Anche sul suo viso apparve un mezzo sorriso demente. Il furgone inchiodò con le gomme che stridevano. Il morto giaceva a terra sul marciapiede, un metro davanti al punto in cui il furgone si era fermato. «Che cazzo di botta!» sghignazzò Rickie rumorosamente. Poi il morto si rialzò. Le labbra si mossero e disse qualcosa. (TOCCA A TE) Il furgone cominciò a fare retromarcia. Rickie cominciò a fare retromarcia. Il morto sulla strada, che non era morto affatto, cominciò ad avvicinarsi alla veranda del numero 527 della Centonovesima Est. Il portafoglio e lo stereo rimasero dove erano. E anche le scarpe dell'uomo che non era morto. «Che cazzo!» ripeté Rickie, ma questa volta senza ridere. Sbatté la schiena contro la porta di ingresso dell'edificio e le dita affondarono freneticamente nelle tasche in cerca delle chiavi. L'alcol e la metedrina pestavano in modo infernale sul suo sistema nervoso, ma entrambi scomparivano davanti al flusso di terrore carico di adrenalina. Le chiavi spuntarono fuori. Infilò quella giusta nella serratura. La porta si aprì. Rickie entrò in casa. Si sbatté la porta alle spalle. Sbirciò attraverso la finestra. Il piede del morto sfondò lo stereo, facendolo tacere per sempre. La mano del morto si chinò a raccogliere il portafoglio e lo infilò in tasca senza esitare. Gli occhi del morto perforarono la finestra con una luce incande-
scente, scavando due buchi gemelli che trafissero gli occhi di Rickie. (EHI, RICKIE, COME SEI BELLO, COME SEI BELLO, MI FAI IMPAZZIRE) Rickie ficcò un'altra chiave nella seconda serratura. Non andava. Non era quella giusta. Bestemmiò con un gemito piagnucoloso e acuto e cercò disperatamente la chiave giusta in mezzo alle altre. Finalmente gli capitò fra le dita, gli scivolò di mano e poi fu goffamente recuperata. Rickie la infilò nella serratura. Funzionò. La seconda porta si spalancò. La porta d'ingresso si schiantò. (EHI, RICKIE) Rickie urlò e seguì il consiglio della voce, sbattendosi alle spalle la seconda porta. Cominciò a salire la prima rampa di scale senza guardarsi alle spalle, percorse mezza rampa, scivolò, batté il ginocchio destro contro uno scalino. La pelle sulla rotula si lacerò dolorosamente. Rickie urlò, si riprese e continuò a scappare. (EHI, RICKIE) La seconda porta esplose nel momento in cui Rickie arrivava al pianerottolo del secondo piano. Il rapido passo intermittente dei piedi privi di scarpe cominciò a farsi sentire sulle scale dietro di lui. Prese l'andatura di Rickie e lo costrinse ad accelerare sempre di più, fino al terzo piano, fino al quarto... ... e prima di arrivare al quinto, Rickie si accorse di aver superato il suo appartamento. Come se avesse ancora importanza. Come se quella porta chiusa a chiave o le altre che si aprivano e si chiudevano davanti a lui potessero offrirgli qualche riparo. Quella macchina da guerra ricoperta di carne che lo seguiva gli era ormai quasi addosso. Rickie dubitava sinceramente che ce l'avrebbe fatta ad aprire la porta prima di finirci infilato dentro a testa avanti. E non gli restava altro da fare. Se non continuare a salire. Le gambe di Rickie cominciavano a perdere rapidamente colpi e il suo cervello era completamente frastornato, ma, a metà strada fra il settimo e l'ultimo piano di scale, un progetto cominciò a prendere forma nella sua mente. Era maturato dentro di lui nei molti, lunghi anni passati al fresco, in attesa di questa specie di Momento della Verità... Prendi un film di sbirri. Uno qualsiasi. È molto probabile che prima o poi ti capiterà una scena in cui il Buono insegue il Cattivo fino al tetto di un caseggiato.
E allora che cosa fa il Cattivo? Corre come un disperato fino al centro del terrazzo sul tetto e poi si ferma come un fesso. Oppure si precipita fino al cornicione, cercando disperatamente una via di fuga che non esiste. Se è armato, si china per nascondersi nella parte più lontana del tetto e comincia a sparare dei colpi che mancano inevitabilmente il bersaglio. Non ha molte alternative, il Cattivo televisivo. Ma qui non eravamo in televisione. E Rickie aveva un'idea fantastica. O almeno sperava che fosse un'idea fantastica. Garantito, però, che era l'unica speranza che gli rimaneva. Rickie finì contro la doppia porta in cima alle scale a tutta velocità. Era aperta, come sempre. Un vicolo da un lato e uno spazio vuoto dall'altra. Ma che importanza aveva? La fresca notte d'ottobre luccicava muta sopra di lui; in una notte limpida, a Manhattan si possono vedere perfino le stelle. Rickie esaminò lucidamente le alternative che la televisione offriva ai Cattivi e le mandò tutte a fanculo. Si slanciò fuori, finì sul tetto e si nascose accanto alla porta spalancata. Misurando la distanza. Quando il Buono/morto attraversò di corsa la porta, Rickie lo afferrò per il braccio destro e lo spinse violentemente verso il bordo del tetto. C'era un cornicione di mezzo metro, l'ideale per inciampare. Le aspettative di Rickie si realizzarono in pieno. Lo stronzo emise un grido che suonava come un CHE CAAAAAAZZZOOOOOO prima di scomparire nel buio sottostante. Si sentì un tonfo umido ai piedi del vicolo. «URRÀ!» strillò Rickie battendosi il petto coi pugni e levando un grido di vittoria. L'immagine dell'uomo che veniva investito da un furgone e si rialzava come se non fosse successo nulla si era già ritratta, come un sogno, nei meandri della mente. Ma come un incubo lo ossessionava e così si avvicinò al bordo del tetto. Visioni di Arnold Schwarzenegger in Terminator si aggiravano Nella sua mente turbata. Sbirciò oltre il bordo. Il corpo era laggiù in fondo. Il corpo non si muoveva. E questo gli bastava. Il viaggio di ritorno giù per le scale fu fantastico e allucinogeno. Non c'era più niente che potesse disturbarlo. I muscoli dolenti della gamba era-
no come trofei. La gente del palazzo era abituata al caos: qualcuno si limitò ad allungare la testa fuori dalla porta di casa mentre Rickie scendeva in strada. E non gli dispiaceva. Si sentiva come He-Man e tutti i Dominatori dell'Universo messi insieme, in quel momento. Era orgoglioso del fatto che non aveva avuto bisogno di Rex per buttare giù dal tetto quel coglione. E sentiva che avrebbe potuto far fare la stessa fine a qualunque stronzetto che avesse provato a scassargli le palle. Cominciò a pensare alla coca e al fatto che Rex fosse in ritardo. Immaginò che sarebbe tornato da lui con una dose di cui metà già finita su per il suo naso. Nella sua felicità si infilò un cuneo affilato di risentimento e cominciò a incazzarsi mentre usciva con aria tracotante dal portone principale e scendeva i gradini che conducevano all'incurante marciapiede di Spanish Harlem. Ti faccio vedere io, amico, disse all'immagine di Rex che aveva nel cervello. Ti faccio vedere io quanto sono cattivo. Da oggi in poi le cose le dividiamo come si deve, in due parti uguali. Ti farò vedere un cadavere che non dimenticherai mai. Rickie fece una risatina stupida e ficcò la mano nella tasca della sua giubba da campo dell'esercito. Tirò fuori una macchina fotografica. Il morto, ormai definitivamente tale, aveva ancora il suo portafoglio, ma a questo si poteva porre facilmente rimedio. Ed era certo che sarebbe riuscito a trovare una tasca vuota per il povero, vecchio Terminator. «Un sorriso» canticchiava girando l'angolo quando (UN SORRISO) la mano lo strinse alla gola. Rickie tentò di urlare. Niente fiato. Inutile. Fu scagliato in aria e sbattuto contro il muro prima che la parola no riuscisse a formarsi in modo coerente nella sua testa. Il mondo diventò bianco dal dolore per un terribile istante, poi Rickie crollò sul fondo del vicolo. «Dov'è il tuo amico?» chiese l'assassino: niente più messaggi che rimbombavano telepaticamente, ma semplici parole con una voce profonda e calma che era ancora più terrificante a causa della sua normalità. Ma Rickie non poteva rispondere. Poteva solo restare lì per terra: pallido, con gli occhi fuori dalle orbite, rantolando come un pesce fuori dall'acqua. Quello non era un morto, era la Morte in persona che immobilizzava Rickie con il Suo terribile sguardo. Per un istante non riuscì a ricordare
neppure il suo nome. Ma quando la Morte cominciò a prenderlo a calci, si ricordò come si faceva a urlare. Rex stava fissando il grosso registratore stereo ormai distrutto e la porta d'ingresso divelta quando sentì le urla. Sobbalzò, con sua estrema sorpresa. Era un suono che generalmente gli piaceva, ma i suoi nervi stridevano per la roba che si era ficcata nel naso e poi quella voce gli era sgradevolmente familiare. Poi sentì il secondo grido e tutti i pezzi tornarono a posto. Rex sputò un'imprecazione e corse nel vicolo. C'erano due figure indistinte in fondo al vicolo cieco. Una di esse stava scalciando l'altra. Quello che dava i calci non lo riconobbe, ma il tipo a terra era chiaramente Rickie. Fra le urla di dolore, Rex sentì il rumore di ossa che si spezzavano. «Che cazzo succede?» mormorò Rex fra i denti. Aveva rallentato per un istante, stordito dallo stupore, ma ora attaccò a testa bassa. Aveva due gambe lunghe e forti. In venti secondi coprì la distanza che lo separava dai due. E in quegli ultimi venti secondi anche la sua mente sfrecciò pensando al suo amico, e in lui non c'era solo rabbia. Si chiedeva dove avrebbe potuto trovare un altro compagno e ricordava come era schifoso lavorare da soli. Si chiedeva chi fosse l'uomo che stava per ammazzare, che cosa ci faceva lì e se poteva costituire un pericolo. Notò con piacere che il tipo era piccolo. E concluse che sarebbe stato un lavoretto facile. Le grida di Rickie coprivano magnificamente il rumore dei suoi passi che si avvicinavano. L'uomo non avrebbe mai saputo che cosa lo aveva colpito. La stessa pressa idraulica di carne che aveva usato un miliardo di volte si sarebbe stretta attorno al torace di quel tipo sotto forma del massiccio braccio di Rex. Aveva sentito le ossa della colonna vertebrale spezzarsi sotto la sua presa almeno una dozzina di volte prima d'allora. E ora avrebbe sentito nuovamente quel rumore. Ma fino a che le braccia magre non scivolarono dietro la sua schiena e cominciarono a premere, Rex non pensava proprio che sarebbero state le sue ossa a fare quel rumore. Tutti i nervi del suo corpo impazzirono, un'isteria atroce e prolungata che si spinse ben al di là della soglia del dolore. Non si accorse neppure
che stava precipitando a terra come una sequoia tagliata. Quando sbatté contro il marciapiede, il dolore si impennò di un'altra ottava, ma non aveva idea del perché. Non riusciva nemmeno a sentire le proprie urla. Ma sentiva la voce. È così che ti spedisco all'inferno, diceva la voce. Così sommessa. Così indicibilmente crudele. È così che ti sentirai per sempre. E questa fu l'ultima cosa, a parte il dolore, di cui Rex fu consapevole. Rickie era rannicchiato contro la parete del vicolo cieco. Vagamente, attraverso le lacrime e il dolore, vide la sagoma oscura della Morte ergersi su di lui. E la Morte era venuta a prenderlo. Le sue costole rotte erano come lance che gli trafiggevano i polmoni e straziavano la carne e con essa il freddo cielo notturno. Ogni respiro era un gorgoglio di sangue. Se nient'altro sopraggiungeva a togliergli la vita, sarebbe soffocato entro pochi minuti, e lo sapeva. Ma quel pensiero, stranamente, lo confortava. Lo liberava dalla paura. La Morte era più reale che mai, ma non gli era mai sembrata meno reale. Sulle labbra riuscì a evocare qualcosa che assomigliava vagamente a un sorriso mentre guardava la sagoma oscura avanzare, finalmente, sopra di lui. Qualcosa gli penzolò davanti alla faccia. Impiegò un tempo che gli parve eterno per capire di cosa si trattava. «Ho un milione di buone ragioni per spedirti all'inferno» disse la Morte. «Ma me ne basta una sola.» La cosa che gli penzolava davanti era il suo portafoglio. Aperto. Sulla fotografia che aveva rubato qualche ora prima. «LAS PUTAS!» ringhiò Rickie con un improvviso sbocco di sangue. «LE PUTTANE! ERANO LORO CHE LO VOLEVANO!» «Ma certo» disse la Morte, facendo un passo indietro e chiudendo il portafoglio. «Esattamente come sei tu a volere questo.» Ci fu un'esplosione umida in fondo al vicolo. All'inferno, non ebbe mai fine. La più bella del reame «E pur se attraverserò sulla mia bicicletta le ombre oscure della valle
della morte» mormorava Lisa «non temerò alcun male.» Era una sciocchezza, ma erano tre ore o poco più che continuava a ripetere sciocchezze. Fin da quando Billy l'aveva lasciata seduta al bar. E le ramificazioni delle sue parole avevano iniziato a mettere inesorabilmente le radici dentro di lei. Se avrò a che fare con roba di carne e ossa, me la caverò, gli aveva detto ed era ancora più o meno dello stesso avviso. C'era un solo problema che non era stato sollevato né da lei né da Billy: e se non si tratta di roba di carne e ossa? Variazioni su questo tema di fondo avevano occupato la sua mente per altre due birre e per i quindici minuti successivi, lasciandola nella morsa di un terrore irrazionale che lentamente ma inesorabilmente la stava soffocando. Una cosa era starsene seduta a discutere con calma del sovrannaturale, tutt'altra girare da sola di notte per le strade, con gli occhi dell'inferno addosso. E nei quindici minuti trascorsi da quando era uscita dal bar non era riuscita a scuotersi la paura di dosso. Ogni taxi, ogni auto e ogni autobus che le si avvicinava troppo avrebbe potuto avere un demone al volante; ogni ombra era un potenziale terreno fertile per il male. Le stupide battute e gli spezzoni delle fiabe che ricordava l'avevano aiutata un po', ma non troppo. «Dio, come vorrei avere una pistola» disse ad alta voce. Non era una battuta. «Dio, come vorrei essere già arrivata a casa.» Le restavano ancora venti isolati da percorrere, ma quella distanza non le era parsa mai tanto lunga. Pedalava sulla Quindicesima Strada, verso ovest, veloce ma con cautela. Non era male evitare per qualche secondo il traffico: in quel momento non c'erano auto che la seguivano o la superavano. Davanti a lei, la luce del semaforo all'incrocio con la Quinta stava per diventare verde. E quando arrivò all'incrocio, il semaforo era già verde e Lisa attraversò la strada. C'era solo un'auto ferma alla sua destra che gentilmente evitò di travolgerla. All'angolo vide un gruppetto di modaioli che entrava al Peppermint Lounge. A parte loro, non c'era nessun altro in vista. Lisa si concesse un breve ma profondo sospiro di sollievo mentre si immergeva nuovamente nelle ombre della Quindicesima Strada. E fu allora, ovviamente, che accadde. La cosa era piatta e grigia e grande più o meno quanto un cocker. Sbucò come un razzo da sotto una macchina parcheggiata alla sua sinistra e le tagliò la strada prima che le sue mani potessero stringere i freni. Ci fu
uno stridio di gomme e qualcos'altro, un tonfo solido, un improvviso senso di leggerezza... ... e Lisa precipitò sul macadam, mentre la bici si impennava e si schiantava al suolo dietro di lei. Lisa rotolò per attutire l'impatto, aspettandosi che un'auto le sfrecciasse sopra per terminare l'opera. Ma non passavano macchine. Ringraziò Dio per questo e anche perché sapeva come atterrare: avrebbe potuto spezzarsi l'osso del collo. La sua bicicletta, però, non era stata altrettanto fortunata. Lisa si rialzò maledicendo le ombre e quella cosa contro cui aveva sbattuto, chissà che diavolo era, poi zoppicando si diresse verso il suo mezzo di locomozione povero, vecchio e brutto. La ruota posteriore stava ancora girando a vuoto; il cerchione anteriore era ammaccato, un paio di centimetri fuori asse. Una minuscola macchia di sangue, nera e liscia sotto la luce dei lampioni, segnava il punto dello scontro. Ce n'era un'altra uguale sul marciapiede, dalla quale partiva una scia simile a un nastro oleoso che finiva nell'ombra dall'altra parte della strada. «Bravo!» gridò rivolta alla fine della traccia di sangue. «Spero che tu non ti sia soltanto ammaccato il cerchione, maledetta bestia!» In seguito le sarebbe dispiaciuto aver ferito un povero animale, ma ora avrebbe voluto che non fosse mai nato. E se la Società per la Protezione degli Animali non è d'accordo, pensò, che mi ripaghi questa cazzo di bicicletta. Provò a far girare la ruota anteriore. Fece con scarso entusiasmo tre quarti di giro, poi si bloccò quando il cerchione ammaccato sbatté contro la forcella. «Merda» sibilò Lisa sferrandole un calcio. Ma non risolse la situazione. «Non ti porterò da nessuna parte. Se pensi che ti trascinerò fino a casa, ti sbagli di grosso.» C'era un segnale di divieto di sosta sul marciapiede, accanto all'auto dalla quale era sbucata la cosa che aveva investito. «Tante grazie, capo» disse Lisa dando un calcio al coprimozzo. Lasciò un segno e decise che poteva bastare. Poi trascinò la bici fino al cartello e si mise all'opera con catena e lucchetti. Forse è meglio così, le venne da pensare. Non so perché, ma un taxi in questo momento mi sembra un'alternativa molto allettante. E se faccio un buon lavoro, disse alla bici facendo passare la catena attraverso ogni buco disponibile, ci sono trenta possibilità su cento che domani mattina sarai ancora qui. Erano tutti pensieri improntati all'ottimismo e la loro magia cominciava a funzionare.
Poi vide le gambe, troppo vicine, dietro di lei. La capacità di reazione di Lisa era stata acuita enormemente dal capitombolo. L'adrenalina che aveva in circolo trasformò i suoi movimenti nel vorticoso turbinio di un gesto micidiale. Si voltò, si bloccò e con un secco kiai! fece partire un colpo con il palmo della mano e il braccio teso. E colpì in pieno naso uno Stanley Peckard in preda al terrore. Lo riconobbe con una frazione di secondo di ritardo: era troppo tardi per poter fare qualsiasi cosa, tranne che rendere il colpo meno letale. Udì ugualmente il suo grido acuto, vide i suoi occhi inespressivi come il marmo spalancarsi e sentì l'osso e la cartilagine che si schiantavano. E si sentì spaventosamente in colpa. «Mi dispiace» cominciò. Ma sembrava che lui non la sentisse neppure. La fissava con occhi in cui si facevano strada panico e dolore. Le mani che si portò al naso si riempirono di sangue. Lisa notò che aveva dei guanti neri. Poi Stanley si girò e corse via incespicando, sbatté contro il muro e rimbalzò. Svoltò l'angolo con passo incerto addentrandosi nel vicolo dove si trovava l'ingresso di servizio dietro il Peppermint Lounge. Lisa lo sentì piangere. «Cristo santo» gemette. Poteva già immaginare il cervellino di Stanley in piena emorragia. Sperava di aver trattenuto sufficientemente il colpo, ma non poteva esserne certa. E se dovesse morire... le ronzò una voce morbosa nella mente. E se dovesse morire... Non aveva scelta. Decisamente no. Lo seguì nel vicolo. C'erano dei demoni nella testa di Stanley e si prendevano sempre cura di lui, meglio che potevano. Ma ora c'era qualcosa che non andava. Per cominciare, Stanley si rifiutava di credere che loro volessero davvero costringerlo a uccidere lei. Anche se continuavano a insistere (ORA) e (ORA) lui sapeva che doveva esserci per forza un malinteso. Perché lei era una sua amica, lei era diversa, lei era speciale, lei era la sola a essere gentile e carina con lui, e quindi dovevano capire che lui non
voleva farlo, non poteva farlo. Seconda cosa che non riusciva a capire era come mai loro avevano permesso che lei lo colpisse. Poi si accorse, in un istante di terrore, che le Voci si erano zittite. E allora scappò verso il triangolo buio in fondo al vicolo, sperando di potersi nascondere lì dalla sua amica e dalle Voci, per sempre. Nonostante il dolore, c'era qualcosa di dolce e di meraviglioso nel fatto di essere ancora una volta il padrone della propria mente. Era una sensazione che non voleva perdere. E così quando le (CHE COSA STAI FACENDO) voci cominciarono a (TORNA INDIETRO) tornare, Stanley Peckard reagì. Per la prima volta. Stanley Peckard reagì con forza. Ma loro erano più numerosi, legioni intere dentro di lui: gli corrodevano ogni nervo, scavavano altri fori sanguinolenti nel suo cervello. Il numero era dalla loro parte ed erano ormai abituati a controllare la sua mente, molto più di quanto lui fosse abituato a controllare se stesso. Gli misero il coltello in mano (ORA!!!) e lui si rifiutò di prenderlo. Cercarono di farlo alzare in piedi (ORA!!!) e lui si rifiutò. Lo fecero piangere (!!!!!!!!) dal dolore. Ma lui resistette. E continuò a resistere. Il vicolo fra il Peppermint Lounge e gli appartamenti del Chelsea Lane era ben illuminato e ben tenuto: dei proiettori di forte intensità erano disposti intorno all'area di carico e scarico merci del locale e un lampione illuminava l'ingresso di servizio del locale. Insieme, ritagliavano una striscia di luce riflessa che si sovrapponeva lasciando un solo cuneo in ombra, sul lato chiuso del Peppermint. Era un triangolo isoscele perfetto e nero come la pece, la cui base finiva contro la parete del Chelsea. Stanley era lì. Lisa non lo vedeva, ma riusciva a sentirlo. E quel che sentiva era talmente triste, così schifosamente penoso da farla rabbrividire.
«Cristo santo» gemette nuovamente, immaginando cosa sarebbe successo nel Pronto Soccorso in cui lo avrebbe portato a morire. Quel pensiero suscitò un brivido d'angoscia che le attraversò il corpo mentre avanzava nel buio. Infine lo vide, accovacciato contro il muro. Aveva una mano sul viso l'altra intorno alla vita, mentre dondolava avanti e indietro col tronco e si lamentava. «Stanley» disse Lisa dolcemente, allungando la mano per toccargli la spalla. Lui si ritrasse con uno scatto sorprendentemente deciso, gridando qualcosa che sembrava LASCIAMI IN PACE! «Stanley, no» insisté Lisa. Gli occhi le bruciavano, iniziavano a riempirsi di lacrime. Non riusciva a fermarle, così come non riusciva a impedire al suo corpo di tremare. «Ti aiuterò io. Andiamo subito all'ospedale.» Gli appoggiò entrambe le mani sulle spalle. Stanley strillò ma non si sottrasse alla sua presa. Lentamente lei lo fece voltare e cominciò ad aiutarlo ad alzarsi in piedi. «È tutto a pos...» stava dicendo. Stanley si alzò. E il coltello la colpì. All'inizio non provò dolore. Solo la sensazione terribilmente nitida di essere penetrata mentre il coltello sbucava dal nulla e le scivolava fra le gambe. Impiegò un secondo per comprendere quel che stava succedendo e un altro per fissare incredula il viso di Stanley. Poi, infine, apparvero i suoi lineamenti: la barba corta, i denti, la fossetta grande come un'aspirina. Ma ormai era tardi, troppo tardi. Il coltello la colpì all'interno della coscia sinistra, scivolò dentro parallelamente alla parte superiore del femore, risalì attraverso la depressione immediatamente sotto la piega dell'inguine. All'ultimo momento, Lisa cercò di tirarsi indietro, le mani ancora strette sulle spalle di Stanley. Lo allontanò con una spinta. La sua gamba cedette. E i due caddero insieme a terra, Stanley sopra di lei. La forza dell'impatto spinse il coltello ancora più a fondo, recidendo l'arteria femorale. Il mondo intorno a Lisa diventò bianco dal dolore e tornò rosso un istante più tardi quando il tempo diventò elastico e sentì da lontano le sue stesse grida, le sue grida mentre il primo fiotto di sangue le schizzava sulla pancia, riempiendo l'aria del suo odore caldo e metallico.
Sembrava che, istante dopo istante, i suoi sensi si acuissero. Sentì il corpo caldo e puzzolente di Stanley sollevarsi. Vide che si metteva a cavalcioni su di lei, le ginocchia a destra e a sinistra della gamba straziata, il braccio sinistro completamente teso, la piccola mano grassoccia con cui si appoggiava a terra, il viso a pochi centimetri da quello della ragazza. Lisa sentì il coltello che veniva estratto con un rumore umido dalla sua ferita, lo vide disegnare un arco in aria e tremolare come un cobra che si prepara a colpire. E in quell'ultimo, incerto istante, istintivamente si mosse... Stanley era sbilanciato e titubante, e questo era esattamente quel che ci voleva. Lisa lo allontanò con una spinta, incurvò il corpo flettendo i muscoli delle cosce e puntando le spalle per terra; contemporaneamente spinse via il braccio sinistro di Stanley. Il dolore alla gamba era atroce, la sensazione del sangue che le schizzava sul torace ancora di più. La gamba ferita minacciava di cedere, ma Lisa riuscì a far scattare il ginocchio destro, ficcandolo con tutta la forza che riuscì a radunare nei gangli nervosi dell'ascella sinistra di Stanley. Stanley strillò mentre l'articolazione si slogava e la forza del colpo lo sbatteva a terra, di lato. Lisa si liberò di lui e rotolando a terra gli fu sopra, invertendo le posizioni. Gli prese il braccio sinistro e lo tirò con violenza, poi fece piombare su di esso il suo gomito sinistro come un martello, una volta! due volte! Stanley gridò di nuovo. Lui aveva il braccio a pezzi. Lei era ormai priva di forza. Ne aveva speso l'ultimo granello per spingerlo lontano. Stanley si alzò in piedi a fatica e corse via, gridando e barcollando, nella notte. Lisa non vide da che parte stava andando. Non le importava niente. Lo avrebbe ucciso più tardi se... Se... Erano trascorsi in tutto quarantasette secondi. Fu la voce fredda del Metronomo che ticchettava nella testa di Lisa che infine la convinse ad alzarsi, citando una litania di statistiche sul poco tempo necessario a soccombere allo shock e alla perdita di sangue. Sapeva di non avere molto tempo a disposizione e che non doveva assolutamente sprecarlo. E così, dando fondo a una forza di volontà che non avrebbe mai creduto di avere, Lisa si alzò in piedi.
