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PATRICIA CORNWELL CADAVERE NON IDENTIFICATO (Black Notice, 1999) A Nina Salter Water and Words E il terzo versò la sua coppa nei fiumi e nelle sorgenti delle acque, e diventarono sangue. (Apocalisse, 16,4) BW 6 dicembre 1996 Epworth Heights Luddington, Michigan Carissima Kay, sono seduto sulla veranda a guardare il lago Michigan con il vento che mi ricorda che dovrei farmi tagliare i capelli. Ricordo l'ultima volta che siamo venuti qui e ci siamo entrambi dimenticati per un momento prezioso chi eravamo e che cosa dovevamo fare. Kay, ho bisogno che tu mi ascolti. Se leggi questa lettera, è perché io sono morto. Quando ho deciso di scrivertela, ho chiesto al senatore Lord di portartela personalmente all'inizio di dicembre dell'anno dopo la mia morte. So che Natale è sempre stato un brutto periodo per te e penso che questo, in particolare, sia insopportabile. La mia vita è cominciata quando ho iniziato ad amarti e, adesso che è finita, voglio che tu mi faccia un regalo andando avanti comunque. Sono sicuro che non hai elaborato niente di niente, che non hai mai smesso di correre da un cadavere all'altro e di fare più autopsie che mai. Ti sarai sbattuta fra il tribunale e l'Istituto di medicina legale, avrai continuato a fare lezione, a preoccuparti per Lucy, a irritarti con Marino, a far finta di non vedere i vicini e ad avere paura la notte. Non ti sarai presa neppure un giorno di ferie o di malattia, per quanto ne avresti avuto sicuramente bisogno. Smettila di eludere il dolore e lascia che ti consoli. Immagina di tenermi per mano e ricordati delle tante volte in cui abbiamo parlato della morte, senza accettare che una malattia o un incidente o un atto di violenza potes-
se avere il potere di distruggerci completamente, perché il nostro corpo è solo un abito che indossiamo, e dentro di noi c'è molto, molto di più. Kay, voglio che tu capisca che ti sento, mentre leggi questa lettera, che mi sto prendendo cura di te, che andrà tutto bene. Ti chiedo di fare una cosa per celebrare la vita che abbiamo condiviso e che non finirà mai. Chiama Marino e Lucy e invitali a cena, stasera. Cucina come solo tu sai fare e apparecchia anche per me. Ricordati che ti amerò per sempre, Benton 1 Era una bellissima mattina, il cielo terso e l'autunno nel suo massimo splendore, ma nulla di tutto questo era per me. Il sole e tutte le cose belle erano riservati agli altri, ormai, e la mia vita era brulla e senza musica. Guardavo dalla finestra un vicino che raccoglieva le foglie con un rastrello e mi sentivo inerme, distrutta e annientata. Le parole di Benton avevano fatto rivivere tutte le terribili immagini che avevo cercato di reprimere. Rivedevo un fascio di luce su un cadavere carbonizzato immerso nell'acqua melmosa. Risentivo il dolore che mi aveva annichilito nel capire che le forme confuse davanti a me erano una testa bruciata senza più volto e qualche ciuffo di capelli grigi. Ero seduta in cucina a Bere il tè caldo che il senatore Frank Lord mi aveva preparato. Ero esausta, mi girava la testa e la nausea mi aveva già fatto correre nel bagno due volte. Ero umiliata, perché la cosa di cui avevo più paura era perdere il controllo e l'avevo già perso. «Bisogna che tolga un po' di foglie dal giardino», dissi stupidamente al mio vecchio amico. «È il 6 dicembre e sembra ottobre. Guarda come sono grosse le ghiande. Ci avevi fatto caso, Frank? Pare che voglia dire che l'inverno sarà freddo, ma finora non sembra nemmeno che stia per arrivare. Avete ghiande, a Washington?» «Sì», rispose lui. «Nei due o tre alberi che restano.» «Sono grandi? Le ghiande, intendo dire.» «Ci guarderò, Kay.» Mi coprii la faccia con le mani e scoppiai in singhiozzi. Frank Lord si alzò e mi venne vicino. Eravamo tutti e due di Miami ed eravamo andati a scuola nella stessa arcidiocesi, anche se io ero stata alla St. Brendan's High School solo un anno e molto dopo di lui. Tuttavia, il fatto che le nostre
strade si fossero incrociate tanto tempo prima era un segno di ciò che sarebbe successo dopo. Al tempo in cui lui era procuratore distrettuale e io lavoravo all'Istituto di medicina legale della contea di Dade, mi chiamava spesso a testimoniare in tribunale. Quando era stato eletto senatore e quindi nominato presidente della Commissione giustizia e io ero diventata capo dell'Istituto di medicina legale della Virginia, mi aveva coinvolto nel suo programma di lotta contro la criminalità. Il giorno prima mi aveva chiamato per dirmi che voleva venirmi a trovare per consegnarmi una cosa importante; io ero rimasta stupefatta, avevo dormito male tutta la notte e, quando era entrato in cucina e aveva tirato fuori dalla tasca del completo la semplice busta bianca, mi ero sentita morire. Ripensandoci, era più che ragionevole che Benton avesse riposto in lui la sua fiducia. Sapeva che Lord mi voleva bene e che non mi avrebbe mai abbandonato. Era tipico di Benton organizzare tutto in maniera che fosse come voleva lui, anche senza il suo intervento, com'era tipico di lui prevedere esattamente che cosa avrei fatto e come mi sarei comportata dopo la sua morte. «Kay», disse Lord alle mie spalle mentre piangevo, «mi rendo conto che è difficile e vorrei tanto poterti aiutare. Credo che promettere a Benton di fare questa cosa sia stato uno dei compiti più impegnativi che mi sia mai accollato. Speravo solo che non dovesse succedere mai. Invece è successo e io sono qui per te.» Rimase un attimo zitto e poi aggiunse: «Nessuno mi aveva mai chiesto una cosa simile, nonostante mi vengano fatte continuamente richieste di ogni genere». «Benton non era come tutti gli altri», precisai sottovoce, cercando di calmarmi. «E tu lo sai, Frank. Lo sai benissimo.» Frank Lord era affascinante e aveva il portamento che si conveniva a un uomo della sua importanza. Grigio di capelli, aveva occhi azzurrissimi, era alto, magro, indossava abiti scuri con cravatte dai colori vivaci e non usciva mai senza gemelli, orologio da taschino e fermacravatta. Mi alzai dalla sedia e trassi un respiro profondo. Poi presi dei fazzolettini di carta, mi soffiai il naso e mi asciugai gli occhi. «Sei stato molto gentile a venire», gli dissi. «Che cos'altro posso fare per te?» mi chiese con un sorriso triste. «Hai già fatto fin troppo: devi aver sconvolto tutti i tuoi programmi.
Chissà quante cose hai da fare.» «Sono venuto apposta dalla Florida. A proposito, sai che ho visto Lucy? Sta facendo grandi cose, laggiù.» Lucy, mia nipote, era agente dell'ATF, l'agenzia governativa che si occupava di alcol, tabacco e armi da fuoco, ed era stata da poco trasferita a Miami. Non la vedevo da diversi mesi. «Sa della lettera?» chiesi a Lord. «No», mi rispose guardando la magnifica giornata fuori della finestra. «Penso che tocchi a te chiamarla. Anche perché ho avuto l'impressione che si sentisse un po' trascurata.» «Da me?» domandai sbigottita. «Ma se è lei che è irraggiungibile! Lavora sotto copertura per incastrare trafficanti d'armi e altri personaggi di analogo livello morale e parla solo dalle cabine telefoniche o dalla sede centrale...» «Neanche tu sei facile da raggiungere, però. Da quando è morto Benton sei sempre in un'altra dimensione. Ti sei persa, e secondo me non te ne rendi neanche conto», disse. «Lo so perché ho cercato anch'io di mettermi in contatto.» Mi vennero di nuovo le lacrime agli occhi. «E, quando riesco a trovarti, che cosa mi dici? Tutto bene, non ti preoccupare. Sto lavorando tantissimo. Per non parlare del fatto che non mi sei venuta a trovare neanche una volta. Prima, ogni tanto mi portavi addirittura una delle tue minestre speciali. Hai smesso di occuparti delle persone a cui vuoi bene, Kay. Non ti occupi più nemmeno di te stessa.» Aveva guardato l'ora un paio di volte. Mi alzai dalla sedia. «Torni in Florida?» chiesi con voce lievemente tremante. «No, a Washington», rispose. «Devo andare di nuovo a Face the Nation. Sempre la stessa zuppa. Non ne posso più, Kay.» «Yorrei poterti aiutare», replicai. «È uno schifo, sai? Se qualcuno sapesse che sono qui a casa tua, solo, metterebbe in giro qualche voce. Per darmi addosso, solo per questo.» «Non saresti dovuto venire.» «Figurati se mi lascio fermare da una sciocchezza così. Anzi, scusa se mi sono lasciato andare a lamentarmi. Hai già abbastanza problemi per conto tuo.» «Sono pronta a testimoniare che sei un uomo integerrimo, all'occorrenza», dichiarai. «Non servirebbe a niente comunque.»
