DAVID E LEIGH EDDINGS LA GRANDE DEA (The Treasured One, 2004)
Prefazione Era un periodo di incertezza nel nido del Vlag...
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DAVID E LEIGH EDDINGS LA GRANDE DEA (The Treasured One, 2004)
Prefazione Era un periodo di incertezza nel nido del Vlagh, giacché nessuna notizia di vittoria era giunta fino ad allora da parte dei servitori-guerrieri che avevano seguito le tane sotterranee verso le ampie acque che si estendono sotto il tramonto.
Tutto si era svolto come doveva, all'inizio, mentre i servitori-guerrieri si erano mossi lungo quei percorsi sotterranei, uccidendo le cose-uomo di quella terra, e la gioia conosciuta dal nostro caro Vlagh non aveva trovato limiti, poiché una volta che la terra del tramonto fosse stata nostra, ci sarebbe stato tanto da mangiare e il Vlagh, che aveva deposto le uova da cui tutti noi eravamo nati, avrebbe potuto deporne ancora e il nostro numero sarebbe aumentato a dismisura e la supermente di cui tutti facciamo parte si sarebbe accresciuta, giacché essa si espande e diviene più complessa a ogni nuova covata. Impaziente era il nostro Vlagh, poiché nessuno dei suoi servitori, qualsiasi forma avesse, aveva ancora recato notizia della vittoria e, senza tale assicurazione, non poteva deporre le uova. Sebbene si spingesse con i sensi verso la terra del tramonto per interrogare la supermente sul successo dei suoi strani guerrieri, essa non rispondeva, e questo era oltremodo insolito. A mano a mano che i giorni arrivavano e svanivano, il nostro Vlagh diveniva sempre più irritabile, essendo la sua necessità di deporre le uova frustrata dalla mancanza di certezze. «Andate!» ordinò ai servitoriguerrieri che proteggevano il nido nascosto. «Andate a vedere e ritornate a dirmi ciò che debbo sapere.» Molti di essi dai denti velenosi corsero via e quelli di noi che sono i veri servitori addetti alla cura del nostro Caro Vlagh e dei nuovi nati cercarono di assicurargli che tutto era come doveva essere. Ma così non era. I guerrieri velenosi dalle strane forme tornarono a riferire che non erano in grado di trovare nemmeno uno di coloro che avevano seguito le tane sotterranee, né avevano trovato traccia di quelle tane. Cosa ancora più angosciante, in quella regione non avevano percepito la presenza della supermente. E il dolore del nostro caro Vlagh non conobbe limiti, giacché la supermente era diminuita di molto e sarebbe rimasta così fino a che le tane e i guerrieri dai denti velenosi non fossero stati trovati e la loro consapevolezza non si fosse con essa ricongiunta. Poi giunse al nido del Vlagh uno di coloro che avevano scavato quelle tane, aveva le membra mancanti e profonde ferite nel carapace, e narrò di una luce ardente sgorgata dai monti e di un liquido rosso più rovente del fuoco che colava lungo le gallerie sotterranee, consumando tutto quello che trovava sul suo cammino. E poi disse ciò che mai doveva essere detto: «Essi più non sono. I molti che hanno percorso le nostre gallerie verso la
terra del tramonto sono stati consumati dal liquido rosso più rovente del fuoco, e noi siamo tutti sminuiti per la loro dipartita». E, concluso il suo compito, morì. E il nostro amato Vlagh urlò per il tormento, giacché le parole del suo servitore avevano distrutto l'impulso a deporre le uova. E tutti noi eravamo sminuiti da quelle parole, perché i molti erano ora pochi e le terre sotto il tramonto erano ora e per sempre per noi irraggiungibili. Il dolore del Vlagh andava oltre la nostra comprensione e quel dolore ci portò la rabbia. Accadde ora che i servitori dalle strane forme e dai denti velenosi che si erano spinti a cercare conoscenza nelle terre delle cose-uomo discutessero tra loro. Essi sono diversi dai veri servitori, poiché il loro compito li ha alterati: vanno oltre gli immediati comandi del nostro Vlagh e soppesano le conoscenze che hanno trovato e, quando le riportano al nido, a volte offrono delle alternative. E così fu che i cercatori di conoscenza convennero tra loro che le terre del tramonto erano ora e per sempre irraggiungibili per gli scavatori e per i guerrieri, a causa del fuoco liquido che scendeva dalle montagne, e offrirono l'alternativa. Non poteva essere meglio, dissero, espandersi verso una direzione diversa da quella presa fino ad allora? Le montagne sopra la terra delle lunghe estati sono tranquille, e non hanno necessità di sputare il fuoco liquido, e ci sono molte più cose da mangiare che nella terra del tramonto. Poiché la presenza di cibo sollecita l'impulso del nostro Vlagh a deporre le uova, non dovremmo cercare una terra dove ce n'è di più? Se così facessimo, maggiore diventerebbe la sua necessità di deporre uova e ben presto saremmo molti di più. E quindi la consapevolezza della super-mente che tutti noi condividiamo si accrescerà, elevandosi a livelli mai raggiunti prima. E il nostro amato Vlagh entrò in comunicazione con la supermente sulla bontà dell'alternativa offerta dai cercatori di conoscenza, e la supermente trovò conveniente quell'alternativa, giacché aveva imparato assai durante il nostro tentativo di occupare la terra del tramonto. I guerrieri dalle strane forme avevano incontrato molte creature diverse, mentre muovevano verso occidente, e la supermente percepiva che quelle forme differenti potevano dimostrarsi utilissime nei nostri incontri con le cose-uomo nella terra delle lunghe estati, poiché le cose-uomo sono oltremodo tenaci e difficili da spingere in disparte mentre noi avanziamo verso la nostra meta. Poi, però, la supermente mise in guardia il Vlagh che il pericolo maggiore che avremmo incontrato nella terra delle lunghe estati (così come lo era stato
nella terra del tramonto) non sarebbero state le cose-uomo, ma piuttosto gli infanti dormienti e le loro pietre particolari. E fu così che distogliemmo l'attenzione dalle terre del tramonto e la fissammo sulla terra delle lunghe estati, dove quelli a due gambe producevano cibo dal suolo e dove c'è molto spazio, poiché cibo e spazio avrebbero spinto nuovamente il Vlagh a deporre le uova e la supermente si sarebbe accresciuta, superando perfino ciò che era prima di essere ridotta dalle montagne di fuoco, e ciò avrebbe arrecato gioia a noi tutti, che condividiamo i benefici dati dal suo accrescimento. E di certo verrà il tempo in cui tutte le terre delle cose-uomo saranno nostre, e noi cresceremo fino a che non sarà possibile contarci e la nostra supermente si espanderà fino a che tutta la conoscenza e anche il mondo saranno nostri. E soltanto allora saremo soddisfatti. Il sogno di Ashad Nel corso dei miei innumerevoli cicli mi sono assai affezionato ai monti del mio Dominio. Nelle montagne c'è una bellezza che nessun altro territorio può eguagliare. Mia sorella Zelana adora il mare con lo stesso trasporto, suppongo, ma io penso che il mare non possa reggere il confronto con il paesaggio montano. L'aria è tersa e pulita e le nevi eterne sulle vette sembrano aumentarne la purezza. Nei millenni che si sono susseguiti senza fine ho scoperto che un'alba tra le montagne mi dona la luce più deliziosa che abbia mai assaggiato, quindi ogni volta che è possibile mi reco sul fianco del Monte Shrak alle prime luci a sorbire la bellezza dell'alba. Non importa che cosa capiterà nel resto della giornata, il sapore di un levar del sole in montagna mi trasmette una serenità che null'altro può offrirmi. Era un giorno di tarda primavera, nell'anno in cui le creature della Terra Desolata avevano tentato inutilmente di impossessarsi del Dominio di mia sorella Zelana ed erano state sbaragliate dall'inondazione di Eleria e dai vulcani gemelli di Yaltar, quando uscii dalla mia grotta sotto il Monte Shrak per salutare il sole mattutino. Raggiunto l'usuale luogo del banchetto notai un ammasso di nuvole a oriente, cosa che rende il sorgere del sole ancora più imponente. Mi guardai attorno e vidi l'ultima neve invernale ancora ostinatamente aggrappata alle creste più basse, sembrava che l'estate stesse arrivando nel
mio Dominio un po' più lentamente del solito. Pensai che ciò fosse dovuto a uno di quei cambiamenti climatici che avvengono molto più sovente di quanto sembri accorgersene la gente comune. Le temperature sulla faccia di Padre Terra non sono realmente costanti. Sono soggette quasi del tutto ai capricci di Madre Mare e, se lei sente fresco, lui avrà parecchia neve. Può andare avanti così per secoli. Ci pensai un attimo, ma scacciai l'idea. L'inverno precedente Zelana aveva interferito abbondantemente con il clima per ritardare l'invasione del suo Dominio da parte dei servitori del Vlagh, in attesa che arrivasse l'esercito da lei assoldato nella Terra di Maag. Tutto sommato le cose erano andate piuttosto bene nella passata primavera. Più ci ripensavo, più mi convincevo che la mia decisione di svegliare prematuramente i giovani dei dal loro ciclo di sonno e di farli regredire all'infanzia avesse effettivamente realizzato l'antica profezia. L'inondazione di Eleria e i vulcani gemelli di Yaltar avevano sigillato per sempre il Dominio di Zelana contro altre incursioni perpetrate dalle creature della Terra Desolata. Il sole del mattino si levò in tutto il suo splendore, dipingendo il banco di nubi a est di un cremisi meraviglioso, e io mi nutrii della sua luce. Ho sempre trovato la luce della prima estate più corroborante rispetto a quella pallida dell'inverno o a quella polverosa dell'autunno, e il mio passo era alquanto baldanzoso mentre scendevo dalla montagna fino alla mia grotta. La mia piccola beniamina, la sfera luminosa che fungeva da solegiocattolo, mi aspettava all'imboccatura e mi dardeggiò la solita domanda. «Ho solo dato un'occhiata al tempo, piccolina», mentii. Lei mette sempre il broncio, se pensa che le preferisca la luce del sole vero. I nostri beniamini da compagnia possono essere molto strani, a volte. «Ashad dorme ancora?» le domandai. In risposta, lei saltellò leggermente su e giù. «Bene», commentai. «Di recente non ha dormito profondamente. Penso che fosse molto spaventato da ciò che accadeva nel Dominio di Zelana. Magari potresti tenere la luce un po' smorzata, in modo che continui il suo sonno. Ha bisogno di riposo.» Lei saltellò ancora per mostrarsi d'accordo e la sua luce si affievolì. Inizialmente, quando avevo portato Ashad nella nostra grotta, si era un po' immusonita e non aveva mostrato tanto affetto per il mio bambino dai capelli dorati. Non aveva mai compreso appieno la sua necessità di cibo solido piuttosto che di sola luce, quindi aveva l'abitudine di stare sospesa nelle
sue vicinanze e di versargli addosso la luce, nel caso lui ne avesse bisogno. Scesi lungo il passaggio serpeggiante che portava alla grotta, chinando la testa sotto le stalattiti che pendevano dal soffitto. Dall'inizio del mio ciclo erano diventate più spesse e più lunghe e cominciavano a intralciarmi. Erano formate dall'acqua ricca di minerali che filtrava attraverso il Monte Shrak e ogni secolo si accrescevano a vista d'occhio. Avrei dovuto dar loro una regolata, appena avessi avuto un po' più di tempo. Quando arrivai nell'ampio locale sotterraneo che era la nostra casa, Ashad dormiva ancora, coperto dalla sua veste di pelliccia, e pensai fosse meglio non disturbarlo. Rimanevo convinto che la mia decisione di far entrare in scena i sostituti verso la fine del nostro ciclo fosse stata giusta, però era sempre più evidente che loro avevano portato con sé i ricordi precedenti. Mi sedetti vicino al tavolo dove Ashad consumava i suoi pasti, che lui chiamava «cibo vero», e rimuginai su alcune cose. Dovevo ammettere che forse avrei dovuto esaminare i nostri sostituti un po' meglio prima di svegliarli, adesso però era un po' tardi. Avevo ritenuto che i bambini avrebbero reagito a qualsiasi pericolo minacciasse i Domini dei propri genitori surrogati, quindi ero più che sorpreso quando Veltan mi aveva detto che era stato il sogno di Yaltar a predire la guerra nel Dominio di Zelana. Io avevo creduto che sarebbe stata Eleria ad avvertirci. Quando la vera crisi si era manifestata, Yaltar aveva messo da parte le predizioni ed era passato direttamente all'azione con i vulcani gemelli. Questo faceva pensare che Yaltar ed Eleria fossero stati molto vicini nel ciclo precedente, supposizione confermata dal fatto che di tanto in tanto i due bambini si erano riferiti l'uno all'altra con i loro veri nomi: Vash e Balacenia. «Penso ci sia qualche falla in questo mio 'grande piano'», ammisi con me stesso, contrito. Più ci pensavo, più sembrava che il fulcro del nostro problema stesse nel fatto che il Vlagh aveva modificato consapevolmente i suoi servitori nel corso degli ultimi cento millenni circa. Le varie forme di vita si modificano di continuo, in risposta ai cambiamenti dell'ambiente. A volte queste modifiche funzionano, a volte no. Le specie che compiono le scelte giuste sopravvivono, mentre le scelte sbagliate portano all'estinzione. In moltissimi casi la sopravvivenza dipende da pura fortuna. Prima che arrivassero i predecessori pelosi delle creature che ora chiamiamo uomini, nella Terra di Dhrall c'erano un gran numero di creature, ma a un certo punto la maggior parte si è estinta a causa di evoluzioni sba-
gliate. Il Vlagh, purtroppo, era tra i sopravvissuti. Originariamente, era poco più di un insetto esotico annidatosi vicino alla costa del mare interno che nel lontano passato copriva l'attuale Terra Desolata. Un graduale mutamento climatico aveva fatto evaporare le acque e il Vlagh, spinto dalla necessità, aveva iniziato a modificare i suoi servitori. Evitare il sole cocente era divenuta un'assoluta necessità e, per quanto sono stato in grado di determinare, il Vlagh non si era limitato ad annaspare alla ricerca di una soluzione, ma si era basato sull'osservazione. Sono quasi certo che l'apparizione della «supermente» risale a quel momento. La capacità di condividere le informazioni aveva dato ai servitori del Vlagh un vantaggio enorme sui loro vicini. Ciò che ognuno di loro vedeva singolarmente, lo vedevano tutti. Quella specie fino ad allora aveva vissuto sopra il terreno, probabilmente sugli alberi. Molte altre specie però vivevano sotto la superficie e i «cercatori di conoscenza» (le spie, in altri termini) avevano osservato i loro vicini e avevano fornito descrizioni accurate delle appendici che usavano per scavare sottoterra. Poi la supermente aveva copiato il modello, il Vlagh lo aveva duplicato, e nella covata successiva erano tutti scavatori. Le gallerie sotterranee avevano tenuto i servitori del Vlagh al riparo dal sole accecante, ma questo non era che il primo problema da affrontare. A mano a mano che i secoli passavano, il cambiamento climatico aveva gradatamente estinto la vegetazione lussureggiante di un tempo e quindi non c'era più cibo per sostenere una popolazione in crescita. Il Vlagh aveva continuato a deporre uova, naturalmente, ma ogni covata aveva prodotto sempre meno discendenti e questo lo aveva messo di fronte alla possibilità che la sua specie si estinguesse. Quando gli scavatori avevano raggiunto le montagne, avevano incontrato la roccia e si erano fermati. Non molto dopo, però, avevano scoperto le caverne che si trovavano sotto quelle montagne e la razza che doveva estinguersi continuò a vivere. Io Sono ambivalente rispetto alle caverne. Adoro la mia, ma detesto le loro. I servitori del Vlagh avevano incontrato altre creature in quelle caverne ed è evidente che la supermente si rese conto che alcune avevano caratteristiche che potevano dimostrarsi utilissime e cominciò a sperimentare (o a interferire con la natura) producendo mutazioni peculiari e decisamente in-
naturali. Devo ammettere mio malgrado che l'esperimento dal quale sono sortiti «gli uomini-serpente» (questo il termine colorito usato da Sorgan Becco d'Uncino della Terra di Maag) ha avuto un notevole successo, sebbene non riesca proprio a capire come abbia fatto il Vlagh a produrre una creatura che allo stesso tempo è insetto, rettile e mammifero a sangue caldo e che assomigli così tanto a un essere umano. Le improbabilità biologiche mi irritano a non finire. Devo però ammettere che, se non fosse stato per i consigli quasi geniali dello sciamano Colui Che Guarisce, le creature della Terra Desolata avrebbero probabilmente vinto la guerra nel Dominio di mia sorella. Ashad emise uno strano suono e io mi alzai e, nella penombra, mi avvicinai alla panca di pietra che gli serviva da letto per assicurarmi che stesse bene. Era rannicchiato sotto la sua veste di pelliccia, gli occhi chiusi, quindi mi tranquillizzai. Scoprire che i nostri bambini Sognatori non vivevano solo di luce ci aveva impensieriti. Non era il tipo di cosa su cui volevamo rischiare. Poi ci trovammo di fronte alla questione della respirazione. I dieci millenni trascorsi da Veltan sulla faccia della luna erano stati una chiara dimostrazione che noi in realtà non abbiamo bisogno di respirare. Molti popoli sotto la nostra custodia sono pescatori, però l'annegamento è un evento che capita di frequente. Sebbene i Sognatori fossero dei, la loro condizione attuale faceva pensare che avessero bisogno di aria da respirare e di cibo da mangiare, e noi non volevamo correre rischi. Ashad respirava regolarmente, quindi me ne tornai al mio sedile. Ripensai alle prime ore trascorse con Ashad. Appena aveva cominciato a piangere, ero caduto in preda al panico. Poi mi erano venuti in mente gli orsi che condividevano il mio Dominio con i cervi, gli umani e le mucche selvatiche. Le orse partorivano durante il letargo invernale e i piccoli si arrangiavano da soli a poppare. Allora mi ero ricordato di un'orsa chiamata Denti Spezzati che era solita andare in letargo in una caverna a poco più di un chilometro. Ancora in preda al panico, con in braccio il mio Sognatore urlante, corsi da Mamma Denti Spezzati. Quando entrai nella caverna aveva già partorito Artiglio Lungo, che poppava soddisfatto. Per fortuna non dovetti discutere con lui. Fu abbastanza gentile da spostarsi un tantino e io feci conoscere ad Ashad il latte d'orsa. Il suo pianto cessò di botto. Stranamente, o forse no, Ashad e Artiglio Lungo erano assolutamente
convinti di essere fratelli e, una volta sazi di latte, cominciarono a giocare tra loro. Quando Mamma Denti Spezzati si svegliò, annusò i suoi due cuccioli (ignorando completamente il fatto che uno dei due non aveva affatto l'aspetto di un orso) e se li accostò delicatamente all'enorme petto, come se non ci fosse nulla di strano. Gli orsi non ci vedono tanto bene, quindi si affidano prevalentemente all'odorato e, dopo essersi rotolato per due settimane sul pavimento di terra della caverna, Ashad aveva decisamente assunto una fragranza da orso. Ashad dormì quasi fino a mezzogiorno ma quando si alzò sembrava esausto. S'infilò il camiciotto di pelle e mi raggiunse al tavolo. «Buongiorno, zio», mi salutò, mentre si lasciava cadere pesantemente sul suo sedile. Tirò distrattamente a sé la ciotola di bacche rosse che aveva raccolto la sera prima e cominciò a mangiarle una alla volta. Per qualche motivo, non aveva il solito appetito. «C'è qualcosa che ti preoccupa, Ashad?» gli domandai. «Stanotte ho avuto un incubo», rispose, giocherellando con una lucida pietra nera grande il doppio di un uovo. «Sembrava che fossi sospeso in aria, su nel cielo, e guardavo giù verso il Dominio di Vash. Il territorio a sud non assomiglia per niente al nostro, vero?» Era accaduto di nuovo. Era evidente che Ashad sapeva il vero nome di Yaltar, come Eleria. «I popoli del Sud sono agricoltori», gli spiegai. «Fanno crescere buona parte del loro cibo nel terreno, invece di concentrarsi sulla caccia, come i nostri. Devono abbattere gli alberi per fare spazio alle coltivazioni, quindi la terra laggiù non assomiglia per niente alla nostra. Che altro è accaduto nel tuo sogno?» Ashad spinse via i capelli dorati che gli erano caduti sugli occhi. «Be', pareva che ci fossero moltissime di quelle cose cattive che entravano nel Dominio di Vash... un po' come quelle che erano strisciate nel Dominio di Balacenia tempo fa.» Depose sul tavolo la grossa pietra nera e mangiò altre bacche. Era evidente che i Sognatori, forse inconsciamente, oltrepassavano la barriera che avevo prudentemente eretto tra loro e il passato. «Comunque», continuò Ashad, «c'erano stranieri che combattevano le cose cattive proprio come avevano fatto nel Dominio di Balacenia, però poi c'è stata una certa confusione. Molti altri stranieri sono arrivati da sud, attraverso Madre Mare, ma sembrava che a loro non interessasse tanto la
guerra, perché passavano tutto il tempo a parlare agli agricoltori di qualcuno chiamato Amar. Quelli che parlavano portavano vesti nere, altri indossavano tuniche rosse e tiranneggiavano gli agricoltori, costringendoli ad ascoltare quelli in nero. Questo è andato avanti per un po', poi gli stranieri del Sud si sono agitati e hanno cominciato a correre verso nord attraverso una grande cascata e gli altri stranieri - quelli che erano arrivati prima - si sono tenuti in disparte per un po' e poi, quando tutti sono arrivati alla cascata, mi è parso che ognuno volesse uccidere tutti gli altri e, per quanto mi sforzassi, non capivo esattamente che cosa stava succedendo.» «Ho sentito che i sogni sono così, Ashad. Io non ho bisogno di dormire, quindi non so in cosa consistano.» Esitai. «Dove hai trovato quella pietra luccicante?» domandai, più per cambiare argomento che per vera curiosità. «Era in fondo alla caverna dove dorme Mamma Denti Spezzati. Ha avuto tre cuccioli durante il letargo dello scorso inverno e, mentre tu eri impegnato ad aiutare tua sorella Zelana, sono andato a vederli. Sono una specie di fratelli per me e per Artiglio Lungo, no?» «Suppongo di sì.» Ashad prese in mano la pietra. «È un'agata, vero?» domandò, porgendomela. Io la presi, ma quasi la lasciai cadere, quando percepii l'enorme potere che emanava. «Penso che tu abbia ragione, Ashad. Le agate nere, però, sono rarissime.» «È bella, quando l'ho vista mi è proprio piaciuta. Ho chiesto a Mamma Denti Spezzati se potevo averla e lei ha detto di prenderla. L'ho portata sempre con me, ovunque andassi, ma poi l'ho smarrita, credo. Però stamattina, quando mi sono svegliato, era nel mio letto. Strano, vero?» Risi. «Questo è l'anno delle cose astruse, Ashad», risposi. «Ogni volta che mi giro ci sono pile di cose 'astruse' che mi fissano. E come ha passato l'inverno il resto dei tuoi orsi?» «Benissimo, zio. Ci sono tanti nuovi cuccioli.» Improvvisamente sorrise, scacciando l'espressione cupa. «Gli orsetti sono talmente buffi! Combinano un sacco di marachelle che fanno arrabbiare Mamma Denti Spezzati. La settimana scorsa lei recuperava pesci dal torrente, sai, li metteva sulla sponda come fanno gli orsi, ma i tre cuccioli credevano che stesse giocando, così li ributtavano dentro. Allora lei è uscita dall'acqua, ha dato loro qualche zampata e li fatti salire su un albero e ce li ha fatti rimanere per il resto della giornata. Io ridevo, ma lei mi ha ringhiato. Non sembrava trovarlo divertente.»
«Te la caverai da solo per qualche giorno, Ashad? Ho bisogno di parlare con mio fratello e le mie sorelle.» «Starò benissimo, zio. L'altro giorno ero nel villaggio di Asmie, e Tlingar ha promesso che mi avrebbe insegnato a usare uno scaglia-lance, quel lungo bastone flessibile che usano gli umani da queste parti per spedire lontano le loro lance. Tlingar è il migliore che ci sia, vero?» «Si dà da fare perché la sua gente mangi regolarmente, questo è certo», convenni. «Non starò via molto, Ashad. Adesso è meglio che vada. Vorrei parlare con Aracia prima che i suoi sacerdoti la coinvolgano in tutte quelle sciocche cerimonie.» «Saluta Enalla da parte mia, zio.» Di nuovo! Ashad aveva usato il vero nome di Lillabeth, la Sognatrice di Aracia. Nonostante la mia attenta manipolazione, i Sognatori continuavano a mettere insieme frammenti di realtà attraverso le barriere che avevo eretto fra loro e il passato. Rabbrividii al pensiero di quanto poteva accadere se si fossero imbattuti in questioni di gran lunga più significative che i loro nomi. La luce di inizio estate era dorata quando uscii dalla mia grotta sotto il Monte Shrak. Chiamai la mia folgore e la cavalcai verso sudest, dov'era il Dominio di Aracia, la mia sorella maggiore. Il suo Dominio è molto simile a quello del nostro fratellino Veltan, con vasti campi di frumento che si estendono da un orizzonte all'altro come enormi tappeti verdi. Detesto ammetterlo, ma l'introduzione dell'agricoltura e del pane ha portato molta più stabilità ai Domini di Aracia e di Veltan, rispetto alla vita piglia-ciò-che-puoi tipica del mio Dominio e di quello di Zelana, dove le popolazioni sono dedite prevalentemente alla caccia e alla pesca. Ma nella vita ci dev'essere di più che masticare un pezzo di pane mezzo ammuffito! Sono sicuro che Aracia e Veltan mi considerano una specie di antiquato primitivo, ma io ne so più di loro. Le loro popolazioni sono poco più che armenti. Si spostano in greggi e non mi stupirei se nel loro dialetto comparisse di frequente il verso «muu». Nel mio Dominio e in quello di Zelana gli esseri umani sono fieramente indipendenti. Nessuno, nemmeno io o mia sorella, dice loro che cosa devono fare. Per il mio modo di vedere le cose, quegli agricoltori assomigliano di più agli scriteriati servitori del Vlagh che alla gente vera. Non occorre che riferiate ad Aracia o a Veltan ciò che ho appena detto.
Dov'ero rimasto? Ah, sì: sono sicuro che nel Dominio di Aracia è stata l'agricoltura, in definitiva, a condurre alla religione. Terminata la semina primaverile, un agricoltore non ha niente da fare fino all'autunno e questo gli lascia troppo tempo per elucubrare. Finché la gente si concentra su che cosa mangerà il giorno dopo o come evitare di morire di freddo il prossimo inverno, c'è una certa praticità nella sua vita. È quando si ha troppo tempo libero per porsi domande come: «Chi sono?» oppure: «Come sono arrivato qua?» che le cose cominciano a complicarsi. Di tanto in tanto ho fatto escursioni fuori della Terra di Dhrall per osservare come progrediscono gli stranieri e ho notato che quelli più intelligenti trascorrono un sacco di tempo a rimuginare su misteriosi dei. Qui nella Terra di Dhrall questo non è necessario, naturalmente, poiché è probabile che il dio di una particolare regione viva poco più in là, sulla collina o più giù lungo la strada. Aracia può interferire sul clima, se vuole, e questo ha prodotto raccolti abbondanti e le manifestazioni di gratitudine dei suoi sudditi sono state eccessive. Se uno dei miei si fosse spinto a tali estremi, gli avrei riso in faccia. Mia sorella, invece, gode nel vedere la gente prostrarsi davanti a lei. Le piace essere adorata. Io sono stato il primo della famiglia a svegliarmi durante questo ciclo, quindi sono stato io ad assumere il comando. Aracia è stata la seconda, ma nel profondo del suo cuore brama essere la prima, quindi incoraggia la sua gente a continuare in quelle smancerie e i più scaltri tra loro, intuendo questa sua necessità, rasentano l'assurdo, erigendo templi e altari e gettandosi a terra ogni volta che lei passa. Aracia pensa che sia carino da parte loro. Il suo bisogno di adorazione ha attirato gli uomini meno industriosi nel suo Dominio e nel corso degli anni la città ha assunto dimensioni notevoli, e questo ha fatto arrivare commercianti di ogni tipo. Sono certo che la città-tempio di Aracia è la cosa che, nella Terra di Dhrall, assomiglia di più a una grande città. È arrivata ad avere almeno un chilometro e mezzo di larghezza. I grandi edifici di pietra sono rivestiti di intonaco bianco e i tetti sono di tegole rosse. Le strette strade sono state lastricate. Al centro, naturalmente, c'è l'enorme tempio di Aracia con le guglie di un bianco scintillante che svettano verso il cielo. Se devo essere onesto, quel posto mi sembra un po' ridicolo. Quando la folgore mi depositò nella sala del trono, gli adulatori supernu-
triti di Aracia svennero o fuggirono terrorizzati. Io ho sorriso. Niente al mondo sembra attirare l'immediata attenzione della gente più in fretta di un fulmine. Il trono d'oro si erge su un piedistallo di marmo e drappi rossi gli fanno da sfondo. «Hai mai pensato di farmi sapere quando stai per arrivare, Dahlaine?» mi chiese mia sorella, splendidamente abbigliata, con un tono di voce gelido. «L'ho appena fatto», risposi senza tanti convenevoli. «Stai diventando sorda? Ogni volta che senti il tuono, probabilmente sono io.» Mi guardai attorno per la vasta sala e vidi un buon numero di sacerdoti dagli occhi sgranati che cercavano di nascondersi dietro le colonne di marmo. «Cerchiamo un posto privato, cara sorella. Ci sono alcune cose che dovresti sapere, e io non ho tutto questo tempo.» «Sei molto rude, Dahlaine. Lo sapevi?» «È una mia manchevolezza. Nel corso degli anni ho scoperto che essere 'garbato' è una perdita di tempo, e in questo momento ho molto da fare. Andiamo?» Da un bel po' ho scoperto che la repentinità è il modo migliore di ottenere la sua immediata attenzione. Ogni volta che le concedo un po' di tempo, lei si lascia andare ai «cerimoniali» e questo assorbe almeno mezza giornata. Aracia sembrava alquanto offesa, però si alzò dal suo trono dorato e scese dal piedistallo per condurmi fuori della decoratissima sala. «Che cosa ti agita tanto, fratello?» mi chiese mentre percorrevamo un lungo corridoio deserto. «Aspettiamo di essere soli», suggerii. «Ci sono guai nell'aria e non penso che dovremmo mettere in allarme la gente del tuo Dominio.» Mi guidò in una stanza sobria e chiuse la porta alle nostre spalle. Ci sedemmo in larghi sedili di legno ai lati opposti di un tavolo intarsiato. «Sei sicura che nessuno ci può ascoltare?» «Certo, Dahlaine! Questa stanza è uno di quei posti 'speciali'. Nessuno potrà sentirci, perché il locale in realtà non c'è.» «Come hai fatto?» Lei alzò le spalle. «Tutto quello che ci vuole è un minimo aggiustamento del tempo. Questa stanza ha due giorni in più rispetto al resto del tempio, quindi adesso stiamo parlando due giorni fa.» «Astuto», commentai in tono ammirato. «Contenta che ti piaccia. Cosa succede, che ti agita così tanto?» «Ashad ha fatto uno di quei sogni, la notte scorsa. Evidentemente il
Vlagh non ha imparato la lezione, così sta inviando i suoi servitori a sud verso il Dominio di Veltan, o lo farà quanto prima. Però il sogno di Ashad era un po' più complicato di quello che ha fatto Yaltar quando ha visto l'invasione del Dominio di Zelana, e ci sono cose che non ho capito. Mi ha parlato di due invasioni separate - ed evidentemente non collegate tra loro - e di una guerra molto complessa vicino alle Cascate di Vash. E c'è dell'altro: Ashad ha chiamato Yaltar con il suo vero nome, nello stesso modo in cui Yaltar continuava a riferirsi a Eleria come a Balacenia. Sono rimasto quasi senza fiato la prima volta che gli ho sentito dire 'Vash' quando parlava di Yaltar.» «Te lo avevo detto che far venire i nostri sostituti era un errore, Dahlaine. Se i nostri Sognatori si svegliano e tornano in sé, il mondo intero potrebbe crollare su se stesso.» «Infatti sembra che evitino alcune delle barriere che avevo eretto», ammisi, «ma è troppo tardi per rimediare. Evidentemente, il Vlagh cercherà di sopraffarci, e non abbiamo il tempo di allevare un nuovo gruppo di Sognatori. Lillabeth non ha ancora fatto qualcuno di quei sogni?» «Non che mi abbia detto. Ma ultimamente ho avuto molto da fare.» «Essere adorata e venerata richiede tutto questo tempo, Aracia?» «No, ma correre avanti e indietro all'Isola di Akalla per negoziare con Trenicia sì. L'oro non le interessa, quindi devo trovare qualche altra cosa che l'attiri.» «Chi è Trenicia?» Ero curioso. «La regina delle guerriere di Akalla.» «Le donne possono davvero diventare delle valide guerriere?» «Se sono abbastanza corpulente sì. Trenicia è robusta quasi quanto Sorgan Becco d'Uncino e probabilmente con la spada ci sa fare più di lui.» «Impressionante. Ma, se non vuole l'oro, come la pagherai?» «Con diamanti, rubini, smeraldi e zaffiri», rispose Aracia. «Sono guerriere, ma pur sempre donne, quindi adorano gli ornamenti. Per una bella collana di diamanti, una donna di Akalla ucciderà chiunque, o qualunque cosa, le sia d'intralcio.» «Se sono le donne a governare l'Isola di Akalla, gli uomini che cosa fanno?» «Sono come animali domestici. Se ho capito bene ciò che mi ha detto Trenicia, gli uomini dell'isola hanno coltivato l'indolenza come una forma d'arte. Su Akalla, tutto è fatto dalle donne.» «Anche la guerra?» Questo mi lasciava perplesso.
«Soprattutto la guerra. Gli uomini sono pigri e timidi e in genere inutili, tranne che per procreare.» Decisi di non approfondire quel particolare commento. «Mi fai venire in mente che magari potremmo portare con noi la regina Trenicia e il cavalleggero Ekial nel Dominio di Veltan e farli partecipare alla guerra. Non passerà molto, credo, prima che debbano combattere i servitori del Vlagh, e sarebbe bene che vedessero con che cosa avranno a che fare.» «Potresti avere ragione, fratello», convenne Aracia. «Da quanto ricordo, i maag e i trogiti non sono stati troppo contenti quando alla fine Zelana ha rivelato loro alcune particolarità dei nemici. Magari tu e io dovremmo cercare di essere onesti, invece di ingannarli.» «Che cosa innaturale da suggerire, Aracia!» scherzai. «Sono scioccato, davvero scioccato!» «Oh, smettila!» Poi ridemmo tutti e due. La mia folgore mi portò attraverso il margine inferiore della Terra Desolata e io sbirciai giù, verso la distesa di sabbia e roccia, nel caso vedessi i servitori del Vlagh muovere verso il Dominio del mio fratello minore, ma il deserto sotto di me era privo di qualsiasi forma di vita. Mentre entravo nel Dominio di Zelana, i vulcani gemelli all'imboccatura della gola sopra Lattash stavano ancora sputando fuoco ed ero certo che l'eruzione sarebbe continuata per anni. Più ci pensavo, più mi sembrava che forse avrei dovuto porre dei limiti alle capacità dei Sognatori. Erano bambini dopotutto, e a volte i bambini si fanno trasportare da un entusiasmo eccessivo. L'unico problema era il come. Nonostante la loro immaturità, avevano un potere praticamente illimitato sulle forze della natura e credo che avrebbero superato qualsiasi barriera che avessi provato a porre. Mandai un pensiero di ricognizione e percepii la presenza di Zelana a meno di un chilometro lungo il lato settentrionale della baia. Indirizzai la mia folgore da quella parte. Mia sorella stava parlando con Barba Rossa e Arcolungo in quello che pareva un villaggio nelle fasi finali di costruzione a qualche distanza dalla baia. Le colline tondeggianti dietro quel nuovo villaggio avevano dolci declivi, ben diversi dalle ripide vette a est di Lattash, una distesa boschiva appena più a nord e un prato che si estendeva per chilometri e chilometri oltre quei boschi. «Devi proprio farlo, Dahlaine?» chiese Zelana con irritazione quando mi
unii improvvisamente a loro. «Non puoi attutire quel rumore tremendo?» «Non penso, Zelana. Il fulmine è il modo più veloce di viaggiare, ma bisogna tollerare il rumore. Ashad ha sognato e sembra che la nostra supposizione abbia colto nel segno: le creature della Terra Desolata attaccheranno il Dominio di Veltan.» «Il sogno ti ha fornito dettagli su dove incontreremo i servitori del Vlagh?» chiese Arcolungo, l'arciere. «Da qualche parte vicino alle Cascate di Vash», risposi. Guardai Zelana con curiosità. «Suppongo che tu abbia cambiato idea, decidendo di aiutare il resto di noi a difendere i nostri Domini.» «La Terra di Dhrall è una sola cosa, fratello mio. Se il Vlagh vince in una parte qualsiasi di essa, saremo tutti in pericolo.» Esitai. «Ti senti meglio adesso, cara sorella? Eravamo tutti molto preoccupati quando hai deciso all'improvviso di tornare a casa nella tua grotta.» «No, Dahlaine», rispose acida. «Non mi sento meglio, ma Eleria mi ha tormentato perché ritornassi nel mondo del caos.» «Tormentato? È solo una bambina. Come potrebbe tormentare te?» «Mi ha detto che, se non avevo voglia di aiutare Veltan, avrebbe preso il mio posto e lo avrebbe fatto lei. Quando si toglie di dosso quella maschera di dolcezza che indossa in continuazione, può essere molto crudele. Non mi ha lasciato scelta. Penso che quella sua perla abbia qualcosa a che fare con questo.» «È possibile, sì», concordai. «Quelle pietre preziose sembrano profondamente legate ai sogni dei bambini. Anche Ashad ne ha una e penso abbia a che fare con il suo sogno.» «Che tipo di pietra è?» volle sapere Zelana. «Un'agata nera. È davvero molto bella e Ashad vi è affezionato.» Mi guardai attorno. «Dov'è Eleria adesso?» domandai a bassa voce. «Lei e Yaltar sono in quel prato appena oltre gli alberi», mi ha detto Barba Rossa. «Li tiene d'occhio Seminatrice.» «Chi è?» «È quella che insegna alle donne della tribù a coltivare il cibo», spiegò Barba Rossa, «è a lei che si rivolgono quando hanno dei problemi. A volte può essere rude, ma sa ciò che fa.» «Mi stai nascondendo qualcosa, vero?» mi stuzzicò Zelana. «Ci stavo arrivando, cara sorella. Il sogno di Ashad era molto specifico riguardo l'invasione del Dominio di Veltan da parte delle creature del Vlagh, ma si riferiva anche a una seconda invasione che non verrà dalla
Terra Desolata. Verrà dal mare.» «È ridicolo!» sbottò Zelana. «Adesso il Vlagh si è alleato con la regina dei pesci?» «Sto solo riferendo ciò che mi ha detto Ashad. Dov'è Veltan? Faremo meglio a dirgli che cosa bolle in pentola.» «È fuori nella baia, sulla nave del comandante Narasan», rispose Barba Rossa. «Arcolungo ti può portare con la sua canoa, se vuoi. Lo farei io stesso, ma al momento sono molto occupato.» «Ci sono guai?» «Una specie. Le montagne di fuoco hanno distrutto Lattasti, così la tribù è indaffarata a erigere un nuovo villaggio, laggiù. Non sarà altrettanto bello, ma è più sicuro.» Guardai le casette parzialmente completate vicino alla spiaggia. «Non assomigliano affatto a quelle che c'erano a Lattash», osservai, «ma hanno qualcosa di familiare.» «Per forza!» commentò Arcolungo. «Sono uguali alle abitazioni che avete nel Nord del tuo Dominio.» «Fanno parte di un piano elaborato», mi spiegò Zelana sorridendo. «Gli uomini della tribù di Barba Rossa sono convinti che coltivare sia un lavoro da donna che li sminuirebbe. Le donne avevano bisogno di aiuto per preparare il terreno in vista delle semine e il capo di Arcolungo, Orso Vecchio, ha detto che alcune tribù nel tuo Dominio vivono in una vasta prateria dove non ci sono alberi e che costruiscono i loro alloggi con le zolle. Gli uomini del capo Barba Rossa hanno costruito le solite casette con i rami degli alberi e poi si sono seduti a oziare e a raccontare storie di guerra. Ma una notte di vento questi due hanno tirato giù di soppiatto le nuove costruzioni. Quando è sorto il sole, sono andati in giro con la faccia scura a dire agli uomini della, tribù che i rami non sono abbastanza solidi per le case, in quella posizione, e che ci voleva qualcosa di più robusto.. Hanno suggerito le zolle, e così gli uomini sono là dietro in quel prato a tagliare zolle a tutto spiano. Le donne gli vanno dietro e seminano. La tribù di Barba Rossa avrà delle case belle solide e tanto da mangiare, quando arriverà l'inverno, così nessuno si è offeso.» «Una mossa astuta», commentai ammirato. Poi aggrottai la fronte. «È successo qualcosa al Capo Treccia Bianca?» «La distruzione di Lattash era più di quanto potesse sopportare», rispose Barba Rossa. «Sapeva che dovevamo trovare un nuovo posto per vivere, ma non se la sentiva più di prendere decisioni. Quindi ha affidato quel
compito a me. Io non volevo, ma non mi ha dato scelta.» «Probabilmente agirai per il meglio, capo Barba Rossa», lo rassicurai. «Ho notato che gli uomini che non desiderano l'autorità e le responsabilità sono in realtà dei capi migliori rispetto a quelli che bramano tale posizione. Andiamo a parlare con il nostro fratellino, Zelana. Ci sono cose che deve sapere, e non so quanto tempo ci è rimasto.» Arcolungo ci condusse alla canoa tirata in secco sulla sabbia. Nell'arciere di Zelana c'è qualcosa che incute timore. È un uomo dal viso arcigno che ha iniziato a combattere le creature della Terra Desolata quand'era poco più di un bambino e uccidere i servitori del Vlagh è divenuto l'unico scopo della sua vita. Ha pochi amici e ha un livello di autocontrollo quasi disumano. Guardandolo pensai che ci faceva comodo averlo attorno. Se tutto fosse andato bene, avremmo ricacciato indietro i servitori del Vlagh ogni volta che avessero tentato di invadere i nostri singoli Domini, ma il Vlagh probabilmente ci sarebbe sempre stato. Arcolungo poteva essere la risposta a quel problema. Una sola delle sue frecce dalla punta intinta nel veleno avrebbe spedito le creature della Terra Desolata lungo la via dell'estinzione e questo, naturalmente, era il nostro scopo ultimo. L'arciere mise in acqua la canoa e la tenne ferma mentre io e Zelana salivamo a bordo poi, con un unico movimento, la spinse e vi saltò dentro, mettendosi a poppa. «Penso che i nostri fratelli bambini siano a bordo della nave di Narasan», gli disse Zelana. «È probabile», rispose. Pagaiò attraverso la baia fino all'imponente nave del comandante Narasan, dove il giovane soldato chiamato Keselo stava al parapetto. «Qualcosa non va?» domandò mentre Arcolungo accostava con perizia la canoa alla fiancata. «No», rispose Zelana. «Siamo solo venuti a dire ai nostri fratelli bambini che è tempo di mettersi al lavoro.» «Eleria ha sognato di nuovo?» «No, giovanotto», risposi io. «È stato Ashad, questa volta, e ha visto cose strane. Noi speriamo che Veltan possa spiegarcele.» Feci una breve pausa. «Adesso che ci penso, però, tu probabilmente puoi spiegarcele ancora meglio di Veltan. Perché non vieni con noi?» «Ma certo. Vostro fratello è a poppa, nella cabina del comandante Narasan.»
«C'è Narasan con lui?» s'informò Zelana. «No, Madonna Zelana. Il comandate è sul Gabbiano a conferire con il capitano Sorgan.» «Bene», commentai. «Non credo che Narasan sarà tanto felice nel sentire alcuni dettagli emersi dal sogno di Ashad. Il tuo comandante è particolarmente religioso?» «Non in modo significativo», rispose Reselo. «Potrebbe essere una cosa importante?» «Ci arriveremo tra pochi minuti. Andiamo a parlare con Veltan.» Il giovane ci condusse verso la struttura molto decorata che si ergeva a poppa e bussò alla porta. Quando Veltan rispose di entrare, aprì e si tirò da parte per farci passare. Non mi aspettavo un ambiente così elegante. Sembrava la stanza di una casa, tranne per le travi particolarmente spesse che reggevano il soffitto, necessarie perché il tetto della cabina fungeva da ponte per i marinai. C'era anche un'ampia finestra da cui guardare fuori. Veltan era seduto a un largo tavolo a esaminare una cartina. «C'è qualcosa che non va?» «No. Non ancora, almeno», risposi. «La notte scorsa il mio piccolo bambino, Ashad, ha fatto uno di quei sogni. Avevamo ragione: i servitori del Vlagh punteranno ben presto verso il tuo Dominio.» «Ha detto esattamente quando?» «Il quando non compare mai in questi sogni», gli rammentai. «Ormai dovresti saperlo. Adesso veniamo alla parte complicata: Ashad mi ha detto di aver visto una seconda invasione, e quei particolari invasori non avevano niente a che fare con il Vlagh.» «Allora chi erano?» «Ho dedotto che erano trogiti e volevano parlare al tuo popolo dei loro dei. Quanto sei riuscito a sapere su uno chiamato Amar?» «Non tanto, fratello», rispose Veltan. «Narasan nutre solo disprezzo per il clero della fede amarita.» «Non è il solo», intervenne Keselo. «Chiunque nell'Impero Trogita abbia un minimo di decenza e di intelligenza disprezza la chiesa amarita. Il clero è corrotto, avido più di quanto si possa credere e del tutto senza onore. Tutti sanno che la 'chiesa' è un'invenzione dei sacerdoti che intendono sottrarre con l'imbroglio alla gente comune tutto ciò che possiede.» «Questo mi suona familiare», osservò Zelana. «La nostra cara sorella ha una classe sacerdotale che si comporta allo stesso modo.»
Mi strinsi nelle spalle. «Questo la rende felice, suppongo.» Guardai Veltan. «Dov'è il resto dell'esercito di Narasan? Se ho capito bene, gli uomini che ha portato a Lattash erano solo un'avanguardia.» «Il grosso del suo esercito è ancora nel porto di Castano, sulla costa settentrionale dell'impero. Perché me lo chiedi?» «La seconda invasione vista in sogno da Ashad doveva coinvolgere i trogiti, dato che questo 'Amar' è un'invenzione trogita.» «Vero, suppongo», concesse Veltan. «Dove vuoi andare a parare?» Rivolsi un'occhiata interrogativa a Reselo. «Suppongo che buona parte degli uomini nell'esercito di Narasan condivida i tuoi sentimenti verso questa cosiddetta religione. Ma è possibile che alcuni di loro la pensino in modo diverso e tengano per sé la loro convinzione?» «Non dopo ciò che è accaduto l'anno scorso nella parte meridionale dell'impero. Abbiamo perduto dodici coorti come risultato diretto di un tradimento che, è stato appurato, partiva da un sacerdote con una posizione elevata nella chiesa amarita. È per questo che il comandante Narasan ha gettato via la spada e si è messo a fare il mendicante. Se qualcuno nell'esercito sostenesse che la chiesa amarita ha qualcosa che assomiglia remotamente alla decenza, i suoi compagni gli darebbero tanti calci da ammazzarlo.» «Non accantoniamo del tutto questa possibilità, Reselo», disse Veltan con espressione crucciata. «Da quanto ho sentito, la parola 'oro' sembra scatenare la frenesia nella chiesa amarita e, se ricordo bene, nell'accampamento dell'esercito a Kaldacin si parlava parecchio di oro. Solo per amore di discussione, diciamo che alcuni soldati del tuo esercito sono capitati in una taverna a Castano e che la parola 'oro' è saltata fuori casualmente e qualcuno affiliato alla chiesa amarita ha udito la conversazione. Questo potrebbe spiegare la seconda invasione vista in sogno da Ashad?» «Non mi torna.» Keselo scosse la testa. «La chiesa amarita potrebbe voler venire qui nella Terra di Dhrall a raccogliere oro e schiavi, ma dovrebbe sapere esattamente come passare attraverso tutto quel ghiaccio galleggiante, e le uniche cartine sono in mano a Gunda e Padan.» «È vero, suppongo», convenne Veltan, «ma Narasan mi ha detto che potrebbe mettere in campo centomila soldati. Basterebbe un solo opportunista per mandare all'aria qualsiasi possibilità di segretezza. Io ritengo che sia questa la risposta sulle origini della seconda invasione.» «La spiegherebbe, sì», concordai. Poi guardai di nuovo Keselo. «Che cosa sono esattamente gli 'schiavi'?» gli domandai. «Non credo di aver mai udito prima questa parola.»
«Allora sei stato molto fortunato. Nei primi tempi dell'impero era usanza comune per gli eserciti imperiali catturare esseri umani di culture più primitive e venderli ai proprietari terrieri dello stesso impero, quasi come fossero bestiame. Poi i proprietari terrieri assumevano degli uomini che frustavano quei disgraziati per costringerli a lavorare nei campi. Questa pratica è caduta in disuso circa un secolo fa, ma da qualche decennio la chiesa si è resa conto che le sfuggiva una meravigliosa opportunità di fare soldi, quindi gli schiavisti si sono rimessi all'opera e almeno metà di loro appartiene al clero.» Veltan divenne mortalmente pallido. «Se quei mostri fanno tanto di avvicinarsi alle coste del mio Dominio, li distruggerò!» «No, Veltan», ribattei con fermezza, «non lo farai. Uccidere qualsiasi cosa ci è assolutamente proibito, e lo sai. Se provassi a farlo, saresti bandito per sempre, e questa volta non sulla luna. Passeresti il resto dell'eternità in un luogo di oscurità assoluta, dove gli unici suoni che udresti sarebbero le tue grida di infinita disperazione. Sono certo che sapremo trovare delle alternative adatte, ma se tu solo provi a uccidere qualcosa, ti legherò in un nodo così stretto che ti ci vorranno almeno quattro cicli solo per districare le dita delle mani da quelle dei piedi.» «Allora è per questo che correte di qua e di là a ingaggiare eserciti!» esclamò Keselo. «Non capivo perché mai non facevate scomparire i nemici con un semplice gesto della mano. È perché non vi è permesso uccidere niente, è così?» «Voglio che tu dimentichi quanto hai appena udito, giovanotto», gli dissi con fermezza. «Mi capisci?» «Be', sì, credo di sì.» «Bene.» Spostai lo sguardo su mio fratello. «Farai meglio a dire a Narasan di cominciare a spostare la sua flotta. Qui nel Dominio di Zelana abbiamo concluso, ed è tempo di muoverci. Il sogno di Ashad non è stato molto specifico riguardo al tempo. Sembra essere una caratteristica ricorrente. I nostri Sognatori ci possono fornire ogni dettaglio su ciò che accadrà, ma il 'quando' rimane sempre nel vago.» «Ashad ha menzionato dove avrà luogo la battaglia principale?» volle sapere Veltan. «Ha detto che sarà nei paraggi delle Cascate di Vash. Non è stato più preciso e io non ho voluto forzarlo.» Veltan trasalì. «Lassù è tutto terreno accidentato. Non credo che ai trogiti piacerà l'idea di combattere in un posto simile.»
«Non può essere tanto peggio della gola sopra Lattasti, no?» intervenne Zelana. «Sorella mia, farà sembrare quella gola un dolce prato», rispose Veltan, cupo. «Non c'era nemmeno, alla fine del mio ultimo ciclo. Quando mi sono svegliato, gli umani del mio Dominio parevano molto eccitati al riguardo. Non so di preciso come mai Vash abbia creato le cascate, ma sono spettacolari a vedersi. Guardare è una cosa, però arrampicarsi lassù è tutta un'altra questione. Non mi sorprenderei se i vulcani gemelli di Yaltar fossero un risultato di ciò che ha fatto quando il suo nome era Vash. Il fiume che si precipita nelle cascate ha origine da un geyser che sale in aria per una trentina di metri e puzza di terremoti ed eruzioni. C'è una faglia a sud del geyser, circa un chilometro e mezzo a valle, che ha lasciato uno strapiombo di una sessantina di metri. Con tutta l'acqua che si riversa oltre il ciglio, è impossibile arrampicarsi per quel dirupo: chiunque voglia arrivare lassù deve prendere una strada diversa.» Veltan si interruppe e all'improvviso schioccò le dita. «Avrei dovuto sapere che stava per succedere!» esclamò. «La scorsa primavera, Omago mi ha detto che alcuni forestieri si erano messi a fare domande sulle Cascate di Vash. All'epoca avevo la mente impegnata in altre faccende e non ho indagato. Evidentemente, il Vlagh sta mandando da parecchio tempo i suoi esploratori nei nostri domini.» «Chi è Omago?» domandò Zelana. «Un tizio molto solido e affidabile, che ha un frutteto vicino a casa mia. Ne sa di agricoltura più di chiunque altro ed è un ottimo ascoltatore. Gli altri agricoltori vanno da lui per avere consigli e gli raccontano tutti i fatti insoliti che succedono. E lui me le riferisce.» «Potresti avvertire questo Omago», suggerii a mio fratello. «Fagli sapere che cosa c'è nell'aria e digli di spargere la voce. La tua gente dovrebbe sapere che stanno arrivando le creature della Terra Desolata e cominciare a prepararsi per una guerra.» «È assurdo, Dahlaine», sbottò Veltan. «La mia gente non sa nemmeno il significato della parola 'guerra'. Ecco perché ho dovuto assoldare un esercito trogita. Omago potrà darsi da fare perché i soldati ingaggiati abbiano abbastanza da mangiare, ma questo sarà probabilmente il suo unico contributo alle operazioni militari.» Gli sfuggì un mezzo sorriso. «Naturalmente, se cucinerà Ara potremo avere delle difficoltà a persuadere gli stranieri a tornarsene a casa dopo che la guerra sarà finita.» «Chi è Ara?» domandò Zelana.
«La moglie di Omago. È una bella donna e quasi sicuramente la cuoca migliore del mondo. Gli odori che escono dalla sua cucina tentano perfino me, a volte.» «Ah, Veltan», intervenni, «Aracia e io vorremmo portare nel tuo Dominio i comandanti degli eserciti che abbiamo ingaggiato, perché si facciano un'idea. Sono certo che ben presto si troveranno davanti i servitori del Vlagh e non sarebbe una cattiva idea se vedessero che cosa dovranno affrontare.» «Nessun problema, fratello», accettò Veltan con un ghigno impudente. «Andrò a dire a Narasan e a Sorgan che è tempo di andare a sud, e poi mi farò riportare a casa dalla mia beniamina, in modo da scambiare quattro chiacchiere con Omago. Per ora, è il massimo che possiamo fare. A questo punto tutto è un po' incerto, quindi dovremo adattare i nostri piani strada facendo.» «Che cosa c'è di nuovo in questo?» borbottai con amarezza. «Guardando indietro, direi che lo facciamo dall'inizio.» «Di questa guerra, intendi?» suggerì Zelana. «Non solo questo, sorella. Stiamo adattando i nostri piani strada facendo dall'inizio del tempo, non è così?» «Be', rende la vita molto più interessante, fratello», ribatté lei con un sorrisetto birichino. «Sembra sempre tutto così noioso, se sai esattamente che cosa accadrà, vero?» Preferii non rispondere a quella domanda. Il Sud 1 Omago, il cui padre possedeva i campi e il frutteto che si estendevano appena a nord dell'enorme casa di Veltan, aveva sempre considerato quest'ultimo più come un vicino che come un sovrano, o un dio. Veltan non si dava arie per la sua divinità, e così lui si era sempre sentito a proprio agio in sua presenza. Da bambino, Omago aveva sempre preferito lavorare nel frutteto del padre piuttosto che nei campi aperti, perché era più ombroso e in primavera la bellezza degli alberi in fiore quasi gli toglieva il respiro. Presto scoprì di non essere il solo ad apprezzarla. Quando gli alberi fiorivano, Veltan viveva praticamente nel frutteto, così i due si conobbero
meglio e passarono parecchie ore a parlare. Le loro discussioni erano ad ampio raggio e, quasi senza accorgersene, Omago riceveva un'educazione che andava oltre le noiose attività di arare, piantare e raccogliere. Il Dominio di Veltan, lì nel meridione della Terra di Dhrall, per esempio, era solo una parte dell'intero continente. Ce n'erano altre tre, possedute dal fratello e dalle due sorelle. Le descrizioni che Veltan gli faceva dei suoi familiari erano così divertenti che Omago scoppiava spesso a ridere. Ma quello che gli raccontava dei popoli che vivevano a ovest e a nord, però, lo lasciava perplesso. Lui non riusciva a immaginare una vita trascorsa a cacciare. Aveva provato qualche volta a pescare, con scarso successo, e riteneva che affidarsi alla caccia e alla pesca, per vivere, fosse un modo troppo legato alla sorte se si voleva mangiare regolarmente. Nel sentir parlare delle folte foreste primordiali, dei nobili cervi dalle ampie corna e dei cacciatori vestiti di pelle, il giovane Omago si sentiva comunque attratto verso qualcosa di sconosciuto. L'avventura non era di casa lì nelle terre agricole del Sud, dove il desiderio principale degli abitanti era la stabilità. La stabilità andava bene per coltivare, ma non era eccitante. Veltan non entrava nei dettagli per quanto riguardava le proprie caratteristiche, ma Omago ne aveva già sentito parlare. Inoltre, non lo aveva mai visto assaggiare del cibo o chiudere gli occhi. La questione degli dei sostituti saltò fuori poco dopo il nono compleanno di Omago. Erano seduti nel frutteto e una forte brezza faceva nevicare su di loro una tempesta di petali dai meli. «Non devi rispondere, se preferisci», esordì Omago, un po' esitante, «ma il vecchio Enkar mi ha detto che non sei stato sempre tu il dio di questo Dominio. Che qualcun altro si prendeva cura delle cose qui attorno. È proprio vero, oppure voleva prendersi gioco di me?» Veltan alzò le spalle. «È molto vicino a ciò che è accaduto davvero», rispose. «Può sembrare che non dormiamo mai, ma non è del tutto vero. Abbiamo dei cicli di sonno e di veglia, e dopo che siamo rimasti svegli a lungo cominciamo a sentirci vagamente intontiti. Non ricordiamo più le cose e ci comportiamo in modo un po' strano. È un segnale che per noi è il momento di dormire, ed è allora che si sveglia l'altro ramo della famiglia. E a quel punto loro si fanno carico delle incombenze mentre noi dormiamo.» «Immagino che abbia senso... insomma, sì», ammise Omago. «Quanto conoscete bene quei vostri cugini?» «Cugini?»
«I cugini sono i figli nati ai fratelli e alle sorelle dei tuoi genitori», spiegò Omago. «Non intendevi questo quando hai parlato di 'ramo della famiglia'?» «Potrebbe andar bene, adesso che lo dici. Me lo dovrò ricordare.» «Hai mai avuto l'occasione di parlare con loro?» «Io non parlo nel sonno. In realtà, l'unica cosa che so di mio cugino è il nome, e questo solo perché tra i monti c'è una cascata che si chiama come lui. Hai sentito parlare delle Cascate di Vash, vero?» «Sì, però non le ho mai viste.» Veltan guardò intensamente il suo giovane amico. «Penso che magari non dovrei dirti altro per ora. Dopo che sarà passato un po' di tempo e ti sarai abituato a ciò che ti ho detto oggi, potrai farmi altre domande, se lo desideri.» «Ci vorrà un po'», ammise Omago. «Forse dovrei andarci un po' più piano con queste domande. Le risposte fanno un po' paura.» «Con il tempo ti ci abituerai, ragazzino. La curiosità è positiva, davvero, ma devi andarci cauto quando la lasci a briglia sciolta.» «L'ho notato», concordò Omago. «Ho notato che lo hai notato», disse Veltan, senza l'accenno di un sorriso. *** Mentre Omago raggiungeva la maturità, gli altri agricoltori si accorsero della sua familiarità con Veltan e pensarono che poteva tornare utile. Era molto più facile fare visita a Omago e parlare con lui, piuttosto che andare alla casa in cima alla collina per conferire con Veltan. Era vero che non sbandierava la propria divinità, comunque... Con il tempo, divenne una specie di tradizione. Quasi ogni giorno, due o tre agricoltori avvicinavano Omago e gli dicevano quello che secondo loro Veltan doveva sapere e quando si faceva sera lui arrivava alla casa sulla collina e le riferiva al dio. In realtà, lo considerava più un amico che una divinità e finì con l'apprezzare quelle conversazioni quotidiane. Era un modo simpatico di concludere la giornata e aveva preso l'abitudine di passare a casa di Veltan tutte le sere, anche quando non aveva nulla da riferirgli. Omago aveva sentito dire che più a sud c'erano città e villaggi, ma pensava che pigiare tanta gente assieme in un posto solo fosse un po' ridicolo.
Nella sua regione le case dal tetto di paglia erano lontane fra loro, ognuna era più o meno al centro dell'appezzamento di terra dell'agricoltore a cui apparteneva. Questo gli sembrava più pratico. Le ore di luce era meglio dedicarle a lavorare, non a camminare. Arrivato al suo ventunesimo compleanno, Omago conosceva ormai benissimo tutti gli agricoltori della zona e, quando condivideva con Veltan le proprie opinioni, lo metteva al corrente di tutto ciò che loro gli avevano detto. «Come sta tuo padre, ultimamente?» gli chiese Veltan una sera. Questo lo sconcertò. Per quanto cercasse di non rivelargli alcuni particolari, il suo amico vedeva sempre dentro di lui. «Non sta affatto meglio», rispose con tristezza. «A volte non ricorda nemmeno il suo nome. E continua a chiedere di mamma. Non ricorda che è morta l'anno scorso.» «Mi spiace, Omago», gli disse Veltan con grande sincerità. «Vorrei poter fare qualcosa per aiutarlo.» «Non credo che dovresti. Penso che mio padre sia molto stanco e, se lo teniamo qui, questo lo renderà ancora più triste. Perché non lasciarlo semplicemente andare? Credo sia quanto di più gentile possiamo fare per lui.» La primavera seguente, Omago era nel suo frutteto quando udì una vibrante voce femminile alle sue spalle: «Perché lo fai?» Preso alla sprovvista, si girò di scatto. «Mi spiace», si scusò la donna, «non intendevo spaventarti. Perché raccogli tutte quelle meline verdi?» Era piuttosto alta, aveva lunghi capelli color rame, morbidi occhi verdi e indossava un vestito di lino azzurro. Omago sorrise. «In primavera i meli tendono sempre a esagerare», spiegò. «Vogliono una gran quantità di frutti. Se non dirado le mele bambine in primavera, quando matureranno non ce ne sarà una più grossa di una ghianda. Ho provato a spiegarlo ai miei alberi, ma loro non ascoltano. È tremendamente difficile ottenere l'attenzione di un albero, specialmente in primavera.» «Sei Omago, vero?» «Così mi chiamano.» «Sei parecchio più giovane di quanto pensavo. Sei lo stesso Omago a cui la gente si rivolge quando vuol fare sapere qualcosa a Veltan?» Lui annuì. «Devo portargli un messaggio da parte tua?» «Non adesso, no. Volevo solo essere sicura di riconoscerti nel caso avessi bisogno di fargli sapere qualcosa.»
«Tu non vivi da queste parti, vero?» Lei scosse la testa. «No. Vivo abbastanza lontano. Mi è molto spiaciuto sentire che tuo padre è morto di recente.» Omago si strinse nelle spalle. «In realtà non è stata una sorpresa. Erano parecchi anni che non godeva di buona salute.» «Tu hai da fare, e io ti sto tra i piedi. È stato un piacere conoscerti.» Si voltò per andarsene. «Come ti chiami?» le chiese lui. «Ara», rispose la fanciulla, senza girarsi. Per qualche motivo, Omago non riusciva a scacciare di mente quella strana ragazza. Si rese conto che non sapeva molto su di lei. Non gli aveva nemmeno detto il proprio nome finché lui non si era deciso a chiederglielo. Era evidente che aveva diversi anni meno di lui, ma il suo modo di parlare non era certo quello di un'adolescente. Aveva mostrato di sapere parecchie cose che lo riguardavano, ma in cambio non gli aveva detto gran che. Cercò di non pensare a lei, ma continuava a ricordare la loro breve conversazione, e non solo quella. Era di gran lunga la ragazza più graziosa che avesse mai incontrato. I lunghi capelli ramati gli rammentavano l'autunno e la sua voce vibrante continuava a cantargli nelle orecchie. Sentì un bisogno quasi disperato di scoprire qualcosa di più sul suo conto. Era primavera e aveva molto da fare, ma non riusciva a concentrarsi sul lavoro. «Non riesco a pensare a nient'altro», confessò a Veltan qualche giorno dopo. Il dio sorrise. «È ancora nei paraggi?» «Così mi riferiscono. Io non l'ho vista, ma parecchi altri agricoltori sì. Dicono tutti che sta facendo molte domande, quasi tutte su di me. Non pensi che farà dietrofront e se ne tornerà a casa sua, vero? Non mi ha nemmeno detto il nome del villaggio dove vive. Come diavolo farò a ritrovarla?» «Io non mi preoccuperei troppo per questo, Omago. Non ha intenzione di andare da nessuna parte.» «E tu come lo sai?» Veltan sorrise abbondantemente, ma non rispose. «Penso sia ora di fare qualcosa al riguardo, Omago», disse con fermezza
quella voce vibrante. Lui lasciò cadere la zappa e si girò di scatto. «Dove sei stata, Ara?» le chiese. «Ti ho cercato dappertutto.» «Sì, lo so. Nessuno dei due riuscirà a fare niente finché non sistemeremo questa faccenda. Mi chiamo Ara, ho sedici anni e ti voglio.» Omago quasi soffocò. «Sono tutti così schietti nel tuo villaggio?» le chiese, quando riuscì a respirare di nuovo. «Probabilmente no, ma io detesto perdere tempo. Ti interessa?» «Non riesco a pensare a nient'altro», confessò lui. «Bene. C'è qualche procedura che dobbiamo intraprendere prima che venga a vivere con te?» «Non ne sono sicuro. Non ho mai avuto curiosità per questo tipo di cose, finora.» «Questo è bene», commentò lei con un sorrisetto malizioso. «Andiamo a parlare con Veltan. Se ci sono cerimoniali da seguire, togliamoci il pensiero. Ho bisogno di un po' di tempo per prepararti la cena.» E così fu che quella primavera sì sposarono e la vita di Omago non fu più la stessa. In realtà non scoprì molto su Ara, ma questo divenne sempre meno importante, con il passare delle stagioni. I meravigliosi profumi che uscivano dalla cucina sembravano addormentare la sua curiosità, ma decisamente gli risvegliavano l'appetito. 2 Una ventosa sera di primavera, una decina d'anni dopo che Omago si era unito ad Ara, Veltan venne alla sua porta. Sembrava in preda al panico. «Ho bisogno d'aiuto», esclamò in tono disperato. «Qual è il problema?» volle sapere Omago. «Questo», rispose il dio, tendendo un fagotto di pelliccia. «È venuto mio fratello maggiore e me lo ha rifilato, e io non ho la minima idea di cosa farci.» Sollevò un angolo della pelliccia per mostrare un neonato. «Penso che gli serva del cibo ma io non so nulla di queste faccende.» Ara prese il bimbo con un gesto sicuro e se lo strinse al petto. «Ci penserò io, Veltan.» «Non sembra avere i denti. Come farà a mangiare senza denti?» «Ci penserò io», ripeté Ara. «Ci sono parecchie donne, qua attorno, che stanno allattando. Sono certa di poter convincere una di loro a nutrire il tuo piccolo.»
«Allattare?» chiese Veltan, curioso. «Che cos'è allattare?» «Oh, povera me!» esclamò Ara, sollevando gli occhi al cielo. «Tornatene a casa, Veltan. Baderò io a tutto.» «Sono sempre così piccoli?» insisté ancora Veltan. «Non penso di averne mai visto uno in questa fase.» «Va' a casa, caro Veltan. Andrà tutto bene.» «Mi sento un tale idiota», confessò il dio. «Mio fratello ha bussato alla porta, mi ha detto che questo bambino sarebbe stato uno dei Sognatori e se n'è andato senza aggiungere altro. Non ho mai prestato particolare attenzione ai neonati, quindi non so niente al riguardo. Gli spunteranno dei denti fra non molto, vero?» «Starà benissimo, Veltan. Va' a casa... subito.» Ara indicò la porta con atteggiamento imperioso. Omago dormì poco nel mese successivo. I neonati tendono a essere molto rumorosi, scoprì, e si trovava sempre Veltan tra i piedi ogni volta che si girava. Pensò che era tempo di aggiungere una stanza alla sua casetta, o magari due o tre, così cominciò a mischiare argilla e paglia per produrre i mattoni cotti al sole tipici di quella regione. Si rese conto di dover anche allargare il tetto, ma non sarebbe stato un problema. Al tempo della mietitura avrebbe avuto paglia in abbondanza. Veltan si consultò con Ara e tra loro decisero che Yaltar poteva essere un nome adatto al giovane Sognatore. Omago non sapeva esattamente da dove venisse il termine «Sognatore», ma aveva troppe altre cose in mente per mettersi seduto a rimuginarci sopra. Ancora prima di aver compiuto un anno, Yaltar cominciò a trotterellare per la casa di Omago, però ancora non parlava. Ara impiegò del tempo a spiegare ciò a Veltan. «Imparare a parlare è probabilmente l'atto più importante che un bambino fa nei suoi primi anni», gli spiegò. «Pensavo fosse una capacità che c'è fin dall'inizio», protestò Veltan. «Stai dicendo che ogni bambino del mondo deve imparare a parlare?» «Non ho mai sentito di qualcuno che è nato parlando», ribatté Ara. «Gli uccelli sembrano sapere come si cinguetta anche senza aiuto.» «Il linguaggio delle persone è un po' più complesso, caro Veltan», gli rammentò Ara. «Non credo che la gente sia in grado di spiegare tanto con i cinguettii, non trovi?» «Be'...» Veltan sembrava avere molti problemi con il suo bambinello. «Non so come mai Dahlaine me lo ha dato prima che iniziasse a funziona-
re.» «Considerala un'esperienza di apprendimento. Capirai meglio le persone, dopo aver allevato Yaltar fin dalla prima infanzia.» Ara sorrise maliziosa. «Non sarà divertente?» «Per ora non mi sto divertendo affatto.» «Probabilmente succederà in seguito, caro Veltan. Però non starò con il fiato sospeso.» Quando Yaltar aveva circa tre anni, Veltan cominciò a portarlo per qualche ora al giorno nella propria casa di pietra sulla collina, ma continuava a dipendere da Ara che teneva pulito il bambino e gli preparava i pasti. «È proprio necessario che mangi così spesso?» chiese una sera alla moglie di Omago. «Tu mangi la luce, vero?» gli domandò a sua volta Ara. «Be', non direi esattamente che la 'mangio'», replicò Veltan. «Va bene, diciamo che la 'assorbi'. Il sole sta lassù nel cielo per buona parte della giornata, così tu ti nutri di luce molto più a lungo di quanto Yaltar impiega per mangiare, non trovi?» «Suppongo di non aver considerato la questione in questo modo.» Ara diede un'occhiata al bambino, concentratissimo sulla propria cena. «Non ha ancora fatto dei sogni?» domandò sottovoce. «No, finora non me ne ha parlato», rispose Veltan, poi scoccò alla donna uno sguardo sconcertato. «Come fai a saperlo?» «Circolano vecchie storie, caro Veltan, e agli anziani piace raccontarle. Quelli del mio villaggio andavano avanti per ore a parlare dei Sognatori. Se le loro storie si avvicinano anche solo in parte a ciò che accade veramente, Yaltar tra un po' dovrebbe cominciare a sognare, e quello sarà un indizio sicuro che c'è qualche guaio nell'aria. Magari dovresti parlarne con il tuo fratello maggiore. Quando Yaltar comincerà a fare quei sogni particolari, non credo che dovresti agitarti troppo. Non allarmarlo. Se lo spaventi, potrebbe avere difficoltà ad addormentarsi e, se non dorme, non sogna. Non vorrai che vada a finire così, no?» «Nemmeno un po'. Sei molto esperta in questo tipo di cose, eh?» «È un dono», rispose Ara, poi rise e Omago non ne capì il motivo. A mano a mano che le stagioni passavano, Yaltar trascorreva sempre più tempo con Veltan nella casa sulla collina e Ara cominciò a portargli lì i pasti.
«Ti manca, vero Ara?» le chiese Omago. «Un po'. Però è così che deve essere, quindi non interferisco. Che cosa vuoi per cena stasera?» «Qualsiasi cosa tu abbia voglia di cucinare, cara. Sorprendimi.» Le rivolse un sorrisone. «Molto divertente», replicò lei, acida. Poco dopo il sesto compleanno di Yaltar, una mattina Veltan passò da loro a dire che sarebbe stato via per qualche settimana, a causa di una questione della massima importanza. «Vai pure, ci prenderemo cura noi di Yaltar», gli assicurò Omago. «Sapevo di poter contare su di voi», disse Veltan, e corse via. Ara aggrottò la fronte, ma non disse nulla. Nanton era un pastore alto e barbuto con un gregge numeroso che pascolava sul prato sopra le Cascate di Vash. Di rado scendeva verso le terre coltivate, poiché il vorace appetito delle sue pecore rendeva nervosi gli agricoltori. «Stanno facendo un sacco di domande che non sembrano avere niente a che fare con quello di cui dovrebbero interessarsi», rivelò Nanton a Omago con la sua voce pacata. «Dicono di essere mercanti provenienti dal Dominio di Aracia, ma da quanto vedo non hanno portato niente da vendere.» «Perché dei mercanti dovrebbero vagare per i monti?» chiese Omago, perplesso. «Proprio quello che mi dico anch'io. Gli unici lassù sono i pastori come me e di certo non abbiamo bisogno delle cianfrusaglie che quelli portano dall'Est, e tentano di rifilare agli stupidi agricoltori e alle loro mogli. E c'è dell'altro.» «Oh?» «Non hanno l'aspetto di vere persone. Sono molto bassi e indossano tutti dei vestiti grigi, con cappucci che gli coprono quasi tutta la faccia, e borbottano.» «Borbottano?» «Non parlano in modo chiaro, e sembrano tutti biascicare la 'esse'.» «Strano. Dicevi che hanno fatto domande. Che tipo di domande?» «Volevano sapere quanta gente vive nei pressi delle Cascate di Vash. A me sembrava che non fossero affari loro, quindi ho mentito.» «Nanton!» esclamò Omago. «Cresci, Omago! Ho colto un forte odore di ostilità, quindi gli ho rac-
contato che ci sono migliaia di noi che vagano per quelle montagne, e che siamo tutti armati. Stavo per dargli una rapida dimostrazione con la mia fionda, ma ho deciso di tenerla nascosta. Se il mio naso aveva ragione, meno sanno di noi e meglio è.» «Potresti avere ragione, suppongo. Ti hanno chiesto altre cose?» «Niente che avesse un senso. Non so per quale motivo, sembravano convinti che il nostro Veltan e sua sorella Zelana si odino e che c'è una guerra perpetua tra la loro gente e la nostra. Ho dato una risposta vaga. Gli ho detto che nel corso degli anni ho ucciso dozzine di nemici. Naturalmente ho taciuto il fatto che si trattava di lupi, non di persone, e se la sono bevuta. Veltan starà via ancora per molto?» «Non lo so per certo. Non me lo ha detto, quando è andato via. Dov'è adesso il tuo gregge?» «Sulle colline. Ci sta badando mio nipote.» «Non tornerai sulle montagne con il gregge molto presto, vero?» «Non finché non si scioglie la neve e le avrò tosate. Lo scorso inverno le mie pecore hanno prodotto un monte di lana.» «Bene. Di solito pascolano vicino alle Cascate di Vash, vero?» «Quasi sempre. C'è dell'erba ottima, lassù, e acqua in abbondanza.» «Tieni gli occhi aperti su quei forestieri. Se ritornano, apprezzerei molto se mandassi tuo nipote ad avvertirmi. Questa è una cosa che Veltan dovrebbe sapere.» «Omago, penso che faresti meglio a parlarne a Veltan», gli suggerì circa una settimana dopo Selga, un coltivatore di lino. «Non sono di queste parti e parlano in modo strano.» «Che cosa intendi per 'strano'?» «Come se i denti intralciassero la lingua. La gente lo chiama 'avere la lisca'. Comunque, sono tremendamente bassi. Io stesso non sono alto, ma loro mi arrivano alla spalla e quei camicioni grigi con il cappuccio non sono fatti di lino o di lana. Sono di una cosa completamente diversa. E fanno un sacco di domande strampalate, ma io ho capito che non sono affari loro e non gli ho dato le risposte giuste. Dovresti dirlo a Veltan. Se quei forestieri piccoletti hanno intenzione di darci del filo da torcere, da me non avranno certo aiuto.» «Sono sicuro che Veltan lo apprezzerà. Hai scoperto da dove venivano?» «Da quanto ho capito sono arrivati da oltre le montagne vicino alle Cascate di Vash. Se mi capiterà di incontrarne ancora, glielo chiederò. Di' a
Veltan che terrò gli occhi aperti e cercherò di scoprire tutto quello che posso.» Omago era sicuro che Veltan doveva essere avvertito di quei forestieri, quindi quella sera stessa, prima di cena, si recò nel crepuscolo fino alla sua dimora, per parlare con Yaltar. Salì la scala di pietra e bussò alla porta del bambino. «Yaltar, sono io», chiamò. Lui gli aprì. «Entra.» «Hai idea di quando tornerà a casa?» domandò Omago mentre guardava con disapprovazione la stanza disordinata, con il letto disfatto. «Non lo ha detto», rispose il bambino. «Credo che stiano succedendo cose che richiedono la sua attenzione.» «Appena ritorna, digli che devo parlargli. Sono successe delle cose un po' strane qui, di recente, e penso che dovrebbe saperle.» «Glielo dirò di certo», gli assicurò Yaltar, giocherellando con una pietra dall'aspetto particolare che gli pendeva sul petto attaccata a una cordicella di cuoio. «Come mai hai quell'opale?» gli domandò incuriosito Omago. «L'ho trovato fuori della porta d'ingresso. Non è bello?» «Bellissimo. È strano che tu lo abbia trovato, però. Da quanto ne so, non ci sono opali da queste parti.» «Forse se ne andava in giro e s'è perso, o forse ha cominciato a sentirsi solo.» «Le pietre non si sentono quasi mai sole, Yaltar. Ara sta preparando la cena. Vieni, andiamo a mangiare.» «Questa mi sembra un'idea grandiosa!» Veltan tornò a casa circa una settimana dopo e una mattina di buon'ora passò da Omago. «Yaltar ha detto che volevi parlarmi. Gli sembrava importante.» «Potrebbe esserlo», confermò lui, e gli riferì le informazioni di Nanton e Selga sui forestieri. «Devo andare a parlare con mio fratello. Tieni le orecchie aperte e al mio ritorno fammi sapere se ci sono state altre visite.» «Lo farò», promise Omago. ***
Quella primavera, lo scioglimento delle nevi produsse un mezzo disastro. Non solo nell'inverno si era accumulata più neve del solito sulle montagne, ma il vento primaverile non era tiepido come al solito, sembrava addirittura bollente. Tutti i torrenti che scendevano dai monti strariparono da un giorno all'altro e iniziarono le inondazioni. A peggiorare il tutto, Veltan era via assieme a Yaltar, quindi non poteva controllare la situazione e agli agricoltori non restava che torcersi le mani mentre guardavano l'acqua dilagare per i campi. I pastori che avevano le greggi nella regione a ovest delle Cascate di Vash iniziarono a riferire di alcuni guai seri nel Dominio di Zelana, ma i messaggi erano privi di dettagli. A mano a mano che la piena cominciò a decrescere, passarono di lì altri pastori, ma le loro storie sugli eventi nel Dominio di Zelana erano talmente spaventose che Omago le accolse con profondo scetticismo. E poi una notte, dopo che i meli avevano cominciato a fiorire, un tuono svegliò Omago in pieno sonno. «Veltan è di ritorno, amore», gli disse Ara. «Penso che faremo meglio a salire a casa sua. Ci dirà che cosa sta succedendo davvero nel Dominio di sua sorella.» «Probabilmente hai ragione, Ara. Le storie esagerate che abbiamo sentito cominciano a mettermi di cattivo umore.» «Verrò anch'io, caro», decise Ara in tono vivace. «Sono curiosa quanto te.» Questo parve un po' strano a Omago, ma non disse nulla. Si alzarono, si vestirono e salirono sulla collina nella tiepida oscurità primaverile. Veltan li accolse sulla soglia di casa. «Speravo che veniste a trovarmi», disse. «Prego, entrate, ho tanto da raccontarvi e poco tempo per farlo.» «Sono contento che tu sia tornato, Veltan», gli disse Omago mentre con la moglie lo seguiva su per le scale, fino alla stanza dove Yaltar trascorreva la maggior parte del tempo. «I pastori vicino al confine con il Dominio di tua sorella mi hanno raccontato storie deliranti e vorrei sapere che cosa è davvero accaduto lassù.» «Non penso che ti piacerà», replicò Veltan in tono cupo. Entrarono nella stanza ingombra e Ara si guardò attorno. «Dov'è Yaltar?» domandò. «Al momento se ne prende cura mia sorella. Non credo che sia ancora pronto per cavalcare la mia beniamina.» «Una buona valutazione», approvò Ara.