E trascinandosi dietro la gamba sinistra insanguinata, raggiunse la strada. Freddie Brown, per sua stessa ammissione, non era la persona migliore del mondo. Fumava, beveva, bestemmiava come un turco, scommetteva sui cavalli e finiva sempre coinvolto in qualche rissa. "Se fossi una brava persona" diceva alla moglie almeno una volta a settimana "non sarei costretto a guidare questo taxi schifoso e non sarei per te una fonte continua di delusioni." Ma quando vide la ragazza svoltare l'angolo e crollare a terra in una pozza del suo stesso sangue, non esitò un solo momento. «Cosa sta facendo!» gridò l'uomo sul sedile posteriore mentre il taxi inchiodava all'angolo. «La faccio scendere» disse Freddie tirando il freno, uscendo dallo sportello e passando dall'altro lato dell'auto prima che il passeggero avesse il tempo di scoreggiare. La donna era debole e bianca come uno straccio. Gli occhi vitrei erano infossati e circondati da macchie scure. Quando lui la sollevò da terra, Lisa gridò: «AL SAINT VINCENT'S! PRESTO!» e lo inchiodò con uno sguardo vuoto. Tutto il suo corpo era coperto di sangue sul davanti, dal mento ai piedi. Nell'aria fredda della notte, il sangue esalava vapore. Freddie sentì la portiera posteriore dell'auto aprirsi alle sue spalle e il passeggero correre accanto a lui. «Cristo santo» mormorò l'uomo e prese per un braccio la ragazza senza che l'altro glielo chiedesse. La sistemarono sul sedile posteriore del taxi nel giro di cinque secondi. Freddie corse al posto di guida. Il taxi iniziò a muoversi prima che la portiera venisse chiusa. «Tieni duro, tieni duro» ripeteva Freddie sfrecciando verso l'ospedale. Si attaccò al clacson lungo tutta la Quattordicesima Strada, passò con il rosso a quasi cento all'ora e rischiò di finire fuori strada mentre volava per la Sesta Avenue. L'ospedale era a poco più di un chilometro dal punto in cui Lisa era stata ferita. Freddie lo raggiunse in poco meno di quattro minuti. Furono i quattro minuti più lunghi della sua vita. E di quella di Lisa... Per tutto il percorso il suo orologio interno continuò a ticchettare. E il sangue continuò a scorrere.
Lisa non era riuscita ad arrestarne il flusso: impossibile applicare un laccio emostatico o trovare un punto in cui applicare una pressione passabile. Non era ancora riuscita neppure a decidersi a guardare la ferita, ma dalla quantità di sangue sapeva già che era peggio di quanto osasse ammettere. E il peggio del peggio sarebbe stata la morte. E lei non voleva morire. Non voleva morire. Non... Il taxi svoltò giù per la Settima Avenue con le gomme che stridevano. La voce dell'uomo al volante era un ronzio che la tranquillizzava, anche se non capiva esattamente quello che stava dicendo. Era esausta e il mondo cominciò a diventare sfocato e... NO! NO! NO! NO! NO! gridò la sua mente. NON TE NE ANDARE! NON TE NE ANDARE! Lottò per rimanere cosciente, costrinse la sua mente a concentrarsi. Stanley. Stanley come? Stan Peckerhead, come cazzo si chiamava di COGNOME??? Doveva dirlo a Billy. Doveva saperlo. È lui, Billy. È lui quello che cerchi. È lui quello che... Ficcò la mano in tasca e afferrò il suo piccolo blocco per appunti, la sua penna. Le sue braccia erano così pesanti che... NO! NO! NO! NO! NO! NO! NO! NO! Era difficile scrivere, non vedeva niente nel buio del taxi lanciato a tutta velocità. Ma ci riuscì. E diede il foglio al tassista, gli fece promettere che lo avrebbe portato a Billy... Billy... Il tassista continuava a ripetere le stesse stronzate, come un mantra: «Ci siamo quasi, sta' tranquilla. È tutto a posto, vedrai...» Era buffo. Le ricordava in qualche modo Gloria. Forse l'accento. Gloria diceva sempre che era necessario sapere come comportarsi per strada e come difendersi dalle aggressioni. Gloria era in gamba. Forse non sarebbe stata in grado di contrastare un imbecille armato di coltello e un'arteria recisa, ma... Lisa rise, mentre un rivolo sottile di sangue le scorreva dall'angolo della bocca. Lo inghiottì con un colpo di tosse. Il tassista la fissava preoccupata dallo specchietto retrovisore. L'ospedale apparve davanti a loro. Il tassista entrò praticamente con la sua auto fin dentro il Pronto Soccorso. Prima ancora che il motore si spegnesse, era uscito dalla macchina ed era entrato dalla porta doppia. Lisa cercò di sorridere in segno di riconoscenza, ma il tipo era già scomparso e la sua bocca non rispondeva più. Poi tornò, portando con sé due infermieri e una barella. Forse ce l'avreb-
be fatta, alla fine. Il suo metronomo interno stava ancora ticchettando. Provò a pensare a Mona, ma l'immagine rimase indistinta. Gloria aveva preso completamente possesso della sua mente: Gloria nell'abito che indossava quando era non solo la sua amica ma anche la sua sensai. «Quattro regole» aveva detto Gloria «che devi sempre ricordare. Primo: devi essere pronta a tutto.» La porta del taxi si aprì. Sei mani la tirarono fuori e la stesero sulla barella. «Secondo: devi essere disposta a fare qualunque cosa sia necessaria.» La porta doppia venne spalancata. Si sentì trasportare a tutta velocità lungo un corridoio, si sentì mille occhi addosso. «Terzo: devi riuscire a portare a termine quello che hai iniziato.» Avanti, avanti. Le luci che si lasciava dietro. Troppo forti. Troppo forti. Le ruote che giravano giravano giravano... La voce di Gloria si spense. Non aveva importanza. Lisa ricordava. La buona, vecchia Regola Numero Quattro: E qualche volta, qualche volta... devi avere fortuna. Parte quarta A precipizio C'è chi si piega fino a diventare deforme stravolto dall'odio, dalle menzogne e dallo stupro. Attenti! Arriva la scimmia assassina! La bruttezza li distorce. Non saranno più gli stessi... Billy Rowe La svolta verso la vita Quel che ci vuole La incontrò sul marciapiede di fronte al Pronto Soccorso. Erano entrambi troppo inebetiti per parlare o per esprimere un qualsiasi sentimento. Avevano già pianto entrambi. E nessuno dei due aveva ancora finito di piangere. Quando toccò a loro, entrarono in silenzio e senza nemmeno sfiorarsi.
Era tutto quello che potevano fare per evitare di morire anche loro. Farley Broome era un figlio di puttana del tutto privo di sensibilità. Ed era così da anni. Il suo lavoro all'obitorio non aveva fatto altro che acuire una disposizione naturale. Ma non era privo di tatto e riusciva a distinguere una visita di cortesia da un lutto autentico. Quando si trovava davanti il dolore, sapeva starsene con la bocca tappata. Quando quei due, il ragazzo e la ragazza, entrarono nella stanza, se ne stette in silenzio senza darlo troppo a vedere. La morte era ormai per Broome qualcosa di familiare perché nei suoi trent'anni e più di servizio aveva avuto a che fare con un sacco di defunti, non ultimo il suo ex-collega. Rick Halpern era rimasto soffocato da un panino con uova, insalata e Bacos; il nuovo, un ragazzetto di nome Louis, era un pivello senza futuro. Doveva ancora reprimere i conati di vomito alla vista delle ferite da arma da fuoco e da incidente automobilistico. Ne aveva di strada da fare. Louis non era nemmeno particolarmente in gamba quando aveva a che fare con i parenti dei morti. Toccò quindi a Broome accogliere i due tipi che erano venuti a compiangere la scomparsa di Lisa Traynor e a identificare ufficialmente il cadavere. Con tatto. E così fece. «Posso fare qualcosa per voi?» chiese. «Siamo qui per...» cominciò il ragazzo, poi esitò. Lui e la sua ragazza (o sua moglie, o sua sorella o quello che era) erano pallidi come il cadavere che erano venuti a identificare. Era un'esperienza terribile. Comprensibile. «Da questa parte» disse, attento a evitare espressioni quali tutto a posto o benissimo. Non c'era niente che era a posto, niente che andava benissimo e niente che vi si avvicinava neppur lontanamente. Si voltò e percorse il corridoio di cadaveri fino a giungere al tavolo sul quale si trovava la ragazza. I due lo seguirono. Broome alzò il lenzuolo. I due scoppiarono a piangere. Merda, pensò soffocando le proprie emozioni. Secondo il metro di giudizio di chiunque lo circondasse, Broome non era altro che uno stronzo insensibile, ma c'era ancora qualcosa che lo toccava. Grazie a Dio. Se doveva lottare per soffocarlo significava che aveva ancora qualcosa dentro di sé.
Uno degli agenti fece la sua comparsa sulla soglia. Broome ringraziò nuovamente il Signore. Avrebbero avuto qualcuno con cui prendersela quando la parte peggiore dell'orrore sarebbe passata. Billy, come Broome, aveva visto di recente un sacco di cadaveri. Pensava di essere ormai insensibile alla loro vista. Si sbagliava. Ora lo sapeva. Questa volta non si trattava di Rickie, di Rex o di Albert, non era uno dei tanti, anonimi rifiuti dell'umanità. La forma sotto il lenzuolo apparteneva a una persona che amava. Era troppo per poterlo esprimere a parole. Troppo per poter fare qualcosa. Mona aveva distolto lo sguardo, non riusciva più a guardare. I suoi singhiozzi erano smorzati, ritmici e ininterrotti, misura del suo ritegno. Aveva ricevuto ufficialmente la notizia pochi minuti dopo la morte di Lisa. Trascinarsi fino all'ospedale, così a ridosso dal suo scontro con l'incubo, era stato tremendamente difficile. Le era sembrato di essere giunta al limite. Quel limite che Billy aveva appena superato. Nella testa di Billy rimbombava la domanda perché, ma lui aveva già la risposta. Lo sapeva il perché. Lo sapeva benissimo quel cazzo di perché. Era morta perché sapeva troppo. Era morta perché lui le voleva bene. Come lo stupro di Mona o gli omicidi di Sorrisino. Erano sacrifici sull'altare del male. Erano stati commessi per farlo diventare pazzo, perché si lasciasse travolgere dall'impotenza della propria lotta. Mio Dio, la sua mente mormorò una preghiera. Fa' che non sia vero. Fa' che sia tutto un sogno. Dio, però, non sembrava incline a soddisfare la sua richiesta. L'obitorio non cominciò tremolare come in una dissolvenza cinematografica e Billy non si ritrovò nel suo letto. Tutto rimase com'era. Il corpo di Lisa rimase dov'era. Mio Dio, ripeté Billy senza sapere per che cosa stava pregando mentre si chinava sopra il cadavere, versando lacrime sulle labbra di Lisa, prendendo fra le mani il suo viso bianco. Ascoltando, come aveva fatto tante volte prima. Ma senza sentire niente, questa volta. Era come appoggiare una conchiglia all'orecchio, mettere un nastro vuoto nello stereo e poi ascoltarlo in cuffia. Era una scia sorda e costante di rumore bianco, troppo sottile per poterlo definire un sibilo.
Qualunque cosa esistesse di Lisa oltre il suo corpo, ormai se ne era andata per sempre. Fu allora che tutte le pareti precipitarono mentre lui crollava addosso a lei. Non gli restava altro da fare che piangere e (vendicarla) tenerla fra le braccia per l'ultimissima volta e poi (vendicarla) vendicarla. Vendicarle tutte. Dennis Hamilton era rimasto sulla porta chiedendosi come mai non provasse alcuna sorpresa. Neanche la minima sorpresa. Anzi, in realtà si stava chiedendo se mai qualcosa avrebbe potuto sorprenderlo ancora. All'inizio, quella Marcy Keller rediviva gli aveva confuso un po' le idee. Poi si era accorto che non era Marcy Keller ed era stato come fare jackpot su una slot machine di Las Vegas: DING DING DING DING, con tutte le ciliegine perfettamente in fila. Ancora però non aveva incassato: non era facile come al casinò dove bastava chiamare il proprietario perché confermasse la vincita. Aveva però tutto quello che gli bastava per ritenersi soddisfatto. L'ultimo frammento stava per andare al suo posto. Significava che questa ragazza era stata uccisa dal Sorrisino? Hamilton ne era convinto. Erano stati i venti minuti trascorsi con Freddie Brown a convincerlo. A quanto pareva, Lisa Traynor gliel'aveva fatta pagare al suo assassino prima di morire. C'era quindi una buona notizia che accompagnava quella cattiva. Ma non era certo quale delle due fosse più importante dell'altra. Ed era solo una delle domande che restavano ancora senza risposta. Per esempio: chi era l'assassino? Che cosa aveva contro Billy? Sapeva che i due erano collegati in qualche modo, ma non sapeva come. Come? E se Billy era davvero il vigilante, come era riuscito a fare quello che aveva fatto? E comunque, chiunque fosse il vigilante, come aveva fatto a fare quello che aveva fatto? Non sarebbe stato corretto mettere sotto torchio Billy in quel momento. Nonostante le bugie che aveva cercato di dare loro a bere, non c'era dubbio che il ragazzo soffrisse veramente. Hamilton non aveva l'approvazione ufficiale del suo collega e da solo non sarebbe riuscito a radunare il sangue freddo necessario. Si allontanò quindi dalla porta, lasciando Billy Rowe e la sosia della
morta al loro innegabile tormento. Più tardi, forse a casa di Rowe, avrebbe cercato di capire come stavano esattamente le cose. E se fosse stato fortunato, sarebbe sopravvissuto a quella micidiale esperienza. Mona non sapeva niente dei sospetti di Hamilton. Aveva capito ben poco di quello che stava succedendo, ma quel poco le bastava per darle la certezza che il mondo era impazzito. Lasciò a Billy il compito di eseguire l'identificazione ufficiale. Si fece condurre da lui fuori dall'obitorio e in strada. Si fece chiamare un taxi, si fece accompagnare a casa, si fece precedere in casa per essere certa che nell'appartamento fosse tutto a posto. Quando Billy l'abbracciò stretta e scoppiò a piangere fra le sue braccia, lo lasciò fare. Piansero entrambi fino a che non si addormentarono, quella notte. Era bello tenerlo stretto, non essere sola. In fondo alla sua mente c'era una strana mescolanza subconscia di terrore e di amore per lui. Più tardi, una volta tornata in sé, avrebbe separato le due cose. Se fosse tornata in sé. Dominatore dell'universo A mezzogiorno del sabato, Brenda Porcaro non ce la faceva più a sopportarlo. Larry era ancora in soggiorno a guardare quella tele del cacchio con addosso soltanto le mutande e la canottiera, offrendo uno spettacolo di sé ben poco attraente. Sbirciò discretamente da dietro l'angolo pensando: mio Dio, non si è nemmeno pettinato! La criniera crespa e arruffata di Larry sbucava poco cerimoniosamente da sopra il suo prezioso sofà dai braccioli rotondi con il tessuto di cotone color talpa trattato con olefina e i tre cuscini intonati che aveva comprato alle svendite di Gimbel. Una vaga ondata di disgusto la investì. Il loro rapporto stava ancora attraversando quella fase delicata nella quale la visione del temibile Roth Mattutino poteva incutere fastidio più che suscitare un senso di tenerezza. Se le cose fossero state più serie, forse allora... allo stato attuale, però, lo aveva avuto fra le scatole tutta la settimana e non era certa di voler proseguire allo stesso modo per il week-end. Purtroppo, sembrava che fosse esattamente questa l'intenzione di Larry.
Si era presentato sulla soglia di casa sua la sera precedente con un orribile occhio nero e una storia ancor più terrificante su due teppisti che aveva buttato fuori dal suo appartamento e sulla terribile rissa che ne era seguita con uno di loro. Non poteva certamente mandarlo via. E non si aspettava neanche che se ne andasse prima del suo risveglio: dopo tutto, il loro rapporto non era esattamente di quel genere. Larry le piaceva davvero. Era buffo e brillante e sapeva come ci si comporta in un ristorante francese. E dopo una vita passata accanto a viscidi figuri e a stupidi incapaci, forse ora aveva trovato un tipo decente. Qualcuno che non voleva soltanto affondare la faccia fra le sue tette e giocare a fare il sottomarino per tutta la notte. Anche se sa imitare alla perfezione un Chriscraft. E ripensandoci Brenda ridacchiò, regolando il suo specchietto, per truccarsi e controllare le sopracciglia. Avevano bisogno di una ripassata con le pinzette. No, pensò poi, a me Larry piace sul serio. E non voleva essere sgarbata o cose del genere. Ma nei loro patti questo non era previsto... Larry si era piazzato davanti alla televisione fin dalla mattina presto, non si era vestito, non si era fatto la barba e metteva in mostra senza ritegno la pancetta che cominciava a traboccare. In silenzio e di cattivo umore, si sorbiva ogni stupido cartone animato che passava sul video. In quel momento c'era una roba idiota dal titolo HE MAN, IL DOMINATORE DELL' UNIVERRRRSSSSSSSSO... O una stronzata del genere. A Brenda i cartoni animati non piacevano. Roba da ragazzini. Andò a rifare il letto pensando che non c'era poi molto da rifare. Non è successo niente stanotte di così notevole da doverlo rimettere in ordine. Cercava di essere comprensiva: aveva letto su Cosmo che molti uomini si sentono in quel modo dopo essersi comportati da eroi e aver messo a repentaglio la propria esistenza. Ma anche questo le lasciava l'amaro in bocca. E poi si sentiva inutile. Larry non aveva detto più di tre parole in tutta la mattina e Brenda cominciava a perdere la pazienza. Se ne stava lì seduto come un babbeo a guardare quegli stupidi cartoni animati. Non era per niente romantico. Vide la pila di vestiti che lui aveva depositato sul lato del letto, dalla parte del muro. Questo la fece inferocire definitivamente. Aveva lavorato sodo per la sua casetta, investendo notevoli porzioni del suo stipendio per renderla carina e in ordine e per mantenerla tale. La palla raggrinzita di
vestiti di Larry sembrava un mucchietto di merda canina vecchia di un giorno sul suo scendiletto Anso II in lana di Sassonia. Era come uno schiaffo al suo senso del decoro e dell'igiene. Per non parlare degli asciugamani umidi e appallottolati lasciati in mezzo al bagno dopo la doccia e del tubetto di dentifricio, visibilmente schiacciato proprio a metà. Orrore. Ci pensò su per alcuni minuti poi giunse a una conclusione: o soffiamo sul fuoco o ci mettiamo una pietra sopra. E così Brenda si infilò l'ultimo modello di reggiseno Christian Dior a balconcino con mutandine di pizzo intonate, ordine speciale dal catalogo di Victoria's Secret, e si guardò allo specchio per vedere che effetto faceva. Il seno si ergeva impavido, senza mostrare alcun segno di cedimento. Soddisfatta del risultato, andò all'armadio e fece scorrere le ante a persiana. Oggi si sarebbe vestita in modo informale: scelse una camicia oversize color turchese di Cathy Hardwick su dei fuseaux aderentissimi con un gilet di lana morbida intonato alla camicia che aveva preso in svendita da Miss Bergdorf Sportswear la settimana precedente. Un paio di stivaletti lavorati a zig zag con dieci centimetri di tacco (da Nine West) e un cinturone da cowboy di pelle morbida (con fibbia di metallo argentata, da Liz) completavano il tutto. Qualche anellino con diamanti da 0,25 carati e un pizzico di trucco (un pizzico soltanto. Doveva essere informale). Una spruzzatina di Obsession. Si passò una lozione fissante Paul Mitchell sui capelli e se li asciugò dolcemente. Poi fece un passo indietro per una visione d'insieme. Stupefacente. Questo lo scuoterà dal suo torpore, si disse. Garantito. Lo stenderà a terra. Oppure, che Dio mi aiuti, lo faccio fuori io. La voce si diffuse fuori dalla camera da letto, carica di promesse. «Larry...» Nessuna risposta. «Lar-riiiiiiii...» I sottili sottintesi si persero nel nulla. Larry Roth se ne stava seduto come un pezzo di legno sul divano, gli occhi incollati alle immagini che guizzavano sullo schermo. I Dominatori dell'Universo, per quella settimana, avevano fatto il loro dovere; He-Man e Skeletor erano stati rapidamente sostituiti da Hulk Hogan e dal Sergente Slaughter. Una serie ininterrotta
di omaccioni tridimensionali grugniva e sudava e si accapigliava dal vivo al Madison Square Garden. Gli occhi di Larry guardavano. Ma il suo cervello... Il suo cervello era assente senza giustificazione, perduto in un mondo infernale privato che le prime luci dell'alba non erano riuscite a dissolvere. Ed era intento a rimuginare cose paurose. Come due sudici colossi che lo riempivano di botte. O compagni di casa e vecchi amici usciti di testa da un giorno all'altro. Oppure odori strani che aveva sentito provenire dall'appartamento del suo padrone di casa mentre lei passava davanti. Un puzzo simile a quello di un frigorifero pieno di carne guasta, che lo aspettava proprio dietro la porta (ora vado a liquidare Albert) socchiusa e Albert non lasciava mai la porta socchiusa (gli darò tutto quello che gli devo) e avrebbe giurato di sentire le mosche che ronzavano e COSA DIAVOLO STA SUCCEDENDO QUI? Brenda scivolò furtivamente dietro a Larry. Cercava di essere comprensiva. Aveva letto nello stesso articolo che spesso molti uomini si chiudevano in sé senza comunicare con nessuno dopo essersi comportati da eroi e aver rischiato la pelle. Gli gettò le braccia al collo. Ma l'articolo non diceva niente su urla laceranti. Né parlava di svenimenti. Bubba sapeva Erano quasi le cinque e mezzo di sabato pomeriggio quando Bubba ebbe l'ardire di avventurarsi nella camera da letto. Aveva assistito al loro isterico ritorno dall'ospedale, quella mattina presto. Li aveva visti stringersi l'uno all'altra e piangere. Avevano pianto tanto che si sarebbe detto che non avrebbero smesso mai più. Ma ovviamente a un certo punto smisero. I singhiozzi e i singulti che squassavano loro il petto alla fine si placarono e i due si spostarono insieme sul letto: senza spogliarsi, si strinsero al calore dell'altro come due cuccioli zuppi d'acqua durante una tempesta. Bubba se ne era rimasto seduto a guardarli dall'ingresso, con relativa di-
screzione. I suoi poteri raziocinanti potevano essere trascurabili, ma la sua intuizione era di prim'ordine. Sapeva che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa di brutto. I loro abiti puzzavano di morte: di morte, di agonia e di disperazione. Bubba era un bravo ragazzo. Si era fatto da parte e se ne era rimasto per conto suo, lasciandoli ad affrontare la loro Brutta Cosa, come sapeva che presto o tardi avrebbero dovuto fare. E si era seduto a fare la guardia, vigile come sempre, fuori dalla porta della loro camera. Per proteggerli. Questo lo aveva fatto sentire un po' meglio. Era la sola cosa che potesse fare per aiutarli davvero, e la fece con tutto il cuore. Ma era rimasto lì molto a lungo. Più di quindici ore erano trascorse da quando Billy e Mona erano tornati dal Posto dei Morti. Bubba non sapeva cosa fossero i minuti e le ore, ma misurava il tempo accuratamente, con gli occhi, lo stomaco e la vescica. Aveva visto la luce spuntare, farsi più forte e poi scomparire di nuovo. Aveva sentito un brontolio nello stomaco che stava a indicare che aveva fame, ma lo sentiva ormai da tanto tempo che aveva smesso di pensarci. E aveva sentito il tempo trascorrere anche altrove, in un posto che non poteva ignorare ancora per molto. Bubba era un bravo ragazzo, ma se qualcuno non l'avesse portato fuori e subito, sarebbe successo qualcosa di brutto, di molto brutto. E così, quando capì che non sarebbe riuscito ad aspettare ancora, Bubba aprì delicatamente la porta col muso. E piano... pianissimo... si avventurò nel buio. Nel sogno, Billy era ancora nella cattedrale. E aveva paura. Perché la cattedrale stava cambiando: diventava sempre più confusa e indistinta a ogni passo che faceva. Le porte scomparvero: niente più ricordi, niente alternative. Nessun presente, tranne i passi che si susseguivano. Nessun futuro, tranne quello che si estendeva inesorabile davanti a lui. Un sentiero. Stretto e dritto. E affilato come la lama di un rasoio. Billy camminava, la strada si allungava tesa e sottile come la garrotta del boia, un laccio teso di ferro, un incubo dal quale non si può fuggire. Ma nel quale si può solo andare avanti. O precipitare.