Lo accompagnai verso la porta, attraversando quella casa che mi ero progettata da sola, fra bei mobili, quadri e antichi strumenti chirurgici da collezione, parquet e tappeti colorati: mi piaceva ancora, ma non era più la stessa, da quando Benton non c'era più. Non ci facevo più attenzione, come non facevo più attenzione a me stessa. Ero diventata una custode distratta della mia stessa vita ed era chiaro, ovunque mi voltassi. Lord notò la mia ventiquattrore aperta sul divano della sala, le cartelle, la posta e i fogli sparsi sul tavolino, le carte sparpagliate per terra. I cuscini erano in disordine, il portacenere sporco perché aveyo ripreso a fumare. Non mi disse niente. «Kay, è meglio che non ci vediamo per un po'», mi disse «Per quello che ti ho appena detto.» «Santo cielo, guarda che caos!» esclamai disgustata. «Non riesco più a tenere in ordine questa casa!» «Hanno messo in giro delle voci che non ti voglio raccontare», continuò guardingo. «Ma ho ricevuto velate minacce.» Sentii che era arrabbiato. «Solo perché siamo amici.» «E pensare che un tempo ero così ordinata...» Scoppiai in una risata amara. «Pensa che io e Benton litigavamo perché io ero troppo precisa, troppo perfetta.» Alzai la voce, arrabbiata. «Guai, se metteva una cosa al posto sbagliato, se confondeva i cassetti... È così che succede quando si arriva alla mezza età vivendo sempre da soli e facendo soltanto quello che si vuole.» «Kay, mi hai sentito? Non voglio che pensi che mi disinteresso, se non ti chiamo spesso o se non ti invito a pranzo o non ti chiedo consiglio su qualche proposta di legge, capito?» «In questo momento non ricordo neanche più quando abbiamo divorziato, io e Tony», continuai amara. «Cos'era? L'83? Mi piantò lui. Ma in fondo, chi se ne frega? Non avevo bisogno né di lui né di nessuno. Preferivo fare come mi pareva e piaceva: avevo il mio lavoro, le mie cose, i miei investimenti... Ecco.» Indicai la mia bella casa e tutto quello che conteneva con un ampio gesto della mano. «E allora? A cosa cazzo è servito?» Guardai Lord negli occhi. «Perché non gli ho lasciato mettere le cose dove voleva lui? Perché non poteva rivoluzionare tutto? Quanto vorrei essere stata meno rigida, Frank.» Mi asciugai lacrime rabbiose. «Quanto vorrei poter tornare indietro e smettere di rompergli le scatole. Quanto vorrei che potesse ritornare. Oddio, quanto
vorrei che fosse con me... La mattina mi sveglio serena, poi mi torna in mente tutto e mi passa la voglia di alzarmi.» Non riuscivo a smettere di piangere: avevo i nervi a fior di pelle. «Benton era felice con te», sussurrò Lord con dolcezza e affetto. «Eri tutto, per lui. Diceva che eri comprensiva, che capivi quanto era dura la sua vita, con tutte le atrocità che vedeva lavorando nell'FBI. Io credo che tu tutto questo lo sappia.» Trassi un profondo respiro e mi appoggiai alla porta. «E so anche che adesso vorrebbe vederti più serena e vorrebbe che facessi una vita migliore. Perché altrimenti averlo amato diventerebbe deleterio, un grave errore, la tua rovina. Lo capisci, questo?» «Certo», risposi. «So benissimo che cosa vorrebbe lui. E so anche quello che voglio io. Non voglio andare avanti così. Va oltre la mia capacità di sopportazione. A volte penso di non farcela più, di scoppiare e finire in qualche ospedale. Se non nel mio stesso obitorio.» «No, Kay, no.» Mi prese la mano. «Se c'è una cosa per cui metterei la mano sul fuoco, è la tua capacità di superare tutto. Sei sempre riuscita a fare l'impossibile e, per quanto questo sia forse il momento più difficile della tua vita, io sono sicuro che d'ora in poi andrà meglio. Davvero, Kay.» Lo abbracciai. «Grazie», sussurrai. «Grazie di aver fatto questa cosa, di non aver lasciato la lettera da qualche parte, di non essertene dimenticato.» «Se hai bisogno, chiama», disse in tono imperioso appena aprii il portone di casa. «Però ricordati di quello che ti ho detto e non sentirti trascurata.» «Okay.» «Per qualsiasi cosa, conta su di me. Non te ne scordare. In ufficio sanno sempre dove rintracciarmi.» Guardai la Lincoln nera che si allontanava, quindi tornai in sala e accesi il fuoco, nonostante non facesse freddo. Avevo un tremendo bisogno di calore, di qualcosa di vitale che riempisse il vuoto lasciato dalla partenza di Lord. Lessi e rilessi la lettera di Benton e mi parve di risentire la sua voce. Lo rivedevo con le maniche tirate su, le vene prominenti negli avambracci muscolosi, la mano elegante che teneva la stilografica Mont Blanc d'argento che gli avevo regalato solo ed esclusivamente perché mi era sembrata perfetta per lui. Non riuscivo a smettere di piangere e dovetti spostare la lettera con le sue iniziali impresse perché l'inchiostro non sbavasse.
Era sempre stato preciso ed essenziale sia nella grafia sia nello stile e, alla ricerca ossessiva di significati e toni nascosti, trovavo le sue parole un conforto e un tormento al tempo stesso. A volte mi pareva che stesse cercando di dirmi che non era morto per davvero, che era stato un trucco, un piano abilmente orchestrato da FBI, CIA e chissà chi altri. Poi tornavo alla realtà e mi sentivo agghiacciare: Benton era stato torturato e ucciso. L'esame del DNA e della dentatura, oltre agli effetti personali, avevano inequivocabilmente dimostrato che quei resti irriconoscibili erano i suoi. Cercai di pensare a come far fronte alla sua richiesta quella sera e non riuscii a trovare una soluzione. Era ridicolo pensare che Lucy prendesse l'aereo per venire a cena da me a Richmond, in Virginia. Presi il telefono e cercai di mettermi in contatto con lei comunque, perché era questo che mi aveva chiesto Benton. Mi richiamò con il cellulare un quarto d'ora dopo. «Mi hanno avvertito dalla sede che mi cercavi. Che cosa è successo?» mi chiese in tono allegro. «È difficile da spiegare», cominciai. «Quanto vorrei poterti chiamare direttamente...» «Sapessi io.» «Sai che non riesco tanto...» Stavo cominciando a perdere di nuovo il controllo. «Che cos'hai?» mi interruppe. «Benton mi ha scritto una lettera...» «Ne parliamo un'altra volta» mi interruppe di nuovo e io capii, o pensai di capire che volesse dirmi che i cellulari non sono sicuri. «Da quella parte», disse a un'altra persona. «Scusa», fece poi ritornando a me. «Ci stiamo fermando a Los Bobos a farci una colada.» «Una che?» «Un drink ad alto contenuto di caffeina e zucchero.» «Be', voleva che te la leggessi adesso, cioè, oggi. Voleva che tu... Senti, non importa. È una scemenza.» Cercai di sembrare in pieno controllo della situazione. «Devo scappare», mi disse Lucy. «Ti posso richiamare più tardi?» «Okay», rispose nello stesso tono irritante. «Con chi sei?» chiesi per prolungare la conversazione, perché avevo bisogno di sentire la sua voce e non volevo riattaccare con l'eco della sua improvvisa freddezza. «Con la mia compagna di follie», rispose.
«Salutamela.» «Ti saluta», disse alla sua compagna, Jo, che lavorava nella DEA. Facevano parte della stessa squadra dell'HIDTA, o High Density Drug Trafficking Area, che si occupava di traffico di sostanze stupefacenti. Jo e Lucy stavano insieme anche nella vita, ma cercavano di essere molto discrete. Avevo la sensazione che né l'ATF né la DEA ne fossero a conoscenza. «A dopo», si congedò Lucy prima di chiudere la comunicazione. 2 Il capitano Pete Marino della polizia di Richmond e io ci conoscevamo da talmente tanto tempo che a volte ci sembrava di essere telepatici. Perciò non mi sorprese particolarmente che mi chiamasse un attimo prima che provassi a rintracciarlo. «Hai la voce nasale», mi disse. «Sei raffreddata?» «No», risposi. «Sono contenta che mi hai chiamato. Stavo per telefonarti.» «Davvero?» Mi resi conto che stava fumando e che era a bordo del suo pick-up o di un'auto della polizia, perché radio e scanner gracchiavano spaventosamente. «Dove sei?» «Di pattuglia. Stavo sentendo lo scanner», mi informò come se avesse la situazione sotto controllo e fosse di splendido umore. «Conto quante ore mi mancano alla pensione. Com'è bella la vita! Non mi manca niente tranne la felicità.» Definire pungente il suo sarcasmo era poco. «Che cosa ti hanno fatto?» domandai. «Immagino tu sia informata del marciume che hanno appena ritrovato nel porto di Richmond», replicò. «Ho sentito che hanno vomitato in parecchi. Fortuna che io non c'entro un cazzo.» Non capivo di che cosa stesse parlando. Sentii l'avviso di chiamata, spostai il cordless all'altro orecchio e andai a sedermi nello studio. «Che marciume?» domandai. «Scusa, Marino, aspetta un secondo», dissi poi, sentendo di nuovo l'avviso di chiamata. «Sento chi è. Non te ne andare.» Premetti il tasto di attesa. «Scarpetta», dichiarai.