«Bene, allora», esordì Veltan, «è risultato che Yaltar è veramente uno dei Sognatori, e il suo sogno ci ha permesso di dare un'occhiata al futuro. Le creature della Terra Desolata hanno invaso il Dominio di Zelana, ma quel sogno ci ha dato il tempo di fare qualche preparativo. Zelana è andata in occidente e ha assoldato un esercito di pirati maag perché combattessero la guerra nel suo Dominio, io sono andato a sud e ho ingaggiato dei soldati professionisti per aiutarci a difendere questa parte della Terra di Dhrall. Ho portato un'avanguardia dell'esercito trogita nel Dominio di Zelana per darle una mano.» «Qualche pastore me lo ha raccontato, ma credevo che si fossero inventati tutto», ammise Omago. «No, è la realtà. Gli stranieri sono più progrediti di noi e le loro armi sono di ferro, o di bronzo in alcuni casi. Tutti gli attrezzi e le armi, qui nella Terra di Dhrall, sono di pietra o di osso; le armi di metallo sono molto meglio.» Veltan estrasse un coltello da sotto la cintola e glielo porse. «Questo è di ferro, sono certo che ti rendi conto a colpo d'occhio quanto sia più forte rispetto a uno di selce o di osso.» Omago prese quell'arma dall'aspetto strano e passò con precauzione il pollice sulla lama. «Estremamente affilato, vero?» osservò. «Già. L'inondazione ha causato molti danni quaggiù?» «Avrebbe potuto fare di peggio, suppongo. Parecchi hanno perduto le loro case, e ho sentito di alcuni, più a sud, che sono annegati. Adesso sta calando, quindi dovrei sapere le cifre esatte, fra non molto.» «L'inondazione è stata un po' eccessiva, forse, ma era necessaria. Le creature simili a insetti che servono il Vlagh stavano invadendo il Dominio di mia sorella, e il Sognatore di Zelana ha provocato una piena per fermarli fino a che gli eserciti che avevamo ingaggiato non erano pronti ad affrontarli. Quell'inondazione ne ha uccisi a migliaia e il Vlagh ha dovuto inviarne degli altri, ma i nostri sono riusciti a fermarli. Non sappiamo per quanto tempo le forze nemiche tenteranno di sfondare. Non sono molto brillanti, ma penso che prima o poi rinunceranno e cambieranno direzione. Se vengono a sud, dovremo essere pronti a incontrarle, probabilmente lassù, vicino alla Cascate di Vash.» «Pensi che l'esercito che hai ingaggiato abbia abbastanza tempo per arrivare lì prima che siamo invasi?» domandò Omago. «Sono certo di sì. Hanno grandi navi, quindi verranno via mare, non dovranno marciare. Sto cercando di convincere mia sorella perché mandi anche lei degli aiuti. La sua gente è composta da cacciatori, e ci sono arcieri
formidabili. Il comandante dell'esercito è uno stratega brillante e una volta che avrà posizionato i suoi nei punti giusti, è improbabile che il nemico riesca a passare.» «Non penso che noi saremo molto utili», ammise Omago, dubbioso. «Dovremmo essere in grado di fornire il cibo per i vostri stranieri, ma non abbiamo niente che assomigli alle armi. I pastori usano le fionde per proteggere le pecore dai lupi, ma oltre a quello...» lasciò la frase in sospeso. «Vedremo, Omago. Parla con gli altri e vedi come la pensano al riguardo. Penso che la priorità, adesso, sia cominciare a raccogliere i rifornimenti. L'esercito trogita ha circa centomila uomini, quindi avremo bisogno di una caterva di cibo.» «Farò circolare la voce, Veltan, e cominceremo.» «Sapevo di poter contare su di voi. Credo che sia meglio se torno là. Volevo avvertirvi di ciò che potrebbe accadere, ma la guerra adesso è nel Dominio di Zelana, quindi voglio starle vicino nel caso abbia bisogno di me.» Omago si sentiva invadere sempre più dall'apprensione. Niente nel suo modo di vivere aveva mai avuto a che fare con la guerra, quindi non aveva la minima idea di cosa aspettarsi. «Non preoccuparti così tanto, cuore mio», gli disse Ara mentre scendevano dalla collina. «Fa' il meglio che puoi e lascia i crucci a Veltan.» «Per il momento, aiutarlo a crucciarsi è più o meno l'unica cosa che mi riesce di fare», replicò Omago, demoralizzato. 3 Il coltello di metallo che Veltan gli aveva dato aprì a Omago enormi possibilità. Gli vennero subito in mente decine di modi in cui migliorare gli attrezzi comuni, ma questo probabilmente sarebbe venuto in seguito. Per il momento doveva concentrarsi sulle armi. Per quanto era in grado di capire, un'arma doveva servire a due funzioni: far del male al nemico e impedirgli di nuocere a noi. Il coltello di metallo probabilmente poteva arrecare danno a qualsiasi nemico si avvicinasse troppo, ma se anche lui aveva delle armi, le cose potevano mettersi male. «Vorrei che quest'oggetto avesse un'impugnatura più lunga», borbottò fra sé. Poi all'improvviso si sentì uno sciocco. Molti dei suoi attrezzi, in particolare quelli usati nel frutteto, consistevano in pertiche con un legnet-
to messo di traverso attaccato a un'estremità, e le usava per tirare i rami verso il basso e raccogliere la frutta senza doversi arrampicare sull'albero. L'impugnatura che cercava l'aveva proprio lì, nel capanno degli attrezzi. Come esperimento, Omago tolse il legnetto da un capo di una pertica e al suo posto legò saldamente il coltello: l'attrezzo agricolo era diventato qualcosa che si poteva considerare un'arma. Omago lo impugnò e mimò qualche affondo e pareva che potesse andare. Se il nemico fosse venuto di corsa verso di lui, un colpo nella pancia o in faccia con quella lama affilata lo avrebbe ferito e magari ucciso. Non solo, ma la lunghezza del manico gli avrebbe impedito di avvicinarsi troppo. «Ma guarda», borbottò, «non è interessante?» L'idea di ferire deliberatamente delle persone era completamente estranea agli agricoltori che vivevano nel Dominio di Veltan, ma se le storie che Omago aveva sentito di recente si avvicinavano alla verità, i nemici in arrivo non erano persone. Qualcuno di loro poteva assomigliarvi, ma doveva trattarsi di un trucco. Il termine che era trapelato dal Dominio di Zelana era stato «uomini-insetto» e poteva essere utile. Se Omago avesse posto l'accento sulla parola «insetto», nel descrivere i nemici, i suoi vicini non si sarebbero sentiti in colpa nello sterminarli. Di tanto in tanto, sciami di locuste avevano attaccato i campi e gli agricoltori avevano scoperto che incendiare l'erba era un modo assai efficace per sistemarle. Secondo lui, la parola «insetto» poteva essere perfino più utile delle armi di metallo: gli agricoltori diventano bellicosi ogni volta che la sentono. Venivano a galla infinite possibilità e quando andò a cena si sentiva colmo di entusiasmo. «Cos'è quel sorriso compiaciuto, Omago?» gli chiese Ara mentre si sedeva a tavola. «Non penso che noi agricoltori saremo tanto inermi come Veltan sembra credere.» Omago fece circolare la voce fra parecchi amici e quella sera arrivarono attraverso i campi fino a casa sua. Li portò al capanno degli attrezzi e mostrò loro l'arma improvvisata. Sembrarono tutti alquanto interessati. «Pensi che Veltan potrebbe procurarci altri coltelli come quello?» si informò il corpulento Benkar, coltivatore di frumento. «Se ne avessimo tutti uno come il tuo, potremmo legarli alle pertiche come hai fatto tu e poi potremmo dare una mano agli stranieri quando quegli uomini-insetto verranno giù dalle montagne.» «Non ne sono sicuro, Benkar», rispose Omago, un po' dubbioso. «Gli
stranieri potrebbero non volerci tra i piedi quando inizia la battaglia, e non ho idea di quanto sia davvero utile questo coltello.» «È una questione da prendere in considerazione», intervenne Nanton, il pastore barbuto. «Se tutti gli agricoltori avessero delle pertiche come quella che ti sei fatto tu, potreste rallentare gli uomini-insetto e allora io e i miei pastori potremmo bersagliarli con le nostre fionde. Da una festicciola come questa non sarebbero in tanti a uscire vivi. Dal Dominio di Zelana sono arrivate alcune storie, secondo le quali gli stranieri guardavano la sua gente dall'alto in basso, fino al momento in cui quelli con gli archi e le frecce hanno cominciato a far fuori gli uomini-insetto a centinaia.» «Se qualcuno si prova a guardare me dall'alto in basso, gli faccio sputare i denti!» si infiammò Selga, il piccoletto. «Dovremo esercitarci per un po'», propose Eknor, un altro agricoltore. «Ma come facciamo se Omago ha l'unico coltello di ferro in tutto il Dominio di Veltan?» domandò Benkar. «È la pertica che fa la maggior parte del lavoro», ribatté Eknor. «Possiamo esercitarci a menare i colpi con i manici. Poi gli stranieri, quando arriveranno, ci daranno i coltelli da attaccarci sopra. Non sarà tanto diverso da quando si raccoglie il grano. Tutto ciò che dobbiamo fare è camminare fianco a fianco sullo stesso fronte, raccogliendo uomini-insetto invece del frumento.» Omago nascose un sorriso. Tutto stava andando ancora meglio di quanto avesse sperato. La parola «insetto» aveva portato subito dalla sua parte tutti gli agricoltori, ed era evidente che si sentivano molto bellicosi. La situazione si stava mettendo decisamente bene. Con il passare dei giorni, la propaganda di Omago sugli «uominiinsetto» fece arrivare sempre più agricoltori e pastori dal territorio circostante, pronti a unirsi all'esercito improvvisato. Elkor istruiva gli agricoltori nel reggere saldamente davanti a sé le pertiche ancora innocue e nel mantenere diritta la fila, mentre Nanton impartiva ai pastori un addestramento intensivo nell'arte di colpire bersagli con la fionda da distanze sempre più elevate. Erano all'opera da più di due settimane quando, un soleggiato pomeriggio, il fragore del tuono scosse il suolo e comparve Veltan. «Che cosa ci fai qui, Omago?» domandò. «Mi era venuto in mente che al mio coltello serviva un'impugnatura più lunga», spiegò Omago, descrivendo i suoi esperimenti e l'entusiasmo su-
scitato negli altri agricoltori. «Si sono uniti a noi anche Nanton e gli altri pastori, con le loro fionde. Penso che gli stranieri rimarranno stupiti quando scopriranno che non siamo tanto inermi quanto pensavano.» «Benissimo, Omago», si complimentò Veltan. «Appena arriva Leprotto, penso che potrò persuaderlo a fare delle punte di lancia per i nostri agricoltori. Funzionano meglio che legare un coltello all'estremità di una pertica.» «Chi è Leprotto?» «È un piccolo maag che lavora il metallo. Una volta che i tuoi uomini avranno le punte di lancia e il veleno non credo che nessuno dei nostri nemici potrà sfondare le vostre linee.» «Veleno?» «Le creature della Terra Desolata sono in parte serpenti e i loro denti contengono veleno. Tutti i soldati ingaggiati da mia sorella intingevano le punte delle armi in quel veleno. Ha ucciso centinaia di servitori del Vlagh. Sai, il Sognatore di Dahlaine, Ashad, ha fatto uno di quei sogni: i nemici arriveranno di sicuro in questa regione. Non penso che dobbiamo preoccuparci troppo, però. Gli stranieri saranno qui in tempo per aiutarci a ricacciarli via.» «Lo spero», commentò Omago. «Gli agricoltori e i pastori stanno migliorando, ma penso che non siamo pronti a combattere questa guerra tutta da soli.» «Vedremo, Omago. Mi darò da fare perché i maag arrivino più in fretta possibile.» Adesso che la semina era finita, arrivavano sempre più agricoltori, attirati dalle storie che circolavano. Come Omago si aspettava, erano tutti incuriositi dal coltello di ferro datogli da Veltan e restavano delusi nello scoprire che lui non sapeva dire dove si trovava la cosa che il dio aveva chiamato «metallo». A quel punto alcuni di loro facevano dietrofront e se ne tornavano a casa, ma ne rimanevano abbastanza ad accrescere l'esercito improvvisato. Addestrare i nuovi arrivati era assai noioso, ma lui era sicuro che ne valeva la pena, quindi si dedicò a quel compito per parecchie settimane. Poi, una mattina presto, il ben noto fragore del tuono annunciò che Veltan era di nuovo tornato. Omago si vesti e si recò assieme alla moglie all'enorme casa di Veltan, per sentire le novità sulla guerra in Occidente. «Tutto è andato perfino meglio di come ci aspettavamo», annunciò Veltan alla coppia di amici. «Purtroppo abbiamo perduto il villaggio di Lat-
tash, ma lo ritengo un piccolo prezzo da pagare, per la nostra vittoria. Adesso i maag e i trogiti verranno qui ad aiutare noi. Se le cose andranno bene come in Occidente, vinceremo anche questa guerra, e le creature della Terra Desolata potrebbero convincersi a tornarsene da dove sono venute.» «Speriamo bene, Veltan», intervenne Ara. «Gli insetti non sono poi così intelligenti.» «Quando pensi che arriveranno gli stranieri?» s'informò Omago. L'idea di avere lì degli stranieri che li avrebbero aiutati nella guerra imminente non lo metteva tanto a suo agio. «Probabilmente entro i prossimi giorni», rispose Veltan. «Zelana ci ha messo lo zampino, quindi i venti saranno molto servizievoli.» Aggrottò leggermente la fronte. «Ara, magari potresti avvertire le donne. Narasan tiene sotto controllo i suoi soldati, ma i maag di Sorgan sono degli scalmanati e quando vedono delle donne giovani si mettono in testa certe idee.» «Farò circolare la voce», promise Ara. «Quanto tempo pensi che ci voglia per avere tra le mani altri coltelli di metallo?» chiese Omago. «Parleremo con Leprotto appena arriverà», gli assicurò Veltan. «Però non limitarti all'idea di coltello tradizionale. Ho notato che Leprotto è molto creativo. Se gli spieghi come vuoi che sia l'arma, lui escogiterà la forma più adatta allo scopo. Le punte di freccia che ha fatto per Arcolungo e gli altri arcieri erano molto diverse da quelle che usavano in passato.» «Lo terrò a mente.» 4 La prima avvisaglia della flotta in arrivo fu la massa di vele gonfie di vento, lungo l'orizzonte, e la loro quantità sbalordì Omago. Invece Ara, che gli stava al fianco, non parve troppo impressionata. A volte reagiva agli avvenimenti in maniera particolare. A mano a mano che la flotta si avvicinava nella dorata luce estiva, Omago notò delle differenze tra le navi. Certe erano molto larghe e altre strette e lunghe come ramoscelli. «Non paiono tanto simili, vero?» commentò. «Le hanno costruite per scopi diversi», gli spiegò Veltan. «Quelle larghe e lente servono a trasportare grandi quantità di uomini o merci. Quelle più snelle sono molto veloci, quindi possono raggiungere le altre e depredarle.» «Questo non li trasformerebbe in nemici?»
«All'inizio, effettivamente, non andavano tanto d'accordo», ammise Veltan, «ma la minaccia costituita dalle creature della Terra Desolata li ha uniti.» C'era un'imbarcazione più piccola che si muoveva agilmente verso la spiaggia e Veltan la guardò con un certo affetto. «Quella è la mia barca», disse ai suoi due amici. «Visto come fila?» «Per cosa è stata costruita?» domandò Ara. «Non sembra avere niente a che fare con le altre.» «Si sposta molto rapidamente», spiegò Veltan, con orgoglio. «La uso quando voglio arrivare in fretta da qualche parte.» «Non è quello che dovrebbe fare la tua folgore?» «La mia beniamina è rapida, ma anche molto rumorosa. A volte non fare rumore è più importante che arrivare in fretta.» A bordo c'erano quattro uomini. Uno di loro sembrava avere una statura molto bassa, un altro media e gli ultimi due erano decisamente alti e indossavano vesti di pellame.» «Il piccoletto è Leprotto, il maag di cui ti avevo parlato», spiegò Veltan a Omago. «Il giovane è un soldato trogita chiamato Keselo e gli altri due sono Arcolungo e Barba Rossa, arcieri del Dominio di Zelana.» «Sono cacciatori, vero?» Il dio annuì. «Cacciatori bravissimi. Barba Rossa non è altrettanto abile del suo amico, ma nessuno lo è. Da quanto ne so, Arcolungo non ha mai sbagliato un colpo. La sua freccia arriva sempre dove vuole lui.» A Omago sfuggì un sorriso. «Quando ero bambino, sognavo di essere un cacciatore. Dev'essere una vita molto eccitante.» «Suppongo di sì. Ma Arcolungo non è un cacciatore comune. La sua guerra con le creature della Terra Desolata è iniziata tanto tempo fa. Le odia; ogni volta che ne vede una la uccide. Tecnicamente, suppongo che lavori per mia sorella Zelana, ma non è incline a prendere ordini. Eleria è l'unica a cui dà veramente retta.» «Questo non manda in collera tua sorella?» domandò Ara. «No. Zelana sa che è leale e che fa del suo meglio per aiutarla, ma lui fa le cose a modo suo.» Veltan si strinse nelle spalle. «Ciò che importa davvero è il risultato. Il metodo non è poi così importante.» «Dov'è Yaltar?» domandò Omago. «Viaggia con Zelana ed Eleria sul Gabbiano: è la nave di Sorgan Becco d'Uncino, il capo dei maag. Un giorno o l'altro lo porterò a fare una cavalcata sulla mia folgore, ma per adesso è ancora piccolo.»
«Troppo piccolo», sentenziò Ara. La veloce imbarcazione di Veltan toccò riva prima delle altre e questo gli diede agio di presentarne gli occupanti ai suoi amici fidati. «Questo è l'uomo di cui ti ho parlato, Omago», disse, mettendo una mano sulla spalla di Leprotto. «Se gli dici ciò di cui hai bisogno, sono certo che saprà ricavarlo dal metallo, qualunque cosa sia.» «Lo spero», commentò Omago, guardando il piccoletto. «Qualche tempo fa Veltan è tornato dal Dominio di sua sorella, mi ha raccontato di quello che stava accadendo», gli spiegò, «e mi ha dato un coltello per mostrarmi a cosa si riferiva quando parlava di 'metallo'. Io ho pensato che legandolo in cima a un bastone lungo e stretto, potrebbe dimostrarsi un attrezzo molto utile quando incontreremo le creature della Terra Desolata.» «Noi chiamiamo quegli attrezzi 'lance'», replicò Leprotto, «e li usiamo da tanto, tanto tempo.» «Davvero? Io pensavo di aver avuto un'idea originale. Sai, non ne sappiamo molto sulla guerra.» «Questo tipo è molto sveglio, Leprotto», intervenne il giovane Keselo. «Se non ha mai visto una lancia e nemmeno ne ha sentito parlare, in realtà ne ha inventata una lì per lì.» «Già, proprio così», concordò Leprotto, aggrottando leggermente la fronte. «Se ti vengono altre idee come questa, Omago, descrivimele. Poi io costruirò un esemplare e vedremo come funziona.» «Stanno arrivando alcune barche», annunciò Arcolungo, «Sorgan, Narasan e qualcuno degli altri saranno qui tra poco.» «Bene», commentò Veltan, «abbiamo del lavoro da fare, e non ci rimane tanto tempo.» Omago rimase non poco sorpreso da quanto i maag erano grandi e grossi. Non aveva mai visto gente così alta e le armi di metallo che pendevano dalle cinture mettevano paura. I trogiti erano più bassi e più scuri, ma anche loro erano bene armati. Poi vide Yaltar arrivare assieme a una bellissima signora che quasi certamente era Zelana, la sorella di Veltan, e una bambina ancora più bella che evidentemente era Eleria, la sua Sognatrice. Ara corse verso l'acqua e abbracciò il bambino, e Yaltar si aggrappò a lei come se fosse appena accaduto qualcosa di terribile. «Bel paese, Veltan», commentò un trogita dalle tempie argentate. «Grazie, Narasan», replicò il dio di quelle contrade. «Dov'è Gunda?»
«L'ho rispedito a Castano perché portasse qui il resto dell'esercito. Spero che il canale attraverso i ghiacci sia ancora aperto.» «Lo è. Siete incappati in qualche problema venendo qua?» «No, gli unici problemi li abbiamo incontrati prima di salpare. La tribù di Barba Rossa non era contenta quando abbiamo annunciato che saremmo andati via per un po'. È stato elevato da poco al rango di capo ma tutti sanno che ciò non gli va a genio. Sono convinti che ha colto l'occasione di venire a sud per sottrarsi alle sue responsabilità. C'è una donna nella sua tribù, chiamata Seminatrice, che prima della partenza l'ha insultato.» «Lascia perdere», borbottò il tizio dalla barba rossa che era arrivato con la barca di Veltan. «Cercavo solo di spiegare un po' la situazione», replicò Narasan. «Il mio datore di lavoro ha il diritto di essere al corrente di questi battibecchi.» Barba Rossa si voltò e si allontano, borbottando fra sé. «Questo è Omago, comandante», disse Veltan. «Lo conosco da quando era bambino, gli altri agricoltori e i pastori si rivolgono sempre a lui per i loro problemi.» «È molto dotato», intervenne Keselo. «Veltan gli ha portato un coltello di ferro e con quello lui si è costruito una lancia.» «Le lance esistono da secoli», commentò in tono di scherno un trogita magrissimo. «Non da queste parti, Jalkan. Qui non sapevano nemmeno che cosa significhi 'guerra', quindi non hanno mai avuto bisogno di armi. E infatti Omago chiama la sua invenzione 'attrezzo'. Questo suggerisce una mentalità completamente diversa. Se mostriamo agli agricoltori come formare una falange, potrebbero esserci molto utili, vero comandante?» «Sì», approvò Narasan. «Però avrebbero bisogno di scudi.» «Che cos'è uno scudo?» volle sapere Omago. «È una piastra di metallo assicurata al braccio sinistro. Lo usiamo per proteggere il corpo dai nemici.» «Sta arrivando Sorgan, signore», avvertì Keselo. «Bene.» Narasan guardò Veltan. «Dove pensi che potremmo erigere l'accampamento?» «Ecco una cosa di cui vorrei discutere con te, comandante. Non vorrei offenderti, ma mi sembra meglio tenere il tuo esercito e quello di Sorgan a bordo delle navi. I tuoi uomini sono disciplinati, ma i maag? Be', sono certo che capisci.» «È chiaro come il cristallo, Veltan. Il tempo di pace tira fuori il peggio
dai maag.» «In ogni caso, ci sposteremo ben presto verso le Cascate di Vash, quindi montare un accampamento temporaneo sarebbe solo uno spreco di tempo e di energie. La mia gente ha raccolto il cibo per i tuoi eserciti e lo farò portare sulla spiaggia. Nel frattempo condurrò te, Sorgan e qualche altro a casa mia a vedere la mappa che ho realizzato. Ho copiato l'idea di Leprotto di farla in rilievo, così potrete rendervi conto di com'è il terreno vicino alle cascate. Il Sognatore di mio fratello ha detto che combatteremo questa guerra lassù, quindi vi sarà utile familiarizzare con il territorio.» Un maag alto e robusto si avvicinò dalla riva e li raggiunse. «Qua attorno è molto più piatto di com'era nell'Ovest, Narasan», commentò, «e non ci sono tanti alberi.» «Questo non ferisce troppo i miei sentimenti, Sorgan», fu la risposta. «Combattere una guerra tra i cespugli mi irrita. Questo è Omago. È lui il responsabile, qui.» «Il capo, intendi?» «Qui siamo meno formali», spiegò Veltan. «Omago non impartisce ordini agli altri agricoltori. Dà suggerimenti, a volte, e questo è tutto.» «Veltan pensa che magari preferiamo lasciare i nostri uomini a bordo delle navi», spiegò Narasan. «Tra qualche giorno marceremo verso le montagne, quindi non avrebbe senso farli venire a riva e allestire un accampamento.» «Sono d'accordo con te, Veltan», disse Sorgan. «Vorrei che tu e Narasan, e chiunque vorrete portare con voi, veniate a casa mia», aggiunse Veltan. «Ho messo assieme una cartina che vorrei farvi vedere. Il terreno dove combatteremo questa volta è molto più ripido della gola sopra Lattash.» Sorgan alzò le spalle. «Io porterò Bove e Zampa di Prosciutto. A essere sinceri, però, questa è la guerra di Narasan. Io sono venuto senza convinzione.» «Non è vero, e lo sai», s'infiammò Narasan. «Magari no.» Sorgan gli elargì un sorriso malizioso. «Questa volta però faremo le cose a modo tuo. Questo significa che darò la colpa a te se qualcosa va storto.» «Sei un tipo di cuore», osservò Narasan, acido. «Sì, pensavo lo avessi notato.» Il sorriso di Sorgan si allargò. Omago notò che tra i due uomini, totalmente diversi fra loro, sembrava essere nata una forte amicizia durante la guerra in Occidente, ed era con-
vinto che questo sarebbe stato molto utile, nei momenti difficili. «Esattamente, com'è organizzata la chiesa qui nella Terra di Dhrall?» chiese a Omago, con espressione curiosa, il trogita magro che si chiamava Jalkan. Stavano seguendo il sentiero che dalla spiaggia, attraverso i campi di grano, portava alla casa di Veltan. «Non sono certo di seguirti», confessò Omago. «Che cosa intendi di preciso per 'chiesa'?» «Sacerdoti. Quelli che guidano la gente nelle preghiere e badano che non violino gli articoli della fede.» La sua curiosità era sempre più evidente. «Qui non abbiamo niente del genere. Ho sentito che c'è qualcosa di simile nel Dominio di Aracia, la sorella di Veltan, ma lui non sembra ritenere che qui al Sud abbiamo bisogno di queste cose. Se qualcuno vuole porgli una domanda, va a casa sua e gliela fa, ma in genere, per comodità, passano attraverso di me.» «Mi stai dicendo che tu parli direttamente con il tuo dio?» Jalkan aveva un tono scioccato. «È per questo che c'è, no?» «Ma...» Jalkan tentennò. «Posti diversi hanno usanze diverse, credo», concluse Omago. «Qui nel Sud siamo piuttosto rilassati.» «Dove sono collocate tutte le miniere d'oro?» Jalkan si affrettò a cambiare argomento. «È per questo che c'è 'sta guerra, vero? Voglio dire, questi invasori che combatteremo stanno venendo qua perché vogliono il vostro oro, non è così?» «Ne dubito. Non credo che ai servitori del Vlagh interessi il metallo giallo che qualcuno usa per i ninnoli. Il Vlagh vuole la nostra terra e il cibo che ci cresce sopra.» Jalkan assunse un'espressione sospettosa, mentre si allontanava a grandi passi. «Io non risponderei troppo alle domande di quello lì, Omago», suggerì sottovoce l'arciere Arcolungo. «Agli altri trogiti non piace molto. È piuttosto avido e non tratta tanto bene i suoi uomini.» «Questi stranieri sono bizzarri, eh?» Arcolungo sorrise lievemente. «Loro sembrano pensare che siamo noi quelli bizzarri. La loro vita è molto complicata, mentre noi facciamo del nostro meglio perché tutto sia semplice. Non so bene il perché, ma questo sembra offenderli, per qualche motivo.»
«Io sarò proprio contento quando tutto questo sarà finito, così prenderanno armi e bagagli e se ne andranno a casa.» «Non sei il solo, amico.» *** «È impossibile!» esclamò il trogita chiamato Padan, fissando con sguardo colmo di soggezione la casa di Veltan. «È composta da un'unica roccia!» Veltan fece spallucce. «Tiene fuori il cattivo tempo», replicò. «Quando ero a Kaldacin ho notato che quei palazzi eleganti lasciano entrare un sacco d'aria fredda.» «Come hai fatto a farla?» «Sei sicuro di volerlo davvero sapere?» A Veltan sfuggì un sorrisetto malizioso. Padan gli rivolse una rapida occhiata vagamente spaventata. «Non penso», ammise dopo un momento. «Ho la netta sensazione che non dormirò tanto bene se mi dirai esattamente come hai fatto.» «Entriamo, amici!» Così Veltan invitò gli stranieri. «Ho rubato un'idea a Leprotto e ho fatto una mappa dettagliata della regione dove probabilmente incontreremo il nemico. Penso che tutti voi dobbiate darvi un'occhiata in modo da sapere che cosa vi aspetta.» Omago attese vicino alla porta fino a quando Ara lo raggiunse. «Come sta Yaltar?» le chiese sottovoce. «Non tanto bene, caro. Da quanto ho capito ha dovuto fare qualcosa di tremendo, su nel Dominio di Zelana, e questo lo turba. Lei sta facendo ciò che può per calmarlo, ma l'unica cosa che lo aiuta è tenere per mano Eleria.» «Andrai a stare con loro?» «Penso sia meglio. Staremo in cucina. Dovrò comunque cucinare per questi stranieri, e di solito l'odore di cibo lo fa stare meglio.» Omago sorrise. «L'odore del tuo cibo fa stare meglio chiunque, cuore mio», disse con tenerezza. «Pare proprio. Raggiungili, caro. Veltan potrebbe avere bisogno di aiuto per spiegare le cose agli stranieri.» Omago si affrettò dietro agli altri, che stavano seguendo Veltan in una vasta sala. Lui fino ad allora non l'aveva mai vista, ma questo non era insolito: di tanto in tanto, il dio risistemava la propria casa, cambiando la posi-
zione di alcune stanze senza un motivo particolare. «Questa è la sala della mappa.» Veltan guardò Narasan con un certo orgoglio. «Prende spunto dalla vostra sala della guerra a Kaldacin, ma ci sono alcune varianti.» «L'ho notato», osservò il comandante trogita con un velo di soggezione nella voce. La sala era circolare e la porta si apriva su una specie di balconata posta tre metri più in alto del pavimento. La mappa si estendeva lì sotto e, per quanto vedeva Omago, era una copia perfetta del territorio montano attorno alle Cascate di Vash. Sapeva che Veltan era dotato, ma l'accuratezza di quel lavoro era strabiliante. «Da dove viene tutta quell'acqua?» volle sapere Sorgan Becco d'Uncino. «Non vedo torrenti che affluiscono in quel fiume tumultuoso sopra il ciglio del dirupo.» «Viene da sottoterra», spiegò Veltan. «Adesso la sorgente è abbastanza tranquilla. Di tanto in tanto si agita e l'acqua schizza in aria fino a una trentina di metri.» «Ce l'hai messa tu?» domandò Keselo. «Credo che l'abbia provocata un terremoto», rispose Veltan. «Il terreno è instabile sotto quelle montagne.» «Lassù vicino alle cascate è molto più ripido che nella gola sopra Lattash», notò ancora Sorgan. «Questo potrebbe darci del filo da torcere.» «Veltan, ti sei fatto un'idea di quando il nemico potrebbe arrivare in zona?» s'informò Narasan. «Stiamo incontrando lo stesso problema che abbiamo avuto a ovest. Il Sognatore di mio fratello gli ha detto dove, ma non è stato in grado di specificare quando.» «Se stanno scavando gallerie sotterranee, potrebbero essere già lì ad aspettarci», suggerì Padan. «No», lo contraddisse Keselo. «Gli ci sono voluti secoli per scavare nella roccia, dalla scalinata alle caverne che portavano in quegli antichi villaggi. Non hanno avuto abbastanza tempo per arrivare alla cascata.» «Penso che Keselo abbia ragione», convenne Narasan. «Se le gallerie ci fossero già state, è probabile che i nemici avrebbero invaso le due regioni contemporaneamente. Non credo che stavolta ne troveremo. A me sembra che questa invasione sia un atto di disperazione. I vulcani hanno sigillato per sempre la gola sopra Lattash e qualcosa spinge il nemico a impossessarsi di nuova terra, e non sembra gli importi in quale regione si trovi. Ti pare un'ipotesi abbastanza azzeccata, Sorgan?»
«Non ci avevo pensato ma, sì, ha senso», concordò Becco d'Uncino. «Se le cose stanno davvero così, faremmo bene ad arrivare lassù quanto prima. Appena saremo là, dovremo cominciare a costruire fortificazioni e simili. Non ci conviene affrontare gli uomini-serpente in campo aperto, se possiamo evitarlo.» «Penso che tu abbia ragione. Il resto del mio esercito dovrebbe arrivare abbastanza presto, ma intanto mandiamo un'avanguardia in cima a quelle cascate. Decisamente non voglio che gli uomini-serpente mi striscino dietro le spalle come hanno fatto l'altra volta. Sto cominciando a essere un po' troppo vecchio per le sorprese.» 5 Dopo un'ora circa, Ara varcò la soglia della sala circolare e annunciò: «La cena è pronta. Venite a mangiare prima che si raffreddi». «Penso proprio che vi aspetti un banchetto, signori», osservò Veltan con una nota di orgoglio nella voce. «Ara è probabilmente la cuoca migliore del mondo intero.» «Direi che allora sta sprecando il suo vero talento», dichiarò Jalkan con un ghigno osceno. «Una donna con un corpo come quello potrebbe fare fortuna a Kaldacin.» Omago si sentì gelare. «Non ho capito bene dove vorresti arrivare», gli disse, senza mostrare emozioni. «Ehi, sei cieco? Questa serva mi manda il sangue in ebollizione. Pagherei in oro per avere la possibilità di portarmela a letto.» Senza nemmeno pensarci, Omago mollò un pugno allo scarno trogita, mandandolo lungo disteso a terra. Jalkan si rialzò barcollando e sputando sangue, denti e imprecazioni, mentre metteva mano al pugnale. Keselo, però, trasse la spada dalla guaina con gesto fluido e rapidissimo, e la puntò alla gola del commilitone trogita. «Buttalo a terra Jalkan», ordinò con fermezza. «Butta a terra il pugnale o ti uccido qui e subito.» «Ma questo contadino mi ha offeso!» gridò Jalkan. «È un'offesa da pagare con l'impiccagione! Io sono un ufficiale!» «Non più», dichiarò Narasan con voce piatta. «Ti ho sopportato già troppo a lungo e adesso mi hai dato l'occasione che aspettavo. La tua carriera militare è finita. Non farti più vedere.» «Non puoi farlo!» sbraitò Jalkan. «Ho pagato oro per il mio grado. O-
ro!» «Hai appena perso il tuo oro. Sei finito.» Narasan si voltò. «Padan, incatena questo delinquente e portalo alla spiaggia. Deciderò cosa fare di lui più tardi, dopo che sarò riuscito a controllare la mia ira.» Si rivolse quindi a Omago. «Vuoi pensarci tu o preferisci che lo faccia io? Non conosco bene le consuetudini qui da voi. Però ha insultato tua moglie, così è giusto che sia tu a decidere il suo destino.» «Basta che me lo levi di torno», rispose Omago, stringendo e aprendo i pugni. «Allora ci penserò io. Padan, porta via questo sconcio degenere!» «È un piacere, comandante!» rispose Padan, con un ampio sorriso. «Vuoi andartene pacificamente, lurido individuo, o preferisci che ti faccia fare a calci ogni gradino da qui alla spiaggia?» «Ben detto», commentò Barba Rossa in tono ammirato. «Me la sono sempre cavata con le parole», rispose Padan, modesto. La mattina dopo, quando Omago arrivò nella sala della mappa, con Veltan c'erano diversi forestieri. «Ah, eccoti», lo salutò Veltan. «Ci sono alcune persone che vorrei farti conoscere.» Fece un gesto verso un uomo imponente, dalla barba grigia, che indossava abiti fatti con pellicce di animali. «Questo è Dahlaine del Nord, mio fratello maggiore.» «Omago», lo salutò l'uomo barbuto. «Sono lieto di conoscerti», rispose Omago, un po' incerto. C'era qualcosa nel fratello di Veltan che lo rendeva leggermente nervoso. «Hai già incontrato mia sorella Zelana», continuò Veltan, «ma questa è l'altra mia sorella, Aracia.» Aracia indossava abiti splendidi e aveva un'espressione altezzosa. «Signora», disse Omago in tono compito. Dahlaine gli rivolse di nuovo la parola. «Veltan ci dice che sei tu il capo dell'esercito.» «Non so se è il caso di chiamare la mia gente un esercito», obiettò Omago. «Non abbiamo tanta dimestichezza con le armi, ma il comandante Narasan ha promesso che vedrà di farci addestrare.» «Hai mai sentito parlare di cavalli?» Omago aggrottò la fronte. «Non penso proprio», ammise. «Un cavallo è un po' come una mucca, solo che non ha le corna e corre molto più rapidamente», spiegò Dahlaine e pose una mano sulla spalla di
un uomo snello dal volto coperto di cicatrici. «Questo è il principe Ekial, il capo del popolo cavalcante. Molto tempo fa, la sua gente addomesticò i cavalli e insegnò loro a trasportare le cose. Dopo un po' un tizio piuttosto perspicace pensò che se quelle bestie erano in grado di trasportare pesanti sacchi di grano o carichi di legna, probabilmente potevano portare anche le persone, e loro corrono molto più veloce di un uomo. Così fu fatto. Poi scoppiò una guerra e si resero conto che combattere cavalcando era molto efficace. Poiché qui nella Terra di Dhrall non ci sono cavalli, i servitori del Vlagh non avranno idea di cosa si troveranno davanti. Sono certo che non andranno pazzi per loro e per chi li monta, quelli che sopravviveranno, e non credo che ce ne saranno molti.» «Vi sedete davvero sulla groppa dei cavalli mentre andate da qualche parte?» domandò Omago al principe. Ekial alzò le spalle. «È più facile che camminare», rispose, «e a loro piace correre. In questo modo si va da un posto all'altro cinque volte più in fretta che a piedi.» «Possiamo andare avanti?» intervenne Aracia all'improvviso. «Ho altre cose da fare.» Si voltò verso Omago. «Ti prego, non agitarti», gli disse e indicò una donna alta con un pugnale molto lungo che le pendeva dalla cintola. «Questa è Trenicia, la regina delle donne guerriere dell'Isola di Akalla. Luoghi diversi hanno tradizioni e usanze diverse. Su quell'isola governano le donne e sono loro a combattere.» «E gli uomini cosa fanno?» domandò Elkian. «Il minimo possibile», rispose la guerriera, con un sorriso sardonico. «Nel corso degli anni, ci hanno addossato quasi tutte le incombenze. Dobbiamo coltivare il cibo, cacciare per procurarci la carne e combattere le guerre. Gli uomini se ne stanno seduti, diventano grassi e discutono tra loro su una cosa che chiamano 'filosofia', una somma di pure sciocchezze.» «La tua spada non è un po' sottile?» le domandò Ekial con curiosità. «Non mi sembra abbastanza forte per trapassare un'armatura.» «Perché dovrei perdere tempo a menar colpi contro l'armatura di qualcuno?» replicò Trenicia, sprezzante. «La parte importante della mia spada è la punta. È affilatissima e penetra facilmente. Tutte le cose importanti sono dentro la testa e la pancia di una persona. Le mie nemiche sembrano sempre perdere interesse nella guerra, dopo che ho infilzato qualcuna di loro.» «Stai dicendo che fai la guerra ad altre donne?» Zelana si mostrò molto sorpresa. «Ci tocca farlo. Gli uomini di Akalla non sanno distinguere l'elsa dalla
lama. C'è stata una discussione sull'isola, anni fa, su chi fosse la vera regina. Però non abbiamo dovuto più discutere. Chiunque è ancora vivo concorda con entusiasmo che la regina sono io, e gli ordini li do io.» Trenicia rivolse a tutti un sorriso radioso. «Non è adorabile?» La regina guerriera faceva gelare il sangue nelle vene a Omago. Sotto la superficie, c'era in lei una ferocia che lo spaventava. Dahlaine portò Veltan in disparte, ma Omago era abbastanza vicino per udire la loro conversazione a bassa voce. «Hai già informato questi mercenari della seconda invasione vista in sogno da Ashad?» chiese il fratello più anziano. «Non ancora», rispose il più giovane. «Non mi viene assolutamente in mente un modo per accennarlo a Narasan senza offenderlo. Spero di riuscire a farcela da solo, o magari farmi dare un aiuto da Zelana. Lei è molto brava a trattare con i venti e le maree e potrebbe bloccare tra i ghiacci qualsiasi flotta in avvicinamento per i prossimi secoli.» «Io non lo darei per scontato. Il sogno di Ashad ha decisamente collocato la seconda invasione a terra, nella parte meridionale del tuo Dominio.» «Questo non significa necessariamente che avverrà lì», obiettò Veltan. «Il sogno di Eleria nella Terra di Maag dava per morti Sorgan e tutti i suoi uomini, ma è intervenuto Arcolungo e ha impedito al sogno di avverarsi. Da quanto ho capito, questi sogni a volte sono più degli avvertimenti che delle certezze assolute.» «Be', sì, forse», concesse Dahlaine, «però tieni occhi e orecchie aperti.» «Vedi, Omago, questo fusto arrotondato si adatta bene all'estremità dell'asta», spiegò il piccolo maag chiamato Leprotto quando, il giorno dopo, si misero al lavoro insieme nel cortile di Omago. «Poi gli do qualche martellata per bloccare la punta della lancia.» «Certo, funzionerà meglio di un coltello legato in cima a una pertica», ammise Omago. «La notte scorsa stavo ripensando a un po' di cosette e mi è venuta un'idea.» «Una delle tue trovate improvvise?» Leprotto gli rivolse un sorriso malizioso. «Una specie. Secondo me, una lancia con più punte sarebbe più efficace.» «Non penso di aver mai visto una lancia con più di una punta.» Omago prese dal capanno il rastrello da fieno in legno. «Noi usiamo questo attrezzo per raggruppare e portar via la paglia dopo che abbiamo
raccolto il frumento», spiegò, porgendolo a Leprotto. «Se le punte fossero diritte invece che ad angolo come queste, non sarebbero più efficaci di una sola?» Leprotto socchiuse gli occhi, mentre tamburellava distrattamente il martello sull'incudine. «Potresti avere ragione. Una lancia normale ha una punta sola perché di solito si cerca di uccidere un nemico alla volta, ma con il veleno che abbiamo usato nella guerra precedente, si potrebbero uccidere tre uomini-serpente con un colpo solo. Proviamo, poi vediamo che cosa ne pensano il Capità e il comandante Narasan. Se i tuoi si mettono tutti allineati come ci hai spiegato che fanno, allora ci sarebbero caterve di punte avvelenate puntate contro il nemico.» «Chi ha avuto l'idea di intingere le punte delle armi nel veleno?» «Arcolungo, o forse Colui Che Guarisce, uno dei due. Arcolungo uccide gli uomini-serpente da quando era poco più che un bambino. Non crederesti a quanto ci sa fare con quel suo arco!» «Ti ha mai detto come mai li odia così tanto?» «No, ma uno dei suoi mi ha raccontato che un uomo-serpente gli ha ucciso la ragazza che stava per sposare, dopo di che l'unico pensiero di Arcolungo è diventato eliminare gli uomini-serpente. Adesso facciamo una lancia di prova a più punte e vediamo che cosa ne pensano i capi. Se funziona anche solo la metà di come parrebbe, credo che approveranno. Ogni volta che ti giri, sembra che ti venga in mente una nuova idea.» Omago rivolse al piccoletto un mezzo sorriso. «Forse perché sono un po' pigro. Magari un giorno o l'altro escogiterò un attrezzo che farà tutto il lavoro per me. Allora potrò rimanere a letto fino a mezzogiorno.» «Questo è proprio l'attrezzo che ho sempre cercato, fin da quando ho cominciato a lavorare!» esclamò Leprotto con un ampio sorriso. Keselo rivoltò il largo scudo di metallo per mostrare a Omago la parte interna. «Devi infilare il braccio in questa cinghia di pelle e stringere saldamente la sbarra. In questo modo lo scudo è come un'estensione del tuo braccio e puoi bloccare i fendenti assestati con le spade, o i colpi di punta delle lance. Le creature che abbiamo affrontato vicino a Lattash non avevano armi, tranne i denti velenosi e i pungiglioni, ma gli scudi impedivano che ci raggiungessero. Ne ho parlato con Leprotto stamattina e lui concorda con me che degli scudi di legno possono andare bene quanto quelli di metallo, dato che gli uomini-serpente non hanno asce o spade. Non riusciremmo comunque a mettere insieme abbastanza metallo per tutti voi, inol-
tre il legno è più leggero da portare, rispetto al ferro o al bronzo.» «Se lo scudo è di legno, Leprotto potrebbe attaccarci una punta di lancia nel mezzo, no?» suggerì Omago. Keselo sbatté le palpebre. «Non ci avevo mai pensato!» esclamò. «Come ti è venuta una simile idea?» «Sono due cose collegate. Una punta di lancia intinta nel veleno e fissata sullo scudo ci protegge meglio, se qualche nemico riesce ad avvicinarsi.» «Sei assolutamente un genio!» «Non mi spingerei così lontano», si schermì Omago, provando un po' di imbarazzo davanti all'entusiasmo del trogita. «Senti, questa cosa della falange a cui ha accennato il tuo comandante mi dà l'idea che richiederà parecchio esercizio.» Keselo annuì. «Almeno diverse settimane. Per formare una falange, dovete sovrapporre i bordi degli scudi in modo da creare una solida barriera sul davanti. Poi infilate l'estremità smussata della lancia sotto l'ascella destra e ne impugnate saldamente l'asta con la mano. Con la sinistra invece tenete lo scudo, anche quello con forza. Alla fine della giornata i muscoli delle braccia saranno indolenziti, ma dopo un po' passerà. Il segreto di tutta la faccenda è che i tuoi uomini non agiscono come individui, sono un'unità. Devono tenere ferme le lance e avanzare all'unisono. Faranno entrare le punte di metallo nei nemici camminando, invece di menare colpi.» «Ci vorrà un po' per abituarci», osservò Omago, dubbioso. «Sì. Cominceremo con la marcia all'unisono. Il piede sinistro di ognuno deve arrivare a terra allo stesso tempo. Dopo un po' diventerà una cosa naturale e sapranno farlo anche nel sonno... be', quasi.» «Fare il soldato è un po' più complicato di quanto pensassi.» «È meglio che fare il lavoro onesto», replicò Keselo con un lieve sorriso. «Le mie navi, Narasan, sono molto più veloci delle tue», dichiarò Sorgan Becco d'Uncino. Erano seduti a cena. «Io riuscirò a portare qui gli arcieri di Madonna Zelana in metà tempo di quanto farebbero quelle specie di chiatte che hai tu.» «E ne porterebbero soltanto la metà», replicò Narasan asciutto. «Possiamo stare qui tutta la notte a discutere che cosa è meglio: in fretta o tanti.» «Hai un senso dell'umorismo molto distorto.» «Nessuno è perfetto.» «Dov'è esattamente il confine fra il tuo Dominio e quello di Zelana?»
domandò Arcolungo a Veltan. «Non so se lo chiamerei confine», rispose lui. «Perché me lo chiedi?» «Gli arcieri sono quasi tutti cacciatori, e i cacciatori corrono più in fretta di chi sta sempre seduto in un posto. Qualsiasi nave, di Sorgan o di Narasan, dovrà seguire un lungo percorso. Gli arcieri potrebbero arrivare via terra, però. Se ricordo bene la tua mappa in rilievo, una linea diritta fra Lattash e casa tua sarebbe meno della metà rispetto alla distanza che dovrebbe coprire una nave.» Arcolungo guardò Sorgan con un lieve sorriso. «Potremmo correre, se vuoi, e magari fare anche una specie di scommessa.» «Sai, Sorgan, penso che punterò i miei soldi su Arcolungo», dichiarò Narasan. «Non contro di me, no di certo!» ribatté il capitano maag. «La cosa principale che ho imparato su Arcolungo è che non bisogna mai cercare di batterlo, in niente.» La mattina dopo un trogita dalla calvizie incipiente, di nome Gunda, arrivò dalla spiaggia per conferire con il suo comandante. «Ho fatto fare a uno scrivano una copia della mia mappa per Andar», riferì, «e lui porterà il resto dell'esercito attraverso quel canale che si è aperto fra i ghiacci. Poi ho comperato una piccola barca in modo da arrivare qui e vedere esattamente dove far sbarcare l'esercito. Quindi tornerò all'estremità superiore del canale e guiderò Andar fin qui.» «Quanto ci vorrà, più o meno?» domandò Narasan. «Probabilmente altre due settimane. Le cose hanno già cominciato a riscaldarsi, quassù?» «No, che sappiamo. Naturalmente, quando si ha a che fare con gli uomini-serpente non si può mai essere sicuri. Come mai non hai portato Padan con te?» «Be', è un po' nervoso, comandante. Quando arriverà qui, dovrà riferirti un paio di cose che non ti piaceranno.» «Quali?» «Devo interpretarlo come un ordine?» chiese Gunda. «Non vorrei che Padan cominciasse a chiamarmi spia.» «Allora consideralo un ordine. Che cosa è accaduto giù alla spiaggia?» «Ebbene, quando ieri mattina Padan si è svegliato, si è accorto che non c'era più la barca di Veltan.» «Eh?» esclamò Veltan.
«Sparita», confermò Gunda. «Ma non è finita. Padan mi ha riferito che il comandante Narasan ha degradato Jalkan e lo ha messo in catene. Dopo un po', è sceso nella stiva della nave dove Jalkan era stato incatenato alla parete e... sorpresa! Il prigioniero non c'era più. Suppongo che possa anche essere una coincidenza che la barca e Jalkan siano spariti la stessa notte, ma non credo che ci scommetterei un mese di paga.» Riflettendoci sopra, Omago si rese conto che gli stranieri erano molto più progrediti rispetto ai popoli della Terra di Dhrall, però la loro struttura sociale lasciava molto a desiderare. Erano un po' come dei bambini, solo che portavano armi letali e facevano la guerra per qualsiasi pretesto. Quell'aggressività infantile, però, era un vantaggio in quel momento di pericolo: Veltan e sua sorella avevano trovato esattamente il tipo di sicari a pagamento necessari per affrontare i servitori del Vlagh. Gli venne da sorridere. Gli stranieri erano parsi stupiti dalle parecchie innovazioni che aveva suggerito. Evidentemente tutti avevano inculcato in testa il pregiudizio sui «selvaggi primitivi». L'idea che qualcuno della Terra di Dhrall suggerisse dei miglioramenti nelle armi andava al di là della loro comprensione. Fino a un certo punto, era forse dovuto al fatto che nessuno di loro si rendeva conto del tipo di educazione che lui aveva ricevuto da Veltan, durante l'infanzia. Era abbastanza certo che nessuno straniero dell'Impero Trogita o della Terra di Maag avesse mai avuto un dio per insegnante. I «collegamenti» che gli erano venuti in mente erano una seconda natura per lui, infatti era abituato a ragionare risalendo dall'«effetto» alla «causa» e questo sembrava innaturale agli stranieri. Loro ragionavano nella direzione opposta: non si rendevano conto che la fonte di quasi tutte le invenzioni è «ho bisogno di qualcosa che faccia questo» e non «vediamo che cosa posso fare con questa cosa se la realizzo». Dovette però ammettere di aver commesso un grave errore. L'insulto di Jalkan era stato un'opportunità perfetta per eliminare quello che in seguito poteva rivelarsi un serio pericolo. «Avrei dovuto ucciderlo al momento», borbottò fra sé, rimpiangendo la propria indecisione. «Narasan si era spinto al punto di offrirmene l'opportunità, e io ci ho rinunciato, probabilmente perché non volevo offendere i trogiti. Sono quasi certo che non abbiamo chiuso con quel degenere sboccato.» Poi gli venne in mente una cosa. E se Ara avesse instillato deliberatamente la lascivia in Jalkan? Era quasi sicuro che avrebbe potuto. Di certo,
lo aveva fatto con lui, quando si erano incontrati per la prima volta nel frutteto. Soltanto vederla lo aveva reso suo prigioniero. Se Ara aveva davvero disposto la mente di Jalkan in quella direzione, era evidente dove voleva arrivare. Omago si maledisse. Non l'aveva assecondata. Lei di certo voleva che reagisse nel modo più primitivo, spaccandogli la testa, o sbudellandolo con quel coltello di ferro. «Se è questo ciò voleva realmente, vorrei che me lo avesse detto.» Si strinse nelle spalle. «Ah, be'», sospirò. «Magari la prossima volta.» Il tradimento 1 Jalkan di Kaldacin era l'unico membro superstite di una famiglia dell'Impero Trogita un tempo molto in vista. Parecchi suoi antenati si erano distinti servendo con onore nel Palvanum, altri erano stati consiglieri di imperatori che avevano lasciato una traccia importante nella storia. Nel corso degli anni, la famiglia aveva accumulato ricchezza, prestigio e potere e parecchi nomi di suoi illustri membri comparivano su monumenti pubblici. Nell'ultimo secolo, però, aveva subito un rapido declino. Alcune generazioni di fannulloni ne avevano dilapidato le ricchezze in bagordi, gioco d'azzardo, eccessi alcolici. I creditori si erano rivolti ai tribunali, con il risultato che parecchi predecessori di Jalkan avevano vissuto gli ultimi anni in una o l'altra delle prigioni per via dei debiti accumulati. Quando lui aveva raggiunto l'età adulta, la reputazione della sua famiglia era irrimediabilmente macchiata e gli si aprivano ben poche occasioni di carriera. Aveva pensato di associarsi a una delle coalizioni economiche trogite che al momento stavano ammassando grandi fortune nella Terra di Shaan. L'idea di imbrogliare quei selvaggi ignoranti e impadronirsi del loro oro aveva un certo fascino, ma l'aveva scartata quando era giunta la notizia di un disastro colossale. Evidentemente, qualche idiota che aveva alzato troppo il gomito si era vantato del proprio successo nel posto sbagliato e con le persone sbagliate, e i nativi di Shaan si erano scatenati in un massacro, banchettando con ogni trogita su cui riuscivano a mettere le mani. Non accettando l'idea di svolgere un lavoro onesto per una paga modèsta, Jalkan era approdato all'ultima spiaggia dei mascalzoni. Con gli abiti
più dimessi e l'espressione pia, aveva iniziato ad assistere alle sacre funzioni nel locale convenium amarita. Uno degli hiera minori lo aveva notato, segnalandolo all'oran. Questi aveva avuto un colloquio con lui e lo aveva accettato come novizio, chiedendogli poco più di un terzo del limitato patrimonio rimastogli, in segno di buona fede. Jalkan era trasalito, ma aveva accettato. I primi mesi del suo noviziato erano stati moderatamente sgradevoli, dato che la gerarchia amarita dedicava molti sforzi a scartare i neofiti eccessivamente indegni. Jalkan era stato abbastanza scaltro da non rubare troppo e gettare il discredito addosso ad altri novizi. I superiori avevano notato la sua astuzia, approvandola. Per Jalkan la meta più immediata come novizio consisteva nel raggiungere il rango di hiera. A uno hiera della fede amarita non era richiesto di svolgere il lavoro pesante, inoltre gli veniva assegnata una stanza singola. Quelle stanze, chiamate «celle», erano minuscole, ma erano molto meglio dei dormitori puzzolenti al pianterreno, dove i novizi stavano ammassati assieme come il bestiame in un recinto. Poiché si arrangiava a leggere e scrivere, i suoi compiti erano limitati più che altro all'amministrazione ed era rimasto stupito nello scoprire che quasi metà dell'impero apparteneva alla chiesa amarita. Le vaste tenute della chiesa fornivano all'impero la maggior parte del cibo (per un prezzo considerevole) e gli affitti di vari edifici nella capitale, Kaldacin, rendevano somme straordinarie. Un tetro pomeriggio di fine inverno, Jalkan s'imbatté in un antico documento sulla chiusura di un convenium in stato di abbandono in uno dei distretti più poveri di Kaldacin. Se il documento sbiadito dal tempo diceva il vero, la struttura era rimasta chiusa per quasi un secolo e le registrazioni finanziarie della chiesa mostravano che in tutti quegli anni non aveva fatto guadagnare un solo centesimo. Se le cose stavano così, si rese conto Jalkan, lui era l'unica persona al mondo a sapere dell'esistenza di quell'edificio. Sopraffatto dalla curiosità, si infagottò nel mantello pesante e attraversò la città, per vedere con i propri occhi. Trovò un muro di pietra sgretolato che circondava la vecchia struttura, quasi completamente nascosta da alberi e arbusti. Rimase deluso. Aveva sperato di trovare qualcosa di valore, ma era evidente che da quel posto non si poteva ricavare nulla. Bastava uno starnuto
e sarebbe crollato. Poi, mentre si voltava disgustato per andarsene, colse con la coda dell'occhio un luccichio, attraverso un'asse crepata che copriva parzialmente una finestra. A meno che non stesse andando a fuoco, l'antico edificio non era deserto come pareva a prima vista. Jalkan si arrampicò sul muro di cinta, dove c'era un varco, e si avvicinò alla scalcinata costruzione. E udì delle voci. Si sollevò sulla punta dei piedi per sbirciare attraverso le crepe dell'asse sulla finestra. All'interno un uomo estremamente grasso sedeva a un rozzo tavolo alla cui estremità era posata una lampada fumosa. Il grassone reggeva un magnifico vassoio di metallo. «Questo è argento massiccio, Esag», stava dicendo. «Vale molto più di una corona d'oro.» «Ne varrebbe anche una e mezzo, Rabell, ma ha quello stemma inciso sopra, quindi non posso metterlo nella vetrina della mia bottega. Se quello stupido aristocratico a cui i tuoi lo hanno rubato passa per caso di lì e lo vede, avrò la legge addosso prima che cali il sole.» Jalkan rimase quasi senza fiato. «È una tana di ladri! E non ci pagano nemmeno una monetina per usare questo posto!» «Posso darti il vassoio per due corone, Esag», concesse il grassone, «non per meno.» «Sei un imbroglione patentato!» grugnì Esag. «Non devi comperarlo, se non vuoi. Ho un sacco di altri clienti.» Esag trasse dal borsellino due corone d'oro, le sbatté sul tavolo e se ne andò con il vassoio d'argento. A quel punto, uscì dall'ombra un uomo con una bambina al fianco. «Contratti davvero bene, Rabell», si complimentò con voce rauca. «Avrei potuto farmi quell'idiota a colazione in qualsiasi momento, Grol», replicò Rabell con un ghigno, e tese una delle due monete d'oro. «Ecco la tua metà, amico mio.» «Volevo proprio parlarti di questo», disse Grol. «Mi sembra che tu non sia tanto equo. Voglio dire, Pupetta e io siamo una specie di soci, e lei non ha la sua parte.» «Vedetevela fra voi due. Metà e metà è il nostro accordo standard. Tu e Pupetta rubate la merce, io la vendo.» Grol borbottò un po', ma prese la moneta. «Non so per quanto ancora Pupetta riuscirà a rubare», disse. «Sta diventando tremendamente grassa, non so per quale motivo, e le è sempre più difficile intrufolarsi nelle case attraverso le finestrelle. Non passerà molto tempo prima che dovrò tro-
varmi un altro bambino al posto suo.» «Questo è un problema tuo, Grol. E adesso vattene. Ci sono diverse altre persone che aspettano per mostrarmi che cosa hanno rubato.» Quella notte Jalkan non dormì bene. Come membro del clero, era suo dovere riferire la questione al suo oran, Paldor, ma lo conosceva abbastanza per immaginare che non avrebbe detto niente ai superiori e sarebbe andato dritto da quel grassone, Rabell, per chiedergli una percentuale consistente dei profitti. Certo, Paldor gli avrebbe mostrato gratitudine, ma non abbastanza da dividere quei profitti con lui. C'era un'alternativa, naturalmente, ed era molto, molto più attraente che fare il proprio dovere. «Questa è proprietà della chiesa, Rabell», annunciò Jalkan al grassone il pomeriggio dopo, quando tornò nello scalcinato convenium. «Non puoi semplicemente arrivare qui e appropriartene, senza l'autorizzazione della chiesa. Penso che ti troverai in un mare di guai.» «Non agitarti!» Rabell aveva una nota di rassegnazione nella voce. «Sarò fuori di qui prima che cali il sole.» «Non dicevo che devi andartene. Intendevo solo che dovresti pagare la chiesa per l'uso di questo splendido convenium. Penso che la parola sia 'affitto'. Se paghi, puoi rimanere.» «Arriva al punto. Quanto vuoi?» «Ah, non saprei. Metà mi sembra giusto.» «Scordatelo. Posso aprire bottega da qualche altra parte.» «Ehi, calma! Era solo un suggerimento. Sono aperto alle trattative.» «Niente trattative, se non la pianti di mentirmi. La chiesa non c'entra niente, e tutti i quattrini che ti darò finiranno direttamente nella tua scarsella. Non è questo che covavi nella tua mente avida?» «Be'...» «Lo pensavo. Non sbattere le palpebre: se lo fai, quando riaprirai gli occhi non sarò più qui.» «Potrei renderti il favore alla grande», si affrettò a dire Jalkan, un po' disperato. «Che sia davvero alla grande», grugnì Rabell. «Sono uno hiera della chiesa amarita e sono stato spesso nei palazzi dei prelati di rango più elevato. Posso dirti esattamente dove si trovano gli oggetti preziosi. Questo dovrebbe valere qualcosa, non trovi?»
«Be', forse. Devo anche sapere quanto sono ben custoditi quei palazzi. I bambini che utilizziamo per i furti sono estremamente preziosi, quindi non voglio correre rischi con loro.» «Come hai fatto a escogitare questa idea?» Jalkan era curioso. «Dove sei stato finora? Questa cosa va avanti da generazioni. Quando ero bambino ero il ladro migliore dell'intera città. Potevo passare tra le sbarre di qualsiasi finestra e, se non c'erano finestre, strisciavo attraverso i buchi dei topi.» Si portò le mani alla pancia. «Però da allora sono ingrassato parecchio.» «L'ho notato. Che ne dici, allora? Le informazioni che ti darò su dove si trovano gli oggetti preziosi valgono una parte equa del bottino?» «Possiamo fare una prova. Ma l'accordo riguarda solo quello che otterrò dai palazzi che mi segnali tu. Ho parecchie squadre al lavoro e svaligiano le case più eleganti della città.» «Però non capisco una cosa», ammise Jalkan. «Non potresti fare più soldi eliminando gli intermediari che dicono ai bambini in quali case andare?» «Vorresti farmi stare di guardia per strada, mentre i bambini sono dentro a rubare? Sei matto?» «Ah, immagino che questo abbia senso.» «Parliamo di affari», propose il grassone. «Ho bisogno di saperne un po' su uno di questi palazzi del clero, prima di rischiare un bambino.» «Ho in mente il posto giusto», gli assicurò Jalkan fregandosi le mani. «Come vanno le cose?» domandò Jalkan a Rabell qualche giorno dopo. «Meglio di quanto mi aspettavo. La casa che mi hai indicato era quasi una miniera d'oro. L'ho assegnata a Grol e Pupetta. Lei ha fatto otto viaggi avanti e indietro tra la cucina e la finestra per passare tutto il bottino. Quel servizio di piatti e l'argenteria hanno reso un sacco di grana.» «Ho guardato anche in altre case. Ce n'è un paio che potremmo prendere in considerazione. Regoliamo i conti, poi ne parliamo.» 2 «Penso di aver offeso il mio oran», si lagnò Jalkan con il vecchio servitore dell'adnari Radan. «Sostiene che ci servono le misure esatte di ogni singolo edificio del clero in città, ma credo che menta. È il compito più noioso che mi abbiano assegnato dal mio ingresso nell'ordine e sarò vecchio
e grigio prima di arrivare anche solo a metà!» «Viviamo per servire», salmodiò quello, in tono devoto. «Oh, certo!» Jalkan era sarcastico. «È questo lo studio dell'adnari?» Indicò una porta molto decorata. «Non vorrei disturbarlo.» «È al convenium, in questo momento.» «Farò in un attimo. Sono certo che tu hai altre cose da fare. Non metterò in disordine e chiuderò la porta quando me ne andrò.» Il vecchio sorrise e si allontanò lungo il corridoio. Jalkan entrò nello studio. Guardandosi attorno, notò con piacere che era pieno zeppo di oggetti di valore. Si annotò quelli più interessanti. Radan aveva gusti molto costosi, e quel posto sarebbe finito sulla lista di Rabell. Tornò a casa e salì baldanzosamente la scala che portava alla sua cella al primo piano, fischiettando tutto allegro. Poi si bloccò. C'erano ad aspettarlo tre uomini dall'espressione spietata, nella caratteristica uniforme dei reguli, la polizia interna della chiesa amarita. Si voltò per ridiscendere le scale, ma i tre furono troppo rapidi per lui. Lo afferrarono e lo sbatterono contro il muro. «Sei in arresto, hiera Jalkan», gli annunciò uno di loro, con voce quasi annoiata. «Ma non ho fatto niente!» protestò lui. Con disinvoltura, un altro regulo gli affondò un pugno nello stomaco, lasciandolo senza fiato. Poi lo incatenarono. «Adesso vieni con noi», gli disse il terzo regulo «e se ci crei qualche problema, ti pesteremo fino a lasciarti tramortito.» «Quali sono le accuse?» chiese Jalkan. «Non è affar tuo. L'adnari Estarg ci ha detto di portarti dentro, ed è esattamente ciò che faremo.» Jalkan cominciò a tremare violentemente. L'adnari Estarg era l'uomo più potente della chiesa amarita e godeva di una reputazione terribile. La legge canonica vietava la pena di morte per i sacerdoti e anche per i novizi, ma era noto a tutti che Estarg sapeva escogitare forme di punizione che facevano rimpiangere la pena capitale. I reguli trascinarono il loro prigioniero tremebondo per le strade di Kaldacin, fino alla splendido palazzo adiacente al convenium che rappresentava il cuore della fede amarita. Quindi lo condussero su per una scalinata di marmo ricca di decorazioni, fino a uno studio lussuosamente arredato, al primo piano del palazzo. Lo spinsero in ginocchio davanti al trono dov'era assiso un uomo massiccio, nella tunica cremisi degli adnari.
«Il prigioniero Jalkan, eminenza», annunciò il regulo che sembrava guidare l'operazione. «Ottimo», replicò il prelato, sfregandosi le mani. «Vi ringrazio, signori, mi occuperò personalmente di questo miscredente.» «Come vuoi, eminenza.» I tre eseguirono un leggero inchino e si ritirarono. «Vergogna, hiera Jalkan», esordì Estarg, con un tono che pareva quasi divertito. «Vergogna, vergogna, vergogna. Che cosa dovrò fare con te, bambino cattivo? Ti rendi conto che hai profanato un convenium consacrato trasformandolo in un covo di ladri?» «Era abbandonato da tempo, eminenza», protestò Jalkan. «Questo non significa che la consacrazione fosse revocata.» «Non è stata una mia idea, eminenza. L'antico convenium era deserto da tanto tempo e il capo di una banda di ladri ci aveva installato la sua attività senza il permesso di nessuno.» «Come mai non lo hai riferito al tuo oran?» «Ebbene...» Jalkan cercò disperatamente una spiegazione che non lo mettesse ancora di più nei guai. «Sto aspettando, Jalkan.» «Ho perso la testa, eminenza», confessò. «I ladri facevano montagne di soldi, e...» non finì la frase. «E hai colto l'occasione di portargliene via un bel po', eh?» «Solo un quarto», protestò Jalkan. «All'inizio ho pensato di poter ottenere di più, ma Rabell non ne voleva sapere.» «Rabell?» «Il grassone che ingaggia i ladri. Loro rubano e lui vende la refurtiva. La parte veramente furba del piano è che usano i bambini.» L'adnari Estarg tirò su la testa di scatto. «I bambini?» esclamò. «Quale parte svolgono i bambini?» «Sono loro quelli che compiono materialmente i furti, eminenza. Da quanto ho capito, sono anni che i ladri usano i bambini. La gente che ha oggetti di valore di solito ha le sbarre alle finestre, ma i bambini che usa Rabell sono talmente piccoli che passano attraverso le sbarre e riescono a entrare dappertutto. Rabell dice che, quando era bambino, era il ladro migliore di tutta Kaldacin.» «E tu che parte svolgevi esattamente in questo grandioso piano?» «Ehm... preferirei non dirlo, eminenza», rispose Jalkan, nervoso. «Sono certo che i reguli sapranno trovare un modo per farti cambiare i-
dea, hiera Jalkan.» Il tono dell'adnari era molto minaccioso. «Be'... io segnalavo gli indirizzi con gli oggetti preziosi.» «E come facevi a entrare in quelle case?» «Ecco, sono soprattutto le dimore e i palazzi dei membri più ricchi del clero. Dicevo che ho l'incarico di misurare esattamente le dimensioni degli edifici perché devono essere annotate nel registro della chiesa. Questo mi apriva tante porte. Quando trovavo un palazzo con parecchi oggetti di valore, lo dicevo a Rabell e lui organizzava il furto. A me veniva un quarto del ricavato. Ha ladri che depredano anche altri palazzi, ma io sono pagato solo per quelli che gli segnalo.» «Molto scaltro, hiera Jalkan», commentò l'adnari Estarg, «ma sai di aver commesso un crimine grave?» Jalkan ricominciò a tremare con violenza. «Non agitarti così, caro ragazzo. Penso di aver trovato un modo per farti espiare il peccato che hai commesso... ma a un prezzo. Tutto ha un prezzo, lo avevi notato?» «Pagherò qualsiasi cosa, eminenza», giurò Jalkan, con voce tremebonda. «Lo farai, certo. Adesso parliamo di affari. Su quanti di questi bambini riesce a mettere le mani quel malfattore, Rabell?» «Non ne sono sicuro, eminenza. Non ho avuto contatti con i loro istruttori.» «Istruttori?» «Sono gli uomini che più o meno possiedono i bambini. Decidono loro in quale casa devono rubare e stanno di guardia fuori durante il furto.» «La nostra attività sembra molto bene organizzata.» «La nostra attività?» «Avviserai Rabell che adesso il socio maggioritario sono io. Emetterò un'ordinanza perché si rilevino le dimensioni degli edifici appartenenti alla chiesa. Questo ti permetterà di entrare in alcune case e palazzi di cui non conosci neppure l'esistenza. Il nostro glorioso naos, Parok VII, è talmente rimbambito che non distingue la notte dal giorno. Ciò significa che sono io, l'adnari più anziano, a governare la chiesa e quanto dico è legge. Il nostro primo passo consisterà nel fornire a questi 'istruttori' di cui parli le divise dei reguli. Nessuno osa discutere con i reguli. E farai meglio ad avvertire il tuo grasso amico che la situazione è un po' cambiata.» «Cambiata? Come?» chiese sospettoso il grassone nell'udire l'affermazione di Jalkan.
«Dopo aver fatto una visita al palazzo dell'adnari Radan, ho trovato ad aspettarmi a casa i reguli.» «I reguli?» esclamò Rabell. «Come fai a essere ancora vivo?» «Non sono sempre così feroci. Certo, mi hanno incatenato e trascinato dall'adnari Estarg.» Rabell divenne pallidissimo e cominciò a tremare. «Evidentemente, l'adnari aveva sentito delle voci su di noi, e mi ha estorto la verità.» «Se ci sbrighiamo, al tramonto possiamo essere già lontani da Kaldacin», squittì Rabell. «Non agitarti. Estarg, dopo aver saputo i dettagli dei nostri traffici, ha dichiarato che d'ora in poi prenderemo ordini da lui. Tra una settimana i nostri svaligeranno case di cui non conoscevamo nemmeno l'esistenza e gli istruttori che si occupano dei bambini indosseranno le divise dei reguli, così nessuno sano di mente interferirà.» Sul volto di Rabell si dipinse un'espressione di attonita meraviglia. «Diventeremo ricchi», ridacchiò. «Diventeremo più che ricchi! Se sto solo sognando, ti prego, non svegliarmi!» Il regulo che aveva arrestato Jalkan qualche mese prima bussò delicatamente alla porta della sua cella e questa volta fu molto più civile. «L'adnari Estarg desidera parlarti», gli annunciò in tono pacato. Attraversarono le strade di Kaldacin fino al palazzo di Estarg, che ricevette immediatamente Jalkan e lo informò: «Il santo naos Parok VII sembra avere seri problemi di salute. I suoi numerosi medici mi hanno avvertito che non durerà a lungo». «Pregheremo che guarisca, eminenza», salmodiò lui devotamente. «Sì, certo, ma non esagerare. Il divino Amar ha molto da fare adesso assicurarsi che le stagioni cambino, che il sole sorga e tramonti nei punti giusti... Tutte cose che assorbono tanto tempo al nostro dio. Parok ha avuto una vita piena. La chiesa sentirà terribilmente la sua mancanza, ma il tempo continua a scorrere e appena il vecchio stupido morrà dovrà essere sostituito.» «Ho un'idea precisa di chi salirà al sacro trono, quando il caro Parok ci lascerà», dichiarò Jalkan. 3
Le cose, però, non andarono esattamente come Jalkan ed Estarg si erano aspettati. Gli uomini razionali sapevano che il divino Amar, nella sua infinita saggezza, aveva scelto l'adnari Estarg perché succedesse al santo Parok VII come naos di tutto il mondo, ma gli eretici del Sud fecero di testa loro e, senza consultazioni di alcun tipo, elevarono al trono di naos il semisconosciuto oran di nome Udar. I membri del clero della potente Kaldacin pensarono che ciò fosse tremendamente buffo e risero forte e a lungo di questa colossale assurdità. Le risate si affievolirono, però, quando dodici eserciti marciarono dal Sud e circondarono la potente Kaldacin. Gli abitanti della città pensarono che la cosa non fosse appropriata e si rivolsero ai vari eserciti i cui accampamenti si trovavano entro le sue mura. Le truppe, però, seguirono il consiglio del noto comandante Narasan quando dichiarò: «Noi non ci lasciamo coinvolgere da battibecchi religiosi». «Ma allora che cosa faremo?» gemettero le autorità civili e religiose. «Vi consiglio caldamente di capitolare. Comunque, la scelta sta a voi», rispose Narasan, si voltò e se ne andò. Il governo imperiale si dissolse e gli eserciti del Sud incontrarono scarsa resistenza e marciarono attraverso le porte della città. Occuparono il palazzo imperiale e il sacro convenium della chiesa amarita. Gli eretici del Sud emanarono parecchi ultimatum rivolti alla vera gerarchia ecclesiastica; erano espressi in modo formale ma il significato era evidente: «Se non fate esattamente come diciamo noi, vi uccideremo». La cerimonia che elevò Udar alla carica di naos durò meno di mezz'ora, e ancor meno il discorso di accettazione di Udar IV, che dichiarò: «Il divino Amar mi ha inviato a ripulire la chiesa e io gli obbedirò. Se qualcuno mi intralcia, lo calpesterò nella polvere». A quel punto, Jalkan si sentì gelare. «Qualcuno ha intenzione di parlare a difesa di questo sudicio miscredente?» domandò il giudice amarita dalla ricca veste, scoccando al prigioniero incatenato uno sguardo che rivelava il più profondo disprezzo. Jalkan si fece piccolo e guardò speranzoso il suo amico, l'adnari Estarg, che però distolse gli occhi. L'ultima speranza svanì. «Non penso», dichiarò il giudice. «Purtroppo, la legge ecclesiastica proibisce la condanna capitale di qualsiasi membro del clero, sebbene di
un rango non elevato, come l'accusato. È decisione della corte che egli sia condotto sulla pubblica piazza e lì riceva cinquanta frustate e poi sia bandito dal clero. Si diffonda quindi parola che nessun aderente alla fede amarita abbia contatti con questa vile bestia, né gli fornisca cibo o riparo finché vivrà. E ora levatemi dalla vista questa spazzatura.» I reguli denudarono Jalkan, lasciandogli solo il perizoma, lo incatenarono al palo nel mezzo della piazza e lo frustarono fin quasi a togliergli la vita, ignorando le sue grida e le implorazioni di misericordia. Quando gli tolsero le catene, balbettava e sanguinava copiosamente. Afferrò le vesti e fuggì, seguito dalle risate di scherno della folla che si era raccolta ad assistere alla sua punizione. In un vicolo appartato si rivestì, imprecando in continuazione. Andava tutto così bene, fino a quando il maledetto Udar non aveva usurpato il divino trono del naos, facendo andare a pezzi il mondo di Jalkan. Estarg lo aveva tradito per proteggere se stesso, ma probabilmente non aveva avuto altra scelta. Al momento, Jalkan doveva fare una cosa importante: era assolutamente necessario per lui ritornare nella propria cella a prendere i vestiti e gli altri effetti personali, prima che la sua espulsione dalla chiesa divenisse di pubblico dominio. Ciò a cui teneva di più era la scarsella nascosta sotto il giaciglio. Nelle condizioni in cui si trovava, quel denaro gli era assolutamente necessario: senza di esso sarebbe stato un indigente privo di qualsiasi prospettiva. Fortuna volle che il novizio di guardia alla porta del dormitorio fosse mezzo ubriaco e gli fece cenno di passare. Quando entrò nella cella, Jalkan emise un sospiro di sollievo. Nulla era stato toccato... per il momento. Si tolse la veste da ecclesiastico e indossò i suoi abiti migliori. Poi prese la scarsella dal nascondiglio e la infilò nella gamba di uno stivale. Il recente rifiuto del comandante Narasan di lasciarsi coinvolgere nei dissidi religiosi apriva un'interessante possibilità. Jalkan era certo che la sua scarsella colma di corone d'oro avrebbe attirato l'immediata attenzione di Narasan e una carriera come ufficiale dell'esercito sarebbe stata perfino più eccitante di quella ecclesiastica. 4
Jalkan si adattò con fatica alla vita militare. Essere membro del clero non comportava fare attività fisica, quindi non era troppo in forma. Fare otto chilometri di corsa tutte le mattina prima di colazione corresse questa mancanza nel giro di qualche settimana, ma non era una cosa che gli piaceva. Poi c'erano gli addestramenti nell'uso della spada e dopo pochissimo aveva cominciato a odiare il suo istruttore, un uomo quasi calvo, di nome Gunda. Jalkan si era fatto l'idea che, assieme al costoso grado da ufficiale nell'esercito di Narasan, si fosse comperato anche una certa quantità di rispetto, ma Gunda lo ricopriva di improperi coloriti e di ridicolo ogni volta che lui faceva il minimo errore. Con il tempo migliorò, ma continuava a non capire perché fosse necessario. Dopotutto, era un ufficiale. Avrebbe dovuto dare ordini, non spettava a lui ammazzare la gente con le proprie mani. Questo era un lavoro che spettava ai soldati comuni, non agli ufficiali. Dopo circa un anno, Jalkan cominciò ad adattarsi alla vita militare e giunse perfino a prenderci gusto. Poiché Narasan era forse lo stratega più dotato di tutto l'impero, le guerre per le quali veniva ingaggiato il suo esercito erano in genere alquanto brevi e il risultato finale del tutto prevedibile, talmente prevedibile che spesso il nemico capitolava appena si rendeva conto di avere di fronte l'esercito di Narasan. A Jalkan questo andava decisamente a genio. La paga era buona e non c'erano tanti pericoli. Gli venne da pensare che il tempo trascorso come ecclesiastico era stato sprecato. Era nato per fare il soldato. Durante il suo terzo anno nell'esercito, il padre di Keselo acquistò un brevetto da ufficiale per il proprio figlio. Dapprima Jalkan pensò che lui e il giovane aristocratico piuttosto contegnoso sarebbero diventati amici, ma Keselo si teneva sulle sue. Evidentemente, l'anno trascorso all'università di Kaldacin gli aveva dato un'opinione troppo elevata di sé. A quel punto, Jalkan gli voltò la schiena. In realtà, non aveva bisogno di amici. Poi, nella primavera del suo quinto anno da ufficiale, Jalkan seppe che un duca proveniente dal Sud dell'impero aveva fatto a Narasan un'offerta molto generosa, che riguardava la lotta in corso da quasi un anno contro un altro duca per annettere i possedimenti di un vecchio barone morto senza eredi. Il nobile che voleva ingaggiare Narasan pareva stufo del litigio inconcludente e aveva scelto un approccio più diretto.