Billy camminava. Non sentiva il dolore che ogni passo scavava in lui. Non sentiva le lacrime che gli solcavano il viso. Sentiva solo la paura. E piangeva ancora più forte perché anche la paura riusciva appena a sentirla... ... e fu allora che arrivò Bubba e gli leccò la faccia come solo Bubba sapeva fare, lingua calda bagnata odorosa di lacrime e sottoprodotti della carne. Billy tossì e sputacchiando aprì gli occhi. «Oh, Bubba» sussurrò. «Poverino.» Abbracciò il grosso collo peloso di Bubba, che agitò la coda. «Non ce la fai più, vero?» Bubba iniziò a dimenarsi come a dire: Andiamo subito subito SUBITO Billy! Billy sorrise, sentendo una gradita ondata di amore provenire da quella sciocca creatura che riusciva appena a contenere le sue effusioni. Si girò a guardare Mona. Era ancora persa nel mondo dei sogni. Sarebbe tornato prima del suo risveglio. Billy si alzò dal letto. Bubba iniziò la sua tipica danza, in parte perché vedeva avvicinarsi il sollievo tanto atteso, ma soprattutto per la gioia che provava. Billy era di nuovo con lui. Urrà urrà urrà... «Cerca di resistere ancora per un secondo» lo punzecchiò Billy sorridendo. «Lasciami prendere la giacca.» Bubba si diresse titubante verso il soggiorno. Billy prese la giacca e il guinzaglio, andò in cucina e aprì la porta. Per il suo amico. Era la passeggiata di Bubba e tutto ruotava intorno a lui. Fu Bubba a decidere il percorso: un giretto tranquillo nel terreno di proprietà del seminario episcopale, un turbinoso giro di tutti gli idranti e i lampioni che trovava nella zona. Fu sempre lui a stabilire l'andatura e la durata di ogni tappa. Non ci furono tiri di guinzaglio né alcun segno di nervosismo da parte del suo padrone: Bubba ebbe tutto il tempo che voleva per mettersi al corrente delle novità della zona. Era la passeggiata di Bubba e Billy fu lieto di concedergliela tutta. Per l'ultima volta. Nella mente di Billy era in corso un ping pong di sensazioni che andavano dallo stupore allo stato puro per la quantità di pipì che quel cane riu-
sciva a contenere (fino ad allora aveva fatto quattordici fermate) alla felicità semplice e senza limiti che provava guardando Bubba intento nella sua passeggiatina. E poi c'era anche la paura: una paura sorda che lo tormentava ripetendogli che Bubba era in pericolo per il solo fatto di essergli vicino. E questo Billy non poteva accettarlo. Girarono l'angolo ritrovandosi sulla Decima Avenue. Billy fu sorpreso dal fatto che Bubba entrasse a passi felpati nel Chelsea Commons. Se si trattava di una ricompensa per essere stato tanto paziente o se a Bubba semplicemente piaceva la vetrina che dava sulla strada, Billy non avrebbe saputo dirlo, ma alzò le spalle ed entrò. Prese uno sgabello e si accomodò al banco. Di servizio c'erano Jessie e Julie: la prima ai tavoli, la seconda al banco. Erano entrambe sveglie, dolci e amabili oltre ogni dire, e Billy si era spesso ritrovato a pensare che avrebbe sfidato l'inferno in cambio di una dolce scopata con una delle due. O con tutte e due insieme. Solo che ora (l'inferno è reale) non poteva evitare di considerarle come faceva con Mona e Bubba e (lisa) con ogni persona, ogni luogo e ogni cosa al mondo per cui provava affetto. Erano tutti in pericolo. Erano soggetti a rischio per il solo fatto che (l'inferno è VICINO) li amava. «Come te la passi?» disse Julie. «Tutto a posto?» Appoggiò una Rolling Rock ghiacciata davanti a lui e si chinò in avanti sul bancone. «E tu come stai, pagnottella di pelo?» disse rivolta a Bubba che dal davanzale verso la strada le rispose con un ansimante sorriso canino. «Stiamo entrambi benone» disse Billy. La sua voce era un po' troppo depressa per essere convincente. «E tu, come stai?» Julie si voltò verso di lui, intenerendolo con uno sguardo pacato che diceva non preoccuparti per me, bugiardello. Voglio la verità. «Hai un'aria distrutta» disse. «Non ancora, guarda!» scherzò lui senza troppo entusiasmo, flettendo i muscoli. Riuscì solo a suscitare una mezza risata: un quarto per braccio. «E Mona, che fa?» «Sta... dormendo.» Non gli andava di approfondire. Non gli andava di tirare fuori Lisa. Quel che era successo era
(TROPPO VICINO) troppo vicino per poter trovare sollievo. Sembrava invece che Julie volesse saperne di più, ma qualcuno la chiamò ad alta voce all'estremità opposta del bancone. Gli lanciò uno sguardo che era metà di rimprovero e metà di solidarietà, poi seguì il richiamo della foresta. Billy la guardò mentre si allontanava e sentì il piacere e la voglia e l'amore che si univano per far sbandare pericolosamente il suo cuore e la sua mente. E non gli fu di nessun aiuto, quando Jessie lo vide, il fatto che gli sorridesse salutandolo affettuosamente con un gesto della mano. Erano brave persone. Voleva bene a tutte loro. Erano indicibilmente, terribilmente fragili. E la sua presenza le metteva in pericolo. Si sentiva sotto tiro. E loro erano sulla traiettoria. Billy mando giù in fretta la sua birra, senza dire altro. Tirò fuori un biglietto da cinque da sotto il mucchio sempre più esiguo che aveva in tasca e lo infilò sotto il bicchiere. Quando Julie tornò, se ne era già andato insieme a Bubba. C'era qualcosa di molto importante che doveva fare. Erano tutti sulla linea del fuoco e doveva farli sgombrare. In un modo o nell'altro. Subito. Mona stava ancora dormendo, anche se di un sonno irregolare, quando Bubba e Billy rientrarono in casa. Billy era contento: non voleva che lei si ritrovasse sola al momento del risveglio. E non voleva nemmeno che si svegliasse subito, quindi questo era probabilmente il migliore dei mondi possibili. Evviva. Non impiegò molto tempo a scrivere le lettere: per strada, tornando verso casa di Mona, aveva pensato al modo in cui dire quello che andava detto. Erano brevi, eloquenti (e se lo diceva lui... ) e fecero sul suo animo l'effetto della Novocaina su un dente marcio. Quando le ebbe terminate, quasi non credeva ai suoi occhi. Bubba rimase seduto vicino a lui per tutto il tempo. Bubba non sapeva molte cose, ma alcune le conosceva bene. L'Amore. L'Amicizia. Gli Addii.
Billy si alzò e infilò una lettera nella tasca della giacca, l'altra la lasciò dove era certo che Mona l'avrebbe trovata. Bubba cominciò a uggiolare e quel suono andò a toccare delle corde nell'animo di Billy che sperava fossero ormai sorde. Si inginocchiò e grattò la testa di Bubba. «Sei un bravo ragazzo» disse Billy ricacciando indietro le lacrime. «E ti voglio tanto tanto tanto bene.» Bubba continuava a uggiolare. Questo lo sapeva già. «E non sei affatto stupido come sembri.» Bubba sapeva anche questo. Billy esitò per un istante, grattando con maggior forza il capo di Bubba. «E ora devi essere ancora più forte e ancora più astuto perché devi badare! a lei» Bubba sobbalzò a quella Parola. Billy sorrise mentre le lacrime gli salivano inesorabilmente agli occhi. «È giunta l'ora, Bubba» mormorò. «È giunta l'ora che io vada.» E Bubba sapeva anche questo. Cura del corpo Stanley era crollato pesantemente sulla sua poltrona preferita, febbricitante e in preda al delirio. La televisione era accesa a tutto volume e si rifiutava di fermarsi su un canale per più di dieci secondi, unendo pubblicità, programmi e telegiornali in un montaggio folle di luci e di suoni. Gli sarebbe piaciuto fermarsi a guardare qualcosa in particolare, ma il telecomando non voleva saperne di stare buono. Loro non lo permettevano. Era il loro modo di punirlo, di vendicarsi su di lui per quello che era andato storto. Per la ragazza. Per il suo braccio. Per aver disobbedito. Per qualcosa di più di quel che sapeva. Stanley lanciò con scarso entusiasmo uno sguardo iniettato di sangue al suo braccio destro maciullato. In realtà, preferiva non guardare. Provava abbastanza dolore già solo a girare la testa. Ma quando lo vide in tutta la sua gloria rigonfia, le cose presero per Stanley Peckard una nuova prospettiva. Ora infatti il braccio cominciava davvero a gonfiarsi, ricoperto dell'umido tessuto del suo impermeabile come un'enorme salsiccia affumicata di color grigio ardesia. Il gomito era completamente distrutto: i legamenti
ridotti a brandelli, le ossa che sporgevano fuori dalla pelle contusa. La spalla non andava molto meglio. Lisa gliel'aveva slogata quasi completamente e il dolore si era irradiato lungo il torace come strati roventi di lava fusa, trasformando ogni respiro e ogni movimento in una causa ulteriore di tormento. Se fosse stato per lui, avrebbe preferito morire nel vicolo. Ma no... Non glielo avevano permesso. Lo avevano fatto rialzare, urlante e ormai privo di forze, e lo avevano fatto allontanare incespicando nella notte. Lo avevano condotto fino a casa. Aprire la porta. Precipitarsi dentro. E una volta dentro... ... gli avevano fatto fare Altre Cose, cose che non avrebbe fatto da solo. Tranne che non era solo. C'erano loro insieme a lui. Lo avevano rimesso in piedi e si erano dedicati a lui. Lo avevano fatto sbattere e sbattere e sbattere contro il muro fino a che la sua spalla maciullata non era tornata al suo posto. Ma non bastava. C'era ancora tutto quel sangue. E così lo avevano trascinato di forza sotto la doccia. E lo avevano costretto a sciacquarsi. E poi, quando il sangue era quasi del tutto scomparso, gli avevano dato il permesso di inciampare e cadere a terra e strisciare fino alla sua poltrona preferita. E anche ora, fra i brividi di freddo e di dolore, uno dozzina di ore più tardi, continuavano a punirlo. Cambiavano i canali troppo in fretta, con il volume troppo alto, e in questo modo lo punivano. E lo punivano con grida e chiacchiere a vanvera che gli artigliavano il cervello. E continuavano a punirlo. Lasciando Stanley sulla sua sedia, che perdeva coscienza e poi la riacquistava, con gli occhi sbarrati a fissare quell'orrore che era stato un tempo il suo braccio sinistro. La mano aveva assunto un colore violaceo irato e malevolo: gonfia fino al doppio delle sue normali dimensioni, il sangue intrappolato dalla compressione della manica. Con immensa difficoltà, riuscì a spostare la mano destra fino a toccare la sinistra. Lasciando dei segni che non sarebbero mai scomparsi, che non potevano scomparire. Stanley ora ridacchiava. E le Voci erano furiose. Su, gli dicevano e fuori, gli dicevano, subito. Ma Stanley non ubbidiva.
Allora le Voci e i Piccoletti persero davvero la testa e cominciarono a strillargli nel cranio e sbattere le posate e premere sul telecomando con tanta forza che gli cadde di mano e volò attraverso la stanza. Ma Stanley se ne infischiava. Se ne sarebbe infischiato anche se avessero rotto la tele. E continuò a infischiarsene anche quando il dolore diventò (!!!!!) e (!!!!!) fino a che non cominciò a ballargli tutto davanti agli occhi. Erano stati loro che lo avevano costretto a farlo, che lo avevano spinto a uccidere la sua unica amica. E questo non glielo avrebbe mai perdonato. Finché fosse vissuto. E non sembrava che la sua vita sarebbe durata ancora per molto. Stanley Peckard se ne stava seduto sulla sua comoda poltrona e ridacchiava. Il dolore al braccio era così inesorabile nella sua atrocità che niente di quello che essi potevano fargli reggeva il confronto. Il dolore apriva una nuova prospettiva. Sottraeva loro l'unico mezzo che avevano per costringerlo a fare quel che volevano. Non avevano più niente su cui fare presa. Non avevano più potere su di lui. Il dolore lo rendeva libero. E nel dolore Stanley era libero di fare quel che più gli piaceva. Perse i sensi. Mentre i demoni continuavano a imperversare. Un piano ben congegnato Larry non aveva alcuna fretta di tornare a casa. Era l'alternativa meno gradita nell'intera gamma delle opzioni a sua disposizione, con la possibile eccezione di essere fatto a pezzi da un branco di donnole infettate dalla rabbia. C'erano però delle cose che doveva fare e poteva farle solo in casa sua. Nessuna di esse era piacevole. Ma doveva assolutamente. Erano quasi le sei e mezzo quando riuscì infine a trascinare le chiappe fino alla buona vecchia Stanton Street. Si stava facendo buio e le ombre diventavano sempre più lunghe e più forti, pronte a conquistare la notte. L'angoscia di Larry andava di pari passo con il buio, cresceva sempre più anche senza assumere una consistenza precisa, mentre percorreva nervosamente le strade.
L'incombente oscurità del cantiere edilizio lo innervosiva. Si aspettava continuamente che qualcosa saltasse fuori dal buio. I due portoricani fermi sul marciapiede non contribuivano certo a tranquillizzarlo. Era sempre più difficile confidare nell'indifferenza e ancor meno nella benevolenza degli sconosciuti. Ma non subì aggressioni né da una parte né dall'altra. E quindi rimase con un unico terrore che, come sapeva bene, aveva davanti. Quello rivelato dalle luci accese che vedeva nella stanza di Billy. Ci fu un lungo istante nervoso in cui Larry prese in considerazione l'eventualità di tornare sui propri passi. Il suo istinto gli urlava di farlo, il suo corpo si esprimeva in modo chiaro ed eloquente. L'intuito, spesso addormentato, lo informava senza possibilità di equivoco che Billy era pericoloso, che Billy era pazzo, che Billy non era più Billy. E se tu sali in casa, continuava, ti troverai solo con lui. Solo. C'era però una circostanza attenuante: non aveva altro posto dove andare. Tutti i suoi beni, o meglio quel che rimaneva di essi, erano lassù, e l'unico tetto sotto il quale depositarli era quello. Brenda la bomba sexy, che Dio benedica la sua testolina vuota, non era ancora pronta per accoglierlo sotto la sua ala protettrice, né lui era ancora interamente disposto a lasciarglielo fare, neppure come atto temporaneo e venale. No. Quell'appartamento era suo come di Billy e forse più suo che di Billy. Non era stato lui a trovarsi in ritardo di tre mesi con l'affitto. Non era stato lui a ridurre quel posto a un porcile con la sua incuria! Se avevano ancora un appartamento, questo lo si doveva soltanto a lui, a Larry. Fra le qualità di Larry, quella di creare dal nulla delle cazzate con una parvenza logica era certamente la migliore. Fece quindi uso di quel suo autentico talento sul suo pubblico più ostico. Su se stesso. E intanto si avvicinava alla porta d'ingresso. E tirava fuori la chiave dalla tasca. Siglando una volta per sempre il suo destino. Un piccolo falò bruciava in mezzo alla stanza di Billy gettando un caldo bagliore sulle quattro pareti emanando un dolce aroma di cedro e di pino. Billy sedeva a gambe incrociate davanti al fuoco. Aveva appena pianto l'ultima delle sue lacrime. E detto addio alla sua storia personale.
La prima ad andarsene era stata La vera guerra, il suo peana alla dolente ingenuità e all'inutile idealismo senza speranza. Aveva concesso cinque minuti di ascolto al nastro quando era tornato a casa, crogiolandosi nel patetico cordoglio di dovergli dire addio per sempre. Dopo tre minuti aveva cominciato a rompersi le palle. Dopo cinque minuti non ce la aveva più fatta ad ascoltare. Rideva troppo forte. Era arrivata la svolta decisiva. Il resto delle sue opere era stato dato alle fiamme in rapida sequenza: tutti i suoi nastri, tutti i volumi di testi e di accordi. Poi era toccato alle sue cose: manifesti, foto di concerti, una manciata di ritagli dei giornali della Pennsylvania. Infine era toccato agli accessori: pagelle, agende, matrici di biglietti dei suoi concerti preferiti, lettere d'amore, appunti e scarabocchi. Fotografie di tempi ormai lontani. La plastica e la carta non facevano un odore forte: cambiò l'aroma per adeguarlo al suo gusto. Non c'era fumo. Il pavimento era intatto. Il fuoco era totalmente sotto il suo controllo. E lo utilizzava anche per riscaldarsi le mani congelate. Ed era meraviglioso essere liberi, senza più alcun legame al mondo, senza niente che potesse frenarlo, né l'amore né la morte. Se prima potevano colpirlo solo attraverso le persone che amava, ora non potevano più fare neanche questo. Non poteva essere ferito, non poteva essere ucciso e il suo stupido passato non poteva essere usato contro di lui. E quanto era stupido il mio passato, rifletté con un sorriso amaro osservando le scorie incenerite della sua vita precedente. Pensava che sarebbe stato doloroso dover ammettere di essere stato un coglione fin dal giorno in cui era nato. Ma non era così. Anzi, era un vero e proprio sollievo. «Perché io non sono più te, ormai» disse ad alta voce, rivolto alle ceneri. «Non sono più il perdente dai grandi sogni che non si sarebbero mai potuti realizzare. Se voglio che un sogno diventi vero, ora mi basta far schioccare queste cazzo di dita.» Per non parlare poi dei piccoli sogni sognanti che per tanto tempo aveva creduto reali: visioni cosmiche che gli sembravano del tutto ragionevoli, dal momento che si era lasciato totalmente alle spalle la realtà. Vuoi mettere fine alla discriminazione sessuale? Un gioco da ragazzi, disse una vocina dentro di lui. Basta cambiare tutti gli uomini che vivono
sul pianeta. Vuoi trovare un rimedio per la fame nel mondo? Nessun problema! Basta far diventare il mondo un immenso panino imbottito. Vuoi far cessare tutte le guerre? È come bere un bicchiere d'acqua! Basta che tutti dimentichino le loro differenze. Cazzate. Cazzate. Cazzate. La gente non cambia così facilmente. A meno che non la si costringa a cambiare. A meno che non si sia destinati a regnare sul mondo intero. Ed era questa la cosa più importante, la differenza fra il vecchio, sdolcinato Billy Rowe e l'uomo che si avviava rapidamente a diventare. Il vecchio Billy Rowe voleva che le cose andassero diversamente. Il nuovo Billy Rowe si assicurava che fossero diverse. Prima che avesse finito, il mondo avrebbe subito una trasformazione come non se ne vedeva dal tempo in cui avevano scoperto il fuoco. Gli serviva solo un po' di tempo. Cinque anni, per esempio. Aveva sentito dire spesso che ogni nuova iniziativa aveva bisogno di un piano quinquennale. Ora ne comprendeva il senso. Se non altro, il suo piccolo fiasco della serie New York, ti amo aveva dimostrato che non si può uscire allo scoperto e fare tutto e subito. Per gradi: ecco come doveva muoversi. Lentamente ma con decisione. Per gradi. La prima cosa da fare era scomparire: trafugare un paio di milioni di dollari dalla cassaforte di Bechtel o di Billy Graham, trovarsi un posto carino da qualche parte del mondo e rifugiarvisi in incognito. Studiare la storia del mondo e i grandi eventi della storia. Elaborare una strategia. Individuare degli obiettivi. E nel frattempo sviluppare il Potere. In una settimana, da quando cioè aveva preso coscienza di averlo, il Potere era quasi triplicato. Nel giro di cinque anni, Dio solo sapeva quanto sarebbe diventato forte. Cristo santo, a trentatré anni avrebbe... Si fermò. Torna indietro. A quale età? Di lì a cinque anni avrebbe avuto trentatré anni. Come il figlio di Dio dai lunghi capelli che era sceso sulla terra per cambiarla. Billy scoppiò a ridere. Era sbalordito. Era troppo perfetto per non essere vero. Sei stato scelto, gli aveva detto Christopher. Sei un uomo eccezionale, con un compito eccezionale davanti a te, un fine per il quale sei nato. «Christopher!» gridò istintivamente, sforzandosi di soffocare le risate. Nessuna risposta. «Christopher!» gridò nuovamente, spostando lo sguardo
sulle pareti nude. I riflessi del fuoco e le ombre danzavano sulle superfici bianche, ma l'angelo non si decideva a comparire. «Andiamo, Christopher! Devo parlarti!» Ancora niente. Si ricordò dell'ultima cosa che l'angelo gli aveva detto e ne fu al tempo stesso mortificato ed esasperato. «Forza, non fare lo stronzo! Scusami! Ho visto la luce! Perché non...» E fu allora che la porta di casa si aprì. La cucina era esattamente come l'aveva lasciata. Larry si chiese come mai non ne era affatto sorpreso. Il suo meccanismo mentale sparacazzate era in piena attività e produceva dosi massicce di coraggio verbale a un tasso incredibilmente alto. Si sentiva pronto per il momento in cui Billy sarebbe comparso sulla porta. Si sentiva pronto a presentargli il conto. Quando Billy comparve realmente sulla porta, tutto il suo coraggio si sgonfiò come un palloncino. La voce dell'istinto tornò a galla dicendo SCAPPA SCAPPA SCAPPA SCAPPA talmente forte che stava quasi per farlo. Ma poi Billy disse: «Larry». E Larry si bloccò. E i due si fissarono per un tempo che si sarebbe detto eterno. «Billy» disse infine Larry, con voce sommessa. Era stupito dal fatto di avere ancora una voce con cui parlare. «Sono tuo amico, giusto?» Billy sorrise. «Non lo so. Secondo te?» «Ho sempre pensato di esserlo.» «Anch'io ho sempre pensato che tu lo fossi.» «Allora cosa c'è che non va?» «Non lo so. Dimmelo tu. Dimmelo tu se sei mio amico. Dimmi cosa c'è che non va.» «Non ci vuole molto, Billy» disse Larry che era sempre più stupito per il modo in cui si stava comportando e per la facilità con cui riusciva a farlo. «Mi scarichi tutto addosso. Come se fossi stato io a combinare tutto.» La voce gli stava tornando. La usò. «Ho l'impressione che siamo finiti in mezzo a un casino veramente pazzesco...» Billy rise. «... e senza volerlo ci siamo messi l'uno contro l'altro» proseguì Larry. «Non mi sembra giusto. È questo che sto cercando di dire. Dovremmo aiutarci reciprocamente e invece...» «Larry.»
Larry smise di parlare. L'aria sembrò improvvisamente raffreddarsi. «Cosa c'è?» «Piantala di dire cazzate, Larry.» Sì, decisamente più fredda. E la paura ritornò. «Cosa intendi dire?» «Quello che hai detto va benissimo, solo che di me non te ne è mai fregato un cazzo in questi ultimi mesi. E non cercare di negarlo. Ero solo un peso, una rottura di palle, a meno che qualcuno come Mona non organizzasse una festa in cui tu avresti potuto stringere contatti utili se solo fossi stato un comico decente. Cosa che non sei. Hai capito quello che intendo dire? Allora sì che ti andavo bene, tramite me potevi conoscere gente importante, ma non ti è servito a un cazzo di niente.» «Ehi...» Larry sapeva che a quel punto avrebbe dovuto incazzarsi di brutto. Ma non ci riusciva. Non riusciva a trovare la forza. La stanza si stava facendo sempre più gelida e aveva troppa strizza. «Tu vuoi che me ne vada di qui» insistette Billy. «Non serve leggerti nella mente per capirlo, basta guardarti in faccia. E va bene. È giunto il tempo che io me ne vada. Inoltre questo posto te le sei conquistato. Ti si addice.» Fece un gesto con la mano intorno a sé, verso i mobili malconci e disastrati. «Sei degno di loro e loro sono degni di te. Ma voglio che rifletta sulla tua vita, perché non è mica così splendida come credi. Ti stai facendo strada a forza di cazzate. Le cose che dici, le dici solo sperando di fare colpo. Io ero tuo amico, ma ora non ne posso più di te perché te ne freghi di tutti e ti importa solo di te stesso. Per vivere non fai altro che mentire. Menti a me. Menti a te stesso. Menti alla tua telefonista decerebrata e solo per questo riesci a scopartela. Se per un avanzamento di carriera ti chiedessero di sbudellare tua nonna, lo faresti senza battere ciglio.» «Billy.» Cominciava a essere troppo. La paura stava crescendo, ma si era trasformata in qualcos'altro che gli faceva venire voglia di reagire, no, che lo costringeva a reagire con tutta la forza che aveva a disposizione. «Billy.» Billy ripeté il suono del proprio nome, imitando in modo beffardo la voce di Larry. Un'imitazione perfetta. «Billy, cosa?» Larry impiegò un secondo per radunare tutto il suo coraggio. Continuava a essere stupefatto, vedendo quanto ne possedeva. «Billy, chiudi quella cazzo di bocca.» Seguì un lungo momento di crepitante silenzio nel quale perfino l'aria sembrava essersi condensata per il freddo. Poi Larry avvertì la prima ondata di calore attraverso la pelle: non ancora dolorosa, ma subito travolta
dalla seconda. Stai per morire, gli comunicò la sua mente, lontana e con sfacciata noncuranza. Il suo corpo, meno distaccato, cercò di dare voce a un grido. Il campanello della porta iniziò a squillare. Gli occhi di Larry erano serrati, la pelle sottile delle palpebre avvertiva i primi segnali dolorosi e pungenti di un'imminente ustione di primo grado. La sua mente, sempre odiosamente calma, iniziava a mostrargli degli spezzoni del passato. Le narici avvertivano il calore e le orecchie non sentivano nulla. Non era più cosciente della presenza di Billy. Ma poi sentì il calore che si allontanava all'improvviso da lui, sentì l'ondata tangibile di luce concentrata spostarsi rapidamente alla sua sinistra. L'improvviso afflusso di aria fresca intorno alla pelle surriscaldata fu traumatizzante come il passaggio dalla sauna a un mucchio di neve. I suoi occhi si spalancarono. Il campanello continuava a trillare, poi si fermò di colpo. C'era qualcosa di strano nel modo in cui aveva smesso di suonare. Non si era interrotto, ma piuttosto era morto. Larry alzò gli occhi sulla suoneria che era collocata sul muro proprio sopra l'intelaiatura della porta: un cerchio argenteo con i meccanismi connessi, al posto in cui era sempre stato. Solo che ora si stava sciogliendo, il metallo diventava molle come un orologio di Dalì, poi il fumo e le scorie che bruciavano sul muro... Ci fu uno strano, impalpabile istante in cui i suoi occhi si rifiutarono di accettare quel che vedevano. Continuava a sbattere le palpebre, come se il tremolio delle ciglia potesse in qualche modo far scomparire quella visione. Ma non ci riusciva. Le gocce roventi del campanello cadevano sul pavimento di legno, formando lingue minuscole di fiamme azzurrine. Una puzza simile a quella della stagnola bruciata riempì la cucina. «Ti fa riflettere, vero?» disse la voce alle sue spalle. Larry sentì una mano fredda piombare sulla sua spalla nella parodia di un gesto amichevole. «Se il Signore non fosse intervenuto...» ... ecco che cosa sarebbe successo, completò la frase Larry. Non gli restava che accettare quello che era successo. Guardò il metallo fuso e la sua mente disse doveva succedere lo stesso a te, vecchio mio. Era diretto a te. E se il Signore non fosse intervenuto... E poi fu troppo, troppo, e l'urlo che prima voleva uscire gli spuntò sulle labbra già formato mentre si avvicinava alla porta, senza guardare Billy, senza guardare il mostro che Billy era diventato...
... fino a che il mostro Billy non si fermò davanti a lui, gli occhi neri come la notte e i denti che luccicavano candidi. Larry cercò di gridare per la seconda volta, ma Billy lo toccò sulla fronte e l'urlo si bloccò. «Stai zitto» disse Billy «e vai a nanna...» ... e Larry crollò al suolo senza neanche un gemito. «Proprio come Bubba» ridacchiò Billy. «Ma meno intelligente.» C'era qualcuno alla porta di sotto. Era l'unico motivo per cui Larry Roth era ancora fra noi. In un certo senso era meglio: meno cadaveri in circolazione significava meno cadaveri di cui sbarazzarsi. Inoltre Larry non era propriamente un criminale incallito. Era solo un coglione saputello che si era messo fra le palle. «Torno fra un attimo» comunicò al suo compagno di casa addormentato. «Devo occuparmi del nostro ospite non invitato.» Si diresse verso la porta, notò che aveva creato le chiare premesse di un incendio che avrebbe devastato l'intero palazzo e lo spense con uno sguardo congelante. Scese le scale e arrivò al primo piano, superò la porta di Albert, dietro la quale, sparsa sul pavimento del bagno, si trovava ancora una polvere vagamente senziente, ed entrò nell'atrio olezzante. Due cose gli saltarono immediatamente all'occhio. Primo, un foglio di carta che penzolava dalla cassetta della posta. Secondo, l'agente Hamilton che gli sorrideva attraverso la porta. Il pezzo di carta non se la sarebbe presa se Billy si fosse occupato prima dell'agente. Non si poteva dire che Hamilton l'avrebbe presa bene se Billy si fosse invece attardato a leggere il foglietto. Billy si infilò quindi il pezzo di carta nella tasca posteriore dei pantaloni, aprì il portone e uscì fuori. «Come va?» esclamò allegramente. Hamilton annuì col capo e fece per entrare. Billy scosse la testa facendo un altro passo avanti, lasciando che la porta gli si chiudesse alle spalle. «Non mi inviti a salire su da te?» chiese Hamilton fingendosi offeso. «No.» «Allora ti andrebbe di venire con me alla stazione di polizia?» «No.» «Allora forse potremmo fare qui due...» «No.» «Che ne diresti di fare Clint Eastwood per me? I ragazzi del Ventiduesimo distretto hanno detto che eri uno schianto.»