«Sono Jack», mi informò il mio vice, Jack Fielding. «Hanno trovato un cadavere dentro un container. Al porto di Richmond. In avanzato stato di decomposizione.» «Me ne stava parlando Marino», dissi. «Hai l'influenza? Mi sa che me la sto prendendo anch'io. E Chuck ha chiamato che arriva più tardi perché non si sente bene. O così dice...» «Il container è stato appena scaricato da una nave?» lo interruppi. «La Sirius. Brutta faccenda. Cosa facciamo?» Presi appunti su un foglietto con una grafia ancor più illeggibile del solito; avevo il sistema nervoso centrale sovraccarico. «Vado io», replicai subito. Mi vennero in mente le parole di Benton: non avevo mai smesso di correre da un cadavere all'altro. «Non è il caso», mi disse Fielding come se improvvisamente toccasse a lui decidere. «Posso benissimo andare io. Non ti dovevi prendere un giorno di ferie?» «Con chi devo parlare, quando arrivo in porto?» tagliai corto. Erano mesi che Fielding mi esortava a mollare un po' con il lavoro e prendermi una settimana o due di ferie, se non addirittura un anno sabbatico. Ero stufa di sentirmi addosso sguardi preoccupati e mi irritava che la gente pensasse che dopo la morte di Benton non ero più la stessa, che ero sempre stanca, distratta e poco disponibile. «Ci ha avvertiti Rene Anderson, dell'Investigativa. Penso che sia ancora là», mi rispose Fielding. «Chi?» «Dev'essere nuova. Davvero, ci posso andare io. Stattene tranquilla a casa tua.» Mi ricordai di avere Marino ancora in attesa e decisi di avvertirlo che l'avrei richiamato appena finito di parlare con Fielding. Ma quando provai, mi accorsi che aveva già riattaccato. «Che strada devo fare?» chiesi al mio vice. «Deduco che non accetti il mio consiglio.» «Partendo da casa mia prendo Downtown Expressway e poi?» Mi spiegò la strada. Chiusi la comunicazione e andai in camera mia con la lettera di Benton ancora in mano. Non sapevo dove metterla. Non potevo lasciarla in un cassetto o in un raccoglitore, non volevo assolutamente rischiare di perderla o che finisse in mano alla domestica e non volevo nemmeno ritrovarmela fra le mani senza volere. Con mille pensieri per la testa, il cuore che batteva all'impazzata e l'adrenalina alle stelle, fissavo la
busta bianca con la scritta "Kay" nella grafia precisa e ordinata di Benton. Finalmente mi cadde l'occhio sulla piccola cassaforte ignifuga imbullonata al pavimento nel ripostiglio. Cercai di farmi venire in mente dove avevo annotato la combinazione. «Sto perdendo la testa, miseriaccia!» imprecai ad alta voce. La combinazione era dov'era sempre stata, ovvero fra le pagine 670 e 671 della settima edizione di Hunter's Tropical Medicine. Chiusi la lettera nella cassaforte e andai nel bagno a bagnarmi la faccia con l'acqua fredda. Poi chiamai Rose, la mia segretaria, e le chiesi di mandarmi al porto l'apposito furgone nel giro di un'ora e mezzo. «Avverti gli inservienti che il cadavere è in cattive condizioni», le raccomandai. «Tu come ci vai?» mi chiese Rose. «Ti direi di passare di qui a prendere la Suburban, ma Chuck l'ha portata dal meccanico per cambiare l'olio.» «Credevo che non stesse bene.» «È arrivato un quarto d'ora fa e se n'è andato via subito con la Suburban.» «Non importa, piglio la mia. Senti, Rose, mi serviranno il Luma-Lite e una prolunga da trenta metri. Ti chiamo appena prima di arrivare, così me li fai portare giù nel parcheggio. Okay?» «Devi sapere che Jean è un po' agitata.» «Cos'è successo?» domandai, sorpresa perché Jean Adams, la responsabile amministrativa, era una donna molto poco emotiva. «Pare che siano spariti i soldi del caffè. E non è la prima volta...» «Maledizione!» esclamai. «E dov'erano?» «Nel cassetto della sua scrivania. La serratura non sembra forzata, ma stamattina, quando ha aperto il cassetto, i soldi non c'erano più. Centoundici dollari e trentacinque centesimi.» «Non può continuare così», decisi. «E non so se sai l'ultima», continuò Rose. «Hanno cominciato a sparire anche i panini, per non parlare del fatto che la settimana scorsa Cleta ha dimenticato il cellulare in ufficio e la mattina dopo non l'ha più trovato. Lo stesso è successo al dottor Riley: si è scordato una penna di valore nella tasca del camice e la mattina dopo non c'era più.» «Pensi che siano quelli delle pulizie?» «È possibile», replicò Rose. «Ma secondo me, anche se non voglio accusare nessuno, è qualcuno del personale.» «Hai ragione, non dobbiamo accusare nessuno. Hai anche qualche bella
notizia da darmi?» «Per ora no», rispose. Rose lavorava con me da quando ero stata nominata capo dell'Istituto di medicina legale, il che significava che da parecchio tempo organizzava la mia vita professionale. Aveva il dono di saper seguire tutto quello che succedeva intorno a lei senza lasciarsi invischiare, rimanendo sempre al di fuori. Sebbene molti dei miei dipendenti la temessero, era da lei che correvano quando c'era qualcosa che non andava. «Hai una voce che non mi piace», mi disse. «Sta' attenta a non prenderti qualcosa. Perché non lasci che vada Fielding e te ne resti a casa?» «Prendo la mia macchina», risposi. Ero addolorata e si sentiva. Rose se ne accorse e lasciò perdere. Sentii che frugava fra le carte sulla scrivania. Mi resi conto che aveva voglia di consolarmi, ma non osava perché non glielo avevo mai permesso. «Be', almeno cambiati, prima di tornare», disse dopo un po'. «In che senso?» «Nel senso di toglierti i vestiti prima di risalire in macchina», spiegò, come se non avessi mai avuto a che fare con un cadavere in avanzato stato di decomposizione in vita mia. «Senz'altro, Rose. Grazie», risposi. 3 Inserii l'allarme, chiusi a chiave la porta, accesi la luce nel garage e aprii un armadio di legno aerato in cima e in fondo in cui tenevo scarponi, stivali di gomma, pesanti guanti di pelle e una giacca impermeabile Barbour che odorava di cera. C'erano anche calze, biancheria, tute da ginnastica e altra roba che non entrava mai in casa, ma finiva in un lavandino di acciaio inossidabile di dimensioni industriali, in una lavatrice e in un asciugatore in cui non infilavo i miei vestiti normali. Sistemai nel portabagagli della macchina una tuta, un paio di Reebok nere e un berretto con la scritta OCME, Office or Chief Medical Examiner. Controllai che nella mia valigia di alluminio Halliburton ci fossero una scorta sufficiente di guanti di gomma, sacchetti per la spazzatura superesistenti, teli usa e getta, macchina fotografica e pellicole. Poi mi misi in viaggio, con il cuore gonfio e le parole di Benton che mi riecheggiavano nella mente. Cercai di non pensare alla sua voce, ai suoi occhi, al suo sor-
riso e al tocco della sua pelle. Avrei voluto dimenticarlo, ma più di ogni altra cosa al mondo volevo ricordarlo. Mentre percorrevo Downtown Expressway verso la 195, accesi la radio e guardai i palazzi di Richmond che brillavano nel sole. Stavo rallentando al casello di Lombardy quando squillò il telefono. Era Marino. «Volevo avvertirti che faccio un salto anch'io», mi informò. Cambiando corsia, tagliai la strada a una Toyota grigia che non avevo visto nello specchietto retrovisore e il suo clacson mi colpì rabbioso. Vidi che l'uomo alla guida gridava nella mia direzione, ma non sentii gli improperi che mi stava lanciando. «Va' al diavolo», gli dissi. «Che cosa?» mi gridò Marino nell'orecchio. «Non tu. Un imbecille qui dietro.» «Meno male. Sai che gli automobilisti sono una delle categorie più irascibili in assoluto?» «Sì, lo so.» Uscii in Ninth Street e mi diressi verso l'istituto; chiamai Rose per avvertirla che stavo arrivando. Quando entrai nel parcheggio, Fielding mi aspettava con una valigetta rigida e la prolunga. «La Suburban non è ancora tornata?» domandai. «Macché», mi rispose caricando la roba nel portabagagli. «Chissà cosa diranno, vedendoti arrivare con questa. Mi immagino già la faccia dei portuali di fronte a una bella bionda su una Mercedes nera. Vuoi che ti presti la mia?» Il mio vice, appassionato culturista, si era consolato del proprio divorzio dando indietro la sua vecchia Mustang e prendendosi una Corvette rossa. «Non è una cattiva idea», replicai sarcastica. «Purché sia una otto cilindri.» «Ho capito, ho capito. Se hai bisogno, chiama. La strada la sai?» «Sì.» Andai in direzione sud fino quasi a Petersburg e quindi svoltai e passai dietro allo stabilimento della Philip Morris e oltre la ferrovia, dove una strada stretta mi condusse fra boschi e terreni abbandonati coperti di erbacce fino a una guardiola. Mi sembrava di essere al confine di una terra poco ospitale. Un po' più in là c'erano un deposito ferroviario e centinaia di container, arancioni in pile di tre o di quattro. Uscì una guardia che prendeva molto sul serio il proprio lavoro e io abbassai il finestrino. «Desidera?» mi chiese in tono militaresco.
«Sono Kay Scarpetta.» «Con chi ha appuntamento?» «Mi hanno chiamato perché c'è un morto», spiegai. «Sono il medico legale.» Gli mostrai il tesserino, che prese in mano e studiò attentamente. Avevo l'impressione che non sapesse che cosa fosse un medico legale e stesse per chiedermelo. «Lei è il capo dell'istituto?» mi disse restituendomi il portadocumenti nero. «Quale?» «L'Istituto di medicina legale della Virginia», spiegai. «La polizia mi sta aspettando.» Rientrò nella guardiola e prese in mano il telefono mentre io cominciavo a perdere la pazienza. Mi sembrava che ogni volta che dovevo entrare in un'area sorvegliata mi facessero delle storie. Un tempo pensavo che fosse perché ero una donna e forse allora era anche vero, almeno in parte. Ormai però il motivo principale era la paura di attentati, atti di violenza e azioni legali. La guardia prese nota del mio numero di targa e del modello della mia macchina. Poi mi porse un modulo da firmare e mi diede un pass, che non mi appuntai sulla giacca. «Vede quel pino laggiù?» mi chiese indicandomelo. «Ne vedo più di uno.» «Quello leggermente piegato. Quando è lì, giri a sinistra verso la riva del fiume», disse. «Buona giornata.» Proseguii e passai davanti a enormi veicoli parcheggiati un po' dappertutto e a una serie di costruzioni di mattoni rossi appartenenti alla Dogana e al Federal Marine Terminal. Il porto era formato da file e file di magazzini con container arancioni allineati lungo le banchine come animali all'abbeveratoio. Ormeggiate a una certa distanza dal molo c'erano due portacontainer, la Euroclip e la Sirius, lunghe quasi come un campo da football. Enormi gru erano posizionate sopra a portelloni aperti, grandi come piscine. Un container montato su uno chàssis era circondato dal nastro giallo. In giro non c'era nessuno. Non vidi traccia della polizia, a parte una Caprice azzurra e priva di contrassegni sul bordo dell'area di stazionamento. La persona alla guida stava parlando dal finestrino con un uomo in camicia bianca e cravatta. I lavori si erano interrotti e gli scaricatori, con il casco e il giubbotto, bevevano acqua minerale e fumavano con l'aria annoiata. Chiamai l'ufficio e parlai con Fielding.