Il denaro era tanto e il comandante Narasan aveva accettato, ma in seguito saltò fuori che l'altro duca aveva assoldato addirittura tre eserciti. Il risultato fu disastroso. Jalkan non capì mai appieno la reazione di Narasan agli sfortunati eventi nel Sud dell'impero. Durante la battaglia erano state annientate dodici coorti, ma solo pochi ufficiali erano caduti. La vasta maggioranza delle vittime era composta da soldati comuni, quindi non significavano poi tanto. Narasan però era sprofondato nel lutto. Poi aveva spezzato la propria spada e aveva lasciato l'accampamento dell'esercito e si era messo a elemosinare in una zona degradata di Kaldacin. Questo faceva nascere possibilità molto interessanti. C'erano parecchi ufficiali di grado superiore a Jalkan, certo, ma quello non era un ostacolo insormontabile. Lui conosceva alcuni sicari professionisti che in genere lavoravano per ecclesiastici di rango elevato. Una volta che Gunda, Padan e anche Keselo fossero stati eliminati, Jalkan sarebbe stato il logico successore di Narasan. Questi pensieri gli accesero un focherello nel cuore e cominciò a perfezionare i dettagli. Era evidente che i comuni soldati erano pagati troppo. Una volta assunto il comando, avrebbe dimezzato il soldo e avrebbe punito in maniera esemplare chi avesse protestato, in modo che il resto delle truppe avrebbe accettato la decisione del nuovo comandante. Se tutto fosse andato secondo i piani, il comandante Jalkan avrebbe messo da parte tanti soldi quanto l'adnari Estarg, e anche di più. Il suo futuro cominciava ad apparire sempre più radioso. Qualche mese dopo, arrivò a Kaldacin il maledetto Veltan e in meno di una settimana il grande piano di Jalkan si sgretolò miseramente. Narasan riassunse la sua carica e gli strappò via da sotto i piedi il glorioso futuro che lui già pregustava. Jalkan fece del suo meglio per nascondere il proprio disappunto, ma quando era solo trascorreva molto del suo tempo a inventare nuovi improperi. 5 Jalkan era convinto che lo straniero Veltan avesse imbrogliato Narasan durante le loro trattative, ma quando l'avanguardia dell'esercito giunse a Castano dopo la lunga marcia da Kaldacin, lo vide arrivare con un'instabile barca da pesca e consegnare dieci lingotti di ciò che sembrava oro puro.
Questo attirò decisamente la sua attenzione. Fece di tutto per essere presente nella cabina di Narasan, sulla larga nave che trasportava gli ufficiali al Nord, quando i lingotti furono caricati a bordo. Voleva sapere esattamente quale sarebbe stata la loro ubicazione. Narasan li ripose quasi distrattamente nel largo baule ai piedi del proprio letto e Jalkan pensò che fosse meglio tenere per sé l'interesse che provava per tutto quell'oro. Dopo che Narasan e Veltan ebbero preso il largo verso nord nella barca da pesca, Gunda assunse il comando dell'avanguardia e coordinò i preparativi per la partenza della flotta da Castano. Jalkan era angosciato per la madornale scelta che a quel punto aveva davanti. Sapeva esattamente dov'erano stivati i lingotti e il comandante non si era nemmeno dato la pena di mettere un lucchetto al baule. D'altra parte, Veltan aveva detto loro che la Terra di Dhrall aveva intere montagne d'oro che se ne stavano in attesa di qualcuno che andasse a prenderlo. Per andare sul sicuro, lui avrebbe potuto mettere le mani su quei dieci lingotti e sparire prima che qualcuno se ne accorgesse, però in quel modo le montagne d'oro della Terra di Dhrall non sarebbero più state alla sua portata. Fu sopraffatto da una specie di paralisi che gli impedì di scegliere. Poi la flotta salpò e la scelta si compì da sola. Jalkan cominciò a pentirsene quando la flotta raggiunse la fascia di lastroni di ghiaccio galleggianti che si estendevano tra l'impero e la Terra di Dhrall. Più che «lastroni», secondo Jalkan il termine giusto sarebbe stato «catena montuosa di ghiaccio». I canali percorsi dalle navi erano pericolosamente stretti e gli altissimi dirupi di ghiaccio, di un bianco azzurrognolo, si ergevano talmente che sembravano tagliar fuori il cielo. La sua mente fu invasa da tantissimi «se»: «Se cambia la corrente... Se il vento arriva da un'altra direzione...» Si rese conto che non era importante la causa, poiché l'effetto sarebbe stato lo stesso. Le montagne di ghiaccio si sarebbero lentamente ma inesorabilmente accostate, schiacciando le navi e quelli che c'erano a bordo, trasformando il tutto in schegge e poltiglia sanguinolenta. A quel punto scese sottocoperta e si rifiutò anche solo di guardare il ghiaccio che incombeva attorno a loro. *** Il tempo si era rimesso al bello quando la flotta entrò nel porto di un vil-
laggio di nativi chiamato Lattash, ma sui monti dietro di esso c'era ancora molta neve. Agli occhi di Jalkan quel villaggio era talmente primitivo che si aspettava di vedere gli abitanti camminare a quattro zampe come i cani e i trasandati pirati maag non erano tanto meglio. Questo però apriva delle possibilità. Un esercito bene addestrato poteva portar via a quei selvaggi qualsiasi cosa di valore senza la minima fatica. Jalkan era contentissimo di non aver rubato quei pochi lingotti: qui si profilavano svariate opportunità. Quando Narasan condusse lui e gli altri ufficiali in una caverna a conoscere la sorella di Veltan, Jalkan scoppiò quasi a ridere. Una caverna faceva pensare alla parola «primitivo» nel senso peggiore del termine. Poi vide Zelana e gli si fermò il cuore. Era di gran lunga la donna più bella sulla quale avesse posato lo sguardo. Il capo dei pirati, Sorgan, era tutta un'altra faccenda. Jalkan non aveva mai visto un uomo così massiccio, e quelli chiamati Bove e Zampa di Prosciutto erano ancora più grossi. Per qualche motivo sconosciuto, Narasan pareva pensare che il maag mingherlino ma muscoloso chiamato Leprotto fosse speciale. Il tempo sembrava passare con estrema lentezza mentre tutti loro aspettavano che la neve sui monti si sciogliesse, ma Jalkan non aveva fretta. E poi, un giorno, venne un vecchio appartenente a una tribù di nativi e raccontò a tutti loro una storia di uomini, molto pericolosi, che erano in parte serpenti. Quelle erano vere e proprie sciocchezze. Meno aveva a che fare con quei selvaggi superstiziosi, meglio era. *** La terrificante scoperta della realtà vera che stava dietro quella guerra tremenda fece quasi perdere il senno a Jalkan. Trascorse buona parte del suo tempo a pregare devotamente Amar affinché lo proteggesse, non solo dai malvagi uomini-serpente, ma ancor più dalla strega Zelana. Dopo quella che gli parve un'eternità, l'esercito di Narasan salpò verso l'estremità meridionale della Terra di Dhrall per combattere la guerra per cui erano pagati. Dentro di sé, Jalkan desiderava che continuassero ad andare a sud. Tutto, lì nella Terra di Dhrall, sembrava orrendamente innaturale. Jalkan trovò il Dominio di Veltan molto più attraente della regione controllata dalla sorella, dove le foreste lo avevano spaventato e dove i caccia-
tori primitivi che ci vivevano mostravano poco rispetto per le persone di rango superiore. Il fatto che lui era un ufficiale e un gentiluomo sembrava sfuggire loro. Almeno i contadini del Dominio di Veltan sembrava sapessero qual era il loro posto. Jalkan fece qualche domanda, con cautela, a un contadino di nome Omago riguardo le credenze religiose dei nativi e rimase sconcertato nello scoprire che quei selvaggi ignoranti non avevano nulla che somigliasse a una chiesa ed erano autorizzati a parlare direttamente con il loro dio, senza la mediazione del clero. Riuscì a non mostrare la propria indignazione e chiese subdolamente a quella testa vuota dove fossero le miniere d'oro, ma il tizio finse di ignorarlo. Jalkan imprecò fra sé e si allontanò. Era certo che prima o poi avrebbe trovato qualcuno più disponibile. Gli servivano le informazioni giuste per sfruttare le incredibili opportunità offerte dalla Terra di Dhrall. Salito con gli altri al castello di Veltan, nella «sala della mappa» Jalkan prestò poca attenzione alla lunga discussione tra Narasan e Sorgan sulle tattiche da scegliere per l'imminente campagna. Ormai gli era chiaro che la zona attorno alle Cascate di Vash era ricca d'oro. Non c'era altro motivo per difenderla, ed era altrettanto evidente che era quello a scatenare l'invasione nemica. Era tutto chiarissimo. L'eruzione del vulcano nel Dominio di Zelana aveva sepolto i depositi d'oro, quindi adesso bisognava proteggere disperatamente quelli nel Dominio di Veltan. Ora che sapeva che cosa stava veramente accadendo, il passo successivo sarebbe stato trarre profitto da quella conoscenza. Dopo un po' arrivò una contadina molto attraente ad annunciare che la cena era pronta e Jalkan le fece qualche complimento. Qualsiasi contadinotta dell'impero ne sarebbe rimasta lusingata, e nessun uomo avrebbe trovato niente da ridire, ma Omago ebbe la faccia tosta di reagire con violenza. Senza il minimo avvertimento, colpì Jalkan con un pugno alla bocca, mandandolo a terra. Lui si rialzò e afferrò il pugnale, ma il giovane Keselo, quell'insolente, trasse la spada e cominciò a minacciarlo. Jalkan si rivolse al loro comandante. La legge era chiarissima: qualsiasi contadino che colpisse un suo superiore doveva essere giustiziato sul posto. Narasan però si rifiutò di applicare la legge, non solo, gli revocò anche il grado che era stato pagato profumatamente. Poi, e questo parve incredibile a Jalkan, lo fece incatenare e trascinare giù al porto, dov'era ancorata la flotta, in attesa di una decisione finale.
La cosa che nessuno di loro sembrava aver capito era che i commenti di Jalkan volevano essere un complimento. 6 L'assoluta ingiustizia di cui era vittima colmò Jalkan di sdegno. I suoi diritti e privilegi di ufficiale erano stati violati ripetutamente, ma nessuno dei suoi compagni si era fatto avanti per protestare. Ormai era evidente che Narasan gli aveva venduto il grado solo per mettere le mani sul suo denaro, e adesso aveva colto l'opportunità di revocarglielo, tenendo il malloppo per sé. Questo colmava Jalkan di un risentimento immane e alimentava in lui la sete di vendetta. Considerò la questione e trovò una soluzione estremamente semplice. Conosceva bene certi membri di rango elevato del clero amarita ed era certo che la parola «oro» avrebbe attirato immediatamente la loro attenzione. L'unico problema era che, prima o poi, quell'oro avrebbe dovuto mostrarlo, per ottenere il loro sostegno. Ma non sarebbe stato un grosso problema. Sapeva esattamente dove mettere le mani per sbandierargliene davanti quanto nessun ecclesiastico avesse mai visto tutto insieme. Era ancora incatenato nella stiva della nave che serviva da quartier generale galleggiante, ma durante il suo noviziato nella chiesa amarita gli era capitato spesso di avere a che fare con porte chiuse a chiave e la serratura del lucchetto sulla catena non era tanto complessa. Quando Padan lo aveva perquisito, prima di confinarlo lì nella stiva, non aveva trovato lo stiletto infilato nello stivale, e quella lama lunga e sottile era l'ideale per scassinare una serratura. La libertà era a portata di mano. Essere liberi nella Terra di Dhrall non avrebbe significato molto, ma la soluzione a quel problema stava ancorata non lontano dalla sua prigione. Jalkan sorrise, cogliendo una certa giustizia in quella situazione: Veltan non era intervenuto quando Narasan aveva violato i diritti di un ufficiale, e inoltre andava molto fiero della sua barchetta. Jalkan aspettò qualche giorno, poi si tolse lo stivale che celava lo stiletto e si liberò dalle catene. Quando dal ponte gli arrivò solo il silenzio, si arrampicò sulla scaletta. Rimase per un po' acquattato nell'ombra, quindi, senza fare rumore, si diresse a poppa verso la cabina di Narasan. Forzò la serratura della porta ed entrò. Il baule era ai piedi del letto come lo aveva visto l'ultima volta: non chiuso a chiave. Frugando, trovò uno dei lingotti che il comandante vi a-
veva deposto con disinvoltura. A questo punto Jalkan si angustiò per la crudele decisione che si imponeva. Sapeva che avrebbe dovuto nuotare per raggiungere la barca di Veltan, e quindi non poteva portare con sé tutto l'oro. Mancò poco che la decisione di prendere solo due lingotti gli provocasse un crollo nervoso e una crisi di pianto. Imprecando tra sé, uscì dalla cabina, srotolò una delle scalette di corda disposte lungo la fiancata e scese in silenzio. L'acqua era molto fredda e il peso dei due lingotti gli rendeva estremamente difficile tenere la testa sopra la superficie. Quando raggiunse il piccolo peschereccio tremava violentemente per il freddo e la stanchezza. Si issò a bordo e rimase ad ansimare per un po'. Quindi impiegò quasi un quarto d'ora a segare la corda dell'ancora con un coltellino sfuggito anch'esso alla perquisizione. Ma infine la corda cedette e lui provò un'ondata di eccitazione. Era finalmente libero! Infilati i remi negli scalmi, si sedette al centro della barca e remò verso il mare aperto. Era quasi l'alba quando si sentì abbastanza al sicuro, per la distanza che aveva posto tra sé e la flotta. La leggera brezza che si era levata gli permise di ritirare i remi e di issare la vela. A sud si estendeva l'impero e Jalkan si mise al timone, virando in direzione di una ricchezza incalcolabile. L'adnari Estarg fissò ammutolito e incredulo il lingotto che Jalkan gli aveva appena messo in mano. «Perché lo fondono in pezzi come questo?» domandò. «Le monete non sarebbero più utili?» «Non lo usano come denaro, Eminenza», spiegò lui. «Sono dei primitivi e, da quanto ho capito, non sanno quanto è prezioso. Però sarebbero degli ottimi schiavi.» «Conversi, Jalkan, conversi», lo corresse l'adnari. «Non significa la stessa cosa?» «Suona più carino 'conversi', e continuiamo a usare questa parola, giustificherà ciò che stiamo facendo sotto gli occhi del santo Udar IV.» «È ancora vivo?» Jalkan fu sorpreso. «Avevo sentito delle voci, prima di partire con la flotta di Narasan... che l'alto clero aveva deciso di eliminarlo.» «È circondato da fanatici. I nostri sicari non riescono ad avvicinarlo.» Estarg socchiuse gli occhi, pensoso. «La terra che mi hai descritto potrebbe rivelarsi un'opportunità troppo grande per lasciarla perdere. Ci sono l'o-
ro e migliaia di potenziali schiavi. Ma la cosa più interessante è il fattore 'distanza'.» «Non ti seguo, Eminenza.» «Il naos mette le mani nella scarsella di ogni singolo ecclesiastico e ci deruba a più non posso. D'accordo che gli spetta una parte equa, ma la sua definizione di 'equa' va al di là di ciò che usava un tempo. Inoltre ha spie ovunque ed è quasi impossibile nascondergli i profitti. Da come la descrivi, la Terra di Dhrall è abbastanza lontana da tenere lontani i suoi segugi. Vedremo come si metteranno le cose, ma comincio ad avvertire odore di 'scisma'. Nella nostra nuova chiesa continueremo ad adorare Amar, ma non manderemo i nostri soldi qui a Kaldacin. Mercanti e commercianti saranno i benvenuti, ma gli agenti del Santo Udar cominceranno ad avere sfortunati incidenti, quando verranno in visita. Dopo un decennio circa, taglieremo tutti i legami con la chiesa dell'impero.» «Lui espellerà te e i tuoi amici dalla chiesa», obiettò Jalkan. «Ci proverà, ma noi ignoreremo i suoi proclami e uccideremo ogni regulo che invierà nella nostra parte del mondo. Alla fine coglierà il messaggio. Quanti eserciti credi che ci vorranno?» «Ci ho pensato parecchio mentre ritornavo in patria, Eminenza», rispose Jalkan. «Dovremmo iniziare con almeno cinque. Mezzo milione di uomini dovrebbero bastare per occupare la parte meridionale del Dominio di Veltan. Questo ci darà un buon punto d'appoggio. Veltan è concentrato su un'invasione proveniente da nord, quindi è improbabile che distacchi molte truppe per affrontare noi.» «Allora cominceremo con cinque», approvò Estarg. «Se occorrerà, ne ingaggeremo degli altri.» «Credevo che il tesoro della chiesa fosse ben difeso.» «Sì, lo è.» L'adnari si lasciò sfuggire un sorrisetto. «Ma non era certo pieno, quando Udar ha usurpato il sacro trono. Lo avevo svuotato appena avuta notizia dei dodici eserciti che marciavano da sud. Ho nascosto il denaro in un luogo sicuro, e solo io so dove si trova.» Dopo una breve pausa aggiunse: «Ti ricompenseremo per la tua scoperta». «Sì, Eminenza, lo farete di certo.» Il tono di Jalkan era sicuro di sé. «Dato che sono l'unico a sapere come raggiungere la Terra di Dhrall sono molto prezioso, non pensi?» Il paffuto adnari lo fissò con sguardo penetrante. «Pensavi che mi sarei limitato a girarmi dall'altra parte e far finta di niente? Che ne dici del venti per cento?»
«Il venti per cento di cosa?» «Di tutto, eminenza: l'oro, gli schiavi, la terra, tutto quanto.» «È oltraggioso!» esplose Estarg. «È il mio prezzo. Prendere o lasciare. Se non vuoi stare al gioco come lo imposto io, il mio ricordo della strada per arrivare alla Terra di Dhrall potrebbe cominciare ad affievolirsi. Non sono più un ecclesiastico, Eminenza, quindi non obbedisco automaticamente a chi sta a un livello più elevato. Ciò significa che questa volta sarò io a stabilire le regole.» Jalkan sentì scaldarglisi il cuore, nel vedere l'espressione costernata di Estarg. Mentre si dirigeva a nord, verso il porto di Castano, seduto in un'elegante lettiga portata da otto schiavi, Jalkan pensava a come garantire la propria sicurezza. Era l'unico, nell'imminente spedizione, ad aver visto la mappa della regione attorno alle Cascate di Vash e, poiché era ovvio che le miniere d'oro si trovavano lì, la sua familiarità con quella mappa gli garantiva la salvezza. Avrebbe dovuto metterlo bene in chiaro, una volta raggiunta la costa di Dhrall. Questa garanzia avrebbe però cominciato a dissolversi una volta individuate le miniere. Jalkan si scervellò per trovare una soluzione. La risposta era ovvia, ma non lo soddisfaceva molto. Avrebbe dovuto ingaggiare (e pagare) un buon numero di soldati professionisti che gli fungessero da guardie del corpo, e le paghe sarebbero state esorbitanti. Ancora peggio, se avesse tentato di ingannarli quelli se ne sarebbero andati, lasciandolo alla mercé di chiunque, o addirittura lo avrebbero ucciso. Proteggere se stesso e il proprio denaro sarebbe stato molto costoso. Jalkan sospirò dolorosamente. La ricchezza sembrava essere terribilmente scomoda. «Ah, be'», mormorò con una nota di rassegnazione. «È evidente che il prezzo della fama e della fortuna è molto alto.» Alzò le spalle. «Decisamente meglio che essere povero e disprezzato, immagino.» Interludio nella Terra dei Sogni Quella notte, il sonno di Eleria era agitato. L'Amatissima sembrava tornata quella di sempre, ma qualche indizio rivelava come il malessere che l'aveva spinta a fuggire dopo l'eruzione dei vulcani gemelli di Yaltar non fosse scomparso. Il suo ciclo era comunque vicino alla conclusione ed era chiaro che il bisogno di sonno le annebbiava la mente.
In circostanze normali ciò non avrebbe costituito un problema significativo, ma nella Terra di Dhrall la situazione non era affatto normale in quel momento, quindi era tempo di compiere certi passi. Eleria decise con rammarico che il tempo del gioco era finito, lasciando il posto al tempo delle «cose serie». Le barriere poste da Dahlaine, quando aveva risvegliato i giovani dei dal loro sonno e aveva dato loro un'infanzia, non erano molto solide. Balacenia le spinse da parte facilmente e la realtà si riversò su di lei. Il senso di dualismo (essere due individui separati e distinti) dapprima fu un po' inquietante, ma Balacenia, che non aveva mai avuto un'infanzia, provò gioia e diletto nei ricordi di Eleria, e l'affetto e l'adorazione che la bimba provava per Zelana le fecero salire le lacrime agli occhi. Indugiò un po', ma infine si decise ad accantonare le fantasticherie e a mettersi in contatto con i fratelli. Vash, naturalmente, fu il primo a rispondere, dato che le era stato molto vicino fin da quando era nato il mondo. «Mi hai chiamato, Eleria?» rispose con la voce impastata di sonno. «Non giocare allo stupido gioco di Dahlaine, Vash», lo stuzzicò Balacenia. «Se aggiri le sue fragili barriere, riacquisterai i ricordi e conoscerai la tua vera identità. Dobbiamo parlare di argomenti importantissimi, ma possiamo farlo solo nel sogno. Gli dei delle origini non devono sentirci.» Udì Vash restare senza fiato mentre la realtà lo sommergeva. «Hai fatto in fretta», osservò. «Tutto ciò è irreale!» esclamò lui. «Non abbandonare Yaltar, caro Vash», gli suggerì Balacenia. «I suoi ricordi sono tuoi, adesso, e sono tutto ciò che hai, quanto a infanzia. Va' nel luogo immaginario dov'eravamo soliti incontrarci e aspettami lì. Porterò Dakas ed Enalla non appena avrò aperto loro gli occhi.» «Ci sarò, cara sorella!» Quando Balacenia contattò Dakas, si sorprese nello scoprire che aveva già richiamato la realtà per conto suo. Essendo il più vicino a Dahlaine fra tutti loro, si era già accorto di quanto fosse ingannevole il più anziano dei loro sostituti. «Dov'è esattamente il luogo dove ci dobbiamo incontrare?» le chiese. «Non è un posto reale. È un prodotto dell'immaginazione. Lo abbiamo creato io e Vash per poterci scambiare delle visite. È più bello del mondo reale. Cerca il contatto con Vash, e ti ci condurrà lui.» «Ci sarò, sorella!»
Con Enalla fu più arduo. Si attaccava disperatamente ai ricordi d'infanzia di Lillabeth, che Aracia aveva viziato esageratamente, e detestava l'idea di crescere e accettare la sua vera identità. Balacenia dovette far valere la propria autorità di sorella maggiore. Quando si incontrarono, Enalla era un po' immusonita. Il luogo dove Balacenia e Vash si erano incontrati durante il loro ciclo precedente esisteva solo nell'immaginazione ed era di gran lunga più bello di qualsiasi luogo reale. L'aurora filtrò attraverso il cielo stellato sopra una scura foresta e i Sognatori fluttuarono lassù assorbendo deliziati quella bellezza. Balacenia si guardò attorno e sospirò. «Penso che faremo meglio ad affrontare l'argomento», disse con rincrescimento. «Ne sono certa, tutti noi concordiamo che il piano di Dahlaine era estremamente pericoloso, ma ora non c'è molto che possiamo fare al riguardo.» «Probabilmente hai ragione, sorella cara», convenne Vash, il volto illuminato dallo splendore tremolante dell'aurora. «Poiché nel nostro prossimo ciclo sarai tu la maggiore, penso che saremmo saggi a lasciarti decidere come dobbiamo affrontare la cosa.» Guardò gli altri due. «Avete da obiettare?» «Io sarò più che felice di lasciare quel fardello sulle spalle della nostra divina sorella», rispose Dakas. «Durante l'ultimo ciclo mi sono quasi spezzato la schiena.» «Nemmeno io ho nulla da ridire», si associò Enalla, quasi distrattamente, fissando la luce vorticare nel cielo notturno. «È quanto di più adorabile abbia mai visto», commentò. «Aspetta di vederla all'alba», disse Vash, tutto orgoglioso. «Bene, allora», esordì Balacenia. «Dovremo stare molto attenti a non sconvolgere l'equilibrio del mondo nel periodo in cui siamo svegli contemporaneamente noi e gli dei primordiali. È evidente che noi, mentre sogniamo, possiamo interferire con le forze naturali senza spaccare il mondo a metà, ma non credo che oseremo tentare qualcosa del genere da svegli.» «Io continuo a pensare che Dahlaine ha corso un rischio tremendo», osservò Enalla. «Il peso in più avrebbe potuto far cadere il mondo nel sole, lo sapete.» «L'alternativa non era molto attraente, sorella mia», le rammentò Dakas. «Il Vlagh, o qualunque sia l'entità che guida le creature della Terra Desolata, sta violando l'ordine naturale delle cose da tantissimo tempo, quindi noi dobbiamo pur correre qualche rischio.»
«Stiamo divagando», riprese la parola Balacenia, «e probabilmente non resta molto tempo prima che uno di noi si svegli. Io ho il forte sospetto che, se cominciamo a interferire apertamente con l'ordine naturale delle cose, il risultato potrebbe essere disastroso. Mentre dormiamo e sogniamo, possiamo fare quasi tutto, ma una volta svegli non più: non importa ciò che accade, dobbiamo sopportarlo fino a quando uno di noi si riaddormenta.» «Facile, sorella mia», intervenne Vash con un ampio sorriso. «Facciamo in modo che in ogni ora del giorno ci sia sempre uno di noi che dorme. Gli stranieri lo chiamano 'dormire durante il turno di guardia' e lo considerano un peccato mortale. Noi lo faremo al contrario, tutto qua. Se ognuno di noi dorme sei ore, avremo sempre qualcuno che fa la guardia agli altri tre.» «Penso che Vash abbia trovato la risposta ai nostri problemi», approvò Balacenia. «Se uno di noi dorme, è pronto a reagire alle mosse del Vlagh quasi all'istante. È evidente che il Vlagh ha aspettato deliberatamente di sferrare il suo attacco sino a quando gli dei delle origini non sono diventati molto vecchi e rimbambiti. Di tanto in tanto ho dovuto spingere Zelana con forza perché reagisse, e la cosa non mi è piaciuta affatto. Qualcuno di voi ha notato segni di un comportamento simile nei vostri anziani?» «Ultimamente Dahlaine è un po' svanito», confermò Dakas. «A volte dimentica che io e Artiglio Lungo siamo come fratelli e fa fatica a ricordarsi chi è il capo di alcuni villaggi.» «Veltan sembra a posto», rispose Vash, un po' dubbioso. «Però lui è sempre stato un po' sciocco. Mi sono talmente stufato di ascoltarlo quando va avanti a raccontare del periodo che ha trascorso sulla luna, però Ara mi dice sempre di non essere sgarbato.» «Ti sei molto affezionato ad Ara, vero?» gli domandò Enalla. «Le vogliono bene tutti. Omago è probabilmente l'uomo più fortunato del mondo, dato che è sua moglie.» «È un'ottima cuoca, questo è certo», concordò Dakas. «Le nostre controparti anziane non sanno nulla di cibo.» «Era così anche per noi, fino al periodo appena trascorso», gli ricordò Enalla. «Penso che ci siamo persi uno degli aspetti migliori della vita.» «Aracia è stata se stessa, ultimamente?» le domandò Balacenia. Enalla alzò le spalle. «È irritabile, e i suoi sacerdoti esagerano con quelle noiose cerimonie, per tenersela buona.» «A quanto pare, tutti loro stanno cominciando a cedere un po'», tirò le fila Balacenia. «Normalmente, questo non sarebbe un grosso problema, ma ci troviamo nel mezzo di una guerra, quindi dobbiamo intervenire, accor-
tamente, è ovvio, e svolgere le loro mansioni. C'è stata qualche occasione in cui ho dovuto rivolgermi direttamente ad Arcolungo perché le cose procedessero.» «Persuadere Arcolungo può essere ancora più difficile che convincere Zelana», osservò Vash. «Gli ci è voluto un po' per abituarsi», confermò Balacenia. Aggrottò leggermente la fronte. «Penso che dovremo serrare ancora di più i contatti fra noi. Il Vlagh sembra specializzato in sorprese, e noi dovremo essere pronti a rispondere immediatamente.» «Dahlaine ha capito tutto bene del tuo sogno, Dakas?» indagò Balacenia. «Abbastanza. Certo, non aveva tanto senso per me, quando mi sono svegliato. Non riesco assolutamente a cavarci fuori qualcosa a proposito della seconda invasione.» Dakas guardò Vash. «Credevo che i trogiti lavorassero per Veltan.» «Sì, per lo meno l'esercito di Narasan», confermò Vash. «Veltan non mi ha spiegato troppi dettagli su come lo ha ingaggiato e io non so come funzionano le cose nella terra dei trogiti.» Balacenia scorse una debole luce lungo l'orizzonte orientale. «È quasi mattina, quindi alcuni di noi ben presto si sveglieranno. Io rimarrò qui almeno fino a mezzogiorno. Non credo che ci saranno emergenze nell'immediato, ma sarò qui nel caso qualcuno di voi abbia bisogno di me.» «E quando ti viene sonno, chiamami», suggerì Dakas. «Posso addormentarmi in qualsiasi momento del giorno. Penso che sia perché sono cresciuto con gli orsi.» «E quando ti sveglierai, chiama me», si offrì Enalla. «Dormirò un pochino, poi chiamerò Vash. E dopo sarà di nuovo il turno di Balacenia.» «Un'ultima cosa: state molto attenti quando parlate con gli dei delle origini», avvertì Balacenia. «Io e Vash ci siamo confusi e abbiamo usato i nostri veri nomi nel riferirci l'uno all'altra. Se questo accade troppo spesso, cominceranno a insospettirsi. Manteniamoli contenti... e sonnacchiosi. Non vogliamo sappiano che siamo svegli, vero?» Tutti gli altri annuirono, quindi svanirono da quel mondo immaginario. Balacenia vagò da sola mentre l'orizzonte orientale diveniva sempre più luminoso e il sole sorgeva nella sua magnificenza, dando al cielo toni cremisi e rosati. Aveva il cuore colmo di tristezza. L'Amatissima era turbata nel profondo e il suo dolore gravava pesantemente sulla consapevolezza di Balacenia che apparteneva a Eleria. Poi accadde una cosa impossibile. Dalla luce dell'alba si staccò la figura
di una donna che entrò nel mondo creato dall'immaginazione combinata di Balacenia e Vash. «Ben fatto, mia cara», disse a Balacenia, con voce vibrante. Lei riconobbe immediatamente quella voce e per qualche motivo non fu affatto sorpresa che Ara fosse comparsa in quel luogo immaginario. Accolse con un cenno di assenso la bella moglie di Omago. «C'è una cosa che avrei sempre voluto chiederti», le disse, «e forse questi sono il momento e il luogo giusti. Ho l'assillante sensazione di averti già incontrata in precedenza. È accaduto davvero, non è così?» «Oh, sì», rispose Ara con un sorriso affettuoso, «ma tanto, tanto tempo fa, un tempo lontanissimo anche per te.» Tese le braccia e Balacenia corse da lei, senza nemmeno pensarci. «Stai facendo bene, cara», la rassicurò Ara, stringendola in un abbraccio. «Non ero del tutto sicura che il piano di Dahlaine avrebbe funzionato, ma tu sei riuscita a gestire la transizione senza complicazioni, in modo che non si notasse nemmeno un indizio di ciò che stava accadendo quando ti sei resa conto di chi eri veramente.» «È solo che il piano di Dahlaine, secondo me, non si spingeva abbastanza in là. Per Eleria questo costituiva una spina nel fianco e l'idea, a pensarci bene, è venuta dalla parte di me che era lei. La bimba sapeva che tutti e quattro i Sognatori avrebbero avuto bisogno di aiuto, così mi ha chiamato.» Balacenia sorrise. «Prima di allora nessuno mi aveva mai svegliato e i suoi ricordi d'infanzia mi hanno fatto venire le lacrime agli occhi.» «Devi essere un po' cauta quando Eleria ti avvince con il suo fascino. Per tanti versi lei è te, ma ha le sue piccole idiosincrasie. Giocare con i delfini potrebbe aver avuto qualcosa a che fare al riguardo. Ti abituerai a lei, ma ci vorrà un po'. Nel frattempo, prenditi cura di Zelana. Non è se stessa, adesso.» «Starà meglio, vero?» Balacenia era molto preoccupata. «Probabilmente non questa volta. Ora si sta avvicinando al suo ciclo di sonno, e accade un po' più in fretta di quanto Dahlaine aveva previsto, ma posso badare a questo. Per ora, dai conforto alla tua Amatissima e tienila al sicuro, e lascia a me il resto. Ora torna a dormire, bimba cara. Domani è un altro giorno.» E Balacenia si svegliò e si ritrovò nel letto di Eleria. L'uomo d'onore
1 Narasan era nato nell'accampamento dell'esercito paterno e quindi, in un certo senso, era stato nell'esercito per tutta la vita e l'idea di diventare un mercante o un membro del governo non gli era mai passata per la mente. L'accampamento si trovava originariamente alla periferia di Kaldacin, la capitale dell'Impero Trogita, e copriva diverse decine di ettari. Con l'espandersi della città, questa lo aveva gradatamente circondato e diverse personalità altolocate del governo guardavano con avidità a quella distesa che poteva dare grande ricchezza. C'erano state frequenti offerte di acquisto, ma gli antenati di Narasan si erano sempre rifiutati di discutere la questione. All'epoca di suo padre, quella zona era diventata una sorta di città, con gli edifici amministrativi, le abitazioni degli ufficiali, i baraccamenti delle truppe, le armerie e i magazzini; c'erano inoltre vastissimi terreni per l'addestramento, le parate, le esercitazioni. Il tutto era separato dalla città da mura alte e robuste, con porte ben sorvegliate. Le costruzioni di pietra all'interno del perimetro erano tutte delle stesse dimensioni e uniformi nello stile, con i muri di intonaco bianco e i tetti di tegole rosse e, nell'insieme, davano un senso di ordine e di stabilità che la città in continuo cambiamento non poteva eguagliare. Da piccolo, Narasan aveva guardato spesso oltre le mura, ma non aveva mai sentito l'esigenza di uscire. Tutto ciò che gli serviva era lì, quindi perché andare nella città? Le famiglie degli ufficiali avevano a disposizione per i loro figli delle stanze da gioco ben sorvegliate, ma i maschietti, raggiunta una certa età, non giocavano più negli stessi locali delle bambine. Le mogli degli ufficiali, per qualche motivo, avevano delle obiezioni al riguardo. Forse erano gli stessi motivi per cui anche i campi gioco all'aperto erano sempre stati separati dai terreni destinati all'addestramento e alle esercitazioni dei soldati. Le madri trovavano offensivo il linguaggio a volte usato dalla truppa, quindi cercavano di proteggere i loro pargoli. Narasan e i suoi amici, ancora in tenera età, trascorrevano buona parte del tempo a giocare alla guerra, armati con spade e scudi di legno, sotto l'occhio vigile di qualche vecchio veterano disabile che impartiva loro istruzioni su come si marcia e si tira di scherma e impediva che si facessero male. Nell'infanzia, gli amici più cari di Narasan erano stati Gunda è Padan, entrambi figli di sottufficiali, e lui non aveva mai sbandierato la superiorità
di grado del padre: gli sembrava inappropriato e anche disonorevole. Gunda era robusto e fin da piccolo aveva dimostrato una certa abilità con la spada. Padan era più snello e pareva trovare divertenti cose che secondo Narasan non lo erano affatto. Con il tempo, Narasan cominciò a rendersi conto che il loro campo giochi all'ombra dei bianchi alloggi degli ufficiali non era tanto diverso dai campi di addestramento per le truppe. I bambini giocavano ai soldati fino a che erano abbastanza grandi per diventare soldati veri. Questo al giovane Narasan sembrava molto appropriato. «Il mio papà non mi ha detto come è successo», annunciò Gunda un gelido mattino mentre erano fuori a giocare, «ha detto solo che il papà di Padan è rimasto ucciso durante l'ultima guerra a sud. Forse è per questo che negli ultimi giorni Padan non si è visto.» Narasan rimase sbalordito. Sapeva che a volte i soldati morivano in guerra, ma era la prima volta che accadeva al padre di uno dei suoi amici più cari. «Che cosa pensi che dobbiamo dirgli quando torna?» domandò. «Come faccio a saperlo?» «Forse dovremmo parlare con un sergente. Nelle guerre si rimane uccisi. È questo che sono le guerre, no? Sono certo che è già successo, quindi qualche sergente un po' anziano ci può dire cosa fare.» «Forse hai ragione. Però, quando saremo cresciuti, potremmo combattere contro l'esercito che ha ucciso il padre di Padan. Se li distruggiamo tutti, forse Padan si sentirà meglio, non pensi?» «Potresti aver ragione», convenne l'amico. «Scoprirò quale esercito è stato e ci getteremo contro di loro, quando avremo noi il comando.» Lanciò un'occhiata attraverso il campo giochi. «Però non so se dovremmo dirlo a qualcuno. Potrebbero pensare che non è tanto onorevole serbare un risentimento come questo.» «È tutto quello a cui pensi sempre, eh? Suppongo che dobbiamo essere piuttosto onorevoli, ma quando qualcuno fa del male a uno dei nostri amici, l'onore va a quel paese, e prevale la rivalsa.» «Potresti aver ragione, ma non penso che dovremmo dire cosa abbiamo intenzione di fare.» «Sarai tu a diventare comandante, Narasan, quindi faremo come vuoi tu.» «È stato forse cinquanta o sessant'anni fa. Gli eserciti decisero di non la-
vorare più per l'imperatore o per il Palvanum, che c'aveva quei conti e baroni che passavano tutto il tempo a fare discorsi», raccontò ai bambini il vecchio e incartapecorito sergente Wilmer un pomeriggio piovoso in cui non si poteva giocare all'aperto. «È stato quando i palvani hanno deciso che noi soldati eravamo pagati troppo. Certo, era un periodo di pace e le truppe non c'avevano altro da fare che lucidare le spade e giocare a dadi. Così gli hanno dimezzato la paga. Però hanno anche deciso che loro, i palvani, non ricevevano abbastanza per tutti i discorsi che facevano, e in gran segreto si sono aumentati di parecchio la propria paga.» «Possono farlo?» domandò Padan. «Possono allungare la mano e prendere quanti soldi vogliono dal tesoro dell'impero?» «Be', a quanto pare, pensavano di sì. Però, quando i comandanti dell'esercito lo vennero a sapere, si misero tutti assieme e decisero che lavorare per quei citrulli non era mica divertente, e così se ne andarono. Ma restarono qui nell'accampamento. Per un po' le cose furono un tantinello tese. Poi dei duchi e dei baroni nelle province orientali decisero che non volevano più stare nell'impero, così la smisero di pagare le tasse, chiusero i confini e impiccarono ogni esattore di tasse che riuscivano a metterci sopra le mani.» «Questo non è contro la legge?» chiese Gunda. Il sergente Wilmer rise. «Quei cretini non c'avevano più gli eserciti che potevano andare da duchi e baroni a dirgli che infrangevano la legge! Allora i palvani si misero a scrivere gli ordini per gli eserciti, di andare là a dargli una ripassata e fargli pagare di nuovo le tasse, ma i comandanti dissero ai palvani dove si potevano ficcare quegli ordini.» Narasan e gli altri ragazzi risero. «Be'», continuò il vecchio sergente, «non gli c'è voluto tanto a quei cretini del Palvanum a capire da che parte tirava il vento, così sono venuti qua a dire ai soldati che erano più che contenti di pagarli come prima di aver dimezzato il soldo, ma loro c'hanno detto di no. C'hanno detto che ci voleva almeno il doppio, per farli interessare alla cosa. Ah, mai sentiti tanti strepiti e grida!» Si appoggiò allo schienale della sedia e sorbì una lunga sorsata di birra. «I palvani se ne tornarono in quel loro posto elegante a fare discorsi per una settimana o due, e intanto altre due province orientali si unirono alle altre, e quegli imbecilli teste vuote all'improvviso si svegliarono. Se le cose andavano avanti così, dopo un mese non c'era più l'impero! Allora tornarono di corsa qui a dire ai nostri comandanti che avrebbero pagato quanto volevano ma loro gli dissero: 'Noi non marciamo fino a che
non vediamo i soldi'. Altre grida, altri strepiti, ma ormai i palvani sapevano che i nostri comandanti facevano sul serio e pagarono le truppe quanto gli dovevano, e la cosa finì così.» «E come andò la guerra?» volle sapere Narasan. Il sergente sbuffò. «Non è stata una vera guerra, ragazzo! Quando quei duchi e baroni videro dieci eserciti marciare verso di loro si arresero immediatamente.» Dopo aver portato di nuovo alle labbra il boccale di birra, con espressione seria e abbandonando il colorito dialetto aggiunse: «Quando riceverete la vostra educazione formale, può darsi che vi rifilino una storia del tutto diversa, ma ciò che vi ho raccontato è veramente accaduto. Me lo ha riferito il mio sergente quando non ero molto più grande di voi. Di tanto in tanto, gli insegnanti tentano di ripulire il passato, ma di solito gli avvenimenti reali sono spietati. Il mondo là fuori non è per niente carino come alcuni vorrebbero che fosse, quindi non bevetevi quello che vi raccontano i vostri insegnanti altolocati, senza prima dare un'occhiata di persona!» Narasan mise da parte quel concetto per il futuro, si avvolse nel mantello e uscì dalla sala di ritrovo per tornare a casa. Aveva sentito che alcuni comandanti dell'esercito vivevano nei palazzi e volevano essere trattati come membri della nobiltà, ma era una cosa che suo padre disapprovava, poiché non era onorevole. Il padre di Narasan era un uomo snello ma muscoloso, che aveva superato da poco i quarant'anni. I lucenti capelli neri erano già inargentati sulle tempie, a causa del fardello che gravava su di lui come comandante. Per quanto fosse molto assorbito dai suoi doveri, dava sempre ascolto al figlio, quando gli poneva delle domande. Così fu quella sera, quando Narasan rientrò dopo aver ascoltato la storia del sergente Wilmer, che gettava una luce del tutto nuova sulla sua futura carriera. «Hai un momento, padre?» gli chiese. «Mi sembri turbato, figliolo», lo accolse lui, mettendo da parte il documento che stava esaminando. «Che cosa ti preoccupa?» «Oggi, quando ha cominciato a piovere, il nostro istruttore ci ha mandati nella sala di ritrovo e lì c'era il vecchio sergente Wilmer. Certe volte parla buffo, vero?» Il padre di Narasan sorrise. «È una posa, figliolo. Parla in quel modo per catturare l'attenzione. Immagino che ti abbia raccontato la storia sulle origini del nostro esercito. Prima o poi, ogni ragazzo qui dentro ascolta il suo resoconto.»
«Pensavo che se lo stesse inventando.» «Non era immaginario: è molto vicino a ciò che accadde realmente, e noi vogliamo che i nostri figli sappiano esattamente come si sono svolti i fatti. Per questo lasciamo che il sergente Wilmer ne parli a ogni classe.» Il padre di Narasan si appoggiò allo schienale e la luce della candela sulla scrivania fece brillare le sue tempie argentate. «Ogni membro del nostro nobile - nelle intenzioni - Palvanum ha i suoi progetti su come bisognerebbe spendere il denaro del tesoro, e pagare gli eserciti di solito sta in fondo alla lista.» «Non è per niente corretto, vero?» «La correttezza è un concetto che è sempre stato estraneo al Palvanum. Quando c'è una guerra imminente, i palvani tengono tonanti discorsi sul coraggio dei soldati trogiti, ma quando torna la pace preferiscono non pensare a noi. Fondamentalmente, è per questo che ci siamo messi in affari per conto nostro. È il succo della storia raccontata dal sergente.» Spinto da un impulso improvviso, Narasan affrontò un argomento che lo tormentava da mesi. «Non volevo parlarne, ma dopo che il padre di Padan è stato ucciso, lo scorso inverno, io e Gunda abbiamo pensato che forse un giorno potremmo dare battaglia all'esercito che lo ha ucciso, per rendergli pan per focaccia. Però da allora ci penso e non sono tranquillo. Una cosa come questa sarebbe onorevole? Voglio dire, quando c'è una guerra i soldati rimangono uccisi e forse serbare rancore è disdicevole.» Suo padre scosse la testa. «La prima lealtà di un soldato dovrebbe sempre andare ai suoi compagni. Ecco dove comincia l'onore, ragazzo mio. In questo momento, io stesso aspetto l'opportunità di darle di santa ragione all'esercito che ha ucciso il padre del tuo amico. Questo non mi renderà molto popolare presso certi membri del Palvanum, dato che hanno una preferenza per quell'esercito, ma peggio per loro.» «Non ci sono uomini onesti nel governo?» «'Onesto' e 'governo' probabilmente non dovrebbero comparire nella stessa frase. Sono termini contraddittori.» «Allora sono contento di entrare nell'esercito quando sarò più grande», dichiarò Narasan. «Da quanto ho sentito ultimamente, siamo le uniche persone oneste dell'intero impero.» «Questo riassume bene la faccenda, sì», concordò suo padre con un sorriso divertito. Circa un anno più tardi, Narasan, Gunda e Padan iniziarono la loro edu-
cazione formale e, naturalmente, i loro insegnanti erano tutti soldati professionisti e «non marciamo finché non vedremo i soldi» era una frase che saltava fuori in ogni lezione. Padan, il cui senso dell'umorismo era forse un po' distorto, suggeriva di frequente che quello poteva essere un ottimo motto da aggiungere allo stendardo dell'esercito. Narasan rimase sconcertato quando i loro istruttori cominciarono a prendere in considerazione quella proposta. Gli studi teorici erano tremendamente noiosi e i ragazzi preferivano l'addestramento all'aperto. Le spade di metallo erano più pesanti di quelle in legno con cui giocavano quando erano più piccoli, e ci volle un po' di tempo perché i muscoli si rafforzassero. La falange era la parte centrale della tattica trogita, all'epoca, e i giovani allievi trascorrevano ore infinite a marciare tutti assieme, con gli scudi uniti e le lance tenute ben salde. Narasan non ne poteva più di sentire i sergenti istruttori gridare: «Accorparsi! Accorparsi!» Ben presto si rese conto che se il proprio scudo sporgeva dalla fila anche solo di un centimetro, il sergente cominciava a gridare a pieni polmoni. Poco dopo l'ottavo compleanno di Narasan, l'esercito di suo padre fu ingaggiato per sedare una rivolta di schiavi in una provincia occidentale. Sebbene non glielo avesse mai sentito affermare, Narasan sospettava che suo padre disapprovasse la schiavitù. Aveva anche saputo che nel suo esercito c'era un buon numero di ex schiavi. Quando un giovane si presentava alla porta dell'accampamento e annunciava che gli interessava la carriera militare, nessuno gli faceva troppe domande. Si diceva anche che ci fossero soldati con un passato criminale alle spalle, ma anche a quelli nessuno faceva domande imbarazzanti. Quando l'esercito ritornò dalla campagna in Occidente, Narasan vide che alla testa della colonna marciava suo zio Kalan, e questo gli provocò un brivido per tutto il corpo. Più tardi, Kalan spiegò addolorato alla madre di Narasan che cosa era accaduto. «Uno schiavo fuggito ha trovato una lancia rotta, a cui era rimasta solo metà dell'asta. Quando ci ha visti arrivare, l'ha scagliata a casaccio ed è fuggito come un coniglio spaventato. Non credo che avesse mai preso in mano una lancia prima di allora, ma quella dannata cosa ha colpito mio fratello alla gola. È morto quasi immediatamente.» «Avete dato la caccia a quello schiavo?» domandò la vedova, con voce cupa. «Oh, certo», rispose Kalan, «e gli ci è voluto molto, molto tempo per
morire.» «È già qualcosa, immagino», decretò la donna, quindi uscì di corsa dalla porta e Narasan udì i suoi gemiti di dolore provenire dalla stanza attigua. Durante i giorni e le settimane seguenti, sua madre affondò sempre più nella disperazione. Impegnato lui stesso ad affrontare il proprio lutto, con il provvidenziale aiuto dello zio, quando cominciò a riprendersi Narasan si accorse che sua madre non ragionava più. Era chiaro che il dolore le aveva sconvolto la mente. A quel punto, il ragazzo decise che non si sarebbe mai sposato. La vita di un soldato può finire all'improvviso, ma il dolore di una moglie può continuare per sempre. Per quanto giovane, Narasan capì che un vero soldato è sposato all'esercito. Kalan aveva preso il posto del fratello defunto al comando dell'esercito e teneva d'occhio il nipote. Quando Narasan raggiunse il dodicesimo compleanno, fu posto secondo la consuetudine nelle file dei cadetti, i ragazzi che avevano già una buona preparazione militare e quindi sarebbero stati pronti a ricevere i gradi quando avessero raggiunto una certa età. Lui eccelse tra gli altri e quando compì quindici anni gli fu offerto un grado di ufficiale, per quanto basso, nell'esercito dello zio. Prima di arrivare ai vent'anni aveva combattuto in numerose guerre ed era evidente che sarebbe andato lontano e in fretta, presumendo, è ovvio, che fosse vissuto abbastanza da arrivare ai gradi più alti. Raggiunse la posizione di sottocomandante a trentacinque anni e i suoi amici d'infanzia, Gunda e Padan, non erano tanto indietro rispetto a lui. Tutti e tre si erano sempre distinti, con grande soddisfazione di Kalan che teneva d'occhio da vicino i progressi del nipote. Narasan non si sorprese molto quando, durante la festa del suo quarantesimo compleanno, vide suo zio alzarsi per annunciare che sarebbe andato in pensione e che lui lo avrebbe sostituito come comandante dell'esercito. «Non sono ancora pronto per il comando, zio», protestò. «Allora farai meglio a prepararti, perché, che tu lo voglia o no, quando domattina il sole sorgerà il comandante sarai tu.» Narasan era stato addestrato al comando fin dalla più tenera età e, nonostante ritenesse prematura la promozione, si trovò a proprio agio nel nuovo grado come in un paio di vecchi stivali. Dopo alcune guerre vinte con poco sforzo, la sua reputazione cominciò
ad aumentare e i comandanti degli altri eserciti fecero sapere che il loro prezzo doveva essere raddoppiato, nel caso l'esercito avversario fosse comandato da «quel Narasan». A rendere le cose ancora migliori, perfino quando gli eserciti venivano ingaggiati tacendo della presenza di Narasan nel campo avverso, era invalsa l'abitudine di mandare in avanscoperta degli esploratori per assicurarsi che lui non fosse nei paraggi. Se saltava fuori che invece c'era, l'armata avversaria si arrendeva immediatamente. Così, si susseguirono moltissime guerre facili. Uno dei doveri più importanti di un comandante riguardava la scelta dell'uomo che avrebbe dovuto sostituirlo nel caso lui morisse in combattimento. Narasan aveva già in mente un candidato, sebbene il suo giovane nipote non avesse ancora un grado da ufficiale. Lo amareggiava ammetterlo, ma suo nipote Astal era dotato almeno due volte più di lui. Se fosse sopravvissuto alle sue prime campagne, aveva le doti per riuscire a riunire i vari eserciti dell'impero e la possibilità di cambiare il corso della storia. L'attuale governo era talmente corrotto che Narasan quasi si vergognava di essere un trogita. Un esercito forte avrebbe potuto ficcare l'etica giù per le gole dei palvani e porre barriere insormontabili tra l'avida chiesa e il governo. Un comandante supremo poteva rimettere le cose a posto in men che non si dica. «Potrei perfino comparire in qualche libro di storia come l'uomo che ha orchestrato la salvezza dell'impero», meditava tra sé. «Dio sa che prima o poi qualcuno dovrà farlo.» 2 «Sono disposto a pagarti diecimila corone d'oro, comandante Narasan», dichiarò il duca di Bergalta. «La tua reputazione dovrebbe bastare a sistemare da sola la questione, una volta per tutte.» «È un'offerta molto generosa», replicò Narasan, abbracciando con lo sguardo il campo delle esercitazioni al centro dell'accampamento. «Quella baronia vale davvero tutto questo disturbo?» «In realtà no, suppongo, ma è venuto il momento di dare una strapazzata al duca di Tashan. Quello scemo sembra credere che può passarla sempre liscia. Quando il vecchio barone Forlen è morto senza eredi, Tashan ha avuto la faccia tosta di annunciare che si annetteva la baronia come 'protettorato' e questo mi ha fatto saltare la mosca al naso. Quello staterello ha sempre costituito una specie di cuscinetto fra il mio ducato e quello di Ta-
shan. Se lo lascio fare, lui si accamperà sul mio confine orientale.» Narasan sapeva che la crescente reputazione del suo esercito attirava sempre di più chi voleva risolvere con la guerra piccole dispute come quella. Alzò le spalle. Probabilmente si sarebbe tutto risolto in una comoda marcia fino alla regione in questione, dove avrebbero mostrato un po' i muscoli per persuadere il duca Tashan a sedersi al tavolo dei negoziati. La paga era buona e quasi sicuramente non ci sarebbe stato un grande spargimento di sangue, quindi accettò l'offerta. Il motivo che forse lo aveva convinto ad accettare, più di tutti gli altri, era che il suo dotato nipote, Astal, era appena divenuto ufficiale, assieme a numerosi altri giovani. Una campagna facile, con pochi rischi, era decisamente il modo migliore per farsi le ossa: costituiva una sorta di grande esercitazione sul campo. Narasan aveva notato che l'amico più caro di suo nipote era Keselo, un giovane molto istruito, il quale mostrava un potenziale pari a quello di Astal. C'era un altro ufficiale appena nominato che invece non pareva promettente. Si chiamava Jalkan e in precedenza era stato un membro del clero amarita. Questo deponeva a suo sfavore. Non c'era dubbio che l'impero era corrotto, ma nella chiesa amarita la corruzione si spingeva ai limiti estremi. Dopo aver acconsentito a vendere a Jalkan il grado di ufficiale, Narasan aveva cominciato a rimpiangere quella decisione. L'ex sacerdote si era dimostrato pigro, stupido oltre ogni immaginazione, arrogante e inutilmente crudele verso gli uomini che aveva al suo comando. Dopo averlo visto commettere parecchie corbellerie, Narasan cominciò ad annotarsi un elenco dei suoi misfatti. Sapeva per certo che in un futuro non troppo lontano quell'elenco si sarebbe dimostrato utile. Jalkan si mostrava convinto che il fatto di avere acquistato il proprio grado proteggeva il suo status e Narasan non vedeva l'ora di levargli quell'illusione. Dopo una breve riunione nella sala della guerra, l'esercito di Narasan iniziò la marcia verso il ducato di Bergalta, spingendosi a sud senza difficoltà. L'estate stava finendo e il clima era molto gradevole. Gli schiavi dei vari proprietari terrieri erano al lavoro nei campi e marciavano tra paesaggi bucolici. Arrivati non lontano dal confine settentrionale di Bergalta, il sottocomandante Gunda fece una ricognizione a sud, da cui rientrò verso mezzogiorno. «C'è un crinale a circa mezza giornata di marcia», riferì. «La strada che stiamo percorrendo prosegue attraverso un passo piuttosto stretto e magari sarebbe meglio se allestissimo il campo per la notte prima di rag-
giungerlo, tanto per andare sul sicuro. Non abbiamo visto segni di un esercito avversario, ma perché correre rischi? Inoltre, la strada diventa più ripida e le truppe la percorreranno più rapidamente se saranno riposate.» «Allora faremo come dici tu», approvò Narasan. «Fammi un favore: porteresti un mio messaggio a Morgas, della nona coorte? Digli che mi piacerebbe se fosse Astal a guidare la marcia. Questo dovrebbe incoraggiare il suo ego. A volte quel ragazzo ha una natura un po' schiva. Se lo mettiamo davanti potrebbe sentirsi un po' importante.» «Questo mi ricorda qualcosa», commentò Gunda, con un ampio sorriso. «Tuo zio Kalan aveva l'abitudine di ficcarti davanti ogni volta che marciavamo.» «Ha funzionato piuttosto bene, e quando una cosa funziona non ha senso cambiarla.» Come sempre, la mattina dopo l'esercito di Narasan fu svegliato dai corni alle prime luci dell'alba e subito dopo colazione smantellarono il campo e partirono verso il passo. Astal marciava davanti alla nona coorte, guidando l'esercito su per il pendio. Come d'abitudine, il vessillifero marciava appena dietro il giovane ufficiale. La reputazione di quell'esercito tendeva a rendere un po' nervose le truppe nemiche, quindi Narasan ci teneva che il suo vessillo fosse bene in mostra, a evitare fraintendimenti. Gunda marciava accanto al comandante, per tenerlo informato su come si sarebbe presentato il terreno davanti a loro. «Quanto è stretto esattamente quel passo?» gli domandò Narasan. «Parecchio. Non ci stanno più di quindici uomini in fila. Se questa fosse qualcosa di più di una passeggiata, raccomanderei di evitarlo, ma in una situazione simile dovrebbe andare tutto bene. Astal dovrà rompere la formazione per fare passare gli uomini. Detesto questi posti stretti. Probabilmente ci toccherà andare avanti oltre la mezzanotte, prima che tutto l'esercito sia dall'altra parte.» «Dopo il passo la strada si allarga?» «Non abbastanza da fare tanta differenza. Meno male che il duca di Tashan non ha un vero e proprio esercito. Se avessimo di fronte delle truppe esperte, quel passo potrebbe causarci un sacco di guai.» Arrivati in prossimità del passo, Astal ordinò alla nona coorte, con un incisivo tono militaresco, di fermarsi. La fece quindi ricomporre in una colonna più stretta, dalle file formate da dieci uomini, e si mise alla sua testa.
Narasan provava un certo orgoglio di famiglia. Astal si comportava proprio come doveva e i suoi uomini marciavano perfettamente sincronizzati dietro il vessillo cremisi e oro. «Ci vorrà tutto il giorno e metà della notte per arrivare alla pianura dall'altra parte», osservò Gunda con il suo comandante. «Non è che abbiamo un appuntamento», gli rammentò Padan. «Arriveremo quando arriveremo.» «Lo so, ma non mi piace l'idea di formare una colonna così assottigliata. Se qualcuno ci balzasse addosso, potremmo trovarci in un sacco di guai. Detesto le montagne.» Padan alzò le spalle. «Perché non vai lassù a ordinare di sdraiarsi a terra? Non credo che ti ascolteranno, ma ti darà qualcosa da fare, invece di stare a lamentarti di ogni minima gobba nella strada.» «Molto divertente», grugnì Gunda. «Ah, ah, ah!» «Dovresti lavorare un po' sulla tua risata», lo stuzzicò l'amico. «Non è molto convincente.» La noiosa marcia continuava, mentre il sole si levava sempre più in alto nel cielo, e a metà mattinata la dodicesima coorte aveva attraversato il passo. Poi dall'altro versante giunse un gran clamore e Narasan si allarmò. «Scopri che cosa sta succedendo!» gridò a Gunda. Quando il fidato sottocomandante giunse a metà strada verso il passo, incrociò un attendente che scendeva di corsa. Parlarono per qualche momento, quindi Gunda girò rapidamente su se stesso e corse giù, sbraitando imprecazioni infuocate a ogni passo. «Abbiamo delle complicazioni, Narasan!» sbraitò. «Dall'altra parte del passo c'è un esercito nemico e stanno attaccando i nostri!» «Allargarsi!» ordinò Narasan. «Non rimanete sulla strada! Muovetevi!» Le truppe si allargarono a ventaglio e cominciarono ad arrampicarsi sul pendio, ma prima che il grosso fosse arrivato anche solo a metà, un gran numero di soldati armati di tutto punto cominciò ad apparire lungo la sommità del crinale, da ambo i lati del passo. «Si direbbe che sono tre eserciti», riferì Padan. «Non credo che abbiamo molte possibilità di sfondare le loro linee.» «Abbiamo dodici coorti dall'altra parte, Padan!» «Non penso», replicò Padan, con una franchezza raggelante. «Non si sentono rumori provenire da lassù, e questo significa che i nostri sono tutti morti.» Scrutò verso l'alto. «Quei vessilli sembrano molto familiari, vero?»
aggiunse a denti stretti. «Quello verde è decisamente l'emblema dell'esercito di Galdan e quello blu appartiene a Forgak. Non distinguo bene il terzo.» «Tenkla», disse Narasan, asciutto. «Non è interessante? Abbiamo sconfitto tutti e tre quegli eserciti durante lo scorso anno, e a quanto pare hanno deciso che è venuto il momento di restituirci il favore. Probabilmente hanno accettato di lavorare per una paga bassa, tanto per avere l'occasione di sopraffarci. Vuoi che continuiamo la carica?» Narasan strinse i pugni in un futile gesto d'ira. «No», rispose con voce spezzata. «È inutile. Abbiamo già perduto dodici coorti. Per questa stupida guerra non ne valeva la pena. Suona la ritirata, Padan. Tiriamo i nostri uomini fuori di qui, se ci riusciamo.» Narasan non si lasciò offuscare dal dolore, mentre conduceva il suo esercito nella ritirata. Era evidente che i suoi uomini erano rimasti delusi da quella decisione. Tutti loro avevano degli amici nelle dodici coorti massacrate e la brama di vendetta li accompagnò per tutto il viaggio di ritorno a Kaldacin. Nelle guerre precedenti, Narasan aveva già perduto amici e membri della famiglia, ed era sicuro che sarebbe riuscito a mettere da parte il dolore e a continuare la sua vita. Ma questa volta la sofferenza era resa più acuta dal fatto che la perdita di Astal era colpa sua. Se non lo avesse messo alla testa della colonna, quasi certamente il ragazzo sarebbe stato ancora vivo, perché normalmente non era la nona coorte a guidare la marcia. Astal era la cosa più vicina a un figlio che lui avesse mai avuto e lo aveva messo in una situazione per la quale non era ancora pronto, perché era un modo di rafforzare la propria immagine. Questo lo lacerava nel profondo, come la lama di un pugnale affilatissimo. «Assolutamente no!» rispose Narasan al pallidissimo Gunda. «Mettila in un recipiente adatto e seppelliscila nel cimitero dell'esercito. Non voglio vederla!» «Pensavo che avesti risposto così, ma era mio dovere chiedertelo», replicò Gunda a denti stretti. «Cominciano a venire alla luce un po' di cose, adesso. Lo sapevi che il duca Bergalta è imparentato con l'adnari Estarg?» «No. Come lo hai scoperto?»
«È stato il giovane Keselo a rintracciare la parentela. Mi ha detto che Estarg e Bergalta sono cugini e che è stato un servitore di Bergalta a portare qui nell'accampamento la testa di Astal. Da quanto ricordo, Estarg se l'è presa parecchio con te quando ti sei rifiutato di combattere contro quegli eserciti provenienti dal Sud, che hanno messo sul trono del naos quell'Udar, e colgo un forte odore di chiesa nella nostra sconfitta. Non mi sorprenderei nemmeno un po' se scoprissi che i soldi per pagare tutti quei farabutti sono usciti dalle casse della chiesa, e che l'intera faccenda era una trappola.» «E io sono stato così stupido da caderci dentro!» «Non darti la colpa, vecchio amico. Probabilmente adesso stanno festeggiando, ma non credo che andranno avanti tanto a lungo.» «Non siamo nella posizione di fare qualcosa, Gunda. Ci hanno giocato, e hanno ucciso moltissimi dei nostri.» «Tu potresti non approvare, ma io e Padan abbiamo fatto quattro chiacchiere con dei tizi di cui forse hai sentito parlare. Sono quelli specializzati nel fornire gli ospiti d'onore ai funerali. Non passerà troppo tempo prima che quei tre eserciti restino senza comandante e che due troni ducali rimangano vuoti.» «Questo non è onorevole!» «Be', peccato. Il loro complotto si è spinto ben oltre ciò che è 'onorevole' e se è questo il modo in cui vogliono giocare, noi faremo un passo oltre nella partita.» Gunda rivolse al suo comandante un sorriso tirato. «Però potremmo mandare i fiori alle esequie, se ti va. C'è un'erbaccia che cresce lungo la costa vicino a Castano, e la sua puzza arriva nell'alto dei cieli. Questo farebbe pensare a quella gente che cosa pensiamo esattamente di loro.» «Sei un tipo molto perfido, Gunda.» «Lo so. È un mio punto debole.» La soddisfazione per lo scaltro piano dei suoi amici durò poco. La vendetta non cambiò la dura realtà dei fatti sulla disastrosa guerra nel Sud. In parte, Narasan aveva accettato l'offerta del duca Bergalta perché gli offriva l'opportunità di porre suo nipote alla testa dell'esercito durante la marcia. All'apparenza, era un modo per far sì che Astal acquisisse più fiducia in sé, ma ripensandoci, Narasan si rendeva conto che quella stupida decisione era stata egoistica. Il dolore lo sommerse più forte di prima, assieme a un'enorme vergogna. Aveva provocato la morte di Astal e di dodici coorti,
niente poteva cambiare quella dolorosa verità. Era evidente che non era più adatto al comando. E così, un cupo giorno d'inverno, spezzò la propria spada contro il ginocchio, come un esile legnetto per accendere il fuoco, indossò gli indumenti più malandati che aveva e si trasformò in mendicante, piazzandosi all'altra estremità di Kaldacin. Mendicare era un'occupazione alquanto semplice e gli lasciava molto tempo per pensare. Le sue stupide decisioni nella recente guerra erano un sintomo del deterioramento generale della società trogita. L'orgoglio e l'avidità si erano spinti sempre più avanti e l'onore era svanito. In tutto questo lui vedeva un segno evidente che il mondo stesso stava vacillando e che ben presto non sarebbe più esistito. Quel pensiero gli dava un certo conforto. Se stava davvero vivendo la fine dei suoi giorni, il dolore e la vergogna non sarebbero durati troppo a lungo, e allora sarebbe finalmente giunto al riposo finale. 3 Il giovane forestiero di bell'aspetto passò varie volte davanti al punto in cui Narasan chiedeva l'elemosina. Aveva un'espressione sempre più frustrata e lui, incuriosito, in una ventosa giornata invernale si decise a chiedergli che cosa lo turbava. «Sto cercando di assoldare un esercito, ma non c'è nessuno con cui riesca nemmeno a parlarne.» «Hai provato direttamente con i soldati?» «Non pensavo che fosse permesso.» Narasan rise. Il giovane sembrava sprovveduto, però molto sincero. Lui gli spiegò come stavano le cose, quindi gli domandò come mai avesse bisogno di un esercito. «A casa ci sono guai nell'aria e sembra probabile che avremo bisogno di soldati professionisti per aiutarci ad affrontarli.» Narasan pensò che l'idea di una guerra da qualche parte oltre i confini dell'impero fosse interessante. Intanto arrivò Keselo, che si era inventato un altro trucco per convincerlo a ritornare nell'esercito. Lui rifiutò, naturalmente, e rimandò a casa il giovane ufficiale. «È un bravo ragazzo», disse allo straniero. «Se rimane in vita, potrebbe andare lontano.» Si accorse che anche del nipote aveva detto spesso la stessa cosa e il dolore ritornò a dilaniarlo.
Il giovane straniero di nome Veltan doveva essere un tipo perspicace, perché capì immediatamente che qualcosa gli straziava il cuore. Senza sapere perché, Narasan gli spiegò brevemente come mai avesse deciso di abbandonare la carriera militare. «Comunque, il tempo scorre e quindi tra un po' non farà più differenza che cosa faccio. Il mondo sta per arrivare alla fine, sai.» «Penso che tu abbia veduto ciò che a pochi altri è dato vedere», osservò Veltan, «ma non ti sei spinto abbastanza in là. Il mondo si sta avvicinando alla fine di un ciclo, non alla fine del tempo. Non disperare, Narasan. Il tempo non ha fine, e nemmeno inizio, in realtà.» Narasan fu invaso dalla soggezione. Quello straniero giovane e bello non era ciò che sembrava e la profondità della sua comprensione lo sbigottiva. «Ho bisogno del tuo esercito, comandante Narasan», si sentì dire di punto in bianco, «e pagherò in oro per i tuoi servigi. Se le cose vanno bene, vinceremo, e vincere è tutto ciò che importa, che sia una guerra o una partita a dadi.» «È un approccio pratico», commentò Narasan, mentre il dolore e la vergogna schiaccianti si affievolivano. Si alzò. «A quanto pare, le mie vacanze sono finite», decise. «Era piacevole starmene seduto a far niente, ma sarà bello rimettermi al lavoro.» L'idea di intraprendere una guerra da qualche parte oltre i confini dell'impero preoccupava notevolmente alcuni ufficiali di Narasan, mentre per lui costituiva un modo di allontanarsi da tanti ricordi dolorosi. Poiché l'esercito doveva andare a nord, il logico punto di partenza era il porto di Castano e Narasan affidò a Gunda, originario di quella città, l'incarico di recarsi lì e assoldare la flotta che avrebbe portato tutti loro nella terra di Veltan. Il giovane straniero, intanto, era ritornato in patria e in seguito raggiunse gli altri a Castano, dove nel frattempo erano arrivate le truppe per imbarcarsi. Arrivò con un piccolo peschereccio traballante e mostrò a Narasan dieci lingotti di oro puro. Lui rimase stupito, non avendo mai visto l'oro in quella forma, ma dovette ammettere che era un bel vedere. Veltan era molto impaziente e gli propose di viaggiare con lui sulla sua imbarcazione per arrivare rapidamente nella Terra di Dhrall e fare la conoscenza di un pirata maag che si chiamava Sorgan Becco d'Uncino; insieme avrebbero messo a punto una strategia per la campagna da portare avanti nel Dominio della sorella di Veltan. Narasan nutriva qualche dubbio sulla
bontà di quell'idea. Aveva sentito varie cose sui pirati della Terra di Maag, sebbene non li avesse mai incontrati. Il termine «barbari urlanti» era spesso associato alle descrizioni che aveva udito e le parole «barbari» e «strategia» gli parevano un po' in contraddizione. Nel porto di Lattash c'era una grande flotta di navi con gli scafi lunghi e affusolati e Narasan si rese subito conto del vantaggio che avrebbero avuto i maag in un eventuale scontro con le navi trogite che erano larghe e pesanti. Le imbarcazioni maag erano costruite per essere veloci, non per la portata del carico. *** Dopo aver tirato in secco la sua barca, Veltan condusse Narasan verso una collina a forma di cupola a sud del villaggio. Passarono davanti a un capanno costruito alla meglio, dove un buon numero di robusti maag martellava su dei pezzi di ferro incandescente, quindi raggiunsero dei nativi vestiti di pelle all'imboccatura di una caverna. Da qui, attraverso un lungo passaggio, arrivarono a una vasta sala sotterranea dove in una buca al centro era acceso un piccolo fuoco, probabilmente per fornire un po' di luce. Qui Veltan lo presentò a sua sorella Zelana, senza dubbio la donna più bella che Narasan avesse mai visto, e alla graziosa bambina che doveva essere sua figlia. Poi dal passaggio appena percorso arrivarono un maag molto basso chiamato Leprotto e uno massiccio, dal naso ricurvo, e Narasan capì da dove veniva il nome «Becco d'Uncino». Quando Veltan li presentò, Becco d'Uncino ammise candidamente che fino ad allora si era guadagnato da vivere facendo il pirata e questo gli guadagnò la stima di Narasan. Per quanto sembrasse strano, quel tizio aveva il senso dell'onore. Era perfino possibile che andassero d'accordo tra loro. «Sembra innaturale», mormorò Narasan tra sé. Veltan aveva disegnato una mappa del territorio sopra il villaggio di Lattash, ma il buffo nativo chiamato Barba Rossa disse che non andava bene perché mancavano certi dettagli. Allora il piccoletto chiamato Leprotto propose di fare una mappa in rilievo e Narasan fu colpito dalla genialità della cosa e provò una fitta di dolore nel rendersi conto che, se durante la
disastrosa campagna nel Sud dell'impero avessero avuto una mappa simile, Astal sarebbe potuto essere ancora vivo. A mano a mano che si conoscevano meglio, Narasan e Becco d'Uncino sottraevano del tempo alle quotidiane riunioni nella caverna di Zelana per raccontarsi i ricordi delle guerre passate. Narasan sapeva per esperienza che le «storie di guerra» tendevano ad avvicinare di più gli uomini e, considerata l'attuale situazione, quelle chiacchierate informali potevano essere perfino più importanti delle discussioni sulla strategia. Anche se gli sembrava innaturale, quel pirata non civilizzato gli piaceva sempre di più. Qualche giorno dopo il tempo volse al bello e verso mezzogiorno arrivò la flotta che portava l'avanguardia dell'esercito trogita. Quando Narasan presentò i suoi ufficiali ai maag, notò un certo nervosismo, ma Sorgan suggerì di tenere le loro forze separate dal fiume, quando avessero cominciato a risalire la gola dopo che la piena annuale fosse defluita. Poi, un giorno calmo e nuvoloso, Madonna Zelana li convocò nella sua grotta per dar loro certe informazioni sui nemici che avrebbero dovuto affrontare. Arcolungo presentò un nativo anziano chiamato Colui Che Guarisce, il quale fece una descrizione assurda e dettata dalla superstizione: i loro nemici erano creature in cui si era avverata un'impossibile mescolanza di insetti, rettili e umani. Narasan riuscì a non ridere, ma rimase più che perplesso quando Veltan confermò le ridicole affermazioni del vecchio. Poi l'arciere Arcolungo spiegò che si poteva estrarre il veleno dai nemici morti e usarlo contro quelli vivi. Sorgan, per qualche motivo che Narasan non capiva, trovò la cosa divertente. Doveva avere un senso dell'umorismo alquanto distorto. Poi, come avevano predetto i nativi, da ovest soffiò un vento molto caldo e poco dopo un muro d'acqua si riversò dall'imboccatura della gola. I trogiti e i maag erano rimasti a bordo delle navi, ma Narasan andò a riva per vedere da vicino qualcuno dei nemici annegati. Il vecchio sciamano era sull'argine che proteggeva il villaggio e gli mostrò le caratteristiche di un cadavere lì vicino. Non era tanto più grande di un bambino di sette o otto anni e indossava un mantello con il cappuccio di un materiale grigio. Colui Che Guarisce gli aprì la bocca con un bastone per rendere visibili i denti: erano come quelli dei serpenti, lunghi e leggermente arcuati, adatti a iniettare il veleno, ed era ovvio che non appartenevano a un essere umano. Anche gli aculei sugli avambracci erano molto insoliti.