Billy si fermò a metà del quarto no e rifletté per un istante. Hamilton era tutto un sorriso, ma dietro quell'apparenza percepiva della paura e una serietà assoluta. Aveva dei sospetti, Dio solo sa come avesse fatto, e stava rischiando il culo per vedere se erano veri. Billy non poté che ammirare il suo coraggio e sperò sinceramente di non vederlo finire con le budella sparse per tutto il marciapiede. «Non la so fare l'imitazione di Clint Eastwood» disse Billy. «Oh, che peccato.» Hamilton non abbassò lo sguardo. «So fare Wally Cox, però maluccio. Vuoi sentirlo lo stesso?» «No, grazie. O Clint, o niente.» «Che cosa vuoi?» Ora fu Hamilton a restare senza parole. Billy drizzò la testa e gli si avvicinò. Hamilton fece un passo indietro. Fantastico. «O meglio, ho capito quello che stai cercando, ma non ha senso. Perché proprio io?» «È esattamente questo che mi chiedo.» «Stai a sentire, Dennis.» Fece un altro passo avanti. Questa volta Hamilton non indietreggiò. A suo modo, era altrettanto fantastico. «Sei una brava persona. Si vede. E non vorrei essere al tuo posto.» «Questo l'hai già detto.» «E lo ripeto.» Impiegò un secondo per capire che si era intrappolato con le sue stesse mani. Gli comparve sulle labbra un sorriso di ammirazione. «Bel colpo» disse. «Allora, che mi dici di Clint?» «Allora, che mi dici dei Knicks?» Billy era al tempo stesso infastidito e divertito. «Non mi pare che tu abbia colto il messaggio. Lascia perdere il Vigilante. Non sono affari tuoi, chiunque egli sia. Tu hai un maniaco omicida da trovare. Hai milioni di innocenti da proteggere.» «È esattamente questo il punto.» «Dennis, non è ora che tu vada?» «Billy, sta' in guardia. Finora non ho niente a che ridire sulla gente che hai fatto fuori. Credo che non sarebbe dispiaciuto neanche a me fare la stessa cosa. Ma se passi il limite e fai del male a degli innocenti, ti piomberò sul culo come una tonnellata di mattoni.» E ti ritroverai morto come un mattone, pensò Billy, ma riuscì a tapparsi la bocca prima di dirlo. «Ciao, Dennis» disse invece. «Ciao, Billy. Mi raccomando, fai attenzione.» «Anche tu.»
Hamilton si girò allontanandosi lungo il marciapiede. Billy rimase a guardarlo per un minuto. Anche se la sua bravata era stata inutile, Billy ne era rimasto comunque indubbiamente colpito. Domani, si disse, quando scomparirò dalla tua vita per sempre, sarai una persona molto più fortunata. Sarebbe stato un peccato doverti ammazzare. La nazione ha bisogno di uomini come te. Chi lo sa, forse fra cinque anni ci ritroveremo dalla stessa parte. L'Esercito è sempre alla ricerca di uomini validi. Poi ordinò alla porta di aprirsi, senza neanche preoccuparsi di usare la chiave, e tornò nuovamente al piano di sopra. C'erano ancora alcune cosette di cui doveva occuparsi prima che la notte fosse libera di iniziare. Dopo mezz'ora si ricordò del biglietto che aveva in tasca. Urban Buddy L'agente scese dall'ultimo vagone del treno AA alla fermata della Quarantaduesima. Ramsey e Clive avevano atteso pazientemente, con il Master Blaster nuovo di zecca di Ramsey infilato saldamente in mezzo a loro. Come nascondere un baule con un fazzolettino. Era enorme: altoparlanti a quattro uscite, doppia piastra, sistema Dolby, equalizzatore stereofonico a cinque bande, ampli spaccatimpani di settanta watt per canale. Dovevano portarlo in due, ma quel cazzo di impianto era fantastico. Con ogni probabilità, sarebbe riuscito a far deragliare il vagone. E Ramsey e Clive erano le persone giuste per verificare questa teoria. Non appena il porco se ne fosse tornato nel suo buco. L'agente lanciò loro un lungo sguardo ammonitore prima di andarsene. Ramsey e Clive risposero con un sorriso innocente come il bacio di una vecchia zia zitella. Poi si sentì un sibilo, le porte cominciarono a chiudersi e l'agente scese. Continuò a fissarli dal vetro della porta fino a che il treno non si mise in movimento, allontanandoli dalla sua vista. Ramsey e Clive sbottarono a ridere e fra una risata e l'altra sputacchiarono disgustose imprecazioni per sottolineare la loro allegria. Il porco se ne era andato, il treno filava ed era giunto il momento di fare casino. Ramsey accese il Blaster mentre Clive accendeva il cannone. Un fumo dolce e muschiato e una musica spaccaorecchie riempirono immediatamente lo spazio ristretto del vagone della metropolitana. I passeggeri cominciarono a spostarsi all'estremità opposta della carrozza. Ottimo anche questo. Divertente da matti. Con i loro sguardi furtivi e
gli occhi rivolti altrove assomigliavano più a marionette soggiogate che a esseri umani. E questo li rendeva tutti delle facili vittime. E poi c'era quel ragazzo: un giovanotto bianco che sembrava aver bisogno di una doccia e di farsi la barba. Aveva un pezzo di carta in mano e non smetteva di leggerlo. Era concentrato, ma non su di loro. Sembrava quasi che non ci fosse. Guardandolo, Ramsey rise. Non c'è da preoccuparsi di quello sfigato, pensò. Se gli freghiamo il portafoglio da sotto il culo, neanche se ne accorge. Mandò il Blaster a tutto volume. Clive saltò su dalla sedia con la canna in mano e cominciò la passeggiata al centro del corridoio. Il sorriso di Ramsey andava da un orecchio all'altro: conosceva quel numero a memoria. Clive si preparava a fottere qualcuno. La festa stava per cominciare. Il treno si fermò sibilando sulla Cinquantesima. Parecchi passeggeri salirono in tutta fretta. Ramsey dubitava seriamente che il vagone su cui erano saliti sarebbe stato di loro piacimento. Vide infatti che molti si voltavano per trasferirsi sulla carrozza successiva. Nessun problema. Ce n'erano già un sacco lì dentro. E le porte si chiusero. E il treno partì. E la festa cominciò sul serio. Billy aveva letto il biglietto almeno cento volte negli ultimi cinque minuti. Ma non era questo il problema. Non era questo il punto. Il punto era che sentiva puzza di guai come se si fosse trattato dell'aroma di caffè colombiano appena tostato, e non era affatto dell'umore adatto per tollerarlo. Il tipo dall'altra parte del vagone stava per fare qualcosa di brutto, il tipo dalla sua parte del vagone era solo cento volte più rumoroso del necessario. Il tipo dalla sua parte del vagone era più vicino. Billy cominciò da lui. «Spegnilo» disse. Il tipo con il Blaster lo fissò sbalordito. Forse colpa della droga. Forse colpa della sua idiozia. Forse di entrambe. Ma era uguale. «Subito» insisté Billy. «E non te lo ripeterò due volte.»
Il tipo continuava a fissarlo senza fare nulla. Allora Billy si alzò, gli tolse di mano il Blaster e lo scaraventò attraverso il finestrino più vicino. Tutti i passeggeri girarono la testa: una breve esplosione di vetri, poi scese un silenzio terribile. Billy avvertì il calore degli sguardi su di lui, ma nessuno era più rovente di quello dell'uomo che gli era balzato in piedi davanti. Aveva preso un'arma. A Billy venne da ridere quando la vide. Era una roba che aveva visto pubblicizzata sul retro delle riviste Eagle e Soldier of Fortune. In quella situazione, era una delle cose più ridicole su cui avesse mai posato lo sguardo. Si chiamava Urban Buddy: otto centimetri di lama di acciaio inossidabile affilata come un rasoio con un manico antiscivolo ricoperto di neoprene. La pubblicità si soffermava compiaciuta sul fatto che una mezza sega di quarantacinque chili poteva fare fuori un capo zulù, recidere le masse muscolari più importanti, liquidare in un secondo branchi di teppisti pervertiti devoluti drogati. Sì, Urban Buddy era un'arma con le palle. Quei pidocchi dei survivalisti ne andavano pazzi. Immobile con quel mortifero strumento a forma di freccia che gli fluttuava a pochi centimetri dal viso, Billy si chiese come si sarebbero divertiti quei pidocchi di survivalisti all'idea che fosse stato invece un capo zulù/teppista pervertito devoluto drogato ad avere in mano una delle loro offerte speciali da 39 dollari e 95. Non ce la fece. Non riuscì a trattenersi. Lo sguardo confuso sulla faccia del suo aggressore non fece che peggiorare le cose. Il tipo stava praticamente per esplodere dalla rabbia ma la risata di Billy lo paralizzò. «Ehi!» strillò il tipo. «Ti faccio a fette...» «Oh oh, mi è semblato di vedele un coltello!» scherzò Billy imitando alla perfezione il canarino Titti. Poi agitò la mano floscia davanti alla lama dicendo: «Perché non prendi questa roba e non te la ficchi su per...» Clive non credeva ai propri occhi. Quando il Blaster era volato fuori dal finestrino, aveva iniziato a tornare indietro, fremendo per entrare in azione. Quel ragazzino bianco era indubbiamente stanco di vivere. Ma ora Ramsey strillava e i pantaloni gli si stavano macchiando di rosso sul culo e che cazzo stava succedendo, Clive non credeva ai propri occhi. Quando il ragazzo si voltò a guardarlo, con gli occhi come due tizzoni ar-
denti, cominciò rapidamente a indietreggiare pensando non ci riuscirai a mettermi le mani addosso, no... Una gamba spuntò fuori dietro di lui, con la caviglia tesa. Clive non la vide neppure. La cosa di cui si accorse subito dopo era che stava ruzzolando all'indietro, e la sua testa fece clang contro il palo al centro del vagone. L'ultimo secondo di caduta libera, per sua fortuna, non fu infestato da pensieri di sorta. Ma poi riprese conoscenza e tutti gli furono addosso: nel giro di un secondo quel gregge di pecore si era trasformato in un branco di lupi mannari. I suoi occhi si aprirono appena in tempo per vedere una scarpa nera di pelle lucida sbattergli sui denti, piegandoli all'indietro e spezzandoli. Un'altra scarpa, stretta, a punta e femminile, gli infilò un tacco a spillo nell'inguine. Cercò di urlare a bocca ancora piena. Non ce la fece. E poi i calci cominciarono ad arrivare da tutte le parti: sulle reni, sulle costole, sulle tempie. Le braccia e le gambe erano bloccate a terra da piedi che gli saltavano sopra. Il dolore lo trascinò fino ai limiti dell'incoscienza, ma lo tenne lì per più tempo di quanto avrebbe voluto. L'ultima cosa che ricordò da vivo fu il colpo che gli cavò l'occhio destro. Poi si levò al di sopra del suo corpo, soffermandosi per un istante di brutale voyeurismo prima di precipitare all'inferno... E quando il Vigilante fu sceso dal vagone, tutti quei neovendicatori erano pronti a fornirne una descrizione. Era un ebreo. Era un gentile. Era un fratello. Era una sorella. Il Vigilante era uno specchio. Il Vigilante era ognuno di loro. E il Potere li dominava tutti. Concomitanza Dave stava svolgendo i suoi doveri di padrone di casa quando sentì bussare alla porta. Niente di speciale, qualche amico intimo e i membri del gruppo, tutti insieme per rilassarsi un po' e buttare là qualche idea. Restava comunque una riunione privata e tutti quelli che erano stati invitati erano già arrivati oppure avevano detto che non sarebbero venuti. E così, quando aprì la porta, il suo primo pensiero fu che diavolo ci fai tu qui? Seguito da che diavolo ti è successo?
Seguito da un semplice ma che diavolo...? «Dave, non dire niente» fece il visitatore. «Prendi questo, va bene?» Dave non disse niente ma la sua mente vacillò di fronte a quello che aveva davanti. Era difficile accettare che qualcuno si potesse deteriorare: così in fretta, e in così poco tempo. Soltanto due giorni prima erano seduti al bar insieme e Dave si era stupito dalla trasformazione di Billy, che sembrava aver assunto una consistenza che prima non aveva. E ora... Billy stava dicendo qualcosa che Dave non aveva afferrato. Tornò di colpo al presente e sentì: «... quindi probabilmente è meglio così per tutti». «Torni un'altra volta?» disse Dave. «Scusami, ma...» Billy si irrigidì, sembrava che fosse sul punto di riprendersi quello che gli aveva dato. «No, scusa, scusa tanto. Mi ero distratto per un...» «Leggi il biglietto» disse Billy e si girò per andarsene. Dave fissò il pezzo di carta ripiegato che aveva in mano e poi la schiena che si allontanava. Avanzò rapidamente di un paio di passi e appoggiò la mano sulle spalle curve del visitatore. «Billy, aspetta...» cominciò. Billy si fermò e poi si voltò. A Dave si bloccò in gola il respiro. Billy aveva un'espressione infastidita, senza dubbio, ma cento volte peggio del solito. Dave pensò che se anche l'esaltazione più sublime fosse apparsa sul viso di Billy in quel momento, sarebbe apparsa come un segno di lutto. Era un volto terrificante. Era il volto di un uomo che non aveva più niente da perdere. Dave aveva pensato di invitarlo a entrare: una birra, quattro chiacchiere, un po' di musica con i ragazzi. C'era un calumet della pace nel suo cuore e avrebbe voluto che Billy lo fumasse insieme a lui. Ma non era il caso. E Dave se ne rendeva perfettamente conto. «Prenditi cura di lei, amico» disse Billy. E se ne andò. Ore dopo, quando l'ultimo degli ospiti ebbe lasciato là sua casa, Dave riuscì infine a raccogliere l'energia necessaria per risolvere il mistero. Quando capì, era ormai troppo tardi. Biglietti dall'aldilà Mona si risvegliò di colpo alle nove e quaranta. Si ritrovò completamente sveglia, senza traccia delle ragnatele del sonno e senza ricordare i sogni che aveva fatto.
La sua stanza da letto era buia e lei era sola. Il posto accanto al suo, dove aveva dormito Billy, era freddo da tempo. Le cifre al neon dell'orologio digitale erano il suo unico punto di riferimento, ma ebbero l'unico effetto di disorientarla ulteriormente. «Billy?» chiamò, cercando di abituarsi all'idea che fosse così tardi e che aveva dormito sedici ore filate. «Billy, sei in casa?» Si sentirono dei rumori in soggiorno. «Billy?» ripeté Mona e mentre le parole le sfuggivano dalle labbra comprese che non si trattava di Billy. Non c'era dubbio. Billy avrebbe risposto. Billy non si muoveva così. Qualunque cosa fosse, non era Billy. E non era un essere umano. Il terrore si insinuò dentro di lei, travolgendo la sua lingua con un gusto ramato di sangue. Si alzò a sedere nel letto, cercando accanto a sé il calzino pieno di monete che aveva messo da parte per occasioni del genere. Fosse umano o no, non aveva alcuna importanza: se Dio le dava la forza, gli avrebbe fracassato il cranio in ogni caso, se fosse arrivato a meno di un metro da lei. Digrignò i denti mentre cercava con le dita il calzino scozzese pieno di monete, lo afferrava, cominciava a sollevarlo... ... e poi la sagoma scura saltò sul letto, appiccicandole il naso gelido al viso, tirando fuori la lingua calda e umida per leccarle la guancia... ... e Mona lasciò andare il calzino che cadde a terra con un tonfo. «Oh, Bubba!» gridò ridendo suo malgrado. «Oh, Bubba! Stavo per farmela sotto dalla paura per colpa tua!» Bubba si dimenò ancora di più e continuò a leccarle la faccia sempre più forte. Era incorreggibile. Mona glielo disse. Non servì a niente. Accarezzò la grossa testa smussata e le orecchie flosce, rincuorata da quella presenza irrazionalmente affettuosa. Le sue dita corsero giù per il collo tozzo, danzarono attorno al collare con le borchie... ... e si tagliarono con un pezzo di carta, ripiegato e infilato sotto il collare. «Ow!» gridò, seguito rapidamente da un altro «Ow!» Si succhiò il taglietto sul dito, poi con la mano sinistra tirò fuori il biglietto che era sotto il collare di Bubba mentre con la destra accendeva la lampada sul comodino. La luce riempì la stanza e le aggredì gli occhi. Anche Bubba ammiccò, poi diresse con intensità gli occhi castani, caldi e intensi, su di lei. Lentamente, con l'animo pieno di tristezza, Mona aprì il biglietto. Aveva il brut-
to presentimento che non avrebbe letto niente di buono. Aveva ragione. Mona, questa è la cosa più difficile che ho mai fatto, a parte identificare il cadavere di Lisa questa mattina. Non mi aspetto che per te sia più facile. La mia vita è diventata troppo folle e pericolosa per noi e non possiamo continuare a essere amanti. O amici. O vederci di tanto in tanto. Non posso dirti perché. Non ti piacerebbe saperlo. Credimi, tesoro, quando ti dico che cercare di scoprirlo sarebbe la mossa peggiore che potresti fare. Quindi ti dico addio e per sempre. Ma non posso andarmene senza dirti che ti amo e che ti amerò sempre: quando l'intero universo si consumerà tra le fiamme tutti gli scarafaggi saranno spazzati via, ma all'amore che provo per te non sarà torto un capello. Ti prego di credermi. Ma tu starai meglio con Dave e quindi vi lascio l'uno all'altra. Vi auguro tutta la fortuna e il successo che il vostro cuore desidera. Vi auguro tutta la felicità che io non potrò mai avere. Non cercarmi. Dimenticami. Finché è durato, è stato il massimo. Adesso è venuto il momento di muoversi. Ti amo. Addio. Il biglietto non era firmato. Non che avesse importanza. Quando arrivò in fondo al foglio, riusciva appena a mettere a fuoco le lettere. «Maledetto» mormorò e poi lo ripeté nuovamente. La seconda volta accartocciò il biglietto e lo tirò contro il muro. Lo colpì. Ma non cambiò niente. Non bastava. Neanche un po'. «Bastardo» proseguì con un po' più di voce. Sul letto accanto a lei Bubba incominciò a uggiolare. Buon vecchio Bubba: la bontà e l'innocenza di Billy fino all'ultima goccia, distillate in una palla di pelo scodinzolante e lasciate sulla sua soglia. Abbracciò forte il cane, piangendo, abbandonandosi alla magra consolazione che questo le dava.
Avrebbe voluto che Lisa fosse lì per confidarsi con lei, per tenerla stretta, per cercare di trovare insieme a lei un senso a quell'incubo. Ma Lisa ne era già stata risucchiata, era finita dove finiscono le femministe radicali lesbiche che non credono in Dio quando i loro corpi muoiono e le loro bellissime anime si liberano nell'etere. È in paradiso, pensò Mona. Che ci credesse o no. Poi pensò a Billy e per qualche ragione lo collegò mentalmente all'inferno. Mona impiegò altri cinque minuti per uscire dal letto. Altri tre minuti per arrivare al telefono. Credimi, tesoro, le comunicò la mente con una voce che non era la sua, cercare di scoprirlo sarebbe la mossa peggiore che potresti fare. Altri trenta secondi per alzare la cornetta e fare il numero. Da quel momento la situazione le sfuggì di mano. Completamente. Larry si svegliò alle dieci meno quattro minuti sentendo squillare il telefono. Si accorse che aveva delle schegge di vetro dei bicchieri e dei cocci di piatto infilati nella schiena e gemette. Il telefonò squillò nuovamente. Cercò di appoggiarsi sulla mano destra e vide che stringeva un foglio di carta nel momento stesso in cui un pezzo di vetro rotto gli si conficcava nel palmo della mano. Urlò. Il telefono squillò nuovamente. «MERDA!» strillò estraendo il pezzo di vetro e riempiendo di sangue il biglietto che Billy gli aveva lasciato. Il pezzo di carta, il sangue e il vetro si mescolarono in un'inconcepibile forma senza senso. Fissò il tutto senza capire niente di nessuna delle singole parti. Il telefono squillò nuovamente. E la segreteria telefonica entrò in funzione. Non far caso a quel che dicono da queste parti. Roth e Rowe sono qui e vogliono restarci. Al telefono quella cosa non si può fare se vuoi lasciarci un messaggio devi prima aspettare il BIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIP «RISPONDI!» disse la voce stridula che usciva dalla segreteria telefoni-
ca. «RISPONDI, IDIOTA!» Larry cercò con tutte le sue forze di alzarsi in piedi, ma si sentiva confuso e stordito. La mano continuava a sanguinare. Il foglio bianco del biglietto era diventato rosso. La carne gli pizzicava dolorosamente e aveva assunto una colorazione più scura del consueto. «Rispondi a questo cazzo di telefono, fifone! Non riuscirai a liberarti di ME così facilmente!» Il telefono e la segreteria telefonica erano le uniche cose nella stanza di Larry ancora intatte. Larry si avviò barcollando, sollevò la cornetta e la portò all'orecchio, sentì il doloroso gemito del ritorno di segnale, abbassò automaticamente il volume e parlò. «Pronto?» La sua voce sembrava una macina che frantumava pietre. «Chi parla?» «Larry?» La voce era più pacata, ma non meno acuta. «Sì, sono io.» Guardò il sangue che scendeva lungo il foglio di carta. «Qui parla Larry. Chi è?» «Cristo santo, Larry. C'è Billy? Sono Mona. Devo parlare con lui.» Le parole uscirono dalla cornetta tutte confuse, ma il tono era sceso fino a diventare accettabile. «Mona, Billy non c'è.» Abbassò gli occhi sul biglietto. Si accorse del silenzio che regnava nella stanza. Il terrore tornò in lui: un grumo canceroso e sanguinolento in gola. Guardò nuovamente il biglietto. Lesse le prime parole. «Larry.» Non era una domanda. «Cosa c'è? Che succede?» «Ho in mano un biglietto» disse Larry. La sua voce era calma e piatta, completamente all'opposto del suo stato d'animo. Ringraziò il Signore per avere imparato così bene a fingere. «Ho qui un biglietto di Billy ed è coperto di sangue. Forse farei bene a leggertelo.» La voce di Mona. Appena percettibile. «Va bene.» La voce di Larry, poco più sonora, le lesse il testo del biglietto. Larry, non voglio ucciderti. Questo non significa che non lo farò. Dipende da te, se seguirai queste semplici regole: NON PARLARE DI ME CON NESSUNO. NON PROVARE A ENTRARE NELLA MIA STANZA. Fai quello che ti ho detto e tutto filerà liscio. Fai come cazzo ti
pare e io non mi riterrò responsabile di quello che accadrà. Sta' in guardia, amico. E fatti furbo. Obbedisci. Silenzio: totale, e per questo ancora più orribile. Dall'altra parte: un debole rumore di lacrime. Larry utilizzò quel paio di minuti in cui Mona non riusciva a parlare per schiarirsi le idee sulla nuova situazione che si era creata. Era pronto a scoppiare a piangere come Mona, ma non era da lui. Come il suo primo paio di scarpe, le sue emozioni erano state ricoperte di un lucido bronzeo che aveva creato su di esse uno spesso strato impermeabile. Sembrava improbabile che riuscissero ad aprirsi un varco. «Sto arrivando» disse all'improvviso la voce di Mona. «Aspettami prima di fare qualunque cosa.» «Ma...» Il telefono rimase muto nella mano di Larry che continuava a sanguinare. Rimase a fissarlo ancora per un minuto, combattendo il desiderio di gridare al biglietto ammonitore che non si voleva affatto impicciare. Erano le dieci. Ora di andare Stanley Peckard si svegliò, riluttante, allo scoccare della ventiduesima ora del giorno. Lo dedusse dal fatto che su Channel 11 stava iniziando Lifestyles of the Rich and Famous. Ancora prima del dolore, ancora prima del fetore della sua carne che stava marcendo, Stanley si concentrò sui programmi televisivi. Una voce stava blaterando sulla gioia che si provava nel possedere diciassette limousine, ma Stanley non riusciva a seguirla. C'era una banda gracchiante di scariche elettriche all'interno del suo cervello che pulsava come un cavo dell'alta tensione reciso e immerso nell'oceano. Gli parlava ignorando i suoi gemiti e la voce fuori campo dallo schermo. E quasi scacciava i demoni. Quasi. Quando Stanley si svegliò era (ora di andare) buio nella stanza, e solo la luce azzurra tremolante della televisione e il suo cicaleccio lo tenevano in contatto con la realtà. Sentiva già la luce,
luminosa come solo la luce può esserlo. E sentiva anche un'altra luce, di un genere completamente diverso: una luce lontana, che lo esortava a lasciare completamente il suo corpo e (andare) volare via, liberarsi della terra e della voce dei demoni, dirigersi verso il luogo in cui una forza viva che lo aveva sempre amato lo aspettava a braccia (AFFILATE!) aperte. «No» mormorò. «No, non lo farò.» La poltrona davanti alla televisione era umida e calda. Forse aveva qualcosa a che vedere con la febbre che ora lo divorava, che gli inzuppava gli abiti e faceva rabbrividire il suo corpo, ricordandogli che era (ora di andare) troppo tardi per il dottore, troppo tardi per il prete. Era (AFFILATO!) debole, era (AFFILATO!) moribondo; la carne attaccaticcia e incancrenita del braccio ne era una dimostrazione lampante e convincente. Non c'era altro da fare tranne (andare) starsene seduto ad aspettare che la natura seguisse il suo orribile corso. Non aveva la forza di (andare) fare altro se non lasciare che la comoda poltrona e la luce lontana lo avvolgessero. Non aveva certamente alcun incentivo per fare altro. Non c'era niente che gli potessero offrire. Era (AFFILATO!) moribondo. Era (AFFILATO!) troppo distrutto per (andare) poterli aiutare ancora una volta ed era troppo debole per opporre resistenza. Era (AFFILATO!) completamente inerme di fronte a quello che i demoni gli stavano dicendo. Lei sarebbe stata la Bellissimissima di tutte le Bellissime. Glielo ripete-
vano continuamente perché non avesse dubbi. Era sempre stata la Bellissimissima, quella a cui conducevano tutte le altre: ancora meglio di Lisa, la sua amichetta che poi tanto amichetta non era, a giudicare da come gli aveva rotto il braccio e lo aveva quasi ammazzato e tutto il resto. Gli mostrarono la Bellissimissima delle Bellissime in tutti i suoi più deliziosi particolari. La sua pelle risplendeva come oro sulla massa scura dei suoi capelli nei quali poteva affogare. Sarebbe venuta da lui stanotte, gli dissero. Lo avrebbe preso fra le braccia e tutto si sarebbe dissolto. Il dolore. La sofferenza. Sarebbe discesa dall'alto dei cieli, gli dissero. E sarebbe finito tutto. La prima interruzione commerciale stava cominciando proprio in quel momento. La vista di Stanley era confusa ma ancora perfettamente in grado di distinguere la pubblicità di un Burger King, se la vedeva. Si chiese in fondo alla mente che cosa avesse in comune un Burger King con la vita delle persone ricche e famose. Poi si ritrovò in piedi, malfermo sulle gambe, strattonato suo malgrado da forze che erano completamente al di là del suo controllo. Il dolore era insopportabile. Il suo Stetson ridotto a uno straccio era buttato sul divano mangiato dai topi. L'ombra che gettava sulla parte superiore del suo viso nascondeva efficacemente le lacrime che gli scendevano come gocce di sangue dagli occhi. Era ora di andare. Non ci fu bisogno di ripeterglielo un'altra volta. Il temutissimo "te l'avevo detto io" Rizzo era a pezzi. Niente di insolito in questo. Se era a pezzi più del solito, però, era tutta colpa di quel deficiente del suo collega. Fra la sua incapacità di tenere la bocca chiusa e quella di tirare fuori cose che avessero un minimo di senso, Hamilton stava infrangendo i livelli minimi di sanità mentale che Rizzo richiedeva a un normale essere umano. «Stammi a sentire» insisteva Dennis la Peste. «Ti chiedo un favore semplicissimo. Fai un calcolo di tutte le volte che hai preso sottogamba i miei sospetti, poi metti in fila tutte le volte che è venuto fuori che io avevo ragione. Poi puoi dirmi che mi sono bevuto il cervello.» «Te l'ho già detto.»