«Quando hanno notificato la presenza del cadavere?» gli chiesi. «Aspetta che controllo.» Sentii frusciare delle carte. «Alle dieci e cinquantatré.» «Quando è stato ritrovato?» «Mah, non credo che la Anderson lo sapesse.» «E come faceva a non sapere una cosa del genere?» «Dev'essere nuova, te l'ho detto.» «Senti, qui non c'è un poliziotto in vista, a parte lei. O perlomeno, credo che sia lei. Che cosa ti ha detto quando ti ha telefonato?» «Che c'era un morto in avanzato stato di decomposizione ed era necessaria la tua presenza.» «La mia presenza?» «Be', di solito chiedono tutti di te: non c'è niente di strano. Però ha detto che Marino le aveva raccomandato di far intervenire te personalmente.» «Marino?» domandai sorpresa. «Marino le ha raccomandato di far intervenire me personalmente?» «Anch'io ho pensato che avesse una bella faccia tosta.» Mi venne in mente che Marino aveva detto che avrebbe «fatto un salto» sul luogo del delitto e mi innervosii. Possibile che avesse chiesto a una novellina di tirarmi in ballo pensando di venire poi a vedere come ce la cavavamo insieme? «Scusa, Jack, quand'è che gli hai parlato l'ultima volta?» gli chiesi. «Oh, qualche settimana fa. Mi sembrava piuttosto incavolato.» «Vedrai come mi incavolo io, se mai decide di farsi vivo», replicai. Sotto lo sguardo degli scaricatori, scesi dalla Mercedes e aprii il bagagliaio per prendere la valigetta, la tuta e le scarpe. Mi incamminai verso la macchina sentendomi i loro occhi addosso, sempre più irritata. L'uomo in camicia e cravatta aveva l'aria accaldata e infelice; alzò la testa per guardare i due elicotteri della televisione che sorvolavano lentamente il porto a poco più di cento metri di quota riparandosi gli occhi con una mano. «Maledetti giornalisti», borbottò voltandosi verso di me. «Sto cercando la persona responsabile delle indagini», dissi. «Sono io», mi rispose una voce femminile da dentro la Caprice. Mi chinai e vidi dal finestrino una giovane donna seduta al posto di guida. Era abbronzata, aveva i capelli castani corti e pettinati all'indietro con il gel, naso e mascella prominenti, sguardo duro. Indossava un paio di jeans scoloriti abbastanza larghi, scarponcini di pelle nera allacciati e maglietta
bianca. Aveva la pistola alla cintola e il distintivo appeso a una catenina intorno al collo. Teneva l'aria condizionata al massimo e l'autoradio accesa, con la musica che sovrastava le voci che uscivano dallo scanner. «Rene Anderson, suppongo», dissi. «Piacere di conoscerla. Lei dev'essere il famoso medico legale», replicò con l'arroganza tipica di chi non sa fare il proprio lavoro. «Piacere, Joe Shaw. Sono il direttore del porto», si presentò l'uomo. «Mi ha appena chiamato la guardia che l'ha fatta passare.» Doveva avere più o meno la mia età ed era biondo con gli occhi azzurri e il viso segnato di chi prende troppo sole. Gli lessi in faccia che detestava la Anderson e tutto quello che era successo quella giornata. «Ha qualcosa da dirmi, prima che cominci?» chiesi alla Anderson ad alta voce, per farmi sentire nonostante il rumore degli elicotteri. «Per esempio come mai non ci sono poliziotti in giro.» «Non ce n'è bisogno», rispose aprendo la portiera con un ginocchio. «Qui non si arriva tanto facilmente, come ha potuto constatare lei stessa.» Posai la valigetta di alluminio per terra. La Anderson mi si avvicinò e io mi sorpresi nel vedere quanto era bassa di statura. «Non c'è molto da dire», mi informò. «È tutto qui: un container con un cadavere in pessime condizioni dentro.» «Io credo che lei possa dirmi molto di più, invece», replicai. «Per esempio com'è stato scoperto il corpo è a che ora. Se lei l'ha visto, se qualcuno vi si è avvicinato, se ci sono state contaminazioni di sorta. E speriamo proprio che non ce ne siano state, perché altrimenti dovrà risponderne personalmente.» Rene Anderson scoppiò a ridere. Cominciai a infilarmi la tuta sopra ai vestiti. «Non si è avvicinato nessuno», mi rispose. «Nessuno si è offerto volontario.» «Non c'è bisogno di entrare nel container per capire cosa c'è dentro», spiegò Shaw. Mi cambiai le scarpe e mi misi il berretto. Mi accorsi che la Anderson guardava la Mercedes. «Forse dovrei mettermi a lavorare per lo stato anch'io», dichiarò. La squadrai da capo a piedi. «Le consiglio di coprirsi, prima di entrare», le dissi. «Devo fare un paio di telefonate», mi rispose incamminandosi nella direzione opposta.
«Detesto dire alfa gente come deve fare il suo lavoro», fece Shaw. «Ma mi piacerebbe sapere che cosa sta succedendo. Troviamo un cadavere e la polizia ci manda una così?» Aveva i denti stretti, era rosso in viso e sudava copiosamente. «Vede, qui se non si lavora non si fa un soldo», continuò. «E siamo già fermi da più di due ore e mezzo.» Si stava sforzando di non usare turpiloquio in mia presenza. «Per carità, mi dispiace che quel poveraccio sia morto», si contesse. «Ma vorrei anche che vi sbrigaste a fare quello che dovete fare e ci lasciaste lavorare.» Guardò il cielo, di malumore. «Giornalisti compresi.» «Signor Shaw, che cosa trasportava il container?» gli chiesi. «Attrezzature fotografiche prodotte in Germania. A proposito, tenga conto che i sigilli erano intatti e che quindi il carico non è stato toccato.» «È lo spedizioniere a mettere i sigilli alla partenza?» «Sì.» «Quindi quando sono stati messi l'uomo, vivo o morto che fosse, era già dentro?» «Sembrerebbe di sì. Il numero corrisponde a quello sulla bolla e non sembra che ci sia niente di anomalo. In realtà il container è stato sdoganato cinque giorni fa», mi rivelò. «Motivo per cui è sullo châssis. Poi però abbiamo sentito la puzza e l'abbiamo bloccato.» Mi guardai intorno. Le catene tintinnavano contro le gru che avevano scaricato travi di acciaio dai tre portelloni della Euroclip prima che i lavori si fermassero. Carrelli elevatori e camion dal cassone piatto erano lì, abbandonati, e scaricatori e marinai non avevano altro da fare che guardare noi. Alcuni ci scrutavano da diversi punti delle loro navi, mentre il calore si alzava dall'asfalto macchiato di olio e coperto di blocchi di legno, distanziatori e scivoli e un treno sferragliava oltre un passaggio a livello dietro i magazzini. L'odore di creosoto era forte, ma non riusciva a coprire il tanfo di carne putrefatta che si alzava nell'aria. «Da dove è partita la nave?» chiesi a Shaw, notando una macchina della polizia che si fermava accanto alla mia Mercedes. «Da Anversa, nel Belgio, due settimane fa», mi rispose guardando la Sirius e l'Euroclip. «Ormai le navi che arrivano qui battono tutte bandiera straniera. Le uniche bandiere americane che si vedono in giro sono quelle che fanno sventolare per cortesia», soggiunse un po' dispiaciuto. Vidi un uomo a bordo dell'Euroclip che ci guardava con il binocolo. Mi
colpì che avesse maniche e calzoni lunghi, nonostante facesse caldo. Shaw strizzò gli occhi. «Che sole!» «È possibile che fosse un clandestino?» domandai. «Per quanto mi riesce difficile pensare che qualcuno decida di stare chiuso in un container due settimane in alto mare.» «Non si è mai sentito.» Vidi Pete Marino che scendeva dalla macchina che si era appena fermata vicino alla mia e rimasi di stucco. «Siamo un porto piccolo», continuò Shaw. «L'anno scorso avremo movimentato centoventi fra navi e chiatte.» Marino faceva l'investigatore da che lo conoscevo. Non l'avevo mai visto in divisa. «Dovessi imbarcarmi clandestinamente o fossi un immigrato senza permesso, preferirei arrivare in un porto come Miami o Los Angeles, dove mi perderei nella confusione.» Rene Anderson ci stava venendo incontro masticando chewing-gum. «C'è anche da dire che non apriamo i sigilli a meno che non sospettiamo che dentro i container ci sia qualcosa di non dichiarato o di illegale, tipo della droga», spiegava Shaw. «Anche se ogni tanto prendiamo una nave a caso e controlliamo tutto il carico, perché la gente non si rilassi troppo.» «Fortuna che io la divisa non la devo più mettere» disse la Anderson guardando Marino che si avvicinava con l'andatura da pugile che adottava quando si sentiva insicuro e giù di corda. «Come mai Marino è in divisa?» le chiesi. «È stato retrocesso.» «Ho capito.» «Con l'arrivo del vicecomandante Bray, sono cambiate parecchie cose», mi spiegò orgogliosa. Non riuscivo a capacitarmi che avessero tolto dall'Investigativa un detective in gamba come Marino e mi chiesi quanto tempo prima fosse successo. Mi dispiaceva che non me ne avesse parlato e mi vergognavo perché erano passate settimane, forse un mese, dall'ultima volta che gli avevo telefonato. Non ricordavo di averlo invitato a prendere un caffè in ufficio o a mangiare da me. «Cosa succede?» chiese burbero, a mo' di saluto. Non degnò neppure di uno sguardo la Anderson. «Piacere, Joe Shaw. Come va?» «Male, grazie», replicò Marino acido. «Ha deciso di fare tutto da sola,
detective Anderson? O nessun poliziotto ha voluto avere a che fare con lei?» Rene Anderson lo fulminò con un'occhiata. Si tolse il chewing-gum dalla bocca e lo gettò, come se Marino le avesse rovinato il sapore. «O si è dimenticata di diramare gli inviti?» continuò imperterrito. «Cazzo!» esclamò furibondo. Boccheggiava, stretto in una camicia bianca a maniche corte abbottonata fino al collo e cravatta con l'automatico. Aveva l'enorme pancia che gli usciva dai pantaloni blu della divisa e dalla cintura d'ordinanza a cui erano appesi Sig-Sauer nove millimetri, manette, munizioni, spray urticante e tutto il resto. Era paonazzo e sudato, gli occhi nascosti da un paio di occhiali da sole Oakley. «Io e te dobbiamo parlare», gli dissi. Cercai invano di prenderlo da parte. Prese una Marlboro dall'immancabile pacchetto. «Ti piace il mio vestito nuovo?» mi chiese sardonico. «La Bray ha pensato bene di cambiarmi look.» «Marino, non abbiamo bisogno di lei», fece la Anderson. «E non credo lei voglia che si sappia in giro di questa sua iniziativa.» «Se non le dispiace, mi chiami capitano.» Soffiò fuori il fumo. «Stia attenta, signorina, perché sono di grado superiore al suo.» Shaw assisteva a quello scambio poco cortese senza dire una parola. «E lei non mi chiami signorina», replicò la Anderson. «Sentite, io devo esaminare il corpo», li interruppi. «Bisogna passare per il magazzino», mi spiegò Shaw. «Andiamo.» Ci accompagnò alla porta di un enorme magazzino che dava sul fiume. Era immerso nella penombra, senz'aria, e profumava di tabacco. Ce n'erano infatti migliaia di balle avvolte in tela da imballaggio e sistemate su dei pallet, insieme a tonnellate di minerali usati in siderurgia e a pezzi di macchinari in partenza per Trinidad, come dedussi leggendo sulle casse. Il container era più avanti, appoggiato a un piano di carico. Quanto più ci avvicinavamo, tanto più forte era l'odore. Ci fermammo davanti al nastro giallo che chiudeva la porta aperta del container. Il tanfo era potente e sembrava quasi avesse preso il posto di tutte le molecole di ossigeno; mi sforzai di non sentirlo. Avevano incominciato a raccogliersi le mosche, il cui ronzio mi fece venire in mente il rumore di un aeroplanino telecomandato.