I dubbi di Narasan cominciarono a svanire. «Se lo avessi saputo, avrei chiesto più oro», borbottò tra sé. 4 Mentre la piena diminuiva, il clima diventava sempre più mite e Narasan trovò quasi gradevole la marcia lungo il lato sud della gola, nonostante ci fosse molto fango. A mano a mano che lui e i suoi uomini si avvicinavano alla sommità, gli alberi perdevano il loro aspetto minaccioso e il sottobosco si diradava. Lassù sembrava quasi di essere in un parco, con le vette innevate che si stagliavano in lontananza e un ruscelletto che saltellava sulle pietre attraverso un prato erboso circondato da sempreverdi. Li attendeva l'arciere Arcolungo, che condusse Narasan, Gunda, Padan e Jalkan fino allo stretto valico alla sommità della gola, perché avessero l'opportunità di vedere la spoglia Terra Desolata che si estendeva in lontananza. Quindi indicò un lungo rilievo roccioso che si ergeva nel deserto, alla distanza di circa un chilometro e mezzo. «Sono là», disse. Narasan fissò intimorito i nemici che si affollavano lungo quella linea. Da quanto vedeva, andavano da un orizzonte all'altro. Poco dopo arrivò Sorgan con i suoi pirati e anche lui parve un po' turbato dall'enormità delle forze avversarie. Per fortuna, il giovane Keselo si accorse che il pendio sabbioso nascondeva in realtà una larga scalinata: era formata da blocchi di pietra, che loro potevano usare per costruire una fortezza praticamente inespugnabile. La mattina seguente, poco dopo il sorgere del sole, giunse dal deserto un cupo ruggito che non aveva nulla di umano e i nemici si precipitarono a migliaia su per la scalinata ormai inservibile. Gli arcieri di Arcolungo erano disposti lungo i merli della fortezza e la nube di frecce che si levò oscurò quasi il sole. I nemici colpiti ricadevano all'indietro lungo il pendio, travolgendo i compagni. La carica insensata non si interruppe, però, e continuò fino a che non rimase in vita neppure un uomo-serpente. Quel pomeriggio, tuttavia, si accorsero di essere stati ingannati: il lato sud della gola era costellato di gallerie sotterranee da dove le creature velenose avevano cominciato a sciamare in gran quantità, uccidendo almeno un quarto dei maag che stavano ridiscendendo verso la costa. Narasan e Sorgan convennero che a quel punto il loro piano originario
era inutile, poiché dovevano affrontare una situazione completamente diversa. Avevano appena iniziato a prendere in esame varie alternative, quando un profondo brontolio precedette un terremoto così violento che riuscirono a malapena a rimanere in piedi. Poi ci furono un assordante fragore di tuono e un lampo accecante e dal nulla apparve Veltan. «Correte, se volete salvarvi la vita! Portate i vostri via da questa maledetta gola!» Poi Barba Rossa, che stava fissando la sommità, gridò all'improvviso: «La Montagna di Fuoco!», si voltò e fuggì a precipizio. Barba Rossa aveva rinunciato alle sue battute spiritose, notò Narasan, guardandolo correre. Certo, i vulcani gemelli sputavano roccia liquida con getti che si innalzavano nel cielo per qualche chilometro, e nessuno rideva nemmeno fra le truppe trogite: tutti fuggivano verso la baia di Lattasti, sperando fervidamente di trovarvi la salvezza. Vicino al forte di Skell, Narasan si fermò. Quella costruzione eretta con pietre enormi aveva al centro uno stretto varco per lasciar scorrere l'acqua ma dal quale la lava non poteva defluire. Concepita per trattenere il nemico, sembrava poter svolgere la sua funzione anche se il nemico era il fuoco liquido. Quando i primi rivoli di lava giunsero alla larga pozza formatasi sul lato a monte del forte, un'ampia nube di vapore impedì a Narasan di vedere che cosa accadeva. Imprecando tra sé, il comandante trogita si spostò in un punto da cui poteva scorgere il lato a valle. C'era del vapore, ma non si notava la lava scendere verso il basso. Evidentemente, appena toccava l'acqua diventava solida roccia che rafforzava la costruzione fatta dagli uomini, trasformando il forte in una diga. A quel punto, Narasan ebbe qualche sospetto: considerato il calore della lava, la pozza sarebbe dovuta evaporare completamente, ma non era così. Qualcuno (o qualcosa) la riforniva d'acqua in continuazione. Si sentì sollevato: la diga di Skell avrebbe retto abbastanza da permettere ai suoi di raggiungere le navi nella baia. A quanto pareva, lui e i suoi uomini sarebbero sopravvissuti, nonostante il disastro naturale proveniente dalle viscere della terra. 5 Quando la flotta di navi maag e trogite uscì in mare aperto, Narasan si rese conto che le onde erano più ampie che all'interno della baia e provò
una sorta di euforia. In mare c'era un senso di libertà che era assente nella vita di chi stava sempre a terra. Questo gli fece comprendere meglio Sorgan Becco d'Uncino. Certo, il disegno del Gabbiano aveva un certo ruolo nella personalità di Sorgan. Per tanti aspetti quella nave era come il nome che le era stato imposto: rapida, aggraziata e di solito famelica. I maag furono abbastanza gentili da non schizzare avanti e lasciarsi alle spalle le lente imbarcazioni trogite e Sorgan si tenne a portata di voce mentre la flotta procedeva verso sud lungo la costa occidentale del Dominio di Madonna Zelana. Veltan aveva chiesto che il suo piccolo peschereccio fosse trainato da una nave trogita. Sembrava essergli molto affezionato, per qualche motivo, e Sorgan ne aveva approvato la presenza. «Ci muoveremo in acque strane, Narasan», aveva spiegato, «e quella bagnarola sarà utile per scandagliare, ogni volta che ci avviciniamo alla costa.» «Scandagliare?» Narasan era perplesso. «Controllare la profondità dell'acqua, oppure individuare banchi di sabbia o scogliere nascoste. Una nave sventrata nella chiglia non rimane a galla tanto a lungo e io non ho ancora imparato a camminare sull'acqua.» La costa del Dominio di Madonna Zelana era ricoperta da foreste di alberi enormi, che riempivano Narasan di soggezione. A differenza che nella gola, dove c'era un folto sottobosco, vicino alla costa le conifere si ergevano maestose e solitarie, impedendo la crescita degli arbusti per la costante caduta degli aghi, e sembravano un grande tempio verde. Lì l'aria era umida, naturalmente, e i raggi del sole di inizio estate scendevano obliqui tra le colonne di quel tempio come lame d'oro. Narasan provò una strana nostalgia quando la foresta cedette il posto al terreno agricolo del Dominio di Veltan. Qualche giorno dopo la partenza, dal Gabbiano giunse il suono di un corno e l'agile nave si avvicinò. «Ehilà, Narasan!» sbraitò Sorgan. «Qualcosa non va?» chiese Narasan. «No. Madonna Zelana voleva farti sapere che tra poco, forse domani, ci dirigeremo a est. Continueremo lungo l'estremità meridionale del paese di suo fratello e poi punteremo a nord. La casa di Veltan si trova sulla costa orientale e ci mancano una settimana o dieci giorni per arrivarci.» Il giorno dopo doppiarono l'estremità sud di una grande penisola e Gunda venne dalla prua della nave assieme al cugino, il capitano Pantal. «Se guardi a destra, vedrai l'isola chiamata Arash», disse a Narasan. «Forse non sarebbe una cattiva idea se salissi su un'altra nave e percorressi quel
canale fino a Castano, in modo da dire ad Andar di portare quassù il grosso del nostro esercito. In questo modo saremo pronti, nel caso la guerra inizi prima del previsto.» «Non è una cattiva idea», approvò Narasan. «Parlerò con Sorgan e lo avvertirò che non stai semplicemente scappando.» Gunda lo guardò male, ma lui non aggiunse nulla. Il Gabbiano si avvicinò di più, in risposta a una nota stridente di una tromba trogita. Narasan, che aveva sempre detestato il suono delle trombe, pensò che i corni dei maag avevano un suono più morbido. Sorgan, dal parapetto del Gabbiano, domandò: «Problemi?» «Non che io abbia notato, finora», rispose Narasan. «Certo, siamo solo a mezzogiorno, quindi c'è ancora un sacco di tempo perché le cose si mettano male.» «Perché guardi sempre il lato negativo?» «È un mio difetto. Siamo vicini a quel canale che taglia la zona dei ghiacci fino alla costa settentrionale dell'impero. Gunda lo percorrerà per andare a prendere il resto dell'esercito.» «Non è una cattiva idea. Ci farà risparmiare tempo, così saremo pronti se gli uomini-serpente cercheranno di nuovo di coglierci di sorpresa.» «E accusi me di essere pessimista?» «Sempre guardare il lato negativo, Narasan. Poi, se la situazione migliora, sarà una gradevole sorpresa.» Dopo aver superato altre due penisole lungo la costa meridionale della Terra di Dhrall, la flotta mista piegò verso nord, seguendo il Gabbiano. Lungo la costa orientale la terra era più piatta che su quella occidentale e Narasan osservò che gli agricoltori avevano vasti campi di cereali che si estendevano verso l'interno fin dove arrivava lo sguardo. Quando commentò che di certo nel Dominio di Veltan non esistevano le distinzioni di classe tipiche dell'impero, l'ex sacerdote Jalkan si rifiutò anche solo di prendere in considerazione tale possibilità. Il suo ghigno perpetuo lo irritava talmente che cominciò a cercare qualche scusa per congedarlo e mandarlo a farsi friggere. Sorgan, per prudenza, faceva navigare la barca di Veltan davanti al Gabbiano, per rilevare la presenza di ostacoli. Narasan sorrise. Era evidente che Sorgan amava la sua nave e faceva di tutto per proteggerla. In un certo senso, il Gabbiano era per lui l'equivalente di una moglie e sarebbe morto piuttosto di metterla in pericolo.
Risalirono lentamente la costa e il terzo giorno, circa a metà mattinata, la barca virò decisamente a sinistra e li condusse verso la spiaggia. Veltan li stava aspettando, assieme ad altre persone. Il capitano Pantal calò l'ancora poco lontano dalla spiaggia e Narasan, Jalkan e Padan coprirono la breve distanza con una piccola imbarcazione. La stessa cosa fece Sorgan, che prese a bordo Bove, Zampa di Prosciutto, Zelana e i due bambini, però sembrava tenersi un po' indietro, evidentemente per cortesia. Questo sorprese leggermente Narasan. L'idea di cortesia in un maag gli sembrava una contraddizione in termini. Keselo, che aveva già raggiunto Veltan, stava parlando con un nativo dal volto serio, che reggeva una specie di lancia arrangiata. Il giovane ufficiale, rimasto impressionato dalla creatività del nativo, suggerì che Leprotto fabbricasse punte di lancia e scudi e che ai nativi si insegnasse a utilizzare la formazione a falange. «Pensi di poterli addestrare tu?» gli chiese Narasan. «Potrei provarci», rispose Keselo, con prontezza. *** Nel vedere il castello di Veltan, costruito con un'enorme unica roccia, Narasan ebbe la conferma di ciò che sospettava dal momento in cui loro due si erano incontrati. Veltan, e anche il fratello e le sorelle, avevano l'aspetto di esseri umani, ma si erano talmente spinti oltre l'umano che il termine era quasi ridicolo. Il modo poco appariscente in cui si comportava il giovane di bell'aspetto aveva celato realtà stupefacenti, ma la sua grande casa portava allo scoperto la verità, senza possibilità di negarla. Il fatto più sorprendente, però, era perché qualcuno con un potere illimitato si fosse spinto fino all'Impero Trogita per assoldare un esercito che affrontasse il nemico subumano. Narasan era certo che Veltan o sua sorella, volendo, avrebbero potuto annientare le creature della Terra Desolata anche solo con il pensiero. «Ci troviamo in una situazione molto strana», borbottò fra sé. Veltan li condusse in quella che chiamava la «sala della mappa», dove una balconata circondava la raffigurazione in rilievo del probabile campo di battaglia, permettendo di osservarla dall'alto e di coglierne i dettagli. Il terreno nei pressi della cascata era particolarmente ostico, ma Narasan vide che, se fossero riusciti a raggiungere la zona attorno al geyser da cui scaturiva la sorgente del fiume, avrebbero potuto tenere testa al nemico quasi all'infinito, con un piccolo aiuto da parte degli agricoltori locali. L'importan-
te, naturalmente, era arrivarci per primi. Poi varcò la soglia la moglie di un agricoltore, Omago, per chiamarli a cena. Era una donna di stupefacente bellezza e quell'idiota di Jalkan le rivolse degli apprezzamenti volgari. Narasan si sentì sprofondare, ma per fortuna il marito della donna, che era un omone, intervenne prima che Veltan alzasse la mano e annientasse l'intero esercito trogita. Narasan sperò che Omago si spingesse un po' oltre: impugnava una lancia ed era un peccato sprecare una splendida opportunità di liberare l'esercito da un imbarazzo crescente. Jalkan, imprecando e sputando sangue, portò la mano al pugnale, ma Keselo lo fermò all'istante, minacciando di ucciderlo lì per lì. Narasan sperò con fervore che quell'idiota commettesse un altro errore, in modo che Keselo mettesse in atto la minaccia. Purtroppo Jalkan, come al solito, lo deluse. Però quell'incidente imbarazzante era esattamente ciò che Narasan aveva sperato. Gli revocò all'istante, e pubblicamente, il grado di ufficiale e ordinò a Padan di incatenarlo e portarlo alla spiaggia. Quindi, ritenendolo un gesto appropriato, offrì al marito della donna l'opportunità di occuparsi personalmente di Jalkan; con la lancia, se voleva. Omago parve tentato, ma declinò l'offerta. Narasan ne fu terribilmente deluso, ma avrebbe trovato la punizione appropriata per convincere Veltan di aver ingaggiato l'esercito giusto. Nei giorni seguenti, Narasan e Sorgan trascorsero buona parte del tempo nella sala della mappa. Il fiume che dalla cascata scendeva fino al mare si trovava un po' a nord rispetto alla casa di Veltan, quindi arrivare con le navi fino alla foce del fiume sarebbe stata la mossa più ovvia. «Dobbiamo portare la gente lassù in tutta fretta», stabilì con fermezza Sorgan. «Chiunque arriverà per primo avrà un enorme vantaggio.» «Certo, la penso anch'io così, vecchio mio», confermò Narasan. «Vecchio?» protestò Sorgan. «Scusa, è solo un modo di dire.» Narasan aggrottò la fronte. «Penso sia meglio scambiare due chiacchiere con l'amico di Veltan, quello specializzato nel far saltare via i denti a chi gli insulta la moglie.» «Avresti dovuto uccidere quell'idiota sul posto!» «E sporcare questa mappa di sangue? Non essere sciocco, Becco d'Uncino. Lo sistemerò a tempo debito. Adesso ho da fare. Ho notato che Leprotto e Keselo sembrano andare parecchio d'accordo con l'agricoltore che
ha impartito una lezione di buone maniere a Jalkan.» «Mi sa che quei tre sono fatti della stessa pasta», confermò Sorgan. «Sempre ad avere nuove idee. Lo sapevi che Keselo sta insegnando a Omago e agli altri agricoltori a stare in formazione?» Narasan annuì. «Se avrà abbastanza tempo per raffinarli un po', ci potrebbero essere molto utili quando inizierà la guerra.» «Io accetterò tutto l'aiuto che posso avere», dichiarò Sorgan. «Non sei il solo. In questo momento, però, abbiamo bisogno di una guida che mostri ai nostri come oltrepassare la cascata senza essere trascinati in mare. Devono impiegare il tempo a costruire le fortificazioni, non a esercitarsi nel nuoto.» I due stranieri che Veltan condusse la mattina dopo nella sala della mappa erano una strana coppia. Il principe Ekial era alto e doveva essere stato ferito più volte al viso, in passato. La regina guerriera armata di tutto punto, Trenicia, era il tipo di persona che nessuno con po' di buon senso offenderebbe. Non era alta quanto Sorgan, ma ci mancava poco. In certe regioni rurali dell'impero c'erano antichi miti sulle donne guerriere e anche se Narasan non li aveva mai presi in considerazione, ora dovette ricredersi. I due ospiti erano lì come «osservatori», spiegò Veltan, poiché in un lontano futuro avrebbero combattuto le creature della Terra Desolata in altre regioni della Terra di Dhrall. Quella sera, mentre tutti banchettavano con gli squisiti cibi preparati dalla moglie di Omago, Sorgan sollevò la questione di portare gli arcieri con il resto dell'esercito fino al probabile campo di battaglia, ma Arcolungo liquidò l'idea di andarci via mare. Aveva esaminato bene la mappa e sosteneva che gli arcieri potevano coprire il percorso via terra nella metà del tempo che avrebbero impiegato con le navi. La mattina dopo, davanti alla mappa, mentre esaminava attentamente la zona attorno alla cascata, Sorgan ammise: «Non riesco a trovare un modo per arrivare lassù. C'è una parete di roccia, con tonnellate d'acqua che scendono dall'alto». «Lo vedo anch'io», replicò Narasan. «Potremmo costruire una rampa, ma ci vorrebbe tutta l'estate.» In quel momento li raggiunse Omago. «Sei proprio l'uomo a cui avevamo bisogno di parlare», lo accolse Sorgan. «Conosci la zona attorno a questa dannata cascata?» «In realtà no, ma ho mandato un messaggio a Nanton. È un pastore e sta
sempre lassù con il suo gregge, quindi è probabile che chiami per nome ogni albero e ogni arbusto. Gli ho chiesto di incontrarvi alla foce del fiume e poi farvi da guida.» «Ci hai battuti sul tempo, Omago», si complimentò Narasan. «Pensavamo che, se riuscissimo a mandare lassù un buon numero dei nostri a costruire delle fortificazioni, riusciremmo a tenere a bada il nemico fino a quando arriverà il grosso dell'esercito, ma la mappa di Veltan non mostra alcun percorso possibile.» «La mappa è precisa, ma quando le pecore cercano l'erba trovano il modo di raggiungerla, e ovunque vadano le sue pecore, lì va anche Nanton. I sentieri che seguirete saranno erti e stretti, ma se le pecore ce la fanno a salire in cima, ci riusciranno anche i tuoi uomini.» Sorgan socchiuse gli occhi. «Skell, penso.» «Rifammi il ragionamento», lo apostrofò Narasan. «È stato un po' troppo rapido.» «Dovremmo mandare Skell con l'amico di Omago. Sa esattamente che cosa cercare e sarà in grado di individuare i punti migliori per i nostri forti, e questo potrebbe farci risparmiare un sacco di tempo. Poi, se gli uominiserpente fossero già lassù, Skell sarebbe in grado di scivolare via di soppiatto e ritornare giù ad avvertirci.» «Sono sicuro che Veltan ci avrebbe avvisati, se il nemico fosse già in posizione», obiettò Narasan. «Tu ti preoccupi troppo. Penso che manderò Padan, assieme a Skell. Padan lascerà dei segni che indicheranno il percorso alle mie truppe. Sorgan, amico mio, questa potrebbe rivelarsi una guerra più facile di quanto ci aspettavamo.» «Sono sempre andato pazzo per le guerre facili. Per quanto ne so, sono il genere migliore che ci sia.» 6 La mattina seguente all'alba, due navi maag salparono verso nord, portando al massimo due centinaia di uomini. Secondo Narasan erano pochi, ma Skell riteneva che fosse tutto ciò di cui aveva bisogno. «Se ci pensi bene, tutto quello che farà Skell, in realtà, sarà segnare la pista per noi, in modo da sapere come arrivare lassù», gli fece notare Sorgan. «Organizzerà dei gruppi di esploratori per trovare i posti adatti dove erigere i forti, e questo sarà tutto. Noi gli stiamo dietro di soli pochi giorni, quindi non è come se rimanesse là da solo per sei mesi.»
«Suppongo che tu abbia ragione», ammise Narasan. «Sei apprensivo, lo sapevi?» Narasan accennò un sorriso. «Rischio professionale, immagino. Nel corso degli anni mi sono reso conto che, se qualcosa può andare storto, probabilmente sarà così.» «Skell ha un paio di elementi a suo favore che gli daranno un vantaggio, se qualcosa andrà storto.» «Oh?» «Si chiamano Arcolungo e Barba Rossa. Nessuno di noi gradirebbe avere contro quei due. Certe volte, a guardare Arcolungo mi vengono i brividi per tutta la spina dorsale. In ogni singola occasione, quando mi volto lui è almeno tre balzi avanti a me. Ah, senti, cosa ne pensi: dovremmo prendere con noi quegli agricoltori? Non sono tanto esperti, lo sai.» «Forse dovremmo», rispose Narasan. «Secondo me, Veltan vuole coinvolgerli ed è lui quello che ci paga. Keselo li sta addestrando, e dice che fanno progressi. All'inizio erano goffi, ma ora stanno migliorando. Questa è la loro patria, dopotutto, e non ci intralceranno.» «Io detesto combattere a fianco di dilettanti», si lagnò Sorgan. «Non sai mai quando salteranno su e se la daranno a gambe.» Narasan si strinse nelle spalle. «Potremmo farli intervenire solo quando saremo sicuri che faranno ciò che ci si aspetta da loro. E poi inserirli gradatamente nell'azione principale. Nessuno è mai al massimo alla sua prima guerra, ma poi si migliora, no?» «Forse hai ragione. Non penso che esista qualcuno che nasca già guerriero, tranne forse Arcolungo. Credo che quello si sia fatto le ossa con le frecce fin da quando era un lattante.» «A che punto è il nostro rifornimento di veleno? È una cosa che ci ha dato un grande vantaggio nell'ultima guerra.» «Basterà finché non uccideremo altri uomini-serpente.» «È insolito, vero? Non succede quasi mai di imbattersi in un nemico che ci fornisce ciò di cui abbiamo bisogno per sconfiggerlo.» «Non un nemico intelligente, questo è certo, ma gli uomini-serpente non riconoscerebbero l'intelligenza neppure se gli andasse a mordere il naso.» *** Tutto sommato, Narasan era soddisfatto del loro piano rudimentale. La guerra nel Dominio di Madonna Zelana gli aveva insegnato che attenersi a
un piano scolpito nella pietra poteva portare a risultati disastrosi, quando si aveva a che fare con le creature della Terra Desolata. Prese singolarmente, erano creature stupide oltre ogni immaginazione, ma lui si era accorto che il vero nemico, lì nella Terra di Dhrall, non era un singolo individuo. Il concetto di consapevolezza di gruppo gli era estraneo, perfino assurdo, ma ormai aveva capito che liquidare le cose, anche se illogiche, poteva avere conseguenze deleterie. Per fortuna ricevevano aiuto, ma Narasan non sapeva esattamente chi li aiutava. Veltan e la sua famiglia avevano di sicuro capacità che nessun essere umano poteva vantare, ma quando erano esplosi i due vulcani gemelli, era evidente che anche Veltan era stato preso alla sprovvista. Il suo urlo di avvertimento affinché tutti loro si mettessero in salvo aveva rivelato il panico e lo sbalordimento di cui era preda. Qualcosa li stava aiutando, ma Narasan non riusciva assolutamente a identificare che cosa fosse. Era grato per l'aiuto di quell'amico sconosciuto, ma si sarebbe sentito molto più a suo agio se avesse saputo esattamente chi, o che cosa, era quell'amico. Skell Jodanson di Kormo 1 Skell e il fratello minore, Torl, erano nati nella città portuale di Kormo, sulla costa occidentale della Terra di Maag. Erano figli del famoso Jodan di Kormo, il capitano dello Squalo, un nome che seminava il terrore nel cuore di ogni trogita in navigazione nel mare occidentale. Non c'era mai stato dubbio che Skell e Torl sarebbero diventati marinai e loro, fin da piccoli, erano sempre stati impazienti che venisse quel momento. Nel porto di Kormo era divenuta pratica comune per ogni capitano ordinare un'accurata perlustrazione della propria nave prima di lasciare il porto, perché uno dei due figli di Jodan poteva essersi nascosto a bordo. Ancora bambini, erano divenuti ottimi nuotatori e questo era dovuto in gran parte al fatto che ogni settimana venivano buttati oltre il parapetto da almeno due o tre navi. Dopo tante lamentele ricevute dagli altri capitani, Jodan decise finalmente che era arrivato il momento per i suoi figli di prendere il mare. Loro due avevano sempre creduto che avrebbero cominciato sulla sua nave, lo Squalo, ma lui non la vedeva allo stesso modo. Quando era più giovane, aveva come compagni i figli del capitano: erano pigri e incompetenti, oltre
a tenere un atteggiamento sprezzante verso il resto dell'equipaggio. Si era quindi ripromesso che i suoi figli avrebbero dovuto partire dalla gavetta e guadagnarsi ogni singola promozione, come chiunque altro. Avendo navigato in gioventù con Dalto Naso Grosso, ormai divenuto famoso, fu a lui che Jodan affidò i suoi ragazzi per il loro primo imbarco: sarebbero entrati in servizio come marinai di coperta sulla sua nave, il Pesce Spada. I due ragazzi erano eccitatissimi quando il Pesce Spada salpò da Kormo in un bel giorno di primavera. Erano a prora a guardare il mare, colmi di fanciullesche aspettative, quando li trovò Naso Grosso. Fu a quel punto che impararono la prima regola dell'arte marinaresca: «Sempre sembrare indaffarati, quando il capitano è in coperta». Trascorsero i tre giorni successivi in ginocchio a sfregare il ponte del Pesce Spada e da quel momento le cose non fecero che peggiorare. Ogni volta che c'era da svolgere un compito complesso o sgradevole, Dalto chiamava automaticamente Skell e Torl. I fratelli decisero che avrebbero abbandonato la nave alla prima occasione, ma il Pesce Spada aveva acqua e cibo in abbondanza e rimase al largo per mesi, lasciando Skell e Torl in ginocchio, a tirare a lucido il ponte. Nei momenti liberi, assai scarsi, finirono con l'amare il mare. I suoi mutevoli giochi di luci e di ombre che carezzavano maestosamente le onde li sbalordivano. Di solito, era allora che il capitano Naso Grosso li coglieva a oziare e li rimproverava aspramente. In seguito, molto più tardi, Skell cominciò a capire la logica che stava dietro il comportamento del capitano: doveva persuaderli che la fama del loro genitore non aveva niente a che fare con il loro status. Li aveva fatti cominciare dal basso, come qualsiasi apprendista marinaio. Stava a dimostrare loro che erano degni di altri compiti, oltre a strofinare il ponte e a trasportare secchi colmi della puzzolente acqua di sentina. Quando il Pesce Spada fece ritorno a Kormo, Skell e suo fratello erano saliti al rango di rematori e cominciavano a sentirsi dei veri marinai. Prima che la nave salpasse di nuovo, il loro cugino Sorgan fu ingaggiato come capo gabbiere. Era qualche anno più grande di loro e aveva già navigato su un paio di navi dallo scafo lungo. Tendeva ad assumere un atteggiamento di superiorità verso di loro, e Skell decise che era bene mettere in chiaro come invece fossero lui e Torl quelli veramente superiori, dato che erano i figli del capitano Jodan, mentre Sorgan era semplicemente il figlio della sorella.
Questo offese enormemente Sorgan, che pestò per bene Skell, con grande divertimento degli altri marinai. Skell però riuscì ad assestare al cugino un bel pugno, e fu quell'unico pugno a far meritare a Sorgan Becco d'Uncino il suo nome. Il Pesce Spada continuava a saccheggiare le navi trogite, meno agili e rapide; di tanto in tanto si spingeva a sud e arrivò fino alla costa della Terra di Shaan, dove l'equipaggio di Dalto assalì gli accampamenti trogiti in cerca di oro. Fu così che Skell, Torl e Sorgan appresero i rudimenti della guerra in terraferma. La ragione principale per cui le navi dei maag prendevano il largo era l'oro, ovviamente, ma Skell cominciò a capire di essere stregato dal fascino del mare. Come ogni marinaio, era contento quando il Pesce Spada tornava in porto, ma sapeva che il mare era la sua vera casa. Navigava da circa dieci anni quando il Pesce Spada fece scalo a Weros e l'equipaggio scese a terra in cerca di svago. Naso Grosso mise severamente in chiaro che dopo tre giorni sarebbe ripartito e che non avrebbe aspettato i ritardatari. Skell e Torl tornarono a bordo appena in tempo, ma Sorgan no, e la nave salpò, lasciandolo a terra. Ormai Skell e Sorgan avevano appianato le loro divergenze e Skell sentì la mancanza del cugino. Un piovoso pomeriggio, poco dopo il ventisettesimo compleanno di Skell, il Pesce Spada entrò nel porto di Kormo dove lo Squalo era all'ancora. Il capitano Jodan si avvicinò con la sua barca a remi e conferì brevemente con Naso Grosso, quindi uscì in coperta e disse ai suoi figli che sarebbero stati trasferiti sulla sua nave come primo e secondo ufficiale. I loro predecessori erano rimasti uccisi durante una rissa da taverna, qualche settimana prima. Mentre si avvicinavano allo Squalo, Jodan smise di remare e impartì ai figli una severa lezione sul «comportamento adeguato». Adesso erano ufficiali, quindi non dovevano mostrare amicizia alla ciurma. «Essere sempre seri» fu il fulcro della sua concione. Non era permesso ridere e ghignare. Terminò con l'avvertimento: «Non chiamatemi mai 'papà'. Io sono 'capitano', e non scordatevelo». Dopo qualche anno che i figli di Jodan avevano passato come ufficiali sullo Squalo, la nave fece scalo a Weros per caricare un rifornimento di fagioli freschi. Quelli ammuffiti non avevano un buon sapore e l'equipaggio stava diventando sempre più irritabile. Skell fu abbastanza scaltro da affibbiare al fratello il compito di acqui-
stare i fagioli e se andò lungo lo scalcinato fronte del porto per farsi qualche boccale di birra. Rimase più che sorpreso nel vedere Sorgan intento a rabberciare una vecchia imbarcazione ridotta piuttosto male, ormeggiata a uno dei moli che si protendevano nella baia. «Ehi, cugino!» lo chiamò. «Hai deciso di costruirle, invece di farle navigare?» «Molto spiritoso, Skell», grugnì Sorgan, deponendo il martello con cui stava calcando la pece tra le assi nuove che formavano il ponte. «Questa nave sarà il Gabbiano, se Bove, Zampa di Prosciutto e io riusciremo a riempire tutte le falle della chiglia. Non ha ancora un bell'aspetto, ma lasciaci un po' di tempo e sarà mia.» C'era una marcata nota di fierezza nella sua voce. «Allora ti sei messo in proprio e hai comperato una nave tua, eh?» chiese Skell, camminando lungo la banchina. «Certo, cugino! D'ora in poi mi beccherò la parte di bottino che spetta al capitano, quando assalteremo le navi trogite.» Skell guardò con occhio critico la malconcia imbarcazione. «Ne hai di strada da fare, cugino», commentò scettico. «Aggiustarla ti costerà un sacco di quattrini.» Sorgan gli rivolse un sorriso malizioso. «I soldi si fanno facilmente, qui a Weros. Un marinaio che è stato al largo per sei mesi ha sete, e verso mezzanotte è talmente partito che non vede i fulmini e non sente i tuoni. Quando cominciamo a rimanere senza grana, mando Bove e Zampa di Prosciutto sul fronte del porto, alla ricerca di marinai che abbiano ancora qualcosa nella scarsella.» «Sei un ladro!» lo accusò Skell. «Tutti i maag sono ladri. I trogiti non ci porgono l'oro perché gli piace la nostra faccia. Salutami Torl e tuo padre da parte mia, va bene?» «Appena mi capita l'occasione», tagliò corto Skell, eseguendo un brusco saluto militaresco. Sorgan appoggiò il pollice al naso, facendo marameo, ed entrambi scoppiarono a ridere. Negli anni seguenti gli affari andarono a gonfie vele a bordo dello Squalo e il capitano Jodan accumulò una bella sommetta, accantonando una parte del bottino. Poi, poco dopo il trentunesimo compleanno di Skell, chiamò in cabina lui e Torl. «Ne ho abbastanza», annunciò. «Ho trascorso la maggior parte della mia vita in mare e sono stufo. Ho intenzione di vivere sulla terraferma, e que-
sto significa che lo Squalo è tuo, adesso, Skell.» Skell resistette al repentino impulso di saltare e ballare sul vecchio tavolo del padre. «C'è una condizione però», aggiunse Jodan. «D'ora in poi, mi spetterà un quinto di tutto ciò che ruberai, e non provare a imbrogliarmi. La prima volta che ci provi, venderò lo Squalo e tu tornerai a essere un marinaio comune.» Questo rovinò notevolmente il senso di giubilo di Skell. L'equipaggio dello Squalo si rilassò un po' troppo dopo il ritiro di Jodan e Skell si rese conto di dover imporre la propria autorità, mettendo in chiaro che adesso il capitano era lui ed esigeva obbedienza. Per qualche motivo, non sembravano prenderlo sul serio. Una sera il suo biondo fratello entrò nella disordinata cabina di comando. «Non fai le cose nel modo giusto», esordì sedendosi al tavolo piuttosto sudicio. «Sorridi troppo. L'equipaggio non ti prenderà sul serio finché avrai quello stupido ghigno sulla faccia. Se vuoi che ti diano retta devi cercare di assomigliare di più a papà. Lui non sorrideva mai. Cerca di apparire cupo e arcigno, anche se dentro di te stai ridendo.» «Se ci provassi, esploderei.» «Ma va'! Basta che continui a dirti che stai nascondendo i tuoi veri sentimenti, poi ti infili qua in cabina e ridi quanto ti pare.» Torl si guardò attorno. «Così avrai qualcosa da fare mentre ripulisci 'sto bordello. Se papà capitasse qui e vedesse come hai ridotto la cabina, ti spellerebbe vivo.» «Ho avuto parecchio da fare, ultimamente», si giustificò il fratello. «Tentando di trovare una veste pulita? Ma veniamo al dunque: non pensi sia ora che anch'io abbia la mia nave?» «A cosa ti serve una nave?» «Mettiamola in un altro modo, fratellone. Vuoi davvero che io rimanga a bordo dello Squalo? Se ci pensi bene, sono altrettanto ambizioso e avido e se mi tieni qui potrei cominciare ad accarezzare certe idee che non ti renderebbero felice. Colta l'allusione?» «Questo è ammutinamento!» «A volte si usa questa parola, sì.» «Come faccio a comprarti una nave? Papà si piglia un quinto di tutto quello che rubiamo.» Torl fece spallucce. «Allora dovremo rubarla. Papà vuole soltanto l'oro, non se ne farebbe gran che del quinto di una nave, ammesso che trovi una sega abbastanza grande per tagliarne via una parte.»
Skell si grattò il mento, socchiudendo gli occhi. «Gaiso, penso.» «Non ti seguo.» «L'equipaggio di ogni nave che entra a Gaiso va direttamente nelle taverne, forse perché gli osti di Gaiso non aggiungono acqua al grog, come fanno quelli delle altre città. I pochi marinai che rimangono di guardia a bordo hanno barili di quello stesso grog per tenersi allegramente ubriachi anche loro. Se ci intrufoliamo verso mezzanotte nel porto di Gaiso, potrai scegliere la nave che preferisci e la ruberemo. Se le mettiamo delle vele diverse e cambiamo qualche altra cosa, nessuno saprà mai che l'abbiamo rubata, cosa pensi?» «È un'idea tremendamente buona!» «Certo», replicò Skell con un ghigno. «Le mie idee sono sempre le migliori. Ti potrò dare qualche uomo, ma dovrai ingaggiarne altri per completare il tuo equipaggio. Non sprecare i soldi, però, perché mi pagherai un quinto di tutto quello che prenderà la tua nave.» «Un quinto?» protestò Torl. «Devi aiutarmi a mantenere papà. Non vorrai farlo morire di fame, no?» «Non è giusto!» «La giustizia non c'entra, fratellino. Se non ci stai, niente nave, e non cominciare a sbandierarmi di nuovo in faccia l'ammutinamento, o dovrai rinunciare al grog e alla birra. Se non sei d'accordo ad aiutarmi con papà, la prima volta che ti ubriachi salpo e ti lascio a terra.» «Sei un uomo duro e crudele!» «Certo. Sono il capitano dello Squalo. Ci si aspetta che lo sia. Allora, ci stai?» «Che scelta ho?» «Nessuna, fratellino. Io non lascio mai scelta.» E così, una notte lo Squalo entrò di soppiatto nel porto di Gaiso. Torl guidò un gruppetto di uomini che salì a bordo della nave prescelta, gettando oltre il parapetto i pochi marinai di guardia, poi salpò l'ancora e seguì lo Squalo fuori del porto. In una piccola insenatura nascosta i due fratelli si misero all'opera assieme ai loro uomini per cambiare aspetto alla nave rubata che, per qualche motivo, Torl volle chiamare Allodola. Skell non capiva quella scelta: di solito le navi dei maag avevano nomi assai minacciosi e «Allodola» gli sembrava inadatto. Torl aveva un senso dell'umorismo tutto suo. Dopo averci riflettuto un po' Skell decise che Grock, un marinaio dalla faccia arcigna e un po' avanti negli anni, poteva essere adatto come primo
ufficiale dello Squalo. Era uno che sorrideva di rado, ma era su quella nave da oltre dieci anni e ne conosceva ogni caratteristica. Inoltre sapeva giudicare il carattere degli uomini e fu suo il suggerimento di scegliere Baldar Pie' Torto come secondo ufficiale. «È un bravo marinaio, capitano», spiegò. «Quel piede difettoso lo fa zoppicare, ma è uno che non ammette sciocchezze. I marinai più giovani a volte sono un po' stupidi, ma Pie' Torto li fa rigare diritto.» «Allora è il nostro uomo», approvò Skell. Una volta che entrambe le navi ebbero l'equipaggio al completo, i due fratelli si rimisero al lavoro, depredando ogni imbarcazione trogita che capitava a tiro, tanto per fare contento il loro papà, naturalmente. Via via che le stagioni si susseguivano, il capitano Jodan cominciò a ingrandire la sua semplice casa sulla riva del mare, tanto che in breve assomigliò più a un castello che alla modesta dimora di un marinaio in pensione. Per parecchi anni gli affari andarono benissimo, ma poi qualche trog (così i maag chiamavano i trogiti) disgustosamente scaltro se ne uscì con l'idea del «rostro»: era uno spesso palo saldamente fissato alla prua, all'altezza della linea di galleggiamento, e ne erano dotate tutte le navi trogite in navigazione lungo la costa maag. Skell ne venne a conoscenza nel modo peggiore e riuscì solo per il rotto della cuffia a riportare lo Squalo in porto, a Kormo, prima che andasse a picco. La sua finta scontrosità divenne molto reale per un po', dopo quel disastro sfiorato. Costretto a rimanere fermo a Kormo mentre riparavano la nave, Skell sentì delle chiacchiere interessanti e appena poté ripartire scese lungo la costa per cercare di raggiungere il Gabbiano. Le voci udite nelle taverne dicevano che Sorgan aveva trovato l'oro e Skell riteneva carino da parte sua aiutare il suo parente a contarlo. Sorgan stava mettendo assieme una flotta nel porto di Kweta e accolse con gioia il cugino, a cui mostrò i lingotti d'oro accatastati nella stiva del Gabbiano. Questo provocò l'entusiasmo di Skell. C'erano però delle cose che lo preoccupavano, legate alla faccenda dell'oro. Il loro datore di lavoro era femmina e questo seccava un po' Skell, che si crucciò ancora di più quando la vide. Madonna Zelana era la donna più bella che avesse mai visto, ma sotto la superficie era più dura di una roccia. Poi c'era il nativo chiamato Arcolungo, che le faceva da guardia del
corpo. Chiunque avesse avuto un po' di sale in zucca si sarebbe guardato bene dallo stargli tra i piedi, onde evitare di irritarlo. C'era in lui una tetraggine che faceva scorrere i brividi lungo la schiena di Skell. Del gruppetto di Madonna Zelana faceva parte anche un altro nativo, Barba Rossa, che rischiò di distruggere l'atteggiamento conquistato a fatica da Skell: ogni volta che quello apriva bocca, lui doveva fare sforzi immani per non ridere a crepapelle. Sorgan e Skell ne discussero a lungo e arrivarono alla decisione che Skell avrebbe guidato l'avanguardia della flotta fino a un posto chiamato Lattash, sulla costa occidentale della Terra di Dhrall, per proteggere il Dominio di Madonna Zelana fino all'arrivo di Sorgan con la flotta principale. Torl, invece, sarebbe rimasto sulla costa maag per raccogliere i ritardatari. Skell non era troppo entusiasta alla prospettiva di una guerra sulla terraferma, ma la paga era buona, ed era questo che importava. La durata del viaggio superò ogni sua previsione: evidentemente il mare che divideva la Terra di Dhrall dalla Terra di Maag era notevolmente più esteso di quanto si era immaginato. Finalmente entrarono nella baia di Lattash, ma Skell cominciò subito ad avere dei problemi. I capitani delle varie navi avevano ipocritamente promesso a Sorgan che si sarebbero comportati bene, una volta giunti nella Terra di Dhrall, ma non ne avevano affatto intenzione. Presumevano che i primitivi abitanti del villaggio fossero deboli e inermi e quindi facili bersagli delle scorrerie maag, ma si sbagliavano di grosso. Sui marinai maag in cerca d'oro o di divertimento cominciarono a spuntare le frecce e Skell fu obbligato a intervenire duramente con i trasgressori. Ci vollero parecchie fustigazioni per far capire il suo punto di vista, ma la scelta migliore sarebbe stata, secondo lui, tenere i marinai fuori dal villaggio. «Non importa che scusa troviamo, Capità», fu il parere di Grock. «Quello che davvero conta è tenere quei turbolenti fuori dal villaggio prima che i nativi accoppano tutta la flotta.» «C'hanno ingaggiati per combattere 'na guerra, no, Capità?» intervenne Baldar Pie' Torto. «È quanto mi ha detto mio cugino Sorgan», rispose Skell. «I soldati che fanno la guerra sulla terraferma passano un sacco di tempo a costruì' forti o barricate, così ho sentito di'. Il nemico arriverà da est e il fiume che scende giù dalle montagne passa per una gola stretta, così possiamo dirci agli altri capitani che tuo cugino Sorgan ha ordinato di andare lassù a costruire un forte per tenere indietro il nemico.»
«Veramente non ha detto niente di tutto questo, Pie' Torto.» «Allora dicci una bugia a quei capitani. Quello che davvero cerchiamo di fare è di impedire che tutti loro sono fatti fuori, no?» «Pressappoco, sì.» «E, se ci dici agli altri capitani che non saranno pagati se il forte non è bello abbastanza, ci andranno di gran carriera, scommetto.» «Immagino che valga la pena provare», convenne Skell, un po' dubbioso. Quando finalmente la flotta di Sorgan arrivò, la bella Madonna Zelana decise evidentemente che un po' di onestà ci voleva. Come prima cosa, uno dei capi anziani delle numerose tribù descrisse la piena annuale del fiume. Questo seccò davvero Skell, poiché molti dei suoi uomini erano su nella gola, dove sarebbero rimasti intrappolati - e sarebbero annegati - se la descrizione di quel disastro si avvicinava alla realtà. Poi saltò fuori la questione del veleno. Skell aveva sentito delle storie sui serpenti velenosi, ma non ne aveva mai visto uno, e preferiva che le cose restassero così. L'arcigna guardia del corpo di Madonna Zelana, Arcolungo, lo mise però a suo agio descrivendogli il procedimento con cui utilizzava il veleno del nemico per ucciderne altri. A Skell pareva che ci fosse un po' di giustizia, in quello. In seguito, sarebbe stato il primo ad ammettere di non aver incontrato nemmeno una delle creature che suo cugino chiamava in modo colorito gli «uomini-serpente», perché aveva trascorso la maggior parte tempo nel Dominio di Zelana a costruire un forte inespugnabile. Ne aveva intravisto qualcuno, ma quando un nemico è a quasi un chilometro di distanza non costituisce una grande minaccia. La cosa che aveva davvero seccato Skell durante quella guerra era stata la loro alleanza con i trog. Non c'era questione sul fatto che gli uomini del comandante Narasan fossero ottimi soldati e che erano stati di grande aiuto, ma gli sembrava così innaturale avere i trog per alleati! I nativi li avevano avvertiti che la piena, rivelatasi utilissima, era un evento normale in quella regione, e quindi Skell l'aveva accettata come un fenomeno più o meno naturale, ma l'improvvisa comparsa di due vulcani alla sommità della gola, proprio quando loro ne avevano bisogno, era tutta un'altra questione. I nativi avevano cercato di dare delle spiegazioni molto improbabili, ma lui era sicuro che c'era lo zampino di Madonna Zelana.
Questo, però, faceva sorgere una domanda inquietante: se quella bellissima donna era in grado di far esplodere le montagne quando le faceva comodo, perché aveva bisogno di un esercito? Ora che tutto era finito, con l'annientamento degli invasori, Sorgan e il comandante trog erano diventati grandi amici, e Sorgan offrì la propria assistenza nella guerra per la quale i trog erano stati ingaggiati. Skell era rimasto un po' in dubbio, fino a che Madonna Zelana e suo fratello avevano generosamente offerto altro oro. Skell decise che a quel punto poteva anche continuare. 2 All'inizio dell'estate la flotta composta da navi maag e trog si diresse a sud, verso il Dominio di Veltan, e questo migliorò l'umore di Skell. Il maltempo costituiva un problema raro, in quella stagione. La flotta era guidata dal piccolo e malconcio peschereccio di Veltan ed era evidente che gli uomini a bordo (Arcolungo, Barba Rossa, Leprotto e Keselo) stavano cercando un segnale particolare, perché l'imbarcazione virò di botto verso riva, senza preavviso, e fu tirata in secca. Skell imprecò sottovoce mentre lo Squalo si inclinava di lato in seguito alla repentina manovra di Grock al timone. La spiaggia di sabbia bianca sembrava molto più pulita di tutte le altre spiagge che Skell aveva visto e i campi di frumento sui dolci pendii che salivano dalla costa erano di un verde quasi luminescente. Senza ombra di dubbio era una contrada molto bella, lui però preferiva il mare aperto. Ordinò prudentemente ai suoi uomini di calare l'ancora a qualche distanza dalla spiaggia. Lo Squalo pescava molto più del piccolo peschereccio, e lui non aveva nessuna voglia di correre rischi. Narasan e parecchie altre persone si diressero a terra per incontrare il fratello minore di Madonna Zelana e Skell notò sorpreso che Sorgan si teneva un po' indietro. Poi capì che stava cercando di essere gentile. «Che cosa innaturale!» borbottò fra sé. Era evidente che suo cugino trascorreva troppo tempo con i trog e si era lasciato contaminare da alcune delle loro usanze. Skell lasciò Grock al comando della nave e remò fino a riva, dove si mantenne nelle vicinanze del gruppetto per capire che cosa bolliva in pentola. Sorgan e i trog parevano sorpresi che un certo Omago avesse raggruppato un numero considerevole di altri agricoltori per dare una mano a
difendere il Dominio di Veltan. Questo gli faceva sorgere dei dubbi. Se gli abitanti della Terra di Dhrall potevano far fronte ai nemici da soli, come mai Madonna Zelana e i suoi parenti si erano dati tutta quella pena e avevano speso così tanto per ingaggiare dei professionisti provenienti da altre terre? Poi Veltan suggerì che andassero tutti a casa sua a vedere la «mappa in rilievo» che aveva costruito e Sorgan, rimanendo un po' indietro, chiamò Skell in disparte e gli disse: «Credo che sia meglio che tu rimanga qui, cugino. Non penso che sarebbe una buona idea se i nostri si mettessero ad andare in giro sulla spiaggia o nei villaggi. Non vogliamo che succedano di nuovo le stesse sciocchezze di quando eravamo a Lattash, vero?» Skell ritornò allo Squalo con il suo skiff, quindi mandò Grock e Baldar a riferire agli altri capitani delle navi maag la decisione di Sorgan: i marinai dovevano rimanere a bordo. Poi andò a parlare con Torl, avvertendolo che probabilmente si sarebbero dovuti muovere di nuovo, entro non molto. «Chi sta ritornando verso la spiaggia?» domandò Torl, indicando un trog vestito di pelle nera che sembrava trascinare un altro trog lungo la pista proveniente dal castello di Veltan. Skell scrutò nella luce che stava scemando. «Mi sembra Padan.» «Come mai sta trascinando quell'altro?» «E che ne so? Forse uno di loro ha infranto qualche regola.» «Potrebbe essere. I trog hanno regole per quasi tutto: quante volte il tuo cuore dovrebbe battere, quanto spesso hai il permesso di sbattere le palpebre, quando puoi respirare... tutte quelle cose terribilmente importanti che chiunque abbia il comando decide per ogni soldato dell'intero stupido esercito.» «Sono un po' esigenti, vero?» concordò Skell. «Probabilmente non è niente di importante, ma forse dovremmo avvicinarci alla nave dove lo sta portando e chiedere a Padan che cosa è successo.» Padan stava salendo dalla stiva, quando Skell accostò il suo skiff alla fiancata della larga nave trogita. «Ehi, Padan!» lo chiamò. «Sta succedendo qualcosa che dovremmo sapere?» «È che abbiamo appena avuto un colpo di fortuna», rispose il soldato, ghignando apertamente. «Abbiamo trovato l'oro?» domandò Torl. «Be', una specie. Durante la guerra vicino a Lattash avete conosciuto quell'ex prete arrogante, Jalkan?»
«Abbastanza da non voler avere più niente a che fare con lui.» «Secondo me, tutti quelli che hanno incontrato quel mascalzone allampanato provano esattamente la stessa cosa», commentò Padan, e raccontò dell'affronto di Jalkan alla bellissima donna entrata nella sala della mappa e di come il marito, Omago, gli avesse fatto sputare un po' di denti. «Mi spiace che ci siamo persi la scena», disse Torl. «Adesso viene il meglio», continuò Padan, mentre il ghigno si allargava. «Jalkan si è messo a sbraitare che il contadino doveva essere punito per aver mancato di rispetto a qualcuno che è poco meno di Dio in persona, ma Narasan gli ha tolto la divinità da sotto le chiappe revocandogli il grado di ufficiale e poi mi ha ordinato di incatenarlo e di portarlo a calci giù alla spiaggia.» «Se ti si stancano i piedi, sarò felice di prendere il tuo posto», si offrì Torl. «Fra tutti e tre, possiamo passare la settimana che viene a far andare a calci Jalkan dalla spiaggia al castello e viceversa!» Sorgan convocò Skell nella stanza della mappa, per dirgli che un pastore di nome Nanton gli avrebbe indicato come salire sulle montagne evitando le Cascate di Vash. «Narasan e io abbiamo deciso che tu sei il più indicato per guidare un piccolo gruppo di ricognizione.» «Sai che novità!» borbottò lui. «Non fare lo scontroso, cugino. Devi solo osservare il terreno e capire qual è il percorso più probabile che sceglieranno gli invasori. Poi scegli i posti migliori per costruire i forti.» «E hai anche intenzione di mostrarmi come infilarmi la tunica?» «Oh, piantala!» «Accade molto spesso?» chiese Narasan, con espressione divertita. «Tutte le volte», rispose Sorgan, sollevando gli occhi al cielo. «Skell crede di essere divertente, ma io ho smesso di ridere parecchio tempo fa. Quanto tempo pensi che impiegherà Gunda ad arrivare con il resto del tuo esercito?» «È difficile saperlo per certo. Ho lasciato il grosso delle forze con un uomo molto affidabile, il sottocomandante Andar. Lui saprà cosa fare, non appena Gunda gli dirà che è tempo di muoversi. Penso che il problema principale per lui sarà trovare abbastanza navi per portare qui ottantamila uomini. Sono certo che Gunda ci farà sapere quanto dovremo ancora aspettare.» Sorgan alzò le spalle. «Sono sicuro che troveremo il modo di tenerci oc-
cupati, nel frattempo. La mappa di Veltan è piccina picciò, quindi mi sentirò più tranquillo dopo che Skell avrà visto il territorio con i suoi occhi.» «Piccina picciò?» Narasan aveva un tono divertito. «Credo di aver passato troppo tempo vicino a Eleria», replicò Sorgan, scuotendo la testa. «Bene, allora, non occorre aspettare che arrivi Gunda», stabilì Skell. «Io e Torl faremo un po' di sopralluoghi. Dateci un paio di giorni e avremo un'idea precisa di dove installare i forti. Poi il resto degli uomini potrà salire lassù e cominciare a gettare le fondamenta. Quando Gunda arriverà, le avremo già finite e i suoi uomini potranno continuare l'opera.» «Che ne pensi, Narasan?» volle sapere Sorgan. «Mi sta bene.» «Probabilmente ti serviranno gli equipaggi di cinque navi da portarti dietro, vero?» chiese Sorgan a Skell. «Sii serio, cugino», brontolò lui. «La ciurma di Torl e la mia sono già troppe. Non guiderò un'invasione, lo sai. Vado su solo per dare un'occhiata. Meno uomini dovrò trascinarmi dietro, più in fretta mi muoverò. So qual è il mio compito, Sorgan, quindi togliti dai piedi e lasciamelo fare.» Skell e Torl salparono la mattina dopo alle prime luci dell'alba. Calcolarono che avrebbero impiegato due giorni per raggiungere la foce del Fiume Vash e Skell trascorse buona parte del suo tempo ad approfondire la conoscenza dell'arciere chiamato Arcolungo. Nella gola sopra Lattash erano accadute molte cose che avevano dimostrato come quel nativo ne sapesse più di chiunque altro sui loro nemici, e questo lo rendeva estremamente prezioso. Nel tardo pomeriggio del primo giorno di viaggio, Skell raggiunse Arcolungo a prora dello Squalo e attaccò discorso con lui. «Ho trascorso quasi tutto il mio tempo a costruire il forte, quando cercavamo di bloccare l'accesso a quella gola», esordì, «e non ne so molto sulla gente che stavamo combattendo. Ho sentito che tu li conosci meglio di chiunque altro, quindi forse è a te che dovrei chiedere se c'è qualcosa di particolare che devo sapere su di loro.» «La cosa più importante da sapere sulle creature della Terra Desolata è che non conoscono la paura», rispose l'arciere. «Sono coraggiosi, intendi?» «'Coraggiosi' non è il termine giusto. 'Stupidi' si avvicina di più, ma non è corretto nemmeno quello. Quegli individui non possiedono ciò che noi
chiamiamo intelligenza. Eseguono gli ordini del Vlagh, anche i più impossibili.» «Allora direi che 'stupidi' può andar bene», commentò Skell. Arcolungo si strinse nelle spalle. «La loro mente non funziona come la nostra, forse perché loro non hanno menti separate. Ciò che uno di loro apprende, lo apprendono tutti, e le decisioni vengono prese da quella consapevolezza di gruppo. Al centro di tale consapevolezza sta 'Quello Chiamato il Vlagh'. È il Vlagh a prendere le decisioni, e un suo servitore continuerà a cercare di realizzarle, anche se è l'unico rimasto in vita.» «Questo ci riporta a 'stupidi', no?» «Noi possiamo vederla in questo modo, ma loro no. Naturalmente, non sanno che possono morire. Sono convinti di vivere in eterno e che nulla può ucciderli.» «Come hai fatto a scoprire tutto questo?» «Sono un cacciatore, e la prima cosa che un cacciatore impara è a pensare come la sua preda, qualsiasi cosa sia. Se non ci riesce, non mangerà tanto spesso.» Arcolungo guardò l'acqua increspata davanti alla prua. «Tu hai trascorso molto del tuo tempo qui sulla superficie di Madre Mare, vero?» «È ciò che fanno i marinai, Arcolungo.» «Hai passato anche molto tempo a pescare?» «Un po', sì. Perché?» «Quando peschi, metti all'amo un'esca che secondo te il pesce avrà voglia di mangiare, vero?» «Se voglio beccare qualcosa sì.» «Allora un bravo pescatore ha imparato a pensare come un pesce, diresti così?» «Non l'avevo mai vista in questa maniera, però probabilmente hai ragione», ammise Skell. «Che genere di esca funziona meglio quando si vogliono pescare gli uomini-serpente?» «Le persone funzionano bene», rispose Arcolungo con un lieve sorriso. «Le persone?» sbottò Skell. «Non agitarti. Se metti delle persone davanti alle creature della Terra Desolata, correranno fuori all'aperto per cercare di ucciderle, e questo rende facilissimo colpirle con le frecce. Loro non hanno idea di cosa sia una freccia, quindi non capiscono come mai tutti i loro amici cadono. Ci sono altri modi per farlo, ma usare le persone come esca sembra dare il risultato migliore. Inondazioni ed eruzioni vulcaniche funzionano benissimo, però provocarle può essere un po' complicato. Meglio attenersi alle cose sem-
plici.» Raggiunsero la foce del Fiume Vash il giorno dopo, verso sera, e ad attenderli sulla spiaggia c'era Nanton. Omago salì sullo stesso skiff di Skell e, una volta a riva, gli presentò il suo barbuto amico. «Tutti gli uomini di quelle due barche verranno con noi?» chiese Nanton a Skell. «Navi», lo corresse lui distrattamente. «Eh?» «Noi le chiamiamo navi, non barche.» «Che differenza c'è?» «Non lo so per certo», ammise Skell. «Mi sembra che una decina di uomini basterà. Dobbiamo solo dare una rapida occhiata attorno. La cosa davvero importante sarà segnare la pista, così le truppe che arriveranno in seguito sapranno da che parte passare. Ti sei già imbattuto nei nemici?» «Non questa estate», rispose Nanton. «La primavera scorsa ce n'erano un po' che ficcavano il naso dappertutto e facevano domande, ma su in cima non ho ancora incontrato nessuno.» «Sanno parlare?» si stupì Skell. «Quelli che ho visto io sì. Sostenevano di essere mercanti, ma non gli ho creduto. Penso che curiosassero in giro.» Skell socchiuse gli occhi e guardò il fiume. «Quanto è lontana la cascata?» «Circa il doppio che ci vuole da qui alla casa di Veltan. Non potremo risalire il fiume nel tratto montano, ma quello in pianura è calmo.» «Bene. Porteremo le due navi a remi fin dove potremo, quindi saliremo su in dieci o quindici al massimo. Ci guarderemo attorno e poi manderò giù qualcuno che guidi il resto degli uomini fino a noi.» «Sì, dovrebbe andar bene fare in questo modo», approvò Nanton. «Il tuo gregge è lassù?» gli domandò Omago. «Per il momento sì. Se ci sarà una guerra, però, lo sposterò in un pascolo più sicuro.» «Sembra che tu conosca molto bene queste montagne», osservò Skell. «Ci ho passato quasi tutta la vita, almeno d'estate. D'autunno riporto giù il gregge.» «Non sarebbe più facile se le tenessi sempre quaggiù in pianura?» «Forse, ma l'erba della montagna è migliore, e non devo scacciare di continuo le mie pecore dai campi coltivati. Gli agricoltori sembrano sem-
pre preoccuparsi quando vedono alcune centinaia di pecore affamate arrivare sulla collina.» «Mi chiedo come mai», commentò Skell, senza l'ombra di un sorriso. 3 Ci vollero un paio di giorni per far risalire a remi le due navi su per il tratto tranquillo del Fiume Vash, fino al punto in cui il piccolo torrente di Nanton scendeva dalle montagne. Skell ancorò lo Squalo e raggiunse l'Allodola con il suo skiff per conferire con il fratello. «Ho la netta sensazione che l'amico di Omago non avrà voglia di avere tanta gente attorno, quando ci porterà su in esplorazione, quindi è meglio che il gruppo sia limitato. Nanton conosce la zona come le sue tasche e può farmi risparmiare un sacco di tempo, se me lo tengo buono.» «Torniamo alla strategia 'non offendere i nemici', eh?» commentò Torl. «Meglio lasciare le cose tranquille finché possiamo. Perché non rimani qui? Metti gli uomini al lavoro a costruire banchine lungo la sponda. Tra non molto ci sarà in arrivo una caterva di navi da cui sbarcheranno truppe in grande quantità. Facilitiamogli le cose, in modo che non si formi una coda di navi trog fino alla foce del fiume.» «Chi prenderai con te?» «Nanton, è ovvio, e Omago», rispose Skell, socchiudendo gli occhi nel guardare il piccolo torrente, «e voglio senza dubbio Arcolungo e Barba Rossa. Narasan ha affidato a Padan il compito di segnare il percorso, quindi verrà anche lui.» «Tutto qua? Non stai limitandoti troppo?» Skell fece spallucce. «Dobbiamo andare lassù solo per guardare, fratellino. Prenderò anche Grock, nel caso ci sia bisogno di mandarvi un messaggero, se la situazione si agita, e poi darò il tocco finale con Leprotto e Keselo. Quei due vanno molto d'accordo con Arcolungo, quindi potrebbero essere utili. Voglio muovermi in fretta e in silenzio, quindi credo che questi uomini siano sufficienti.» Skell partì con il suo gruppetto la mattina dopo alle prime luce dell'alba e ben presto fu chiaro che quella non sarebbe stata una passeggiata. Il sottobosco sui due lati del torrente era foltissimo e gli alti sempreverdi bloccavano la luce del sole, sembrava fosse sempre il crepuscolo. Grock, primo ufficiale dello Squalo, era stato abbastanza scaltro da portare con sé un ro-
tolo di corda e dopo nemmeno tre o quattrocento metri si resero conto che l'avrebbero usata spesso, infatti il corso d'acqua saltellava, piuttosto che scorrere. A Skell sembrava che ci fosse una cascatella spumeggiante ogni quindici metri circa. Per fortuna, Leprotto era agilissimo e riusciva ad arrampicarsi sulle rocce con la corda sulle spalle, ne legava un'estremità al tronco di un grosso albero e lanciava l'altra ai suoi compagni. Giunto mezzogiorno, Skell ebbe l'impressione di aver passato più tempo ad avanzare tenendosi alla corda che a camminare. «Come diavolo fai a portare un gregge di pecore su per di qua?» chiese al pastore. Tra la barba e i baffi di Nanton si allargò un lieve sorriso. «Quando una pecora vuole davvero qualcosa, che sia erba fresca o una femmina in cerca di compagnia, può arrivare quasi a scalare rocce ripide come pareti. Naturalmente, le pecore hanno quattro zampe e degli zoccoli molto duri.» Qualche ora dopo, il sole cominciò a calare e Skell fece fermare il gruppo. «Basta così, per oggi», decise. «Non credo che annaspare fra i cespugli al buio sia una buona idea. Potrebbero non esserci gli uomini-insetto qua attorno, ma è meglio non correre rischi.» «Ottima idea», approvò Leprotto. La mattina dopo si alzarono presto e dopo aver mangiato continuarono la faticosa avanzata tenendosi alla corda di Grock. Di tanto in tanto, Padan annodava pezzi di cordicella gialla attorno ai rami di alberi e arbusti, per segnare il sentiero che l'esercito di Narasan avrebbe ben presto dovuto percorrere. «È solo un suggerimento, capitano Skell», se ne uscì il giovane trog chiamato Keselo verso metà mattinata, «ma penso che le truppe del comandante Narasan riuscirebbero ad avanzare più rapidamente se legassimo delle corde nei punti più ripidi. Quel rotolo che ha portato Grock è stato molto utile.» «Grock sa quello che fa. A proposito, dov'è?» «Ha detto a Omago che andava a cercare un percorso più all'aperto. Ho l'impressione che la macchia non gli piaccia tanto.» «Nemmeno io ne vado pazzo.» «Dà la possibilità di nascondersi se si vuole fare un'imboscata al nemico, ma è l'unica cosa a cui serve», replicò Keselo, poi esclamò: «Guarda, capitano Skell, sta ritornando! Come corre! Se inciampa e cade, rotolerà giù fino al fiume!» Skell guardò verso l'erto pendio. «Che idiota! Grock, rallenta!» sbraitò.
«Ti romperai l'osso del collo!» «Ho trovato l'oro, Capità» rispose quello, berciando a tutto spiano. «L'oro! Ce ne sono tonnellate, su in quella parete rocciosa!» «Stai fermo dove sei!» gli ordinò Skell. «Vengo su io.» Rivolto a Keselo, aggiunse: «Andiamo a dare un'occhiata». Entrambi si fecero strada tra il fitto sottobosco, guadarono il corso d'acqua e salirono dall'altra parte. Trovarono Grock in preda a un tremito violento, che leccava una pietra scura. «Fammi vedere», gli ordinò Skell. Il suo primo ufficiale gli porse il frammento di roccia. «È proprio qui, Capità», disse, indicando un luccichio giallo sulla superficie. «C'ero passato davanti senza accorgermene, ma il vento ha fatto ondeggiare gli abeti e il sole ci ha picchiato sopra e ho visto brillare da non crederci. Sono tornato indietro e ho guardato bene. Quella parete rocciosa è piena dappertutto di pagliuzze dorate che luccicano. Ci vorrà un po' a picconare via la roccia ma ne vale certo la pena.» Skell aveva trattenuto il respiro e in quel momento lo lasciò andare con una forza quasi esplosiva. «Penso che dovremmo chiedere a Leprotto di dare un'occhiata», suggerì Keselo. «Di metalli ne sa più di chiunque altro, quindi ci saprà dire se è davvero oro.» «Cos'altro può essere?» protestò Grock. «È giallo, e questo significa oro, no?» «Leprotto!» vociò Skell. «Ho bisogno di te. Vieni!» Il piccolo e nerboruto fabbro del Gabbiano salì di corsa il ripido pendio. «C'è qualche problema?» «Forse. E forse no.» Skell gli porse la pietra che gli aveva dato Grock. «Guardala e dicci cosa ne pensi. Quella pagliuzza gialla è oro? O è qualche altra cosa?» «Facile verificare.» Leprotto estrasse il pugnale dal fodero e con la punta graffiò la traccia gialla, provocando una scintilla. «Mi spiace, capitano, ma non è oro. L'oro non manda scintille in questo modo, quando lo si raschia con una lama.» «Ne sei proprio sicuro?» chiese Grock, mostrandosi deluso. «C'è un modo sicuro per scoprirlo. Qualcuno ha una moneta d'oro?» Keselo ne porse al piccolo fabbro una di notevoli dimensioni. Leprotto la raschiò con la punta del pugnale. «Niente scintille, capitano», annunciò.
Skell rivolse al giovane trog uno sguardo deciso. «Tu lo sapevi che non era oro, vero?» «Ne ero abbastanza sicuro», ammise Keselo. «Ma ho pensato che Leprotto fosse il più qualificato per stabilirlo. Credo che sia ciò che viene chiamata 'pirite di ferro'. È fondamentalmente ferro, ma contaminato con lo zolfo. Ho sentito che in alcuni luoghi lo usano al posto della selce per accendere il fuoco.» «Allora non vale niente?» Skell era sempre più deluso. «Forse non del tutto. Il ferro vale qualcosa, e ci si può accendere il fuoco.» «Oh, be'.» Skell sospirò. «Immagino che dovremo ritornare al lavoro onesto, allora. Mi spiace, Grock, ma a quanto pare oggi non diventeremo ricchi.» Mentre ritornavano verso il ruscello, Skell sentì i capelli rizzarglisi sulla nuca e scrutò attorno. Era quasi certo che qualcuno li stava osservando, ma non vide nessuno, quindi scacciò l'idea. *** «Non è noioso stare tutto il giorno seduto su una collina a guardare le pecore mangiare l'erba?» domandò Arcolungo. «La noia è la parte piacevole del mestiere di pastore», rispose Nanton. «È quando le cose non sono noiose che comincio a desiderare di aver scelto un altro lavoro. Avere a che fare con un branco di lupi affamati può essere molto eccitante.» «Non è difficile prendere la mira con una fionda?» «No, se ci si esercita tutti i giorni. Dopo un po', la fionda diventa quasi parte della mano.» «Ah. E non hai mai mancato il bersaglio, lanciando un sasso contro un lupo o un cervo, vero?» «Non che mi ricordi, no. Come fai a saperlo?» «Ho lo stesso legame con il mio arco. È un po' difficile da spiegare alla gente, eh?» «Io ho smesso di spiegarlo anni fa», ammise Nanton. «Certo, non capita spesso. La vita di un pastore è alquanto solitaria, non c'è nessuno attorno che mi guarda mentre scaccio un branco di lupi.» «Ci sono altri animali nei dintorni?» Nanton allargò le braccia. «I soliti: cervi, uccelli, conigli e scoiattoli, e
poi ci sono i pipistrelli che vengono fuori di sera a mangiare gli insetti.» «Ho un'idea.» Arcolungo ghignò. «I pipistrelli mangiano gli insetti, eh? Poiché i nostri nemici sono in parte insetti, magari dovremmo fare una chiacchierata con i pipistrelli e fargli sapere che sta arrivando la cena dalla Terra Desolata.» «Non credo di aver mai visto un pipistrello così grosso», rispose Nanton, «e non parlo scorrevolmente il pipistrellese. E tu?» «Magari dovremmo parlarne con Veltan. Se si mette a volare assieme a loro per una settimana o due, potrebbe imparare il loro linguaggio e stringere un'alleanza.» «Può valere la pena provare», convenne il pastore. «Accetterò tutto l'aiuto che posso avere.» Skell rimase un po' indietro. Arcolungo non era poi così gelido come tutti sembravano ritenere. Quella conversazione informale con il pastore era stata rivelatrice. Skell sapeva che Arcolungo e Barba Rossa erano molto amici e si rendeva anche conto dell'amicizia che legava l'arciere a Leprotto e a Keselo. Evidentemente, adesso si stava aprendo anche a Nanton. Skell non sapeva esattamente perché, ma capiva che secondo il gelido arciere il pastore sarebbe stato prezioso durante la guerra imminente. Era qualcosa su cui meditare. 4 Raggiunsero la loro meta il giorno dopo, verso mezzogiorno, e Skell rimase un po' sorpreso nel vedere l'altipiano che si dispiegava davanti a loro, molto gradevole a guardarsi. Nanton aveva parlato di un «prato», ma lui non ne aveva mai visto uno così vasto. Dal limite meridionale a quello settentrionale dovevano esserci almeno quindici chilometri. L'erba era verde e lussureggiante, interrotta qua e là da gruppi di alberi. Skell non aveva del tutto capito che cosa fosse il «geyser» descritto da Veltan, la sorgente principale del Fiume Vash, quindi provò una sorta di timore reverenziale davanti all'enorme getto d'acqua che si sollevava in aria fino a una trentina di metri. Evidentemente, sottoterra accadevano cose assai interessanti. L'altipiano era circondato per tre lati da crinali montuosi frastagliati. In quello meridionale si apriva un varco dove l'acqua che sgorgava dal geyser si precipitava a valle, formando le Cascate di Vash. Il lato settentrionale mostrava al centro un'apertura più larga. Skell ricordava che, secondo la mappa in rilievo di Veltan, a nord di quel crinale
si estendeva la Terra Desolata: il varco che lo interrompeva era quasi certamente il punto da cui sarebbero entrati gli invasori. «Bello, vero?» commentò Padan, guardando il prato. «Non male», concordò Skell, quindi indicò il crinale a nord. «Faremo meglio a concentrarci su quella zona. I nostri nemici arriveranno di lì e il varco nel crinale mi sembra largo almeno un chilometro e mezzo, forse di più. Il cugino Sorgan e il tuo comandante saranno qui tra pochi giorni, ma penso che non avremo abbastanza gente per bloccare il passaggio fino a che non arriverà il tuo amico Gunda, con il grosso del vostro esercito. Se il nemico non attaccherà da quel deserto fino al mese prossimo potrebbe andare tutto bene, ma se dovesse succedere tra una settimana ci troveremo in un sacco di guai.» L'interruzione nel crinale montuoso sembrava il risultato di un evento abbastanza recente, poiché la superficie della roccia tagliata non mostrava i segni lasciati dalle intemperie. La scarpata che portava al varco dal deserto sottostante era ingombra di detriti e questo faceva pensare che si fosse verificato qualche disastro naturale. «Avete spesso terremoti da queste parti, Nanton?» si informò Arcolungo, mentre guardavano dall'alto la Terra Desolata. «Di tanto in tanto» rispose il pastore. «Di solito, però, non sono così violenti da far crollare queste creste rocciose.» Skell stava scrutando la scarpata. «È un peccato che tutte quelle pietre siano rotolate giù lungo il fianco settentrionale», commentò. «Sarebbero molto più utili se fossero dalla nostra parte.» «Non è detto che non le utilizzeremo», replicò Padan. «Quando il mio comandante e tuo cugino arriveranno quassù con i loro uomini, potrebbero costruire una serie di fortificazioni di media altezza lungo la scarpata. Servirebbero a rallentare l'avanzata dei nemici e ci darebbero il tempo di costruire un muro più resistente quassù. Così avremmo migliori possibilità di trattenere il nemico fino a che non arriverà Gunda.» «Questo mi ricorda una cosa che avevo quasi dimenticato. Ehi, Grock!» «Sì, Capità?» rispose subito Grock. «Torna giù e di' a mio fratello di cominciare a far salire i suoi per quella stretta gola e che faranno più in fretta mettendo delle corde, come abbiamo fatto noi con quel rotolo che hai portato tu. Digli di predisporre numerose piste. Se gli uomini di Narasan devono salire uno alla volta, gli ci vorrà tutta l'estate per portare l'esercito qui.»
«Faremo come dici, Capità», gli assicurò Grock e si diresse subito sulla via del ritorno. «C'è un'altra cosa da prendere in considerazione», intervenne Leprotto. «Gli arcieri di Arcolungo stanno attraversando le montagne per raggiungerci e, una volta arrivati qui, i nemici non daranno fastidio ai soldati intenti a costruire il muro, perché saranno troppo occupati a morire.» «Ha ragione», commentò Padan. «Il meglio che possiamo fare con spade e lance è tenere la situazione in equilibrio. Ci vogliono gli arcieri per volgerla a nostro favore.» Guardò Arcolungo. «Hai idea di quando arriveranno i tuoi amici?» Lui si grattò una guancia. «Forse tra un paio di settimane. Devono attraversare le montagne, e questo rallenta il cammino.» «Se mio cugino e il comandante Narasan sono salpati verso nord nei tempi previsti, probabilmente adesso sono già all'ancora dove sbocca quel piccolo corso d'acqua e, appena Grock li metterà al corrente delle cose quassù, cominceranno a salire. Direi che saranno qui entro un paio di giorni e potranno cominciare a darsi da fare con il forte principale. Molte cose sono ancora incerte, ma se ognuno fa ciò che deve, fra due o tre giorni saremo in buone condizioni.» Al calar del sole accesero un fuoco a una certa distanza dal geyser e Leprotto cucinò una grossa pentolata di fagioli. A un certo momento, Omago si alzò per aggiungere legna al fuoco ma poi si abbassò istintivamente, per evitare un pipistrello che stava arrivando velocissimo. «Vorrei tanto che la smettessero di fare così!» «È il fuoco», gli spiegò Nanton. «La luce del fuoco attira gli insetti, e i pipistrelli hanno fame.» Arcolungo sollevò la testa di scatto e allungò la mano verso l'arco. «C'è qualcosa che non va?» gli chiese Leprotto, alzandosi. «Non ne sono certo», rispose l'arciere, «ma qualcosa non è come dovrebbe.» Si guardò attorno, il volto improvvisamente cupo. Estrasse una freccia dalla faretra che teneva a tracolla, la incoccò e tirò. Colpì in pieno un pipistrello che cadde a terra a poca distanza dal fuoco. Lo raccolse e lo sollevò tenendolo per la punta delle ali, in modo da osservarlo bene. «È meglio che vieni qui, Barba Rossa.» «Guai?» chiese l'amico, alzandosi in piedi. «Guarda tu stesso.» Arcolungo tese il pipistrello verso di lui. Barba Rossa trasalì. «Penso sia meglio se vado a cercare gli arcieri.»
«Cosa c'è che non va?» Skell si avvicinò a sua volta. «Questo», rispose Arcolungo, mostrandogli la bestia morta. Skell fece istintivamente un balzo indietro. L'orrenda creatura aveva le ali di pipistrello, come pure le zampe con gli artigli e il corpo ricoperto di pelo, ma la testa sembrava di un'ape o forse di una formica, con mandibole prominenti. Aveva anche occhi sporgenti e strane antenne che crescevano sulla sommità della testa. «Non toccarlo», lo avvertì Barba Rossa. «Sento un certo odore di veleno.» «Di nuovo denti e pungiglioni avvelenati? Come gli uomini-serpente?» «Non ne sono sicuro, ma non credo sia una buona idea verificare a mani nude», replicò Barba Rossa, poi guardò l'amico. «Mi sa che ci hanno di nuovo anticipati sul campo di battaglia, eh, Arcolungo? Ero certo che stavolta il vantaggio fosse nostro. Da cosa hai capito che non sono dei pipistrelli normali?» «Non volano tanto bene e ne ho visti un paio passare vicino a diversi insetti senza degnarli di attenzione. Un vero pipistrello non lo avrebbe mai fatto.» «Come possiamo lottare contro un nemico che vola?» esclamò Padan, atterrito. «Arcolungo può colpirli mentre sono per aria», gli spiegò Leprotto. «Una volta l'ho visto abbattere un intero stormo di oche.» «Non perderei nemmeno un po' di tempo», dichiarò Arcolungo. «È evidente che il Vlagh ha di nuovo interferito con l'ordine naturale delle cose, quindi abbiamo bisogno degli arcieri qui entro breve, e non tra le montagne.» Fece una pausa, e un lieve sorriso gli si allargò sul volto. «Adesso che ci penso, però, le cose potrebbero non essere tremende come sembrano. Durante la guerra nel Dominio di Zelana non abbiamo visto nemmeno una di queste creature particolari, il che significa che sono un nuovo esperimento. Se è così, si stanno ancora guardando attorno, cercando di capire perché sono qui e cosa dovrebbero fare.» «Significa anche che non sanno nulla di come si combattono le guerre?» chiese Leprotto. «Non sanno come noi combattiamo le guerre. Se questi esseri appartengono a una nuova specie, ci vorranno almeno venti covate prima che capiscano appieno che cosa sono in grado di fare. Non vivono abbastanza a lungo da raggiungere quel livello di comprensione in una sola generazione. Secondo me, questi sono capaci solo di volare e di osservarci.»
«Esploratori, intendi?» chiese Skell. «Esatto. Non vivranno abbastanza da spingersi oltre. Il nostro sciamano, Colui Che Guarisce, tanto tempo fa mi ha spiegato alcuni particolari cose riguardo i servitori del Vlagh. Dopo aver raggiunto il loro stadio finale, vivono solo sei settimane: un periodo insufficiente per apprendere. Le loro conoscenze però si accumulano nel corso delle generazioni, quindi quelli che incontreremo in seguito saranno più intelligenti.» «Forse allora dovremmo nascondere questo che è morto», propose Leprotto, guardandosi rapidamente attorno. «Non ti seguo», ammise Keselo. «Se non sanno che cosa possono fargli le frecce, commetteranno un sacco di errori, no? Se pensano che un arco è solo un bastone, non ci faranno caso quando duecento arcieri impugneranno i loro archi. Potremmo avere pipistrelli morti che cadono dal cielo per una settimana o due, se non capiscono che cosa sta accadendo.» «Ottima osservazione», si complimentò Skell. «Accatastiamo un po' di frasche sopra questo cadavere e poi comportiamoci come se non fosse successo niente di importante.» «Capitano Skell», aggiunse Leprotto, «non so se funzionerà, ma forse delle reti da pesca potrebbero impedire a quei cosi pipistrellosi di avvicinarsi abbastanza da morderci, e se rimangono intrappolati nelle reti, quando sorge il sole potremmo infilzarli a uno a uno con le nostre lance avvelenate. Dovrebbe assottigliare il loro numero almeno un po', non trovi?» «Buona idea, Leprotto», osservò Padan, «ma dove le troviamo le reti da pesca?» «Questo non è un problema», spiegò Skell. «Ogni nave maag ne ha parecchie a bordo. Se ci riforniamo di pesce, non dobbiamo ritornare al porto per comperare altri fagioli. Ne parlerò con il cugino Sorgan appena arriverà, ma dopo aver visto quel pipistrello-insetto morto, sono certo che approverà la proposta di Leprotto. L'idea di un nemico volante non credo che gli andrà a genio, come non va a me.» Il fratello di Skell arrivò il giorno dopo, a metà mattinata. «Avete già avvistato dei nemici?» si informò subito. «Oh sì. All'inizio non sapevamo che erano nemici, ma sono qua attorno.» «Scavano di nuovo gallerie nel terreno?» «Non che io sappia. Suppongo sia possibile, ma quelli che abbiamo visto
noi volano.» «Non dici sul serio!» «Purtroppo sì, Torl. Quel Vlagh ha fatto di nuovo i suoi esperimenti, e adesso abbiamo pipistrelli che osservano tutto ciò che facciamo.» «Pipistrelli?» Torl era incredulo. «Non rende felice neanche me. Dovremo starcene rintanati fino a quando non arriveranno gli arcieri... almeno dopo il tramonto del sole. Durante il giorno non ne abbiamo visti, per ora.» «Come facciamo a nasconderci da loro dopo il tramonto?» la voce di Torl era un po' acuta. «Calmati, fratellino. Quel piccolo fabbro ingegnoso del Gabbiano se n'è già uscito con una soluzione facile. Tutto ciò che ci serve sono delle reti da pesca, e ogni nave maag ne ha circa un chilometro accatastato nella stiva. Quando quei pipistrelli-insetto resteranno impelagati nella rete, non saranno più un problema.» «Certe volte quel piccoletto è così scaltro da farmi venire la nausea.» «Sii contento che è dalla nostra parte, fratellino», commentò Skell. 5 Verso mezzogiorno arrivarono Narasan e Sorgan e raggiunsero il gruppo di esploratori vicino al geyser. «Ehi, Skell!» vociò Sorgan. «Hai già visto qualche uomo-serpente?» «Nemmeno uno, cugino», rispose lui. «Allora siamo arrivati quassù prima di loro!» «Io non darei inizio ai festeggiamenti», replicò Skell. «Penso che finiremo con il rimpiangere gli uomini-serpente, prima che sia tutto finito.» «Che cosa vorresti dire?» «C'è una nuova razza di nemici. Questi volano.» «Non è divertente, Skell!» «Mi vedi forse ridere, cugino?» «Te lo stai inventando.» «Nemmeno un po'. Ne abbiamo uno morto sotto quel mucchio di frasche. Ha le ali da pipistrello e la testa da insetto. Vieni a vedere tu stesso. Abbiamo tenuto la carcassa, quindi puoi controllare di persona.» Skell portò i nuovi arrivati all'accampamento temporaneo e scoprì l'orrendo cadavere, aggiungendo: «Barba Rossa ha detto che sente l'odore del veleno. Io gli do retta, non ho intenzione di toccare quel coso a mani nude
per accertarmene». «Hanno già ucciso qualcuno dei tuoi?» «No, per ora. Secondo Arcolungo si limitano a perlustrare, per il momento. I pipistrelli possono essere ottimi come esploratori e io spero che vengano utilizzati solo per questo. Se ci troveremo davanti un esercito di pipistrelli-insetto, saremo nei guai fino al collo. Soltanto l'idea di nemici che volano mi fa gelare il sangue nelle vene.» Il comandante trog stava guardando giù per la scarpata che porta al deserto della Terra Desolata. «Se avremo abbastanza tempo», osservò, «potremmo utilizzare quelle pietre sparse per costruire barriere che trattengano il nemico fino a quando avremo eretto le fortificazioni attraverso l'intero varco.» «Solo se i nemici devono camminare», ribatté Sorgan. «Se fossero uomini-serpente come quelli incontrati nella gola sopra Lattash, potrebbe funzionare, ma se volano sopra le barriere, ce li troveremo addosso prima di battere ciglio.» Si guardò attorno. «Dov'è Arcolungo?» chiese irritato. «Stamattina mi ha detto che voleva dare un'occhiata al crinale occidentale, Capità», rispose Leprotto. «Penso voglia assicurarsi che i nemici non ci prendano alle spalle come hanno fatto l'altra volta.» Sorgan grugnì. «Barba Rossa vi ha dato un'idea di quanto ci vorrà, prima che arrivino gli arcieri?» Fu di nuovo Leprotto a rispondere. «Subito dopo aver visto quel pipistrello-insetto è partito di corsa. Li farà marciare più in fretta.» «Bene. Avremo bisogno di loro, penso. Spade e lance non saranno molto utili stavolta, temo.» *** «I trog sono più bravi di noi a costruire mura e forti», disse Skell al cavaliere dalla cicatrice sul volto, Ekial. «Da quanto ho sentito, nella Terra di Trog ci sono mura dappertutto.» «Credevo che si chiamassero 'trogiti'. Come mai voi abbreviate in 'trog'?» domandò Ekial. «È un'abitudine che abbiamo preso da nostro padre. Lui pensava che 'trogiti' fosse un termine inventato per sembrare più importanti. Non aveva una grande opinione di loro. Quelle che chiamano navi assomigliano di più a vasche da bagno galleggianti. Questo però ci ha reso le cose più facili,
dato che abbiamo raggiunto in mezza giornata al massimo tutte quelle che ci sono capitate a tiro.» «Perché lo avete fatto?» «Per portargli via l'oro che avevano rubato alle popolazioni a occidente.» «Come mai, allora, in questa guerra state dalla stessa parte?» «Madonna Zelana ha ingaggiato mio cugino Sorgan per mettere assieme una flotta e venire qui a combattere per lei.» «È la sorella di Dahlaine, vero?» «È quanto ho sentito, sì.» «Com'è trascorrere tutto il tempo in mare?» volle sapere Ekial. «È il tipo di vita più bello che ci sia», rispose Skell. «Quando hai una buona nave e il vento a favore, è quasi come volare. L'aria è tersa e le onde luccicano al sole come pietre preziose.» «Cominci a essere poetico!» osservò Ekial, sorridendo. «La vita sul mare fa questo effetto alle persone.» «Allora che cosa ti ha spinto a venire in un posto dove dovrai combattere una guerra sulla terraferma?» «I quattrini. Madonna Zelana ha più oro di quanto riesca a contarne e mio cugino Sorgan ha portato un centinaio di lingotti nella Terra di Maag per assoldare un esercito.» «Questo mi suona familiare. Dahlaine ha fatto lo stesso quando è venuto a Malavi a ingaggiare i cavalleggeri.» «Non penso di avere mai visto un cavallo», confessò Skell. «Ho sentito che sono un po' come le mucche, ma senza corna.» «Ci sono molte altre differenze», gli spiegò Ekial. «Adorano correre e un buon cavallo può correre per tutto il giorno, se gli chiedi di farlo. La Terra di Malavi ha pochi alberi, così, in ogni direzione, ci sono praterie per chilometri e chilometri. In un certo senso, suppongo che noi proviamo per la prateria ciò che voi maag provate per il mare.» «Solo che voi non vi bagnate quando cadete da cavallo, vero?» «Non tanto spesso, no.» Ci fu un lampo improvviso e il fragore di un tuono e comparve Veltan. «Dov'è Narasan?» domandò. «L'ultima volta che l'ho visto, lui e Sorgan stavano guardando giù per quel pendio», rispose Skell, e diede subito ordine a uno degli uomini impegnati a costruire le fortificazioni di andarlo a chiamare. «C'è qualcosa che non va?» chiese Ekial a Veltan.