«Ma tu non hai visto quello che ho visto io.» «Tu non mi hai detto niente!» sbottò Rizzo sbattendo il pugno sulla scrivania. «Non mi hai fornito neanche uno straccio di prova! Che cazzo hai fatto, hai consultato l'I Ching? Insomma...» «Che cosa vuoi che faccia? Che te lo porti qui e lo faccia confessare? Non mi crederesti lo stesso.» «È vero.» Rizzo si accese una sigaretta e si asciugò il sudore sulla fronte con il dorso della mano. «I cento miliardi di pazzi che mi telefonano ogni secondo hanno spento il sacro fuoco della mia fiducia nel mondo.» «Grazie della compagnia in cui mi hai messo.» «Scusa, ma parli proprio come loro! Se tu venissi qui e mi informassi che hai appena scoperto il Continente Perduto, io mi metterei a sedere e aspetterei la battuta. Se tu insistessi, ne concluderei che non sai raccontare le barzellette. Al punto in cui siamo, hai superato di gran lunga la fase in cui potresti ancora essere divertente. Cominci a preoccuparmi, ragazzo. E non mi piace.» Il telefono squillò, interrompendo misericordiosamente la conversazione. Rizzo lo fulminò ugualmente con lo sguardo, per una semplice questione di principio. Era arrivato al punto di odiare i telefoni durante le sue pseudoindagini. Non facevano altro che portare guai e problemi, problemi e guai, rotture di palle per ventiquattro ore al giorno. Esaminò mentalmente le possibilità in un secondo: l'ufficio del sindaco, l'ufficio del commissario, la stampa. Le telefonate dei mitomani venivano bloccate dal centralino, grazie a Dio, anche se in quei giorni avevano costituito un gradito intervallo nella routine giornaliera. «Lo sapevo. Pia Zadora non fa altro che chiamarmi, non riesce a fare a meno di me» scherzò prendendo la cornetta. Hamilton non rise. Non lo stava neanche guardando. Rizzo scosse il capo, ormai senza più speranza, e si preparò per un'altra dose di amenità. Ma quando portò la cornetta all'orecchio, il sergente Padillo, dal centralino, aveva un tono stranamente eccitato. «Abbiamo l'ispettore Callaghan in linea, Frank. Vuole parlare con te.» «Come?» Rizzo rimase senza fiato e sentì un colpo di grancassa rimbombargli nella pancia. «Ne sei sicuro?» «Mi ci gioco il distintivo. È matto come una cimice, ma sa imitare Clint Eastwood alla perfezione.» «Va bene. Va bene.» Rizzo si passò nuovamente sulla fronte la manica arrotolata per eliminare le nuove gocce di sudore che vi si erano appena
formate. «Sono pronto. Il nastro è già in funzione? Certo. Bene. Passamelo.» Padillo riattaccò. Ci fu un istante di silenzio. Rizzo lanciò un'occhiata al suo collega che si era fatto improvvisamente attento. Poi si sentì uno scatto e gli passarono la linea. «Pronto?» disse Rizzo. Non riuscì ad aggiungere altro. La voce che uscì rimbombando dalla cornetta lo colse completamente di sorpresa. Era troppo forte. E completamente sbagliata. «NNNNNNNNIENTE PAURA!» esclamò una voce fragorosa e sciocca al tempo stesso. «CI SONNNNO QUI IOOOOOO!» «Che...» riprese Rizzo ma fu interrotto da uno scroscio di risa acute di scherno. La rabbia che gli ribolliva dentro fece crollare la tensione come la parete di un edificio pronto per essere abbattuto. «Chi diavolo sei?» chiese. «Non ti crucciare, carina. Quel demone malefico avrà quel che gli spetta, come è vero che mi chiamo dolce Sciuscià...» «Ora basta, brutto stronzo! Piantala di sparare cazzate!» Non c'era alcun dubbio che il tipo imitava alla perfezione Wally Cox, ma non era questo il punto. «Se vuoi parlare con me, fallo e in fretta, perché non mi va per un cazzo di giocare agli indovinelli. Chiaro?» «Chiaro» disse la voce dall'altro capo del filo, passando in modo così totale e brusco all'imitazione di Eastwood da far tremare Rizzo. «Ho qualcosa da dirti, pivello. Ma prima voglio farti un paio di domande. Sono otto giorni che sei impegnato in quelle che secondo te sarebbero delle indagini, vero?» «Vero.» «E ancora non lo avete preso.» «Vero anche questo.» «E lui continua ad ammazzare. Quattro già fatte fuori, quante ne ammazzerà ancora?» «Tre...» «Quattro, idiota. Non ti scordare di Lisa Traynor.» Silenzio. Il rumore di qualcuno che deglutisce a fatica. «Con la ragazza che è morta la notte scorsa fanno quattro. Sarei pronto a scommettere che non ti considera una minaccia vera e propria.» Una strana scintilla si accese in fondo alla mente di Rizzo. Era una frase che aveva già sentito. Nel secondo che impiegò a fare quel collegamento, il suo interlocutore ebbe l'opportunità di proseguire
«Ma non ha più alcuna importanza perché io so dove si trova. Hai capito? Io so dove si trova l'Assassino Sorrisino. Leggerete tutto sui giornali di domani.» «Un momento, aspetta un momento.» L'insulto passava in secondo piano alla luce di questa nuova informazione. «Che cosa stai dicendo?» «E mi sto recando proprio là. E voi finirete col trovare una cinquantina di chili di salsicciotti succulenti. Che squisitezza.» Seguì una risatina. «Vuoi sapere una cosa, amico? Sei un gran figlio di troia. Che cosa ti fa pensare che io ti creda?» «Mi crederai.» «Ma se non so nemmeno chi sei!» «Chiedilo al tuo collega. O meglio ancora, non glielo chiedere. Mi divertirò a vederti brancolare alla cieca.» «Forza, allora, e vediamo come va a finire.» Rizzo stava per gridare qualcos'altro nella cornetta quando la linea cadde. Non se ne curò. «Figlio di puttana! Padillo! Sei riuscito a scoprire da dove telefonava?» «Non abbiamo fatto in tempo, Frank. Mi dispiace.» «Merda. Va bene, non importa. Grazie, Ralph. Ottimo lavoro.» Riappese il ricevitore e iniziò a massaggiarsi la fronte con le mani. «E adesso che si fa?» chiese Hamilton. La sua voce era tranquilla. Si sentì il suono attutito della sua cornetta che tornava a posto. «Quello che abbiamo sempre fatto» disse Rizzo. «Ce ne restiamo seduti infilandoci i pollici nel culo e aspettiamo che qualcuno commetta un errore.» Fece un sospiro profondo poi rivolse al suo collega uno sguardo più stanco che mai. «Almeno adesso sappiamo chi è.» «Ah sì?» disse Hamilton cominciando a sorridere. «E chi sarebbe?» Rizzo rispose con un ghigno amaro e si accese un'altra sigaretta. «Un ottimo imitatore» disse. Discriminazione sessuale all'inverso Il taxi era una Checker, grossa, poco maneggevole, massiccia come un carro armato. Negli ultimi anni si erano tutte lentamente estinte, come i mastodonti negli ultimi giorni della loro esistenza, ma per Billy sarebbero sempre rimasti i caratteristici taxi di New York. E quindi, quando si accostò per farlo salire all'angolo fra Park Avenue Sud e la Ventunesima Strada, Billy batté le mani dalla felicità. La notte era
giovane, era in perfetto orario e ora, come una ciliegina sulla torta, aveva una fantastica Checker grande come una carrozza per portarlo a destinazione in grande stile. «Ciao, amico» esclamò Billy salendo dietro. «Come te la passi in questa bella serata?» «Non mi posso lamentare» disse il tassista senza particolare enfasi. «Dove si va?» «Che te pare dell'angolo fra la Prima Avenue e la Tredicesima?» «Sei tu che paghi. Ti porto dove ti pare.» Non è certo un chiacchierone, osservò Billy sistemandosi contro l'immenso sedile posteriore e lasciandosi avvolgere dal buio. L'auto lentamente si mise in moto e Billy sorrise. Ottimo. Mi darà tutto il tempo che voglio per pensare are are. E c'erano un sacco di cose a cui pensare are are. La sua visita notturna all'ufficio della First Choice Messengers gli era servita e ora si sentiva in piena forma. Sfogliando la lista degli impiegati aveva trovato il nome e l'indirizzo della sua preda, cosa che l'elenco telefonico non era stato in grado di fornirgli. E sulla bestia gli aveva fornito un'informazione in più che gli era sembrata molto affascinante. Quel tipo era un mezzo idiota. Riusciva a malapena a scrivere il proprio nome. Stanley Peckard. Billy assaporò il nome mentre gli rotolava giù per la lingua mentale. Stanley Peckard. Figlio di buona donna. Come sarai sorpreso di vedermi! Billy aveva ancora il biglietto in tasca; lo sentiva affondare nella pelle delle natiche attraverso i jeans stretti. Riusciva a sentire l'odore di sangue secco. Ma non voleva tirarlo fuori un'altra volta. Non voleva mettersi a piangere un'altra volta. Però aveva ricominciato a pensare a Lisa: era bastato che si soffermasse per un secondo sul biglietto ed ecco che Lisa era tornata. Quello che provava si trovava appena sotto la superficie, per quanto cercasse di mandarlo a fondo con tutta la forza che aveva: maniaco-depressivo, ecco come si poteva definire il suo atteggiamento. E quando sentì che il dolore tornava (NO!) cambiò tono di colpo. Si mise a pensare ai vecchi bei tempi. Al modo in cui Lisa sorrideva. Al (sorriso sulla pancia)
modo in cui si batteva per quello che riteneva giusto. Dio, era una tipa tosta! Come quando (io lo faccio a pezzi, billy, e tu lo finisci) aveva affrontato quelle due sceme, quelle due arpie strepitanti con cui lavorava e che odiavano gli uomini. Dio, era stata fantastica. Rivedeva ancora la sua faccia, il modo in cui le aveva guardate e aveva detto loro di andarsene... Billy si soffermò sull'immagine di Paula e Susan. Gli serviva per tenere a debita distanza il dolore della perdita, gli dava un bersaglio contro il quale indirizzare la sua rabbia. Ripensò a come avevano cercato di usare lo stupro di Mona come simbolo dell'oppressione, la carriera di Mona come esempio lampante di giustizia poetica e Mona stessa come carne da cannone emotiva nella grande crociata per liberare il mondo dai peni eretti. E anche da quelli mosci. E poi un pensiero decisamente orribile gli attraversò la mente, attizzando la scintilla che diventò una fiamma ardente di odio che cresceva cresceva cresceva... E quello che aveva pensato era: E se cercassero di fare la stessa cosa a Lisa? Se cercassero di trasformarla in una martire della loro causa? Non sarebbe difficile. E lei non potrebbe neppure difendersi, tanto meno mettere bene in chiaro la sua posizione. Aveva davanti il quadro della situazione in tutta la sua chiarezza. Poteva sentire perfino le loro cazzate. Tutte le parole che le avrebbero messo in bocca. Tutte le menzogne di cui avrebbero riempito la sua vita. «Mi dispiace, ragazze» disse in un sibilo, poco più di un sussurro «ma non posso lasciarvelo fare.» Billy chiuse gli occhi e il viso di Paula Levin apparve con chiarezza cristallina sullo schermo privato della sua mente. Impiegò qualche altro secondo per mettere a fuoco il viso di Susan. Ma alla fine ci riuscì. Erano insieme, da qualche parte della città. Dall'oscurità della sala di proiezione privata della sua mente le raggiunse. Con il suo Potere. Negli ultimi secondi prima che la loro vita precipitasse in un incubo, Paula e Susan erano soddisfatte di sé. Avevano dovuto prendere una decisione difficile, ma erano state all'altezza della situazione. Dovevano esserlo. C'era una guerra in corso e la sofferenza era un fattore debilitante. Il tradimento di Diane bruciava ancora, ovviamente: erano state derubate
del loro momento di gloria. Se si assumevano la responsabilità della bomba, dovevano assumersi anche la responsabilità dei morti. A parte i ritardi che una lunga carcerazione avrebbe recato alla loro tabella di marcia, il Movimento avrebbe certamente avuto da ridire su una cazzata riuscita tanto bene. Il loro coinvolgimento nell'attentato allo Show World doveva rimanere assolutamente segreto. Per fortuna Diane aveva una reputazione da difendere. Oltre a questo, aveva giurato solennemente che non sarebbe trapelato niente dell'intera storia. La sua lettera era arrivata quello stesso giorno, con timbro postale di Chicago, accompagnata da tre tascabili di argomento sadico che lei trovava evidententemente divertenti. Il biglietto era breve e dal tono allegro. Mie care ragazze, divertitevi con i libri. Se voi non parlerete, io non parlerò. Buona fortuna per il prossimo film. Dovreste limitarvi al cinema. Siete molto più brave con le tirate retoriche che con la vita vera. Era un biglietto irritante, ma conteneva un fondo di verità. Il loro lavoro era fare film, la loro missione era diffondere il verbo. Una volta certe che non sarebbero finite in prigione, erano libere di tornare a pensare al loro film. Da qui la loro ardua decisione. Che erano felici di aver preso. La cattiva notizia era la morte di un'altra amata sorella. La buona notizia era che le avrebbero dato l'opportunità di continuare a vivere. E Pezzi di carne aveva un nuovo nucleo centrale: una storia vera e coinvolgente da mettere in scena, con la quale avrebbero messo in ginocchio la società maschilista. La storia vera di Mona e Lisa. Negli ultimi secondi prima che il loro mondo impazzisse, Susan aveva tirato fuori una bottiglia di vino. Avevano i nervi a fior di pelle per le due tazze di caffè che avevano bevuto e il meticoloso lavoro di ristrutturazione della loro trama straziante. Trasformare Lisa in un'eroina era stato un gioco da ragazzi: anche se spesso si erano trovate in disaccordo con lei, avevano sempre rispettato la sua forza interiore e la sua devozione al Movimento. Correggere le sue evidenti pecche era stato elementare: da morta sarebbe diventata un simbolo di quello di cui non aveva preso coscienza da viva. Era un onore che entrambe sarebbero state fiere di ottenere.
Dare corpo a Mona era un po' più difficile, perché in realtà non riuscivano a comprenderla. Ma non era poi tanto importante. La perseveranza nell'errore era stata presentata mille volte e non c'era bisogno di perdere tempo prezioso nel renderla esplicita. Ma se la forza della conversione di Mona doveva bucare lo schermo, era essenziale renderla degna di rispetto, se non altro marginalmente. Attribuire a chi è in contrasto con noi qualcosa che vada al di là di un semplice intuito animalesco è sempre stato un problema. È molto più facile semplificare, metterne a fuoco i difetti. «Sembrava che a Lisa piacesse» disse Susan centellinando il suo bicchiere di Chablis con sorsi privi di piacere. «Credo che il motivo sia ovvio» affermò Paula. «Si trattava di una semplice infatuazione. Lisa non era mai riuscita a lasciarsi completamente alle spalle i canoni maschili della bellezza femminile. Sai bene quanto fosse schiava del suo aspetto esteriore...» C'era una cosa che Paula voleva dire, e ci stava girando intorno come un avvoltoio. Ma non ci riuscì mai. Perché il dolore si abbatté. E il mondo impazzì. E l'incubo le risucchiò nel suo gorgo. Le due donne urlarono, quasi all'unisono. La bottiglia di vino scivolò dalle dita di Susan ed esplose contro le assi del pavimento. Paula, che era seduta sulla sedia, si piegò su se stessa. Susan fece lo stesso ma crollò in ginocchio. Nel primo quarto dello sviluppo umano successivo al concepimento, i sessi sono perfettamente simili. Hanno organi identici, identiche ghiandole sessuali rudimentali. Se la politica sessuale venisse determinata a quello stadio, non ci sarebbe alcun contrasto. Non ci sarebbero due parti in contrasto. Ma intorno alla diciottesima settimana, il subdolo cromosoma oppressore maschile Y si impone su poco meno della metà della popolazione fetale. In una fase così precoce dello sviluppo di una persona, la transizione al sesso maschile è naturale e indolore. Trent'anni più tardi, è tutta un'altra storia. Le ossa scricchiolarono stridendo e si frantumarono le une contro le altre, le spalle diventarono più ampie, i fianchi si restrinsero. I seni si rimpicciolirono e spuntarono i peli. Gli ormoni cambiarono. Le cellule impaz-
zirono. Erano entrambe a terra, ora, si contorcevano e urlavano con voci che diventavano sempre più profonde. Per Paula Levin, il tormento della sua fisiologia in piena ribellione era niente rispetto al tormento della sua mente. Un concepimento del tutto diverso vi stava avendo luogo: un embrione di demenza che sarebbe cresciuto sempre più. Come stava crescendo qualcos'altro, nel campo di battaglia delle sue cosce. Era il suo nemico che stava crescendo lì in mezzo. E, Dio santo, era enorme. «Ehi, amico!» gridò una voce lontana. «Ti decidi a scendere o no?» Billy impiegò un minuto per risalire faticosamente in superficie. Per prima cosa si trovava in uno stato molto simile alla trance; seconda cosa, si stava divertendo da pazzi. La visuale, nella sua sala di proiezione privata, era incredibile per la sua nitidezza. Ma si accorse che il taxi si era fermato e che il tassista cominciava a perdere la pazienza. Non importa, si disse. Ora che le ragazze sono diventate degli omaccioni grandi e grossi, sono sicuro che sapranno badare a se stesse. Pagò il conducente e uscì dall'auto. Il taxi ripartì e Billy si voltò trovandosi davanti il buio della Tredicesima Est. Sentiva l'adrenalina pompargli dentro ed era la sensazione più fantastica che avesse mai provato. «Attento, Stanley, sto per venirti a prendere» annunciò. «E ti spedirò in un mondo migliore.» La notte, discreta come sempre, lo lasciò a crogiolarsi nelle sue illusioni. La strada per l'inferno Un altro taxi era diretto verso il centro di Manhattan, ma verso est. Non aveva a bordo un passeggero soddisfatto di sé e neppure un pazzo allegro e vendicativo. Ma una sagoma informe, rannicchiata sul sedile posteriore con un occhio rosso che emanava del fumo e un bagliore intermittente tutt'intorno. E poi di nuovo e ancora e ancora. Mancava un quarto alle undici quando Mona lasciò il suo appartamento e si avventurò per le strade da sola per la prima volta dopo lo stupro. Anche se la notte era fredda e limpida, la sentiva sulle spalle, pesante come
un sudario di lana nera. Una notte massiccia. Piena di presagi. E di premonizioni. Dio, o qualunque altra divinità preposta, ritenne appropriato inviare quasi istantaneamente sul suo cammino un taxi. Mona Gli rese grazie mentre saliva. E poi si avviò verso la sua destinazione, con il taxi che procedeva a velocità moderata fra i pochi veicoli che circolavano lungo la West Side Highway. Dal finestrino fissò per qualche tempo le acque oscure dell'Hudson, mentre l'occhio rosso la fissava in silenzio, riflesso dal buio. Mona sapeva che l'incubo la stava aspettando. Sapeva che il peggio doveva ancora venire. Era difficile da credere, ma era arrivata al punto in cui poteva credere ormai a tutto. E devo avere una risposta, si disse mentre il mondo scorreva dietro il finestrino. Devo sapere che cosa sta succedendo. Nei minuti che avevano seguito la sua conversazione telefonica con Larry, aveva versato le sue ultime lacrime. C'erano tante cose per cui stare male che l'elenco sembrava non dover finire mai. Si stava stancando, però, di soffrire, si stava stancando di lasciarsi trascinare dal proprio destino ed essere vittima delle circostanze, si stava stancando di essere all'oscuro di tutto mentre forze che non riusciva a concepire neppure nei suoi incubi più atroci stavano distruggendo tutto ciò che amava. Ma lei era forte, accidenti! Di solito era meglio di così! Non era come un salice piangente, pronto a piegarsi al vento; si era fatta strada a gomitate fin quasi a raggiungere il successo, fino a costruirsi una vita che le piaceva, un giro di amici, una carriera, e avrebbe fatto di tutto per tenersi queste cose e non se ne sarebbe rimasta a guardare senza muovere un dito mentre le franavano addosso. E in quanto a te, Billy Rowe, la arringava la sua mente, chi diavolo credi di essere? Se voglio mettermi con Dave, mi metterò con Dave. Se voglio restare con te... E qui si interruppe. La strada per l'inferno era la West Side Highway che sfrecciava verso l'uscita di Canal Street. Mona lo sapeva per certo. Ogni strada che portava all'appartamento di Billy era una strada per l'inferno perché Billy era al centro esatto di tutta la follia che era esplosa intorno a loro. E sapeva per certo anche questo. E stranamente smise di provare paura. Qualunque fosse la forza oscura che era calata sulle loro vite, che le a-
veva trasformate in un incubo, che aveva portato via Lisa per sempre, Billy ne era la prima vittima. Fin dalla sera della festa, quando il primo sangue era stato versato sulla strada davanti a lui, qualcosa si era impossessato di Billy e lo aveva trasformato in una creatura che era al tempo stesso splendida e terribile: qualcosa di spaventoso che andava oltre l'umano, con poteri che si potevano soltanto ipotizzare. E Mona era stanca di fare ipotesi. Voleva delle risposte. E le avrebbe avute. Questa notte. L'occhio rosso e fumante era arrivato al filtro. Mona si portò un'altra sigaretta alle labbra e la accese con quella che si stava spegnendo, che poi buttò nel portacenere. Largo al nuovo che avanza. «Billy, ti amo» mormorò nel buio. «E ti salverò, se ci riesco. Ma deve finire, tesoro. Quest'incubo deve finire.» Il taxi prese la rampa di uscita, svoltò a sinistra per Canal Street. La strada per l'inferno le si apriva davanti. Sapeva con che cosa era lastricata. Pregò Dio che le buone intenzioni bastassero. Tracce La porta si aprì stridendo prima che Billy la toccasse. Era una cosa che gli era già successa. Si aspettava quasi di vedersi comparire davanti Christopher che sorrideva e diceva tutto a posto, amico. Tutto a posto. Ma quella sensazione era completamente sbagliata. Fin dal fondo delle scale, tre piani più sotto, era stato evidente. Non ci sarebbe stato Christopher là dentro. Ma solo l'orrore. Solo l'orrore. Salendo le scale, Billy aveva sentito la turpitudine addensarsi nell'aria, trasformarsi in una vischiosità semisolida nella quale doveva farsi strada a fatica. Il suo buonumore aveva lasciato il posto a una freddezza interiore che aumentò di intensità fino a che anch'essa non lasciò il posto al terrore più totale. E ora la porta si aprì lentamente davanti a lui, come se avesse paura di essere toccata. Con un fugace sorriso, Billy fece un passo avanti. Immaginava che in questo modo sarebbero stati alla pari. Riconosceva quell'odore, e l'odore era male allo stato puro. Era il sudore
che ingarbugliava il pelo dei demoni, il viscidume che li rendeva lucidi. Era fiato della morte e di pance aperte, zolfo e fogna. Gli bruciava nelle narici e nella gola come ammoniaca, gli torturava le palle degli occhi. Gli fece venire voglia, sia pure per un solo secondo, di girarsi e tornare indietro e continuare a camminare per una settimana. Lo terrorizzò. Ma non abbastanza da fermarmi, figli di puttana, sibilò in silenzio facendo un altro passo avanti. Non abbastanza da tenermi lontano dal vecchio Stan. Si ritrovò dentro l'appartamento. La porta si chiuse sbattendo alle sue spalle. Un momento di silenzio. E poi la danza incominciò... C erano solo demoni minori, quasi tutti deformi e decerebrati come fuchi. Le loro funzioni erano ridotte al minimo, come del resto anche le loro anime nere. Le eseguivano ininterrottamente e intanto urlavano su tonalità che solo i Pazzi potevano sentire. Si fermarono tutti, come una persona sola, quando arrivò il Nemico, e il terrore riempì i loro minuscoli cuori verminosi. Il Nemico era forte, molto più di loro. Il Nemico poteva farli soffrire in modi che non immaginavano nemmeno. Ma loro erano più numerosi e il loro olfatto percepiva la paura del Nemico. E questo li rendeva spietati, nella loro stupidità. La mente dell' alveare ronzò, imperiosa. I demoni ripresero a lavorare. I tre cassetti del mobile della cucina volarono attraverso la stanza. Billy li schivò spostandosi sulla destra e li vide schiantarsi contro il muro mentre le fotografie incorniciate sulla parete dietro di lui esplodevano. Si girò rapidamente e la televisione iniziò a cambiare canale mentre i vassoi vuoti davanti alla televisione e le buste accartocciate iniziavano a levitare sopra il tavolinetto che sobbalzava e fremeva e sbatteva i suoi piedi di legno contro il pavimento in un attacco di epilessia. Cassetti e armadietti si aprivano di colpo, si chiudevano fragorosamente, si riaprivano di nuovo. Billy continuava a girare su se stesso. La televisione saltava da un canale all'altro. Sulla parete dietro la porta d'ingresso c'era una bacheca di vetro, piena zeppa di cianfrusaglie di dubbio gusto e di oggettini di ceramica: micini e
uccellini e cavallini e clown. Una dopo l'altra, le loro teste esplosero ed essi presero a sanguinare: un liquido rosso, denso come benzina, che colava giù dai tronconi segati. Billy si voltò e li vide sanguinare. La televisione saltava da un canale all'altro. Da un canale. All'altro. Un coltello attraversò roteando il soggiorno e andò a infilarsi contro un ritaglio di giornale che era attaccato con il nastro adesivo alla parete sopra il divano, la cui imbottitura venne strappata dalla sua fodera coloniale e sparata contro il soffitto dove rimase sospesa come uno strato di nubi cumuliformi. Una cosa simile a un topo ma grande come un cocker spaniel sbucò da sotto la comoda poltrona davanti alla televisione e sfrecciò verso la porta del bagno. La televisione saltava da un canale all'altro. Billy fissò la cosa a forma di topo che scappava e la fece esplodere in un turbinio di fiamme viscide. L'appartamento piombò nel silenzio. E tutto tornò immobile. I demoni conobbero il terrore. Che fermò il telecomando della televisione e bloccò l'imbottitura del divano contro il soffitto. Inchiodò le buste di carta a mezz'aria e paralizzò il tavolinetto. Armadi, cassetti e porte, fino ad allora in movimento, rimasero fermi dov'erano. Il Nemico era troppo forte. Ma non potevano fare a meno di strillare, e questa era la cosa peggiore. Anche se sapevano che poteva sentirli, Pazzo com'era, i demoni continuarono a strepitare e a gemere. Non riuscivano a smettere. Il terrore era il loro schema di riferimento. E stavano imparando di nuovo quel che si provava. «Merda!» gridò Billy con gli occhi che gli bruciavano, il cuore palpitava, le orecchie che risuonavano del coro lamentoso della grida dei demonietti. Li aveva in pugno ormai, ma non erano loro quelli che cercava. La persona che cercava non era lì. «Merda!» ripeté urlando a squarciagola. «Merda Merda MEEEEEEERDA!» Diede un calcio alla poltrona, la sollevò di un metro da terra e la mandò a schiantarsi contro il televisore che cadde all'indietro e si spense in una pioggia di scintille. Un'altra di quelle cose a forma di topo si era nascosta sotto la poltrona: ora lo fissava dal basso con occhi neri come pozzi senza fondo, mostrava i denti giallastri e aguzzi e le gengive rosa orribili e
rigonfie ed emise uno skreeeee per un secondo prima che il suo cranio si spiaccicasse sotto la scarpa di Billy. Ma non bastava. «Peckard, dannazione! Vieni fuori e ti darò QUEL CHE TI MERITI!» gridò. I demoni fuggirono piagnucolando, ma nessuno si fece avanti. Nessuno poteva rispondere al suo richiamo. Stanley Peckard se ne era andato. Billy non voleva accettare questo fatto. Si aggirò per l'appartamento scardinando le porte e rovesciando i mobili. Trovò altri sette mostri e li fece fuori degnandoli appena di uno sguardo. Ma non bastava. Non bastava affatto. Si sentiva raggirato, depredato della sua vittoria, scaricato e lasciato sul campo come morto. Il Potere, che vibrava di una vita propria e micidiale, minacciava di trasformarlo in una pozza di grasso gorgogliante se non trovava qualcosa su cui scaricarlo, e in fretta. E non sapeva dove andare, non aveva alcuna traccia da seguire... ... tranne che il suo olfatto. «Oooh, tesoro» mormorò, concedendosi finalmente un sorriso. Le sue narici si allargarono, assaporando il fetore dell'appartamento di Stanley, mandandolo a imprimersi nel fondo della memoria. Lo aveva seguito su per le scale. E ora lo avrebbe seguito di sotto. Questa volta, quando Billy arrivò davanti alla porta, dovette aprirla con la mano. C'era un demone nel pomello della porta che cercava di nascondersi. Quando morì, emise un suono simile a quello di una teiera che fischia. La porta si chiuse piano alle sue spalle e Billy iniziò a scendere le scale. La puzza era lì, ripugnante e disgustosa, e si lasciò condurre dall'olfatto mentre scendeva. E mentre scendeva, scattò in lui un collegamento mentale: si ricordò dove aveva sentito quell'odore prima di allora. Il ricordo si impiantò nella sua memoria e lo riportò a un luogo in cui era stato ventotto ore prima. Subito prima di incontrare Lisa. Di fronte al Variety Photoplays. Ah, sì, rifletté, tornando a quel momento. Lo ricordava perfettamente. Lo stesso fremito alle narici. Lo stesso terrore sfibrante. Senza niente a cui attribuirlo, non aveva potuto fare altro che tentare di scordarselo. Ora sapeva di che cosa si trattava. E con la mente vi si recò...