«C'erano mosche anche quando lo avete aperto?» chiesi a Shaw. «Non così tante», mi rispose. «Quanto si è avvicinato?» gli domandai, mentre Marino e la Anderson ci raggiungevano. «Non molto.» «Non è ancora entrato nessuno?» chiesi per sicurezza. «Questo glielo garantisco.» Era evidentemente schifato. Marino, invece, restò imperturbabile. Si prese un'altra sigaretta e se l'accese borbottando. «Allora, detective Anderson», disse. «Per quanto ne sa lei, potrebbe anche esserci una vacca, in quel container, visto che non ha controllato. O magari un bel cagnone che è rimasto chiuso dentro per caso. Sarebbe imbarazzante aver fatto venire qui il medico legale e i giornalisti per poi scoprire che a marcire là dentro era una povera bestia, le pare?» Sapevamo benissimo sia lui sia io che dentro quel container non c'era né una vacca né un cane né un'altra povera bestia. Aprii la valigetta mentre Marino e la Anderson continuavano a battibeccare. Posai la chiave della macchina e mi infilai un certo numero di guanti di gomma e una mascherina da chirurgo. Misi il flash e l'obiettivo da 28 mm alla mia Nikon e la caricai con un rullino da 400 ASA, in maniera che le foto non risultassero a grana troppo grossa. Quindi mi infilai i copriscarpe sterili. «E come quando viene cattivo odore da una casa a metà luglio. Sbirciamo dentro e, se necessario, entriamo dalla finestra. Prima di chiamare il medico legale, però, ci accertiamo che il morto sia un essere umano», continuava Marino. Mi chinai per passare sotto il nastro giallo ed entrai nel container buio, sollevata nel vedere che era pieno solo a metà di cartoni bianchi e ben sistemati e che c'era spazio per muoversi. Mi addentrai con una torcia, spostando il fascio di luce da una parte all'altra. Verso il fondo illuminai una fila di cartoni zuppi del liquido rossastro che fuoriesce dal naso e dalla bocca dei cadaveri in decomposizione. Puntai il fascio di luce sulle scarpe e sulle gambe del morto e a un certo punto scorsi un volto tumefatto e barbuto; gli occhi biancastri erano fissi nel vuoto e la lingua era talmente gonfia che usciva dalla bocca come in una boccaccia. A ogni passo, le mie scarpe sciaguattavano. Era vestito e seduto in un angolo, appoggiato contro i rinforzi sulle pareti di metallo, le gambe tese, le mani in grembo sotto un cartone che gli era evidentemente caduto addosso. Lo spostai per controllare se vi fossero fe-
rite, abrasioni o unghie rotte che indicassero che aveva cercato di difendersi o di liberarsi. Non vidi né sangue sui vestiti, né lesioni che facessero pensare a una colluttazione. Guardai se ci fosse in giro qualcosa da mangiare o da bere, provviste o buchi praticati nel container per far circolare l'aria, ma non trovai assolutamente niente. Passai fra le varie file di scatoloni allicciandomi per controllare se sul pavimento di metallo c'erano impronte. Naturalmente ce n'erano ovunque. Mi spostai un passo alla volta, con le ginocchia che mi facevano male. Trovai un cestino per la spazzatura di plastica, vuoto. Poi scovai due monetine argentate e mi chinai a guardarle da vicino. Una era un marco tedesco. L'altra non la conoscevo. Non toccai nulla. Marino, sulla porta del container, sembrava a un miglio di distanza. «La chiave della macchina è nella valigetta», gli gridai attraverso la mascherina. «Cosa vuoi?» mi chiese sbirciando dentro. «Mi vai a prendere il Luma-Lite? Mi servono anche fibre ottiche e prolunga. Chiedi al signor Shaw dove mi posso attaccare. Mi ci vuole una presa da circa 150 V, con la terra.» «Mi piaci quando parli così», rispose. 4 Il Luma-Lite è una sorgente luminosa costituita da un tubo ad arco che emette quindici watt di bassa energia a 450 nanometri con un'ampiezza ai banda di venti nanometri, in grado di rilevare fluidi corporei come sangue e liquido seminale, ma anche impronte, capelli, fibre, tracce di sostanze stupefacenti e altre sorprese inaspettate e invisibili all'occhio umano. Shaw trovò una presa nel magazzino e io coprii i piedini di alluminio dell'apparecchio con le apposite protezioni di plastica per evitare il trasferimento di corpuscoli da un luogo all'altro. Misi il Luma-Lite, che assomiglia a un proiettore per diapositive, su un cartone all'interno del container e feci andare la ventola un minuto prima di accenderlo. Mentre aspettavo che la lampada si scaldasse, apparve Marino con gli occhiali scuri necessari per proteggere gli occhi dalla forte luce. Le mosche, sempre più numerose, ci ronzavano rumorosamente intorno. «Quanto le odio!» esclamò Marino cercando di scacciarle. Notai che non si era messo la tuta, ma solo i copriscarpe e i guanti. «Non salirai in macchina così?» gli dissi.
«Ho un'altra divisa nel bagagliaio, nel caso mi si rovesci addosso qualcosa.» «Nel caso ti rovesci addosso qualcosa tu», replicai guardando l'ora. «Ancora un minuto.» «Hai visto che la Anderson è sparita al momento giusto? Ci avrei giurato, che qui dentro entravamo solo io e te. Cazzo, è incredibile.» «Ma come ha fatto a entrare nell'Investigativa?» «Leccando il culo alla Bray. Dicono che le faccia da portaborse, che le porti a lavare la sua lussuosa Crown Vic nera nuova di zecca. Non mi stupirei che le facesse anche la punta alla matita e le lucidasse le scarpe.» «Siamo pronti», dissi. Cominciai a controllare la scena con un filtro da 450 nanometri in grado di rilevare una vasta gamma di residui e macchie. Attraverso le lenti scure, l'interno del container divenne uno spazio di un buio impenetrabile disseminato qua e là di forme fluorescenti in diverse sfumature di bianco e di giallo, a seconda di dove puntavo l'obiettivo. La luce azzurrognola metteva in evidenza capelli per terra e fibre dappertutto, come era prevedibile in un luogo di passaggio usato per caricare e scaricare materiale. Le scatole di cartone emanavano un bagliore di un bianco lunare. Spostai il Luma-Lite più all'interno. Poiché i liquidi che fuoriescono dai cadaveri non diventavano fluorescenti alla luce del Luma-Lite, il cadavere nell'angolo era una sagoma scura. «Se è morto di morte naturale, perché è seduto così con le mani in grembo, manco fosse in chiesa?» domandò Marino. «Se fosse morto per soffocamento o disidratazione, è possibile che fosse seduto.» «A me sembra strano.» «Sto solo dicendo che è possibile. Senti, qui non ci si muove: mi passeresti le fibre ottiche, per favore?» Venne verso di me sbattendo contro uno scatolone. «Perché non ti togli un attimo gli occhiali?» gli suggerii, visto che le lenti scure permettevano di vedere soltanto la luce ad alta energia che in quel momento era fuori della sua visuale. «Non ci penso nemmeno», ribatté lui. «Ho sentito che basta guardarla un attimo e sei fritto: cataratta, cancro... ti viene di tutto.» «Sì, diventi una statua di pietra.» «Cosa?» «Marino, stai un po' attento!»