«Un'intera flotta di navi trogite sta facendo sbarcare uomini sulle nostre spiagge meridionali, e non sembrano avere intenzioni amichevoli.» Skell spedì vari messaggeri per organizzare una riunione improvvisata presso il varco che dava sulla Terra Desolata, mentre Veltan camminava avanti e indietro, imprecando sottovoce. «Che cosa c'è, Skell?» chiese Sorgan, quando arrivò. «Ci sono guai nell'aria, cugino.» «Sai che novità!» «Non fare lo spiritoso!» sbottò Skell. «Si tratta di cose serie. Adesso abbiamo due invasioni da affrontare, non una soltanto.» «Vai troppo di fretta, non ti seguo. Perché non mi dai qualche dettaglio?» «È appena arrivato Veltan, e vuole parlare con tutti noi. Lascerò che sia lui a spiegare: è lui che ha visto cosa sta succedendo, non io. Facciamo le cose per bene dall'inizio, per una volta.» Ora che gli altri ebbero raggiunto l'accampamento temporaneo, Veltan era riuscito a tenere il proprio umore sotto controllo. «Bene, signori», esordì, «dopo che siete tutti partiti per venire qua, ho ricevuto alcune notizie molto inquietanti dalla costa meridionale del mio Dominio e mi sono colà recato per vedere di persona. A quanto pare, nell'Impero Trogita ci sono persone molto interessate alla Terra di Dhrall e sono venute qui per indagare. Un'enorme flotta trogita è all'ancora nella larga baia fra le due penisole della costa sud e gli uomini che ne sono sbarcati hanno occupato parecchi villaggi costieri, catturando quasi tutti gli abitanti. Alcuni di loro sembrano soldati con le uniformi rosse; ma gli altri forse non lo sono, perché indossano vesti nere e non portano armi.» «Sacerdoti», spiegò Narasan, cupo, «e i soldati in rosso appartengono alle truppe del clero.» «Questo spiega un po' di cose che non avevo capito. Comunque, i soldati hanno eretto alcuni campi recintati e vi hanno rinchiuso tutti i loro prigionieri. Quelli dalle vesti nere sono entrati nei recinti e hanno parlato alla mia gente.» «Questo mi suona familiare», commentò Padan. «Lasciami indovinare. I sacerdoti raccontano ai tuoi delle belle storie su Amar: com'è meraviglioso e come chiunque non si prostri a terra ogni volta che sente il suo nome non andrà in paradiso dopo morto. È così?» «È già accaduto, immagino», borbottò Veltan.
«È una cosa che si ripete, sì.» «Ti avevo già accennato alla corruzione nella chiesa amarita», rammentò Narasan a Veltan. «La chiesa ha trasformato la corruzione in una forma d'arte basata sulla pura avidità. L'idea che anche una sola monetina possa sfuggir loro di mano sprofonda i membri del clero nella disperazione più assoluta.» «Scusa, comandante», intervenne Keselo, «ma non è strano che quella flotta sia riuscita a trovare il passaggio attraverso i ghiacci galleggianti poco dopo che Jalkan, un ex sacerdote, è fuggito con la barca di Veltan?» «Non così strano», rispose Narasan, incupitosi ancora di più. «Avresti dovuto ucciderlo quando ne avevi l'occasione», gli disse Skell. «Quella volta ho commesso un grosso errore», ammise Narasan, poi guardò Veltan. «Laggiù sono già arrivate le navi degli schiavi?» «Mio fratello mi ha detto così», rispose lui. «Dapprima pensavo che scherzasse.» «Temo di no. È una tradizione, in situazioni simili. I soldati imprigionano i nativi, i sacerdoti predicano che il dio dei trogiti li punirà se opporranno resistenza, poi arrivano le navi che li caricano e li portano nell'impero, dove sono venduti a gente ricca, troppo pigra per lavorare. Va avanti così da secoli.» «Stavolta non accadrà!» esclamò Sorgan. «Ho una vasta flotta di navi veloci, sulla costa, e appena ritornerò giù porterò le navi di corsa fino a quella baia. I trogiti possono essere arrivati qui per mare, ma io conosco un modo per farli tornare a casa a piedi.» «Oh?» chiese Narasan. «Si chiama fuoco», spiegò Sorgan, con un sorrisetto malizioso. «Brucerò ogni singola nave trogita che troverò in quella baia e affonderò quelle dei mercanti di schiavi.» Rivolse a Veltan uno sguardo sospettoso. «Sapevi che sarebbe accaduto, vero? Il fatto di avere l'uomo giusto nel posto giusto al momento giusto non è certo una coincidenza.» «Ebbene...» Veltan sembrava sulla difensiva. «Come pensavo. Mi spiace tremendamente, Narasan, ma a quanto pare non potrò aiutarti in questa guerra, perché ne ho da combattere un'altra a sud. Però mi assicurerò che l'altro nostro nemico non ti arrivi alle spalle di soppiatto mentre sei impegnato quassù.» «Ah, be'», replicò Narasan, ostentando un finto rincrescimento. «Penso che saprò cavarmela, ma non sarà lo stesso senza di te.» Risero entrambi.
Tutto sommato, a Skell non spiaceva poi troppo non dover combattere contro le creature della Terra Desolata, e la prospettiva di bruciare un'intera flotta trog lo riempiva di un calore tutto speciale. La costa sud 1 Torl Jodanson di Kormo si sentì sollevato quando il cugino Sorgan si offrì di combattere quella particolare guerra per mare. I monti erano belli da guardare, ma a lui non garbava guerreggiare in luoghi dove i nemici potevano nascondersi dietro gli alberi o saltargli addosso alle spalle. Preferiva di gran lunga gli spazi aperti, dove poteva vedere esattamente che cosa stavano combinando. E poi, era quasi certo che l'Allodola avrebbe cominciato a mettere il broncio se non le fosse stato permesso di partecipare al divertimento. Certe navi sono fatte così. Dopo che ebbero cenato e teso le reti da pesca per tenere lontani i pipistrelli, Skell sollevò una questione che forse era sfuggita a Sorgan. «Penso che abbiamo un problema, cugino.» «Sì? Quale?» «Il letto del torrente che sale quassù dal fiume non è tanto largo, e al momento è pieno di soldati trog. Loro stanno salendo e noi vogliamo scendere. Potremmo conquistarci la strada verso il fiume lottando, ma questo irriterebbe il tuo amico Narasan.» Sorgan aggrottò la fronte. «Potresti avere ragione», ammise. «Vado a fare due chiacchiere con quel pastore che ci ha guidato quassù», si offrì Torl. «Conosce questi luoghi meglio di chiunque: se esiste un altro percorso, sarebbe l'unico a sapere qual è.» L'amico di Omago, Nanton, aveva spostato il suo gregge all'estremità meridionale dell'altipiano ricco d'erba, probabilmente per evitare che i soldati accampati a nord gli sgraffignassero le pecore quando si avvicinava l'ora di cena, e Torl lo trovò seduto accanto a un focherello, intento a guardare il cielo stellato. «Non ti senti tremendamente solo?» gli chiese. «Voglio dire, non c'è nessuno qua attorno con cui parlare, no?» «Posso sempre parlare con le pecore», replicò Nanton. «Non rispondono
tanto spesso, ma ascoltano. C'è qualcosa che non va?» «Sai», spiegò Torl, sedendosi vicino al fuoco, «quel torrentello è stato davvero utile, ma adesso le sue sponde sono piene di soldati trog. Il cugino Sorgan e il resto di noi maag dobbiamo ridiscendere al fiume in tutta fretta.» «La cascata vi riporterebbe giù in un batter d'occhio», rispose il pastore, senza il minimo accenno di sorriso, «ma non è l'idea migliore del mondo.» Aggrottò lievemente la fronte. «C'è un letto di torrente a circa un chilometro e mezzo più a nord di quell'altro. Credo che nessuno vorrebbe salire di là, ma potrebbe essere utile per scendere, se si ha abbastanza corda a disposizione. Calarvi lungo una corda sarebbe un problema per te per il tuo equipaggio?» «Siamo marinai: passiamo almeno la metà del nostro tempo ad arrampicarci sulle corde e a scivolare giù. Quanto pensi che ci vorrà per arrivare al fiume?» «Mezza giornata o poco più. Scendere è sempre stato più facile che salire.» «Ma guarda! Non ci avevo mai pensato!» scherzò Torl. Il nativo, che sembrava privo di umorismo, rise e, questo rischiarò la giornata di Torl. Quando faceva ridere gli altri si sentiva bene. Si avviò per tornare all'accampamento maag, ma a metà strada gli venne in mente un altro problema, quindi andò alla ricerca di Narasan. L'accampamento trogita era decisamente più ordinato, rispetto all'accozzaglia disorganizzata di tende e barricate messa insieme dagli uomini di Sorgan. I trog parevano ossessionati dalle linee rette, chissà come mai. «Abbiamo un problema, comandante», entrò subito in argomento Torl, appena fu nella tenda di Narasan. «Davvero? Che cosa ti turba, capitano Torl?» «Spero di non offenderti, ma le tue navi stanno ingombrando il fiume, tanto che la flotta di mio cugino Sorgan non potrà avvicinarsi abbastanza per farci salire a bordo. Se vogliamo bloccare quella seconda invasione, dovremo affrettarci a sud. C'è un modo in cui potresti ordinare alle tue navi di farsi da parte, così che le nostre possano passare?» «Non personalmente», rispose Narasan, «però so come potresti pensarci tu.» «Hai intenzione di promuovermi generale del tuo esercito?» scherzò Torl. «Ne sono molto lusingato, naturalmente, ma i capitani delle tue navi non saranno un tantino sospettosi?»
«Molto divertente, Torl! Tutto ciò che devo fare è scrivere degli ordini su un foglio di carta, firmarlo e dartelo. Quando scendi al fiume, lo sbandieri davanti ai miei uomini e le navi si faranno da parte.» «Che idea brillante! Come mai non ci ho pensato io?» «Devi sempre buttare tutto sullo scherzo? A volte sei peggio di Barba Rossa.» «Ridere fa bene, comandante, e io mi impegno a far ridere i miei amici ogni volta che posso.» «Perché non fai ridere un po' Sorgan, oppure tuo fratello? Non credo che Skell sappia come si fa.» «Potrei farlo ridere, se proprio dovessi, ma prima dovrei togliergli uno stivale.» «Questa non l'ho capita.» «È tremendamente difficile fare il solletico ai piedi di qualcuno se porta gli stivali!» Gli uomini del cugino Sorgan avevano visto che le scalette di corda usate normalmente sulle navi si erano rivelate utilissime durante la guerra nella gola sopra Lattash, quindi ne avevano portate a decine quando erano saliti sull'altipiano. Nanton aveva descritto in modo molto accurato il percorso alternativo e quelle scale di corda erano la soluzione perfetta per quello che potenzialmente sembrava un grosso problema. Sorgan, Skell e Torl impiegarono meno di mezza giornata per calarsi giù lungo il letto di torrente quasi perpendicolare. Poi si incamminarono lunga la sponda del fiume, alla ricerca dell'amico di Padan, il brigadiere generale Danai. «Assolutamente no!» esclamò l'ufficiale dalla figura snella e dagli scuri capelli, quando Sorgan gli disse senza peli sulla lingua di far sgombrare le sue navi. «Perché non lasci che ci parli io, cugino?» si offrì Torl. «Non ascolterà te più di quanto abbia ascoltato me.» «Devo solo parlargli con un tono di voce diverso», replicò Torl, porgendo al cocciuto trog il biglietto di Narasan. Danai lesse due volte gli ordini del suo comandante, quindi si arrese. «Impiegheremo circa un'ora per raggruppare tutte le nostre navi dall'altra parte del fiume», li informò. «Questo vi creerà grossi problemi?» «No», rispose Torl. «I nostri uomini stanno ancora calandosi lungo quel ripidissimo letto di torrente, ma avremo bisogno che le nostre navi arrivino
qui, in modo da salire tutti a bordo. Con ogni probabilità saremo fuori dai piedi domani, verso metà mattinata.» «Lo apprezzerei molto, capitano Torl.» Dopo un'esitazione, Danai chiese: «Il comandante è assolutamente certo che questa seconda invasione coinvolge dei trogiti?» «Le nostre informazioni provengono da una fonte molto affidabile. Evidentemente, alla chiesa trogita interessa molto la Terra di Dhrall.» «La chiesa!» si stupì Danai. «È quanto ci ha rivelato la nostra fonte.» «Volete che vi dia una mano?» Torl ghignò. «Penso che ce la caveremo, amico. Deduco che non ami molto la gente del clero.» «È proprio l'opposto di 'amare', capitano Torl. Io odio la chiesa amarita!» «Allora andremo a dargli una sculacciata da parte tua, e magari li manderemo a letto senza cena.» «Pensavo a qualcosa di più severo.» «Anch'io. 'Sculacciare' non si avvicina nemmeno a ciò che abbiamo intenzione di fare a quei mascalzoni.» «Bene. Adesso vi tolgo le mie navi dai piedi.» Danai si voltò e scese verso la sponda del fiume. «Che cos'era quel pezzo di carta, Torl?» volle sapere Sorgan. «Un ordine del comandante Narasan. Mi ero scordato di dirti che lo avevo infilato nella manica? Davvero, dovrei prestare maggiore attenzione a tutti questi piccoli dettagli. Dev'essermi sfuggito di mente.» 2 «La corda dell'arco va tirata indietro del tutto, Pugno di Ferro!» Così Torl rimproverò il suo primo ufficiale. «Passeremo ad almeno cento passi da quelle navi trog, e voglio che le nostre frecce incendiarie colpiscano le navi, non l'acqua. L'acqua non brucia tanto bene.» «Com'è che ti è venuta quest'idea?» volle sapere Pugno di Ferro. «Hai mai visto il nativo chiamato Arcolungo infilzare un uomoserpente? Be', sono convinto che Sorgan e Skell ripiegheranno sul vecchio metodo di lanciare le torce contro le navi trog che vogliamo distruggere, ma io continuo a pensare che un arco può mandare una freccia incendiata cinque o sei volte più lontano di quanto si possa scagliare una torcia, e se
avrò una dozzina di uomini che sanno maneggiare gli archi, faremo piovere frecce infuocate sulle navi trog in un batter d'occhio. In questo modo, non dovremo rallentare e avvicinarci ogni volta che ne vediamo una. Se tu e gli altri riuscirete a farlo bene, basterà passare davanti a quelle bagnarole e le trasformeremo in falò galleggianti.» Pugno di Ferro ghignò contento. «Questo rovinerà la giornata a ogni trog che starà a guardare dalla spiaggia, eh, Capità?» «L'idea è proprio questa. Rovinare la giornata ai trog mi diverte quasi quanto far uscire il numero vincente ai dadi.» Pugno di Ferro strizzò gli occhi e guardò le altre imbarcazioni nelle vicinanze. «Tuo cugino vorrà scendere a riva, quando arriveremo vicino alla casa di Veltan?» «Così ha detto. Perché me lo chiedi?» «Pensavo che potrei girellare attorno, quando saremo lì, e vedere se qualcuno è in vena di fare scommesse. Sui numeri.» «Qualcosa del tipo: 'Scommetto che noi daremo fuoco a più navi trog di voi'?» «È più o meno così che la metterei, sì.» «Come vai a quattrini?» «Non è che sto tutto piegato da una parte per il peso della mia scarsella, Capità.» «Posso darti una mano, se sei a corto.» «E dividere in parti uguali?» «Mi sembra equo.» «Farò esercitare gli uomini a tirare le frecce, Capità. Li vogliamo pronti quando cominceremo a bruciare le navi trog, in particolare se ci sono in ballo dei soldi.» Torl si grattò il mento. «Potrei sentire mio fratello e mio cugino se gli va di fare qualche scommessa.» «Se c'avranno dei soldi puntati, non credo che saranno troppo contenti quando ci vedranno accendere dei falò galleggianti lungo tutta la costa sud.» «Che peccato!» Torl esibì una comica espressione desolata. *** La mattina dopo, verso mezzogiorno, quando raggiunsero il punto della costa da cui si arrivava alla casa di Veltan, Sorgan prese con sé i due cugi-
ni e si inerpicò nell'entroterra. Voleva esaminare bene la mappa per avere una chiara idea di com'era la costa meridionale e notò molte penisole che si allungavano nel mare a formare delle baie. «Come pensavo», borbottò. «Il modo migliore di agire è bloccare l'imboccatura di ogni baia, entrare velocemente e appiccare il fuoco a ogni nave trogita ancorata lì dentro, poi passare a quelle successive. Faremo in modo che non ce ne sfugga nemmeno una. Se si salva anche una sola nave, tornerà alla costa trogita dove verrà messa insieme un'altra flotta, con un altro esercito. Dobbiamo essere sicuri che le navi arrivate alla Terra di Dhrall rimangano tutte intrappolate qua, così che, se i trog vogliono i rinforzi, devono andarseli a cercare a piedi.» Skell stava appoggiato alla balaustra della balconata sopra la mappa, osservando attentamente la rappresentazione della costa sud. «Non vedo città di notevoli dimensioni, laggiù», osservò. «Solo tanti piccoli villaggi. Se gli uomini del clero amarita cercano di radunare tutti i nativi per poterli vendere ai mercanti di schiavi, ci saranno solo cinque o sei navi di fronte a ogni villaggio. Questo dovrebbe facilitarci. Non avremo mai contro un'intera flotta, ma bruceremo le navi un po' per volta. Ci basterà passare lungo la costa per eliminarle tutte.» «Sì, mi sembra una buona osservazione, Skell», approvò Sorgan. «Poi potremmo andare un po' al largo e sparpagliarci, per essere sicuri che non ne arrivino delle altre. Con tutte le imbarcazioni distrutte e senza un modo per ricevere rinforzi, non credo che cercheranno di raggiungere le montagne. Senza le navi non avrebbero possibilità di ritirata, nel caso fossero travolti dal nemico. Solo un idiota correrebbe un rischio simile. Prima appicchiamo il fuoco, poi mettiamo il blocco. Questa seconda invasione finisce qui.» «Mi suona bene, cugino», commentò Skell. Torl aveva qualche dubbio, ma lo tenne per sé. «Secondo me, funziona meglio il catrame, Capità», suggerì Dentinfuori, il secondo ufficiale dell'Allodola. «Quando lo si incendia, il catrame si appiccica a tutto quello che tocca e propaga il fuoco molto più degli stracci imbevuti d'olio.» «Potrebbe avere ragione», commentò Pugno di Ferro. «Farebbe comodo un grosso calderone pieno di catrame bollente proprio sul ponte, dove si danno da fare quelli che lanciano le frecce. Così ne scaglieremmo di più contro le navi trog.»
«Vale la pena provare», convenne Torl. «Da questo dipende una grande quantità di soldi, quindi non tralasciamo nessuna opportunità per far andare le cose come vogliamo noi.» «Abbiamo ancora un po' di tempo per prepararci e troveremo il modo migliore per farlo.» «Come riuscirai a impedire che dalle altre navi ci vedano? Se cominciano a imitarci, le nostre vincite alle scommesse potrebbero andare in fumo.» «Si esercitano tutti sottocoperta», spiegò Pugno di Ferro. «Non ti preoccupare, Capità, faremo funzionare la cosa. Deve funzionare. Ci abbiamo investito ogni singola moneta che c'è sull'Allodola, su questa nostra idea, e se tutto non va come deve, la ciurma potrebbe decidere di buttarci a mare.» «Grazie, Pugno di Ferro», gli disse Torl con voce piatta. *** Le navi di Sorgan stavano avvicinandosi all'estremità meridionale della penisola più a est, quando fu avvistata un'enorme flotta trogita che puntava verso di loro. Ci fu subito molta tensione, finché una piccola barca si avvicinò al Gabbiano. Si scoprì così che non era la flotta trogita della seconda invasione, ma quella che trasportava il resto dell'esercito di Narasan. Gunda parlò brevemente con Sorgan, quindi ritornò indietro e guidò le navi trogite nel loro lento viaggio verso nord. Sorgan mandò diversi skiff per avvisare tutti di lasciarle passare, quindi ordinò di spiegare le vele del Gabbiano e procedere lungo la costa. Quando raggiunsero il punto più a sud della prima penisola, Sorgan fece segnalare di fermarsi. Durante la guerra nella gola sopra Lattash, avevano imparato quanto fossero utili le segnalazioni con le bandiere e Sorgan aveva messo a punto una rudimentale imitazione della più complessa versione trogita. Il suo codice comprendeva solo quattro comandi: «Fermatevi», «Affrettatevi», «Scappate» e «Parliamo», ma era sufficiente. Torl si avvicinò al Gabbiano con il suo skiff, per informarsi se il piano generale fosse cambiato. «Siamo tutti pronti?» domandò Sorgan quando i cugini lo raggiunsero nella sua cabina, a poppa. «Sappiamo cosa dobbiamo fare», rispose Skell. «Cominciamo.» «No. Rimaniamo qui dove non ci possono vedere fino all'alba di domani. Diamo ai rematori un po' di tempo per riposarsi. Una volta che comin-
ceremo, dovremo muoverci in fretta.» «Non credo che dovremo fare tanto 'in fretta'», replicò Skell, dubbioso. «Dovremo rallentare ogni volta che ci avvicineremo a una nave trog. Poiché lanceremo delle torce, dovremo aspettare per essere sicuri che ogni imbarcazione nemica bruci e che l'incendio non si possa domare. Se qualche trog su una di quelle navi sarà così sveglio da afferrare le nostre torce e gettarle in mare, quella nave non brucerà più.» «Ha ragione, cugino», ammise controvoglia Torl. «Perché le cose vadano come vogliamo noi, dovremmo fare del nostro meglio per appiccare il fuoco a ogni singola nave trogita che si trova su questo tratto di costa nello spazio di un giorno.» «Non vedo come sarà possibile!» protestò suo fratello. «Ci vuole un po' perché si sviluppi un bell'incendio su una nave. Non è come passarle vicino e gridare 'fuoco'!» Torl si mise a borbottare improperi sottovoce, mentre il suo sogno di vincere una fortuna volava fuori della finestra. «Va bene, cugino», disse a Sorgan, «se fai circolare la voce alle altre navi che tutte le scommesse sono annullate, ti dirò esattamente come possiamo incendiare ogni singola nave trog lungo questo tratto di costa in un giorno soltanto.» «Mi stavo giusto chiedendo che sorpresa serbavi nella manica. Faccela vedere, cugino!» «Non finché non mi darai la tua parola che le scommesse sono state cancellate. Se il mio equipaggio viene spellato vivo perché perdiamo tutte le nostre puntate, mi getteranno fuori dal parapetto appena saremo al largo.» «Va bene. Prometto che farò sapere a tutti che le scommesse sono cancellate. Adesso mi dici come faremo ad appiccare il fuoco all'intera flotta trog in un giorno soltanto?» «Archi, frecce e catrame», rispose Torl, cupo. «Catrame?» si stupì Skell. «Come si fa a incendiare il catrame?» «Noi ci siamo riusciti benissimo, avvicinandogli una torcia. Se conficchi venti o trenta frecce in fiamme nella fiancata di una nave, brucerà, anche in una giornata piovosa.» «Non so se a bordo dello Squalo ho tanti uomini che ne sanno qualcosa di archi e di frecce», ammise Skell. «Allora torna a usare le torce. A te la scelta. Adesso, se voi signori mi scusate, vado a bruciare le navi trog... solo per divertimento, purtroppo. Mi sa che il 'profitto' se l'è svignata.»
3 Torl si godette un bel po' di soddisfazione nell'appiccare fuoco alle navi trogite ancorate vicino ai piccoli villaggi. Aveva sempre trovato offensiva l'estrema arroganza di molti trogiti. I suoi uomini avevano passato parecchio tempo a prepararsi per quella missione e, sebbene non raggiungessero l'abilità di Arcolungo, riuscirono talmente bene nell'impresa che Torl rimase stupito dai risultati. Le navi si trasformavano davvero in «falò galleggianti» e vedere gli equipaggi che le abbandonavano in preda al panico era divertente, però rimpiangeva le vincite sicure che sarebbero spettate a lui e ai suoi: si sentiva imbrogliato. «Pugno di Ferro», chiamò. «Sì, Capità?» «Penso che possiamo aumentare la velocità. Non vedo molte frecce cadere in acqua, perciò sembra che stiamo facendo le cose per bene. Le scommesse sono annullate, ma mi piacerebbe far vedere a Sorgan che siamo i migliori incendiari di navi che ci sono al mondo.» «Ma certo!» il primo ufficiale ridacchiò. L'Allodola balzò in avanti e si lasciò alle spalle tutte le altre navi della flotta di Sorgan. Gli altri equipaggi non erano molto esperti con gli archi, spesso le loro frecce cadevano in acqua, così dovevano rallentare per ripetere i tiri e rimanevano sempre più indietro rispetto all'Allodola. A Torl sembrò quasi di udire Sorgan digrignare i denti mentre guardava lui e il suo equipaggio appiccare il fuoco a ogni singola nave trog dell'intera baia. Quando raggiunsero l'imboccatura della prima insenatura, Torl ordinò ai suoi di ritirare i remi e calare l'ancora. Il Gabbiano arrivò dopo un po'. «Che cosa fai?» gridò Sorgan. «Ci sono altre baie e altre navi trog. Perché ti fermi?» «Penso di essermi guadagnato la giornata, cugino, e di certo non voglio rubare a te e agli altri capitani tutto il divertimento. Adesso che vi ho mostrato come bisogna fare, potete occuparvi delle navi restanti senza il mio aiuto.» «Molto divertente», ringhiò Sorgan. «E come pensi di passare il resto della giornata?» «Pensavo di scoprire se oggi il pesce è dell'umore giusto per abboccare.» Torl si voltò e si avviò verso la propria cabina. «Buon divertimento, cugino, e quando avrai finito passa di qua che ti dirò quale tipo di esca funziona meglio in queste acque.»
Mentre il Gabbiano si allontanava, il cugino Sorgan si diede da fare a inventare nuove imprecazioni. Assillato dalla sensazione che qualcosa non andasse per il verso giusto, ma non riuscendo a individuare esattamente che cosa fosse, Torl camminava avanti e indietro sul ponte dell'Allodola, fissando la spiaggia. «Sembra che gli abbiamo fatto una paura boia a tutti quei trog, Capità», gongolò Pugno di Ferro. «Non ne ho visti più di tre o quattro sulla spiaggia in tutto il giorno. Non ci dovevano avere un grande esercito quaggiù?» Torl trasalì. Ecco che cosa non andava! Sulla spiaggia ci sarebbero dovuti essere i trog a guardare inorriditi la loro unica via di ritorno dissolversi tra le fiamme. «Penso che farei meglio a scendere a terra e scoprire che cosa succede», decise in tono cupo. «Non da solo, Capità», disse con fermezza il suo primo ufficiale. «Io e l'equipaggio mica vogliamo correre il rischio di perderti. Tu non sei un insensibile, come la maggior parte dei capitani, e sei molto più in gamba di qualsiasi capitano che ho visto. Un bravo capitano è difficile trovarlo.» «Sono commosso, Pugno di Ferro!» Torl era un po' sorpreso. «Non metterti a fare smancerie, eh!» replicò l'altro in tono burbero. «Va bene. Se prendo con me una dozzina di uomini per scendere a terra, ti farà stare meglio?» «Se me li lasci scegliere a me sì, Capità!» Quando Torl e i suoi uomini giunsero a riva, la spiaggia era deserta, quindi si avviarono cauti verso il vicino villaggio. Non incontrarono trogiti, ma gli abitanti parvero contenti di vederli. «Volete qualcosa?» chiese a Torl un nativo dalla faccia tonda. «Solo farvi qualche domanda. Che cosa è accaduto a tutti i trog? Abbiamo sentito che ce n'erano a migliaia da queste parti, ma, tranne gli equipaggi di quelle navi nella baia, non ne abbiamo veduti.» «Se ne sono andati già da un po'. Non credo che sentiremo la loro mancanza. Non sono stati gentili con noi. Si sono messi a correre sulla spiaggia agitando le armi e poi ci hanno radunato in un recinto che io non avrei usato nemmeno per i porci. Dopo un po', però, si sono eccitati tutti quanti per qualcosa che non sembrava avere senso e sono corsi via verso nord.» «Strano», borbottò Torl. «Se decidono di tornare, non credo che voi gli garbereste tanto. Perché
avete incendiato tutte le loro barche a quel modo?» «Veltan non voleva che vi catturassero per trasformarvi in schiavi, così siamo venuti quaggiù e gli abbiamo bruciato le navi. Qualcuno di loro ha detto perché correvano via in quel modo?» «Niente che avesse senso per me», rispose l'uomo. «Certo, ultimamente sono accadute un sacco di cose che non hanno senso. Da quanto ho capito, erano tutti eccitatissimi per qualcosa che succedeva a settentrione.» «A nord di qua non c'è gran che, a parte distese di terra coltivata. Se però si prosegue, si arriva alle montagne.» Torl aggrottò la fronte. «Ti è capitato di sentirne qualcuno nominare l'oro?» Il nativo perse ogni espressione, poi cominciò a parlare in un modo particolare, come se stesse recitando qualcosa che aveva memorizzato molto tempo prima, nel passato. «Tanto, tanto tempo fa, a un uomo nel nostro villaggio venne a noia di coltivare la terra», cominciò, «e si recò nelle montagne su a nord in cerca di una diversa contrada. Alfine giunse a una possente cascata che si gettava dalle montagne nella terra agricola sottostante. Trovò quindi una stretta pista che si inerpicava su per quei monti e lì rimirò una meraviglia mai veduta prima. Oltre le montagne vide una vasta area dove non c'erano alberi né erba, giacché quella terra altro non era che sabbia, e la sabbia non era bianca come quella delle spiagge quando Madre Mare tocca Padre Terra. Era una sabbia gialla e splendente che luccicava nella Terra Desolata con grande beltà e ora tutti gli uomini della Terra di Dhrall hanno certezza che la sabbia della Terra Desolata è oro puro e continua più lontano di dove la vista possa arrivare. «E, avendo veduto ciò, l'avventuroso agricoltore tornò a casa e mai più si spinse a vedere cose nuove e strane, giacché aveva veduto ciò che giaceva oltre le montagne e la sua curiosità era appagata.» Quando l'uomo smise di parlare, aveva un'espressione perplessa. «Non penso di sapere di cosa stai parlando, forestiero», aggiunse. «Non è tanto importante, credo», replicò Torl, come se non gli interessasse. «Grazie per le informazioni, amico. Qualunque sia la cosa che ha eccitato i trog, probabilmente non era importante, comunque li ha spinti a fare i bagagli e andarsene.» «Questo è tutto ciò che conta», concordò il nativo. Era accaduto un fatto stranissimo: sembrava che quell'uomo non si rendesse conto di avere appena narrato una storia che in realtà proveniva dalla bocca di qualcun altro. Ma cosa gli aveva dato il via? «Dev'essere stato qualcosa che ho detto», borbottò Torl fra sé. «Però, da quanto ricordo, l'ul-
tima cosa che gli ho chiesto aveva a che fare con l'oro.» Poi sbatté le palpebre. «Ma certo! È stata la parola 'oro' a svuotargli la mente e a farlo partire con la storia.» Non lontano c'era un altro abitante del villaggio, Torl si avvicinò e gli disse: «Salve, perché non parliamo dell'oro?» Immediatamente, il volto dell'uomo perse ogni espressione, mentre cominciava a narrare: «Tanto, tanto tempo fa, a un uomo del nostro villaggio venne a noia di coltivare la terra...» Torl si allontano lasciandolo parlare da solo, poi si imbatté in un altro nativo che usciva in quel momento da una capanna. «Oro», gli disse. «Tanto, tanto tempo fa...» iniziò quello. Torl ritornò alla spiaggia ridacchiando fra sé. Ammetteva che si era trattato di pura fortuna, ma aveva scoperto il motivo della partenza affrettata dei trog. «Mi chiedo se...» mormorò. Guardando lungo la spiaggia, vide che a poco più di un chilometro c'era un altro villaggio. «Facciamo una prova e lo scopriremo», si disse. Il sole stava calando quando Torl e i suoi uomini ritornarono a bordo. «Allora, Capità, hai scoperto che cosa è successo ai trog?» gli chiese subito Pugno di Ferro. «Sono andati a nord, e sono stato abbastanza fortunato da scoprire il perché. Potremmo anche fermarci in altri villaggi, ma non credo che sia necessario. Qualcuno, e non so chi, ha fatto qualcosa di veramente strano agli abitanti di cinque diversi villaggi che ho visitato oggi. Ogni singolo abitante a cui ho menzionato la parola 'oro', ha cominciato a raccontarmi esattamente la stessa storia, e tutti hanno usato le stesse precise parole. L'ho sentita tante di quelle volte che potrei recitarla anch'io, senza fare un errore.» «Faccenda davvero strana», commentò Pugno di Ferro. «'Strano' non basta nemmeno a descriverla. Mi piacerebbe sapere chi c'è dietro. Penso che, chiunque sia, sta dalla nostra parte, ma non ci giurerei. Spero che stia dalla nostra parte, perché può fare cose di cui non ho mai sentito parlare finora. Sarà meglio non farlo arrabbiare.» Poi Torl rise. «Sono certo che questo farà impazzire Sorgan e non credo che Veltan ne sarà contento. Direi che il gioco si sta facendo molto interessante.» «Ti stai inventando tutto, cugino», dichiarò Sorgan il giorno dopo,
quando il Gabbiano ritornò nella baia dove Torl stava aspettando. «Se non mi credi, prova tu stesso. Basta dire 'oro' a qualsiasi abitante di un villaggio a caso lungo la costa di questa baia e ti ripeterà esattamente la stessa storia, e poi non si ricorderà nemmeno di averla raccontata.» «È ridicolo!» «Prova.» «Non ho mai sentito prima sciocchezze simili.» «Prova.» «Stai solo facendo il buffone.» «Prova.» «Va bene, lo farò, e quando salterà fuori che sono fandonie te le suonerò di santa ragione.» Sorgan ritornò diverse ore più tardi, sbalordito. «È la cosa più strana in cui mi sono imbattuto», dichiarò. «Te lo avevo detto, cugino!» Torl aveva l'espressione compiaciuta. «Non esserne troppo contento. I trog stanno marciando a nord senza prestare la minima attenzione al destino della loro flotta. Questo significa che abbiamo fallito. Eravamo convinti che, incendiandogli le navi, li avremmo fermati, ma quell'idea ci si è rivoltata contro. Adesso non riusciremo a raggiungerli, hanno troppo vantaggio su di noi.» «Questo lo so anch'io. Cosa faremo adesso?» «Farai, Torl, non faremo», ribatté Sorgan con fermezza. «Qualcuno deve tornare lassù oltre la cascata per dire a Narasan e a Veltan che abbiamo fallito. Bruciare tutte le navi non ha fatto ne caldo né freddo agli invasori. E voglio che tu dica a Veltan che qualcuno sta manipolando quegli agricoltori. Per quanto ne so, potrebbe anche essere lui, però non avrebbe senso, no?» «Per me no», concordò Torl. «Voglio che spieghi tutte le vele e arrivi là prima che puoi. Ci piaccia o no, abbiamo due invasioni e non c'è niente che possiamo fare per fermare quella che si scatenerà contro Narasan entro pochi giorni.» 4 Fortuna volle che l'Allodola avesse un bel vento a favore nel risalire la costa, ma Torl era quasi certo che non si trattava di fortuna: ultimamente, in quella parte del mondo qualcuno si stava dando molto da fare. Durante le guerra nel Dominio di Madonna Zelana alcuni avvenimenti avevano e-
videnziato come nella Terra di Dhrall fosse comune interferire con gli eventi naturali. Torl, però, non riusciva a capire chi manovrava le cose, questa volta. Se fosse stato dalla loro parte, avrebbe dovuto bloccare la seconda invasione, invece sembrava incoraggiarla. Nulla di quanto era accaduto lungo la costa meridionale aveva senso. Contando sulla possibilità di trovare Veltan a casa, Torl mise all'ancora l'Allodola nella baia ormai familiare e salì verso il particolare edificio che si ergeva sulla collina. Trovò ad attenderlo la moglie di Omago, come se si fosse aspettata il suo arrivo. Ara era di certo la donna più bella che avesse mai visto e non riusciva a capire come mai avesse deciso di sposare quell'agricoltore alquanto rozzo. Era certo che avrebbe potuto scegliere di meglio. «Suppongo che Veltan non sia in casa, vero?» le chiese. «Purtroppo no», rispose Ara con quella sua voce vibrante. «Volevi vederlo?» «C'è qualcosa che vorrei fargli sapere, e speravo di trovarlo qui. Ho avuto molta fortuna, ultimamente, ma ora sembra avermi abbandonato.» Torl si strinse nelle spalle. «Ma valeva la pena tentare. Hai notizie di ciò che sta accadendo tra i monti?» «Niente di specifico. Non penso che i servitori del Vlagh abbiano iniziato il loro attacco.» «È già qualcosa. Gli uomini di Narasan devono finire di costruire il muro per tenere indietro il nemico, e un muro lungo circa un chilometro e mezzo richiede un po' di tempo per essere finito.» «Che cosa volevi far sapere a Veltan?» chiese Ara. «Se dovesse passare di qua, potrei riferirglielo io. Ha a che fare con quell'invasione nella parte meridionale del suo Dominio?» «Proprio così», rispose Torl, sconsolato. «Mio cugino Sorgan era sicuro che l'avremmo bloccata, ma il nostro piano è andato in fumo.» «Oh?» «Abbiamo incendiato ogni nave trogita che abbiamo trovato, pensavamo che fermasse l'invasione, ma non è andata così.» «Che cosa è accaduto?» «Qualcuno ci ha tolto il nostro grande piano da sotto i piedi. So che Veltan, Madonna Zelana e i loro parenti sono in grado di fare un sacco di cose che nessun altro può fare, ma sembra che ci sia qualcun altro, nella Terra di Dhrall, capace di cose ancora più strane. Questo qualcuno ha architettato un'impresa che non penso riuscirebbe nemmeno a Veltan.»
«Davvero?» «Questo qualcuno ha ficcato una storia ridicola nella testa di ogni singolo nativo lungo la costa sud, e loro la ripetono esattamente allo stesso modo ogni volta che sentono la parola 'oro'.» «Come hai fatto a scoprirlo?» chiese Ara in tono piuttosto aspro. «Stavo parlando con un nativo e mi è capitato di menzionare l'oro. Appena ho detto quella parola, lo sguardo gli è diventato opaco e si è messo a raccontarmi 'sta vecchia storia come se recitasse. Pensavo che fosse impazzito, ma quando ha finito è parso risvegliarsi e ha continuato come se niente fosse accaduto.» «Strano», commentò Ara. «Aspetta, che diventa ancora più strano. Mi è venuto in mente di girare in altri villaggi e di dire la parola 'oro' a ogni nativo che incontravo, a tutti è capitata la stessa cosa: occhi vitrei e ripetizione della tiritera. Qualcuno, o magari qualcosa, laggiù, ha attuato un gioco molto complicato e la storia ha fatto impazzire i trog ancora più di quanto la parola 'oro' faccia impazzire i nativi. Si sono messi a correre verso nord, come se avessero le penne della coda in fiamme.» Ara rise. «Che modo divertente di raccontarlo!» commentò con un sorriso malizioso. Torl lasciò l'Allodola alle cure del suo primo ufficiale e si affrettò su per il letto del torrente per avvertire Veltan che le cose non si erano svolte come avevano sperato. Raggiunse la sommità il giorno dopo e vide che i trogiti si affaccendavano all'estremità settentrionale dell'altipiano, erigendo un muro che era già arrivato a circa tre metri di altezza. «Già di ritorno, Torl?» lo accolse Narasan quando lui gli si avvicinò. «Le cose devono essere andate meglio del previsto.» «Non credo che 'meglio' sia la parola adatta, comandante. Abbiamo incendiato tutte quelle navi trogite, impiegando solo una giornata, ma i soldati del clero, i sacerdoti e perfino i mercanti di schiavi se n'erano già andati.» «Andati? Stai dicendo che stanno marciando in questa direzione?» «Non la chiamerei marcia. 'Corsa' sarebbe un termine più adatto.» «Non ti capisco, Torl», disse Gunda. «Penso sia meglio cercare Veltan. Lungo la costa meridionale sta accedendo qualcosa di molto strano ed è Veltan l'esperto di stranezze, no? Per
dirla con parole semplici, gli invasori sono completamente disorganizzati e stanno correndo alla cieca verso queste montagne come se ne andasse della loro vita. Qualcuno sta facendo dei giochetti laggiù ed è il genere di giochi che solo Veltan e la sua famiglia possono capire.» «Dovrebbe essere vicino al geyser; andiamo a cercarlo», suggerì Narasan. Aveva lo sguardo cupo e l'espressione severa. Veltan scrutò bene Torl, socchiudendo gli occhi. «Quella storia suscitava in te sensazioni strane?» gli chiese. «Noia, dopo un po'. Quando hai sentito la stessa storia cinque volte di fila, non è più tanto interessante.» «Direi che ci troviamo davanti a un'epidemia selettiva», commentò Madonna Zelana. «La storia eccita i trogiti ma non ha alcun effetto sui maag.» «Potrebbe esserci qualcosa di più, sorella», suggerì Veltan, poi guardò di nuovo Torl con interesse. «Pensi di ricordarti abbastanza la storia da potercela raccontare?» «Probabilmente anche a testa in giù e partendo dalla fine, se voleste», rispose lui. «Ascoltiamola, allora.» «Volete che faccia anche gli occhi vitrei?» «No, non sarà necessario. Recita la storia.» Torl si schiarì la gola e cominciò: «Tanto, tanto tempo fa...» Mentre continuava, si accorse che Veltan osservava molto attentamente Narasan. Ne capì il motivo appena terminò il racconto. «Questa storia ti ha fatto qualche effetto particolare?» chiese infatti Veltan al comandante trogita. «Era piuttosto pittoresca, immagino, ma non credo che avrei voglia di saperne di più.» «Probabilmente perché non sei un sacerdote», suggerì Torl. «Non è una regola della chiesa trogita che tutto l'oro del mondo le appartiene?» «È vispo, eh, fratelli)?» intervenne Madonna Zelana. «A quanto pare, questa 'epidemia' è ancora più selettiva di quanto pensavo. Sembra diretta ai membri del clero trogita e ai loro mercenari.» «Allora perché li ha indirizzati tutti verso le montagne?» protestò Veltan. «Perché non mandarli a gettarsi in mare?» «Evidentemente, chiunque abbia escogitato questa scaltra idea ha in mente qualche altra cosa», rispose Madonna Zelana.
Più a lungo discutevano la questione, più le idee di Veltan, Madonna Zelana e Narasan diventavano confuse. Da quanto Torl poteva capire, tiravano a indovinare. Era ovvio che aveva scelto le persone sbagliate: aveva bisogno di qualcuno con più senso pratico, e sapeva esattamente a chi rivolgersi, però non poteva offendere le divinità voltando loro le spalle e andandosene. Nel tardo pomeriggio, quando gli «esperti» esaurirono tutte le spiegazioni possibili e anche quelle impossibili, Torl li ringraziò e si allontanò come se non avesse in mente nulla di particolare. Appena fu certo di non essere visto, però, andò direttamente all'accampamento di Arcolungo, nella foresta dietro il geyser. Già durante la guerra precedente era stato chiaro che il continuo chiacchiericcio dei trog (e perfino dei maag) lo irritava, perché preferiva la quiete. Quando lo raggiunse, però, vide che era in compagnia del giovane trog chiamato Keselo e anche di Leprotto, il fabbro del Gabbiano. «Abbiamo un problema», annunciò. «Ne abbiamo già sentito parlare, capitano Torl», gli rispose Keselo. «Credevo che tuo cugino Sorgan si fosse offerto di risolverlo.» «La risposta di Sorgan non lo ha risolto», ammise Torl, abbacchiato. «Abbiamo bruciato ogni nave trogita lungo la costa sud, ma credo che quei trog non sappiano nemmeno di aver perso la loro flotta. Sembra che qualcuno stia facendo dei giochetti alquanto strani laggiù.» «Giochetti?» chiese Leprotto. «Trucchi. Quando i trog appartenenti al clero sono scesi a terra, hanno riunito tutta la gente dei villaggi dentro a dei recinti, poi altri trog con le uniformi nere li hanno minacciati prospettando le cose più tremende se non avessero detto dove si trova l'oro della Terra di Dhrall.» «I reguli», spiegò Keselo, molto serio. «Sono esperti nella raffinata arte della tortura.» «Non ne hanno avuto bisogno. Ogni volta che si dice la parola 'oro' a un nativo, quello va in trance e recita la favoletta dell'agricoltore che fra i monti ha trovato un luogo coperto d'oro invece che di terra. Appena sentita 'sta storia, i trog si sono precipitati verso nord come lepri spaventate - senza offesa», aggiunse Torl, guardando il fabbro. «Non mi offendo», gli assicurò Leprotto, «l'ho sentita un sacco di volte.» «Comunque, via via che i trog ascoltavano la storia, i sacerdoti si sono trovati senza esercito, perché i soldati che dovevano proteggerli hanno deciso di disertare e correvano in questa direzione più rapidamente che pote-
vano. E, visto che non c'era più nessuno a guardia dei recinti, i prigionieri li hanno abbattuti e si sono liberati.» Keselo cominciò a ridere. «Adesso viene il bello», continuò Torl. «Un certo numero di navi nere si sono raggruppate nella baia e i mercanti di schiavi sono scesi a terra per comperare dai sacerdoti tutti quei nativi, ma loro se n'erano già andati. È stato allora che siamo arrivati noi e gli abbiamo incendiato tutte le navi e questo non li ha resi felici, anche perché si sono accorti che i nativi stavano affilando i coltelli, le lance e le asce. A quel punto i sacerdoti e i mercanti di schiavi, non avendo grandi scelte, se la sono data a gambe, nella speranza di raggiungere i soldati e di vivere abbastanza da vedere l'alba del giorno dopo.» «Racconta storie più divertenti di quelle di Barba Rossa, vero?» commentò Keselo. «Appena finisci di ridere, attaccherò la parte brutta», lo avvertì Torl. «Considerato il numero di navi che abbiamo bruciato lungo la costa, direi che ci sono circa mezzo milione di trog impazziti che in questo preciso momento stanno correndo qui. Penso che dovremo escogitare qualcosa per fargli cambiare direzione, o ci troveremo con gli uomini-insetto che ci vengono contro da una parte e gli uomini-trog dall'altra.» Guardandosi attorno per l'accampamento di Arcolungo, Torl aggiunse: «All'inizio pensavo che chiunque ci fosse dietro questa strana vicenda volesse aiutarci, ma adesso non ne sono tanto sicuro. I soldati trog hanno perso la ragione ascoltando la storia e non sono più in grado di pensare in modo coerente. Questo significa che adesso non prenderanno più ordini da nessuno?» «Probabilmente è così», rispose Keselo. «Qualsiasi tipo di disciplina è svanito, immagino.» Arcolungo stava guardando il tramonto con espressione molto grave. «Tutto questo non mi piace per niente», ammise. «Direi che in questo momento la capacità di ragionamento dei soldati trog è più o meno allo stesso livello delle creature della Terra Desolata. Sono certo che il Vlagh non è affatto contento di ciò che è accaduto ai suoi servitori nella gola sopra Lattash. La supermente ne sarà ancor meno felice, credo, perché la morte di migliaia di servitori ha di certo ridotto la capacità che ha quella consapevolezza di gruppo di risolvere i problemi. Ora proteggere la vita dei servitori rimasti dovrebbe essere più importante che invadere un nuovo territorio.»
«Questo ha senso, sì», concordò Leprotto. «Dove vuoi arrivare?» «Non ne sono sicuro», rispose Arcolungo. «Le pecore!» esclamò improvvisamente. «L'avevo davanti agli occhi e non vedevo!» «Non ti sto dietro», gli disse Leprotto. «Sono certo che c'è stato un tempo in cui le pecore erano animali selvatici, un po' come i cervi. Poi sono arrivati gli uomini e le hanno addomesticate.» «Continuo a non cogliere il nesso.» «Le persone non sono le uniche creature che ne addomesticano altre. Le formiche addomesticano gli afidi, e altri insetti fanno più o meno la stessa cosa. Il Vlagh ha bisogno di soldati che combattano e muoiano per proteggere la supermente. Se uccidiamo troppi servitori del Vlagh, la supermente si estingue. Il Vlagh ha bisogno di schiavi e così ha assoggettato i soldati del clero con la parola 'oro'.» «Quella stupida cosa è davvero tanto scaltra?» Torl era incredulo. «In realtà, non è una singola cosa. Ciò che uno vede, viene visto da tutti, dopodiché la supermente ne trova l'utilizzo più vantaggioso. Detesto ammetterlo, ma sembra che stia funzionando benissimo.» «È terribile!» esclamò Torl. «Come facciamo a vincere, in una situazione simile?» «Non farmi fretta», replicò Arcolungo, facendo l'imitazione della rude voce di Sorgan. «Ci sto lavorando.» La perla più preziosa 1 L'odore dell'agnello arrosto che cuoceva in uno dei forni di mattoni fece pensare ad Ara che forse ci voleva dell'altro aglio. Le spezie erano sempre state fondamentali per una buona cucina e l'olfatto l'aveva ben guidata attraverso il suo percorso, che era stato lungo, molto più lungo di quanto si rendesse conto chiunque le stava vicino. Cosparse l'arrosto di aglio sminuzzato, quindi spinse di nuovo il tegame nel forno riservato alla cottura della carne. Il continuo mormorio dei pensieri delle persone attorno a lei sembrava un po' più tranquillo del solito, quel pomeriggio. Udiva Omago, naturalmente, ma in quello non c'era nulla di insolito. Era certa che avrebbe udito i pensieri del suo compagno anche a mezzo mondo di distanza. C'era in lo-
ro una bellezza quasi poetica, ed era stata quella bellezza ad attirarla verso di lui, in primo luogo. Il sogno del bambino di Dahlaine l'aveva turbata moltissimo. Dapprima, in quel sogno tutto era andato esattamente come voleva lei, ma poi Ashad aveva imboccato un percorso tutto suo. Adesso dovevano affrontare la possibilità di una seconda invasione del Dominio di Veltan, proveniente da qualche parte a sud. Le motivazioni del Vlagh erano chiarissime, ma Ara non riusciva assolutamente a capire come mai gli stranieri a sud dovessero avere qualche motivo per invadere la Terra di Dhrall. Il piano originario di Dahlaine era stato adeguato, ma a malapena. Aveva girato attorno al muro che si ergeva davanti a entrambe le generazioni di dei (il muro che proibiva di prendere qualsiasi tipo di vita) ma a quel punto Dahlaine aveva commesso un grave errore lasciando liberi i Sognatori senza poter esercitare alcun controllo sulle forze che i loro sogni erano in grado di scatenare. Ara era rabbrividita al pensiero dei terribili disastri che potevano verificarsi. A quel punto non aveva avuto scelta. Sempre, nel passato, era stata solo un'osservatrice, ma la stupida decisione di Dahlaine l'aveva costretta a intervenire. Così, se era vero che Dahlaine aveva fornito i Sognatori, lei forniva i sogni. A volte, però, i Sognatori se n'erano andati per conto loro e questo la irritava a non finire. Poi rammentò una cosa accaduta nella Terra di Maag. Il sogno di Eleria nel porto di Kweta era stato più un avvertimento che l'annuncio di una certezza assoluta, e aveva dato all'arciere di Zelana la possibilità di far fronte alla minaccia di un maag privo di scrupoli, chiamato Kajak. Era possibile che anche il sogno di Ashad sulla seconda invasione del Dominio di Veltan fosse un avvertimento? In quel caso, la seconda invasione poteva non verificarsi. Per il momento, ad Ara necessitavano più informazioni sulla gente della terra a sud. Se ne capiva la natura, avrebbe potuto benissimo fermare quella seconda invasione ancora prima che avesse luogo. *** Una bellissima mattina di prima estate, Veltan avvertì Omago e Ara che quel giorno sarebbero arrivati gli eserciti ingaggiati per la guerra e che Yaltar sembrava molto turbato dai disastrosi risultati del proprio sogno sulle montagne che esplodevano. Ara era sicura che sarebbe riuscita a placare
il senso di colpa del bambino, quindi decise di scendere alla spiaggia assieme a Veltan e al proprio compagno. Ancor prima che le navi raggiungessero la riva, sentì il groviglio di pensieri degli uomini a bordo. A prevalere era la curiosità, naturalmente. Fino all'inverno precedente, gli stranieri non sapevano nemmeno che la Terra di Dhrall esistesse, quindi era normale che fossero curiosi. C'era anche una certa apprensione. Le creature della Terra Desolata avevano subito mutazioni tali da non assomigliare a nessun altro essere vivente in tutto il mondo. Cominciò a saltar fuori il nome dell'arciere di Zelana, Arcolungo, per cui quasi tutti provavano soggezione. Ara ne toccò la mente e scoprì che non era una specie di mostro disumano, come molti credevano. Era freddo e pratico quando la situazione lo richiedeva, ma anche lui provava emozioni. Poi percepì una coscienza talmente sudicia che rabbrividì per l'orrore e il disgusto. Uno dei soldati trogiti era l'uomo più corrotto che lei avesse mai incontrato ed era spinto da un'avidità smisurata. Per quanto lo riguardava, la guerra contro i servitori del Vlagh non aveva alcun significato. Ciò che desiderava realmente era ogni singola pagliuzza d'oro nell'intera Terra di Dhrall. Poi diverse cose si ricomposero tutte assieme e Ara si rese conto di avere appena scoperto da dove scaturiva la seconda parte del sogno di Ashad. «Bene», mormorò, «non è interessante?» «Che cosa c'è ancora, Ara?» le chiese Omago. «Niente, cuore mio. Pensavo ad alta voce, tutto qua.» *** Ara si fece forza e indagò meglio la sudicia mente dello straniero chiamato Jalkan e non vi trovò la minima possibilità di redenzione. C'erano arroganza, avidità, crudeltà, codardia e, ancora di più, c'era un'enorme lussuria. «Potrebbe essere la risposta all'intero problema», pensò Ara. «Se questa bestia non sarà più in circolazione, la seconda invasione di Ashad non accadrà.» Le vennero in mente diverse possibilità. Poteva smuovere la lussuria di Jalkan fino al punto da spingerlo oltre certi limiti, ed era quasi sicura che Omago avrebbe reagito in modo appropriato. Però sarebbe stata costretta a scendere a un livello più primordiale e questo la turbava non poco. Il risultato finale, comunque, avrebbe giustificato appieno ciò che le toccava fare.
Accantonando il suo senso di ripulsa, si concentrò per smuovere l'irresistibile impulso ad accoppiarsi presente in ogni essere umano, e, com'era il caso per le creature a sangue caldo, ciò richiedeva un odore specifico. Quell'odore avrebbe scatenato la lussuria di Jalkan, ma avrebbe anche spinto Omago a un accesso di violenza, e così la seconda invasione sarebbe stata eliminata ancora prima di iniziare. Quando, in casa di Veltan, Ara entrò nella sala della mappa per annunciare agli uomini lì riuniti che la cena era pronta, emanava quell'odore, il più primitivo di tutti, e Jalkan, come lei si aspettava, reagì con commenti volgari. Anche la reazione di Omago fu appropriata, ma purtroppo non si spinse alle estreme conseguenze. All'ultimo momento, l'innata gentilezza di carattere ebbe la meglio sui suoi istinti primordiali, e così Omago non uccise il loro nemico. A quel punto ad Ara venne voglia di urlare, ma riuscì a soffocare quell'impulso primitivo. L'amico trogita di Veltan, il comandante Narasan, era rimasto sbigottito dagli apprezzamenti di Jalkan, e Ara sperò che sarebbe stato lui a compiere i passi appropriati, ma per qualche motivo non prese la spada. Che cosa avevano quelle persone? Ara, a proprie spese, aveva dato a tutti i presenti il pretesto di cui avevano bisogno per sterminare il sudicio Jalkan, ma si erano tirati indietro. Perché la gente non fa ciò che dovrebbe fare? Narasan ordinò di mettere Jalkan in catene e di imprigionarlo in una delle navi all'ancora. Era qualcosa, concluse Ara, ma nessuno sembrava rendersi conto che ci sarebbe stata una soluzione più semplice. Le occorsero il resto del giorno e buona parte della notte per eliminare ciò che restava dei suoi istinti primordiali e il giorno dopo si sentiva un po' spossata. A volte gli istinti ottenevano dei risultati quando tutto il resto falliva, però lasciavano esausti, in particolare quando non si raggiungeva lo scopo desiderato. Non fu una vera sorpresa, circa una settimana dopo, venire a sapere della fuga di Jalkan. Le sembrava che, ogni volta che si girava, lo sciocco sogno di Ashad la precedeva. Per quanto cercasse di impedire la seconda invasione, il sogno aveva la meglio su di lei. Per qualche motivo che non capiva neppure lontanamente, quell'invasione era necessaria. «Ci rinuncio», disse, sollevando le mani al cielo.
Omago si offrì di risalire la costa fino alla foce del Fiume Vash assieme al gruppo di esploratori di Skell e Torl, che erano cugini di Sorgan Becco d'Uncino. Come a volte accadeva, Ara ebbe il forte presentimento che sarebbe saltato fuori qualcosa di molto importante mentre il gruppetto di cui faceva parte il suo compagno svolgeva il suo compito. Ara aveva imparato in tempi lontanissimi che non doveva mai ignorare quelle premonizioni, quindi decise di accompagnare gli esploratori... senza farsi vedere, naturalmente. Mentre le due navi maag veleggiavano verso nord costeggiando le sponde orientali del Dominio di Veltan, il pensiero di Ara li seguiva, e seguì anche Skell e i suoi amici quando lasciarono le navi per farsi guidare dal pastore Nanton su per il ripido corso del torrentello che affluiva nel Fiume Vash. E quella premonizione diventava più forte chilometro dopo chilometro. Il secondo giorno, mentre il gruppetto era impegnato nella faticosa salita, un maag corpulento chiamato Grock fece una scoperta sorprendente: «Ho trovato l'oro, Capità!» gridò. «L'oro! Ce ne sono tonnellate, su in quella parete rocciosa!» Ara percepì l'enorme delusione di Skell e compagni quando Leprotto dimostrò che il metallo giallo non era oro. Saggiando la mente del giovane Keselo, che si era subito reso conto della cantonata presa da Grock, scoprì che era una particolare combinazione di ferro e zolfo. Era stato quello a suscitare la sua premonizione! Se l'avidità di Jalkan per l'oro doveva essere il motivo della seconda invasione, quel falso oro poteva rivelarsi molto utile. Distolse il proprio pensiero dal gruppetto di esploratori e si chiuse in cucina a esaminare diverse soluzioni interessanti. *** La cucina era il luogo naturale delle sue sperimentazioni, già al terzo tentativo Ara trovò la giusta mescolanza e ottenne una quantità notevole di sfavillanti schegge gialle, identiche a quelle trovate da Grock fra i monti. Era molto contenta del risultato raggiunto... finché si accorse dei mucchietti di sabbia luccicante sparsi sul pavimento. Borbottando tra sé, andò a prendere la scopa. 2
Il gruppetto che il pastore aveva condotto sul verde altipiano sopra le Cascate di Vash passò tutta la giornata a esplorare la zona. Quando sul piccolo accampamento allestito vicino al geyser calò la sera e si fecero vivi i pipistrelli, Arcolungo ebbe un'intuizione che raggelò Ara. Una sola freccia bastò a dimostrare che l'arciere ci aveva visto giusto: i pipistrelli non erano ciò che sembravano, e lei provò il repentino impulso di prendere sottobraccio il suo compagno e riportarselo a casa. Il piccolo fabbro chiamato Leprotto, però, se ne uscì con una delle sue scaltre idee: usare le reti da pesca per proteggersi dai nemici. Questo allentò alquanto la tensione. Poi, considerato che le frecce sarebbero state la soluzione migliore al problema dei nemici volanti, Barba Rossa partì incontro agli arcieri che stavano arrivando dal Dominio di Zelana, per spronarli ad affrettare la loro marcia. Intanto, Skell spedì a valle il cercatore d'oro Grock per portare su altri uomini e le reti da pesca. La concretezza di quegli uomini aiutò Ara a controllare il panico improvviso; quindi decise di aspettare un po' prima di afferrare il suo compagno per il braccio e trascinarlo via di lì. Torl, il fratello di Skell, raggiunse l'altipiano il giorno seguente, mentre Sorgan e Narasan erano indietro di poche ore rispetto a lui. Quando furono tutti lì, Skell li condusse al varco nel crinale settentrionale, per mostrare loro il punto più probabile da cui sarebbero giunti i servitori del Vlagh. Poi arrivò Veltan, portato dalla sua piccola folgore, e avvertì i suoi amici che a sud era iniziata la seconda invasione menzionata dal sogno di Ashad. A quel punto, Ara riportò la propria consapevolezza nella cucina di casa, e da qui spinse il pensiero a sud, per dare un'occhiata di persona. C'era un gran numero di navi trogite con le vele rosse all'ancora in una baia e i soldati che ne erano sbarcati andavano in giro per i villaggi vicini a raccogliere gli abitanti e, spronandoli con la punta delle spade, li rinchiudevano nei recinti costruiti accanto a ogni villaggio, come fossero bestiame. Ara impiegò diversi minuti per controllare la sua rabbia improvvisa. Poi arrivarono degli uomini senza armi, con addosso lunghe vesti nere, entrarono nei recinti e si misero ad arringare i nativi terrorizzati riguardo al «vero unico dio di tutto il mondo». Quando uno dei prigionieri disse garbatamente al grasso trogita che aveva appena fatto quell'annuncio che in quella regione avevano già un dio
che si chiamava Veltan, due di quegli stranieri in uniforme lo pestarono fino a fargli perdere i sensi. Avrebbero anche potuto spingersi oltre, ma Ara deviò il bastone di uno dei due, che quasi spaccò la testa al compagno. Poiché la causa di quella invasione era evidentemente quel degenerato di Jalkan, Ara inviò il proprio pensiero alla sua ricerca e non le fu difficile trovarlo. Nelle vicinanze della baia c'era un villaggio di agricoltori dove, dopo aver rinchiuso gli abitanti nei recinti, preti e soldati si erano impossessati delle capanne. In quella centrale si era sistemato Jalkan, e non era solo: stava parlando con un uomo obeso che indossava una veste gialla molto decorata. «Nessuno è stato preciso sull'ubicazione delle miniere, adnari Estarg», stava dicendo Jalkan. «Immagino però che si trovino tra i monti.» «Ci servono informazioni più dettagliate che semplicemente 'tra i monti'», replicò il grassone. «In questa parte primitiva del mondo ci sarà anche l'oro, ma se non otteniamo indicazioni più dettagliate, potrebbe trovarsi sull'altra faccia della luna.» «È per questo che abbiamo portato con noi i reguli, Eminenza. Loro sanno come far parlare chiunque. Sappiamo per certo che qui c'è l'oro. Hai visto quei lingotti che ti ho mostrato quando eravamo a Kaldacin. Tutto quello che dobbiamo fare è lasciare mano libera ai reguli. Dopo che i nativi avranno visto qualcuno dei loro amici morire mentre i reguli li interrogano, sono certo che cominceranno a collaborare. Quanto pensi che ci voglia perché arrivino le navi dei mercanti di schiavi?» «Almeno una settimana. I mercanti comprano, non catturano.» «Allora le cose dovrebbero funzionare benissimo. I reguli non ci metteranno molto a ottenere le informazioni e, una volta che le avremo, venderemo i nativi come schiavi, così ce li togliamo di torno. C'è la possibilità di fare quasi altrettanto oro con gli schiavi di quanto ne faremo nelle miniere.» «Io non rinuncio mai all'oro», dichiarò il grassone con un ghigno. Ara si ritirò un poco. La discussione tra quei due l'aveva raggelata. Erano dei mostri. La loro determinazione a strappare le informazioni con la tortura creava un serio problema. Alla gente della Terra di Dhrall non era mai interessato l'oro, quindi era probabile che lì nel Sud non conoscessero nemmeno il significato di quella parola. Poi, dal nulla, le venne un'idea. Se i trogiti volevano disperatamente avere notizie sull'oro, lei era sicura di poter organizzare le cose in modo che ascoltassero abbastanza storie al riguardo e che impazzissero.
Diresse il pensiero verso i recinti improvvisati dov'erano stati confinati i prigionieri, inventò un «mito antico» e lo radicò nella loro mente. Da quel momento in poi, ogni volta che un nativo avesse udito qualcuno pronunciare la parola «oro», avrebbe recitato automaticamente quella storia assurda, parola per parola. Poi, con un impercettibile sorriso, si accomodò meglio sulla sedia e aspettò che il divertimento avesse inizio. «È impossibile, regulo Konag!» esclamò il grasso sacerdote chiamato Estarg quando il trogita dall'uniforme nera gli riferì quanto gli aveva detto l'agricoltore. «Non c'è così tanto oro nel mondo intero!» «Io non ne sarei così sicuro», obiettò Jalkan. «Veltan ha dato al comandante Narasan dieci lingotti d'oro puro, nel porto di Castano, e li maneggiava come se non significassero nulla.» Ara aumentò delicatamente il livello di cupidigia dei tre trogiti, inserendo nella loro mente l'immagine dell'oro. «Andrò là a dare un'occhiata, adnari», si offrì Konag con improvvisa buona volontà. «Non rubare nemmeno un po' del mio oro quando arrivi laggiù», lo avvertì il sacerdote con tono minaccioso. «Il nostro oro», lo corresse Jalkan. «Una buona parte di quell'oro è mia.» Il grassone lo guardò torvo. «Assicuriamoci che ci sia, prima di metterci a discutere», intervenne con fermezza il regulo. «Potrebbe trattarsi di una leggenda locale.» «Se quel contadino ha mentito, gli apro la pancia con un coltello non affilato», dichiarò Jalkan. «Ha detto che tutti, qua attorno, conoscono la storia del tizio che ha trovato l'oro», gli rammentò il grasso Estarg, con gli occhi luccicanti. «Prima di correre nel deserto, perché non chiedi a qualcuno degli altri se ne hanno sentito parlare? Se quel contadino mentiva allora potremmo sbudellarlo tutti e tre assieme.» I nativi rinchiusi nei recinti confermarono tutti il mito inventato da Ara e dopo un giorno o due il regulo Konag raccolse una dozzina dei suoi e li condusse attraverso i terreni agricoli verso le montagne al confine settentrionale del Dominio di Veltan. Il loro percorso si manteneva un po' a ovest rispetto alla strada lungo la costa, che era più battuta, quindi incontrarono pochissimi agricoltori «veri» lungo il cammino, ma Ara fornì loro un
po' di agricoltori «immaginari» che riempissero i vuoti e ripetessero a pappagallo il mito. Più ci pensava, più si rendeva conto che non era essenziale per Konag e per i suoi uomini salire su quei monti e guardare una grande distesa che imitava l'oro. Bastava far loro credere di averla vista. Questo avrebbe risolto un problema che l'assillava: sull'altipiano c'era una gran quantità di uomini sotto il comando di Sorgan e di Narasan, e lei non voleva che Konag e i suoi lo sapessero. Konag e i membri del gruppo di ricognizione sognarono di respirare a fatica mentre raggiungevano il passo immaginario sopra le Cascate di Vash, questo però non impedì loro (per lo meno nel sogno) di correre verso l'ampio varco che si apriva nel crinale a nord. E lì si fermarono, sbalorditi e intimoriti dalla meraviglia che si stagliava all'orizzonte settentrionale. Un mare di oro luccicava al sole mattutino e, nel vederlo, alcuni di quegli uomini dal cuore duro piansero. Ara mantenne vivida l'immagine del sogno per circa un'ora, quindi fece fare dietrofront ai reguli e li indirizzò a sud. Quando raggiunsero la base della cascata erano convinti di essere molto stanchi, per cui tornarono all'accampamento (che in realtà non avevano mai lasciato) e, per quel giorno, decisero di non proseguire oltre. Sogno e realtà si erano perfettamente fusi, senza far sorgere in loro alcun dubbio. Ara era molto compiaciuta del risultato. Poi instillò un senso di urgenza nella mente di Konag e dei suoi compagni in modo che, la mattina seguente, si alzarono tutti di buon'ora e partirono verso sud quando il sole era appena spuntato. Jalkan ed Estarg avrebbero preferito mantenere segreta la questione, ma Ara fece in modo che i reguli di Konag, in preda a un impulso irresistibile, raccontassero a chiunque incontravano ciò che avevano visto. Andò a finire che almeno metà dei soldati accampati sulla costa sud vennero a sapere del giacimento d'oro ancor prima dei loro superiori. Appena arrivato, Konag andò direttamente alla capanna di cui si erano impossessati Jalkan ed Estarg. «Allora, quell'idiota aveva detto la verità?» gli chiese subito Jalkan. «No», rispose il regulo, con espressione solenne. Il grassone gemette. «Lo sapevo che era troppo bello per essere vero!» «No, Eminenza. In realtà, la storia di quel nativo non rende neanche l'idea di quanto oro c'è laggiù. La sabbia d'oro che ricopre il deserto oltre le
montagne si estende fino all'orizzonte. Noi l'abbiamo visto dall'alto, quindi direi che in lunghezza misurava almeno un'ottantina di chilometri, ma non ho idea della larghezza.» «Ne hai portato un po' con te?» volle sapere Jalkan. «L'adnari ci ha ordinato di non farlo. Dovevamo solo controllare che la storia fosse vera e ritornare subito.» «Mi piacerebbe vederne un po'», si lagnò Jalkan, con disappunto. «Non è poi tanto lontano», rispose Konag. «Puoi andare lassù e guardartelo tutto, se per te è così importante.» 3 Ara sorvegliò con il pensiero la costa meridionale del Dominio di Veltan per avere un'idea dei soldati trogiti presenti in quella zona. Ormai ogni villaggio costiero era occupato dalle truppe del clero e aveva un recinto per gli schiavi. Via via che i giorni passavano, la notizia della scoperta di Konag raggiunse tutti i villaggi e sempre più soldati decisero che la vita militare non era più adatta a loro. All'inizio le diserzioni avvenivano quasi sempre durante la notte, ma poi Ara insinuò nelle loro menti un'ansia crescente. Il suo messaggio era molto efficace: «Se aspettate troppo, quelli che hanno già disertato si prenderanno tutto l'oro e a voi non rimarrà niente». I soldati cominciarono a disertare anche alla luce del sole, e dopo qualche giorno i sacerdoti, che in teoria erano responsabili dei villaggi, inviarono messaggi urgenti all'adnari Estarg, implorandolo di mandare altre truppe. Ma a quel punto non c'erano più truppe, perché disertavano interi battaglioni. Quando i sacerdoti si decisero a recarsi di persona dal loro adnari, ricevettero l'ordine di ritornare ai villaggi ai quali erano stati assegnati, e qualcuno di loro obbedì perfino, ma non molti. Ara aveva esteso il suo avvertimento anche a loro e ben presto le vesti nere raggiunsero i gruppi di disertori. Soffermandosi con il pensiero presso il villaggio dove si erano stabiliti Jalkan ed Estarg, Ara vide come i due fossero sempre più angosciati. C'era un certo fascino nel loro panico crescente.
Ara aveva una predilezione per l'agricoltore chiamato Bolan, poiché era stata la sua recitazione del «mito dell'oro» a prendere in trappola Konag. Lo toccò rapidamente con il pensiero, per fargli notare che non c'erano più soldati a sorvegliare il recinto e dunque non c'era più motivo di rimanerci. Bolan colse il messaggio e, appena i pochi sacerdoti rimasti nel villaggio andarono a letto, lui e i suoi amici abbatterono un lato della recinzione e scomparvero nella notte. La mattina dopo di buon'ora giunsero sette navi trogite, tutte con le vele nere, e Ara capì subito chi erano gli uomini che stavano a bordo. Bolan e compagni erano fuggiti appena in tempo. Parecchi uomini dal volto arcigno raggiunsero la riva e un giovane sacerdote, uno dei pochi ancora presenti nel villaggio, scese alla spiaggia per incontrarli. «Dove sono gli schiavi?» gli domandò quello che sembrava il capo. «Vorremo dare un'occhiata alla merce prima che Estarg ci racconti un sacco di frottole.» «L'adnari non ti mentirebbe mai, capitano Brulda!» «Ah sì?» esclamò quello con sarcasmo. «E domani il sole sorgerà a ovest? Estarg non distinguerebbe la verità se gli si arrampicasse addosso e gli mordesse il naso. Vogliamo vedere gli schiavi, ragazzo. Facci strada.» «Sei sicuro che sono sani?» s'informò uno degli altri stranieri, mentre si dirigevano al recinto. «L'anno scorso abbiamo comperato tanti schiavi da riempire cinque navi, giù alla costa di Tanshall, ma più della metà si sono ammalati e sono morti, dopo nemmeno sei giorni di viaggio.» «Oh, questi sono sanissimi», gli assicurò il giovane sacerdote, «e sono già agricoltori, i loro nuovi proprietari nell'impero non dovranno nemmeno perdere tempo ad addestrarli.» «Questo potrebbe aumentare il prezzo che chiederemo per loro», commentò il mercante di schiavi. La vista del recinto sfondato e vuoto sconvolse i visitatori, che corsero nel villaggio per parlare con l'adnari. «Di cosa stai parlando, Brulda?» chiese Estarg, mezzo addormentato. «I tuoi schiavi sono scappati durante la notte, stupido! Il recinto è vuoto!» «È impossibile!» Jalkan corse fuori della capanna e ritornò poco dopo imprecando a tutto spiano. «Sono spariti. Hanno rotto un lato del recinto e sono fuggiti duran-
te la notte.» «Va' a dargli la caccia!» urlò Estarg. «Da solo? Non essere ridicolo!» «Ma i miei soldi stanno scappando via. Aiutalo, Brulda!» «Ah, no! Sono venuto qui per comperare schiavi, non per catturarli!» Ara si stava divertendo un mondo. Poi vide qualcosa che le avrebbe rallegrato ancora di più la giornata: parecchie decine di navi maag, guidate dal Gabbiano di Sorgan Becco d'Uncino, stavano entrando nella baia. *** «Le navi bruciano, adnari!» Strillò il giovane sacerdote, affacciandosi alla porta in preda al panico. Ara trovò soddisfacente la reazione dei vari farabutti raccolti nella capanna. Quando sei uomini cercano nello stesso momento di passare attraverso il vano di una porta, la situazione degenera rapidamente. Alla fine, Brulda riuscì a farsi strada a scapito degli altri, grazie al robusto bastone che gli pendeva dalla cintura. «Le mie navi!» gridò angosciato. «Stanno bruciando! Fate qualcosa! Salvate le mie navi!» Ma non c'era nulla da fare; gli uomini che erano a bordo furono costretti a gettarsi in acqua e nuotare verso riva, per non bruciare vivi. Era evidente che i maag sapevano benissimo cosa stavano facendo. I trogiti sulla spiaggia guardarono inorriditi le loro navi, gli unici mezzi per tornare a casa, trasformarsi in fuoco e fumo. Erano arrivati da conquistatori... adesso erano intrappolati. Ara rise. Avrebbe potuto rendere udibile la sua risata a quei trogiti urlanti, ma preferì di no. Aveva in serbo altri colpi di scena, ed era certa che li avrebbe gustati di più se loro non se li fossero aspettati. «Tu esageri, Jalkan», dichiarò Estarg. «Questi nativi sono poco più che pecore. Non oserebbero fare una cosa simile!» «Io non ci scommetterei la pelle», replicò Jalkan, senza peli sulla lingua. «Da come li abbiamo trattati, non mi sorprenderei di scoprire che in questo momento stanno facendo dei piani per venire qui ad ammazzarci tutti.» «Amar non lo permetterebbe!» protesto il giovane sacerdote. «Cresci, ragazzino», lo schernì Brulda. «Amar non è che un mito, e questo è il mondo reale.» A Jalkan domandò: «Hanno delle armi?»