C'erano trentasette uomini, tre puttane, un pappone di nome Cool e un travestito biondo di nome Johnny al Variety Photoplays quando scoppiò l'incendio. Ebbe inizio simultaneamente in tre punti diversi: sotto allo schermo, dietro alla cabina dell' operatore e sotto la biglietteria. Non si propagò in un tempo normale. L'operatore e il bigliettaio morirono senza avere nemmeno il tempo di gridare per più di cinque volte, tanto poco fu il tempo lasciato loro dalle trappole mortali nelle quali si ritrovarono cotti. Fra le fiamme vere e proprie che si diffusero con rapidità incredibile e l'impianto di aerazione penoso che non riuscì a disperdere il fumo, tutti i presenti erano già morti prima che Billy arrivasse in fondo alle scale. Nessuno di loro si chiamava Stanley Peckard. Billy lo sapeva ancor prima di appiccare il fuoco. Ma lo aveva fatto lo stesso. Non avrebbe dovuto essere una sorpresa. Ma lo fu. Quando aprì la porta d'ingresso del palazzo e il fetore del male si dissolse e scomparve, Billy rimase sbalordito. Non sapeva che cosa fare. Non aveva considerato i quindici miliardi di odori diversi che pervadono ogni strada di New York in ogni istante. Non aveva previsto la brezza. Per chissà quale motivo, si aspettava che gli aprisse davanti una strada di mattoni gialli e quando non la vide... «Maledetto!» disse prendendo a calci un bidone dell'immondizia. Il piede lo sfondò. «CHE DIO TI STRAMALEDICA!» E tirò via il piede con uno strattone. Un marciume indefinito, in quel brevissimo secondo, era traslocato sulla punta della sua scarpa. L'odore pungente gli colpì le narici. Ma la puzza di Stanley Peckard era scomparsa. E non gli restava da fare altro che gridare e sbraitare e farneticare e prendere a calci altri bidoni dell'immondizia. Tutte cose che fece. La sua mente iniziò a formulare dei pensieri incredibilmente folli, come per esempio: E se dessi fuoco a ogni appartamento di Manhattan, isolato per isolato, strada per strada, fino a che non lo sentissi urlare?... e pensarci era l'unica cosa che poteva fare per impedire a se stesso di farlo davvero. Fino a che non sentì una voce nella testa che gli diceva sommessamente ma nitidamente Torna a casa. Ma non aveva senso. Assolutamente no. Se voleva mettere le mani addosso al vecchio Stan, aveva più senso rimanere in zona con i topi e i mobili acrobatici. No? Era certo di sì. E
(chiudi il becco torna a casa e basta e chiudi il becco) sbatté le palpebre. C'era una voce nella sua mente e non riusciva a riconoscerla. Guardò la Tredicesima Strada fin dove si incrociava con la Prima Avenue ed era strano, molto strano, perché una nebbia fitta sembrava essere scesa dove prima di nebbia non ce n'era neanche l'ombra. Scosse il capo e (torna a casa) la voce era più forte, gli dava fastidio, sembrava punzecchiarlo alla base del cranio. Billy scosse la testa, come se volesse schiarirsi i pensieri. La nebbia che lo circondava parve dissolversi per un istante. «Vaffanculo» sibilò Billy e (!!!!!!) il dolore era un marchio incandescente alla base del cranio, un ferro acuminato, mille aghi che gli si conficcavano dentro e ruotavano ruotavano ruotavano fino a scavare dei fori che bruciavano e che (torna a casa) scomparvero di colpo quando aprì gli occhi e fissò la nebbia che si addensava. Non riusciva a capire che cosa stesse succedendo. Ma non sembrava avere alcuna importanza. Le sue gambe si muovevano da sole, a grandi passi lo trascinarono di peso verso la Prima Avenue e il trambusto della New York del sabato notte. Uno sciame di taxi gialli risaliva sfrecciando la Prima Avenue. Billy sentì il suo braccio tendersi in fuori e cominciare a fare cenni. Un paio di puttane in pantaloncini corti si dimenavano sul marciapiede. Si accorse appena che una di loro gli si strofinava addosso e sentì le voci torride da ustione di sesto grado chiedergli se cercava compagnia cercava compagnia cercava... Un taxi si fermò con grande stridore di gomme a fianco del marciapiede. Sentì la sua mano aprire la porta posteriore, si accorse che stava entrando nell'auto. Udì una voce fuori dalla sua testa dire Ehi, amico, dove si va? Sentì la propria voce dire che stava andando a Stanton Street, numero tredici, e vide l'uomo sul sedile anteriore che prendeva nota su un foglio. Cristo santo, ma hai visto che fighe hai visto che cazzo di roba da non crederci disse la voce che era fuori dalla sua testa. Un panorama indefinibile sfrecciava al di là del finestrino. Il taxi sembrava pieno di fumo. Sai che ti dico amico a me quelle troie stanno sul cazzo le vedo tutti i giorni e mi fanno diventare cretino. Billy cercò di riprendere il controllo di sé. Il tentativo non ebbe molto
successo. Il formicolio alla base del cranio era ancora lì. Lo faceva sentire come una marionetta con la testa di cartapesta, che si contorceva all'estremità di fili che non riusciva a vedere. Ogni giorno sale in macchina uno di quei pezzi di figa e io non rimedio mai un cazzo sai com'è porca puttana, continuava la voce. Il capo è in combutta con un pappone del cazzo e si fa spompinare a gratis e noi le dobbiamo portare in giro a gratis e non vediamo mai un cazzo una sega una pompa manco per il cazzo capo certe volte si portano qua dentro gli uomini sul sedile di dietro proprio dove stai tu seduto adesso e se lo prendono nella fica e se lo prendono in bocca e si beccano cinquanta cento dollari e io quando mai li vedo tutti quei quattrini messi insieme e mai una volta che rimorchio un pezzo di figa che mi fa chiavare a gratis pure a me mai una volta e che cazzo mi fanno diventare cretino quelle stronze troie rotte in culo. Billy cominciava a irritarsi. Il taxi andava avanti, la voce anche. Avanti avanti avanti. Lentamente... molto lentamente... la nebbia iniziò a diradarsi. Sai che mi andrebbe di fare un giorno, amico? proseguì la voce. Mi piacerebbe acchiappare una di quelle troie. Sì, cominciava a farsi tutto più nitido. Il mondo si stava schiarendo. Billy iniziava a cogliere i particolari di quel mondo nuovo e strano. Il portacenere pieno sul bracciolo alla sua destra. Il divisorio di plastica fra i sedili anteriori e quelli posteriori, aperto per metà. Il tassametro che segnava un dollaro e ottanta più i cinquanta centesimi per la corsa notturna. La licenza di tassista accanto al tassametro, montata sul cruscotto: una fotografia in bianco e nero di un tipo brutto e col naso rincagnato con le parole WEINSTEIN, EDWARD scritte sotto in maiuscolo. Eddie, amico mio, sei un vero bastardo, sentì dire dalla sua stessa voce La cosa lo rallegrò. Il formicolio c'era ancora, ma adesso era sceso a livello di un rumore di fondo appena percepibile. «Fargliela fare sotto dalla paura se non vuole fare quel che voglio io per un paio d'orette. Insegnarle chi è che comanda. Capito, no?» insisteva il tassista. Anche il mondo fuori dal finestrino era di nuovo visibile. Si trovava sulla Seconda Avenue e avevano appena superato la Quinta Strada. Aveva visto il ristorante tedesco, quello che puzzava sempre di insetticida, sfrecciargli sulla destra, e capì che se sentiva ancora una parola uscire dalla bocca di Weinstein, Edward c'erano ottime probabilità che succedesse
qualcosa di brutto. «Va bene» disse Billy. «Fammi scendere qui.» «Come?» Il guidatore inchiodò con grazia convulsa e improvvisa. «Mi sembrava di aver capito...» «Non fare caso a quel che ho detto. Va bene qui.» «Come vuoi tu, amico. I soldi sono tuoi, non miei.» Eddie non sembrava entusiasta, ma accostò comunque al marciapiede e bloccò il tassametro. «Ecco il prezzo della corsa» disse Billy. Il tassista emise uno strillo improvviso e gorgogliante. Forse aveva qualcosa a che fare con il fatto che la sua lingua si stava disintegrando. «E questa è la mancia.» Il tassista si portò le mani all'inguine e cercò di gridare. Niente da fare. Uno sbuffo sottile di fumo gli uscì dalla bocca. Un altra nuvoletta simile alla prima gli uscì dai pantaloni con la patta aperta. «E ora non sarai neanche più costretto a guardarle.» Le dita del tassista erano come ganci da macellaio in un mattatoio abbandonato da anni, sospese in aria senza alcun motivo. Forse in segno di dolore. Forse perché i globi dei suoi occhi stavano friggendo, esplodendogli fuori dalle orbite. Billy lasciò Weinstein, Edward e il suo taxi ancora in moto ai capricci del destino e alla feccia della Seconda Avenue. Neppure il formicolio alla base del cranio lo impensieriva più, ormai. Era tornato di buon umore. Sapeva quel che doveva fare. Tornava a casa. E non doveva fare nemmeno molta strada. La verità La cucina era al buio quando Larry aprì la porta, facendo bene attenzione a restare immerso nell'ombra. Il profilo di uno spaventapasseri. «Non sei pronta per questo» disse. E non sembrava che stesse scherzando. «Non ha importanza» ribatté Mona entrando in casa. Il suo primo passo finì sopra la scheggia insanguinata di un vetro rotto che scricchiolò sotto il piede. E con questo? «No, Mona. Sul serio, non è il caso che tu veda quello che c'è qui dentro.» Larry aveva un tono decisamente serio. Mona era pronta all'eventualità che lui cercasse di fermarla, bloccandola
con il braccio. Era pronta a schivarlo. Ma Larry non si mosse. Sembrava che non fosse in grado di farlo. Il che andava bene. Mona aveva una battaglia più importante da combattere. Da cinque mesi non metteva più piede in quella casa. C'era entrata una volta sola e le era bastato. La devastazione non la sorprese particolarmente, né l'avrebbe sorpresa maggiormente in tempi migliori, ma l'orrore infuriava tutt'attorno a lei come traccianti intorno al bersaglio in uno scontro armato. Neppure il fetore, come di uova marce chiuse da mesi, poteva interporsi fra lei e quello che doveva fare. «Chiudi la porta, Larry» disse. «Forza.» Con riluttanza Larry obbedì. Per la prima volta Mona notò i brividi che scuotevano il corpo di Larry: prima che lui la lasciasse, la porta vibrava nelle sue mani come una spogliarellista di Times Square. Qualunque cosa avesse visto, e qualunque cosa egli stesse per condividere con lei, aveva trasformato la sua spina dorsale in gelatina di fragola. Non ha importanza, ripeté Mona, questa volta in silenzio. Ho bisogno di sapere. Sono arrivata a questo punto e devo sapere. «Forza» ripeté voltandosi con impazienza verso di lui. E fu allora che Larry accese la luce. «Oh, mio Dio.» Le parole le uscirono lentamente dalla bocca, con molto spazio fra una parola e l'altra. «Mio Dio, Larry, cosa ti è successo?» «Oh, niente» disse Larry con una risatina nervosa. «Il tuo ragazzo mi ha guardato strano, ecco tutto.» Fece un passo verso di lei e il primo grumo di paura cominciò a risalirle su per la gola. Larry aveva la pelle rossa come un gambero. Non c'era altro paragone possibile. Sembrava che fosse appena tornato da una vacanza di una settimana nel deserto Mohave. Aveva delle spaccature nella pelle che trasudavano leggermente. Era già terribile solo da guardare, Mona immaginava appena quanto potesse essere terribile da sopportare sulla propria pelle. «Forza» disse Larry imitando il suo tono di voce. «Abbiamo tutta questa notte del cazzo davanti a noi, no? Vuoi vedere? Eccoti servita!» Larry si avvicinò e Mona istintivamente si ritrasse. Larry si avvicinò ancora di più e Mona comprese che almeno in parte la puzza proveniva da lui. Era acre e pungente e tutto quello che non aveva mai voluto odorare prima d'allora. Il grumo nella gola si trasformò in bile. Le veniva da vomitare. «Andiamo» disse Larry prendendola per un braccio. Fece un ghigno e i suoi denti spiccarono gialli sulla pelle abbrustolita. L'ostilità aveva preso il
sopravvento nei suoi occhi dove la paura si era ritratta. Mona poteva vederlo. E sentirlo. Fu allora che si liberò dalla sua presa con uno strattone. «EHI!» gridò scoprendo i suoi denti bianchi e perfetti. Larry trasalì con aria allarmata. Vigliacco. «Tieni a posto le mani, Larry! Altrimenti giuro su Dio che te le spezzo!» Larry si limitò a fissarla, con gli occhi sbarrati. «Chiaro?» «S-scusami» disse Larry. Sbatté le palpebre. Per ricacciare indietro le lacrime. «Solo che...» «Ti capisco» tagliò corto lei, con voce più dolce. «Dispiace anche a me. Forza.» E si mossero insieme, verso il buio, dall'altra parte dell'ingresso, verso la camera di Billy. Larry c'era già stato, quindi sapeva quale spettacolo terribile offriva. Aveva cercato di metterla in guardia. Ma lei non aveva voluto sentire ragioni. E ora doveva pagare per la scelta che aveva fatto. La roba scritta sulle schede era già abbastanza grave. Diceva tutto quello che c'era da dire e anche di più su quello che Billy aveva intenzione di fare e su cosa era diventato. Insieme ai ritagli di giornale, i dati esposti nell'albero genealogico della sua demenza dipingevano un quadro terribilmente chiaro. Billy era il vigilante. Il vigilante era un pazzo scatenato. Ma la foto con le quali aveva immortalato i suoi deliri erano la cosa peggiore in assoluto. Al confronto, le sue peggiori tirate erano quasi sensate. Quelle foto mostravano chiaramente come le sue digressioni più coerenti non erano altro che bestemmie. Larry riconobbe i due uomini nelle fotografie sottoesposte, anche se non aveva mai visto quello grosso così pallido né quello piccolo ridotto in tanti pezzi. Li riconobbe per la coppia che aveva distrutto il loro appartamento. Ma non sapeva che cosa avevano fatto a Mona. E tutto il fiato che lei aveva in corpo parve dileguarsi quando li vide. Era come guardare un aerostato sgonfiarsi. La donna decisa a tutto che era entrata lì dentro nonostante i suoi moniti era ridotta a uno straccio farfugliante dalla faccia umida di terrore. No. Non così facilmente. Si rialzò fino a riprendere le sue dimensioni
normali e anche se le parole le uscivano ansimando dalla bocca come in un attacco di asma, possedevano ugualmente un'intensità estrema. «È così, allora?» disse. «È così che sarebbe diventato il mio uomo?» Si lasciò sfuggire una breve risata: antipatica, amara come una boccata di zolfo. «Tesoro, credo proprio che dovrei offrirti una medaglia...» «Sì, lo credo anch'io» disse la voce dietro di loro. Mona si voltò. Larry si voltò. Sulla soglia c'era Billy. «Credo proprio di meritarmi qualche medaglia» proseguì. I suoi occhi erano come due fanalini posteriori: un bagliore cremisi che ardeva. «Li ho massacrati, Mona. E l'ho fatto per te.» Billy si avvicinò a Mona. Mona indietreggiò. Istintivamente Larry si frappose fra i due. Un secondo più tardi la sua mente si chiese che cosa sto FACENDO? Ma ormai era troppo tardi. Ora tutta l'attenzione di Billy si era spostata su di lui. «E tu!» disse Billy entusiasta. Aveva il sorriso di uno squalo che ha trovato la sua vittima. «Credevo che fossi più furbo, amico mio! Credevo che sapessi leggere!» «Billy, fermati» disse Larry. Non riuscì a pensare ad altro da dire. «Chi è che si dovrebbe fermare?» chiese Billy. Il suo sorriso risplendeva senza toccare niente, perché non era reale. «Ho già provato a fermare te nel caso ti fosse venuto in mente di entrare qui dentro. Ho provato a fermare anche lei nel caso in cui le fosse venuta voglia di venire qui. Pare proprio che nessuno voglia stare a sentire quello che ho da dire. Mi si spezza il cuore. Sul serio, lo giuro su Dio.» «Piantala di sparare cazzate» disse Mona. «Oh!» Billy agitò le mani facendo ciondolare i polsi, facendo finta di essere impaurito. «Oh! Oh! Oh! E immagino che tu sappia esattamente quello che provo!» «Credo che tu non provi un cazzo di niente» ringhiò Mona. «Altrimenti non ci tratteresti in questo modo.» Billy si fermò per un istante, come per riorganizzare le idee. Larry non aveva la minima idea di quello che avrebbe dovuto fare, ma colse al volo l'opportunità per farlo. «Billy» disse. «Andiamo, siamo tuoi amici. Non vogliamo litigare con te. Vogliamo trovare insieme una soluzione...»
«STAI ZITTO!» La sola forza d'urto del grido di Billy lo fece indietreggiare di un metro. Il bagliore rosso, incessante e disumano dei suoi occhi lo scaraventò oltre Mona, in fondo alla stanza. «Ti ho già detto quello che penso di te! Se mi capitasse per caso di calpestarti, mi pulirei la scarpa sul marciapiede più vicino! Sei uno stronzo, Larry! Uno stronzo! Il confine fra te e la merda non è mai esistito!» C'era del Potere nella stanza adesso. Un Potere incredibile, letale. Larry sapeva che non poteva fare nulla per opporsi a Billy. Si sentiva del tutto inerme. Sentiva la propria morte avvicinarsi fischiando come un treno. «E tu?» chiese Mona tutt'a un tratto. Larry si voltò a guardarla. L'espressione sul suo viso era dura. Come pietra. «E che mi dici di te e delle tue stronzate, Billy? Scrivi i tuoi appuntini e fai le tue porcheriole. Quanto sei pulito, amore mio, per scagliare le tue pietre? Perché non stai zitto tu?» Il formicolio in fondo alla sua testa era stato fino ad allora piacevole, come l'effetto che fa all'inizio la cocaina e che poi sale sale sale. Ma ora cominciava a fargli male. E questo a Billy non piaceva. Ma le parole di Mona gli avevano scavato un buco dentro e su questo non si discuteva. Sentiva che la certezza di avere ragione scorreva via da lui come la sabbia da una clessidra infranta. Era una sensazione orribile perché gli toglieva ogni difesa, e senza di essa si sentiva nudo e debole e si vergognava tanto (NO!) e non sopportava l'idea di sentirsi in quel modo, ma era così, era proprio così. La testa gli faceva male da impazzire adesso. Non si era mai sentito così meschino in tutta la sua vita. Mona lo fissava ancora con i suoi occhi freddi e scuri, sempre in cerca di una risposta. Aveva voglia di buttarsi in ginocchio e gridare Amore, amore mio, mi dispiace tanto (!!!!!!!) e un milione di aghi incandescenti gli si piantarono nel cervello, lo fecero crollare in ginocchio davvero, e stava urlando sul serio (ora) poi il dolore sparì e un vocina nella sua testa disse, potrei ucciderla e il suggerimento gli parve perfettamente sensato. Una nuova ondata di buonumore lo invase. Si alzò in piedi. Sorrise. «Mona» disse. Piano. Miele e stricnina. «Mona, tesoruccio mio, vorrei
chiederti una cosa. Che cosa ci fai qui? Perché non mi hai creduto quando ti ho detto che ti saresti pentita se avessi voluto conoscere la verità?» Il tono della voce di Mona, quando rispose, era sommesso ma fermo. Solido come le sue tette, pensò Billy. Sì sì sì. Proprio come le sue belle tette sode. «Perché ti amo...» cominciò a dire Mona. Billy scoppiò a ridere fragorosamente. «Sul serio?» gridò battendo le mani. «... e perché dovevo sapere quello che stava succedendo» continuò Mona alzando leggermente la voce. Stava arrossendo e la sua fantastica pelle scura diventava ancora più scura quando il sangue le saliva a fior di pelle. Tutto quel parlare d'amore e di passione, senza dubbio. Billy si domandò se per caso non stesse arrossendo anche lui. Ma ne dubitava. D'altra parte, gli venne in mente, se Larry arrossisse, nessuno se ne accorgerebbe. Si sentì molto spiritoso. «A proposito, Lar'» la interruppe. «Bella abbronzatura.» «Accidenti, Billy!» gridò Mona. «Vuoi SMETTERLA E STARMI A SENTIRE?» «Ummmmm... no» disse Billy rivolgendosi nuovamente a lei. «Direi proprio di no, cara. Non sono dell'umore adatto. Non voglio sapere quanto mi ami o quanto sei spaventata da me o come batte il tuo seno deliziosamente sodo di vero ardore per me. Ti dirò invece quel che vorrei fare.» Sorrise e si passò la lingua sulla fila superiore dei denti. «Vorrei soltanto... guardarti per un momento.» Ora Mona aveva un'espressione terrorizzata. Il sorriso di Billy aumentava proporzionalmente al suo terrore. Dio, era splendida! Anche adesso, con gli occhi sbarrati e le labbra tese e spellate per il disgusto e il terrore, era uno degli spettacoli più favolosi che avesse mai visto in giro per la città. Quel corpo da ballerina. La grazia da ballerina con la quale lo dominava. E il suo viso... Tutto il dolore era passato dalla sua testa alla sua erezione. Bene bene bene. A dirgli così era il dolce fremito alla base del cranio. Gli tornarono in mente tutte le volte che avevano fatto l'amore (no, che avevamo chiavato, ecco che abbiamo fatto, abbiamo chiavato) e capì che era stato un pazzo a lasciare un fighetta fantastica come quella. Troppo assurdo, si disse. Grazie a Dio, non era troppo tardi. «Oh, Mona» disse avvicinandosi a lei che indietreggiava. «Oh Mona
Mona Mona. Ti piace sentirmi pronunciare il tuo nome, vero? Ma certo che ti piace, dato che mi ami tanto. E sai da cosa lo capisco che mi ami così tanto?» proseguì. «Lo capisco da come corri a farti chiavare da Dave ogni volta che ti faccio incazzare. Lo capisco da come rispetti ogni mio desiderio. Oh, certo, mi ami tantissimo. L'hai detto tu stessa.» Mona continuò a indietreggiare ma giunse a un punto oltre il quale non poteva più andare, alla finestra aperta che dava sulla scala di sicurezza, quella stessa scala di sicurezza che aveva dato a Billy un posto in prima fila per l'omicidio di Jennifer Mason. Larry era dietro di lei, con le spalle al muro. Ma Larry non gli interessava. Se era molto fortunato, ne avrebbe viste delle belle. «Credo proprio di doverti delle scuse per aver scritto quel biglietto» disse Billy a Mona. «Sono stato uno sciocco. Sai come si dice, giovane e impulsivo.» Fece un sorriso infantile e sollevò le mani con le palme verso l'alto, come a voler dimenticare tutta la faccenda. «Quando due persone si amano tanto come ci amiamo noi, delle minuzie come l'infedeltà non dovrebbero turbarci. Oh, no. E te lo dico sinceramente, Mona: ti amo esattamente come la prima volta che ti ho visto e ho pensato, cavolo, quanto mi piacerebbe scoparmi quella troia!» «Billy!» gridò Mona piangendo. Le lacrime le scendevano lungo il bel viso. L'aveva ferita e si sentiva un vero figlio di puttana. «Oh, si, Mona! Sì!» Si avvicinò ancora di più, ormai poteva quasi toccarla. «Raccontami tutto! Dimmi che esperienza fantastica e toccante hai fatto! O meglio, non dirmi niente. Non vogliamo rovinare questo momento magico, vero?» «Billy, ti prego...» «Oh, sì!» La risata di Billy fu lunga e sonora. «No, ti prego! No! Basta!» Rise ancora più forte. «Parliamo piuttosto delle tue fantasie sessuali, mia bella fra le belle, di quelle riguardanti lo stupro, per esempio. Dimmi come ti sei sentita male quando quell'omaccione di Rex te lo ha ficcato tutto dentro...» «BASTARDO!» gridò Mona balzando in avanti e cercando di colpirlo. Avrebbe potuto tranquillamente impedirglielo, ma perché mai? Così rendeva la cosa molto più eccitante. Mona lo colpì con forza: non con uno schiaffo e nemmeno con un pugno ridicolo da femminuccia. Lo colpì alla mascella con tutta la forza che aveva in corpo. Se Billy fosse stato un essere umano come gli altri, con una reazione normale al dolore, molto probabilmente sarebbe finito a terra.