Mi urtò, inciampò e, non so come, fece cadere una serie di scatoloni rischiando di travolgermi. «Marino?» Ero disorientata e spaventata. «Marino!» Spensi il Luma-Lite e mi tolsi gli occhiali per vedere dov'era. «Aiuto!» urlò, come se l'avesse appena morso un serpente. Era lungo disteso per terra e scalciava per togliersi dai piedi una serie di scatole di cartone. Il cestino di plastica volò per aria. Mi avvicinai. «Stai fermo», gli ordinai. «Non ti agitare. Vediamo cosa ti sei fatto.» «O Cristo! O merda! Ci sono finito dentro!» gridò, preso dal panico. «Ti sei fatto male?» «Adesso vomito. O Gesù, Gesù.» Si alzò in piedi di scatto e corse verso l'ingresso del container prendendo a calci tutto quello che incontrava sul suo cammino. Lo sentii dare di stomaco, gemere e poi vomitare di nuovo. «Vedrai che adesso stai meglio», gli dissi. Ansimando, si strappò di dosso la camicia bianca della divisa, la appallottolò e la gettò di fuori. «E se aveva l'AIDS?» gridò con voce stridula. «Da lui, l'AIDS non te lo prendi», replicai. «O, cazzo!» imprecò, di nuovo in preda ai conati di vomito. «Finisco io», gli dissi. «Ti raggiungo fra un attimo.» «Perché non vai a cercare una doccia?» «Non dirlo a nessuno, mi raccomando.» Capii che si stava riferendo alla Anderson. «Secondo me, con queste macchine fotografiche puoi fare dei buoni affari.» «Può darsi.» «Chissà che cosa ne faranno.» «Non è ancora arrivato il furgone?» Si avvicinò al viso la radio portatile. «Cristo santo!» urlò, sputando. Si pulì la radio nei pantaloni, tossendo e scatarrando. «Unità nove», disse tenendo la radio a una certa distanza dal viso. «Unità nove.» L'operatrice era una donna che, con mia grande sorpresa, aveva una voce calda. Di solito operatori e centralinisti rimanevano freddi e impassibili di fronte a qualsiasi emergenza. «Dieci-cinque Rene Anderson», disse Marino. «Non conosco il numero
di unità. Le dica di mandarci qui quelli del servizio trasporti, se non è troppo disturbo.» «Unità nove, mi dica il nome.» «Capo?» mi chiamò Marino interrompendo un istante la conversazione. «Come si chiama il servizio trasporti?» «Capital Transport.» Lo riferì alla centralinista e aggiunse: «In caso sia dieci-due, dieci-dieci o dieci-sette, o se dobbiamo dieci-ventidue, me lo faccia sapere». Alcuni colleghi intervennero ridendo per fargli gli auguri. L'operatrice radio disse: «Dieci-quattro, unità nove». «Che cosa le hai detto per meritarti una simile ovazione? So che diecisette vuol dire non operativo, ma tutto il resto non l'ho capito.» «Le ho detto di farmi sapere se la Anderson riceveva male o non riceveva, se aveva intenzione di occuparsi della cosa o se non dovevamo nemmeno prenderla in considerazione.» «Adesso capisco come mai le stai tanto antipatico.» «È un pezzo di merda.» «Sai mica dov'è finito il cavo a fibre ottiche?» gli chiesi. «Ce l'avevo in mano.» Andai a cercare nel punto in cui Marino era caduto e lo trovai. «E se aveva l'AIDS?» ricominciò. «Se proprio ti vuoi preoccupare, preoccupati di batteri gram negativi o gram positivi, clostridio, streptococco... Sempre che tu abbia qualche ferita aperta, cosa che non credo.» Fissai un'estremità del cavo alla torcia a fibre ottiche e l'altra all'unità centrale stringendo le viti. Marino non mi ascoltava. «Non voglio mica che pensino che sono una checca! Cazzo, piuttosto mi sparo in bocca, mi sparo!» «L'AIDS non te lo prendi, Marino», ribadii. A quel punto dovevo aspettare almeno quattro minuti prima di premere l'interruttore di accensione. «Ieri mi sono tolto una pellicina e mi sono fatto uscire il sangue... È una ferita aperta!» «Hai i guanti, no?» «Se mi piglio una brutta malattia, la ammazzo, quella stronza!» Immaginai che si riferisse alla Anderson. «Anche la Bray farà una brutta fine, vedrai!» «Marino, calmati.»
«Che cosa faresti se fosse capitato a te?» «Sapessi quante volte mi è capitato... Guarda che queste cose io le faccio quotidianamente.» «Mica ti impiastricci sempre di merda di cadavere!» «Merda di cadavere?» «Non sappiamo niente di quest'uomo. Magari in Belgio hanno delle malattie rare che qui non sappiamo curare.» «Stai calmo», ripetei. «No!» «Marino...?» «Ho tutti i diritti di essere agitato!» «Va bene, allora esci.» Avevo perso la pazienza. «Mi deconcentri, non mi lasci lavorare. Vatti a fare una doccia e beviti un cicchetto.» Il Luma-Lite era pronto. Mi misi gli occhiali scuri. Marino taceva. «No, non me ne vado», decretò alla fine. Impugnai la torcia a fibre ottiche. L'intensa luce azzurra pulsava, sottile come la mina di una matita; cominciai a controllare in un'area più ristretta. «Trovato niente?» mi chiese Marino. «Finora no.» Sentii i suoi passi nel liquido appiccicaticcio e continuai a esaminare lentamente i posti dove non ero riuscita a controllare prima. Spostai il corpo in avanti per guardare dietro la testa e la schiena e quindi in mezzo alle gambe. Controllai anche i palmi delle mani. Il Luma-Lite metteva in evidenza urina, liquido seminale, sudore e saliva, oltre naturalmente al sangue. Ma non c'era niente. Avevo male alla schiena e al collo. «Scommettiamo che era già morto quando l'hanno infilato qua dentro?» disse Marino. «Ne sapremo di più dopo l'autopsia.» Mi rialzai e puntai inavvertitamente il fascio luminoso sull'angolo di una scatola di cartone che Marino aveva fatto cadere quando era inciampato poco prima. Mi parve di vedere una lettera Y brillare di luce verdastra nell'oscurità. «Marino», dissi. «Guarda qua.» Illuminai una serie di parole scritte a mano, in francese. Erano alte più o meno dieci centimetri e avevano una strana forma squadrata, come se fossero state scritte da un braccio meccanico. Mi ci volle un momento per capire. «Bon voyage, le loup-garou», lessi.
Marino mi era venuto vicino: lo sentivo respirare alle mie spalle. «Cosa diavolo è un loup-garou?» «Non lo so.» Guardai attentamente lo scatolone. In cima era bagnato, in fondo asciutto. «Impronte? Ne vedi sulla scatola?» domandò Marino. «Sono sicura che ci sono impronte dappertutto», risposi. «Però non vengono fuori.» «Pensi che chi l'ha scritto voleva che lo trovassimo?» «È probabile. È inchiostro indelebile che diventa fluorescente. Vedremo se i tecnici rileveranno qualche impronta. Bisogna mandare la scatola al laboratorio e prendere i capelli dal fondo del container per l'esame del DNA, nel caso. Dopo facciamo qualche foto e ce ne andiamo.» «Già che ci sono, piglio le monete», disse. «Okay», replicai, guardando verso l'ingresso del container. C'era qualcuno che stava sbirciando dentro. La sua sagoma risaltava controluce e non riuscivo a capire chi fosse. «Dove sono i tecnici della Scientifica?» chiesi a Marino. «Non ne ho la più pallida idea.» «Come si fa a lavorare in questo modo?» esclamai. «A me lo dici?» fece Marino. «La settimana scorsa ci sono stati due omicidi, ma non è mica andata così.» «Che cosa ne sai tu che non c'eri?» ribatté lui. Aveva ragione. «Non c'ero io, ma qualcuno dell'Istituto di medicina legale è venuto. Se ci fosse stato qualche problema me lo avrebbero...» «Invece no», mi interruppe. «A meno che non fosse evidente. E non lo sarà stato, visto che il primo caso che segue la Anderson è questo. E infatti adesso è evidente.» «Che cosa?» «La nostra eccezionale investigatrice è appena arrivata. Mi viene il dubbio che abbia messo lei un cadavere in un container, tanto per avere qualcosa da fare.» «Dice che sei stato tu a dirle di chiamarmi.» «Sì. Così mi fa fare la figura di quello che non ha voglia di andare e fa muovere gli altri e già che c'è ti mette contro di me. È una bugiarda.» Finimmo un'ora più tardi e lasciammo l'oscurità maleodorante del container per tornare nel magazzino. Rene Anderson era fuori a parlare con Al
Carson, responsabile dell'Investigativa. Capii che era lui che avevo visto prima sulla porta del container. Lo salutai e passai davanti a lei senza degnarla di uno sguardo; volevo controllare se il servizio trasporti era arrivato. Con un certo sollievo vidi due uomini in tuta da lavoro vicino a un furgone blu. Stavano parlando con Shaw. «Come va?» chiesi a Carson. Lo conoscevo da tanto tempo: era un uomo mite e tranquillo, che era cresciuto in campagna. «Tiriamo avanti», rispose. «Ci è capitata una bella gatta da pelare, eh?» «Già.» «Ero fuori e ho pensato di fare un salto a controllare che non ci fossero problemi.» Carson non era tipo da fare un salto a controllare. Era teso e aveva l'aria infelice, ma soprattutto non dava più retta di noi alla Anderson. «Nessun problema», si intromise la Anderson, inopportuna. «Ho parlato con il direttore del porto e...» Lasciò la frase a metà, vedendo Marino. O forse prima di vederlo ne sentì l'odore. «Ciao, Pete», lo salutò affettuosamente Carson. «Che cosa mi dici? Abbiamo cambiato la divisa e io non ne so niente?» «Detective Anderson», dissi, mentre lei indietreggiava prendendo le distanze da Marino. «Ho bisogno di sapere chi segue le indagini e dove sono i tecnici della Scientifica. A proposito, come mai il servizio trasporti ci ha messo tanto ad arrivare?» «Macché. È che per lavorare sotto copertura ci togliamo i vestiti», replicò Marino ad alta voce. Carson scoppiò a ridere. «E come mai non è venuta a raccogliere indizi e a darci una mano, detective?» continuai. «Non devo rispondere a lei del mio operato», replicò la Anderson con un'alzata di spalle. «Invece è proprio a me che deve rispondere del suo operato, quando c'è di mezzo un cadavere», ribattei con un tono che la fece irrigidire. «...scommetto che la Bray ha lavorato spesso sotto copertura, per fare la carriera che ha fatto. È una a cui piace stare sopra, secondo me», osservò Marino con una strizzata d'occhi. Carson assunse di nuovo un'espressione infelice. Aveva l'aria stanca di chi ne ha viste troppe, nella vita.