«Durante la prima guerra ho visto un arciere uccidere la gente da quattrocento metri di distanza. Se avessimo ancora i nostri cinque eserciti non ci sarebbero problemi, ma hanno disertato tutti appena saputo dell'oro. Se restiamo qui, nessuno di noi sarà ancora vivo la settimana prossima.» «Questo taglia la testa al toro, allora: se vogliamo continuare a respirare, dovremo andare a nord e cercare di raggiungere i disertori.» Ara sorrise. Non aveva lasciato molte alternative a quei farabutti, e Brulda aveva scelto quella giusta. «Mi servono un po' dei tuoi uomini, Brulda», disse Estarg, «magari una ventina. Devono costruirmi una portantina.» Brulda rise. «Che cosa c'è di tanto divertente?» «Non penserai davvero che i miei ti porteranno a spalle, eh?» «Sono un adnari!» proclamò il sacerdote, altezzoso. «I tuoi uomini hanno l'obbligo religioso di servirmi. Mi sminuirebbe camminare come una persona comune.» «Allora rimani qui, a me non importa. Io vado a nord, e ci vado più in fretta possibile.» «Te lo proibisco!» sbraitò Estarg. «Proibisci quello che ti pare, grassone, ma io ho smesso di prendere ordini da te nel momento in cui tutte le mie navi sono bruciate. Adesso la regola è: ognuno per conto suo. Se vuoi venire a nord con noi, dovrai camminare con le tue gambe.» «È un oltraggio!» «Ti ricordi come si fa a camminare, vero?» sogghignò Brulda. «Camminare o morire, Estarg, a te la scelta.» Ara disprezzava quello schiavista, ma fu costretta ad ammettere che ci sapeva fare con le parole. Tutto sommato, era contenta della piega che avevano preso le cose. Ora nel Dominio di Veltan c'erano due eserciti nemici, ma non erano veri eserciti nel senso convenzionale del termine. I servitori del Vlagh erano spinti dalla necessità di avere più terra e più cibo e quindi si precipitavano a sud, incuranti di chi o che cosa incontravano sul loro percorso. I servitori di Jalkan, o di Estarg, erano spinti dalla brama dell'oro e si precipitavano a nord incuranti, anche loro, di chi o che cosa incontravano sul loro cammino. Nel lontano passato, Ara aveva sentito parlare di una «guerra di mutua
estinzione». Era un termine un po' ampolloso, ma sembrava rendere bene ciò che stava per accadere. Il grande muro 1 Il sottocomandante Gunda era arrivato al porto di Castano sulla nave di un lontano cugino e si era reso conto che la sua città non era attraente come ricordava. Nelle acque del porto galleggiavano molti rifiuti e i pilastri di pietra che sorreggevano i moli erano ricoperti di viscide alghe verdognole. I «magnifici» edifici avevano assunto un color grigio-sporco a causa della perenne nube di fumo che usciva dai comignoli della città. Gunda si tolse i comodi indumenti del viaggio e indossò l'uniforme di pelle nera, completa di elmo e corazza ben lucidata, e agganciò la spada alla cintura. Quella era una missione ufficiale, che richiedeva l'abbigliamento appropriato. Il fronte del porto era movimentato da vari moli di pietra e nell'aria ristagnava l'odore caratteristico di pesce marcio, lo stesso che probabilmente aleggia nei porti di tutto il mondo. Le strade cittadine erano strette e sudice e le persone che Gunda incontrava avevano quell'espressione boriosa con la quale sembravano essere nati tutti gli abitanti dell'impero. La Terra di Dhrall era molto primitiva, ma era assai pulita, di gran lunga più pulita del luogo in cui era nata la civiltà. Gunda sospirò e si diresse verso la porta meridionale della città. Stava iniziando l'estate e le dolci colline a sud di Castano avrebbero cancellato la sua delusione, ma anche quelle non erano come le rammentava. Il ricordo delle alte montagne che nella Terra di Dhrall scendevano fino al mare e degli alberi giganteschi che si ergevano verso il cielo continuava a insinuarsi nella sua mente e rendeva la campagna che aveva davanti alquanto scarna, al confronto. L'accampamento provvisorio che accoglieva il grosso dell'esercito di Narasan si trovava a sud, appena fuori della città. Gunda entrò dal cancello che si apriva nella palizzata in tronchi di legno, rispondendo con gesto risoluto al saluto delle due guardie, e si diresse verso l'unico edificio presente. Per dormire le tende andavano bene, ma il quartier generale richiedeva qualcosa di più solido. Il sottocomandante Andar era un po' più alto della media trogita e, come
molti altri ufficiali di rango elevato, sulle tempie aveva qualche filo argentato. Era un uomo solido e affidabile e Narasan gli aveva assegnato il comando dell'esercito che era rimasto in patria. Andar stava dando una lavata di capo a un ufficiale di grado inferiore, ma quando Gunda entrò nel suo ufficio congedò immediatamente il giovane. «Come vanno le cose su al Nord, Gunda? Non abbiamo più saputo niente, da quando l'avanguardia dell'esercito ha lasciato Castano.» «Be', immagino che abbiamo vinto la guerra nella parte occidentale di Dhrall, più o meno», rispose lui, dubbioso. Si tolse l'elmo e sistemò i capelli in avanti, per nascondere la stempiatura. «Sono accaduti fatti che non ho capito del tutto», aggiunse, prendendo posto nel sedile di fianco allo scrittoio di Andar. «Avete avuto dei problemi, deduco», borbottò Andar. «Non pochi, vecchio amico. Forse non ci crederai, ma il nostro riverito comandante si è buscato un brutto caso di amicizia per un pirata maag noto con il nome di Sorgan Becco d'Uncino.» «Non dici sul serio!» «Purtroppo sì. Il bello è che ha funzionato bene. I maag sono indisciplinati, però sono degli ottimi combattenti.» «Sono dei mostri!» «Forse, ma non sono neanche lontanamente mostruosi come gli esseri contro cui dovremo guerreggiare.» «Dei barbari, suppongo?» «Parecchio al di sotto dei barbari, Andar. Non penso che si possa nemmeno chiamarli animali.» «Potresti essere più specifico? Voglio sapere esattamente che cosa ci troveremo davanti.» «Non ti piacerà.» Gunda aveva un tono cupo. «Se ho capito bene ciò che mi è stato detto, quegli individui sono solo in parte umani. Per il resto sono un miscuglio di insetti e di serpenti. Un morsettino inferto da uno di loro ti manda nella tomba lì per lì.» «Non è affatto divertente!» «Mi vedi ridere? Non me lo sto inventando. Farai meglio a prendere sul serio ogni cosa che ti dico, perché la tua vita potrebbe dipendere da questo.» «I nativi lassù sono proprio indifesi come dice chi ci ha assoldato?» «I nativi del Dominio di Veltan forse sì, ma c'è un arciere nel Dominio
di Zelana che non perde un colpo. È stato lui che ci ha insegnato a usare il veleno dei nemici per uccidere altri nemici.» «È una cosa etica?» «Stiamo combattendo contro degli insetti, Andar, non contro altre persone. L'etica non è rilevante, quando il nemico non è umano.» Dopo una pausa, Gunda parlò di come intendeva portare avanti la sua missione. «Mentre tu metti assieme le navi necessarie al trasporto delle truppe, potrei cercarmi un piccolo peschereccio, come quello con cui Veltan ha portato Narasan nella Terra di Dhrall. Chiederò a uno scrivano di farti una copia della mia cartina, in modo che tu possa trovare il canale attraverso i ghiacci galleggianti. Io andrò avanti a parlare con Narasan e mi farò dire dove vuole esattamente che sbarchiamo. Poi tornerò indietro e potremmo incontrarci da qualche parte lungo quel canale, così vi guiderò fino al punto dello sbarco.» «Sì, ci farà risparmiare un sacco di tempo.» Andar esitò, prima di chiedere: «Abbiamo perduto molti uomini lassù?» «Parecchie migliaia.» «Suppongo che Jalkan non sia tra le vittime.» Andar aveva un'espressione speranzosa. «Purtroppo no. Il comandante ha dovuto rimproverarlo parecchie volte, ma niente di più.» «Peccato», commentò Andar con rimpianto. «Non rinunciare alla speranza, amico mio», lo esortò Gunda. «È solo questione di tempo. Prima o poi, qualcuno ucciderà Jalkan e allora segneremo la data sul calendario.» «A che scopo?» «Pensavo a qualcosa come una festa nazionale.» «Sarò più che contento di partecipare ai festeggiamenti, amico!» Gunda trascorse i giorni successivi sul fronte del porto, alla ricerca di una barca per sé, mentre Andar si occupava del noioso compito di noleggiare le navi mercantili sufficienti a trasportare il grosso delle truppe fino al Dominio di Veltan. Sebbene Andar avesse accesso alle casse dell'esercito, Gunda sapeva che avrebbe fatto fuoco e fiamme se lui avesse comperato un'imbarcazione troppo costosa. Finalmente ne vide una che gli sembrava adatta e presentò Andar al vecchio pescatore male in arnese che voleva venderla. Quindi li lasciò a mercanteggiare e andò a cercare quel suo lontano cugino capitano di nave per
farsi insegnare i primi rudimenti della navigazione. Nonostante l'ambiente da cui proveniva, lui non sapeva quasi nulla su come si governa una barca. La mattina dopo, sotto un cielo privo di nuvole, Gunda scese al porto per dilettarsi con il suo nuovo giocattolo. All'inizio fu alquanto maldestro e si attirò gli improperi dagli occupanti delle altre imbarcazioni, ma nel giro di pochi giorni prese dimestichezza. Era sicuro che, disastri naturali a parte, il suo viaggio sarebbe andato benissimo. Poi tornò all'accampamento, per informarsi su come se la stesse cavando Andar. «Ho delle difficoltà a trovare abbastanza navi», ammise l'amico. «Quante te ne servono ancora?» «Almeno cento. Non si spostano ottantamila uomini con una manciata di navi.» «Allora prenderò l'Albatro e andrò avanti.» «Albatro?» «È un bel nome, adatto al mare, non trovi? L'albatro è un parente del gabbiano, no?» «Non so se io userei proprio quel nome. Ho sentito dire che ai marinai non piacciono quegli uccelli: pensano che la loro presenza sia segno di malasorte.» «È solo una superstizione, Andar!» *** Gunda salpò da Castano all'alba del giorno dopo e, quando uscì dalle acque increspate del porto e raggiunse il mare aperto, vide spalancarsi tante nuove possibilità. Scoprì immediatamente che, se manovrava le vele nel modo giusto, l'Albatro tagliava le onde come un coltello bene arrotato. Le corde scricchiolavano piacevolmente e la prora affilata sembrava sibilare, mentre puntava dritta a nord. Dopo un paio d'ore Gunda si rese conto di sentire la reazione del piccolo peschereccio alle onde mentre le tagliava. Il sole stava calando quando decise di affidarsi all'ancora galleggiante per mantenersi più o meno nella stessa posizione fino al mattino. Dovette aggottare l'acqua che era filtrata nello scafo durante il giorno. Era una bella barca, ma aveva qualche piccola falla. Il giorno seguente ripartì molto presto e già nel tardo pomeriggio avvistò la zona dei ghiacci. Contento nel vedere quanto la sua barca fosse molto
più rapida dei pesanti mercantili, le disse con affetto: «Non sei un tesorino?» Mentre il sole tramontava, entrò nell'imboccatura a sud del canale che attraversava la zona dei ghiacci e ormeggiò prudentemente a un enorme lastrone galleggiante. Ripartì il mattino seguente di buon'ora e, procedendo con cautela, raggiunse l'estremità settentrionale del canale verso mezzogiorno. Uscendo finalmente in mare aperto si rilassò. Non aveva incontrato pericoli, ma veleggiare in mezzo a quei lastroni lo aveva reso nervoso. Si levò una brezza e l'Albatro prese il largo. «Be'», mormorò, «finché ci divertiamo, che differenza fa?» Impiegò altri due giorni per raggiungere la costa sud del Dominio di Veltan e un altro per arrivare alla penisola più orientale. Osservò i piccoli villaggi costieri, che sembravano puliti e ordinati, e le distese di campi; il verde brillante del grano appena spuntato spiccava tra il bianco niveo della sabbia e l'azzurro del cielo estivo, cosparso di nuvolette. Soltanto allora si rese conto del perché aveva trovato Castano così brutta, nel rivederla. Ammise a malincuore che, in confronto al nitore e agli spazi aperti della Terra di Dhrall, il glorioso Impero Trogita era sudicio e troppo affollato e puzzava come una fogna a cielo aperto. Quando individuò la flotta delle navi trogite e delle navi maag, puntò verso la Vittoria, la nave del cugino Pantal, e notò Padan che lo stava osservando con curiosità. «Sei tu, Gunda?» gli chiese infatti l'amico, sorpreso. «Dov'è il resto dell'esercito?» «Ancora a Castano, credo. Andar ha qualche difficoltà a trovare abbastanza navi per trasportare le truppe. Può darsi che debba fare due viaggi.» Gunda ormeggiò all'ancora della Vittoria. «Devo parlare con Narasan. Ho bisogno di sapere se ha scoperto il luogo esatto dove ci scontreremo con il nemico in modo da far sbarcare gli uomini.» «Vieni a bordo. Ci sono alcune cose che dovresti sapere», lo invitò Padan. Gunda salì sul ponte e strinse la mano all'amico. «Abbiamo sentito la tua mancanza», lo salutò Padan. «Mi hai sorpreso, con quella barca da pesca. Assomiglia a quella di Veltan e non mi aspettavo certo di rivederla.» «Veltan è partito?» «Non lui. Jalkan ha finalmente commesso l'errore che tutti aspettavamo. Narasan l'ha degradato e io l'ho trascinato via in catene.»
«Questa è la notizia migliore che abbia sentito da anni! Che cosa ha fatto quell'essere spregevole?» «Ha insultato la moglie di un amico intimo di Veltan. L'ho portato di persona qui sulla Vittoria e l'ho chiuso nella stiva, incatenato alla parete. Ma ha trovato il modo di liberarsi e a scivolare giù dalla fiancata della nave. Il peschereccio di Veltan era ancorato poco lontano e quando stamattina mi sono svegliato, Jalkan e le barca erano spariti. Ho commesso davvero un grosso errore, e Narasan mi punirà severamente.» «Povero piccolo», commentò Gunda, burlandosi dell'amico. «Dove posso trovare il nostro glorioso duce?» «Credo nel castello di Veltan, nella sala della mappa.» Padan fece una pausa. «Non credo che potrei persuaderti a tenere per te ciò che ti ho appena detto, vero?» «Non sarebbe onorevole, e io ci tengo all'onore.» Il comandante Narasan andò su tutte le furie, quando Gunda gli riferì della fuga di Jalkan. «Perché Padan non ha messo delle guardie a controllare quel piccolo manigoldo?» «Dovresti chiederlo a Padan. Adesso ho bisogno di sapere dove vuoi che Andar faccia sbarcare le truppe. Ormai avranno già lasciato Castano e saranno da qualche parte lungo il canale tra i ghiacci.» «Andiamo nella sala della mappa», propose Narasan. «C'è la foce di un fiume, a pochi giorni di navigazione verso nord, e le navi potrebbero risalirlo fino a un certo punto.» Dopo una pausa chiese: «Come hai fatto ad arrivare con tanto anticipo sulla flotta?» Gunda scrollò le spalle. «Ho preso un piccolo peschereccio, giù a Castano. Si chiama Albatro e fila il doppio di qualsiasi nave trogita.» Narasan trasalì. «Quanto l'hai pagato?» «Non saprei, vecchio mio», rispose Gunda con un offensivo tono altero. «È Andar che ha le chiavi della cassa, quindi ho lasciato che pensasse lui a mercanteggiare, mentre io ero giù al porto a persuadere l'Albatro che doveva navigare, e non volare.» «Molto divertente.» «Sono felice del tuo apprezzamento, vecchio amico.» «Hai un problema, cugino», lo accolse la mattina dopo Pantal, quando Gunda arrivò a remi sotto la fiancata della Vittoria. «Spero che tu non abbia intenzione di ripartire stamane.»
«È proprio ciò che avevo in mente», replicò Gunda, allarmato. «L'unica cosa che impedisce alla tua bagnarola di trovarsi sul fondo del porto è la cima con cui l'hai legata alla catena della mia ancora. Vieni a vedere.» Pantal gli lanciò una scaletta di corda. Gunda si arrampicò a bordo, seguì il cugino dalla parte opposta del ponte e fissò sgomento la catena dell'ancora, da cui scompariva la cima che aveva fissato alla prua dell'Albatro. Sotto la superficie si individuava la sagoma della sua adorata barca. «Che cosa è successo?» «Credo che sia... affondata?» «Qualche farabutto le ha fatto un buco nella chiglia?» Pantal scosse la testa. «Avevo gli uomini di guardia per tutta la notte. Mai sentito la parola calafatare, cugino?» «No. Che cosa significa?» «Un sacco di lavoro sgradevole. Le navi sono fatte di assi, te ne sei mai accorto?» «Non fare lo spiritoso, Pantal.» «Per quanto siano costruite bene, dopo un po' l'acqua comincia a filtrare. I marinai risolvono questo problema con martello, scalpello e parecchie balle di canapa. Si incastra per bene fra le assi la canapa, che assorbe l'acqua e gonfiandosi sigilla la chiglia. Se farai così, l'Albatro starà a galla benissimo.» «Quanto spesso?» «Almeno una volta l'anno. Due se si incontra mare agitato.» «Non ho la minima idea di come farlo!» «Me lo immaginavo. Ci penseranno i miei uomini, ma ti costerà.» «Chissà perché, sapevo dove saresti andato a parare», borbottò Gunda, acido. «Niente al mondo è gratis, cugino. Perché non andiamo nella mia cabina a discutere del prezzo?» Gli uomini di Pantal riportarono l'Albatro alla superficie, la svuotarono e la tirarono in secco, poi iniziarono il lento procedimento di impermeabilizzare lo scafo. «Quanto ci vorrà?» si informò Gunda. «Parecchi giorni», rispose Pantal. «Non potresti mettere più uomini al lavoro? È vitale per me riprendere il mare.»
«Si intralcerebbero fra loro. È talmente piccola che non possono lavorarci in tanti.» I giorni sembravano trascinarsi, mentre Gunda aspettava che la calafatura fosse completata, e trascorreva il tempo nella sala della mappa, a esaminare la zona che sarebbe stata teatro della guerra. Era sempre più ovvia la necessità che il resto dell'esercito arrivasse al più presto. L'Albatro era sembrata la risposta migliore, ma Gunda cominciava a cambiare opinione. 2 «È pronta, cugino», annunciò Pantal diversi giorni dopo, «e penso che ti sorprenderà. Negli ultimi anni non è stata trattata molto bene, ma adesso taglierà l'acqua come un coltello bollente taglia il burro.» «Lo spero», replicò Gunda. «Vorrei farcela in quattro giorni.» «Non credo che andrà così in fretta, ma non si sa mai.» L'Albatro superò le previsioni di Pantal. Sembrava addirittura volare, nella sua corsa lungo la costa del Dominio di Veltan. Quando raggiunse la punta della penisola che si protendeva dalla costa meridionale, però, il vento era contrario, quindi Gunda dovette ammainare le vele e procedere a remi. Per fortuna, il vento cambiò prima che gli venissero le vesciche alle mani, così issò di nuovo le vele. Poi si accorse di una corrente costante verso ovest, lungo la parte nord della zona dei ghiacci, e raggiunse il canale che portava a sud in soli due giorni. Approfittando della luna piena e del fatto che gli bastavano quattro o cinque ore di sonno, viaggiava anche di notte e recuperò buona parte del tempo perduto e nel tardo pomeriggio del quarto giorno avvistò la costa settentrionale dell'impero. «Bene, bene», mormorò all'imbarcazione, «sei stata bravissima, piccola. Sono fiero di te. Appena raggiunto il porto ci metteremo in pari con il sonno, che ne dici?» Gli venne da ridere. «Mi sa che sto andando fuori di testa. Mi aspettavo quasi che mi rispondesse. Ho proprio bisogno di un po' di sonno!» Appena entrato nel porto di Castano, si svegliò del tutto. Lungo i moli e le banchine erano ormeggiate le navi trogite e gli uomini a bordo indossavano l'inconfondibile uniforme rossa dei soldati del clero. Sbalordito, Gunda ebbe l'accortezza di oltrepassare la parte centrale del porto e tirò in secca la barca un po' più a nord, quindi girò attorno alle mu-
ra cittadine per arrivare all'accampamento dell'esercito, dove si diresse direttamente verso il quartier generale. «Che cosa succede qui a Castano?» chiese senza preamboli. «Ovunque guardi, c'è una nave della chiesa.» «Non parlano con nessuno», spiegò Andar. «Tre giorni fa sono arrivate le truppe della chiesa, poi la flotta. Hanno occupato l'intero fronte del porto e non c'è modo di far salire i nostri uomini a bordo delle navi che ho noleggiato. Non so dove hanno intenzione di andare, ma sembra che stiano organizzando una campagna massiccia.» Gunda cominciò a imprecare a più non posso, quindi esclamò: «Jalkan!» Riuscendo a controllarsi, mise al corrente Andar di come Narasan avesse destituito e fatto incatenare Jalkan. «Allora dobbiamo festeggiare!» esclamò Andar. «Per niente. Non si sa come, è riuscito a liberarsi e fuggire, rubando la barca di Veltan. Sappiamo entrambi dov'è andato, vero?» «A giudicare da ciò che sta succedendo al porto, sarà andato al convenium centrale, a Kaldacin, e avrà sbandierato la parola 'oro'. Qualche alto papavero del clero gli avrà dato retta ed ecco perché è stato espropriato ogni singolo molo di Castano.» «E non c'è niente che possiamo fare. Hai idea di quanti soldati ci sono su quelle navi?» «Gli eserciti del clero hanno i loro stendardi, come qualsiasi altro esercito, e li ho fatti tenere d'occhio: sembra che ce ne siano cinque.» Gunda trasalì. «Fa mezzo milione di uomini! Abbiamo già una guerra per le mani, non ce ne serve un'altra! Hai qualche indizio su quando hanno intenzione di salpare?» «Direi fra un paio di giorni», rispose Andar. «Ma c'è dell'altro: ieri sono arrivate due navi dalle vele nere e gli uomini a bordo hanno avuto una lunga riunione con gli ecclesiastici di alto rango. Sappiamo tutti che cosa significa, vero?» «Mercanti di schiavi? Che cosa?...» Gunda si interruppe. «Ma certo! Non hanno in mente di correre a scontrarsi con Narasan. Gli schiavi sono preziosi quasi quanto l'oro e le truppe amarite non dovranno nemmeno combattere per radunare i potenziali schiavi, non in una regione dove tutti gli attrezzi e le armi sono di pietra.» «Potresti avere ragione. Peccato che il marito di quella bella donna non si è spinto più in là di un pugno sulla bocca. Una spada nelle budella o un'ascia in mezzo agli occhi avrebbero risolto questo problema ancor prima
che iniziasse.» Come Andar aveva previsto, la flotta della chiesa cominciò a lasciare Castano due giorni dopo. Gunda si tolse l'uniforme, indossò degli indumenti trasandati, caricò sulla prua dell'Albatro qualche rete arrotolata e uscì dal porto in direzione nord. Superò con facilità le lente navi da carico e il giorno dopo, raggiunta verso mezzogiorno la zona dei ghiacci, calò le reti a circa un chilometro dall'estremità meridionale del canale di Veltan, poi attese. Era quasi buio quando le prime navi dalle vele rosse raggiunsero l'imboccatura del canale e calarono le ancore. «Come mai ci hanno messo così tanto?» mormorò Gunda alla sua barca. Come si aspettava, all'alba della mattina seguente le navi salparono e si addentrarono nel canale. «Bene, ecco la risposta a quella domanda, vero, piccola?» Lei non gli rispose, in realtà, ma fece un movimento in su e in giù che pareva un segno di assenso. «È tempo di ritornare a Castano, piccola. Meglio far sapere all'amico Andar che cosa hanno intenzione di fare quelli lì.» Andar sorvolò su parecchie regole nel caricare i soldati di Narasan a bordo delle navi che aveva noleggiato. Ci fu qualche strillo di protesta quando annunciò che gli ufficiali non avrebbero avuto alloggi separati e che, poiché il tempo era buono, non occorreva che tutti avessero un tetto sopra la testa. In questo modo, l'intero esercito andava a nord, nonostante non ci fossero abbastanza navi. La praticità era spesso necessaria, ma a volte Andar la spingeva all'estremo. Gunda aveva legato l'Albatro alla poppa del Trionfo, su cui viaggiava Andar, e quando si avvicinarono al canale tra i ghiacci entrò nella sua cabina, che fungeva da quartier generale. «Secondo me, dovremo essere guardinghi all'uscita dal canale», consigliò. «Sarebbe meglio se non vi faceste vedere dalla costa sud. Probabilmente i cinque eserciti sono accampati lì, ed è più prudente che non sappiano che ci siamo anche noi. Io me ne starò un po' più vicino, per tenerli d'occhio.» «Non correre rischi», lo ammonì l'amico. «Narasan mi mangerebbe a colazione, se tu rimanessi ucciso.» «Starò attento. Mi basterà scoprire se quelle navi sono ancorate lungo la costa. Sono sicuro di sì, ma voglio accertarmene. Meglio non trovarci nella situazione di doverle cercare.»
Gunda si fece aiutare da un paio di marinai ad accostare l'Albatro alla poppa del Trionfo, salì a bordo, issò le vele e si diresse verso l'estremità settentrionale del canale. Era quasi il crepuscolo quando il suo piccolo peschereccio uscì di nuovo in mare aperto e veleggiò verso la costa della Terra di Dhrall fin quando ci fu un minimo di luce. Gunda sapeva che la luna era nell'ultimo quarto, ma non era ancora sorta, quindi ancorò l'Albatro e si dispose ad aspettare. A mezzanotte circa, appena sorse la luna, ammainò la vela e spinse la barca verso la costa con la sola forza dei remi, per evitare di farsi vedere. I villaggi costieri erano facilmente identificabili, per la luce delle lanterne proveniente dalle case rudimentali, e davanti a ognuno di essi c'erano navi della chiesa all'ancora. Gunda non vedeva distintamente, ma gli parve di scorgere dei recinti in prossimità di ogni villaggio, e sembravano ben sorvegliati dai soldati in rosso. «Mi sa che avevamo ragione, piccola», mormorò all'Albatro. «Penso di aver visto abbastanza. Torniamo a parlare con Andar.» 3 Tre giorni dopo la flotta al seguito del Trionfo fu in vista del Dominio di Veltan e raggiunse la penisola più orientale della costa sud. Gunda si stupì nel vedere l'intera flotta maag scendere rapidamente da nord. Gli sembrava che i maag avessero un atteggiamento bellicoso e le cose furono un po' tese fino a quando, avvicinatosi al Gabbiano per conferire con Sorgan, non scambiò qualche parola con Bove. «Che cosa sta succedendo?» gli chiese. «A quanto pare, c'è in ballo un'altra guerra», rispose il corpacciuto marinaio. «Come lo avete scoperto?» si stupì Gunda. «Pensavo che fossimo i soli a saperlo.» «Eravamo sulle montagne quando Veltan è comparso dal nulla e ci ha detto che un'intera flotta trogita aveva attraccato qui a sud. Il Capità gli ha detto che ci avremmo pensato noi.» «Penso che farò meglio a parlare con Sorgan. Ho le risposte a qualche domanda che potrebbe farsi.» Gunda accostò l'Albatro alla fiancata del Gabbiano. «Sali a bordo, allora!» Bove calò una scaletta di corda e, mentre Gunda metteva piede sul ponte, Sorgan usciva dalla propria cabina. «Che cosa sta succedendo laggiù?» gli chiese.
«Sulle nostre navi c'è il grosso dell'esercito e siamo diretti alla foce del Fiume Vash. A Castano il clero ha riempito le sue navi di soldati, ben cinque eserciti! Poi sono partiti verso nord. Li ho visti entrare nel canale che attraversa la zona dei ghiacci. Non trovi strano che tutto questo sia successo poco dopo che Jalkan ha rubato la barca di Veltan?» «Allora è stato questo a dare il via alla cosa!» esclamò Sorgan. «Hai scoperto dove sono diretti, esattamente?» «Certo, capitano!» Gunda esibì un sorriso compiaciuto. «Ci sono cinque o sei navi del clero ancorate un po' al largo della spiaggia, davanti a ogni singolo villaggio di agricoltori, ed è molto probabile che tra poco arriveranno anche le navi dei mercanti di schiavi, dalle vele nere. Le altre, invece, le hanno rosse. La chiesa amarita ci tiene tanto al rosso: è un modo per dire a tutti quanto è importante.» Sorgan replicò con un ghigno improvviso. «Noi abbiamo trovato un modo per non fargli più piacere il rosso», annunciò. «Eh?» «Il fuoco è rosso, no? Dopo che i miei gli avranno incendiato tutte le navi, vorranno non avere mai sentito la parola 'rosso'!» In prossimità della spiaggia da cui si saliva al castello di Veltan erano ancora ormeggiate alcune navi, ma il grosso della flotta era salpato verso nord, quindi Gunda non vide motivo per fermarsi. «Pittoresche!» osservò Andar, osservando le montagne che movimentavano la costa più a nord. «Goditele finché puoi, amico mio», gli consigliò Gunda. «Smettono di essere carine quando cominci ad arrampicarti.» Raggiunsero la foce del Fiume Vash il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, e videro che quasi tutta la flotta che aveva trasportato l'avanguardia dell'esercito era all'ancora lì. Gunda prese l'Albatro e, assieme ad Andar, si avvicinò a remi alla Vittoria, la nave di suo cugino Pantal. «Ancora non ne sappiamo molto di come vanno le cose lassù», ammise il robusto Pantal. «Sembra un paese collinoso», osservò Gunda. «A che distanza è il passo da qui?» «A circa due giorni. Conosci il brigadiere generale Danai?» Gunda annuì. «È nell'esercito di Narasan da quando ci siamo io e Padan.» «È lui il responsabile dei collegamenti con il passo. È stato molto utile:
ha fatto costruire qualche molo lungo la sponda nord del fiume, e quando si ha un molo ai due lati di una nave si scaricano le truppe in un attimo. Però ha dei problemi a far arrivare su i rifornimenti: un uomo che trasporta un sacco da cinquanta chili non si muove tanto in fretta.» La mattina dopo, il Trionfo iniziò di buon'ora la risalita del fiume. Andar parve intimorito dalla dimensione degli alberi lungo le sponde. «Secondo te quanto tempo ci vuole perché un albero diventi così grosso?» chiese a Gunda. «Non voglio nemmeno provare a indovinare. Non meno di cinquecento anni. Per quelli più grossi anche mille.» «Riesci a immaginare una cosa viva da mille anni?» «Non dev'essere un gran che. Con quelle radici si è costretti a rimanere nello stesso posto per tutto quel tempo.» «Ieri sera, prima di addormentarmi, ho pensato una cosa», disse Andar. «Del tipo: devo dormire sulla schiena o sulla pancia?» «Tuo cugino ci ha detto che gli uomini addetti ai rifornimenti vanno molto piano. Se avessero meno peso andrebbero più veloci, no?» «Io cerco di evitare di dire ovvietà: fa sembrare scemi.» «Vuoi ascoltarmi o preferisci fare battute cretine?» «Scusa. Qual è il tuo grandioso piano?» «Abbiamo portato qui ottantamila uomini. Se ognuno di loro portasse una dozzina di chili su per quella salita, potremmo mettere nelle mani di Narasan quasi mille tonnellate di rifornimenti.» Gunda sbatté le palpebre. «Questo sì che darebbe da mangiare all'esercito per un bel po'!» «Le nostre truppe devono salire lassù comunque, e portare i rifornimenti sarebbe più utile che guardare il paesaggio, non trovi?» «Chi è stato così furbo da piazzare tutte quelle corde attraverso il passo?» domandò Gunda a Danai, fissando il canalone quasi perpendicolare. «Quel giovane che si chiama Keselo.» «Già, avrei dovuto immaginarlo.» «È così brillante?» chiese Andar. «A volte brilla quasi da risplendere nel buio», rispose Gunda, un po' acido. «Questo mi irrita, per qualche motivo. I soldati giovani dovrebbero essere stupidi, e Keselo infrange questa regola ogni volta che si gira. 'Saggio' si addice a noi veterani, ma Keselo continua a invadere il nostro territorio. Be', meglio che mi decida a fare 'sta salita per far sapere a Narasan che
siamo arrivati con il resto dei suoi uomini.» «Non dimenticare il tuo pacco», gli rammentò Andar. «Ma io sono di fretta!» protestò Gunda. «Uno degli obblighi che hanno gli ufficiali di grado elevato è dare l'esempio ai soldati semplici. Prendi quel pacco e non discutere.» «Che cosa c'è dentro, che dovrebbe colmare di gioia il nostro comandante?» «Fagioli, vero Danai?» chiese Andar, e il brigadiere generale annuì. «Fagioli?» esclamò Gunda. «Mi stai sbattendo sul groppone un sacco di fagioli?» «Preferiresti i sassi?» L'altipiano alla sommità dello stretto passo era una pianura erbosa costellata qua e là da gruppetti di alberi. L'unica cosa insolita era la sorgente del Fiume Vash. Gunda aveva sentito parlare dei geyser, ma quello era il primo che vedeva di persona. La sua mente si ritrasse dal pensiero della tremenda pressione sotterranea che proiettava verso il cielo una quantità d'acqua tale da creare un fiume che alla foce era largo circa un chilometro e mezzo. Osservando il crinale a nord, che al centro era stato distrutto da un disastro naturale, notò come la roccia che lo componeva fosse prevalentemente nera. Dove si era frantumata aveva dato luogo a innumerevoli massi dalle superfici piatte, sparpagliati sul versante opposto, di pietra rossiccia, che scendeva verso una vasta depressione dello stesso colore. Gunda sapeva vagamente che le rocce e la sabbia dove prevale il rosso hanno a che fare con il ferro. Rimase un po' sconcertato. Se in quella regione c'era così tanto minerale ferroso, come mai i nativi fabbricavano le armi e gli utensili con la pietra? Alzò le spalle e si diresse verso l'accampamento per presentarsi a rapporto da Narasan. «Avete impiegato poco tempo!» si complimentò con lui il suo comandante. «Ci preoccupavamo che incontraste la flotta amarita, sulla costa sud.» «Abbiamo avuto fortuna. Quando sono tornato a Castano, la flotta aveva invaso tutto il porto, ma con la mia barca l'ho seguita quando ha salpato verso nord, e ho verificato che si stava dirigendo verso la Terra di Dhrall. Intanto Andar, infrangendo un certo numero di regole, come assegnare alloggi separati agli ufficiali, fare dormire tutti gli uomini al coperto e altre
cose che non mi ha rivelato, è riuscito ad ammucchiare l'intero esercito sulle navi che ha rastrellato, ma in parecchie di loro la linea di galleggiamento era talmente sott'acqua che una leggera tempesta avrebbe potuto affondarle.» Narasan trasalì. «È estate, vecchio amico. La possibilità di tempeste è scarsissima. Comunque, abbiamo incontrato Sorgan vicino alla costa sud, era tutto eccitato all'idea di incendiare le navi del clero.» «Che cos'hai in quel sacco legato dietro la schiena?» volle sapere Padan. «Non ci metteremo a ridere per questo, vero?» Gunda aveva un'espressione corrucciata. «Perché dovrei aver voglia di ridere?» ribatté Padan. Gunda serrò un pugno e glielo mise davanti alla faccia. «Fagioli, solo fagioli, e non pensare nemmeno a ridere!» «Non mi sognerei mai di farlo, vecchio amico», rispose Padan, mantenendosi serio. «Bene, allora ti terrai i tuoi denti.» Gunda si rivolse di nuovo a Narasan. «Qualcuno ha già visto gli uomini-serpente?» «No, ma il nemico sa che siamo qui. A quanto pare, la cosa che i nativi chiamano 'il Vlagh' sta facendo altri esperimenti. Ha delle spie che ci osservano, ma questa volta sono pipistrelli, non serpenti. Però anche i loro denti hanno il veleno.» «Serpenti che volano?» esclamò Gunda. «Non è tanto male quanto sembra», gli assicurò Padan. «Quel maag piccoletto che lavora per Becco d'Uncino ha avuto l'idea di usare le reti per proteggerci. Nessuno dei nostri è stato morso... per ora.» «Non cominciare ad attaccare 'per ora' a ogni cosa che dici», ringhiò Gunda. «È molto irritante!» «Cerco solo di non escludere nessuna possibilità.» «Sono contento che sei arrivato», disse Narasan. «Sei tu l'esperto, quando si tratta di costruire le fortificazioni, e stavolta abbiamo dei problemi.» «Sì?» «Come vedi, questo altipiano è circondato da crinali molto ripidi, tranne quello a nord, da dove quasi certamente il nemico ci attaccherà. Quel varco che lo interrompe è largo circa un chilometro e mezzo e credo che ci vorrà tutta l'estate per costruire un forte così grande. Padan ha messo gli uomini al lavoro per gettare una base attraverso quel varco, ma temo che sarà una cosa lenta.»
«Mi sa che dormivi durante le ore di lezione, da ragazzo!» sbottò Gunda, senza peli sulla lingua. «Quando si vuole chiudere qualcosa di quelle dimensioni si costruisce un muro, non un forte.» «Gli insetti o i serpenti non troveranno tanto difficile scalare un muro», obiettò Padan. «Sì, invece, se ogni trentina di metri ci sono delle torri sporgenti dalla facciata del muro, in particolare se in cima alle torri ci sono gli arcieri. Ogni volta che quelli proveranno ad arrampicarsi, le frecce li staccheranno dal muro.» «Potresti avere ragione», ammise Padan. «Proviamo», concordò Narasan. «Questo problema mi tiene sveglio da un po'.» «Puoi fare sonni tranquilli, adesso, glorioso duce», declamò Gunda in tono sbruffone. «È tornato il possente Gunda, quindi va tutto bene.» «Tutto ciò è molto irritante», commentò Narasan, acido. «Contento che ti sia piaciuto, glorioso duce. Allora, dove vuoi che li metta 'sti fagioli? Comincio a essere un po' stanco di portarmeli in giro.» «Si chiama basalto, signore», spiegò Keselo. «Nell'impero è raro da trovare, ma è molto comune nelle zone vulcaniche.» «Come mai si spacca di netto in questo modo?» chiese Gunda. «Non ne sono del tutto certo. Il nostro istruttore all'università di Kaldacin non ci forniva molti dettagli quando descriveva le rocce poco comuni nell'impero.» «C'era qualcosa che non studiavi, quando andavi a scuola?» «In realtà no», ammise il giovane. «All'epoca cercavo di fare del mio meglio per evitare di prendere decisioni. Però non ho studiato teologia: gli insegnanti di quella disciplina erano tutti sacerdoti amariti e gli studenti che seguivano le loro lezioni dovevano passare in giro ogni volta il vassoio della questua.» «Quella gente farebbe di tutto per mettere le mani sui soldi. Noi, almeno, ci guadagniamo la nostra paga. Ma torniamo a questa roccia. È abbastanza resistente per costruire edifici, o forti?» «È un po' più fragile del granito, però stavolta il nemico non userà catapulte o arieti, quindi il basalto dovrebbe resistere.» «È ciò che volevo sapere. Le pietre piatte sono più facili da utilizzare di quelle tonde e queste sono dappertutto.» «Probabilmente perché ci sono dei vulcani qua in giro.»
«Montagne di fuoco, intendi?» domandò Gunda, allarmato. «Così li chiama Barba Rossa. Non tutti i vulcani sputano fuori il fuoco, però. Alcuni emettono cenere invece di roccia liquida.» «Ci sono segnali che avvisano quando sta per accadere un fenomeno simile?» «In genere ci sono dei terremoti, prima che la cima della montagna esploda.» Gunda rabbrividì. Proveniente dal prato, li raggiunse Leprotto. «Ho sentito che costruirete un muro quassù», disse. «Questo è il progetto», confermò Gunda. «Ti spiace se do un suggerimento?» «No, che cos'hai in mente?» «Pensi che in cima potresti aggiungere dei pali alti circa tre metri sul davanti e sul dietro?» «Non dovrebbe essere difficile. A cosa servono?» «A reggere le reti da pesca.» «Non credo vedremo molti pesci volare sopra il muro.» «Forse no, ma probabilmente vedremo i pipistrelli-insetto. Per ora girano qua attorno solo per spiarci, ma Barba Rossa ha sentito l'odore del veleno in quello ammazzato da Arcolungo. Se restano aggrovigliati nelle reti, non riusciranno a morderci.» «Non è una cattiva idea, ma le reti ci intralceranno, quando saremo impegnati con i nemici che saliranno sul muro.» «I pipistrelli escono solo di notte, ho sentito», spiegò Leprotto. «Possiamo arrotolare le reti durante il giorno, in modo che non ci diano fastidio, e abbassarle quando scende il sole.» «Così potrebbe funzionare», approvò Gunda. «Comunque, cercare di combattere una guerra di notte non sarebbe molto divertente.» Le piatte rocce nere che Keselo aveva identificato come basalto furono utilissime e, poiché la maggior parte delle truppe era affidata a Gunda per la costruzione del muro, il lavoro procedeva perfino più in fretta di quanto sperato. Se i serpenti - insetti - pipistrelli - qualsiasi cosa fossero avessero aspettato qualche altro giorno, il muro, completo di torri, sarebbe stato ultimato e i «qualsiasi cosa» si sarebbero trovati in guai grossi. Narasan trascorreva quasi tutto il tempo a osservare come procedeva il muro di Gunda, ma teneva d'occhio anche gli sbarramenti in via di costru-
zione sul versante che dava sul deserto. Erano barriere di media altezza e avevano la classica forma a semicerchio: partivano dalla destra del muro di Gunda, scendevano lungo la scarpata e risalivano a sinistra. A erigerle provvedevano gli uomini di Padan, che avevano a disposizione abbondante materiale da costruzione, costituito dai blocchetti di basalto sparsi dappertutto. Entrambe le opere riproducevano posizioni difensive piuttosto standard con l'aggiunta di qualche piccola modifica: i paletti conficcati nelle barricate lungo la scarpata, per esempio, erano stati intinti nel veleno. Tutto sommato, Gunda era soddisfatto del loro progetto. Avevano colmato il varco creatosi nel crinale e quasi certamente potevano resistere per il resto dell'estate al bersagliamento di qualunque cosa il nemico avesse usato. Colpito dall'abilità con cui Keselo addestrava gli agricoltori locali, ormai diventati validi quasi quanto i soldati di professione, Gunda ne parlò con Narasan. «Hai tenuto d'occhio Keselo?» gli chiese. «Quel ragazzo sta venendo su bene.» «È un bel po' che lo osservo.» «È bravo, eh?» «Già. Se riusciamo a tenerlo vivo, potrebbe andare lontano, nel nostro esercito.» «Magari su su, fino in cima?» «Non è da escludere. È estremamente intelligente ed è un ottimo insegnante. Io non pensavo che gli agricoltori sarebbero stati di qualche utilità, ma lui li ha trasformati rapidamente in soldati di prima scelta. Certo, non hanno ancora incontrato il nemico, ma sono convinto che manterranno le loro posizioni, quando ci sarà l'attacco.» «Vedremo», borbottò Gunda. «Questa non è quella che chiamerei una guerra comune, quindi non faccio scommesse di alcun tipo.» Il muro di Gunda era quasi terminato, quando Veltan venne dal suo accampamento vicino al geyser per avvertire Narasan che lo spiritoso amico di Arcolungo, Barba Rossa, era appena arrivato dal Dominio di Zelana con diverse migliaia di arcieri. «Ha delle informazioni che tu e i tuoi uomini dovreste conoscere», aggiunse. Barba Rossa stava parlando con Madonna Zelana quando Narasan e i suoi ufficiali si avvicinarono all'accampamento. «Dov'è stato di preciso Arcolungo, ultimamente?» volle sapere il piccolo maag chiamato Leprotto. «Ogni volta che mi giro lui corre da qualche parte fra le montagne.»
«È su, vicino alla sommità del crinale occidentale», rispose Barba Rossa. «Almeno, era lì l'ultima volta che l'ho visto. Ho saputo che ci sono un po' di complicazioni a sud.» «Noi speriamo che se ne occupi Arcolungo», intervenne Narasan. «Ho distaccato tutti gli arcieri nell'esercito per aiutarlo a contrastare questa seconda invasione.» «Me ne ha parlato. Le cose andranno meglio, adesso che ha i suoi arcieri che distinguono la punta dalla coda di una freccia. Non per offendere, amico Narasan, ma i tuoi arcieri non sono tanto bravi, sai? Si esercitano mai?» «Nel nostro esercito i soldati trascorrono cinque ore al giorno marciando e altre cinque a fare esercizio con la spada», spiegò Padan. «Quindi non hanno tempo per migliorare le loro doti di arcieri.» «Perché devono portare le spade?» «È la tradizione, e per gli ufficiali dell'esercito la tradizione è sacra. L'arco è considerato una specie di abominio. Uccidere qualcuno che si trova a più di un metro e mezzo non è onorevole.» Barba Rossa guardò Narasan. «Se lo sta inventando, vero?» «In realtà no», rispose lui, lievemente in imbarazzo. «Forse è ora di cambiare qualche regola.» «Questo non spingerà il mondo alla sua fine?» commentò Padan. Ignorandolo, Narasan esortò Barba Rossa: «Continua la tua storia». «Arcolungo mi ha detto che ha dovuto fare lui la maggior parte del lavoro, quando quelli in rosso sono arrivati di corsa su da quegli stretti canaloni. Immagino che i tuoi arcieri possano vedere qualcuno vestito di rosso, anche se non riescono a mandare nemmeno una freccia nelle sue vicinanze, così Arcolungo li ha messi di guardia a controllare ogni via di accesso dal basso. Adesso che sono arrivati i suoi arcieri le cose andranno molto meglio.» «Ne abbiamo bisogno qui!» esclamò Gunda. «La nostra intera difesa è basata su di loro.» «Allora direi che abbiamo un altro problema. Possiamo discuterne quanto vuoi, ma Arcolungo ha già metà degli arcieri che ho portato attraverso i monti e non credo che li lascerà andare.» 4 Qualche giorno più tardi gli uomini di Gunda stavano dando gli ultimi ritocchi al muro, di cui lui era molto soddisfatto, quando dalla pianura del-
la Terra Desolata si sollevò un nuvolone di polvere che arrivò fino ai piedi della scarpata. Gunda mandò subito un messaggio a Narasan e presto la sommità del muro fu affollata di osservatori, compresi un paio venuti da terre lontane. Quello con la cicatrice sul viso, Ekial, non pareva fuori posto, ma Gunda provò un moto di stupore (e di soggezione) alla vista della regina guerriera Trenicia. «Direi che abbiamo visite», bofonchiò Andar. «Ma non ho niente da mettermi!» protestò Padan. «Lo fa spesso?» chiese Andar a Gunda. «Sempre. Pensa di essere spiritoso, ma io ho smesso di ridere anni addietro.» Gunda guardò giù per la scarpata, poi rivolse a Veltan uno sguardo interrogativo. «Potrei sbagliarmi, ma mi pare che il deserto sia più basso di quando stavamo combattendo nella gola sopra Lattash.» «Questa era la parte più profonda del mare interno che copriva la Terra Desolata nel lontano passato», spiegò Veltan. «Non ho mai preso delle misure, ma credo che quella depressione sia perfino più bassa del fondo di Madre Mare.» «Ci sono davvero così tanti nemici laggiù?» chiese Andar, fissando l'estensione della nube rossiccia. «Forse stanno solo scalciando per sollevare la polvere e nascondere il loro vero numero», suppose Danai. «Non è una pratica insolita, se non hai tanti uomini quanti ne ha il tuo nemico e non vuoi che lui lo sappia. E se ne hai di più, anche in quel caso è meglio nasconderglielo.» «È possibile», osservò Madonna Zelana, «ma questa probabilmente è la nuova nidiata. Dopo quello che è accaduto nel mio Dominio, al Vlagh non sono rimasti tanti servitori, quindi ha deposto altre uova. Può darsi che stia facendo esperimenti. Se ne viene fuori con varietà sempre diverse di figli.» «Ho difficoltà a capire», ammise Keselo. «Siamo attaccati da donne?» La robusta guerriera dell'Isola di Akalla portò la mano alla spada, ma Veltan la toccò sul braccio. «Non voleva offenderti, regina Trenicia. Solo, non conosce bene la tua cultura.» «Qualcuno dovrebbe spiegargliela.» «Io non penserei ai servitori del Vlagh come a 'donne', Keselo», rispose al giovane trogita Madonna Zelana. «Sono femmine, certo, ma la maggioranza degli insetti lo è. I maschi hanno un unico compito, che credo non occorra discutere in questo momento.» Keselo divenne improvvisamente color porpora. Madonna Zelana rise. «Non è un caro ragazzo?» commentò con gli altri.
«Comunque, quando il Vlagh genera una nidiata, si tratta di decine di migliaia di individui.» «Però sarebbero solo dei neonati!» esclamò Andar. «Vero, ma l'infanzia di un insetto dura solo una settimana, dopodiché è un adulto in piena regola.» «Anche le femmine?» «Già.» «La vita di un ragazzo-insetto dev'essere molto interessante», commentò Padan. «Ha degli inconvenienti, però», lo avvertì Zelana. «Dopo che ha compiuto il suo dovere, non è più di alcuna utilità, così i servitori del Vlagh, femmine naturalmente, gli staccano la testa a morsi e lo gettano nell'immondizia.» «La carriera di un ragazzo-insetto ti interessa ancora, Padan?» chiese Gunda. «Comincio ad avere dei ripensamenti», ammise l'amico, scosso da un brivido. Circa un'ora dopo si levò una brezza che spazzò via buona parte della polvere e gli osservatori sul muro di Gunda rimasero sbalorditi dal numero dei nemici che si muovevano con determinazione attraverso il deserto. «Penso sia ora di andare ai nostri posti, signori», ordinò Narasan ai suoi ufficiali, scuro in volto. «È la mia immaginazione, o questi sono un po' più grossi di quelli che abbiamo incontrato nella gola?» domandò Padan. Gunda strizzò gli occhi per vedere meglio in lontananza. «È difficile esserne sicuri, ma credo che tu abbia ragione.» Si rivolse a Veltan. «Il Vlagh può farlo? Insomma, può raddoppiare la dimensione dei suoi soldati nel giro di un mese?» «Probabilmente. È un imitatore. Se vede che certe caratteristiche possono essere utili, lui modifica la nidiata successiva in modo da includerle. Gli uomini della Terra di Maag sono molto alti, quindi direi che il Vlagh ha imitato la loro statura.» «Perché non ha generato guerrieri più grossi fin dall'inizio?» volle sapere Leprotto. «Le creature più grandi consumano molta più energia e non c'è molto da mangiare nella Terra Desolata. Dopo il conflitto precedente c'è stato più cibo, quindi adesso il Vlagh può permettersi di creare servitori più grossi.»
«Alberi e arbusti, intendi?» «Non proprio. Finiti i combattimenti ci sono cadaveri di persone e animali. Dopo quella guerra c'è stato tanto da mangiare. I vulcani hanno bruciato molto di quel cibo, ma i sudditi del Vlagh devono essere riusciti a salvarne un po' per nutrire i guerrieri più grossi.» «È disgustoso!» esclamo Keselo. Veltan si strinse nelle spalle. «Il Vlagh non ragiona come noi. Farà tutto il necessario per ottenere ciò che vuole. Nella Terra Desolata il cibo non è mai stato sufficiente per nutrire lo stuolo di servitori necessari a raggiungere il suo scopo. Se ci pensi, questo potrebbe essere il motivo principale di questa guerra.» «Gunda!» esclamò Andar, dall'alto di una torre vicina. «Guarda oltre la prima schiera. Credo che abbiamo davanti un nemico del tutto diverso.» Gunda scrutò attraverso la polvere che si sollevava dalla base della scarpata. Dapprima non vide nulla di strano, poi individuò un movimento rasoterra. Quando un colpo di vento ripulì l'aria, esclamò: «Tartarughe? Perché mai il Vlagh dovrebbe volere delle tartarughe?» «Sono lunghe circa tre metri», gli fece notare Padan. «E, se conto bene, ognuna di loro ha otto zampe.» «Ragni? In parte tartarughe e in parte ragni? Non ha senso!» «Temo di sì, Gunda», osservò Veltan. «Credo che il Vlagh abbia rubato un'ottima idea ai nostri amici trogiti.» Allungò la mano verso di lui e diede qualche colpetto sulla corazza di metallo. «Questa idea. Adesso ha dei soldati che indossano l'armatura.» «Ma perché usare i ragni invece dei rettili?» domandò Padan. «I ragni si muovono più in fretta e tessono le ragnatele», rispose Veltan, poi aggrottò la fronte. «Non ne sono sicuro, ma credo che il veleno dei ragni sia più mortale di quello dei rettili.» «Io dico che siamo in un mare di guai», chiosò Padan. Il nemico sferrò qualche attacco di prova lungo le fortificazioni più periferiche, ma al tramonto si ritirò e il comandante Narasan indisse una riunione. «Questi sono il doppio di quelli incontrati sopra Lattash», riferì Keselo, «ma non mi sono parsi altrettanto rapidi e agili.» «Chi è più grosso è sempre più maldestro», commentò Leprotto. «L'ho imparato presto.» «È possibile che sia la prima nidiata di questa varietà», spiegò Veltan.
«Ci vorranno diverse generazioni prima che si adattino ai mutamenti della loro statura.» «Allora nel frattempo potremmo vincere la guerra», auspicò Padan. «Io non ci scommetterei, amico», lo contraddisse Gunda. «Potrebbero riservare delle sorprese, e quando ti trovi di fronte delle cose con i denti avvelenati, 'sorpresa' di solito significa morte.» «Ti sei fatto un'idea di quanto sono spessi i loro carapaci?» domandò Barba Rossa a Keselo. «In realtà no. Erano troppo lontani.» «Una freccia con la punta di metallo potrebbe perforarli, ma non ci scommetterei la vita.» «Potremmo prendere in considerazione le catapulte, comandante», suggerì Andar. «Se 'affilato' non ha la meglio su quelle bestie, 'pesante' potrebbe funzionare.» «È possibile», concordò Danai. «Una pietra di una trentina di chili potrebbe rompere quei carapaci.» «Vale la pena provare, suppongo», acconsentì Narasan. Li raggiunse attorno al fuoco Torl, il cugino più giovane di Sorgan Becco d'Uncino. «Come vanno le cose a sud?» gli domandò Veltan. «Abbiamo bruciato tutte le navi che i trog avevano all'ancora laggiù», rispose lui in tono dubbioso, «ma non sono sicuro che questo ci sia stato molto utile. Stanno succedendo cose strane, da quelle parti.» «Perché non cominci dall'inizio, capitano Torl?» lo invitò Narasan. «Gli abbiamo incendiato le navi, ma loro avevano già lasciato la regione.» «Lasciato?» Gunda si allarmò. «E dove sono andati?» «Direi che stanno venendo qui.» «Potresti cominciare dall'inizio, capitano?» ripeté Narasan. Torl narrò i fatti strani accaduti lungo la costa meridionale e anche ciò che lui chiamava una «favola». Narasan parve considerare la cosa importante e lo portò da Veltan e da sua sorella. La mattina dopo c'erano diverse centinaia di pipistrelli-insetto intrappolati nelle reti e Gunda dovette mandare una squadra di uomini muniti di lance dalla punta avvelenata per finirli, e un'altra squadra protetta da guanti di pelle per districarli dalle reti e gettarli via. I nemici più grossi, che Sorgan aveva chiamato «uomini-serpente», fece-
ro un esitante approccio alle fortificazioni più basse, che non assomigliava neanche lontanamente a un vero e proprio attacco. Quelli enormi con la corazza di osso stavano immobili più indietro, il che non preoccupava Gunda, poiché gli uomini a cui aveva ordinato di costruire le catapulte non avevano ancora finito. Verso mezzogiorno Arcolungo attraversò il vasto prato per parlare con Narasan e con Veltan. Gunda si calò per una scaletta sul retro del muro per unirsi al gruppetto. «Le truppe del clero continuano a salire da quei canaloni?» si informò Padan. «Credo che ormai ci abbiano rinunciato», rispose Arcolungo. «I pastori ci hanno mostrato ogni singolo percorso che è possibile seguire e gli arcieri li hanno tenuti d'occhio tutti. Ci hanno messo po' di tempo, quei soldati, per rendersi conto che non sarebbero vissuti a lungo tentando di raggiungere la cima in quella maniera, quindi adesso si sono radunati tutti alla base della cascata.» «Cercheranno di nuotare?» chiese Padan. Arcolungo gli rivolse un debole sorriso. «Non che io sappia. A quanto pare, hanno rinunciato all'idea di trovare una facile via per arrivare fin qua, quindi stanno cercando qualcosa di più 'difficile'.» «Ah, delle scale, forse?» Arcolungo scosse la testa. «Sembrano aver deciso che gli serve una strada vera e propria, quindi ne stanno costruendo una.» «Non sono sicuro di seguirti», intervenne Narasan. «Hanno iniziato a un po' di distanza dalla cascata, nella gola dove si riversa l'acqua, e stanno costruendo una rampa lungo il suo versante ovest.» «Così all'aperto?» chiese Padan. «Pensavo che nemmeno i militi del clero potessero essere talmente stupidi da tentare una cosa simile, con i tuoi arcieri appostati su in cima. Non andranno tanto lontano con quella costruzione, se li bersaglieremo con una pioggia di frecce.» «Hanno escogitato un modo per impedire che quel tipo particolare di temporale renda loro la vita difficile.» «Sì?» «Credo che si chiami 'tetto'. Gli impedisce di bagnarsi, o di morire. Secondo me, un bel po' di loro riusciranno a raggiungere la sommità di quella rampa, quando avranno finito di costruirla. Che ci piaccia o no, sembra proprio che dovremo affrontare due diversi nemici, lassù.»
Il mare d'oro 1 Era quasi mezzogiorno quando Arcolungo si risolse a parlare della situazione con Zelana e suo fratello, prima che gli stranieri prendessero decisioni che potevano rivelarsi disastrose. Mentre attraversava l'altipiano erboso che circondava l'enorme geyser, tornò con la mente al giorno in cui Zelana ed Eleria lo avevano persuaso (o meglio costretto) a unirsi alla loro famiglia in quella guerra che sembrava non finire mai. Quel giorno aveva cambiato per sempre la sua vita. Per certi versi, lo rimpiangeva. Vivere da solo nella foresta era stato molto semplice, poiché nulla interferiva con la caccia, e la caccia era stato il suo unico scopo dal giorno in cui era morta Acqua Brumosa. Cacciare e uccidere i servitori del Vlagh era l'unica soddisfazione che si aspettava. Era vero che le guerre ne uccidevano moltissimi, come gli aveva fatto notare Eleria il giorno in cui aveva incontrato lei e Zelana, ma le guerre erano complicate, coinvolgevano tante persone e comportavano interminabili discussioni. A lui sembrava che gli stranieri si divertissero a discutere tra loro su cose di scarsa importanza. Un cacciatore solitario poteva muoversi più in fretta e raggiungere la meta molto prima di qualsiasi esercito al mondo, probabilmente perché non aveva attorno nessuno con cui discutere. «Non ci sono tagliato», borbottò. «Forse avrei dovuto pensarci meglio.» Zelana ed Eleria avevano allestito un rudimentale accampamento a una certa distanza dal geyser, per evitare i continui spruzzi d'acqua che anche la minima brezza bastava a spargere. In realtà non era nemmeno un vero accampamento: consisteva in poco più di un letto arrangiato e un secchio con la provvista di frutta, entrambi destinati a Eleria: Zelana, ovviamente, non aveva bisogno di un letto né di cibo. Eleria gli andò incontro con le braccia tese, come al solito, e quando lui la sollevò da terra gli disse (come al solito): «Bacino-bacino». Lui sorrise e baciò sulle guance la deliziosa bambina. «È il mio turno adesso?» chiese Zelana. «Ogni cosa a suo tempo», replicò Arcolungo. «Sarebbe una buona idea se tu e tuo fratello Veltan faceste visita ai nostri amici stranieri. Ultimamente stanno succedendo cose che li preoccupano.» «Davvero?»
«Sembra che ci sia una seconda invasione proveniente da sud.» Le riferì ciò che aveva saputo da Torl, anche la «favola dell'oro» e l'effetto che aveva avuto sulle truppe amarite. «Ne ho sentito parlare», replicò Zelana. «All'inizio ero certo che fosse stato il Vlagh a ideare questo trucco per distruggere l'esercito di Narasan, ma comincio a ripensarci. Non è troppo complicato per un essere simile?» «In realtà no. C'erano servitori del Vlagh implicati nel tentato attacco di Kajak contro il Gabbiano, nel porto di Kweta, ricordi?» «Sì, ma quello coinvolgeva solo pochi maag. Questa volta stiamo parlando di mezzo milione di uomini, inoltre Kajak ha visto davvero l'oro nella stiva di Sorgan. Quei trogiti invece si stanno muovendo solo sulla base di una leggenda, e perché questo dovrebbe spingerli ad attaccare l'esercito di Narasan? Non ha senso.» «Non rimproverare me per questo», obiettò Zelana. «Lamentati con il Vlagh.» «Scusa, Zelana. Le cose irrazionali mi irritano, tutto qua. Sono venuto solo per suggerire a te e a tuo fratello di raggiungere il comandante Narasan al muro di Gunda, prima che gli venga qualche idea bizzarra. Il rischio di essere attaccato contemporaneamente su due fronti lo preoccupa assai, sarebbe meglio provare a calmarlo.» «Ti costerà un 'bacino-bacino', Arcolungo», gli disse lei con una smorfietta maliziosa. Si riunirono quello stesso pomeriggio sul lato posteriore del muro di Gunda, mentre il sole stava già avvicinandosi al crinale a ovest. C'erano Narasan e i suoi ufficiali, mentre Sorgan era di fatto rappresentato da Leprotto e da Torl. «Giusto per essere sicuri che tutti sappiano di cosa stiamo parlando, perché non ci dici che cosa hai visto vicino alla cascata?» Narasan incitò Arcolungo. «Niente di particolare», rispose. «Semplicemente, gli eserciti del clero si sono accorti di non riuscire ad arrivare quassù sfruttando i letti dei torrenti e hanno cominciato a costruire una rampa lungo un fianco della gola principale.» «Che cosa stupida», commentò Leprotto, «con i tuoi arcieri che possono infilzarli come vogliono.» «L'hanno coperta con una specie di tetto. Anche se non è molto robusto,
impedisce la vista.» Dopo una pausa, Arcolungo aggiunse: «Però la rampa non è molto larga e credo che potremmo piazzare un buon numero di arcieri nei punti adatti per ucciderli mentre verranno allo scoperto. Però avremo bisogno di moltissime frecce». «Stavolta devi cavartela da solo», lo avvertì Leprotto, con un ghigno malizioso. «Forgia e incudine sono a bordo del Gabbiano, quindi non potrò aiutarti.» Aggrottò la fronte. «Tutto questo ha un sapore familiare. Il pensiero dell'oro a bordo del Gabbiano ha fatto uscire di testa Kajak quando eravamo a Kweta, e adesso gli eserciti trogiti sembrano avere lo stesso problema.» «È una cosa da prendere in considerazione», osservò Zelana, rivolta al fratello. «Nella Terra di Maag le spie del Vlagh hanno influenzato Kajak.» «Darsi da fare con qualche pirata maag è un fatto», replicò Veltan, «ma qui abbiamo a che fare con cinque eserciti trogiti e con metà del clero amarita. Forse stai stiracchiando un po' troppo le cose.» «Non è impossibile. Il Vlagh ha dei servitori che ci osservano, l'hanno fatto anche quando eravamo molto lontani dalla Terra di Dhrall, e ciò significa che sa benissimo che impatto ha l'oro sugli stranieri. In realtà, noi lo abbiamo usato come esca: io ho preso Sorgan, tu hai preso Narasan. E se il Vlagh si fosse reso conto di come funziona bene questa esca? Se avesse mandato i suoi servitori a sbandierare l'oro davanti ai sacerdoti amariti e ai loro eserciti, tanto da spingerli a correre quassù in preda all'avidità e del tutto inconsapevoli di ciò che accadrà loro se vinceranno?» «E cosa gli accadrà?» volle sapere Gunda, perplesso. Rispose Arcolungo. «Dopo che avranno distrutto noi e tutti i nostri alleati trogiti, il Vlagh non avrà più bisogno di loro», spiegò. «È possibile che i servitori del Vlagh invitino a cena gli amici novelli, facendoli diventare la portata principale.» «È tremendo!» «Oh, non ne sono sicuro, Gunda», osservò Andar. «Se hai due nemici e uno di loro divora l'altro, una parte del problema è sistemata, no?» «Va bene», intervenne Narasan, risoluto. «Il fatto può non piacerci, ma dobbiamo affrontarlo. Chi ha delle idee le tiri fuori.» «Noi abbiamo il vantaggio dell'altitudine», fece notare Danai. «La tettoia sopra la rampa può proteggere i militi dalle frecce, ma non credo sia forte abbastanza da resistere ai massi.» «Specialmente se glieli tiriamo addosso da una sessantina di metri», aggiunse Andar, con la sua voce profonda. «Possibile che non si rendano
conto che il loro piano ha qualche falla?» «Gli è partito il cervello, da quando hanno sentito quella specie di favola non pensano più», gli rammentò Torl. «Non sono in grado di vedere falle di alcun tipo. Qualcuno ci ha messo lo zampino.» «È il tipo di cosa che il Vlagh potrebbe fare, fratellino», insisté Zelana. «Ma laggiù ci sono mezzo milione di persone! Tra loro qualcuno dovrebbe essere parzialmente sveglio, non trovi?» «Il Vlagh è abituato a gestire un gran numero di servitori, tra i quali non esiste una cosa come il pensiero individuale. Se i soldati del clero sono ridotti a pensare come insetti, l'unica cosa che li preoccupa è la possibilità che altri raggiungano l'oro per primi.» «Potresti avere ragione», ammise Veltan, cupo. «Per metterci in difficoltà dovranno prima oltrepassare quella cascata», rammentò Narasan con fermezza, dandosi una sistemata alla corazza. Guardò Padan. «Perché non raccogli qualche migliaio di uomini e non ti sposti all'estremità meridionale dell'altipiano? Vediamo quanto li farà divertire un'improvvisa pioggia di massi.» «Se lo vuoi fatto in 'sto modo, in 'sto modo faremo», dichiarò Padan, imitando il dialetto maag. «Buffone», borbottò Narasan, lasciandosi sfuggire un sorriso. Sembrava tutto fattibile, ma Arcolungo nutriva dei dubbi. Qualcosa di molto singolare stava accadendo e, come si usa dire, non si sarebbe tranquillizzato fino a quando non avesse capito di cosa si trattava. La discussione fra i trogiti vestiti di pelle nera andò avanti fin dopo il calar del sole, ma ad Arcolungo non sembrava che portasse davvero da qualche parte. Zelana, avvolta da un tessuto lieve come una garza, era seduta accanto a un focherello, un po' in disparte, e teneva Eleria fra le braccia. Arcolungo si avvicinò in silenzio. «Di cosa sa la luce del fuoco?» domandò incuriosito. «Di fumo», rispose lei. «Non è gradevole quanto la luce nella mia grotta, ma è meglio dell'oscurità. Che cosa fanno i soldati di Veltan?» «Discutono. Ci sono opinioni diverse su come procedere. Se vuoi, vi accompagno al vostro piccolo accampamento vicino al geyser, così possiamo mettere Eleria in un letto comodo.» «Non mi dà fastidio tenerla in braccio.» Zelana guardò con affetto il volto della bambina. «Ma hai ragione: dormirà meglio in un letto.» Arcolungo sorrise e l'aiutò ad alzarsi, poi prese la piccola fra le braccia.
«Non sta andando come ci aspettavamo», sussurrò mentre si dirigevano verso il geyser. «Il muro di Gunda e le barricate lungo il pendio avrebbero trattenuto le orde della Terra Desolata, se gli arcieri del tuo Dominio non fossero impegnati a tenere a bada la seconda invasione. A peggiorare il tutto, Narasan ha dovuto mandare alle cascate un buon numero di uomini per distruggere la rampa. Avremmo bisogno di più soldati, ma non ne abbiamo.» «Amatissima, perché non vai nella parte sud del Dominio del tuo fratellino e dici a Pezzo d'Uncino di venire qui?» suggerì Eleria con voce assonnata. «I problemi sono qui, non laggiù.» «Non dovresti dormire?» le chiese Zelana. «Come faccio a dormire, con voi due che parlate?» si lagnò Eleria in tono stizzoso. «Dato che sei tu a pagare Pezzo d'Uncino, lui dovrebbe fare quello che gli dici, no? Lascia che la sua gente faccia cadere le pietre sui cattivi che vengono da sud, e poi riporta qui i buoni a fare quello che il tuo fratellino gli dice di fare.» «Penso che abbia ragione», commentò Arcolungo, un po' mesto. «Certo che ho ragione. Ho sempre ragione! E adesso mi devi un bacinobacino.» «Rimettiti a dormire, cara», le disse Zelana. «Ha ragione, Arcolungo. Andrò sulla costa meridionale e ordinerò a Becco d'Uncino di smetterla con i giochi e di tornare quassù quanto prima.» Fece una pausa e rivolse ad Arcolungo uno sguardo malizioso. «Adesso devi a me un bacino-bacino, non trovi?» Lui preferì non rispondere. *** Alle prime luci dell'alba, Arcolungo raggiunse Veltan e Narasan sulla torre centrale del muro di Gunda. «Sono già in movimento?» domandò a bassa voce. «Per ora no», rispose Veltan. «Probabilmente aspetteranno che sorga il sole.» Guardò giù dalla scarpata. «Dove hai piazzato gli uomini di Omago, comandante?» «Keselo li ha posizionati alle estremità delle fortificazioni di Padan. Se i fatti si svolgeranno come nella gola di Lattash, gli attacchi principali del nemico avverranno al centro. Gli agricoltori non si sono mai trovati coinvolti in un conflitto ed è meglio facilitargli il compito. Non voglio offen-
derti, Veltan, ma sono certo che la maggior parte di loro non avrà lo stomaco per uccidere.» «Penso che potrebbero stupirti. Omago sa essere molto scaltro, quando sorge la necessità; ha sottolineato bene che le creature della Terra Desolata sono in primo luogo insetti, quale che sia il loro aspetto, e gli agricoltori detestano gli insetti.» Arcolungo, che teneva d'occhio il pendio nella luce ancora incerta del primo mattino, annunciò con voce pacata: «Cominciano a muoversi». «Si tengono un po' distanti dalla prima barricata», notò Veltan. «Durante la guerra precedente li abbiamo colti di sorpresa parecchie volte. A quanto pare, al Vlagh non piacciono le sorprese.» «Devo ammettere che non ne so molto su di loro. Il vero esperto in famiglia è Dahlaine. Prima che apparissero gli uomini, ha passato un'eternità a studiare gli insetti. Una volta mi ha raccontato che il Vlagh è una specie di ladro. Se nota una caratteristica che può essere utile, cerca di copiarla. Credo che quasi tutti i suoi esperimenti falliscano e le creature alterate muoiano ancor prima di uscire dall'uovo, ma quando una di loro sopravvive il Vlagh riesce a riprodurla migliaia di volte.» «Questo spiegherebbe il perché di tante varietà di nemici», commentò Narasan. «Quelli che abbiamo affrontato nel Dominio di tua sorella erano di piccola taglia e non adatti ad affrontare disastri naturali. Stavolta abbiamo nemici capaci di volare e altri enormi e con la corazza.» «Per non parlare di quelli che hanno l'aspetto di vere persone», gli rammentò Arcolungo. «Questa sarà una guerra molto interessante.» «Io ne preferirei una noiosa.» Com'era già successo nel Dominio di Zelana, l'attacco iniziò con un boato profondo proveniente da qualche parte dietro l'orda che avanzava. Arcolungo notò come i nemici, adesso che erano più grossi, non fossero agili né rapidi come lo erano stati quelli più minuti ed erano un facile bersaglio per gli arcieri trogiti che Barba Rossa stava addestrando. Quando il sole sorse del tutto oltre il crinale orientale, Leprotto raggiunse Arcolungo in cima al muro. «Vedi dov'è Keselo?» gli domandò. «Non ho tanti amici trogiti, quindi non vorrei perderlo.» «Sta là, a sinistra di quelle che Narasan chiama 'fortificazioni di media altezza'.» Le barricate di pietra erano più di una dozzina, alte fino al petto, e i soldati di Narasan, assieme agli agricoltori di Veltan, si trovavano dietro quella più lontana dal muro di Gunda. Arcolungo e il suo amico piccoletto
non potevano vedere chiaramente, ma sembrava che i trogiti non faticassero a tenere a freno gli uomini-serpente di taglia grossa. Poi, verso mezzogiorno, si udì un altro di quei boati che fungevano da ordini provenire da molto lontano nella Terra Desolata e i nemici sopravvissuti fecero dietrofront e fuggirono nel deserto soffuso di rosso. «Ecco una cosa che non avevamo mai visto», commentò Leprotto. «Pensavo che quelle persone-insetto fossero troppo stupide perfino per sapere come voltarsi e scappare.» «Forse hanno imparato un po' dalla guerra precedente», ipotizzò Arcolungo. «Pensavo che per imparare occorresse avere il cervello, e gli insetti non ce l'hanno, vero?» Leprotto aveva un tono di scherno. «Hanno un cervello, piccolo amico, ma non lo portano con sé. È il Vlagh, o meglio la supermente che si occupa di pensare. Forse la supermente ha finalmente capito che gettar via i combattenti non è il modo migliore per vincere la guerra.» Il dorato pomeriggio estivo era terminato e non ci furono altre azioni nemiche. La natura quasi esitante di quel primo attacco aveva reso nervosi tutti coloro che lo avevano osservato dall'alto del muro. Era sempre più evidente che gli uomini di Narasan condividevano il sospetto espresso da Arcolungo: il nemico cominciava a rendersi conto che la mera forza bruta aveva scarse possibilità di successo. «Tutto questo non mi piace, Narasan», ammise Gunda. «Se quella cosa là fuori comincia a pensare, anche solo un po', potremmo trovarci in un mare di guai. Se solo a uno di questi nuovi uomini-serpente venisse l'idea di prendere in mano un sasso e tirarcelo, la guerra prenderebbe una svolta del tutto diversa.» «Dici banalità», replicò Narasan. «Per ora, manteniamo la mente flessibile. Se il nemico se ne esce con qualcosa di nuovo, troveremo il modo di affrontarlo, e molto in fretta, direi.» Il sole sfiorava ormai l'orizzonte occidentale, quando Keselo si arrampicò rapidamente sulla scaletta di corda e raggiunse Arcolungo e gli altri sulla sommità della torre centrale. «I nemici sembrano molto più grossi stavolta, comandante», riferì. «È parso anche a noi. Hai notato altre caratteristiche?» «Sono un po' più goffi e meno svelti di quelli che avevamo già incontrato.»
«Hanno anche i denti veleniferi e i pungiglioni?» chiese Gunda. Keselo annuì. «I denti davanti sono più larghi e i pungiglioni sugli avambracci sono più lunghi.» «Questo farebbe pensare che le sacche del veleno sono più capienti, no?» ipotizzò Leprotto. «Non ne abbiamo fatto a pezzi uno per verificare, amico mio.» «Tanto per sapere, quanti ne hanno uccisi i nostri soldati?» volle sapere Gunda. «Parecchie centinaia. Non ho fatto il giro delle barricate per contarli di preciso. Da quanto ho visto, però, il veleno sulle punte delle nostre lance è ancora abbastanza forte da ucciderli. Ero un po' preoccupato che avesse perduto la sua forza. Il motivo per cui sono venuto qui, però, è per avere il permesso di spostare gli agricoltori di Omago verso il centro delle fortificazioni. Si sentono un po' tagliati fuori, dato che sono stati messi in una posizione laterale, più sicura. Adesso che hanno visto come agiscono i veri soldati, vorrebbero un po' più di azione.» «Ne sei tu il responsabile, la decisione sta a te», decretò Narasan. «E anche qualsiasi errore commetterai», aggiunse Gunda, con un lieve ghigno. «Grazie, Gunda», replicò il giovane in tono acido, poi si rivolse direttamente al suo comandante. «Ho pensato una cosa: aspettiamo il buio, ci ritiriamo dietro la seconda linea di barricate e piantiamo tra quella e la prima una fila di paletti dalla punta avvelenata, così il nemico resterà confuso quando domattina ci attaccherà di nuovo.» «Non è una cattiva idea», approvò Gunda. «Poi, domani notte, potreste ritornare alla prima barricata. Se il nemico penserà che l'avete abbandonata, probabilmente cercherà di precipitarvisi sopra e voi potrete distruggere mezzo esercito quasi senza sforzo.» «E poi, durante la notte successiva, ritirarci alla terza barricata?» Gunda sbatté le palpebre. «Perché non ci ho pensato io? Sei un giovane piuttosto cattivello, Keselo. Dopo una settimana o due di saltare avanti e indietro in questo modo, il nemico sarà talmente confuso che non saprà da che parte girarsi.» Dopo il calar del sole i soldati in cima al muro, come al solito, srotolarono le reti. Dahlaine, il barbuto fratello maggiore di Zelana, raggiunse il gruppetto di comando sulla torre centrale. «Non sembrano muoversi con il buio, ve-
ro?» osservò. «Ci sono in giro molti pipistrelli-insetto», gli fece notare Veltan. «Magari non mordono, ma stanno volando qui attorno.» «Avete dato le reti anche gli uomini sul pendio, vero?» «Sì, gliele abbiamo date, ma non credo che ne avranno bisogno. Da quanto abbiamo visto, i pipistrelli-insetto non hanno morso nessuno. Il loro incarico sembra più quello di osservarci e riferire al Vlagh.» «Ti sbagli, Veltan. Quando comincerà la vera battaglia, tutti i servitori del Vlagh scenderanno in campo. Quelle reti da pesca sono l'unica cosa che tenga in vita i tuoi soldati.» Arcolungo, però, aveva escogitato un'alternativa. «La visione notturna è assolutamente necessaria per una creatura che debba osservare altre creature dopo che è calato il sole, no?» «Ne sono certo», confermò Dahlaine. «E una luce forte non renderebbe quasi cieco chi non esce mai dal suo nascondiglio fino a quando non fa buio?» Dahlaine rimase perplesso, ma d'un tratto scoppiò a ridere. «Non andartene, Arcolungo, torno subito.» Ci fu in improvviso lampo di luce e un crepitio di tuono e Dahlaine sparì. Qualche attimo dopo ritornò con la stessa modalità reggendo nella sinistra un piccola sfera luminosa. «Non guardatela troppo intensamente», avvertì. «Fa molto male agli occhi.» Quindi aprì la mano e il piccolo oggetto si sollevò nell'aria, diventando sempre più brillante a mano a mano che saliva. Quando fu a circa quattrocento metri sopra la torre si fermò e la luce che ne emanava divenne così intensa da inondare tutto il muro e il pendio sottostante, come se improvvisamente fosse mezzogiorno. I pipistrelli nelle vicinanze squittirono per il dolore e fuggirono via immediatamente. «Che cos'è quel piccolo oggetto?» chiese Gunda, intimorito. «Solo una delle mie beniamine», rispose Dahlaine. «Se fosse più grande, la chiameremmo sole.» 2 Appena fu chiaro, la mattina seguente, Arcolungo scese lungo il pendio, scavalcando con scioltezza le barricate di pietra. Considerata l'agilità dei nemici incontrati nella guerra precedente, pensava che sarebbe stato me-
glio se Padan le avesse fatte erigere più alte, ma decise di non farne una questione. Voleva arrivare fino a quella più esterna per parlare con i soldati che avevano visto da vicino i più recenti esperimenti del Vlagh. Trovò il brigadiere generale Danai e il sottocomandante Andar, vestiti nell'uniforme regolare trogita, di pelle nera e metallo luccicante, che parlavano tranquilli al centro della barricata. «Sei mattiniero», osservò Danai. «Qualcosa di nuovo?» «No, volevo solo parlare con qualcuno che ha visto da vicino le nuove creature. Avete notato particolari importanti?» «Sono molto più maldestre di quelle che avevamo affrontato in precedenza. A volte pare quasi che inciampino nei loro stessi piedi.» Arcolungo annuì. «Non è strano. Se ricordo bene, quando ero piccolo succedeva anche a me. Il corpo cresce così in fretta che la mente non si adatta alle nuove dimensioni e si inciampa in ogni filo d'erba che si trova. Nell'attacco di ieri ce n'era qualcuno con il carapace da tartaruga?» «No», rispose Andar, con voce bassa e cavernosa. «Keselo vi ha parlato dell'idea di ritirarsi alla barricata successiva, dopo il tramonto?» Andar annuì. «È un'idea interessante, ma non credo che funzionerà tanto bene, a meno che qualcuno non spenga quella luce fortissima appesa a mezz'aria. Abbiamo bisogno di oscurità per nascondere ciò che stiamo facendo.» «Il fumo potrebbe funzionare», suggerì Danai. «Solo se troviamo abbastanza legna da ardere.» «Non dovremo escogitare qualcosa fino a questa sera», disse Arcolungo. «Come se la cavano i vostri arcieri?» «Meglio di prima», rispose Danai. «Non sono bravi come la tua gente, però sembrano capaci di colpire il bersaglio almeno la metà delle volte.» «Forse scoccano le frecce troppo presto. Potreste tracciare una linea distante da voi di una decina di metri, e dir loro di non scoccare le fecce fino a quando il nemico non l'ha raggiunta.» «Proveremo», rumoreggiò Andar. Arcolungo si spostò in disparte e inviò un pensiero silenzioso a Zelana. «Qualcuno mi ha chiamato?» chiese lei con una voce dal tono altezzoso che sapeva benissimo quanto lo irritava. «Il piccolo sole di tuo fratello è molto carino, Zelana, ma se gli uomini
quaggiù vorranno mettere in atto l'inganno ideato da Keselo, avranno bisogno dell'oscurità.» «Se Dahlaine mette via il suo piccolo sole, ritorneranno i pipistrelli.» Dopo una pausa, Zelana chiese: «La nebbia li nasconderebbe altrettanto bene come l'oscurità?» «Non avevo pensato alla nebbia», ammise Arcolungo, «forse perché è rarissima fra i monti in questa stagione. Puoi davvero creare un banco di nebbia dopo il calar del sole?» «Certo che posso, Prolungo. Ormai dovresti saperlo.» Una pausa. «Però ti costerà un altro bacino-bacino.» Arcolungo era quasi sicuro che l'imitazione di Eleria inscenata da Zelana non fosse altro che un modo per punzecchiarlo, ma se invece?... Quando sorse il sole, il boato disumano proveniente dalla Terra Desolata annunciò l'inizio del secondo giorno di guerra. Arcolungo si spostò lungo le barricate, consigliando agli arcieri trogiti di aspettare che le truppe nemiche fossero quasi sopra di loro prima di scoccare le frecce. «È davvero una buona idea lasciarli avvicinare così tanto?» gli domandò con franchezza un giovane. «Meglio aspettare che sciupare le frecce. Se sono abbastanza vicini, non puoi mancare il bersaglio. E poi, i cadaveri impilati davanti alla barricata intralceranno quelli che arriveranno dopo.» «Me lo ricorderò, e lo dirò anche ai miei compagni. Il sergente Barba Rossa avrebbe dovuto dircelo fin dall'inizio.» «Sergente Barba Rossa?» chiese Arcolungo, incredulo. «È così che lo chiamiamo, da quando ha cominciato ad addestrarci. Pensi che lo abbiamo offeso?» «Oh», rispose Prolungo, cercando di non scoppiare a ridere. «No, è un tipo alla mano.» Poi gli venne un'idea. «Se volete usare il titolo corretto, però, dovreste chiamarlo 'capo'.» «Lo dirò ai miei compagni. Sempre meglio usare il titolo giusto, no?» «Non potrei essere più d'accordo, giovane amico.» Barba Rossa faceva sempre lo spiritoso con tutti, ma Arcolungo era convinto che non avrebbe riso tanto quando gli arcieri trogiti avessero cominciato a chiamarlo con il titolo che aveva disperatamente cercato di evitare quando era a Lattash. Pensando ai guerrieri creati dal Vlagh con il suo più recente esperimento, Arcolungo concluse che erano degli incapaci. Sapeva però che dopo alcune generazioni sarebbero migliorati. I loro predecessori più piccoli erano
certamente rimasti in agguato per secoli nelle foreste del Dominio di Zelana e il Vlagh aveva avuto il tempo di correggere i difetti. Colui Che Guarisce gli aveva spiegato bene queste cose, rammentò con una fitta di dolore. Singolarmente, i servitori del Vlagh erano incapaci di apprendere. Le modifiche avvenivano solo con il susseguirsi delle generazioni, quindi per il momento non c'erano minacce imminenti. La scriteriata carica del nemico durò fino al tardo pomeriggio, e la pila dei cadaveri formatasi davanti alla barricata più esterna era addirittura più alta della barricata stessa. Il solito boato diede il segno della ritirata e poco dopo calò il banco di nebbia creato da Zelana. La nebbia, illuminata dal piccolo sole di Dahlaine, non solo celava gli uomini di Narasan al nemico, ma forniva loro tutta l'illuminazione necessaria per piantare i paletti avvelenati tra la prima e la seconda fila di barricate. Questo permise di completare il lavoro nella metà del tempo. «Adesso non ci rimane che aspettare», borbottò Andar. «Potresti metterti in pari con il sonno», gli suggerì Danai. «Sono certo che bocca-grossa, là fuori nel deserto rosso, ti sveglierà in tempo per guardare gli uomini-insetto che cercano di passare in punta di piedi tra un paletto e l'altro.» «Ho il sonno tremendamente pesante.» «L'ho notato. Il rumore del tuo sonno si sente per chilometri, a volte.» «Che cosa vorresti dire?» «Che russi. A volte russi così forte che potresti far tremare una fortezza di pietra.» Proprio in quel momento giunse il boato ormai familiare e gli uominiserpente di nuova generazione avanzarono con la loro andatura impacciata nella luce del primo mattino. «Peccato per il tuo sonnellino, Andar», osservò Danai. I nemici si arrampicarono sopra i compagni morti per raggiungere la prima barricata e parvero parecchio confusi, non incontrando alcuna resistenza. «Facciamogli sapere dove siamo», suggerì Andar. «Giusto», approvò Danai. «Lanciamo un grido di battaglia, signori!» ordinò, e dalla seconda barricata si levò un urlo fortissimo. I nemici per un po' girarono a vuoto, in preda alla confusione, poi dalla Terra Desolata giunse un altro boato.