Ma le cose non stavano così e Billy non finì a terra ma la prese per i polsi e glieli strinse prima che potesse riprovarci, glieli strinse così forte da bloccarle la circolazione e Mona cominciò a gemere come il demone nel pomello dell'appartamento del buon vecchio Stanley Peckard. «No, no» disse Billy. «Non dire niente. Ti prego.» Fece un passo indietro, trascinandola con sé. «Saremmo degli sciocchi a perdere tempo in chiacchiere quando davanti a noi si apre il mondo intero. Fammi vedere soltanto quanto mi ami.» E si chinò su di lei per baciarla. Fu allora che Larry si staccò con un balzo dal muro. Il buon vecchio Larry il gambero, dalla pelle rossa come una ciliegia, afferrò il braccio sinistro di Billy strattonandolo e urlò: «BILLY! NO! FERMO!» Billy si liberò facilmente dalla sua presa. Certo, dovette lasciare il polso destro di Mona, ma non era poi una perdita così grave. Si limitò a tenere ferma Mona contro il muro con la mano destra e respingere Larry con il braccio teso, colpendolo poi al torace con la mano sinistra. C'era solo un problema. La mano non si fermò quando toccò la camicia di Larry. La mano non si fermò quando toccò la pelle di Larry. La mano non si fermò quando toccò la parete di muscoli e di grasso, né fu intimidita dallo sterno che si frantumò in mille pezzi, frammenti organici micidiali come proiettili. La mano non si fermò fino a che non si strinse intorno al cuore di Larry che continuava a fare PA-POOM PA-POOM PA-POOM, nei secondi adrenalinici immediatamente precedenti la sua morte. E poi si fermò. A metà di un polposo PA-POOM. Per sempre. Dietro di lui Mona cominciò a urlare. Billy non la sentì; era troppo impegnato a urlare anche lui. Larry cercò di unirsi al duo, ma dalla sua bocca uscì soltanto sangue. Dopo un paio di secondi rinunciò. Gli occhi rotearono all'indietro. La scintilla si spense. Lasciando Billy con ottantaquattro chili di carne morta che gli penzolavano in fondo al braccio. Billy urlò di nuovo, cercando di liberarsi del corpo. Gli arti di Larry eseguirono una danza grottesca, ballando il funky come una gallina, sballottolati da una parte e dall'altra. Uscì altro sangue. Billy stava per scivolare sulla pozza che si era formata sul pavimento. Insieme si diressero barcollando verso la parete e la scrivania di Billy, come una coppia di ballerini di tango dementi in un film di Jerry Lewis.
La scrivania funse perfettamente da altare. Il cadavere di Larry crollò sopra di esso come un agnello sacrificale, a faccia in su. Billy riuscì infine a liberarsi di lui con uno strattone, si portò la mano rossa e luccicante di sangue davanti al viso e si lasciò sfuggire un ultimo grido. E la sua testa, la sua testa, era in preda a una furia cieca, il formicolio stava diventando sempre più forte e poi (!!!!!) tornarono gli aghi incandescenti ma non perché avesse ucciso il suo amico, aveva fatto bene, ammazzare è bello, gli diceva il formicolio, ma perché si era lasciato turbare (!!!!!) e poi sentì che si avvicinava a Mona e alla finestra e alla scala di sicurezza e sentì le parole «Adesso ti ammazzo» che rotolavano fuori dalle sue labbra con un tono sordo e uniforme... ... e poi sentì una voce ed era la sua voce e gli diceva Non farlo, Billy, tu l'ami, non vuoi farle del male, ti stanno COSTRINGENDO a farlo, e (!!!!!!) quando la vista gli si schiarì nuovamente le sue mani erano già intorno alla gola di Mona, la sporcavano del sangue di Larry, le spremevano la vita. Billy fissava i suoi bellissimi occhi ormai fuori dalle orbite, guardava i lineamenti bellissimi e delicati contorcersi e gonfiarsi e passare dal rosso al violaceo... ... e reagì con tutta la forza di volontà che aveva mentre la bocca gli si spalancava e gridava NOOOOOOOOOOO! (!!!!!!!!!) e il dolore era insostenibile, ma sentì la presa che si allentava e (!!!!!!!!!!!) indietreggiò barcollando, lasciandola andare, inciampò e cadde in ginocchio e si portò le mani alle tempie (!!!!!!!!!!!!!!) mentre sentiva il Potere traboccare dentro di lui, e quella voce che era ancora la sua disse no, figli di puttana e (!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!) inondò il suo cranio con un calore bianco e letale, lo sentì sfrigolare e rosolare nello spazio fra un orecchio e l'altro, sentì le grida penose di milioni di demoni morenti, voci che non erano le sue, che non erano le sue... Poi il silenzio. Il buio.
Un lungo, dolcissimo momento di pace... A sette isolati di distanza, sulla Seconda Avenue, la notte risplendeva di luci rosse che lampeggiavano e cordoni di polizia e le grida rauche dell'inevitabile contingente di avvoltoi. Diverse macchine della polizia circondavano l'oggetto delle loro attenzioni, che era un taxi giallo lucente che era fermo con il motore acceso accanto al marciapiede da almeno dieci minuti. Con dentro un uomo estremamente defunto. Fu a Dennis Hamilton che toccò chinarsi sul cadavere senza lingua, senza occhi e senza palle di Edward Weinstein. Gli appunti del tassista erano sul sedile al suo fianco. Hamilton li prese, trattenendo il respiro per la puzza che c'era lì dentro. Sapeva che non c'era neppure bisogno di leggere. «Stanton Street, numero tredici» disse Rizzo leggendo l'ultimo foglio che Hamilton gli ficcò sotto gli occhi. «Sai cosa...» «Non dire niente.» C'era uno sguardo di totale e intensa rassegnazione negli occhi dell'agente più anziano che a Hamilton venne quasi voglia di distogliere lo sguardo per pietà. Ma non lo fece. «Non dire niente.» «Allora, possiamo andare adesso?» «D'accordo» sospirò Rizzo chiudendo gli occhi. Annuì. «D'accordo.» Hamilton stava già correndo verso la loro auto. Billy si svegliò al suono di una voce angelica che conosceva perfettamente. Lo stavano chiamando per nome. Per un attimo, fu sicuro di essere morto e di trovarsi in paradiso. Poi alzò lo sguardo e si rese conto che era esattamente il contrario. «Oh, Billy» disse Christopher con voce stanca e tono di sufficienza, fragrante di delusione. «Oh, Billy Billy Billy. Dimmi, perché mai hai fatto una cosa del genere?» Billy chiuse gli occhi e poi li riaprì. Non servì a niente. L'immagine non se n'era andata. Lo riempiva di un terrore talmente gelido e assoluto che la sua mente rifiutava di accettarlo. «No» bisbigliò chiudendo nuovamente gli occhi. Quando li riaprì fu ancora peggio. Christopher era sempre lì, davanti a lui, radioso come sempre. Ma non era solo. Aveva portato con sé degli amici. I suoi amichetti.
I suoi amichetti demonietti rattiformi, con i loro vuoti occhi scuri e il loro palato roseo e spaccato e file su file di denti gialli aguzzi... ... e proprio sotto gli occhi di Billy, la parete alle sue spalle mutò fino a diventare una caverna buia senza fine che si allungava e si ingrandiva e si ingrandiva e si allungava e continuava per sempre e sempre e sempre... ... ed era la cattedrale dei suoi sogni, solo che non riusciva più a scorgere le porte della memoria ma piuttosto chilometri e chilometri di buio sempre più fitto che squittiva e brulicava di legioni di dannati pronti a sbucare fuori. Pronti ad andargli incontro. Pronti a portarlo a casa. «Forza» disse Christopher. «Alzati in piedi. Un po' di amor proprio, che cavolo! La mamma non ti ha insegnato niente? Hai degli ospiti.» Christopher sorrise. Una minuscola lingua di fuoco gli guizzò fuori dalla bocca. Billy riuscì a fatica a rialzarsi sulle ginocchia, in mezzo a una grossa pozza di sangue che si stava raffreddando. Il sangue di Larry, sentì dire dalla sua mente e quel pensiero lo riportò al luogo in cui si trovava e a quello che vi era avvenuto. Le pareti intorno a lui erano ancora quelle della sua camera, la stessa cosa valeva per il pavimento e il soffitto. C'era un calore secco emanato dalle porte dell'inferno, ma riusciva a sentire la brezza fresca che entrava dalla finestra dietro di sé. La finestra dietro di sé... «Omiodio» mormorò Billy con un gemito. «Omiodio, per favore, no...» Balzò in piedi. E si girò... ... e Mona aveva lo sguardo fisso fisso fisso nell'abisso oscuro che le si apriva davanti. Al di là del bel demone biondo con le saettanti lingue di fuoco. Al di là del mostro che aveva rubato il viso di Billy. Al di là del corpo di Larry, al di là di ogni comprensione. Lo sguardo fisso. Nella bocca dell'inferno. Il corpo di Mona era in preda a una serie di spasmi nervosi incontrollabili. Lei non se ne accorgeva neppure. Non esisteva niente per lei, tranne quella oscurità senza fine. Lo sguardo fisso.
E totalmente perso. «So quello che stai pensando» disse Christopher e la sua voce era piena di paterna compassione. «Stai pensando che ti ho tradito. Che sono venuto da te per annientarti. Ma non è vero.» Billy sentì queste parole e gli parve che provenissero da molto lontano. Era troppo sbalordito, troppo sconvolto per poterle percepire con maggiore chiarezza. La follia negli occhi della sua amata era riuscita a fare quello che non avevano potuto coltelli e pallottole. Lo aveva annientato. «La verità, Billy» proseguì Christopher «è che io nutro del rispetto per te. E provo un grande timore nei confronti dei tuoi poteri. Non ultimo dei quali è la tua capacità di unire gli altri. Come questa sera sul vagone della metropolitana, per esempio. Spettacolare. Non c'è stato neppure bisogno che tu alzassi un dito.» Un debole fischio di ammirazione. «Hai un talento notevole.» Billy era rimasto colpito dall'espressione "unire gli altri". I suoi occhi, che ancora riuscivano a mettere a fuoco a fatica quello che avevano davanti, si spostarono su Larry, che era ancora sulla scrivania. Lo stavano divorando. «È per questo che abbiamo bisogno di te, Billy. Devi venire dalla nostra parte. Un talento come il tuo non deve essere sprecato. Noi crediamo in te. Possiamo aiutarti a diventare qualcosa che il mondo non ha mai visto prima d'ora. L'uomo che tu eri destinato a essere. Lo scopo per il quale sei nato.» E allora la terribile verità lo colpì con tutta la sua forza. Finalmente. Non è il secondo avvento, comprese la sua mente in un rantolo mentre i polmoni gli si annodavano intorno al cuore. Non è il ritorno di Cristo sulla terra. È quell'altra cosa. Io sono... «Che cos'è mai un nome?» gli chiese Christopher, raggiante di fascino e con un intuito disarmante. «Un rosa, se cambia nome... eccetera eccetera eccetera. Il resto lo sai. Non startici ad arrovellare sopra! Tu sei quello che tutti noi stiamo aspettando. Dai, vieni a dare la mano al tuo amato paparino.» Christopher avanzò verso di lui mentre l'odio ribolliva come lava nell'animo di Billy. Tutte le illusioni, tutti i tradimenti raggiunsero un culmine che non era più accettabile.
Il Potere gli apparteneva. Questo almeno gli era chiaro. Billy era stato scelto esattamente per quel motivo. Quando lo comprese, fu come se una luce luminosa tagliasse il buio del terrore. E gli dicesse quello che doveva fare. «Tu vuoi il Potere» disse Billy sorridendo. Christopher annuì. «Bene. Lo avrai.» E glielo diede. Alla massima intensità. Era un muro solido di luce concentrata e calore e morte quello che si abbatté su Christopher e sulla prima fila dei demoni con la forza di un'esplosione nucleare. L'aria risuonava delle grida dei morti. Ma Christopher non retrocesse di un passo. Billy spinse più forte, il corpo teso come un filo di acciaio, e restrinse il campo d'azione dirigendo il Potere, con tutta la sua intensità, sull'unico bersaglio che realmente contava. Sull'angelo caduto. E Christopher cominciò a trasformarsi. Billy riusciva a scorgerlo debolmente attraverso tutto quel fulgore. Gli abiti di Christopher e i capelli erano in fiamme, la sua carne si stava sciogliendo e scendeva a rivoli verso la nuca, come la cera sotto una saldatrice. C'era un altro volto sotto quella maschera bellissima. Il vero volto. E sembrava sofferente. Ma Billy si stava indebolendo, la sua energia stava per finire, c'era solo una certa quantità di Potere in lui e ormai l'aveva usata quasi tutta. Vai giù, maledetto, sentì mormorare con un sibilo dalla sue labbra e spinse e spinse e spinse... ... e Christopher iniziò a indietreggiare, quasi impercettibilmente, barcollando... ... e Billy consumò il suo Potere in un'ultima ondata accecante... ... e l'orribile bocca di Christopher si spalancò, come per urlare... ... e poi Billy cadde in ginocchio e rimase immobile, esausto. Mentre il mostro davanti a lui barcollava stordito sulle sue gambe malferme, stringendosi il cranio calvo con le lunghe dita chitinose. Il solo rumore nella stanza era il suo respiro debole e affannoso, che risuonava nel silenzio.
Dio, per favore, pregò silenziosamente Billy. Fallo cadere. Fallo cadere... E poi Christopher sorrise. «Cavolo, sei in gamba» disse con sincera ammirazione. Poi alzò un sopracciglio glabro con aria di rimprovero e aggiunse: «Però non riprovarci mai più». La mente di Mona non funzionava alla perfezione. Era in uno stato di shock patologico talmente profondo da sfiorare la trance. Le cose che le apparivano davanti non venivano più percepite come reali. Stava guardando un film, solo che qualcuno l'aveva messa dalla parte sbagliata dello schermo. In quel momento stava guardando un mostro orrendo, davanti al grande tunnel nero. Billy era in ginocchio davanti al mostro, che aveva incominciato a raccontargli una storia. Mona era immobile accanto alla finestra, appoggiata al muro. Guardava. E ascoltava. «Devi metterti bene in testa» diceva il mostro «che non riuscirai mai a sconfiggermi. Mai. E non riuscirai mai a sfuggirmi. Anche se ti lasciassi morire, resteresti mio; insomma, credi davvero che ti lascerebbero entrare in Paradiso dopo tutte le cosette che hai fatto?» Il mostro rise. Mona pensò che aveva un aspetto buffo. Sembrava (larry il gambero) un crostaceo gigante, solo che aveva delle caratteristiche umane: le gambe, per esempio, e le braccia e (larry è morto è finito dalla parte sbagliata dello schermo e lo hanno mangiato) una grossa testa pelata e un torso (ma è stato billy a ucciderlo) solo che non ha la pelle, è ricoperto di un guscio e (a quel punto è cominciato il film) la sola pelle che possiede gli penzola da dietro la testa e assomiglia a dei riccioli anneriti e puzzolenti, a trecce rastafariane. Il guscio è bronzeo, pulsa e risplende. Gli occhi sono vuoti e scuri e completamente privi di luce. «Quello che ti consiglio di fare, dunque» proseguì il mostro «è di seguire la corrente. Lasciati andare. Lasciati andare. Sarà perfetto, vedrai. Dimentichiamo questo piccolo attacco di collera che hai appena avuto. Met-
teremo a punto per benino alcune delle interessanti strategie che hai elaborato.» Mona era sotto shock ma un certo allarme cominciava a farsi strada in lei. C'erano delle voci nella sua testa, ed erano tutte sue, e incominciavano a dare un senso a quello che vedevano e sentivano. Il mostro si avvicinò a Billy e protese le sue orribili mani. «Dai» disse con voce profonda, seducente e roca. «Vieni da papà.» Molto lentamente Billy si tolse le mani dal volto. Aveva pianto. Mona lo capì perché aveva le palme delle mani bagnate. Non riusciva a vedere il suo volto, ma sapeva l'espressione che aveva. Conosceva Billy. Era l'uomo che amava... ... e molte cose crollarono sul capo di Mona con un chiarezza terribile e annientante. Primo, se il mostro aveva ancora bisogno di sedurlo, allora per Billy c'era ancora una speranza. Secondo, era il mostro, e non Billy, il responsabile di tutte le cose orribili che erano successe. Terzo, se Billy stringeva la mano del mostro, tutto era perduto. Quarto, questo non era un film e lei non era una semplice spettatrice. «NOOOOOOO!!!» gridò Mona con un balzo in avanti, staccandosi dal muro. Impiegò meno di un secondo a raggiungere il retro del colletto di Billy, il resto del secondo a tirarlo verso di sé. Billy cadde sulla schiena con un tonfo sordo e Mona gli diede uno schiaffo sulla guancia prima che avesse il tempo di chiudere le palpebre. Quando lo guardò negli occhi, vide che brulicavano di paura. E allora gli diede un altro schiaffo. E un altro ancora... ... e poi lui la afferrò per i polsi. Non per spezzarglieli. Ma solo per fermarla. «Basta così, tesoro.» Un tono di voce dolcissimo. «Grazie.» Poi si voltò e si alzò in piedi. E affrontò il demone. Per l'ultima volta. «Mi piaci di più così» disse Billy squadrando Christopher dalla testa ai piedi. «Ora che so come sei fatto veramente, la mia vita è diventata molto più semplice.» «Ah, sì?» disse Christopher con il suo sorriso odioso. «E che cosa sarei, di grazia?» Billy ricambiò il sorriso. «Un pezzo di merda subnormale.»
Christopher aprì la bocca per dire qualcosa, ma Billy lo zittì e continuò. «No, no. Non mi fraintendere. Ancora poco, poco così» e unì la punta del pollice e dell'indice «e mi avresti avuto nelle tue grinfie, anche se avevo deciso il contrario. Dai il meglio di te quando ti nutri della debolezza altrui, Christopher. Deve essere per questo che ti odio.» Billy fece un paio di passi verso il demone. Sapeva perfettamente quello che stava per succedere. Sperava che fosse la cosa migliore da fare. E comunque non vedeva l'ora di farla. «Non potrai avermi» disse facendosi sempre più vicino. Sempre più vicino. «Né ora né mai. Chiaro? Neanche se muoio. Neanche fra un milione di anni.» «Non esserne così sicuro...» «Chiudi il becco, Christopher! Le cazzate che mi hai fatto credere bastano e avanzano per una vita intera! Rinuncio a te, rinuncio al Potere che mi hai dato, quale che sia! Puoi riprenderti il dono che mi hai fatto e la guida e la protezione che mi hai offerto e tornartene strisciando all'inferno. È finita. Non abbiamo altro da dirci.» Tutti tacquero. Billy e Christopher rimasero a fissarsi negli occhi. Christopher sembrava quasi triste. E a suo modo, per strano che possa sembrare, immaginò Billy, probabilmente lo è. Poi il demone, con un sospiro profondo, annuì col capo. Il quaderno e la penna d'argento gli comparvero in mano come per magia. Christopher voltò le pagine del quaderno fino ad arrivare all'ultimissima e ci scribacchiò sopra qualcosa. «Sì, è proprio così» disse Christopher, incrociando per l'ultima volta lo sguardo di Billy. «Addio, Billy. È stato divertente.» «Vaffanculo» disse Billy. Christopher sorrise. Il quaderno si chiuse con un improvviso rumore secco... ... e Billy sentì il centro dello sterno frantumarsi e la fredda lama penetrare dentro di lui, restarvi per un istante e poi spingersi ancora più a fondo. Abbassò gli occhi sul suo petto pieno di orrore e di dolore e vide il sangue nero del cuore sgorgare dal buco che si era aperto. Sentì che aveva fatto un passo all'indietro barcollando, con la mente che vacillava, lanciandogli dei lampi di un coltello piatto scuro senza riflessi, di quattro giorni prima, e che ora recuperava il tempo perduto... ... e la mano destra si lacerò distogliendo per un secondo la sua attenzione, costringendolo a fissare il palmo straziato come se cercasse una
conferma a quello che stava accadendo. Un urlo che non era il suo gli sbatté contro i timpani. La bocca, quando la aprì, era una sorgente da cui scaturiva sangue denso e pesante... ... ma la sua mente divenne improvvisamente lucida e gli parlò anche se il rombo di uno sparo gli riecheggiava nelle orecchie e la parte superiore del capo gli esplose, andò a colpire la finestra dietro di lui, e il vetro e le ossa insieme trasformati in scaglie sfavillanti... ... e la sua mente disse addio, Mona, non essere triste, non è poi così terribile mentre le altre pallottole, con circa tre giorni di ritardo, gli ridussero il cranio in una pappa rossa che schizzò via. Sperava che lei lo sentisse. Ne era ragionevolmente certo... ... e poi, con occhi e orecchie che non esistevano più, vide e sentì il furgone che si avvicina con le gomme che stridevano e pensò ah, sì, c'è ancora questa cosa e anche quell'altra... ... e poi il corpo di Billy venne scagliato in aria lasciando le scarpe sul pavimento e volò per la stanza, un involucro di pelle pieno di ossa rotte e maciullate e di organi non più vitali. Attraversò quel che rimaneva della finestra e si schiantò contro la ringhiera di metallo della scala di scurezza, spezzandosi la spina dorsale e poi quel sacco di carne senza vita andò a fracassarsi dopo un volo di tre piani sul marciapiede sottostante... Dall'alto dei cieli Frammenti di carta incenerita volavano nella stanza come stelle cadenti: residui incandescenti delle strategie diaboliche di Billy, incenerite e strappate dalle pareti. La bocca dell'inferno era scomparsa e la stanza era tornata alle sue dimensioni abituali. Anche Billy era scomparso, lasciandosi dietro solo le scarpe e la puzza della sua morte. Ma il mostro c'era ancora: si grattava il mento con lo sguardo perso nel vuoto. «Accidenti» disse. «C'eravamo quasi. Ogni volta così: stiamo per farcela e poi...» Si girò verso di lei. Per la prima volta Mona sentì il suo sguardo gelido perforarle gli occhi. Il mostro sorrise, quasi affabilmente, e riaprì il suo quaderno alla primissima pagina. Che era bianca. E attese. «E tu?» disse. «Che ne diresti di provare a ripulire le strade?»
Mona si mise a urlare. «Parrebbe di no» disse il mostro scuotendo le spalle. Mona gridò di nuovo, appena cosciente del fatto che il suo corpo si stava muovendo. Le gambe urtarono il davanzale appena sopra la rotula e Mona inciampò all'indietro, precipitando nella notte. Agitò istintivamente le braccia dietro di sé, e i pezzi di carne e i vetri rotti che coprivano la pedana della scala di sicurezza resero immediatamente viscide e sporche le sue mani. Ma la caduta e il fresco della notte agirono come uno schiaffo sulla sua mente. Ricacciò indietro il grido che le era già salito alle labbra, trascinò il resto del corpo fuori dalla finestra, si rialzo in piedi e fece il primo passo giù per la scala, cominciando a correre. Sotto di lei, Stanton Street era vuota e silenziosa. Il cono di luce del lampione e il buio del cantiere erano in perfetta sintonia con la luna e il cielo, indifferenti sopra di lei. L'unico suono che si avvertiva era quello dei suoi piedi che risuonavano sbattendo contro le scale di metallo, il suo ansare stridulo e isterico, il gemito lontano (gneo gneo gneo) di una sirena della polizia, troppo distante per occuparsene. E la risata che si riversava fuori dalla finestra sopra di lei. Non si girò a guardare. Non ce n'era bisogno. La pedana del secondo piano era a soli cinque gradini. Quattro. Tre. Saltò gli ultimi due gradini e atterrò con le mani già contro la ringhiera, e tenendola stretta si sollevò sopra di essa... ... ed eccola che arrivava, come gli avevano detto: era la Bellissimissima delle Bellissime, la Migliore Ragazza che avesse mai avuto, che scendeva dall'alto dei cieli... ... e la caduta in sé fu indolore fino alla fine, i pochi secondi in aria vibranti di trionfo e di esaltazione. Poi la terra le venne incontro troppo in fretta troppo in fretta e prima che potesse riequilibrare il suo peso i piedi ci urtarono contro e l'angolazione era completamente sbagliata e le ginocchia si piegarono mentre il dolore le risaliva le gambe urlando e la testa percorse l'ultimo metro che la separava dal marciapiede in preda al dolore. Cercò di rialzarsi. Il ginocchio sinistro si rifiutava di collaborare. «Ti prego!» gridò. Il ginocchio rispose con un urlo, rimanendo rigido. Mona spostò tutto il suo peso sulla gamba destra, cercando di sollevarsi...