«Al?» chiese Marino tornando serio. «Cosa cazzo succede? Com'è che non si è fatto vivo nessuno?» Una Crown Victoria splendente si stava avvicinando al parcheggio. «Io devo andare», si congedò improvvisamente Carson. «Ci vediamo in mensa. Tocca a te offrire da bere, stavolta. Ti ricordi che il Louisville ha vinto contro il Charlotte e tu hai perso la scommessa?» Carson se ne andò senza salutare la Anderson, perché era chiaro che non aveva alcun potere su di lei. «Scusi?» disse Marino andandole vicino. Rene Anderson fece un salto e si tappò il naso e la bocca. «Le piace lavorare per Carson? È simpatico, vero?» disse. La Anderson arretrò, ma lui non si lasciò scoraggiare. Puzzava talmente, con i pantaloni, i guanti e i copriscarpe luridi, che dava fastidio anche a me. Aveva la canottiera ingiallita e talmente logora che aveva i buchi sulla pancia. Le andò così vicino che pensai che stesse per baciarla. «Che puzza!» esclamò lei, cercando di allontanarsi. «Succede, quando si fanno certi lavori.» «Mi stia lontano!» Marino non ci pensava nemmeno. Rene Anderson si spostava, ma lui le impediva di allontanarsi e alla fine la bloccò contro una serie di sacchi di carbone destinati alle Indie Occidentali. «Ma chi si crede di essere?» le chiese minaccioso. «Troviamo un cadavere in un container in un porto internazionale in cui la metà della gente non parla manco inglese e lei pensa di poter gestire tutto da sola?» Nel parcheggio si sentì un rumore di ruote sulla ghiaia: la Crown Victoria si stava avvicinando velocemente. «La signorina ottiene il suo primo caso e chiama il capo dell'Istituto di medicina legale e gli elicotteri della stampa?» «Io la denuncio alla commissione interna!» gridò la Anderson. «Gliela faccio pagare!» «Che cosa mi fa pagare? Il fatto che puzzo?» «Io la rovino!» «No, è quello che è rovinato», fece Marino indicando il container. «Ma anche lei, sa, se mai la chiameranno a testimoniare in tribunale.» «Su, Marino», dissi, mentre la Crown Victoria arrivava sfacciatamente fin sul molo, dove l'accesso era riservato solo ai mezzi autorizzati. «Scusi!» esclamò Shaw gesticolando. «Non può venire qui con la macchina!»
«Lei è un povero fallito, un vecchio rincoglionito che ha fatto il suo tempo!» gridò la Anderson a Marino prima di allontanarsi di corsa. Marino si tolse velocemente i guanti e i copriscarpe, prese in mano la camicia della divisa per il cravattino, che scivolò via, e buttò tutto per terra. Io li raccolsi senza dire niente e li misi in un sacco rosso per i rifiuti a rischio biologico. «Hai finito?» gli chiesi. «Non ho nemmeno ancora cominciato», replicò fissando la Crown Victoria, da cui stava scendendo un agente in divisa. La Anderson si avviò verso la macchina, seguita da Shaw, mentre dal sedile posteriore scendeva una donna in divisa. Era bellissima. Si lanciò un'occhiata intorno, sotto lo sguardo attento dei portuali. Qualcuno fischiò, qualcun altro lo imitò e in breve il molo diventò come uno stadio dopo che l'arbitro ha assegnato un rigore. «Tiro a indovinare», dissi a Marino. «Diane Bray?» 5 Il ronzio degli insetti e delle mosche sembrava crescere d'intensità a mano a mano che il tempo passava e la giornata si faceva più calda. Quelli del servizio trasporti avevano portato la barella nel magazzino e stavano aspettando me. «Accipicchia!» esclamò uno di loro scuotendo la testa e arricciando il naso. «Lo so», dissi infilandomi un paio di guanti e copriscarpe puliti. «Vado prima io. Non ci vorrà molto, ve lo prometto.» «Si accomodi, se vuole andare prima lei.» Mi seguirono nel container, attenti a dove mettevano i piedi, tenendo la barella sui fianchi come una portantina. Sentii che respiravano affannosamente dietro le mascherine. Avevano una certa età, erano sovrappeso e non avrebbero dovuto sollevare carichi pesanti. «Prendetelo per i polpacci e per i piedi», raccomandai. «Fate molta attenzione perché la pelle scivola e viene via. Cerchiamo di tirarlo su per i vestiti.» Posarono la barella e si chinarono. «Accipicchia», borbottò di nuovo uno di loro. Infilai le braccia sotto le ascelle del cadavere, mentre loro lo prendevano per le caviglie.
«Okay, al mio tre», dissi. «Uno, due, tre.» Indietreggiarono sbuffando, facendo fatica a non perdere l'equilibrio. Il corpo era molle, perché il rigor mortis era già passato. Lo posammo sulla barella e lo avvolgemmo in un lenzuolo, poi chiusi il sacco mortuario e lasciai che i due uomini lo portassero via per caricarlo sul furgone e consegnarmelo all'obitorio, dove avrei cercato di farmi dire qualcosa da lui. «Dannazione!» li sentii protestare. «Per farti fare dei lavori così dovrebbero pagarti molto di più.» «Sono pienamente d'accordo.» Li seguii fuori del magazzino, dove il sole era abbagliante e l'aria limpida. Marino, ancora in canottiera, parlava con Rene Anderson e Diane Bray sul molo. Dal suo atteggiamento capii che la presenza della Bray lo frenava un po'. Il vicecomandante vide che mi stavo avvicinando, ma non si presentò. «Sono la dottoressa Scarpetta», dissi allora io, senza accennare a stringerle la mano. Mi restituì il saluto in maniera un po' vaga, come se non sapesse chi fossi o perché fossi lì. «Penso che dovremmo parlare, io e lei», osservai. «Scusi, chi ha detto che è?» mi domandò. «Per l'amor del cielo!» sbottò Marino. «Lo sa benissimo, chi sei.» «Capitano», disse la Bray con un tono che ebbe l'effetto di un colpo di frusta. Marino si zittì. La Anderson non disse una parola. «Sono il capo dell'Istituto di medicina legale», risposi, anche se la Bray lo sapeva già. «Kay Scarpetta.» Marino alzò gli occhi al cielo. La Bray mi prese da parte e la Anderson mi guardò con invidia e astio. Andammo sul bordo del molo, dove la Sirius che ci torreggiava davanti si muoveva appena nell'acqua torbida e azzurra del fiume James. «Scusi se non l'ho riconosciuta», esordì. Non dissi niente. «Sono stata scortese», continuò. Io rimasi in silenzio. «Avrei dovuto mettermi in contatto con lei prima, ma sono stata molto occupata. Be', sono lieta di conoscerla, davvero. Si può dire che il tempismo sia perfetto», aggiunse con un sorriso. Diane Bray era di una bellezza superba: capelli neri, lineamenti perfetti,
fisico statuario. I portuali non le staccavano gli occhi di dosso. «Vede», proseguì con lo stesso tono freddo, «ho un piccolo problema. Il capitano Marino è un mio sottoposto, ma si comporta come se lavorasse per lei.» «Non mi pare.» Era la prima cosa che dicevo. Sospirò. «Lei ha appena privato questa città dell'investigatore più esperto e capace che si sia mai visto, comandante Bray», soggiunsi. «Lo dico a ragion veduta, dato che collaboro con lui da anni.» «Lo so.» «Perché lo ha fatto?» domandai. «È venuto il momento di dare spazio a investigatori più giovani, capaci di usare computer e posta elettronica... Lei sa che Marino non conosce l'utilità dei word processor e batte i rapporti a macchina con due dita?» Certo che lo sapevo... «Per non parlare del fatto che è ribelle e indisciplinato: il suo comportamento è una vergogna per il dipartimento», continuò. Rene Anderson aveva lasciato Marino da solo. Era vicino alla macchina e fumava. Gli vidi le braccia e le spalle pelose, la pancia che gli usciva dai pantaloni con il cavallo troppo basso e capii che era mortificato perché era voltato dall'altra parte. «Perché i tecnici della Scientifica non sono qui?» domandai. Un portuale diede una gomitata a un collega e si mise le mani sul petto per esprimere la propria ammirazione per il seno prosperoso della Bray. «Perché ha deciso di venire lei?» chiesi. «Perché ho saputo che c'era Marino», mi rispose. «Nonostante l'avessi avvisato di non farlo. Volevo cercare di capire come mai è tanto irrispettoso.» «È intervenuto perché bisognava che qualcuno intervenisse.» «No, perché gli andava di farlo.» Mi fissò. «E perché c'era lei. È questo il motivo vero, io credo. Marino è il suo detective personale, vero, dottoressa Scarpetta? Lo è da anni.» Il suo sguardo mi scrutò nell'animo, penetrando in luoghi intimi e sacri, sondandone i segreti e le difese. Poi mi squadrò e non capii se stesse valutando se valevo più o meno di lei o se le andavo a genio. «Lo lasci in pace», le dissi. «Così lo annienta. È questo che vuole? Visto che non può controllarlo, preferisce distruggerlo?» «Marino è incontrollabile», replicò. «Per questo è stato affidato a me.»