«Questa volta ha fatto in fretta», commentò Arcolungo, mentre le goffe creature cominciavano a salire verso la seconda barricata. «Non ho capito», disse Andar. «Veltan ci ha spiegato che hanno ciò che lui chiama una 'supermente'. Ciò che uno di loro sa, lo sanno tutti, ciò che uno di loro vede, lo vedono anche gli altri.» «Stai dicendo che possono passarsi le palle degli occhi?» «Non proprio. Credo che c'entri il tatto. Quando si allargano come fanno qui, cercano di rimanere sempre abbastanza vicini l'uno all'altro per far arrivare le informazioni a casa in brevissimo tempo. Quasi certamente, entro pochi minuti il Vlagh saprà che cosa sta accadendo qui. Il grido che abbiamo sentito con molta probabilità era l'ordine di continuare la carica.» «Allora sono più efficienti di quanto credevo», osservò Andar. «Se sono in grado di passarsi le informazioni all'istante, hanno un bel vantaggio, non trovi?» «Nella guerra precedente non si comportavano così», rammentò Danai. «No, che io abbia notato», confermò Arcolungo. «Direi che da allora il Vlagh ha appreso più di quanto credessimo.» «Secondo me, però, c'è una cosa che non hanno imparato», fece notare Danai. «Non sembrano rendersi conto che i nostri paletti sono intrisi di veleno. Cadono come mosche.» Arcolungo sbirciò oltre la barricata e vide che le prime file dei nemici cominciavano a cadere appena raggiungevano i paletti. Poi dalla Terra Desolata giunse un boato più forte degli altri e i nemici interruppero la carica e rimasero fermi. Arcolungo borbottò un'imprecazione. «Che problema c'è?» gli chiese Andar. «Sembra che il Vlagh si sia reso finalmente conto di quanto sono letali quei paletti e ha ordinato al suo esercito di interrompere l'avanzata.» «Non è tanto male», commentò Danai. «Se non possono avanzare più di così, la guerra è finita e noi abbiamo vinto. I nostri paletti li hanno stesi.» «Non tutti sono stesi», osservò Andar. «Per la maggior parte sono ancora in piedi.» «Magari tra un po' gli verrà fame e andranno da qualche altra parte a procurarsi da mangiare», sperò Danai, ottimista. Era quasi metà mattinata quando le tartarughe a otto zampe sgambettarono rapidamente sopra la prima barricata. «Rapidamente» poteva sembra-
re un termine contraddittorio, riferito alle tartarughe, ma queste avevano delle zampe lunghe e robuste che mantenevano abbastanza sollevato dal terreno il corpo appesantito dal carapace, e quindi procedevano a un ritmo sorprendente. Oltrepassarono gli uomini-insetto che si erano immobilizzati e cominciarono ad avanzare attraverso i paletti conficcati nel terreno, spezzandoli. Danai imprecò. «Stanno barando!» «Direi che è un'imitazione», gli fece notare Andar. «I carapaci hanno la stessa funzione delle nostre corazze. Evidentemente, ciò che Arcolungo chiama la 'supermente' ha visto quanto può essere utile un'armatura e ha escogitato un duplicato, in più ha otto zampe invece di quattro, così può muoversi in fretta.» «È anche immune alle frecce, immagino», aggiunse Arcolungo. «Inoltre, se è in grado di tessere le ragnatele come fanno i ragni normali, le cose potrebbero diventare interessanti, tra non molto.» «Hanno spazzato via quasi tutti i nostri paletti in meno di mezza giornata, comandante», riferì Andar quella sera quando si ritrovarono nuovamente sulla torre centrale del muro. «Per fortuna, non sembrano creature notturne: si sono tirate indietro appena è tramontato il sole.» «Qualcuno è riuscito ad ammazzarne una?» si informò Gunda. Andar scosse la testa. «Le frecce gli rimbalzano sopra e, dato che non hanno raggiunto la seconda barricata, non abbiamo potuto provare con le lance. Ma credo che nemmeno quelle avrebbero perforato il carapace.» «Potremmo trovarci nei guai, Narasan», dichiarò Gunda. «Il Vlagh sembra avere imparato più di quanto pensassimo, dall'altra guerra. Adesso ha soldati più grossi e anche le truppe corazzate. Meglio trovare qualche soluzione, o ci stracceranno.» «Vedo se posso trovare mio fratello», si offrì Veltan. «È lui l'esperto di insetti, quindi potrebbe darci informazioni più dettagliate.» Arcolungo guardò pensoso il sole giocattolo di Dahlaine, che continuava a splendere allegro. Se era abbastanza vivido da provocare dolore ai pipistrelli-insetto, perché gli altri servitori del Vlagh smettevano di avanzare quando tramontava il sole vero? Questa guerra stava diventando molto più complicata della prima. Quando Veltan ritornò, portando con sé Dahlaine e Zelana, Narasan descrisse brevemente i soldati di grande statura e le tartarughe-ragno. «Quelli sono i nemici che dovreste fare di tutto per evitare», avvertì Da-
hlaine. «Otto zampe significa ragni, e i ragni sono perfino più pericolosi dei serpenti.» «Pensavo che i serpenti fossero la cosa peggiore che possa esistere», gemette Leprotto. Dahlaine scosse la testa. «Il veleno dei serpenti uccide, in genere rapidamente. Quello dei ragni paralizza la preda. Molti ragni tessono le ragnatele che catturano le prede, poi le mordono in modo da immobilizzarle fino a che avranno di nuovo fame. Non è insolito per un ragno avere quattro o cinque pasti intrappolati nella ragnatela, in attesa di essere mangiati.» «È orrendo!» esclamò Leprotto. «Adesso viene il peggio. Un ragno non ha le mandibole e nemmeno i denti, quindi non può masticare. Una parte significativa del suo veleno ha proprietà digestive: liquefa gli organi interni e la carne di qualsiasi creatura morsa. Così il ragno può succhiare il liquido da qualsiasi cosa o da chiunque costituisca la sua cena. Quello che rimane quando ha finito sono la pelle e le ossa.» «Sarà meglio escogitare un modo per uccidere quelle tartarughe, allora», dichiarò Arcolungo. «Il fuoco, magari?» suggerì Keselo. «Potrebbe essere la risposta migliore», approvò Dahlaine. «C'è una parte nel corpo di un ragno che non sia protetta dalla corazza esterna?» chiese Arcolungo. Dahlaine ci pensò sopra. «Gli occhi, credo.» Poi sorrise. «Questo ti offrirebbe un po' di bersagli.» «Eh?» «I ragni hanno otto occhi, sai.» «No, non lo sapevo», rispose Arcolungo. «Allora abbiamo delle possibilità. Forse non siamo privi di speranze come sembrava inizialmente.» 3 Negli ultimi giorni Arcolungo non aveva dormito molto ed era stanco fino al midollo. Si allontanò dagli altri e, attraversato il prato, si distese nella foresta a ovest del geyser. Il suggerimento di Dahlaine che le tartarugheragno potevano essere un facile bersaglio per le frecce aveva calmato il suo senso di impotenza e gli permise di addormentarsi quasi prima di appoggiare la testa a terra. Molto più tardi gli parve di udire una familiare voce di donna che dice-
va: «Va' via, guerriero coraggioso, va' via!» Si levò a sedere di scatto e si guardò attorno, ma non c'era nessuno. Era sicuro di conoscere quella voce dal suono caldo, ma non riusciva a individuarla. Si coricò di nuovo e si riaddormentò quasi immediatamente. «Va' via, Arcolungo, protettore di Zelana, va' via. Non porre te stesso in un pericolo non necessario. Fatti da parte, coraggioso Arcolungo, fatti da parte.» Scattò di nuovo a sedere, ma anche questa volta non c'era nessuno. La faccenda si stava facendo irritante. «Non tormentarmi», borbottò, tornando a sdraiarsi, «sto cercando di dormire.» Ma dalla notte giunse nuovamente la voce di donna, ancora più imperiosa. «Nel nome di Acqua Brumosa, ti ordino di andartene. Questa guerra è mia, non tua, e ti accorderò la vittoria se ti terrai in disparte.» Poi la voce se ne andò e Arcolungo sprofondò in un sonno senza sogni. «La notte scorsa hai cercato di raggiungermi?» domandò a Zelana con un pensiero silenzioso, appena sorse il sole. «Non ero io», gli rispose lei nello stesso modo. «Sei sicuro che non stavi sognando?» «Penso di essere un po' troppo vecchio per essere uno dei Sognatori», replicò Arcolungo. «Questo non dipende forse da cosa intendi esattamente per 'vecchio'?» chiese Zelana con malizia. «Non farlo», la rimproverò lui. «Chiunque fosse, cercava in ogni modo di persuadermi a fare i bagagli e andarmene.» «Allora non ero certo io. Non potrei vivere senza di te, caro, caro Arcolungo.» «Abbiamo finito di giocare?» «Scusami.» Dopo una pausa, Zelana gli domandò: «Pensi che possa essere stato il Vlagh, o uno dei suoi servitori più intelligenti?» «Non vedo come. Chiunque fosse, mi ha ordinato di andarmene nel nome di Acqua Brumosa, e il Vlagh non può avere la minima idea di chi fosse o di quanto significasse per me.» «Potrebbe essere stato un vero sogno. Mi hanno detto che a volte i sogni sembrano talmente reali che non si riesce a capire dove cominciano e dove finisce la realtà.» «Be', forse è così», disse Arcolungo, dubbioso.
Durante la notte il sottocomandante Andar aveva fatto ritirare i suoi uomini fino alla terza barricata e, anche se forse era inutile, aveva fatto riempire di paletti avvelenati lo spazio antistante. Arcolungo e Leprotto raggiunsero i loro amici poco dopo il sorgere del sole. «Sei in ritardo», borbottò Andar. «Ho dormito troppo», rispose Arcolungo con un'alzata di spalle. «Vorrei chiederti una cosa, visto che sui nostri nemici ne sai più di chiunque altro: parecchie centinaia dei loro compagni rimangono uccisi ogni volta che attaccano una delle nostre fortificazioni, ma quando cala il sole loro si voltano e se ne vanno. Poi devono ricominciare daccapo e riconquistare la posizione che avevano il giorno prima. Non è stupido?» «Essere stupidi fa parte della loro natura», spiegò Leprotto. «Forse, semplicemente non sanno che il sole ritornerà il giorno dopo. Per quanto ne sanno, va giù nel tardo pomeriggio e il mondo potrebbe rimanere buio per l'eternità. Oppure la loro Signora Madre soffre di solitudine al calar del sole.» «Signora Madre?» «Il Vlagh. Se è lui che depone le uova da cui nascono quelle personeinsetto, non è la loro mammina?» Arcolungo guardò la cima della barricata. «Bene, vedo che i tuoi uomini hanno piantato i paletti. Questo dovrebbe far arrivare qui le tartarugheragno. Ce ne serve una morta quanto prima.» «Per farci cosa?» chiese Andar. «Così possiamo aprirla e vedere se riusciamo a trovare un altro punto debole. I tuoi arcieri non sono ancora abbastanza bene addestrati per centrare gli occhi a cento passi di distanza, vero?» «Non che io sappia», ammise Andar. L'uso di proiettili incendiari lanciati dalle catapulte elevò i trogiti, a volte troppo tradizionalisti, di qualche grado nell'opinione di Arcolungo. Olio minerale, pece e catrame nella giusta proporzione non solo disturbavano decisamente i grossi uomini-insetto, ma anche le tartarughe-ragno. Appiccare il fuoco a qualsiasi creatura consentiva di ottenere la sua immediata attenzione. Essere in fiamme la distraeva da tutto il resto. L'unico problema era che il lancio indiscriminato di quelle palle di fuoco tra le fila nemiche impediva ad Arcolungo di recuperare almeno una fra le
decine di bestie con il carapace che era riuscito a uccidere mirando agli occhi: neppure un cadavere era rimasto intatto. «Andar!» urlò infine. «Per favore, la smetti di tirare il fuoco? Stai bruciando tutto quello che si vede.» «Era più o meno quello che avevo in mente. Se una cosa funziona, non cambiarla, mi dico sempre.» «Questo è il problema. Non funziona, almeno per me. Voglio una tartaruga cruda, non arrostita.» «Oh, non ci avevo pensato. Quanto tempo pensi ti occorra per ucciderne una e recuperare la carcassa?» «Perché non dici ai tuoi di rallentare un po'?» propose Arcolungo. «Saranno stanchi, dopo tutto questo sgobbare. Lascia avvicinare qualche nemico. Deciderò quale uccidere e ne recupererò il cadavere. Poi i tuoi uomini potranno ricominciare a cuocere tutto ciò che vedono.» Guardò oltre la sommità della barricata e vide parecchi uomini-insetto avanzare esitanti, però le tartarughe-ragno rimanevano indietro. Era evidente che il fuoco li rendeva nervosi. Quando però i primi raggiunsero il centro dello spazio scoperto fra le due barricate senza essere colpiti, gli altri divennero più audaci e iniziarono a riversarsi oltre il primo sbarramento. «Non è la decisione migliore», borbottò Arcolungo, mentre prendeva una freccia dalla faretra. Attese fino a che una delle creature con il carapace non fu a pochi metri da lui e scoccò la freccia direttamente contro uno dei grandi occhi che aveva sulla testa. Il nemico crollò all'istante e diversi soldati trogiti scavalcarono la barricata e lo trascinarono dietro il muro protettivo. «Siamo a posto, Andar!» gridò Arcolungo. «Riaccendi il fuoco!» Dahlaine trascorse quasi tutto il pomeriggio a esaminare attentamente il più recente esperimento del Vlagh. «Quella cosa là fuori non cessa mai di stupirmi», ammise con Arcolungo, Veltan e Zelana, quando ebbe finito. «Questa particolare creatura non è come sembra. Non c'è nulla che faccia pensare a un rettile. Non è niente di più che un ragno modificato.» «Quel carapace non pare tanto ragnesco, fratello», obiettò Veltan, mentre li raggiungevano Leprotto e Narasan. «È solo la modificazione dello scheletro esterno di un normale ragno. Il Vlagh deve aver notato l'importanza della corazza trogita e, guardandosi attorno nel mondo animale, ha scelto la cosa che più le si avvicina: il cara-
pace delle tartarughe. Poi ne ha dotato i ragni per proteggerli dalle frecce che avevano eliminato tanti dei suoi servitori durante la guerra precedente. Ciò che mi stupisce è come mai il Vlagh si sia messo a fare esperimenti con i ragni, esseri che normalmente si nutrono di creature che assomigliano tanto ai suoi servitori. È come incrociare un gatto con un topo.» «È assurdo!» protestò Zelana. «Il Vlagh è un'assurdità, cara sorella, non lo avevi notato? Ma perché scegliere proprio i ragni come suoi servitori con la corazza? Ci sono diverse varietà di coleotteri che funzionerebbero altrettanto bene, e i coleotteri sono più vicini alla specie del Vlagh. I ragni sono solitari, mentre i suoi servitori originari agiscono in gruppo.» «Il mondo degli insetti è complicato, eh?» commentò Leprotto. «Proprio così», convenne Dahlaine. «Non mi hai udito, coraggioso guerriero?» la voce sommessa svegliò Arcolungo. «La vittoria è mia, se tu ti limiterai a stare in disparte. Sebbene essi non lo sappiano, gli eserciti che si avvicinano da sud sono miei e sono qui per mio volere. Io ti ordino di farti da parte e non ostacolarli più. Va' via da questo posto. Non porti più fra me e la mia vittoria.» Arcolungo si tirò su a sedere, gli occhi sgranati, mentre un bel po' di cose assumevano improvvisamente significato. La ridicola «favola dell'oro» riferita da Torl, che aveva provocato in una parte dei trogiti al servizio della chiesa una reazione spropositata, cominciò ad avere un senso. Qualcuno, una donna, aveva usato l'oro come esca, prendendo all'amo mezzo milione di soldati del clero. Ma perché? Più ci pensava, più si convinceva che quella frase continuamente ripetuta, «va' via», significava esattamente quello. E le istruzioni non valevano solo per lui: anche i suoi amici dovevano farsi da parte in modo che i due eserciti nemici si scontrassero fra loro fino alla reciproca estinzione. «Bravo ragazzo», mormorò con affetto la voce che ormai gli era familiare, «ero certa che avresti capito, alla fine.» La mattina dopo Arcolungo inviò a Zelana un'urgente chiamata silenziosa. «Devo parlare con te.» «Cattive nuove, forse?» «Non penso. Credo che dovrebbero partecipare anche Veltan e Narasan.»
«Qualcosa ti preoccupa, Arcolungo?» «Non sono certo che 'preoccupare' sia la parola giusta. Se ci ho visto giusto, stiamo ricevendo aiuto da qualcuno che non sapevamo nemmeno ci fosse.» «È molto irritante, Arcolungo. Non lasciare le cose in sospeso.» «Scusami, ma sto cercando di capire. Forse dovremmo incontrarci vicino al geyser. È importante che non si sparga la voce in giro, soprattutto che il Vlagh non ne sappia nulla.» «Sarà meglio che si tratti di qualcosa di positivo, Arcolungo.» «Se è come penso, sarà di gran lunga più che positivo.» Arcolungo uscì dalla foresta dove dormiva abitualmente e si diresse al luogo dell'incontro, cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. Quando arrivò vicino al rumoroso geyser, Zelana e i suoi fratelli erano già lì, assieme a Leprotto, Keselo, Gunda, Torl e Narasan. «Di cosa si tratta?» gli chiese subito Leprotto. «Facciamo qualche passo indietro», propose lui. «Il sogno di Ashad ci ha avvertiti di una seconda invasione nel Dominio di Veltan e infatti sulla costa sud sono comparsi cinque eserciti del clero.» «È una storia vecchia», protestò Gunda. «Forse, ma dovremmo riconsiderarla. Questi eserciti hanno imprigionato i nativi nei recinti, in attesa dei mercanti di schiavi.» «Tutto questo lo abbiamo già sentito», gli rammentò Narasan. «Lo so, ma forse non abbiamo ascoltato abbastanza. Torl ci riferisce che, nell'udire la parola 'oro', ognuno di quei nativi racconta un'antica leggenda, che probabilmente tanto antica non è, dato che Omago non l'aveva mai sentita. Nell'ascoltarla, ogni milite del clero diserta e corre verso nord. Quando scoprono che salire quassù attraverso gole, canaloni e letti dei torrenti è estremamente pericoloso, quei soldati si mettono tutti assieme a costruire una rampa in un posto che non è l'ideale e ci si impegnano con una determinazione insensata.» Arcolungo guardò Narasan «Tu conosci quegli eserciti meglio di me. Tutto questo ti sembra normale?» «No», ammise Narasan, «ma il pensiero di enormi quantità d'oro sparse sul terreno in attesa che loro arrivino e se ne impossessino deve averli mandati fuori di testa.» «Tutti quanti? Possibile che almeno qualcuno di loro non abbia voluto uno straccio di prova?» «Capisco dove vuoi arrivare. Quei militi si stanno comportando in modo anormale, ma questo non altera il fatto che stanno cercando di attaccare la
mia retroguardia e io non posso tenere a bada loro e gli uomini-insetto contemporaneamente. Che cosa hai in mente?» «Qualcuno, o qualcosa, mi parla mentre sono addormentato. Il linguaggio è alquanto formale, ma il senso si riduce a: 'togliti dai piedi'. Questo qualcuno o qualcosa sembra convinto che le truppe del clero e i servitori del Vlagh si elimineranno a vicenda se noi ci limitiamo a non stare più nel mezzo e smettiamo di lanciare massi su quella rampa in costruzione.» «Quand'è che sei diventato improvvisamente uno dei Sognatori?» gli domandò Dahlaine, scettico. «Non è lo stesso tipo di sogno», gli rispose Arcolungo. «I bambini fanno accadere le cose con i loro sogni. Penso che il mio compito sia solo persuadervi a restare in disparte.» «Di chi è la voce che senti?» volle sapere Leprotto. «Non ne sono sicuro. So di averla già udita, ma non riesco a individuarla.» «Penso che ci servirà qualcosa di più convincente come prova, prima di abbandonare le nostre difese», si pronunciò Gunda, con tono dubbioso. «Ci sono troppi 'forse' nel tuo sogno.» «È anche il mio parere», concordò Dahlaine. «Se qualcuno o qualcosa manipola la mente di quei soldati, è più probabile che sia il Vlagh, piuttosto che qualche sconosciuto amico. Se ci tiriamo da parte e gli eserciti amariti si uniscono ai servitori del Vlagh, potremmo perdere l'intero Dominio di Veltan prima che sia finita l'estate. Terremo gli occhi aperti, ma se non avremo qualcosa di più solido su cui basarci, non credo che faremo i bagagli e ce ne andremo.» *** «Hanno la testa dura, eh?» sussurrò Torl ad Arcolungo mentre erano in cima alla torre centrale del muro. «Loro non erano giù al Sud a vedere il grande piano dei trog andare a pezzi quando quegli agricoltori si sono messi a raccontare la loro favola.» Poi il giovane maag guardò la Terra Desolata. «Quello potrebbe averci qualcosa a che fare, sai. La tua teoria avrebbe più peso se quella sabbia laggiù fosse gialla e non rossa.» «Non so se nemmeno quello li convincerebbe», mugugnò Arcolungo. «Sono ostinati e le loro idee a volte sono scolpite nella pietra.» «Sembra che stia arrivando il brutto tempo.» Torl indicò a ovest. Arcolungo aggrottò la fronte nel guardare la nube impetuosa che vorti-
cava sollevandosi sempre più in alto sopra il crinale. «Non credo che sia un temporale, fa pensare di più a una tempesta di sabbia.» «Le detesto, quelle! La sabbia mi si infila sotto i vestiti e mi entra nella gola.» «Non dovrebbe arrivare da quella direzione. Il versante occidentale di quel crinale è ricoperto di alberi e arbusti. Non credo che ci sia abbastanza sabbia da formare una nube così grossa.» «È gialla, e non ci sono tanti alberi di quel colore qua attorno.» La nube gialla scese vorticando impetuosamente giù per la scarpata e si riversò sul suolo brullo della Terra Desolata. «Ehi, piccolina», vociò Torl, «va' a tampinare gli uomini-insetto e sta' alla larga da qui!» La nube si abbassò rapidamente, ricoprendo la Terra Desolata con un denso manto giallo opaco. Poi parve fondersi con la sabbia del deserto e in un attimo era sparita. Ricomparve il sole e Arcolungo fissò incredulo ciò che adesso si allargava fino all'estremo orizzonte settentrionale. «Per gli dei!» esclamò Torl, quasi senza fiato. «C'è l'oro laggiù. Pensavo che fosse minerale di ferro, ma è oro!» Arcolungo scoppiò a ridere. «Non esattamente, amico mio», lo contraddisse. «Può sembrare oro, ma è ferro. Direi che la nostra amica sconosciuta ha appena messo l'esca alla sua trappola e probabilmente catturerà mezzo milione di trogiti. Direi che la vita è diventata un po' più allegra, non trovi?» 4 I soldati di Narasan, in piedi in cima al muro di Gunda, fissavano ammutoliti il luccichio che emanava dalla Terra Desolata. «Magari dovresti svegliare i tuoi uomini», suggerì Arcolungo al comandante trogita. «I nostri nemici continuano a salire su per la scarpata e, se non vengono fermati, ben presto quassù avremo compagnia.» Narasan distolse lo sguardo dall'oceano di lucente sabbia gialla. «Tornate ai vostri posti!» abbaiò. «Non vi pago per guardare il paesaggio!» Poi, in tono un po' imbarazzato, confessò ad Arcolungo: «Non credo che funzionerà, sai. Io stesso mi sento la testa in pappa alla vista di quella sabbia dorata». «Penso che l'idea sia proprio questa. Può essere utile rammentare a te
stesso che si tratta solo di un'imitazione dell'oro. Adesso un bel po' di particolari cominciano a quadrare: la favola raccontata dall'agricoltore, i soldati amariti che ci hanno creduto e si sono precipitati qua a raccogliere qualcosa che fino a mezz'ora fa non esisteva... Qualcuno ci sta mettendo lo zampino e, nonostante ciò che dice Zelana, sono quasi sicuro che non è il Vlagh.» «Spero proprio di no! Se il Vlagh fosse capace di creare un'illusione come quella, perderei tutto il mio esercito.» «Comandante!» gridò un soldato dall'alto di una torre vicina. «Ci sono i pirati che salgono alle nostre spalle!» Narasan si voltò rapidamente verso sud, assieme ad Arcolungo, e ridacchiò. «Penso che sia arrivato un po' d'aiuto. Quello mi sembra Sorgan Becco d'Uncino. Dico bene?» Arcolungo annuì. «Ha fatto in fretta a tornare. È solo una supposizione, ma credo che Zelana sia di nuovo intervenuta.» «Sembra che siano parecchie le cose in cui qualcuno mette lo zampino, non diresti?» osservò Narasan, con un lieve sorriso. «No, ad alta voce non lo direi», replicò Arcolungo. Sorgan rimase impietrito, quando raggiunse la sommità del muro e vide il «mare d'oro». «Per gli dei!» esclamò. «Non è oro vero», lo avvertì Arcolungo. «È come il metallo trovato da Grock quando stavamo salendo dietro Nanton. Qualcuno là fuori sta facendo dei giochetti.» «Avrò bisogno di una prova», dichiarò Sorgan. «Di certo, sembra oro.» «Arcolungo è sicuro che si tratti di un trucco», gli spiegò Narasan, «ma stavolta la penso come te: ho bisogno di avere una prova, prima di prenderlo in considerazione.» «Leprotto!» chiamò Arcolungo. «Abbiamo bisogno di te!» Il piccolo fabbro salì rapidamente le scale della torre centrale. «Da qui riesci a capire se quella sabbia luccicante è oro, o solo un'imitazione?» gli domandò Sorgan. «Dovrei averne un po' tra le mani per essere sicuro», rispose lui. «In questo momento è un po' difficile», disse Narasan. «Tra noi e il deserto c'è un numero spropositato di creature ostili.» Leprotto strizzò gli occhi e guardò la Terra Desolata. «Potrei calare un secchio legato a una corda, dalla cima del crinale occidentale, ma non so quanta sabbia riuscirò a raccogliere. Ciò che davvero mi servirebbe...» Si
interruppe e si diede una pacca sulla fronte. «Devo essere mezzo addormentato! Nella mia scarsella ho qualcosa che ci dirà di cosa è fatta precisamente quella sabbia.» «Davvero? Che cos'è?» chiese Sorgan. «L'ho comperata da un altro fabbro, mentre eravamo all'ancora a Kormo. Si chiama 'magnetite'. Ne avevo sentito parlare e pensavo che fosse interessante, però non l'ho mai usata per qualcosa di serio. Ogni volta che è vicina a un oggetto di ferro, lo attrae e gli si attacca.» «Lo hai mai visto succedere davvero?» Sorgan sembrava scettico. «Certo, Capità!» Leprotto rivolse al suo capo un sorriso compiaciuto. «Quando siamo fermi in un porto e ho finito i quattrini, posso sempre vincere qualche boccale di birra se trovo qualcuno disposto a scommettere che non ho una pietra capace di saltare.» Slegò la scarsella dalla cintola e vi frugò dentro con le dita. «Eccola!» esclamò tutto fiero, estraendo un frammento di pietra nera grosso quanto il pollice di un uomo. Quindi estrasse il pugnale dal fodero e glielo avvicinò alla distanza di qualche centimetro. La pietra fece un salto e si attaccò alla lama, provocando una specie di tintinnio. Sorgan sbatté le palpebre. «Ecco una cosa che non avevo mai visto! Capisco come hai fatto a vincere un sacco di scommesse!» «Ne avevo sentito parlare, ma non ne avevo mai vista una», disse Narasan. Leprotto passò le dita sulla pietra. «È troppo liscia e arrotondata per legarla con una corda e non voglio certo perderla. Farò un sacchetto di stoffa e ce la metterò dentro, poi legherò la corda al sacchetto.» «La stoffa non bloccherà la cosa che la fa saltare verso il ferro?» si preoccupò Sorgan. Leprotto scosse la testa. «Salta sempre verso il ferro, oppure il ferro salta verso di lei, anche attraverso il cuoio. Attrae il ferro, non so per quale motivo. La metterò in un sacchetto di stoffa, la calerò giù e la farò penzolare avanti e indietro un paio di volte. Se la sabbia laggiù è di ferro, si attaccherà all'esterno del sacchetto. Se non rimane attaccato niente, non lo è. Potrebbe non essere oro, ma di sicuro non sarà ferro.» «Chiunque lo stia facendo, è molto scaltro», commentò Torl quando raggiunse Leprotto e Arcolungo e si arrampicò con loro sul crinale a ovest del bacino. «Direi che questa idea del deserto di falso oro gli era venuta fin dall'inizio.»
«Le», lo corresse Arcolungo. «Era una voce di donna quella che continuava a ordinarmi di andarmene.» «Be', chiunque fosse, sembra avere più potere di quelli che ci hanno ingaggiato. Probabilmente è la più grande Imbrogliona del mondo.» «Imbrogliona?» protestò Leprotto. «Sbandierare oro falso non è proprio onesto.» Torl ghignò. «Ma a me non importa neanche un po'. Ha ingaggiato cinque eserciti che combatteranno la guerra al posto nostro, e intende ripagarli con oro finto.» «Dovremo resistere alle creature della Terra Desolata fino a quando i nostri nuovi amici non avranno costruito quella rampa», gli ricordò Arcolungo. «Vero, ma gli uomini di cugino Sorgan stanno venendo su lungo la pista del pastore per darci una mano. Non dovremo uccidere tutti gli uominiinsetto. Dobbiamo solo tenerli a freno sino all'arrivo dei nostri nuovi amici. Poi ci metteremo da una parte e applaudiremo mentre insetti e amariti si distruggono a vicenda.» Si guardò attorno. «Arcolungo, quanto manca al posto che stiamo cercando?» «È appena oltre quel grande albero», rispose lui, indicando davanti a sé. «Sei sicuro di avere abbastanza corda?» chiese Leprotto. «Da questa parte l'altezza è di soli quindici metri.» «Se qui è così basso, come mai gli uomini-insetto non vengono su di qua, invece che dal crinale nord?» «È troppo stretto», rispose Arcolungo. «Il Vlagh ha bisogno di posti piuttosto larghi quando fa muovere il suo esercito.» Oltrepassarono l'enorme albero e scesero nel letto di un torrente che si era fatto strada intagliando la roccia. Torl, osservando la Terra Desolata, commentò: «Mi sembra che il tuo 'mare d'oro' sia un po' prosciugato da questa parte, Arcolungo. Verso l'estremità di questo crinale torna a essere rosso e dopo un chilometro o poco più il rosso si affievolisce e la sabbia è semplicemente bruna». «È solo un'esca. La nostra amica sconosciuta cerca di attirare qui il pesce che vuole catturare, non in altre parti della Terra Desolata.» «Ah già, non ci avevo pensato», ammise Torl, un po' imbarazzato. «Tutto quell'oro, anche se finto, mi fa girare la testa.» Scesero con precauzione lungo il letto asciutto del torrente e si fermarono a circa due metri dal dirupo. «Lì in fondo c'è parecchia quella nuova sabbia dorata», disse Torl, sporgendosi con prudenza.
Leprotto si sedette a terra e avvolse attorno alla calamita un pezzo di stoffa, quindi vi avvicinò il proprio pugnale. Il sacchetto improvvisato fece un salto e si attaccò alla lama. «A quanto pare, siamo in azione, eh?» borbottò Leprotto. Legò la corda al sacchetto e cominciò a calarlo lentamente. Quando vide che aveva raggiunto la base del dirupo, lo sollevò e lo abbassò diverse volte, quindi lo tirò su e lo mostrò ai suoi due amici. Era ricoperto quasi completamente di pagliuzze gialle luccicanti. «Direi che ha molta fame», commentò Torl. «Dovresti darle di più da mangiare.» Leprotto ghignò contento. «Oggi si è guadagnata la giornata. Quando Narasan e Sorgan vedranno 'sta cosa, sapranno per certo che quella sabbia luccicante non è altro che un'imitazione dell'oro. Penso che l'amica di Arcolungo vincerà questa guerra per noi.» Arcolungo e i suoi amici ridiscesero dal crinale occidentale e raggiunsero Zelana e Veltan che li aspettavano vicino al geyser. «Allora?» chiese Zelana. Con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro, Leprotto sollevò il sacchetto ricoperto di granelli dorati. «Questo risponde alla domanda? È carino a vedersi, ma non è oro.» «Credo che dovremmo riconsiderare alcune questioni, sorella mia», disse Veltan. «Non vedo quale vantaggio potrebbe trarre il Vlagh da questo trucco. Se la smettiamo di ostacolare i militi del clero e lasciamo che finiscano la loro rampa, impazziranno nel vedere ciò che credono oro stagliarsi fino all'orizzonte. Si precipiteranno giù per la scarpata e travolgeranno i servitori del Vlagh solo per arrivare a una cosa che non vale nulla.» L'espressione di Zelana era mesta. «Sembra che io salti subito alle conclusioni», ammise. «Il Vlagh non è l'unico a ordire inganni. Questo 'finto oro' potrebbe rivelarsi più prezioso di quello vero. Penso che farai meglio a parlare con Narasan, fratellino. Digli di mandare un messaggio a Padan. Non vogliamo assolutamente che qualcuno interferisca con i soldati sotto la cascata. Li vogliamo qui.» «Giusto!» approvò Veltan, entusiasta. Il sole era tramontato (il sole vero, rammentò a se stesso Arcolungo), mentre il sole-giocattolo di Dahlaine diveniva sempre più luminoso. Narasan li aveva chiamati tutti in cima alla torre centrale per decidere alcune
scelte. «Sembra che abbia preso una cantonata», ammise, rivolgendosi a Veltan. «Ero talmente certo che le truppe amarite fossero qui per punirmi che non mi è neppure passata per la mente l'idea che invece potessero aiutarci.» «Punirti?» si incuriosì Sorgan. «Le truppe del clero una volta ci hanno ingannato, nella parte sud dell'impero», spiegò Gunda. «Un parente del comandante rimase ucciso e lui ne fu sconvolto. Padan e io però trovammo un modo per vendicarlo e questo alla chiesa amarita non è piaciuto neanche un po'.» «Che cosa avete fatto per far loro venire voglia di viaggiare così lontano per darvi una strapazzata?» Gunda alzò le spalle. «Abbiamo assoldato diversi sicari professionisti che hanno mandato al cimitero ecclesiastici di rango elevato e vari comandanti dell'esercito clericale.» «Davvero ci sono persone, giù nell'impero, che si guadagnano da vivere ammazzando la gente?» Sorgan parve un po' sorpreso. «Nella Terra di Maag di solito ci pensiamo da soli.» «I professionisti sono molto più accurati, e fanno quello che gli chiedi nel modo in cui vuoi tu: in fretta e senza dare nell'occhio, oppure lentamente e rumorosamente. Ce n'è uno che garantisce che impiegherà almeno due giorni a far morire il tuo nemico. Se muore prima, non vuole nemmeno i soldi.» «Ecco uno che chiamerei un vero professionista, cugino!» commentò Torl in tono ammirato. «Non credo di aver mai detestato una persona fino a quel punto», osservò Sorgan. «Comunque», continuò Narasan, «che ci odino o no, quando vedranno tutto quell'oro finto, sarà l'unica cosa a cui saranno capaci di pensare.» «Io credo che la parola chiave sia 'quando'», aggiunse Sorgan. «Vedendosi piovere addosso i massi, si sono ridotti a strisciare. Ci vorranno mesi per finire quella rampa, e nel frattempo noi dovremo tenere a freno gli uomini-insetto.» «Lo so», convenne Narasan, demoralizzato. «Sarei più che felice di avere qualche suggerimento.» «Magari dovremmo aiutarli», si fece sentire Omago, con qualche esitazione. «Che cos'hai in mente di preciso?» lo esortò Veltan.
«Be', loro hanno bisogno di pietre abbastanza grosse, ma lì alla base della cascata non ce ne sono molte, perché nel corso degli anni il fiume le ha erose. Se continuiamo a buttare giù massi dal dirupo, loro penseranno che stiamo tentando di fermarli, ma in realtà gli forniremo proprio ciò di cui hanno bisogno.» «Mi piace!» esclamò Sorgan. «Anche se non lo sanno, sono nostri alleati ed è sempre bene aiutare un amico, specie se morirà al posto nostro.» «Per mettere in pratica questa idea, credo che dovremmo modificare un po' il muro di Gunda», propose Arcolungo. «È un muro venuto molto bene», protestò Gunda. «È questo il problema, amico mio. È venuto troppo bene. Quando ci arriveranno, ci vorrà parecchio tempo perché possano superarlo. Direi che occorre un varco di un centinaio di metri per facilitare la loro carica.» «Perché non lasciate questo compito a me?» suggerì Veltan. «Lasciamo il muro di Gunda così com'è fino a quando arriveranno quassù. Poi farò per loro una bella apertura, in modo che possano precipitarsi giù e morire in vece nostra.» «E come pensi di farlo?» si informò Gunda. «Sei proprio certo di volerlo sapere?» «Oh, be'... adesso che mi ci fai pensare, credo di no... non troppo, comunque.» «Siete sicuri che gli uomini-insetto continueranno nella stupida abitudine di tornare indietro ogni sera, quando tramonta il sole, vero?» chiese Narasan a Veltan e a Zelana, poco dopo. «Sono creature consuetudinarie, comandante», rispose Zelana. «Se oggi fanno una cosa in un modo, quasi certamente la ripeteranno domani.» «Lo abbiamo visto nella gola di Lattasti», rammentò Sorgan all'amico. «Forse questa volta sono più furbi», aggiunse Veltan, «ma rispondono agli ordini del Vlagh, così se il Vlagh dice loro di tornare a casa ogni sera continueranno a farlo. L'obbedienza cieca fa parte della loro natura.» «Bene, allora. Abbiamo trovato vari modi per rallentarli, così che non si gettino contro il muro di Gunda. La luce fornita dal giocattolo di Dahlaine ha più o meno eliminato i pipistrelli. Le barricate di pietra e i paletti avvelenati riescono a fermare gli uomini-serpente di grandi dimensioni e il fuoco lanciato con le catapulte distrugge le finte tartarughe. Lungo la scarpata abbiamo tredici linee di barricate. Non dobbiamo eliminare completamente i nemici, ma solo rallentarli. Poiché dopo il lavoro se ne tornano a casa,
durante la notte dovremmo riuscire a correre giù e rioccupare la barricata più esterna. Domani notte ci ritireremo dietro quella successiva e la terza notte ci ritireremo ancora. Questo dovrebbe dare alle truppe amarite quasi due settimane per terminare la loro rampa e vedere l'oro falso. A quel punto, noi saluteremo garbatamente e ci allontaneremo.» «Tu ti allontanerai, se vuoi», replicò Sorgan, «ma io mi precipiterò, e farai meglio a non starmi tra i piedi.» Arcolungo trovò molto pratico il piano di Narasan: se le creature della Terra Desolata avessero progredito un po' ogni giorno, con buona probabilità il Vlagh non avrebbe avuto motivo di escogitare qualche nuova e inaspettata strategia. Così, mentre loro «conquistavano» una barricata al giorno, le truppe del clero avevano modo di terminare la rampa. Finalmente riuscì a persuadere Narasan e Sorgan: la voce che nelle ultime notti gli aveva rovinato il sonno diceva la verità. Certo tutto quell'oro finto comparso all'improvviso aveva aiutato parecchio. «Magari, se sono fortunato, stanotte andrà a tormentare qualcun altro», borbottò mentre si dirigeva verso la foresta, a una certa distanza dal muro di Gunda. Sebbene si fosse fatto numerosi amici tra gli stranieri, preferiva la solitudine, quando era il momento di dormire. Si sdraiò su un mucchio di foglie e si addormentò. «Ti sei ben portato, coraggioso cacciatore», udì nella sua mente la voce ormai familiare. «Non ti darò più incomodo. Addio, Arcolungo del Dominio di Zelana. In tempi ancora a venire potremmo incontrarci nuovamente.» Il ponte 1 Padan nutriva non pochi dubbi che qualche «amica sconosciuta» di Arcolungo inviasse un aiuto sotto forma di cinque eserciti del clero. La chiesa amarita era spinta dalla cupidigia più sfrenata, ma nessuno dei suoi militi, dei sacerdoti e nemmeno dei brutali reguli aveva ancora visto come si era trasformata la sabbia del deserto. «Semplicemente non sta in piedi», borbottò a voce alta Padan, mentre ridiscendeva lungo il fiume ampio e turbolento verso la cascata. Narasan, però, aveva accettato l'idea quindi adesso lui era obbligato a
metterla in atto, nonostante le titubanze. Questo era uno degli inconvenienti della vita militare. Una volta che il comandante decideva una cosa, i sottoposti dovevano obbedire. Ai tempi in cui Padan, Gunda e Narasan erano cadetti, i sergenti che li addestravano avevano ribadito e sottolineato più volte il concetto. «Fate come vi viene detto», ripetevano trenta o quaranta volte al giorno. Aveva senso, certo, ma se il comandante avesse sbagliato, metà dell'esercito avrebbe potuto rimetterci la pelle. Quando raggiunse il ciglio della gola scavata dal Fiume Vash attraverso i monti, Padan chiamò a raccolta i suoi ufficiali. «I piani sono cambiati, signori», annunciò. «È sopravvenuta una novità, quindi smettete di lanciare le pietre su quel tetto raffazzonato. Il nostro glorioso duce vuole che aiutiamo quei soldati mattoidi, invece di ostacolarli. D'ora in poi, fate rotolare giù i massi in modo che cadano davanti a quella rampa, invece che sopra.» «Non ha senso», protestò uno degli ufficiali più anziani. «A Narasan l'idea sembra piacere», replicò Padan. Esitò un attimo, quindi decise di far sapere ai suoi ufficiali perché avevano cambiato il piano. «Quindi», concluse al termine della sua spiegazione, «adesso dobbiamo aiutare i vecchi cari amariti a salire quassù, in modo che possano vedere tutta quella polvere luccicante là fuori. Poi dovremo toglierci dai piedi e lasciarli correre giù per la scarpata oltre il muro di Gunda e travolgere tutti gli uomini-insetto.» «Mentre gli uomini-insetto avveleneranno chiunque incontreranno?» domandò un altro ufficiale, dubbioso. «Questo è il concetto fondamentale del 'grande piano'», confermò Padan. «Non mi sembri tanto convinto», osservò il primo ufficiale che aveva parlato. «Non devo essere convinto. Narasan ha accettato l'idea e questo è quanto. Datevi da fare, signori. Spostate i vostri uomini un centinaio di metri a monte e buttate giù i massi davanti alla rampa. Vediamo quanto impiegherà quella specie di deficienti a capire che possono essere utili quanto quelli in mezzo al fiume.» Fece una pausa. «Se qualcuno dei nostri massi dovesse accidentalmente cadere sopra un gruppetto di militi, non ne rimarrò troppo sconvolto», aggiunse. Gli ufficiali ridacchiarono e gli rivolsero un ghigno malizioso. *** Il giorno dopo il piccolo fabbro ingegnoso, Leprotto, venne a portare un
messaggio. «Devo dirti che ci sarà un'altra riunione, su vicino al geyser.» «Che c'è ancora?» sbottò Padan con irritazione. «Pensavo che ieri avessimo definito tutto quanto.» «Non mi hanno detto di preciso di cosa si tratta, ma penso che il fratello maggiore di Madonna Zelana voglia saperne di più sulla chiesa che c'è nella vostra parte del mondo.» Leprotto esitò, guardandosi attorno per accertarsi che nessuno potesse sentire. «Credo che il problema sia capire chi ha escogitato questo piano. Il mare di oro finto che è comparso dal nulla li ha messi tutti in agitazione. Io non ci giurerei, ma penso che non c'entri nessuno della famiglia di Madonna Zelana. La sorella maggiore sembra talmente sconvolta che potrebbe rosicchiarsi le unghie e sputare ruggine.» Padan rise. «È un'immagine colorita.» Il gigantesco geyser sparava rumorosamente in aria la colonna d'acqua che dava origine al Fiume Vash, grazie a qualche forza incomprensibile acquattata nelle viscere della terra. Padan ammetteva che era bello a vedersi, ma gli spruzzi continui causavano una specie di interminabile pioggia primaverile. Meno male che il fratello maggiore di Veltan aveva scelto per la riunione una zona a una certa distanza dal geyser, almeno non si sarebbero bagnati. A Padan sembrava che ci fossero quasi tutti. «Chi bada alla baracca?» domandò a Narasan. «I sergenti.» «Oh, allora le cose dovrebbero andare più lisce.» «Non lo direi in giro. Se la gente scoprisse chi manda avanti davvero l'esercito, noi due dovremmo cercarci un lavoro onesto.» «Di cosa si tratta, stavolta? Ieri abbiamo tralasciato qualcosa?» Narasan si guardò attorno e abbassò la voce. «Il fratello maggiore di Madonna Zelana è molto incuriosito dalla chiesa amarita e dai suoi eserciti. Qui nella Terra di Dhrall le cose sembrano più rilassate che nell'impero.» «Allora che bisogno c'è della mia presenza? Io non so un cavolo di niente sulla chiesa e preferisco rimanerne all'oscuro.» «Non è lo stesso per tutti noi? Credo che la cosa migliore sia affidare le spiegazioni a Keselo.» «Su questo ti do ragione. Quel giovane è più istruito di tutti noi messi assieme.»
«Posso avere la vostra attenzione?» esordì Dahlaine. «I nostri amici trogiti hanno più familiarità con la religione amarita, rispetto al resto di noi, quindi penso che ci potrebbero aiutare a farci un'idea circa le sue caratteristiche.» Rivolse a Narasan uno sguardo di invito. «Io non sono esperto di questi argomenti, Messer Dahlaine», rispose Narasan. «Ma il nostro giovane amico Keselo ha frequentato l'università di Kaldacin, quindi è il più qualificato per rispondere alle tue domande. Per essere del tutto onesto, io non so che farmene della chiesa... o delle persone arroganti che gestiscono quella stupida organizzazione. Keselo, racconta al nostro amico, qui, della religione che contamina la nostra parte del mondo.» «Come desideri, comandante», obbedì Keselo «Messer Dahlaine, la chiesa dell'impero non è molto allettante», iniziò a spiegare con espressione corrucciata. «Sono certo che nel lontano passato fosse più sana e pura, ma nel corso degli anni è diventata sempre più corrotta.» «Come ha avuto origine?» volle sapere Dahlaine. «Non è tanto chiaro. A un certo punto, un sant'uomo di nome Amar, che forse è esistito davvero o forse no, giunse nella città di Kaldacin che all'epoca era un semplice villaggio. E parlò alla gente di verità, carità e moralità. All'inizio nessuno gli prestò tanta attenzione, ma poi cominciarono a diffondersi certe voci, che non sono mai state confermate.» «Che genere di voci, esattamente?» «C'era chi diceva di averlo visto volare, come un uccello.» «È ridicolo, Keselo!» sbuffò Gunda. «Non è vero», lo contraddisse Barba Rossa. «La nostra Zelana può volare come un'aquila, se vuole.» «Non esattamente», lo corresse Zelana. «Io non ho bisogno delle ali. Va' avanti, Keselo.» «Sì, mia signora. Sono abbastanza sicuro che quelle antiche storie le hanno inventate di sana pianta i primi seguaci di Amar per invogliare i non credenti ad aderire a quella fede. Via via che gli anni passavano, quelle invenzioni diventavano sempre più esagerate. Alcuni sostenevano che Amar poteva rimanere sott'acqua per diversi giorni di seguito. Altri dicevano che era in grado di passare attraverso un robusto muro di pietra... senza lasciare alcun buco. Poi c'erano storie sullo spostare le montagne, far ghiacciare interi oceani e altre assurdità. La chiesa cresceva e così pure l'assurdità delle storie, e i neofiti creduloni accettavano tutto. Secondo me, il vero scopo di quelle panzane era convincere la gente che ogni cosa impossibile diventa-
va possibile, se la faceva Amar. All'epoca era poco più di un mito destinato ad accalappiare ogni giorno sempre più convertiti.» «E adesso dove dovrebbe essere esattamente questa persona mitica?» si informò Dahlaine. «L'attuale dottrina della chiesa è un po' vaga», rispose Keselo. «Secondo l'ultima versione che ho sentito, si è lasciato il mondo alle spalle e adesso vaga fra le stelle e predica a loro.» «Io ci ho provato, una volta», intervenne Veltan, «ma le stelle non mi hanno dato retta nemmeno un po'.» Keselo sbatté le palpebre e fissò Veltan con soggezione. «È stato tanto tempo fa, caro», gli spiegò Madonna Zelana. «Il nostro fratellino aveva offeso Madre Mare e lei lo ha spedito sulla luna a imparare le buone maniere.» «Io l'avevo solo stuzzicata un po'», protestò Veltan. «Stiamo divagando», disse Dahlaine, riprendendo il discorso con fermezza. «Da quanto ci hai spiegato finora, Keselo, direi che la chiesa amarita inizialmente era piuttosto semplice e intesa perlopiù a far sentire meglio la gente. Che cosa è andato storto?» «Non credo di poter indicare con precisione il momento, o l'avvenimento, che l'ha cambiata», rispose il giovane ufficiale. «Direi che si è trattato più che altro di un cambiamento graduale. I primi sacerdoti erano soprattutto dei nullatenenti la cui vita dipendeva dalla carità dei fedeli. Con il passare del tempo, però, gli oboli sono diventati obbligatori e il clero sempre più avido. Al momento attuale, gli ecclesiastici di livello elevato sono gli uomini più ricchi dell'impero, ma vogliono sempre di più. Spingono la cupidigia al limite estremo. Sono convinti che ogni cosa nel mondo intero gli appartenga, perfino le persone.» «E questo ci porta alla schiavitù», aggiunse Narasan, il volto grave. «Stavo proprio per chiederlo», replicò Dahlaine. «La schiavitù faceva parte della dottrina amarita originaria?» «Certamente no!» esclamò Keselo. «La chiesa dei primi tempi denunciava lo schiavismo come un abominio.» «Allora sembrerebbe che il vecchio, santo Jalkan e i suoi amici si siano allontanati un po' dalla retta via», suggerì Padan. «Magari dovremmo correggerli», dichiarò Sorgan Becco d'Uncino, poi ghignò con sarcasmo. «Mi è sempre piaciuto correggere la gente quando sbaglia!» «Quegli idioti della chiesa amarita sono davvero convinti di poter posse-
dere le persone?» domandò Dahlaine. «Temo di sì», rispose Keselo, «ma è raro che il clero tenga gli schiavi. Li vendono ai mercanti di schiavi, che li rivendono a chi possiede grandi appezzamenti di terra ma preferirebbe morire piuttosto che lavorarla di persona. Nel corso dei secoli, di tanto in tanto qualche imperatore che provava verso la schiavitù ciò che provi tu stesso emanava un proclama imperiale per la sua abolizione, ma dopo averlo fatto non viveva mai a lungo: se non lo uccideva la chiesa, ci pensavano i ricchi proprietari terrieri. Con la schiavitù si fanno montagne di soldi e i mercanti di schiavi e i loro acquirenti non accettano interferenze da parte di nessuno.» «Penso che allora abbiamo un problema», osservò Dahlaine. «Se la chiesa è corrotta, allora lo sono anche i suoi militi. Come possiamo fidarci di gente come quella, perché faccia ciò che vogliamo?» «Chi ha parlato di fidarsi?» lo apostrofò Zelana. «Qualcuno, che adoro per questo, ci ha preso di mano l'intera questione trasformando un'enorme distesa di sabbia in qualcosa che sembra oro.» «Io penso che te lo stai inventando», dichiarò sua sorella, in tono molto offeso. «Nessuno può aver fatto una cosa simile.» «Ti sbagli. Qualcuno lo ha fatto. Non so chi o perché, ma evidentemente sta cercando di aiutarci, e noi abbiamo bisogno di aiuto.» Aracia lanciò un'occhiataccia a Zelana, poi si voltò all'improvviso e se ne andò. «Che problema ha tua sorella, Madonna Zelana?» domandò senza tante cerimonie Sorgan Becco d'Uncino. «Si è vista superare», rispose Zelana con un sorrisetto, «e Aracia non riesce a sopportare che qualcuno possa farlo. È anche irritata per come Keselo ha descritto la chiesa amarita. Nel suo Dominio c'è un numero considerevole di gente grassa e pigra che passa le ore a dirle quanto è bella e onnipotente. Lei ama essere adorata, ma la storia di Keselo ha sollevato la possibilità che i suoi sacerdoti la glorifichino solo per mantenere le proprie posizioni in quella che chiamano 'la Chiesa della Santa Aracia', in modo da evitare il lavoro onesto.» «Tutto ciò non è sciocco?» domandò Sorgan. «'Sciocco' rende abbastanza l'idea, che ne dici, Dahlaine?» «Davanti ad Aracia non lo direi mai», rispose lui con un lieve sorriso. Poi si raddrizzò. «Torniamo alla questione principale. Se le truppe del clero, di fatto, sono venute qui per aiutarci, anche se non lo sanno, penso che noi dovremo fare tutto il possibile per aiutarle.» Guardò Padan. «Fanno
progressi?» «Adesso che gli forniamo il materiale da costruzione se la cavano un po' meglio. Gli rimane ancora una certa distanza da coprire, però. Penso che il problema maggiore sia la larghezza della rampa, di soli tre metri, che non darà la possibilità di portare quassù una forza considerevole in breve tempo.» «E», aggiunse Torl, «appena arriveranno qua e vedranno tutta quella sabbia scintillante, si metteranno a correre più in fretta che potranno. Se scendono nella Terra Desolata con il contagocce, due o tre alla volta, gli uomini-insetto se li papperanno a colazione.» «E qui li aiuteremo noi, cugino», gli spiegò Sorgan. «Le nostre trincee e barricate li faranno rallentare, finché non verranno raggiunti dai loro amici.» «Hai riconosciuto la voce di quella signora che ti ha parlato nel sonno?» domandò Dahlaine ad Arcolungo. «Sono sicuro di avere già udito la sua voce», rispose l'arciere, «ma non riesco a individuarla.» «Sicuramente ti celava la sua identità», osservò Dahlaine, pensieroso, «e questo significa che è qualcuno che tutti noi conosciamo. Ti ha solo parlato o ti ha mostrato qualcosa?» «Non si è mai resa visibile.» Arcolungo aggrottò la fronte. «Il suo linguaggio pareva piuttosto arcaico... come se parlasse dal passato.» «Questo potrebbe avere a che fare con il tentativo di nasconderti la sua identità. In questo momento, però, non è importante. È riuscita a manipolare il pensiero di mezzo milione di trogiti in modo da spingerli a nord per aiutarci, anche se loro non lo sanno. Ci preoccuperemo della sua identità in un altro momento. Adesso è meglio fare tutto ciò che possiamo per assecondarla. Se le cose andranno nel modo che penso, probabilmente questa signora ha già vinto la guerra per noi.» Il giorno seguente, di prima mattina, Padan guardava dall'alto come procedeva la costruzione della rampa, mentre i suoi uomini, sudando e grugnendo, continuavano a buttare giù i massi. «Quelli dormono in piedi», borbottò, «stanno rallentando il ritmo.» Si guardò attorno. «Sergente Marpek!» tuonò. «Puoi venire qui un momento?» Marpek aveva un fisico molto robusto, il che era naturale, forse, considerato che aveva fatto carriera costruendo solidi edifici, come uno dei migliori genieri nell'esercito di Narasan.
«Me lo immagino io, o quegli idioti hanno rallentato parecchio?» Marpek guardò giù nella gola. «Stanno facendo del loro meglio, sottocomandante», rispose. «Lavorano sodo come al solito.» «La rampa non è avanzata più di un metro o due.» «Mi sorprenderei se lo avesse fatto.» «Ti puoi spiegare con parole chiare, semplici, di poche sillabe? Tieni a mente che io non conosco bene il linguaggio dei genieri.» Marpek sorrise. «Adesso hanno bisogno di più pietrisco. Più sale la parete di quella gola, più gli serviranno terra, ghiaia, pietre e simili. In piano procedevano rapidamente, ma adesso c'è un angolo di trenta gradi, quindi occorre più pietrisco.» Tese la mano e sogguardò lo spazio tra pollice e indice. «Hanno da coprire un centinaio di metri.» Spinse lo sguardo più distante. «Facendo un po' di conti direi che dovremo aspettare parecchio, prima che abbiano finito.» «Dammi qualche numero, sergente», lo spronò Padan. «A trenta gradi, larghezza tre metri e altezza duecento, direi che gli serviranno circa cinquantamila metri cubi di pietrisco.» «Cinquantamila! Ci vorrà il resto dell'estate!» esclamò Padan. «Direi che hai calcolato giusto.» *** Poco dopo mezzogiorno Sorgan, Torl e Leprotto raggiunsero Padan sul ciglio del dirupo. «Come mai sei così teso?» gli domandò Sorgan. «Numeri, amico. Ho appena ricevuto una lezione fuori programma sulla moltiplicazione. Il termine 'metro cubo' ti dice qualcosa?» Sorgan alzò le spalle. «Un metro per un metro per un metro, no?» «E cinquantamila metri cubi?» «Di cosa stai parlando?» volle sapere Torl. «L'insieme di pietre e cose varie necessarie a completare la rampa.» «Da dove è saltato fuori un numero simile?» chiese Sorgan. «Da Marpek», rispose Padan, demoralizzato, «che è il miglior geniere dell'esercito.» «Non è possibile!» «Temo che sia possibilissimo, cugino», lo contraddisse Torl. «Più si sale, più materiale devono ammonticchiare sotto la rampa.» «E se gli diamo tronchi, invece di pietre?» suggerì Leprotto. «Pietre, tronchi, che differenza fa?» Torl aveva un tono derisorio.
«Con i tronchi non serve ammonticchiare niente. Se capiscono il nostro punto di vista, non diranno più 'rampa', diranno 'ponte'.» 2 «L'unico problema è che non abbiamo tante asce né seghe», osservò il sergente Marpek. «I pendii che portano al fiume sono ricoperti di alberi, e noi abbiamo tanti uomini, ma non gli attrezzi necessari.» Padan guardò Leprotto. «Qualche idea?» «Non ho qui la forgia e l'incudine», gli rammentò il piccoletto, «quindi non credo di potervi essere utile.» Dopo un momento di esitazione, aggiunse: «I tuoi uomini, però, potrebbero abbattere gli alberi con le spade». Padan gli rivolse uno sguardo inorridito. «È una bestemmia!» «Ho una pietra abrasiva molto affidabile, quindi dovrebbero essere in grado di rifare il filo alla lama. E poi, se questo consiglio li offende tanto, possono sempre usare i denti.» «I denti?» «I castori rosicchiano gli alberi in continuazione», rispose Leprotto, sorridendo divertito. «E poi ci sarebbe anche un vantaggio.» «Eh?» «Se passano la giornata a rosicchiare alberi, gli faranno talmente male i denti che non avranno voglia di cenare. Pensa ai soldi risparmiati, se non dovete nutrirli.» Quando Padan ordinò ai suoi di tagliare gli alberi con le spade ci furono violente proteste, ma si placarono di botto davanti all'alternativa che suggerì loro: «Andate a rapporto dal comandante Narasan. Sono certo che usare le spade per tagliare i carapaci di quelle tartarughe sarà molto più divertente». I tronchi abbattuti rotolavano senza fatica giù dal pendio e finivano nel fiume. La cascata li portava direttamente nelle vicinanze delle truppe amarite, che ci misero un po' a farsi venire l'idea del ponte. Osservando il loro primo tentativo, Marpek commentò: «Se quei dilettanti cercano di far rotolare un altro tronco sopra quelli che hanno già sistemato, l'intera costruzione si sfascerà e cadrà nel dirupo e tutta la squadra rimarrà uccisa». Nei giorni successivi si verificarono vari disastri, come aveva previsto
Marpek. Padan trovava moderatamente divertenti i grossolani errori che si susseguivano, ma dopo un po' le urla disperate dei militi che si sfracellavano sulle rocce cominciarono a dargli sui nervi. Sorgan lasciò i suoi uomini, che più a monte stavano costruendo profonde trincee ed erigendo rudimentali barricate, e andò a controllare come procedeva la costruzione a valle della cascata. Arrivò proprio mentre crollava l'ennesimo ponte, trascinando con sé tutta la squadra che lo stava edificando. «Stanno solo perdendo tempo», commentò stizzito. «Magari dovremmo smetterla di fornirgli tutti quegli alberi e costruire un ponte al posto loro.» «Eh, magari», commentò Padan. «Come stanno andando le tue trincee e barricate?» «Le prime tre sono complete, tranne la decorazione finale.» «Decorazione?» «È un'idea di Bove: usare anche lì i paletti avvelenati. Vogliamo rallentarli, no? Dopo aver visto una dozzina di amici cadere morti per aver camminato su quei paletti, staranno molto attenti a dove mettere i piedi. Quelli che in seguito passeranno su quel ponte vedranno l'oro falso e cominceranno a correre in tutta fretta, ma quando un uomo arriva a una fossa mezzo piena dei suoi amici morti, smetterà di correre, non trovi? E più rallentano, più i commilitoni li raggiungono. Se continuano a trastullarsi nel costruire quel ponte, daranno ai miei uomini il tempo di scavare altre due trincee e questo farà in modo che l'intero esercito sarà lassù prima che qualcuno di loro venga fuori da quell'ultima trincea. Poi avvertiremo Narasan che stanno arrivando e ce la batteremo a ovest il più in fretta possibile.» «Astuto», si complimentò Padan con il corpulento maag. Poi, ripensandoci, domandò: «Non volevi dire est? È li che si trova il passaggio di Nanton». «Lo so, ma lungo il lato orientale delle trincee e delle barricate scorre il fiume. Io nuoto bene, ma lì la corrente è forte. Non credo che mi piacerebbe essere trascinato su quelle cascate, e a te?» «Neanche un po'», concordò Padan. *** La mattina seguente, svegliatosi prestissimo come al solito, Padan si inginocchiò sulla riva, accanto all'accampamento temporaneo sulla sponda
occidentale del Fiume Vasti. Si stava gettando sul viso l'acqua gelida per snebbiare la mente ancora preda del sonno, quando sentì Narasan dirgli: «Credevo che avessi smesso di farlo tanto tempo fa». «Nemmeno per sogno! Devo essere ben vigile», rispose lui, rimettendosi in piedi. «Come se la cavano laggiù, adesso che hanno deciso di costruire un ponte invece di una rampa?» «Un po' meglio che nei primi tentativi. L'ultimo ponte, che non è ancora finito, sembra abbastanza solido da rimanere su anche se gli passassero sopra mille uomini tutti assieme. Hanno messo dei rinforzi contro la parte inferiore ogni decina di centimetri, giurerei.» «Quanto credi che ci metteranno a finirlo?» «Un altro paio di giorni. Poi si precipiteranno tutti a nord, al grido di: 'oro, oro, oro!' finché arriveranno alle trincee di Sorgan.» Padan sogghignò. «I paletti avvelenati conficcati nelle trincee faranno in modo che i cinque eserciti arriveranno al muro di Gunda tutti allo stesso tempo, come vogliamo noi.» «Penso però che dovremmo riconsiderare il mio piano originario», lo avvertì Narasan, avvilito. «Credevo che ritirarci ogni notte alla barricata successiva avrebbe dato alle truppe della chiesa abbastanza tempo per arrivare - a gruppetti, comunque. I paletti di Sorgan li rallenteranno, temo. Avremo bisogno di più uomini lassù, ma gli ci vorrà più tempo. Credo che chiederò ai nostri di tenere ogni barricata per due giorni, invece di uno soltanto.» «Come ritieni meglio, vecchio amico», concordò Padan. Narasan guardò verso nord. «È tutto un po' troppo risicato, temo», borbottò aggrottando la fronte. «Non ti seguo.» «Tutto ciò che le truppe amarite vedranno quando saliranno lassù sarà qualche balza che spunta dalla Terra Desolata. Luccicano come l'oro, ma non fanno l'effetto delle distese di sabbia più piatte.» «Se Torl ha ragione, anche solo un po', sul motivo che ha spinto qui quegli eserciti, qualche luccichio sarà tutto ciò che occorre», ribatté Padan. «L'importante è quello che vedranno una volta arrivati al muro di Gunda. Le loro menti chiuderanno bottega al punto che non importerà quali mostri si troveranno di fronte lungo quella scarpata. Noi vogliamo che la cupidigia abbia la meglio sul terrore.» «Possiamo sperare, immagino», replicò Narasan.
Molte voci 1 Andar di Kaldacin se ne stava dietro l'ottava barricata in pietra, per niente soddisfatto. Lì nella Terra di Dhrall continuava a imbattersi in cose veramente assurde. Durante la sua carriera nell'esercito di Narasan aveva combattuto tante guerre, ma i nemici erano sempre stati esseri umani. Gunda e Padan avevano avuto un po' di tempo, durante la guerra precedente, per abituarsi alle caratteristiche del nemico. Lui invece era rimasto nell'accampamento vicino alla città portuale di Castano, con il grosso dell'esercito. Che Narasan ne avesse affidato proprio a lui il comando lo aveva lusingato, però gli spiaceva essere rimasto indietro. L'abitudine che aveva Narasan di spingerlo sempre da parte veniva probabilmente dal fatto che il padre di Andar viveva in un edificio diverso, quando gli attuali ufficiali erano bambini. La maggiore fiducia che il comandante nutriva verso Gunda e Padan derivava ovviamente dall'infanzia. Si fidava di loro più che di altri ufficiali di eguale capacità perché li conosceva meglio. Andar ammise con se stesso che di certo avrebbe fatto la stessa cosa se fosse stato lui il comandante: avrebbe dato più fiducia al proprio amico d'infanzia Danai. La prima luce del mattino cominciò a tingere le poche nubi lungo l'orizzonte di un rosa magnifico a vedersi. «Ancora nessuna attività?» domandò Danai nel raggiungere Andar dietro la rozza barricata. «Per ora no», rispose lui, ma poco dopo, mentre la luce aumentava gradatamente, aggiunse: «Sembra che qualcosa sia cambiato». «Oh?» «Si direbbe che gli uomini-insetto non ritornino più nel deserto al calar del sole e che abbiano allestito un campo fra le due barricate più esterne. Penso però che quel coso, il Vlagh, sia ancora nel deserto. L'ho sentito sbraitare un po' di volte da quando i suoi soldati, o come li vuoi chiamare, hanno occupato quelle due barricate, e l'urlo veniva ancora da molto lontano.» «I suoi lo proteggono in tutti i modi possibili», osservò Danai, «il che ha senso, suppongo. È la madre di ogni singolo insetto là fuori e i figli do-
vrebbero proteggere la loro cara vecchia mammina, non trovi?» «Mi ci vuole un po' per abituarmici.» Andar scosse la testa. «Non ho mai avuto occasione di combattere contro l'esercito di una femmina.» Nel primo pomeriggio l'arciere alto che si vestiva con pelle di daino, Arcolungo, condusse un nutrito gruppo di compagni giù per il pendio, a raggiungere le forze impegnate nelle fortificazioni. Questo, ovviamente, rallegrò Narasan. Nonostante l'addestramento impartito da Barba Rossa agli arcieri trogiti, questi rimanevano piuttosto inetti. Da quanto Andar aveva sentito, i nativi erano molto più abili. «Le truppe del clero hanno già finito di costruire quel ponte?» domandò Narasan ad Arcolungo. «Ci manca poco», rispose lui. «Sorgan ha terminato le trincee e le barricate, quindi siamo pronti a riceverli. Penso però che dovrai seguire il piano che hai approntato. Non sappiamo con certezza quanto ci metteranno gli amariti a passare attraverso le difese di Sorgan, quindi è meglio continuare a trattenere le creature della Terra Desolata finché non saremo sicuri che i nostri amici, che non sanno di essere tali, raggiungeranno il muro di Gunda.» «Possiamo essere flessibili, comandante», suggerì Andar. «Siamo in grado di tenere ogni barricata per due giorni, se è assolutamente necessario, ma se ci sembra che gli amariti arrivino prima, ne saltiamo un paio, così che i nostri tempi coincidano con i loro.» «Potresti avere ragione», concordò Narasan. «Il nostro esercito e quello della chiesa devono essere coordinati con precisione», aggiunse Andar, «ma, poiché loro in questo momento sono un po' distratti, ci preoccuperemo noi del coordinamento, così potranno concentrarsi su come spendere tutto quell'oro che tra poco avranno nelle scarselle.» «Apprezzo il modo di pensare di quest'uomo», commentò Arcolungo con un largo sorriso. «Anch'io, adesso che me lo dici», concordò Narasan, scrutando Andar con interesse. Al levar del sole, come sempre, la voce del Vlagh ruggì il suo ordine e i guerrieri-insetto si mossero con passo incespicante negli spazi aperti fra le barricate che erano state abbandonate. Gli arcieri trogiti riuscivano appena a tenerli a freno, ma i nativi, tiratori più esperti, scoccavano le loro frecce
con una precisione stupefacente e lo scriteriato attacco venne meno quando i maldestri nemici furono obbligati ad arrampicarsi sui mucchi dei loro compagni morti. «Questa è pura idiozia!» sbottò Andar, disgustato. «In realtà, è circa dieci gradini sotto l'idiozia, amico mio», lo corresse Danai. «Nel mondo degli insetti, un idiota sarebbe un genio.» «Arrivano le tartarughe!» avvertì un soldato in piedi sulla barricata. «Strano», commentò Danai. «Questa volta non abbiamo messo i paletti avvelenati, ed ero convinto che il lavoro principale di quelle tartarugheragno fosse di spezzarli.» «Non del tutto. I loro carapaci le proteggono dalle frecce. È possibile che il Vlagh le abbia promosse da idiote a imbecilli. Va' a dire alle squadre addette alle catapulte che è tempo di riportare i servitori del Vlagh nel meraviglioso mondo del fuoco.» Quel giorno si era accumulato lungo l'orizzonte occidentale un banco di nuvole e il tramonto fu spettacolare. La Terra di Dhrall aveva tanti difetti, secondo Andar, ma la sua bellezza rischiava di fermare il cuore. La civiltà andava benissimo, però insudiciava l'aria al punto che certe volte era quasi impossibile vedere dall'altra parte della strada. Il sole stava ancora tingendo il cielo di un rosso stupendo, quando il coscienzioso Keselo scese alle barricate. «Buonasera, sottocomandante», salutò Andar in modo piuttosto formale. «Il comandante Narasan ti suggerisce di prendere in considerazione la ritirata alla settima barricata, stanotte.» «Suggerisce?» «Ebbene... in realtà era un ordine, ma gli ordini non sono tanto gentili, quindi io di solito li modifico un po', prima di riferirli.» «Questo giovane è l'unico uomo che conosco a scusarsi con un nemico prima di ucciderlo», commentò Danai, ridendo. «Non lo faccio, brigadiere generale», protestò Keselo. «Cerco solo di essere gentile, tutto qua.» «Voglio una risposta franca», gli disse Andar. «Le cose potrebbero complicarsi, d'ora in avanti. Pensi che gli uomini di Omago siano pronti a reagire, anche se non sanno di preciso che cosa sta succedendo?» «Omago saprà perfettamente cosa fare, e i suoi uomini hanno imparato a rispondere ai suoi comandi senza batter ciglio.» «Hanno superato perfino i soldati professionisti», commentò Danai.
«Come ci è riuscito?» «Gli agricoltori sono tutti convinti, con una certa attendibilità, che Omago parli per conto di Veltan.» «E temono Veltan?» «Nemmeno un po'. Gli unici a temere Veltan sono i nostri nemici.» Keselo fece una pausa. «Ah, prima che mi dimentichi, sottocomandante. Mi hanno detto che ci sarà di nuovo la nebbia, proprio come tutte le altre volte in cui i tuoi uomini si sono ritirati alla barricata successiva. È il contributo di Madonna Zelana.» «Magari dovresti chiederle di non sciuparla», suggerì Danai, aggrottando la fronte. «Non so come fa a coprire tutto con la nebbia ogni volta che ci ritiriamo, ma se il suo rifornimento si prosciuga quando decideremo di scappare, gli uomini-insetto o i soldati della chiesa potrebbero accorgersi di quello che stiamo facendo.» «Non rimarrà a corto di nebbia», gli assicurò Keselo. «Se lei vuole che accada qualcosa, accadrà, anche se è impossibile.» «A proposito di cose impossibili, chi, o che cosa, aprirà un varco nel muro di Gunda?» volle sapere Andar. «Da quanto ne so, ci penserà Veltan.» «Tutto da solo?» «Credo che la sua folgore addomesticata gli darà una mano.» «Come si fa ad addomesticare un fulmine?» «Non saprei, ma so per certo che è stata la folgore di Veltan ad aprire in un solo giorno il canale fra i ghiacci che ci ha dato accesso alla Terra di Dhrall; il muro di Gunda, per quanto robusto, non sarà un problema.» «Non mi abituerò mai alle cose che succedono in questa parte del mondo!» si lagnò Andar. «Non preoccuparti troppo», gli consigliò Danai. «Fintanto che ci aiutano, i miracoli vanno bene. Se cominciano ad aiutare i nostri nemici, potrai pensare a una petizione di protesta.» Danai supervisionò la collocazione delle catapulte, quindi si presentò a rapporto da Andar. «Siamo pronti», riferì. «Terrò d'occhio io la situazione. Perché non ti concedi un po' di sonno?» «Sono troppo teso», ammise Andar, «però potresti dire agli uomini di dormire. Non penso che domani succederà qualcosa di diverso dal solito, ma è meglio che siano bene arzilli.» «Giusto!» Danai si allontanò nell'oscurità nebbiosa.