... e lui uscì dall'ombra del cantiere, vagamente consapevole di averlo già fatto in precedenza, appena cosciente dell'oscena circolarità del suo gesto. La sua mano sana sprofondò nella tasca, estrasse il Mastro Incisore, l'altra era tesa davanti a lui come un dirigibile Goodyear a cinque dita che emanava un fetore insopportabile. Stava morendo, sì, proprio così, e ogni passo incerto in avanti era più debole del precedente... ... ma lei era vicina ormai, a meno di due metri di distanza, a meno di un metro e mezzo, ed era bellissima, più bella di quanto avesse mai mai mai sperato, anche se stava gridando... ... ed era a un metro da lui... ... quando l'auto svoltò stridendo a sinistra e imboccò Stanton Street e le luci dei fari inchiodarono istantaneamente le due figure disperate al centro dell'isolato. «Porca puttana» disse Hamilton con un sibilo quando il riflesso del coltello distolse per un istante la sua attenzione dal volante che stringeva... ... e mentre le ruote slittavano diagonalmente sull'asfalto, Rizzo urlò qualcosa di incomprensibile un secondo prima che la fiancata destra dell'auto della polizia andasse a sbattere contro le auto parcheggiate lungo il lato meridionale di Stanton Street... ... ma questo non fermò l'incubo che si stava trascinando dolorosamente verso di lei. Mona aveva visto luccicare il coltello che la mano destra teneva sollevato, le dita violacee ed elefantiache che brancolavano nell'aria a meno di quindici centimetri dalla sua gola. Si mosse istintivamente. Si rendeva vagamente conto di quello che stava facendo. La mano sinistra salì dal basso a stringergli l'avambraccio, la mano destra (morirò prima di permettere che ti succeda di nuovo) lo bloccò, serrandogli il gomito, e spinse, spinse, l'orrendo rumore che esplodeva soffocato dalla manica dell'impermeabile... ... e lui sentì i demoni che abbandonavano la sua mente, che se la filavano mentre il gomito cedeva e il dolore incandescente gli attraversava tutta la spina dorsale in un secondo. I topi scappano dalla nave che affonda, lo abbandonano mentre urla e si volta per ripararsi dalla furia della Bellissimissima fra le Bellissime, quella per cui aveva fatto tutto...
... e Hamilton uscì fuori dall'auto e assunse la posizione di tiro. Gambe divaricate. Braccia rilassate. Corpo in equilibrio. Dito saldo sul grilletto. «Ora» disse facendo partire il primo colpo. Non vide il foro, ma dallo spasmo del corpo dell'uomo capì che aveva colto il bersaglio. Sparò per la seconda volta e il coltello volò via e dal primo foro uscì una secrezione che sembrava una rosa rossa insanguinata e che risaltava, con il suo colore acceso, sull'impermeabile marroncino. Il secondo foro sbocciò non appena il terzo e il quarto sparo misero al tappeto il bersaglio. Ti ho preso, testa di cazzo! pensò Hamilton un secondo prima di comprendere che non sapeva nemmeno chi era che stava uccidendo... ... ma Stanley Peckard era felice. Il dolore, insopportabile fino a pochi secondi prima, stava svanendo sotto le ondate scure e fredde della morte che lo avvolgevano. E la sua mente, per la prima volta da un tempo immemorabile, era completamente sua. La vista di Stanley non era mai stata buona e la morte imminente non contribuì a migliorarla. Anche se il cielo notturno era limpido, non riusciva a vedere le stelle. Ma c'era la luna: un cerchio grande e luminoso alla fine di un lungo tunnel buio. Sorrise e tutta la realtà si incanalò verso quel foro che risplendeva nel cielo. Tutto il resto, il marciapiede, il dolore, la Bellissimissima fra le Bellissime che non era mai stata sua, no, neppure per un secondo, tutto il resto cessò semplicemente di esistere. Chiudendo gli occhi, continuava a vedere la luce: indicibilmente bella splendeva su di lui, lo riscaldava, lo esortava dolcemente ad alzarsi... E ubbidì. Senza mai guardarsi indietro, neanche una volta. La portiera sul lato destro era irrimediabilmente ammaccata. Ma ormai non aveva importanza. Qualunque cosa fosse successa, tutto si era svolto così in fretta che Rizzo provò la strana sensazione di essere soltanto un ignaro passante. E qualunque cosa fosse successa, era tutto finito. Hamilton si stava avvicinando molto lentamente alla ragazza. Rizzo colse l'opportunità per chiedere alla radio dei rinforzi, anche se non sembrava
esserci particolare urgenza. Un uomo morto, una ragazza ferita, un altro corpo, poco più in là, che sospettava essere completamente defunto. Poi uscì dalla parte del guidatore e si fermò nel punto in cui Hamilton aveva sparato: Rizzo era certo che il suo collega aveva ucciso un uomo per la prima volta. Sarà un bel casino, gli comunicò la sua mente senza mezzi termini. Hamilton si era già inginocchiato accanto alla ragazza e lei gli si era gettata fra le braccia ed era penosamente evidente a Rizzo che almeno uno di loro stava piangendo in preda a un attacco isterico. Non c'era niente da fare e quindi Rizzo si accese una sigaretta mentre si avvicinava ai due cadaveri, tenendosi con cura lontano dai vivi. Non c'era niente che potesse fare neanche per loro. I morti, almeno, non si sarebbero curati del fatto che gli stava gironzolando attorno. Da un secondo all'altro sarebbero arrivati gli avvoltoi. Già dietro quasi tutte le finestre di quello schifoso isolato si erano accese le luci. Gli venne in mente in un lampo l'ultima volta in cui era stato a Stanton Street di notte. Le luci dei flash. Le transenne. Le videocamere e i microfoni. Le domande che non finivano mai. La linea bianca del gesso. Sì, c'era sempre un gran casino quando moriva qualcuno. Ci stava male, ma come succedeva con quasi tutto il resto, non poteva farci niente. Quel senso di impotenza di tanto in tanto lo faceva impazzire, gli faceva venir voglia di fare qualcosa, qualsiasi cosa, per mettere fine a quel velo senza fine di lacrime. Quando lo coglievano pensieri del genere, li ributtava indietro con tutta la forza che aveva. La prima macchina della polizia svoltò l'angolo, immediatamente seguita da un'altra. E poi da un'altra. E da un'altra ancora. La prima ondata di imbecilli si riversò dai portoni. Rizzo non li guardò neppure. Rizzo fissava la luna, fredda e lontana. La luna dall'alto ricambiò il suo sguardo. Si sarebbe detto che né l'uno né l'altra provassero niente di particolare per nessuno. Epilogo Pax C'è chi dice che son pazzo,
c'è chi dice che è così. C'è chi dice che son pazzo ma non me ne frega niente. Ma non sono qui per piangere. Non son qui per indignarmi. Sono qui per indicarvi La svolta verso la Luce... Billy Rowe La svolta verso la vita Griffin Records Tutto sommato, era stato un pomeriggio estremamente piacevole per Frank Rizzo. Il tempo era splendido. Il pranzo (cibo cajun, il massimo per Frank) era stato ottimo. La conversazione rilassata e gradevole. Perfino la sua borsite sembrava essersi presa un giorno di vacanza. Qualcosa sarebbe certamente arrivato a rovinare tutto. Poi sentì quella canzone alla radio e capì di cosa si trattava. «Omiodio!» esclamò Hamilton allungando la mano e alzando il volume al massimo. «Frank, senti qua!» Gli altoparlanti di latta imploravano pietà. Dennis sorrideva sardonico. Rizzo si limitò a grugnire e lanciò la berlina a tutto gas per la Decima Avenue, fendendo il traffico che non era ancora quello dell'ora di punta come un pescecane schiva un banco di scogli. A lui, personalmente, della musica gliene fregava poco meno di un cazzo, punto e basta, fin da quando quel piccolo norvegese stravolto dalla battaglia aerea aveva fatto fare per sbaglio un tuffo gelido nel canale della Manica a Glenn Miller e al cuore della sua Big Band nel '44. E la sua indifferenza sfociava nel disprezzo più radicale quando si trattava di quella robaccia ultramoderna digitalizzata che intasava negli ultimi tempi le onde radio. Il suo disprezzo toccava anche questa canzone, che comunque gli sembrava possedere un po' più di sostanza delle altre. Soprattutto questa canzone. Era una ballata. Ed era sorprendentemente sensuale e inquietante. Volendo, la si poteva definire agrodolce. Ma il cantante ululava come un fantasma che non riesce a trovare pace quando invece avrebbe dovuto usare un tono più sommesso. E comunque la canzone in genere lo metteva a disagio.
Gli ricordava troppe cose che sarebbe stato meglio se fossero rimaste dov'erano. Lanciò un'occhiata di sbieco a Hamilton, che dondolava avanti e indietro e tamburellava con le dita sul cruscotto, seguendo il ritmo. «Stammi a sentire» disse Rizzo. «Se non abbassi subito il volume, mi piazzo dietro a quel pullman e lo seguo fino a Columbus Circle fino a che i suoi gas di scarico non avranno divorato quel poco che resta del tuo cervello.» Dennis continuò imperterrito a tamburellare sul cruscotto. «E tu farai la mia stessa fine.» «Cristo santo, tremo come una foglia. Meglio morire che ascoltare questo stronzo che miagola come un gatto in amore.» Dennis smise di colpo. «Sai qual è il tuo problema, amico?» disse con aria riflessiva. «A parte il fatto che sei un vecchio babbione sempre pronto a incazzarti, del tutto privo di sensibilità e completamente inacidito, incapace di tenere dietro alle novità in campo culturale.» Rizzo scosse il capo. «No, dimmelo tu.» «Non vuoi ammettere che forse, e ripeto forse, ti sei sbagliato su di lui.» Rizzo scosse il capo ancora per un po' e svoltò con il giallo all'incrocio con la Cinquantasettesima, evitando il pullman con abilità. Era sul punto di ribattere a quel pivello scegliendo fra un'ampia gamma di possibili risposte che non avrebbero ammesso ulteriori repliche quando la voce gracchiante del dj salì di volume sopra la canzone che sfumava. "Erano David Hart e i Brakes su Novantadue Rock con la loro nuova canzone, La svolta... " E Hamilton vide che Rizzo si bloccava proprio mentre stava per rimbeccarlo. Forse era la notizia che Dennis sarebbe riapparso su MTV, o forse semplicemente non gli andava di mettersi a discutere. «Caro collega» disse infine «tu sì che sai come rovinare una rimpatriata perfetta.» Dennis sorrise. Sapeva che quello era il massimo che Rizzo avrebbe potuto concedergli. Rizzo ricambiò. Tornò a regnare la pace. La berlina girò attorno a Columbus Circle, e rallentò fino a fermarsi nei pressi del chiosco di Central Park West. Si strinsero la mano, si augurarono buona fortuna e promisero di risentirsi presto. Un minuto dopo Dennis Hamilton si ritrovò solo. Il parco lo attrasse con l'aroma gradevole dei primi giorni d'estate. Decise di camminare lungo il perimetro esterno per guardare da lontano la luce
del sole al tramonto filtrare attraverso gli alberi in grossi fiocchi dorati. Si sentiva bene. Il tasso di umidità era basso quel giorno, grazie al cielo e, una dolce brezza si levava frusciando dalla pista per i cavalli, portando con sé l'odore della terra fresca e dell'erba appena spuntata. Il che contribuì al suo buon umore. Si era trovato benissimo con il vecchio Frank quel giorno, e anche questo aveva contribuito al suo buonumore. Un sacco di battibecchi amichevoli, ma niente scazzi seri. Ottimo. Dennis notò, con scarsa sorpresa e un minimo di soddisfazione, che Rizzo detestava il suo nuovo collega, uno sbarbatello di nome Todd Sweiteck. Rizzo lo aveva soprannominato la Lumaca e giurava che le sue facoltà raziocinanti erano talmente lente da lasciare dietro di sé una traccia bavosa. Bene bene, rifletté Dennis. Ci sono cose che non cambiano mai. Mentre altre cambiavano, e di parecchio. Il parco, per esempio. Dennis ci era capitato un sacco di volte dopo aver dato le dimissioni. Era un buon posto per passeggiare e per riflettere: vasto e incantevole, nonostante il degrado. E anche quest'ultimo sembrava essersi fermato negli ultimi nove mesi. C'erano meno scritte sui muri, meno bottiglie rotte e meno roba abbandonata di quanta ce ne fosse stata per anni. Perfino la vista di una borsetta scippata e poi abbandonata, con il suo contenuto sparso al vento, era diventata ormai un'eccezione e non più la regola. Eravamo ancora anni luce lontani dal paradiso, e solo gli idioti si avventuravano nelle sue viscere dopo il tramonto. Ma gli idioti sarebbero sempre esistiti. Mentre gli altri si tenevano lontani. A pacchi. Perché lui è ancora qui, si disse convinto Dennis. Per quel che ne sanno, è ancora in circolazione. Ed era vero. Le statistiche nuove di zecca che Rizzo gli aveva passato non facevano che confermare quello che lui e chiunque altro già sospettavano: i crimini violenti erano in diminuzione. Certo, c'era ancora un sacco di gente che vi si dedicava con lieto trasporto. I maltrattamenti, le violenze e i massacri continuavano, ma fra il conforto e l'intimità di quattro mura. Gli impiegati nella sordida industria del crimine vivevano ancora da nababbi. Ma le strade... Le strade erano diverse. Una differenza sottile e palpabile. E con ogni probabilità sarebbero rimaste tali fino a che un fatto semplice ed essenziale
fosse rimasto immutato. Il Vigilante non era mai stato catturato. Billy Rowe era morto, per quel che il mondo sapeva e per quel che gliene importava, nel tentativo di proteggere la sua amata, ultima vittima innocente dell'Assassino Sorrisino. Rizzo e Hamilton avevano infine deciso di sostenere quella versione, giustificando la condizione del cadavere con la caduta e la colluttazione. L'appartamento bruciacchiato di Billy non offriva molte prove in contrasto con la loro ricostruzione: era bruciato tutto, pareti, pavimento e soffitto, fino a una profondità esatta di quindici millimetri, poi l'incendio si era spento. Tutto il resto era carbonizzato: i ritagli di giornali, i suoi progetti. La sua musica. Era un'anomalia di incredibili proporzioni e in quanto tale venne trattata esattamente come avviene in casi simili: fu completamente ignorata. Persa fra le carte dell'inchiesta, insabbiata sotto la dicitura "di origine sospetta" e infine dimenticata. Gli ispettori di polizia parlarono di "cattivo funzionamento" del campanello della porta e tutti sembrarono soddisfatti. Albert, il padrone di casa, era irreperibile. Dennis Hamilton, che aveva sparato il colpo risolutivo, sopportò l'inevitabile innalzamento a eroe dei media con cortesia sbrigativa e sintetica scarsità di dichiarazioni. Affrontò con successo un fuoco di domande infinite, accolse i consigli e diede senza clamore le dimissioni alla fine dell'inchiesta ufficiale. E la vita andò avanti. E scesero i necrofagi... Il disgustoso spettacolo durò ancora per sei settimane: ogni canale televisivo, ogni chiosco di giornale e ogni cassa dei supermercati del paese vomitava sguardi sempre nuovi e riflessioni teoriche sul Mondo di Stanley Peckard. Sia il Time che il Newsweek tolsero dalle loro copertine gli ultimi incontri al vertice fra i capi di stato per fare posto alle contrastanti variazioni sul tema delle incisioni del Maniaco; e il Time in particolare, con una mossa particolarmente macabra, infilò strategicamente quella copertina nella sua pubblicità per la nuova campagna abbonamenti, conferendo così un nuovo senso allo slogan «Time ti dà quello che c'è dentro la notizia.» Phil Donahue, Bill Boggs e la loro miriade di seguaci titillarono la mente del pubblico con inevitabili talk-show sulla violenza sociosessuale e la consueta partecipazione delle maggiori autorità nel campo, oltre a psicologi e femministe. Venne notata l'assenza di Paula Levin.
David Letterman fece uno spettacolo sul pazzo assassino che fu un disastro e non fece ridere nessuno. Un gruppo hard-core chiamato The Stanleys fece un clamoroso debutto al CBGB, con schiere di fans insanguinati al seguito. Mona de Vanguardia rifiutò di farsi intervistare. Ripetutamente. E il Vigilante... Nessuno lo aveva più visto, ma al tempo stesso era ovunque. Segnalazioni delle sue gesta spuntavano come funghi. In ogni quartiere. In ogni strada. In ogni vicolo disseminato di rifiuti e sulle banchine della metropolitana, la mattina presto. Camminava nell'ombra. Era in agguato. Sempre presente. Subito dopo la scomparsa di Billy, infatti, un'altra dozzina di persone aveva preso il suo posto. La percezione del fenomeno da parte della comunità era simile a un flusso ininterrotto: l'uno divenne una moltitudine. E non passò molto tempo prima che la scintilla diventasse un incendio e l'incendio diventasse una fornace tumultuosa di indignazione e di rabbia, mentre la gente cominciava a badare da sola a se stessa. E agli altri... ... e un ladruncolo che bazzicava sulla metropolitana e si chiamava Royce Buchanan trovò la sua via di fuga pesantemente ostruita quando una passante giovane e schiva lo colpì sulla testa con la sua borsetta italiana di cuoio e lo mandò a testa in giù sulle rotaie della linea numero 6 dove un esercito di ombrelli e piedi lo tenne bloccato fino a che non arrivarono gli agenti di servizio... ... e la rapina in un self-service BP a Brooklyn venne sventata quando un altro cliente innaffiò improvvisamente di benzina senza piombo l'auto del rapinatore, minacciando quindi di accendere il suo Bic... E altre storie. E altre ancora. Decine e decine di storie. Alcune immaginarie, ma molte altre no. Ad alcuni andò bene. Ad alcuni andò male. Ci furono molti feriti. E moltissimi arresti. E non finiva. Il sindaco rivolse un appello ai cittadini mettendoli in guardia contro quella sorta di epidemia e strombazzò ai quattro venti i rischi della giustizia privata; i controlli sulle violazioni alla legge sulle armi vennero rafforzati. Ma non servì a niente. Non finiva. L'opinione pubblica era eccitatissima, l'entusiasmo era alle stelle. Si discuteva ininterrottamente nei bar e nei locali, gli articoli a favore si scon-
travano con quelli contro. Alcuni psicologi divennero popolarissimi, ancora più degli evangelisti televisivi, mentre tuonavano sinistramente contro gli incombenti "culti dettati dal desiderio di morte" e lamentavano l'"ondata crescente di paura. A Dennis veniva da ridere quando ci pensava. Il clima di paura non stava aumentando e lo sapeva. Si stava semplicemente diffondendo in modo leggermente più equo. Mona era sola nel letto, completamente sveglia: gli occhi spalancati fissi nel buio, il sudore che le incollava la schiena e i fianchi alle lenzuola nonostante il diligente ronzio del condizionatore d'aria. Era lì sdraiata già da qualche tempo, come era successo la notte precedente. E la notte precedente. E la notte precedente... Al piano di sotto sentiva Dave che lavorava, giocherellando con i sintetizzatori e le drum machines mentre preparava una base su quattro piste. Un'altra canzone di Billy, pensò Mona. Non ha alzato gli occhi da quei nastri da quando... Il pensiero si perse nel nulla. I vuoti, infine, cominciarono a riempirsi. Era iniziato tutto, ne era sicura, come reazione al suo dolore: Dave era venuto in ospedale subito dopo il fatto, aveva ascoltato i nastri con la musica, unico lascito di Billy Rowe, e le aveva detto di essere rimasto sbalordito per la loro qualità e la loro intensità. Certo, aveva pensato lei con una certa amarezza. Sii gentile con la storpia. Asseconda la povera pazza. Non l'aveva bevuta. Ma poi Dave aveva preso tutti i nastri. Ed era andato da lei dicendo che voleva utilizzare quel materiale per il suo album successivo. E Mona comprese due cose, una dopo l'altra. Primo, Dave Hart non stava scherzando. Secondo, probabilmente Dave Hart avrebbe potuto fare con la musica di Billy Rowe quello che quest'ultimo non era mai riuscito a realizzare. E ci riuscì. Con un successo immenso. Due canzoni sul prossimo album. Altre due già previste per quello successivo. Il cuore e l'anima di Billy Rowe che infine uscivano allo scoperto dove tutti potevano sentirli. E vederli. E ricordarli. «Amore» mormorò Mona. C'era un fremito nella sua voce. «Piacciono
da pazzi a tutti. Sul serio.» Una lacrima solitaria le scese giù per la guancia. Molte altre erano pronte a seguirla. Ricacciò indietro un singhiozzo per paura che Dave la sentisse: l'ultima cosa che avrebbe potuto sopportare in quel momento era la sua presenza sollecita e piena di attenzioni incombente su di lei. Stava diventando sempre più evidente che non sarebbero rimasti insieme ancora per molto. All'inizio, quando Mona aveva superato lo shock e la diffidenza iniziali, la storia con Dave le era servita: una spalla amica su cui piangere, un corpo amico per tenere lontani gli spettri. Era comprensibile. Ma non poteva durare. Era chiarissimo. Dave l'amava, e Mona lo sapeva. E l'amava sapendo che lei non avrebbe mai potuto ricambiarlo. Non voleva ferirlo. Ma non riusciva proprio ad amarlo. Nonostante i sentimenti di Dave, anzi forse proprio a causa loro, il desiderio maggiore di Mona era quello di restare sola. Era importante. Una parte troppo grande di lei era morta in Stanton Street. Aveva perso l'amore, aveva perso la possibilità di continuare a lavorare come ballerina, aveva perso quasi completamente la sua salute mentale. L'ultima l'aveva recuperata, col tempo. Irrevocabilmente e per sempre alterata, ma l'aveva recuperata. Con il suo amore non ce l'aveva fatta. Era dentro di lei, freddo e devastato. E prima che la Mona di un tempo potesse sperare di tornare a vivere e amare e danzare... ... sapeva che la Mona di oggi doveva imparare a strisciare. Al piano di sotto la musica cessò. Mona sentì Dave alzarsi in piedi, stiracchiarsi e sospirare. Poi dei passi familiari e pelosi risposero al suo richiamo: «Bubba, è ora della passeggiata! Ti va?» Seguì uno stropiccio di zampe e il tintinnio di un mazzo di chiavi che venivano infilate in tasca. Sei piedi si mossero a passi felpati nell'ingresso. La porta si aprì e poi si richiuse. E Mona rimase sola. Si rannicchiò attorno al cuscino e pianse sommessamente per qualche tempo. Poi, come la notte precedente, e quella precedente e quella precedente ancora... Mona sognò. (non è poi così terribile) Le parole ripetute come un mantra. La voce di Billy diceva (non è poi così terribile)
che non c'era paura, non c'era dolore, solo la sensazione di lasciarsi trascinare dalla corrente per un lungo, lunghissimo periodo di tempo fuori dal Tempo, di fluttuare in un vuoto sconfinato e confortevole, buio come un utero (non è poi così terribile) e poi veniva la Luce. E con essa il desiderio struggente di lasciarsi andare, di arrendersi e volare per sempre nella Fonte che tutto consuma e tutti perdona. Ma la Luce parlò con una voce al di là del tempo e dell' età e immensamente piena d'amore (ORA DI ANDARE) e Mona sentì che quello che si estendeva davanti a lei cominciava a staccarsi da quello che si estendeva dietro di lei mentre la Voce parlava ancora (ORA DI ANDARE) e sentì un'altra voce, più tenue, più vicina. La voce di Billy che diceva (non è poi così terribile) che andava tutto bene, era questo il modo in cui doveva andare, anche se ora la Luce retrocedeva fino a diventare poco più di una punta di spillo su un orizzonte immensamente nero, come quella minuscola scintilla che è l'anima dell'uomo... ... e Mona era sola nel letto, completamente sveglia e piangendo chiamava sommessamente Billy. Come faceva da tante notti. Con una piccola differenza. Una grazia che le dava la salvezza. Questa notte Mona sapeva dove era finito Billy. Fuori dalla città di Léon, sulle colline del Nicaragua, un giovane se ne stava seduto fuori da una baracca, immerso nei propri pensieri. Ascoltava. E aspettava. Era sollevato dal fatto che quella notte i combattimenti si svolgevano lontano da lì. Nella baracca, suo figlio stava venendo alla luce. Ai suoi piedi c'era una radio tutta rotta, sintonizzata a basso volume su una stazione radio di Miami che trasmetteva quasi esclusivamente rock'n'roll yanqui. La qualità della ricezione non era ottima e la radio ancor meno, ma l'uomo riusciva a sentire abbastanza per canticchiare fra sé, accompagnando una canzone cantata in una lingua che conosceva appena. «Non arrenderti!
C'è bisogno di te! Non arrenderti! C'è bisogno di te!» La levatrice comparve sulla porta della baracca. Lo sguardo sul suo viso lasciava intendere che tutto era andato bene. Era finita. L'uomo fece un largo sorriso ebete, travolto dalla gioia e dall'intensità del momento. La prima cosa che vide entrando nella baracca fu il viso della donna che amava. Era madido di sudore, eccezionalmente stanco e la cosa più bella che avesse mai visto al mondo. Poi vide la creatura appena nata. L'universo si spalancò in quell'istante davanti a lui. Il suo cuore si espanse fino a toccare la Creazione, fece scorrere le sue dita piene d'amore su ogni piega e ogni curva voluta da Dio. Aveva di fronte a sé un miracolo. Quell'uomo non sarebbe stato mai più lo stesso. Sia lodato il cielo. Era una bella bambina. Anche se non avevano finito di ripulirla da tutto il sangue che aveva addosso, era la cosa più bella che avesse mai visto. Sua moglie avrebbe capito. Sapeva che anche lei provava la stessa cosa. Gli occhi della bimba erano aperti. Non aveva nemmeno strillato. E la musica, fuori, continuava a suonare. FINE