La notte avanzò e poi, con il mattino, la fitta nebbia fiocamente illuminata dal piccolo sole-giocattolo di Dahlaine scomparve. Andar considerò l'eventualità che quella nebbia non fosse altro che un'illusione, ma poi scacciò l'idea. La faccenda erano già abbastanza dura. Quando all'orizzonte orientale comparve una sottile linea di luce, ritornò Danai. «È ora di rimettersi all'opera», sussurrò. «Non credo che gli uomini-insetto siano già svegli, ma da queste parti non si sa mai.» «Ci sono mai stati attacchi notturni, durante la guerra nel Dominio di Zelana?» domandò Andar. «Non che io sappia. Non ci giurerei, ma non penso che questa particolare nidiata di insetti ci veda bene al buio. Forse è per questo che il Vlagh ha deciso di sperimentare quei pipistrelli. Se Messer Dahlaine non avesse avuto quel suo giocattolino, le cose si sarebbero potute complicare.» Ad Andar sembrò che il sole impiegasse ore a spuntare del tutto, ma alla fine fu completamente visibile ed esattamente in quel momento si udì l'ormai familiare boato provenire dalla luccicante Terra Desolata. «Nemico di fronte», sbraitò un sergente veterano, e tutti gli uomini presero posizione. «Ho detto agli arcieri di non intervenire», disse Danai. «Sono certo che quegli uomini-insetto non si accorgeranno che abbiamo abbandonato le posizioni precedenti. Aggiungiamo un po' di confusione, se possiamo.» «Gli insetti si possono confondere?» domandò Andar. «Non ne sono sicuro», rispose Danal con un'alzata di spalle, «però potrebbe essere la volta buona per scoprirlo.» Le maldestre creature raggiunsero le barricate ormai abbandonate e cominciarono a girare in tondo disordinatamente, nell'evidente ricerca di qualcuno da mordere. «A me paiono abbastanza confuse», commentò Danai con un sogghigno. «Ora, se fossero persone-persone, almeno una di loro si sveglierebbe abbastanza da rendersi conto che noi non siamo più lì. Invece sono personeinsetto e potrebbero mettersi a mordere le pietre delle barricate.» «È assurdo!» «Ma no: quella voce nel deserto gli ha detto di mordere qualcosa, e adesso lì ci sono soltanto pietre.» «Io non ci scommetterei la paga. Appena il Vlagh si accorge che noi non ci siamo, comincerà di nuovo a sbraitare ordini.» Come a confermare queste parole di Andar, la voce del Vlagh rimbombò di nuovo e i goffi uomini-insetto si disposero ad avanzare attraverso lo
spazio aperto fra l'ultima barricata abbandonata e quella che era stata occupata. «Avanti gli arcieri!» ordinò Danai. I mediocri arcieri trogiti e gli abilissimi nativi presero posizione, incoccarono le frecce e tesero indietro le corde degli archi. «Tirate!» berciò Danai. Le frecce volarono formando una nube compatta e la carica nemica si afflosciò sotto quella pioggia letale. I pochi uomini-insetto rimasti vivi avanzarono impacciati, arrampicandosi sopra i mucchi dei loro compagni morti, mentre una nuova ondata di frecce scoccate dai nativi li sterminava. Poi si udì un altro boato, in cui si coglieva un lieve tono d'ira, e le tartarughe-ragno avanzarono verso il terreno cosparso di cadaveri. «Preparare le catapulte!» ordinò Danai. «Posso?» domandò Andar. «Prego!» rispose il suo amico, con un sorrisone. «Lanciare!» abbaiò Andar. L'ondata di fuoco si sollevò da dietro le barricate, descrisse un arco e cadde sui nemici, avvolgendoli nelle fiamme. 2 In un certo senso, Leprotto trovava la guerra in corso più interessante di quella nel Dominio di Zelana. Doveva ammettere che l'apparizione inaspettata di quei cinque eserciti gli aveva procurato parecchia eccitazione e il sogno di Arcolungo ne aveva aggiunta dell'altra. Aveva intuito una certa riluttanza nella famiglia di Zelana ad accettare la convinzione di Arcolungo che quelle truppe del clero fossero state ingannate fino al punto da diventare senza saperlo loro alleate. Tale riluttanza sembrava nascere da un certo risentimento: Zelana e i suoi fratelli erano irritati perché la visitatrice notturna di Arcolungo era in grado di fare cose che andavano oltre le loro possibilità. Questo a lui pareva quasi stupido. Era evidente che avevano bisogno di aiuto e rifiutare di accettarlo era ridicolo. Il ponte iniziato dai trogiti stava per essere terminato e Padan aveva fatto ritirare il suo gruppo nella foresta a ovest dell'altipiano. «Non devono sapere che siamo ancora qui», spiegò. «Sono tutti indaffarati a fare esattamente quello che vogliamo noi, quindi stiamogli alla larga.»
Barba Rossa, però, pensava che sarebbe stato meglio tenere d'occhio quei «nemici amichevoli». Leprotto, per quanto le spiritose osservazioni del corpulento nativo gli dessero spesso sui nervi, stavolta dovette ammettere che «nemici amichevoli» era una bella trovata. Circa una settimana dopo che gli amariti avevano iniziato la costruzione del ponte, nel tardo pomeriggio Leprotto raggiunse Barba Rossa e Torl sul ciglio occidentale della gola scavata dalla cascata. Intrufolandosi accanto a loro tra i folti cespugli domandò sottovoce: «Fanno progressi?» Torl si coprì la bocca per soffocare una risata. «Sembrano avere problemi con l'equilibrio», rispose. «L'equilibrio?» «Se hai un tronco lungo circa trenta metri e vuoi appoggiarlo di traverso sopra uno spazio aperto largo una ventina, quando ne hai fatta passare la metà, il tronco comincia a ondeggiare e se lo spingi ancora non ondeggia più: precipita nella gola. Quei deficienti ne hanno già fatti rotolare giù quattro, e adesso si danno da fare con il quinto.» «Non parli seriamente!» «No», replicò Barba Rossa, «ma in modo veritiero sì. Alla fine, magari la settimana prossima, qualcuno si renderà conto che dovranno mettere qualcosa dalla loro parte del tronco per tenerlo su invece di farlo andare giù.» «Noi vogliamo che finiscano il lavoro», rammentò loro Leprotto, un po' preoccupato. «Ci riusciranno», gli assicurò Torl. «Qualcuno si è svegliato», annunciò Barba Rossa. «Gli ci vorranno parecchi altri tronchi e qualche centinaio di uomini che si siedano sulla parte più corta, ma stanno risolvendo il problema, direi.» Tutti e tre sbirciarono giù. «Usare le persone come contrappesi non è l'idea migliore che potevano trovare», borbottò Leprotto. «Sono in tanti», commentò Torl. «Prima o poi ci riusciranno.» Il tronco venne spinto ancora un po', mentre aumentavano i trogiti che vi si sdraiavano sopra per fare da contrappeso, e finalmente arrivò dall'altra parte. Ormai si avvicinava il tramonto e il lavoro fu sospeso. I militi ritornarono alla base della loro rampa e accesero diversi fuochi per cuocere il cibo. «Direi che la giornata è finita», disse Torl. «Andiamo a vedere che cosa abbiamo per cena stasera.»
«Non ancora. C'è qualcuno che sta camminando lungo il ciglio della gola», avvertì Barba Rossa. «Come hanno fatto ad arrivare qui?» «Con le scale, probabilmente», suggerì Leprotto. «Se ci pensi, costruire scale a pioli invece di una rampa sarebbe stata un'idea migliore.» «Non muoviamoci», consigliò Barba Rossa. «Quei tipi stanno molto attenti a non farsi vedere dai loro amici giù alla rampa.» «Pensavo che i militi avessero tutti le uniformi rosse», osservò Leprotto. «Questi che stanno arrivando di soppiatto sono vestiti di nero.» «Reguli», spiegò Torl. «Ne ho sentito parlare sulla costa meridionale. Sono una specie di polizia. Tra le forze militari amarite tutti, perfino i sacerdoti, hanno paura di loro.» «Forse hanno deciso di mettersi in affari in proprio», ipotizzò Leprotto. «Se corrono in fretta, raggiungeranno quel mare d'oro finto prima delle tuniche rosse.» «È possibile, suppongo.» Torl sembrava dubbioso. «Credo che la risposta stia strisciando lungo il tronco che hanno sistemato prima del tramonto», disse Barba Rossa. Leprotto sbirciò in basso attraverso l'oscurità incipiente e scorse diverse figure che si spostavano furtivamente lungo quell'unico tronco collocato con tanta fatica. Quando finalmente raggiunsero il ciglio della gola, li udì sussurrare fra loro. «Se ci sbrighiamo, riusciremo a raggiungere la sabbia d'oro. Possiamo raccoglierne parecchi sacchi e poi ritornare al campo prima che qualcuno si accorga della nostra assenza», disse una voce. «Dovremo nascondere l'oro da qualche parte», replicò un'altra voce. «Se quegli avidi dei sacerdoti hanno anche solo il sospetto che lo abbiamo preso, ci scateneranno contro gli altri reguli per farci parlare con la tortura.» «Potrebbe essere il momento buono per disfarci dei sacerdoti e anche di loro», propose una terza voce. «Non possiamo uccidere i sacerdoti!» esclamò un altro. «Non dovremo ucciderli. I sacerdoti sono talmente santi che probabilmente possono volare, quindi tutto ciò che dovremo fare sarà metterli alla prova. Se ci limitiamo a gettarli nella gola, quelli davvero santi voleranno, no? Mentre quelli che cascheranno giù e si spiaccicheranno sul fondo saranno i cattivoni.» Gli altri emisero rauche risate. Poi dall'oscurità uscirono alcuni reguli armati di bastoni e sottomisero i disertori nel giro di pochi minuti.
«Che cosa ne facciamo di loro, Konag?» L'uomo dal volto arcigno che aveva guidato gli altri sorrise. «Perché non li sottoponiamo al 'test della santità'?» «Gettarli tutti nella gola, intendi?» «Che idea brillante!» commentò Konag, sardonico. *** La mattina dopo Leprotto decise che doveva finire un lavoretto a cui stava armeggiando da una settimana. Prese il ramo ricurvo che aveva tagliato da un albero dal legno molto resistente e continuò il tedioso compito di dargli una forma con il coltello. «Intagli un bastone?» gli domandò Torl. «Ti annoi fino a questo punto?» «No. La settimana scorsa mi è venuto in mente di aver fatto tante frecce per Arcolungo e la sua gente fin dall'inverno scorso, ma non ho mai tirato con l'arco.» «Non è un po' corto?» «Se fosse grande come quelli dei nativi di Zelana, dovrei salire su una scala per usarlo.» Torl fece un sorrisetto. «Sono certo che i nostri nemici scapperanno tutti terrorizzati, quando vedranno avvicinarsi Arcolungo e Arcocorto.» Leprotto gli rivolse un'occhiata poco amichevole. «Ti dirò una cosa, Torl. Appena avrò terminato il mio arco avrò bisogno di un bersaglio per esercitarmi. Tu potresti allontanarti un po' così scopriremo come me la cavo. Probabilmente non sarò molto bravo, quindi non dovresti preoccuparti.» «Magari un'altra volta. Adesso ho da fare.» «In qualsiasi momento comincerai ad annoiarti, amico mio, penso che potrebbe essere un modo per ravvivare le tue giornate.» «Lo terrò a mente, Leprotto», disse Torl e se ne andò scuotendo la testa. Quand'ebbe finito di modellare l'arco, Leprotto andò in cerca di Barba Rossa. «Che cosa usa la tua gente come corda?» gli domandò, mostrandogli il suo manufatto. «Budella essiccate, di solito. Alcuni arcieri usano tendini di animali, ma io ho sempre avuto più fortuna con le budella. Ne ho un paio di scorta, quindi te ne darò uno.» Barba Rossa prese il piccolo arco e lo sollevò tenendolo per le due estremità, poi lo piegò. «Bello e flessibile», si complimentò. «Dovresti trovartici bene.»
«Non lo sapremo finché non proverò.» Sistemata anche la corda, Leprotto prese una manciata di frecce e se ne andò nei boschi sul versante occidentale. Non aveva mai tirato una freccia in vita sua e per i primi tentativi non voleva spettatori. Arcolungo gli aveva parlato a lungo di quella che chiamava «unione», qualcosa che legava l'arciere, il suo arco e il bersaglio. Leprotto ci pensò mentre si inerpicava fra gli alberi. «Forse è un po' come quando vedo che il blocco di metallo arroventato nella forgia è esattamente del colore giusto», si disse. Guardandosi attorno, notò una chiazza di muschio verde su un tronco a circa cinquanta passi di distanza. Incoccò una freccia senza distogliere lo sguardo dal muschio, poi sollevò l'arco, tendendo contemporaneamente la corda. Quindi, senza nemmeno guardare lungo l'asta della freccia, la lasciò volare. Rimase sorpreso nel vederla arrivare proprio al centro del bersaglio. «Devo essere meglio di quanto credevo», mormorò, tutto sorridente. «Non ho mai mancato un bersaglio in vita mia.» Con curiosità crescente, tirò un'altra freccia. Adesso ce n'erano due che spuntavano fianco a fianco dal muschio. Dopo aver tirato la sua ultima freccia, si avvicinò all'albero per guardare meglio. Le frecce erano talmente vicine tra loro che poteva coprire le loro estremità con il palmo della mano. «È impossibile!» esclamo e si guardo attorno sospettoso, pensando che forse Zelana se ne stava lì attorno a fare trucchetti. Poi però si rese conto che non avrebbe potuto vederla, anche se ci fosse stata. Gli occorse un certo sforzo per estrarre le frecce dal tronco e nel farlo ne ruppe due. Poi ridiscese all'accampamento e infilò l'arco sotto la coperta. «Magari dovrei tenere la cosa per me», si disse. «Nessuno mi crederebbe, quindi tanto vale non farne una questione. Un uomo non dovrebbe mai perdere l'opportunità di tenere la bocca chiusa.» «Hanno quasi finito», riferì Torl a Padan due giorni dopo. «E mi sembra che quei reguli stiano facendo un bel po' di lavoro per noi. Sono riusciti a persuadere tutti quei militi del clero a rimanere dove debbono stare invece di precipitarsi verso Doretta, laggiù.» «Doretta?» «È una delle mie beniamine preferite», spiegò Torl. «Adoro chi fa tutto
il lavoro al posto mio, tu no?» Padan si grattò una guancia. «Non ne sono sicuro, ma forse quei reguli hanno cambiato un pochino le cose. È possibile che il terrore abbia la meglio sull'avidità, suppongo.» «Forse dovremmo farlo a sapere a cugino Sorgan e al comandante Narasan. Se i reguli riescono a trattenere tutti i soldati qui invece di lasciarli sgattaiolare via a gruppetti di due o tre, ci potrebbe essere bisogno di un'aggiustatina ai nostri piani.» «Potresti avere ragione», approvò Padan, poi guardò Leprotto. «Come stai a gambe, piccolo amico?» «So ancora come si fa a correre», rispose lui. «Vuoi che sparga la notizia?» «Se non è troppo disturbo», confermò Padan. «E anche se lo è», aggiunse Torl. «Sembra che quei reguli abbiano reso inutile tutto il nostro lavoro qua, cugino», commentò Skell dopo che Leprotto aveva riferito ciò che stava accadendo. «Forse.» Sorgan appariva dubbioso. «Io continuo a pensare che faremmo meglio a toglierci dai piedi quando quegli idioti si metteranno a correre da questa parte come se la loro vita dipendesse da quello. Se rallentassero un po', potrebbero decidere di scegliere un'altra strada per raggiungere il deserto dorato.» «Non credo, Capità», lo contraddisse Leprotto. «Quando sono andato con Arcolungo e Torl a guardare giù dal crinale occidentale, abbiamo visto che la sabbia di oro finto si estende per più di tre chilometri verso ovest. Arcolungo dice che la signora del sogno la usa per prendere all'amo quei soldati amariti, quindi l'ha messa esattamente dove serve a noi.» «Mi piacerebbe davvero incontrare quella signora», commentò Skell. «Penso che le dovremmo almeno una tonnellata di grazie.» «Se tutto si svolgerà come lei sembra volere», ribatté Sorgan, che restava attaccato ai suoi dubbi. «Ma se qualcosa va storto, le cose qui potrebbero mettersi davvero male in un batter d'occhio.» 3 Poco dopo che i soldati amariti ebbero completato quel ponte che sembrava tanto importante, Aracia, sua sorella e i suoi fratelli si riunirono vi-
cino al geyser al centro dell'altipiano. Era quasi sera e alla regina guerriera Trenicia sembrava che l'unico scopo di quella riunione fosse stare a guardare Lillabeth che dormiva. Era certa che quella bambina avrebbe dormito anche senza astanti, ma, per qualche motivo, la famiglia di Aracia sembrava molto interessata. La regina dell'Isola di Akalla era rimasta molto confusa fin dall'inizio dalle culture dominate dai maschi presenti in quelle altre terre. Nell'isola dove lei regnava, i maschi erano poco più che animaletti domestici che dedicavano gran parte del tempo a sembrare più belli. In certe occasioni speciali si dipingevano perfino la faccia. Esistevano antichi racconti davvero assurdi (di certo pure invenzioni) secondo i quali in un lontano passato dominavano gli uomini e trattavano le donne come oggetti. Tali racconti descrivevano anche i dettagli della scoperta fatta da un nutrito gruppo di donne che si erano spinte in cerca di legna da ardere fino a una spiaggia del Sud e si erano imbattute nel relitto di una grande zattera, o qualcosa di simile, arrivata da una terra lontana. A bordo avevano trovato delle armi fatte di un materiale che evidentemente non era pietra. Se le donne che avevano fatto quella scoperta fossero state docili, la storia dell'Isola di Akalla sarebbe stata molto diversa. Loro, però, non lo erano affatto. Essendo state trattate per secoli come semplici oggetti, nutrivano un enorme risentimento, così tornarono a casa impugnando le armi che avevano trovato e dimostrarono il loro scontento. I maschi dell'isola, inorriditi nel vedere che le loro donne non obbedivano più agli ordini e reagivano ai minimi accenni di disapprovazione con brutale efficienza, fuggirono. Ma le donne non si accontentarono della fuga. Volevano il sangue. Trenicia era sicura che quelle storie erano state un po' esagerate, ma il comportamento delle sue antenate poteva essere giustificato. Comunque, l'immotivato massacro degli uomini allarmò le donne più anziane e più sagge, che rammentarono alle loro sorelle più giovani e selvagge che, senza uomini, non ci sarebbero stati bambini e nel giro di poco l'isola sarebbe rimasta disabitata. A quel punto le uccisioni indiscriminate rallentarono e le donne radunarono i sopravvissuti in recinti di tronchi. Poi li portarono fuori uno alla volta offrendoli alle altre donne. Se un uomo era vecchio o brutto o godeva di una cattiva reputazione, tutte lo rifiutavano ed era ucciso lì per lì. La pratica di eliminare gli uomini indesiderati era gradatamente scom-
parsa, ma i maschi continuavano a credere che la loro vita potesse dipendere da un aspetto attraente. E così, gli uomini di Akalla impiegavano ogni momento della giornata a escogitare modi per abbellirsi. Questo, naturalmente, rendeva loro impossibile intraprendere qualsiasi mansione e quindi sulle donne ricadeva il compito di seminare, cuocere, raccogliere, governare, combattere ogni guerra che si presentasse. Tutto sommato, Trenicia non vi trovava nulla di sbagliato ed era sbalordita da come andavano le cose nelle altre società. Un'altra cosa che non capiva era come mai gli dei locali, e quei bambini che avevano con sé, provassero tanto interesse nella beniamina di Aracia. Per saperlo si rivolse a Eleria, che se ne stava seduta un po' in disparte, con un'espressione particolare sul suo bel visetto. «Perché stanno tutti a guardare Lillabeth?» «Sta sognando», rispose Eleria. «È ciò che ci si aspetta da lei. Noi facciamo accadere le cose con i nostri sogni, cose che non sono permesse a chi si prende cura di noi.» «Ma loro non sono i vostri dei più anziani?» «In un certo senso lo sono.» «E gli dei non possono fare tutto?» «In realtà no», rispose Eleria. «Non possono distruggere la vita, di alcun tipo.» «Nemmeno dei nemici che li vogliono eliminare?» Trenicia era sbalordita da quella limitazione. «È per questo che noi che abbiamo l'aspetto di bambini siamo qui. Distruggiamo i nemici con i nostri sogni. Nel Dominio dell'Amatissima ho sognato un'enorme inondazione e questa si è verificata davvero e ha fatto annegare migliaia di nemici. In seguito, Vash ha sognato i vulcani e ne ha uccisi ancora più di me.» Trenicia guardò Lillabeth con un pizzico di soggezione e, mentre la scrutava più attentamente, vide qualcosa nell'aria proprio sopra la bambina addormentata: era un oggetto dai colori mutevoli che assomigliava al fuoco. «Che cos'è quel grazioso oggetto sopra di lei?» domandò. «Una conchiglia», rispose Eleria. «La chiamano orecchia di mare, credo. È graziosa, ma la mia perla lo è ancora di più. Sono questi oggetti a donarci i sogni. Sono la voce di Colei Che Ci Guida. Li usa per dirci che cosa dobbiamo sognare.» «Chi è?»
«Non lo so di sicuro. La conosco dall'inizio del tempo.» La bambina rise con una vena di mestizia. «L'unico problema è che non riesco a ricordare quando è stato. Io c'ero, naturalmente, ma è stato tanto tempo fa che non riesco a misurarlo. Da quanto mi ricordo, eravamo tutti molto occupati all'epoca.» «Molto occupati?» «Facevamo le cose. Gli dei delle origini lo avevano fatto da lungo, lunghissimo tempo, e si stavano stancando moltissimo, quindi noi gli abbiamo detto di riposare e ci siamo fatti carico del loro fardello. Abbiamo appena raggiunto il momento in cui la circostanza si ripeterà, suppongo. L'Amatissima comincia a essere strana. È molto, molto stanca e ha bisogno di dormire. Io le sto alle costole di nascosto e sistemo le cose per lei, l'ho fatto tante altre volte, in passato.» Eleria lanciò un'occhiata alla bambina addormentata. «Credo che Enalla stia per svegliarsi. Probabilmente ha già messo in moto il suo sogno, quello che vincerà questa guerra.» Corrugò le labbra. «Forse Dakas dovrà aiutarla, un po' come Vash ha aiutato me l'ultima volta», aggiunse. «Tutti voi bambini avete nomi diversi?» domandò Trenicia. «Pensavo che la piccola di Aracia si chiamasse Lillabeth.» «Così la chiama Aracia, ma il suo vero nome è Enalla.» «E il tuo?» «Balacenia. Quando Dahlaine ha avuto questa idea, ha deciso di non usare i nostri nomi veri. Faceva parte del suo inganno. L'altra parte consiste nello spingerci indietro fino all'infanzia in modo che gli dei più anziani non capiscano chi siamo veramente.» «Quando Aracia è venuta nella mia isola non ha detto nulla di tutto questo», disse Trenicia, sentendosi un po' offesa. «Aracia è fatta così.» La bambina rise. «Certe volte irrita davvero Dahlaine. Lui sa che vorrebbe essere la dominante durante il prossimo ciclo e l'idea non gli piace.» «Perché mi racconti questo? Se si avvicinano anche solo un po' alla verità, non dovresti cercare di tenermele nascoste?» «Noi non siamo tutti come Aracia, cara! Io ho sempre pensato che essere onesti funzioni meglio che ingannare. Sono certa che verrà il momento in cui per te sarà molto importante sapere come stanno le cose, quindi ti sto facendo fare una passeggiatina lungo il sentiero della verità. Tra un po', quando avrai avuto il tempo di pensarci sopra, potremmo avanzare ancora un po' lungo quel sentiero.» Eleria fece una pausa e le rivolse un sorriso
fanciullesco. «Non sarebbe divertente?» chiese con esagerato entusiasmo, battendo le mani. 4 Sorgan Becco d'Uncino, suo cugino Skell e il primo ufficiale Bove stavano sul lato sud della prima trincea e scrutavano l'oscurità. «Secondo me ti preoccupi troppo, cugino», disse Skell. «Da quanto ne so, gli eserciti trog non combattono tanto bene dopo il calar del sole.» «Quando si tratta di un esercito vero», replicò Sorgan, «ma se Torl ci ha riferito esattamente quanto è accaduto sulla costa meridionale, qui non parliamo di un esercito, ma di una folla scomposta. Se hanno visto tutto quell'oro falso laggiù, avranno il cervello fuori uso e non ragioneranno più come soldati.» «Sta arrivando qualcuno», sussurrò Skell, puntando il dito verso sud. «Mi sembra Leprotto», disse Bove. «Era ora», commentò Sorgan, sollevato. «Sei tu, Capità?» La voce di Leprotto arrivò dall'oscurità. «Chi ti aspettavi che fossi? Allora, che succede laggiù?» «I soldati vestiti di rosso hanno finito il ponte», riferì Leprotto mentre li raggiungeva, «però le cose non stanno andando come pensavamo.» «Qualche problema?» chiese Skell. «Forse, o forse no. Tutto stava andando come ci aspettavamo. Quei soldati sono riusciti a mettere l'ultimo tronco e quando hanno visto le alture con l'oro finto si sono eccitati tutti. Dopo il tramonto otto o dieci di loro sono sgattaiolati di soppiatto lungo il tronco, credo che volessero procurarsi un vantaggio sui loro amici.» «Ce l'aspettavamo», commentò Bove. «Però hanno avuto un intoppo», annunciò Leprotto. «Alcuni uomini vestiti di nero hanno usato le scale a pioli per arrampicarsi fino in cima e stavano aspettando quando sono arrivati quelli vestiti di rosso. Quelli in nero hanno afferrato quelli in rosso e li hanno buttati giù nel dirupo. Da quanto hanno riferito Torl e Padan, le tuniche nere hanno il compito di assicurarsi che le tuniche rosse facciano ciò che devono e, per essere certi che tutti capiscano, uccidono chiunque cerchi di infrangere le regole.» Si interruppe, scosso da un brivido. «Comunque, Padan mi ha mandato ad avvertirvi che le tuniche rosse non arriveranno a gruppi di due o tre. Verranno almeno a centinaia.» Fece un'altra pausa. «Ah, ancora una cosa: Padan è a un'ora
dietro di me, assieme ai suoi, e dice che apprezzerebbe davvero se qualcuno gli mostrasse come arrivare alla tua barricata senza dover camminare in punta di piedi tra i paletti avvelenati.» «Ci penseremo noi, Leprotto», gli assicurò Sorgan. «Adesso perché non corri al muro di Gunda, per riferire a Narasan cosa bolle in pentola?» «Appena qualcuno mostra a me come passare attraverso le trincee senza finire infilzato e avvelenato.» *** Padan e Torl raggiunsero la trincea di Sorgan poco prima dell'alba, con un certo vantaggio sui loro uomini. «Leprotto ci ha raccontato cosa è successo laggiù», disse Skell. «Gli uomini in nero sono davvero così brutali?» «Anche di più, fratello», rispose Torl. «Padan mi ha spiegato come sono organizzati e ho capito che la chiesa amarita spinge la brutalità al limite estremo. Quelli chiamati 'reguli' tengono in riga i militi, e gli stessi sacerdoti, usando il terrore puro. La loro linea di condotta è: 'Se non fate ciò che diciamo, vi ammazziamo' e dimostrano che fanno sul serio uccidendo qualcuno lì per lì.» «Fanno proprio così», confermò Padan. «La chiesa si interessa solo al denaro e ogni genere di decenza è svanito da un pezzo.» Scrutò nell'oscurità. «Immagino che la parte orientale di queste trincee sia lungo il fiume. Come avete fatto a bloccare quella occidentale?» «Abbiamo avuto fortuna», rispose Sorgan. «C'è una parete di pietra che scorre per più di un chilometro lungo il crinale occidentale. Credo che, volendo, ci si potrebbe anche arrampicare, ma sarebbe una cosa molto lenta. Se i soldati del clero sono tutti eccitati per l'oro, non vorranno sprecare tempo. I nostri paletti avvelenati sul fondo delle trincee non sporgono tanto e ci abbiamo sparso sopra delle foglie per non farli vedere.» «Sei sicuro che penetreranno attraverso le suole dei loro scarponi?» «Non mi va di fare una prova per scoprirlo. Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che arrivino qui?» «Direi due giorni e mezzo. Però non ti so dire se aspetteranno di riunirsi tutti insieme o marceranno un battaglione alla volta.» ***
La mattina seguente, Sorgan e Padan stavano in cima alla barricata più a sud quando furono raggiunti da Arcolungo e Leprotto. «Ancora nessun segno dei 'nemici amichevoli'?» domandò Arcolungo. «No», rispose Sorgan. «Certo, è presto: il sole non è ancora sorto.» Poi si rivolse a Leprotto. «Come ha preso la notizia Narasan?» «Ha dichiarato che era tremendamente innaturale per lui accettare qualsiasi cosa provenga da quegli eserciti amariti, ma che, nel profondo, approva ciò che hanno fatto i reguli per persuadere i soldati a non precipitarsi avanti per procurarsi più oro. Secondo me, non vede l'ora di assistere a quello che accadrà quando si troveranno faccia a faccia con gli uominiinsetto.» «Ecco com'è Narasan!» ghignò Sorgan, «ma, per la verità, io stesso non vedo l'ora.» «Nemico in vista», annunciò Padan, quasi annoiato. Sorgan si voltò in fretta verso sud. «Questo sì che è ciò che chiamerei un esercito!» esclamò. «Mi preoccupavo un po' che ci fosse una piccola folla di 'vado avanti e prendo più oro', ma direi che i reguli hanno messo in chiaro il loro punto di vista.» Il possente esercito dalle uniformi rosse marciava a quello che Narasan chiamava «passo celere» e a Sorgan sembrava che effettivamente andasse veloce... finché i primi soldati non raggiunsero il ciglio della prima trincea. Guardarono dubbiosi il solco profondo tre metri e indietreggiarono, mescolandosi con i compagni che avevano alle spalle. «Mi pare di notare una certa scarsità di entusiasmo», osservò Padan, sogghignando. «Se non si sta attenti, ci si può spezzare le gambe con un salto simile», disse Sorgan. «Credo che sarei nervoso anch'io.» Un uomo in nero, magro e dalla faccia sgradevole, parlò brevemente con altri che indossavano la stessa uniforme e i suoi sottoposti (tali sembravano) si mossero rapidamente dietro i soldati rossovestiti che adesso esitavano, spingendoli giù nella trincea. «Efficienti, direi, ma un po' estremi», commentò Padan. Poi sbirciò nella trincea. «Il veleno dev'essere potente come lo era prima. Mi sembra che tutti quelli scesi laggiù siano morti.» Sorgan gli rivolse un largo sorriso. «L'idea era proprio questa. Adesso che gli uomini in rosso hanno visto che cosa li aspetta, dovranno rallentare ed estirpare i paletti. Direi che ci metteranno due giorni a ripulire il fondo della trincea. Per allora, dall'altra parte ci sarà almeno il doppio di soldati
in attesa di venire per di qua.» «Geniale», si complimentò Padan. «Dopo altre due o tre trincee, direi che tutti e cinque gli eserciti arriveranno in cima saltando in su e in giù e aspettando il momento in cui potranno precipitarsi nel deserto per raccogliere quanto più oro potranno trasportare.» Ma gli eventi non andarono così. Ci fu un'altra riunione improvvisata dei reguli e quello che pareva il loro capo abbaiò delle secche istruzioni. Poi i reguli si diedero da fare ad afferrare altri soldati. Questa volta, però, non si limitavano a spingerli oltre il bordo della trincea, ma li gettavano più lontano che potevano e il cumulo di militi morti cominciò ad allargarsi sempre di più, fino a che tutta la trincea non fu ricoperta di cadaveri. «Ora basta!» esclamò Leprotto con una voce scevra dell'abituale timidezza. Sollevò il piccolo arco che secondo Sorgan era poco più che un oggetto decorativo e vi incoccò una freccia. «Da che parte è andato quello chiamato Konag?» domandò a Torl. Torl passò in rassegna la parte più lontana della trincea. «Credo sia quello in piedi lì sulla destra», rispose. «Pensi di centrarlo da qui?» «Ci provo.» Leprotto prese la mira. Quando lasciò andare la corda, la sua freccia descrisse un lieve arco dirigendosi verso la trincea. L'uomo dall'uniforme nera che aveva ordinato ai suoi subalterni di gettare i soldati vivi nella trincea per coprire i paletti avvelenati stava osservando la scena con bieca soddisfazione, ma la sua espressione cambiò mentre si irrigidiva, con la freccia di Leprotto che gli spuntava in mezzo alla fronte. Poi cadde sulla schiena, gli occhi vacui che fissavano il cielo. «Come hai fatto?» chiese Sorgan al suo piccolo fabbro. «Lo chiamiamo 'arco', Capità», spiegò Leprotto, «e la cosa che spunta fuori dalla testa di quel tizio si chiama 'freccia'. Se li metti assieme nel modo giusto, fanno tutta una serie di cose carine alla gente che non è simpatica.» «Non è questo che intendevo», ribatté Sorgan, poi si voltò verso Arcolungo. «Gli hai dato lezioni di nascosto, immagino.» «No», rispose l'arciere. «È possibile che abbia imparato da solo osservandoci mentre tiravamo le frecce contro le creature della Terra Desolata.» «È più o meno così, Capità», confermò Leprotto. «Devi aver passato ore e ore a esercitarti», disse Torl. Leprotto si strinse nelle spalle. «Non ci vuole così tanto, soprattutto se l'unica cosa in cui ci si esercita è colpire. Io non ho perso tempo esercitan-
domi a mancare il bersaglio.» *** «Penso che quell'unica freccia abbia cambiato un po' di cose», commentò Sorgan, guardando oltre la trincea. «Ho sentito delle storie su quel Konag», gli disse Padan. «Anche gli ecclesiastici di rango più elevato hanno paura di lui.» «Avevano», lo corresse Sorgan. «Adesso che è morto, non penso che qualcuno lo tema più.» «Magari.» Padan continuò a guardare la larga trincea. «Mi sembra che i militi della chiesa comincino a sbarazzarsi della loro timidezza. Uno dei reguli ha appena ricevuto una spada nella pancia.» «Che peccato», fu il sardonico commento di Sorgan. «E anche un altro. Le cose sembrano diventare eccitanti laggiù.» «Non fare il tifo, Padan», ringhiò Sorgan. «Se quei soldati trovano abbastanza coraggio, uccideranno tutti i reguli, e allora torneranno 'all'io corro più veloce di te' e cominceranno a scendere per la scarpata nord a gruppetti di due o di tre e gli uomini-insetto se li papperanno a colazione.» «Non finché i tuoi paletti avvelenati sono al loro posto. Dovranno avanzare carponi e tirarli via uno per uno. Questo dovrebbe rallentarli abbastanza perché il resto delle truppe li raggiunga.» «Speriamo.» Non era passato da molto mezzogiorno quando ci fu un improvviso lampo di luce, accompagnato dal rombo del tuono. «Devi proprio fare così, Veltan?» domandò Sorgan, irritato. «La piccolina mi porta dove mi serve arrivare in fretta; ti prego di non innervosirla. Ho bisogno di lei.» «Che cosa succede, Messer Veltan?» domandò Padan. A Sorgan sembrava che a volte eccedeva nell'ostentare le buone maniere. «La Sognatrice della mia sorella maggiore ha appena risolto per noi un certo numero di problemi», rispose Veltan. «Se guardate a occidente, vedrete la soluzione in arrivo.» Sorgan girò di scatto la testa e vide una palpitante nube gialla che si stava riversando sopra la sommità del crinale. «Che cos'è?» domandò. «Si chiama 'tempesta di sabbia', capitano. Tu forse non ne vedi tante, sulla superficie di Madre Mare.»
«Quasi mai», concordò Sorgan. «Non penso che sia una buona idea, Messer Veltan», obiettò Padan. «Non fermerà i militi che stanno ancora salendo su per quella rampa?» «La tempesta di sabbia è là, sottocomandante, non qua.» Veltan sorrideva compiaciuto. «I soldati che sono già qui dovranno ripararsi, ma quelli intenti a salire la rampa e attraversare il ponte non sapranno nemmeno che cosa sta succedendo lassù.» Poi scoppiò a ridere. «E c'è di meglio.» «Oh?» «La tempesta di sabbia tira da sudovest e dopo che avrà oltrepassato il muro di Gunda scenderà certamente per la scarpata che porta alla Terra Desolata.» «Questo potrebbe disturbare gli uomini-insetto.» Anche Padan rise di gusto. «Più che 'disturbare', Padan. Dovranno cercare riparo ancora più dei militi. Quell'adorabile tempesta di sabbia bloccherà qualsiasi cosa dove si trova, tranne le truppe amarite che stanno ancora salendo lungo la gola. Loro continueranno a muoversi, ma tutto il resto no.» «Nemmeno noi», gli rammentò Sorgan. «Non farmi fretta, su questo sto ancora lavorando.» 5 Keselo era prossimo all'esaurimento. Aveva senso fare quelle ritirate periodiche al riparo dell'oscurità e della nebbia creata da Madonna Zelana, ma una notte insonne lo annientava. Si trovava al centro della sesta barricata assieme al suo nuovo amico Omago, mentre la prima luce del mattino tingeva appena l'orizzonte orientale. «Perché non provi a schiacciare un pisolino?» gli suggerì Omago. «Posso tenere d'occhio io la situazione, anche se credo che gli uomini-insetto non cominceranno a muoversi finché non ci sarà piena luce.» Keselo scosse la testa. «Adesso non riuscirei a dormire. Sono sicuro che tra poco i nostri nemici saliranno su per la scarpata, quindi sono un po' teso.» Sebbene sembrasse strano, considerate le differenze tra le loro culture, tra lui e il robusto nativo era nata una forte amicizia. Andavano molto d'accordo e inoltre Keselo rimaneva spesso ammirato dalle sue brillanti trovate. «Ti è venuta qualche nuova idea, amico mio?» gli domandò. «Niente di utile», confessò Omago. «Sono stanco anch'io.»
«Perché non vedi se riesci a tenermi sveglio raccontandomi delle storie su Veltan? Quando eravamo nel Dominio di Zelana non ho avuto modo di conoscerlo bene.» Omago sorrise. «Potrei parlarti di Veltan per tutto il giorno, se hai voglia di ascoltare. Quand'ero bambino trascorreva molto tempo nel frutteto di mio padre.» «A rubare mele?» «No, di solito era in primavera, quando gli alberi fiorivano. Un frutteto in primavera è molto più bello di qualsiasi giardino e Veltan passava diverse settimane in quello di mio padre, quando gli alberi erano in fiore. Ci sedevamo e parlavamo... be', lui parlava e io ascoltavo. Ci sono delle cose su di lui che conosce soltanto la gente del suo Dominio.» «Davvero? Quali, per esempio?» «Una volta ha offeso Madre Mare e lei lo ha bandito, mandandolo sulla luna.» Gli occhi di Keselo erano quasi chiusi, ma si spalancarono all'improvviso. «Ho sentito giusto? Veltan è stato sulla luna?» Omago rise. «Oh, sì. Madre Mare era molto irritata e lui dovette rimanere sulla luna per migliaia di anni. Quella è stata un'idea della luna, in realtà. Le piaceva la sua compagnia, e così gli ha mentito, dicendogli che Madre Mare era ancora in collera per qualcosa che lui aveva fatto. Veltan si è davvero stizzito quando Madre Mare gli ha detto che sarebbe potuto tornare a casa dopo un mese o due.» «Ti stai inventando tutto!» protestò Keselo. «Sto solo ripetendo ciò che Veltan ha raccontato a me.» Dopo una pausa, Omago aggiunse: «Vedo che ti ha svegliato», quindi lanciò un'occhiata verso est. «Ci stiamo avvicinando al sorgere del sole, direi. A meno che quegli insetti non abbiano cambiato le loro regole, tra poco cominceranno a risalire la scarpata.» «Non devi rispondermi, se non vuoi», si ritrovò a dirgli Keselo, «ma come mai un comune agricoltore come te è riuscito ad accalappiare una bellezza come tua moglie?» «Non sono stato io. È stata lei ad accalappiare me. Un giorno di prima estate è passata davanti al mio frutteto mentre diradavo le mele e per settimane non sono riuscito a pensare ad altro. Poi è ritornata e ha fatto l'annuncio più schietto che abbia mai udito in tutta la mia vita.» «Ah sì? Che cosa ha detto? Se te lo ricordi.» «Oh, me lo ricordo sì! Ha detto: 'Mi chiamo Ara. Ho sedici anni e ti vo-
glio'.» «Questo si chiama non tergiversare!» La storia di Omago aveva cancellato la stanchezza di Keselo, che ora si sentiva bello sveglio. «C'è una cosa che dovrei dirti, sai», aggiunse il suo corpulento amico. «Non è che ti voglio offendere, ma non credo che mi garbi tanto la vita da soldato. Non mi piace dire agli altri cosa devono fare e l'idea di ammazzare delle cose che sembrano persone, anche se non lo sono, mi fa venire la nausea.» Alzò le spalle. «Immagino che qualcuno debba farlo, però, e Veltan conta su di me. Spero solo di non commettere troppi errori.» «Io direi che te la stai cavando benissimo», lo rassicurò Keselo. «Hai inventato la lancia. Se il mio professore di storia di quand'ero all'università sapeva di cosa stava parlando, direi che hai compresso circa mille anni di storia umana in un paio di settimane.» Omago parve un po' imbarazzato e guardò di nuovo verso est. «Il disco del sole sta salendo sopra l'orizzonte», disse. «Mi aspetto che tra poco arriveranno.» *** Dalla Terra Desolata giunse il boato ormai familiare e si ripeté la scena degli uomini-insetto grossi e maldestri (e, secondo Keselo, con poco cervello) che trovando abbandonate le fortificazioni non sapevano che cosa fare. «Gli insetti non sono tanto intelligenti, eh?» commentò Omago. «Le pietre lo sono molto di più», rispose Keselo, che teneva le dita della mano destra sul polso della sinistra. «Sei ferito?» gli chiese Omago, preoccupato. Keselo scosse la testa. «Sto solo contando. Credo che tra cinquantasette battiti del cuore sentiremo un altro boato.» «Del tuo cuore, forse», lo corresse Omago. «Il mio sembra battere parecchio più in fretta.» Attesero ed effettivamente si udì un'altra volta la voce del Vlagh che ordinava la carica. «Cinquantatré», annunciò Keselo. «Qualcosa là fuori è un po' più rapido degli altri.» «Da dove ti è venuta questa idea?» «È una delle cose che ci hanno insegnato quando eravamo allievi ufficiali. Il tempismo perfetto può essere cruciale in certe situazioni. Se uno ha
corso non funziona tanto bene, ma io ero fermo dalla prima luce del sole.» Keselo accennò con il mento alle barricate che avevano abbandonato la notte precedente, ora brulicanti di nemici. «Eccoli che arrivano.» «E che se ne vanno», aggiunse Omago, nel vedere l'effetto che facevano su di loro i paletti avvelenati. «Questa volta ci vorrà più tempo perché l'informazione arrivi al Vlagh», ipotizzò Keselo. «I paletti li confondono sempre.» «E poi il Vlagh bercerà di nuovo e cominceranno ad arrivare quelli con le armature?» «Esatto. E appena gli uomini-tartaruga si avvicineranno, gli arcieri cominceranno a colpirli negli occhi e questo dovrebbe porre fine all'attacco.» Keselo sbadigliò. «E allora riusciremo a concederci un po' di sonno.» «E se ci caricano ancora?» «Non è tanto probabile, amico mio. Non lo hanno mai fatto. Da quanto ne so, ci vuole molto tempo a questo particolare nemico per modificare la sua tattica: mesi, anche anni. Svegliami se succede qualcosa di interessante.» Keselo trovò un angolo particolarmente comodo della barricata, si distese e si addormentò di botto. Nel primo pomeriggio fu svegliato dal brigadiere generale Danai. «Keselo, da' un'occhiata al muro di Gunda... ammesso che sia visibile.» Keselo si alzò e, guardando verso la sommità della scarpata, vide la nube gialla sospesa sopra la possente fortificazione. «Credo sia ciò che chiamano 'tempesta di sabbia'. Da quanto ne so, sono piuttosto comuni nelle aree desertiche.» «Farai meglio a spiegare al sottocomandante Andar che è un fenomeno comune. Lo ha reso nervoso. Qui nella Terra di Dhrall capitano un sacco di cose strane che lo tengono sulle spine.» Risalirono tutti e tre attraverso le barricate e raggiunsero Andar. «Keselo dice che è solo una cosa chiamata 'tempesta di sabbia'», riferì Danai. «Il mondo non si spaccherà in due.» «Potresti dirmi qualcosa di più?» domandò Andar a Keselo. «Non ne avevo mai vista una, sottocomandante, ma all'università un professore ci ha detto che nelle parti più aride del mondo, dove non ci sono tanti alberi o erba, un vento forte può sollevare la terra o la sabbia e spingerla per chilometri e chilometri. Quando il vento cala, tutto si depone di nuovo a terra.» «Quanto dura, in genere?»
«Fino a quando soffia il vento.» «Non è una risposta molto precisa», si lagnò Andar. «È sempre un problema, quando si ha a che fare con il clima. Il suo studio comporta un monte di cose che ancora non comprendiamo tanto bene. Sappiamo che gli inverni sono freddi e le estati calde, ma più in là di così non possiamo essere precisi. Potresti dire agli uomini di coprirsi il naso e la bocca con la stoffa, però. Non penso che respirare sabbia gli faccia bene.» La nube gialla cominciò a scendere lungo il pendio. «Direi che non siamo i soli a essere coinvolti», osservò Danai. «Gli uomini-insetto stanno scappando a frotte dalle barricate che abbiamo abbandonato la notte scorsa, come se stesse per accadergli qualcosa di tremendo.» Keselo si sforzò di riportare alla mente i ricordi delle lezioni seguite all'università di Kaldacin. «Credo che abbia a che fare con il modo in cui respirano gli insetti.» «Respirare è respirare, no?» «Non esattamente. Gli insetti non hanno il naso, come le persone o gli animali. Respirano attraverso una serie di piccoli fori lungo i fianchi. Un insetto normale non dovrebbe avere tanti problemi con una tempesta di sabbia perché ha forellini molto piccoli. Quegli insetti giganti, invece, li hanno più larghi, e si potrebbero intasare di sabbia se respirano profondamente. In quel caso, credo, che morirebbero soffocati.» «È possibile che la tempesta di sabbia li uccida tutti?» domandò Andar. «Non credo. Provengono dalla Terra Desolata, che è un deserto, e quindi soggetta a tempeste di sabbia. Di certo hanno messo a punto dei modi per proteggersi, per esempio scavando rifugi sottoterra, oppure ammonticchiando i cadaveri dei loro simili e infilandocisi sotto. Il fatto che stanno fuggendo significa che sanno quanto può essere pericolosa una simile tempesta e che istintivamente sanno come difendersi.» Dalla Terra Desolata giunse un grido acuto che si attenuava a mano a mano che proveniva da un punto sempre più lontano. «Sarà stato il Vlagh a fare tutto quel rumore?» domandò Omago. «È possibile», rispose Keselo. «O forse no. Il Vlagh ha tanti servitori il cui unico scopo nella vita è proteggere la loro regina. Faranno in modo che non le succeda nulla.» «Non credo che mi ci abituerò mai!» esclamò Andar. «Combattere guerre contro le femmine è così innaturale!»
«Questa particolare femmina pensa che noi non siamo altro che cibo», gli rammentò Danai. «I modi cortesi se ne vanno a quel paese, in certe situazioni, non trovi? Mettiamola così: se il Vlagh ti invitasse a cena, saresti la portata principale.» Il mare interno 1 Veltan, come gli altri, aveva avuto non pochi dubbi riguardo la convinzione di Arcolungo che gli eserciti del clero sarebbero stati d'aiuto, senza saperlo, nella lotta contro i servitori del Vlagh, ma poi la comparsa del «mare d'oro» (che oro non era) e la reazione quasi isterica dei trogiti arrivati da sud lo avevano convinto che la voce di donna udita dall'arciere diceva il vero. La questione che ora lo rodeva era chi fosse esattamente quell'amica sconosciuta e come fosse riuscita a mettere a segno un inganno così colossale. Era evidente che il suo tranello era talmente sofisticato che né lui né suo fratello o le sue sorelle avrebbero potuto eguagliarlo. In quel momento, però, Veltan aveva cose più urgenti a cui pensare. Inviò un pensiero alla sua folgore e fu sorpreso nel vederla arrivare immediatamente, senza brontolare o lamentarsi come al solito. «Brava piccolina», si complimentò con lei. «Dobbiamo scendere alla Cascate di Vash a dare un'occhiata.» Dopo un'esitazione aggiunse: «Non vorrei urtare i tuoi sentimenti, ma credi di poter essere un po' più silenziosa del solito?» Vedendo la sua luce tremolare in modo interrogativo, aggiunse: «Be', non è poi così importante: con il tempo strano che sta facendo, gli stranieri non rimarranno troppo sorpresi». Le montò in groppa, guardando la tempesta di sabbia che si stava placando. Nel deporlo accanto all'enorme cascata, la sua beniamina emise solo un leggero borbottio, non il solito schianto assordante. «Brava bambina», si complimentò, «andava proprio bene. Aspettami qui. Ci metterò solo pochi minuti.» Smontò e si avvicinò al ponte rudimentale che collegava la rampa al ciglio del dirupo che dava a sud. I soldati dalle uniformi rosse erano intenti a salire faticosamente la rampa, e ce n'erano alcuni ancora in attesa, più in basso.
«Bene, bene», mormorò Veltan fra sé. «Direi che questa è la coda della colonna. In un'altra mezza giornata saranno tutti lassù.» Poi scorse una faccia nota. L'ex soldato Jalkan avanzava zoppicando su per la rampa, accompagnato da un ecclesiastico particolarmente grasso che gli incespicava accanto, ansimando e sudando a litri. I due erano circondati da reguli arcigni con addosso l'uniforme nera. Veltan avvicinò loro il proprio udito, per sentire se dicevano qualcosa che poteva tornargli utile. «Manca poco, adnari», stava dicendo Jalkan con quella voce nasale che lui aveva sempre trovato così irritante. «Lasciami riprendere fiato», ansimò il grassone, fermandosi e strofinandosi via il sudore dal viso. «No», replicò Jalkan con fermezza. «Non possiamo bloccare la rampa. L'ultima brigata è ancora dietro di noi, la rallenteremmo.» «Non m'importa un fico dei soldati!» s'infiammò il grassone. «Il loro unico scopo nella vita è servire la chiesa, e in questa parte del mondo, la chiesa sono io!» «Non in guerra, adnari Estarg», lo contraddisse Jalkan. «A meno che non ti piaccia l'idea di cadere nel precipizio e morire. I soldati di quella brigata sanno che davanti a noi c'è l'oro e, se li fai ritardare troppo, potrebbero decidere di scaraventarti giù dalla rampa.» «Non oserebbero!» «Saresti davvero disposto a scommetterci la vita?» Il grassone si voltò verso gli uomini in rosso che lo guardavano male. «I reguli mi proteggerebbero.» «Vorresti scommettere anche su questo? Adesso che Konag non è più con noi, non c'è nessuno di cui possiamo fidarci. Gli altri reguli gli obbedivano terrorizzati, e a loro volta terrorizzavano i soldati di cinque eserciti. Konag era il nostro uomo chiave e senza di lui non siamo più sicuri di niente.» Veltan si grattò la guancia meditabondo, mentre gli si presentava una possibilità a cui non aveva pensato. Qualcosa, o forse qualcuno, aveva spinto il brillante Leprotto a comportarsi in un modo che non gli era abituale. Prima si era costruito un arco, e ai maag non era mai interessato il tiro con l'arco. Poi aveva provato sentimenti violenti nell'assistere al brutale comportamento di Konag che faceva massacrare i soldati disobbedienti. Infine, nonostante come arciere fosse ancor meno di un dilettante, aveva
fatto secco il regulo con una sola freccia. «Direi che qualcuno sta interferendo parecchio, ultimamente!» pensò Veltan. In quel momento, tra i militi rossovestiti che avevano appena varcato il ponte si levarono alte grida e la parola che si udiva di più era: «l'oro!» Il «mare d'oro» si estendeva a una certa distanza, al di sotto del crinale nord e del muro di Gunda. Non poteva essere visibile da quel punto. E invece eccolo lì in piena vista, luccicante e splendente. In qualche occasione Veltan aveva assistito ai miraggi, quei riflessi invertiti di cose lontane, ma avevano sempre riguardato l'acqua. «L'amica di Arcolungo sembra molto creativa. Bene, però!» Non poté fare a meno di sorridere. «Vorrei che non lo facessi», si lagnò Sorgan Becco d'Uncino quando Veltan gli arrivò vicino a cavallo della sua beniamina. «Mi fa quasi venire un colpo.» «Glielo dirò, ma non credo che mi darà retta: adora spaventare la gente.» Veltan guardò nella terza trincea di Sorgan. «Vedo che continuate a piantare i paletti.» Sorgan ridacchiò. «Però stiamo imbrogliando.» «Imbrogliando?» «Non sciupiamo più il veleno. I soldati in rosso avanzano carponi ed estraggono con ogni precauzione dei paletti che sono solo innocui bastoni. Ma, finché li credono avvelenati, la loro avanzata è lentissima.» «Adesso però è il momento di cambiare le regole. Anche gli ultimi soldati amariti hanno raggiunto il ciglio del dirupo, quindi dobbiamo toglierci di torno e dire addio agli uomini-insetto.» «Spero che Arcolungo sappia di cosa sta parlando», commentò Sorgan, esprimendo i suoi soliti dubbi. «Sei sicuro che quei trogiti faranno ciò che devono fare?» Veltan annuì e gli riferì del «miraggio» creato dall'amica sconosciuta. «Adesso stanno morendo per arrivarci.» «Come ha fatto?» «E che ne so? Mi supera talmente che non capisco nulla di quello che combina. Vieni via, Sorgan, è giunto per noi il momento di toglierci di torno.» «Ci vorrà un po'», replicò Sorgan. «I miei uomini devono togliere quei paletti, se vogliamo che i trog si muovano in fretta, invece di strisciare
carponi.» «Perché non lasci che ci pensi io?» si offrì Veltan, con un ampio sorriso. «La mia beniamina ha bisogno di divertirsi. Sono certo che sarà uno spasso per lei ridurre in schegge tutti i vostri paletti, quindi perché non accontentarla?» «Che cosa succede laggiù?» domandò Narasan, quando Veltan gli comparve accanto sulla torre centrale del muro, depositato lì dalla sua folgore. «Tutto procede secondo i piani, amico mio. La tempesta di sabbia di Lillabeth ci ha reso le cose molto più facili. Il quinto esercito del clero ha finalmente raggiunto il ciglio del dirupo, quindi adesso sono tutti quassù. Ah, stavo per dimenticare una cosa che ti allieterà la giornata.» «Cosa?» «Sta arrivando l'ossuto Jalkan, assieme al grassissimo Estarg. È un peccato che non saremo qui a salutarlo, ma avremo un gran daffare a toglierci da questo posto.» «Non prenderesti in considerazione un breve ritardo?» «Che cos'hai in mente, Narasan?» «Qualcosa di lento ed estremamente doloroso.» «Perché non lo lasciamo ai servitori del Vlagh?» suggerì Veltan. «Loro hanno modi di infliggere il dolore che vanno molto, molto oltre qualsiasi cosa tu possa escogitare.» Dopo una pausa aggiunse: «Si sta trasformando in una guerra insolita, vero? Noi ci limitiamo a starcene da una parte ad applaudire con entusiasmo mentre i nostri nemici più mortali si sterminano a vicenda». «Posso assicurarti con tutta la mia autorità che le guerre come questa sono le migliori che un esercito possa combattere.» 2 Barba Rossa era molto compiaciuto per come si erano messe le cose lì nel Dominio del fratello di Zelana. Aveva sperato che si svolgessero più lentamente, ma lo scopo era vincere e quindi in fretta o lentamente era secondario. Appena questa guerra fosse finita, era quasi certo che ne sarebbe iniziata una nuova e, naturalmente, sarebbe stato costretto a partecipare anche a quella. E poi ce ne sarebbe stata un'altra ancora... Era quasi certo che quelle guerre si sarebbero trascinate fino a che la gente della sua tribù non avesse deciso che qualcun altro era più adatto di lui ad assumersi il
fardello di capo, e quello era il suo scopo principale nella vita. Quando Padan aveva ritirato i suoi dalle Cascate di Vash, dopo che le truppe amarite avevano terminato la costruzione del ponte, Barba Rossa aveva deciso di rimanere. Lì sull'altipiano erboso le cose erano più interessanti e l'amico Arcolungo poteva aver bisogno di aiuto. Tutti e due raggiunsero Sorgan Becco d'Uncino mentre i maag si ritiravano dalla serie di barricate sul lato occidentale del Fiume Vash. «Veltan sembra piuttosto contento di come vanno le cose», disse Sorgan, mentre risalivano il corso del fiume verso il colossale geyser che ne costituiva la sorgente. «Non abbiamo fatto troppi errori, per ora», osservò Arcolungo. «Devi sempre guardare il lato negativo?» si lagnò Sorgan. L'arciere alzò le spalle. «L'abitudine, suppongo. Se ti aspetti il peggio, tutto quello che non è terribile arriva come una gradevole sorpresa.» «Volevo chiederti una cosa. Da quanto ne so, non hai avuto il tempo per addestrare Leprotto, ma all'improvviso è diventato un arciere bravo quasi quanto te. Come ha fatto?» «Non lo so. A quanto pare, ha imparato da solo.» «Leprotto è un tipo sveglio», ammise Sorgan, scettico, «ma non occorrono parecchio addestramento e anni di esercizio, per diventare così bravi con l'arco?» Arcolungo socchiuse gli occhi e guardò l'orizzonte. «Quando era impegnato a forgiare e martellare quelle punte di freccia per me, abbiamo parlato di come si tirano le frecce in modo che arrivino dove si vuole che vadano. È possibile che se lo sia ricordato.» «Tutto quel misticismo a proposito di 'unione'?» domandò Barba Rossa. «Io non ho mai capito il succo del discorso, quando me ne hai parlato.» «Non credo sia così complicato», gli spiegò Arcolungo. «Ci ho pensato, e sono quasi certo che l'idea di sentirsi un tutt'uno con il bersaglio debba essere presente nel momento in cui si scocca la prima freccia. Se ci sarà quella prima volta, ci sarà sempre. Se non c'è, non comparirà mai.» «Grazie tante», disse con sarcasmo Barba Rossa. «Non ti volevo offendere, amico mio. È probabile che io sia stato fortunato la prima volta che ho usato il mio arco. Il nostro sciamano, Colui Che Guarisce, parlava spesso dell'unione tra l'arciere, la sua freccia e il bersaglio, quando i ragazzi della nostra tribù cominciavano a fare pratica con l'arco, e alcuni di noi hanno voluto vedere se funzionava in quel modo. Per me è stato così, ma i miei compagni si sono immusoniti perché loro non
sono mai stati capaci di farlo, dopo aver scoccato la prima freccia. Se Leprotto ha seguito questa linea di pensiero la prima volta che ha usato il suo arco, adesso c'è ne non la perderà mai.» «A me sembra un po' inverosimile», commentò Sorgan. «Quello che mi lascia più perplesso, però, è quanto si è riscaldato Leprotto per quel tipo che si chiamava Konag. Era furibondo per chissà quale motivo.» «Non lo so di preciso», replicò Arcolungo. «Potrebbe anche essere stata una decisione della signora sconosciuta che ci sta aiutando. Se Konag intralciava il suo piano, lei doveva sbarazzarsene. Poiché Leprotto era lì, si è servita di lui.» Mentre continuavano a marciare in direzione nord verso il geyser, Barba Rossa udì un rombo provenire dalle profondità della terra e si guardò attorno con una certa apprensione, rammentando le montagne gemelle che avevano distrutto il villaggio di Lattash, con la conseguenza che gli era toccato accettare di malavoglia la carica di capotribù. I soldati amariti si erano diretti a nord con precauzione, all'inizio, ma poi, rendendosi conto che nelle trincee non c'erano più spuntoni avvelenati, avevano cominciato a muoversi più rapidamente, abbattendo le barricate al loro passaggio. «Quanto sono ancora distanti gli uomini di Sorgan dal geyser?» domandò Barba Rossa ad Arcolungo. I due amici erano un po' più indietro rispetto ai maag. «Circa tre chilometri», rispose Arcolungo. «Magari dovremmo dirgli di affrettarsi. I soldati in rosso gli si arrampicheranno sulla schiena se loro se la prendono troppo comoda.» «Sorgan ha intenzione di svoltare a est appena superato il geyser. Ha sufficiente vantaggio sui trogiti per sgombrare il terreno prima che arrivino loro.» Poi si udì un altro brontolio e la terra tremò. «Comincio a essere nervoso», ammise Barba Rossa. «Non è un buon segno quando la terra comincia a traballare in questa maniera.» «Potresti chiederle di smetterla, immagino. Non so se ti darà retta, ma chiedere non costa nulla.» «Molto spiritoso!» Ci fu un improvviso lampo di luce, il crepitio del tuono e comparve Dahlaine. «Farete meglio a dire ai maag di mia sorella Zelana di togliersi da questo altipiano più in fretta possibile», consigliò loro. «Ashad ha appena
fatto un altro di quei sogni e sono quasi certo che in questa zona sta per accadere qualcosa di davvero terribile.» «Di nuovo le montagne di fuoco?» domandò Barba Rossa, sentendo uno strizzone alla bocca dello stomaco. «Non ne sono sicuro. Ashad non è stato molto specifico. Qua sotto sta succedendo qualcosa, ma di più non saprei. Dite a Sorgan di affrettarsi, e io andrò ad avvertire Narasan.» Sorgan, Torl e Leprotto stavano attorno alla grande spaccatura nel terreno dove per venticinque millenni il geyser che era stato la sorgente del Fiume Vash aveva sparato acqua verso il cielo e tutti e tre erano oltremodo stupefatti nel vedere che il geyser non c'era più. «Che cosa succede?» chiese Sorgan, indicando la fessura. «Io non starei qua attorno a domandarmelo», rispose Arcolungo, che assieme a Barba Rossa aveva appena raggiunto il gruppetto. «È venuto Dahlaine ad avvertirci che sta per accadere qualcosa di davvero tremendo.» «Che cosa intendi per 'tremendo'?» volle sapere Leprotto, mentre la terra ricominciava a tremare. «È una risposta sufficiente?» reagì Barba Rossa. «In questa parte del mondo abbiamo imparato a non fare domande, quando la terra trema. La cosa migliore è mettersi a correre.» «Da che parte dovremmo andare?» chiese Sorgan, gli occhi sgranati. «Il crinale orientale è il più vicino», rispose Arcolungo, «e direi che più vicino è meglio, e correre è meglio che camminare.» «Pensi che la tua amica sconosciuta stia di nuovo facendo dei giochini?» ipotizzò Torl. «Perché non corriamo? Alle domande possiamo rispondere dopo.» «E correre in fretta è molto meglio che correre piano», aggiunse Barba Rossa. «Davvero in fretta, se volete sapere come la penso.» «Spargi la voce, cugino», ordinò Sorgan a Torl. «Di' agli uomini di correre verso est più in fretta che possono, e fagli capire che ne va della loro vita.» 3 Ashad si era comportato come se il sogno di quella notte sull'altipiano sopra le Cascate di Vasti fosse stato non poco differente da quello avuto nella nostra grotta sotto il Monte Shrak, quando tutto ciò aveva avuto ini-
zio. Nella sua voce c'era un'urgenza allora sconosciuta. Non mi diede molti dettagli, ma ebbi l'impressione che fosse estremamente spaventato da ciò che stava per accadere. Mi resi conto che quello non era il momento adatto per le riflessioni, quindi avvertii Veltan e le mie sorelle che dovevamo prendere i nostri Sognatori e lasciare l'altipiano. Se Ashad mi avesse fornito maggiori dettagli sarei potuto essere più preciso, ma ormai, dopo che i vulcani gemelli avevano sommerso la gola sopra Lattash, avevamo imparato che la cosa migliore era andarsene in tutta fretta in vista delle calamità naturali che i Sognatori facevano sortire dal nulla. Raggiunsi con la mia folgore Sorgan, Arcolungo e Barba Rossa, quindi puntai verso il muro di Gunda per mettere in guardia anche Narasan. «Succederà qualcosa di simile all'eruzione di quei vulcani gemelli?» chiese il comandante, piuttosto teso. «Non lo so di preciso, ma è meglio far sgombrare tutti gli uomini da questo altipiano. Il tuo amico Padan ti ha raggiunto, dopo aver abbandonato la sua posizione presso le Cascate di Vash, o è andato a est?» «È venuto qui. È al comando del contingente ovest.» «Avvertilo», gli consigliai. «Non corriamo rischi.» Guardai giù per la scarpata, verso le barricate. «Gli uomini-insetto si sono già ripresi dagli effetti della tempesta di sabbia di Lillabeth?» «Non del tutto, credo. I loro attacchi alla terza barricata sono stati deboli. Non sappiamo quanti ne abbia a disposizione il Vlagh, ma sono certo che moltissimi sono rimasti soffocati. Gli ci vorrà parecchio tempo per avere dei rimpiazzi.» «Non credo che il Vlagh abbia tutto quel tempo», dissi. «Gli eserciti amariti sono di nuovo in movimento e non passerà molto prima che raggiungano questo muro. Credo sia meglio se ritiri i tuoi uomini dalla scarpata e li mandi a est. Facciamo in modo che i nostri siano tutti lontani dal pericolo.» «Giusto», convenne il comandante, poi si voltò. «Gunda!» tuonò. «Ho bisogno di te... subito!» L'amico quasi calvo di Narasan arrivò di corsa. «Abbiamo qualche guaio?» «Non so se 'guaio' sia la parola giusta. Manda un messaggero a ovest per dire a Padan che lui e i suoi devono abbandonare la posizione e venire qui più in fretta che possono. La stessa cosa vale per Andar e i suoi. Il nostro piano è cambiato un po' e dobbiamo andarcene di corsa.» A quel punto,
Narasan si rivolse a me. «Veltan ci ha detto che lui e il suo giocattolo avrebbero aperto un passaggio attraverso il muro di Gunda, in modo che gli eserciti della chiesa possano incontrare più rapidamente gli uomini-insetto. Puoi fargli sapere che dovrebbe farlo quanto prima?» Sorrisi. «La mia beniamina è efficiente quanto quella di Veltan. Se lui è occupato da qualche altra parte, stavolta sarà lei a divertirsi. Ci sarà uno stradone, qui, ad aspettare le truppe amante.» Il problema maggiore per gli uomini di Narasan consisteva nel fatto che il muro di Gunda era largo solo dieci metri alla base e ancor meno alla sommità. Poiché dovevano transitarvi sopra in centomila, diretti al crinale a est, era evidente che sarebbe occorso più tempo di quanto, a mio avviso, ne avevano per mettersi in salvo. Per fortuna il giovane ufficiale chiamato Keselo se ne uscì con una soluzione talmente semplice da sembrarmi impossibile che non fosse venuta in mente al suo comandante o a qualcuno degli ufficiali più anziani. Infatti loro parvero un po' in imbarazzo quando suggerì: «Abbiamo parecchie scale di corda, e ogni uomo che scende a terra sul lato sud del muro sarà uno in meno che dovrà correre lungo la sua sommità». «Stai segnando i punti, Narasan?» gli domandò Padan. «Se è così, marcane un altro a favore di Keselo.» «Non insistere su qualcosa di ovvio», replicò Narasan. «Appena arriverà quassù il resto degli uomini di Andar, arrotola le corde e portale sul lato sud. Sbrighiamoci, signori. C'è nell'aria un forte odore di catastrofe e noi non vogliamo essere qui quando arriverà.» *** «Gli eserciti amariti stanno arrivando da sud, Narasan», riferì Gunda un paio d'ore più tardi. «I nostri sono al sicuro?» «La maggior parte. C'è qualcuno che ancora indugia, ma si affretterà, quando Messer Dahlaine avrà aperto un grosso buco nel mio muro. Era una bella costruzione, ma è ora di dirle addio.» Narasan mi guardò. «Io e i miei uomini dovremo ripararci, in qualche modo?» mi domandò. «Ci saranno pietre che voleranno in giro? Sono certo che capisci cosa intendo.» Guardai il muro e feci qualche calcolo approssimativo. «Non credo che
ci sarà pericolo, comandante. Farò arrivare il mio giocattolo da sud invece che dall'alto. Butterà giù le pietre verso la scarpata a nord. Questo dovrebbe tornare a nostro vantaggio: una repentina tempesta di pietre costringerà le creature della Terra Desolata a ripararsi e i soldati del clero le travolgeranno prima che abbiano avuto il tempo di rimettersi in posizione.» «Che peccato!» Narasan ghignò con malizia. «Meglio che vi copriate le orecchie, signori», li avvertii. «I suoni forti possono danneggiare l'udito.» Poi chiamai la mia beniamina e la sguinzagliai contro il muro di Gunda. Come fa sovente, esagerò un poco, e parecchie pietre volarono a nord per chilometri e quando scesero sulla Terra Desolata sollevarono grandi nubi di quella luccicante sabbia gialla che le truppe amarite trovavano tanto attraente. Il rumore fu spaventoso e, mentre cominciava a placarsi, se ne udì un altro, simile a un possente brontolio, giungere dalle profondità della terra, mentre sopravvenivano altre scosse. Poi mi colpì un pensiero: che l'amica sconosciuta di Arcolungo fosse un tipo competitivo? Io avevo provocato un boato molto forte, ma il suo lo era ancora di più. «Impressionante», commentò Narasan. «Per un momento ho pensato che volessi spedire il muro di Gunda fino a quella gola nel Dominio di tua sorella.» «Non sarebbe molto gentile, comandante. Faccio sempre del mio meglio per non offendere le mie sorelle. Si lamentano per anni, se mi capita di commettere un errore.» La torre dove stavamo era un po' più alta rispetto al resto del muro, quindi vedevamo benissimo i militi in rosso sciamare attraverso il varco nel muro praticato dalla mia folgore. Ebbero una minima esitazione nel vedersi davanti l'enorme deserto luccicante che si apriva sotto di loro e potei quasi annusare la loro travolgente cupidigia. Poi la carica insensata continuò, mentre correvano giù per la scarpata e si arrampicavano sulle prime barriere di Narasan. «Ed ecco che arrivano gli uomini-insetto», annunciò Padan. «Fra qualche minuto scopriremo se l'amica di Arcolungo sapeva ciò che stava facendo. Se gli amariti si voltano e scappano via, le cose potrebbero farsi molto interessanti qua attorno.» Era evidente che l'ultima nidiata di servitori del Vlagh era costituita da individui particolarmente inetti. Avanzarono incespicando incontro ai ne-
mici armati fino ai denti e furono pochissimi a sopravvivere. Dalle file trogite si levò un «urrà». «Bene, bene», borbottò Padan. «Credo di avere appena visto una faccia familiare. Se non mi sbaglio, lo scarno Jalkan è ritornato nella Terra di Dhrall. Le cose non erano le stesse senza di lui.» Allora l'amico di mio fratello, Omago, si fece avanti dall'altro lato della torre, con Keselo al fianco. «Dove?» volle sapere. La sua voce aveva perso ogni traccia dell'abituale tono amichevole. «Vicino all'ala ovest delle barricate.» Padan glielo indicò. «Dov'è Arcolungo, adesso che ne ho bisogno?» mormorò Narasan. «Comandante, se fossi in te non avrei tanta fretta», gli suggerii. «Se guardi con maggiore attenzione, vedrai dei fili sottilissimi, sull'altro lato di quella barricata. Credo che Jalkan e il grassone che è con lui tra un attimo avranno una brutta sorpresa.» «Ah, sì, adesso li vedo, quei fili! Fanno a pensare alle tartarughe-ragno, vero?» «Infatti. Ho la netta sensazione che Jalkan si stia avvicinando al termine della carriera... quale che sia la sua carriera attuale.» «Come mi dispiace!» fu il sardonico commento di Padan. «Qualcuno sa la data di oggi?» domandò Gunda. «A cosa ti serve la data?» gli chiese l'amico. «A Castano ne parlavo con Andar e tutti e due siamo d'accordo che il giorno in cui muore Jalkan dovrebbe diventare una festa nazionale per l'impero.» «Da me non avrai obiezioni!» Jalkan aiutò il suo grasso compagno a superare la barricata e poi lo seguì, per quasi un metro. Dopodiché si fermò di botto e cominciò ad artigliare la sottilissima ragnatela che lo aveva avvolto. Il grassone ignorò le sue grida di aiuto e corse avanti, verso il deserto di finto oro che iniziava a pochi metri da lui e si propagava fino all'orizzonte. Ma anche lui fu avvolto da una tela serica e quasi trasparente. «Quelle ragnatele sono davvero così robuste?» si stupì Gunda. «Molto», gli risposi, «e sono elastiche. Più quei due si dibattono, più ne rimangono invischiati.» Poi una tartaruga-ragno avanzò da dietro la barricata e produsse rapidamente altri fili per imprigionare meglio le due prede. «Perché spreca tempo a tessere la ragnatela?» domandò Gunda. «Perché non li uccide e non la fa finita?»
«Non credo che tu voglia saperlo davvero», lo avvertii. «E invece sì», replicò lui, ostinato. «Va bene, allora. I ragni tessono le ragnatele per imprigionare le creature che mangeranno, ma non hanno le mandibole, quindi il loro veleno contiene un fluido digestivo potentissimo che liquefa gli organi interni e la carne delle prede. Poi succhiano fuori quel liquido dalle loro vittime.» «Il veleno li uccide, però, vero?» «Li paralizza, ma non è immediatamente letale come quello dei serpenti. Il ragno usa la ragnatela e il veleno paralizzante per conservare le prede e poterle mangiare in seguito.» «È orribile!» esclamò Gunda. «È molto pratico, però: se un ragno tesse la sua ragnatela nel posto giusto, ha quasi sempre una scorta di cibo a disposizione.» Jalkan e il grasso Estarg, ora avvolti completamente dai fili, gridavano aiuto, ma i soldati li ignoravano e continuavano a precipitarsi giù per la scarpata, attirati dal luccichio del deserto. Poi si udì un altro sordo brontolio provenire dalle profondità della terra e ci fu una scossa più violenta delle altre. «Indietro!» avvertii Narasan e i suoi uomini. «Sta per scatenarsi!» Tutti noi corremmo lungo la sommità del muro diretti a est, verso la salvezza... speravamo. Il brontolio continuava; giungeva dal profondo e si diffondeva tra le pietre scosse da forti vibrazioni. È poi, forse a un centinaio di metri giù per la scarpata, ci fu una tremenda eruzione che non era di roccia fusa. Era acqua, e sgorgava formando un'onda immensa che spazzò via indiscriminatamente i soldati amariti e i servitori del Vlagh. Da lontano, da molto lontano nella Terra Desolata, giunse uno stridulo grido di frustrazione che rapidamente si affievolì in lontananza, mentre i servitori del Vlagh si affrettavano a portare in salvo il nostro nemico. A quel punto ricollegai parecchie cose e rimasi scosso nel profondo da ciò che l'amica sconosciuta di Arcolungo aveva appena compiuto. Ecco perché il geyser si era improvvisamente prosciugato. L'Amica Sconosciuta lo aveva spostato dal centro dell'altipiano alla scarpata settentrionale, per cancellare con un colpo solo i servitori del Vlagh e i cinque eserciti del clero. Lanciai un'occhiata dietro di me e vidi una grande quantità di acqua che, salendo sempre di più, ricopriva il deserto. L'Amica Sconosciuta aveva appena sostituito il suo «mare d'oro» con un mare vero, che avrebbe protetto in modo permanente il Dominio di mio fratello da qualsiasi attac-
co inferto dalle creature della Terra Desolata. Il geyser, ora orizzontale, produceva una grande quantità di nebbia; il sole era alto nel cielo, quindi l'arcobaleno apparso all'improvviso sopra il mare crescente poteva essere solo un fenomeno naturale, ma io non credevo a una spiegazione così semplice. L'Amica Sconosciuta, a quanto sembrava, era molto soddisfatta della sua invenzione e un arcobaleno è una specie di benedizione. «Bene, signori», dissi ai nostri amici ostentando una disinvoltura che non avevo, «immagino che questo sistemi tutto quanto. Adesso possiamo anche fare i bagagli e tornare giù.» Erano passate circa due settimane quando ci riunimmo di nuovo nella sala della mappa, in casa di Veltan. Adesso la mappa di mio fratello non serviva più e non c'era motivo di stare lì piuttosto che in qualsiasi altra parte della casa ma, per qualche ragione, ci sentivamo tutti a nostro agio in quella stanza. All'inizio ci fu un gran raccontare. I nostri amici si erano trovati in posti diversi, durante la recente guerra (ammesso che quella fosse stata davvero una guerra). Dal mio punto di vista, questa volta il nostro contributo era stato minimo. La maggior parte del lavoro lo aveva svolto l'Amica Sconosciuta di Arcolungo. Certo, il sogno di Ashad aveva prodotto l'inondazione, ma più ci pensavo più mi convincevo che era stata lei a manovrare Ashad fin dall'inizio. La «seconda invasione» nel primo sogno di Ashad aveva fornito un esercito immenso che si era scontrato con i servitori del Vlagh, tenendoli sul posto finché l'inondazione aveva distrutto entrambi i nostri nemici. «Lascia che te lo dica, amico, sono scappato via da quell'altipiano come una volpe con la coda in fiamme», confessò Sorgan a Narasan. «Era troppo vivo il ricordo del terremoto e delle montagne di fuoco nella gola di Lattash, e l'idea di andare arrosto fa correre un uomo due volte più in fretta di quanto creda di essere capace.» «Hai avuto buon senso», gli assicurò Narasan. «Nessuno sapeva bene cosa stava per succedere, quindi era sensato andarsene.» «Mi sembra di ricordare che 'va' via' era ciò che diceva la signora del sogno ad Arcolungo ogni volta che lui chiudeva gli occhi», aggiunse Leprotto. «Lei sapeva di cosa stava parlando.» «È tutto finito», disse mia sorella Aracia, con il suo solito tono aspro. «Credo che sia ora di andarcene. La prima cosa a cui dovremo pensare sarà
dove il Vlagh colpirà la prossima volta, e cominciare a prepararci.» «Non dobbiamo aspettare che uno dei bambini faccia uno di quei sogni?» suggerì Zelana. «Non sapremo dove il Vlagh colpirà fino a che non avremo un sogno da decifrare.» «Penso che tu stia trascurando un particolare, sorella», replicò Aracia. «Il tuo Dominio, e adesso anche quello di Veltan, sono diventati inaccessibili al Vlagh. Ormai gli restano solo due scelte: quello di Dahlaine, al Nord, e il mio, a est. Questo restringe considerevolmente le possibilità, quindi penso che dovremo prepararci a entrambe.» A quel punto si fece avanti la regina guerriera Trenicia, che era stata ingaggiata da Aracia. «Ekial e io abbiamo discusso a lungo la questione», ci disse, «e concordiamo che la presenza di Narasan e di Sorgan potrebbe essere utilissima quando i nostri amici attaccheranno il Nord e l'Est. Si sono fatti una grande esperienza con quei mostri, quindi ci potranno avvertire se commetteremo errori. Inoltre, se porteranno con sé i loro eserciti, avremo abbastanza guerrieri per eliminare quelle creature in modo definitivo.» «Che ne pensi, Narasan?» domandò Sorgan. «Finché ci pagano, non vedo problemi.» «Sono certa che riusciremo a metterci d'accordo», dichiarò Zelana, guardandoli con un lieve sorriso. In quel momento la porta si aprì e la bellissima moglie di Omago ci raggiunse sulla balconata. «La cena è pronta», annunciò con quella sua voce vibrante. Allora mi vennero in mente delle cose che mi lasciarono confuso. Era stata la comparsa di Ara a provocare Jalkan fino al punto di pronunciare parole che nessuno sano di mente avrebbe detto, e i suoi commenti avevano spinto Narasan a destituirlo e a metterlo in catene. Poi, riuscito a fuggire, l'indegno trogita era andato a sud ed era tornato con cinque eserciti del clero che, effettivamente, avevano sconfitto i servitori del Vlagh. Era probabile che non ci fosse un collegamento fra quegli eventi, però... Fissai la bella signora colmo di soggezione. Era possibile che la nostra Amica Sconosciuta fosse Ara? In questo caso i suoi poteri superavano talmente quelli di noi quattro fratelli e sorelle che non ero in grado di comprendere di cosa poteva essere capace. La sua voce mi raggiunse nel silenzio della mia mente. «Non ora, bambino. Possiamo parlarne un'altra volta.» FINE