«È stato affidato a lei?» «Rene Anderson è appena arrivata. E Dio solo sa quanto bisogno abbiamo di gente nuova.» «Rene Anderson è incapace, inesperta e codarda», replicai. «Visto che lei invece ha esperienza da vendere, cara Kay, non potrebbe essere più tollerante e starle un po' dietro?» «Non serve stare dietro a chi non ha voglia di imparare.» «Ho la sensazione che lei dia ascolto a Marino: secondo lui sono tutti incapaci, inesperti e svogliati.» Non ne potevo più. Mi spostai in maniera da avere il vento a favore e mi avvicinai a lei per darle un piccolo assaggio di realtà. «Non ammetto di essere trattata in questo modo», dissi. «Non ammetto che convochiate me o uno del mio staff per affiancarci un'idiota che non è in grado nemmeno di raccogliere gli indizi più semplici. E non mi chiami cara Kay.» Fece un passo indietro, ma non riuscì a evitare di arricciare il naso per l'odore che emanavo. «La inviterò a pranzo, uno di questi giorni», mi disse facendo segno al suo autista. «Simmons? A che ora è il mio prossimo appuntamento?» domandò guardando la nave, compiaciuta dell'attenzione che riceveva. Aveva un modo molto sexy di massaggiarsi la schiena, di infilare le mani nella tasca posteriore dei calzoni della divisa con le spalle all'indietro e di aggiustarsi la cravatta sul seno procace. Simmons era un bell'uomo, dal fisico prestante. Tirò fuori un foglio di carta, lo scosse per aprirlo e lo lesse. Quando la Bray gli si avvicinò, si schiarì la voce. «Alle quattordici e quindici», rispose. «Fammi vedere.» Gli si avvicinò, sfiorandogli il braccio e leggendo con calma. Poi protestò: «Oh, no! Di nuovo quell'idiota del consiglio d'istituto!». L'agente Simmons si spostò leggermente, mentre una goccia di sudore gli scendeva dalla tempia. Aveva l'aria terrorizzata. «Lo chiami e annulli l'appuntamento», gli ordinò la Bray. «Sì, comandante.» «Oppure no, lo rimandi.» Gli prese di mano il foglio, strusciandogli contro come una gatta e io rimasi esterrefatta nel vedere la reazione rabbiosa della Anderson. Mentre
andavo verso la macchina, Marino mi raggiunse. «Hai notato come civetta?» mi chiese. «Non si può non notarlo.» «Ne parlano tutti. Te lo dico io: quella è una vipera.» «Ma che cosa fa, nella vita?» Marino si strinse nelle spalle. «Non è mai stata sposata: pare che non le vada mai bene nessuno. Si dice che scopi in giro, con uomini sposati e potenti. A quella interessa solo il potere. Mi è giunta voce che voglia diventare segretario della sicurezza nazionale, così tutti i poliziotti del Commonwealth dovranno leccarle il culo.» «Non ce la farà mai.» «Non ne sarei tanto sicuro. Pare che abbia amicizie altolocate e forti legami in Virginia, ragione per cui ce la siamo ritrovata qui. Quella mira in alto, su questo non ci sono dubbi. Le vipere come lei mirano sempre in alto.» Aprii il bagagliaio, esausta e depressa. Il trauma di quella mattina mi colpì di nuovo con una forza che mi fece mancare le gambe. «Non gli farai l'autopsia stasera, vero?» mi domandò Marino. «No», borbottai. «Non sarebbe giusto.» Marino mi guardò senza capire. Mi tolsi la tuta e le scarpe e le infilai in due sacchi della spazzatura, sentendomi i suoi occhi addosso. «Mi dai una sigaretta, per favore?» gli chiesi. «Non posso credere che tu abbia ripreso a fumare.» «C'erano cinquanta milioni di tonnellate di tabacco in quel magazzino. Il profumo mi ha fatto tornare la voglia.» «Quello che ho sentito io non era per niente un profumo.» «Aggiornami sulla situazione», dissi prendendo il suo accendino. «Hai visto anche tu come vanno le cose. E sono sicuro che te l'avrà spiegato pure lei.» «Sì, ma non ho capito. Non è mica responsabile dell'Investigativa, no? Dice che sei incontrollabile e che ha dovuto farsi carico del problema. Ma perché? Non eri nemmeno nella sua divisione... Che cosa gliene importa di te?» «Chissà, magari le piaccio.» «Sarà.» Marino soffiò fuori il fumo come per spegnere le candeline su una torta, poi si guardò la canottiera come se si fosse dimenticato di averla. Aveva le mani grosse e callose ancora sporche di talco e un'espressione triste e
sconsolata, che però scomparve subito dietro la consueta maschera di cinismo e indifferenza. «Sai che posso andare in pensione quando voglio, con quarantamila dollari l'anno?» «Vieni a cena da me stasera?» «Con qualche lavoretto extra ogni tanto, potrei vivere comodamente. Basta spalar merda giorno dopo giorno in mezzo a questi parassiti che credono di sapere tutto loro!» «Mi hanno chiesto di invitarti.» «Chi?» domandò sospettoso. «Te lo dico quando vieni.» «Cosa mi nascondi?» fece accigliato. «Santo cielo, Marino, vatti a fare una doccia, cambiati e vieni a casa mia. Per le sei e mezzo.» «Nel caso tu non te ne sia accorta, capo, io lavoro. Questa settimana sono di servizio dalle tre alle undici. La prossima dalle undici alle sette. Mi hanno nominato coordinatore delle pattuglie. E quando serve il coordinatore? Quando non sono di servizio i capipattuglia, ovvero di sera, di notte e alle feste comandate. Questo vuol dire che d'ora in poi io ceno in macchina.» «Non hai la radio?» chiesi. «Io abito in città: sono all'interno della tua giurisdizione, no? Tu vieni; se poi ti chiamano, te ne vai.» Salii in macchina e misi in moto. «Non so», mi fece. «Ci teneva tanto...» cominciai, ma mi vennero le lacrime agli occhi. «Stavo per chiamarti quando mi hai chiamato tu.» «Non capisco un corno. Chi è che ci teneva? Chi t'ha detto di invitarmi? C'è Lucy?» Sembrava compiaciuto che Lucy avesse pensato a lui, come se della mia ospitalità non gliene importasse molto. «Vorrei tanto che ci fosse. Allora, ci vediamo alle sei e mezzo?» Non mi rispose subito e scacciò uno sciame di mosche. Puzzava in maniera insopportabile. «Marino, per me è molto importante», gli dissi schiarendomi la voce. «È una faccenda personale che mi sta molto a cuore.» Mi fu difficile dirglielo: non credevo di avergli mai detto di aver bisogno di lui per qualcosa di personale. Ma non l'avevo mai detto a nessuno, a parte Benton.
«Sul serio», aggiunsi. Marino schiacciò la sigaretta sotto la suola della scarpa fino a polverizzarla. Poi se ne accese un'altra, guardandosi intorno. «Sai, capo, mi sa che devo smettere sia con queste sia con il Wild Turkey. Ultimamente ho fumato e bevuto troppo. Che cosa mi prepari di buono?» 6 Marino andò a farsi una doccia e io mi sentii più leggera, come se mi fosse temporaneamente passato un terribile spasmo. Fermai la macchina davanti a casa mia, presi i sacchetti con i vestiti dal bagagliaio e diedi inizio al rito della disinfezione. Dentro il garage aprii i sacchi e li infilai insieme con le scarpe nel lavandino pieno di acqua bollente, con un po' di detersivo e candeggina, e misi la tuta nella lavatrice. Rimestai i sacchetti e le scarpe con un lungo cucchiaio di legno e li risciacquai. Poi misi i sacchetti disinfettati in due borse pulite per gettarli via e posai le scarpe grondanti acqua ad asciugare su una mensola. Tutto quello che avevo indosso, dai jeans alla biancheria, andò nella lavatrice. Caricai detersivo e candeggina e corsi nuda in casa a buttarmi sotto la doccia, dove mi sfregai tutto il corpo con il Phisioderm, orecchie e naso compresi, facendo attenzione a pulirmi bene sotto le unghie. Da ultimo mi lavai i denti. Mi lasciai scorrere l'acqua sulla schiena e sulla testa, ricordando il tocco delle dita di Benton sul collo e sulle spalle. Mi massaggiava spesso, per sciogliere la tensione dei muscoli. Mi sentivo come se mi avessero amputato un arto: ricordare quel che provavo insieme con lui era come riviverlo in quel momento. Mi chiesi quanto mi ci sarebbe voluto per ricominciare a vivere nel presente, anziché crogiolarmi nel passato. Il dolore non voleva placarsi e io non facevo nulla per superarlo, perché elaborarlo avrebbe voluto dire accettarlo. Del resto, alle famiglie e agli amici che piangevano i loro cari all'obitorio raccomandavo sempre di non dimenticare. Mi infilai un paio di calzoni beige, una camicia a righe bianche e blu e un paio di mocassini. Misi un CD di Mozart, innaffiai le piante e staccai tutte le foglie secche. Feci un po' di pulizia e riordinai, togliendo di mezzo il mio lavoro. Chiamai mia madre a Miami perché sapevo che il lunedì sera andava a giocare a bingo e che non l'avrei trovata in casa e avrei potuto
cavarmela lasciando un messaggio. Non accesi la TV perché non volevo che mi ricordasse ciò che aveva occupato il mio pomeriggio e mi ero appena sforzata di lavare via. Mi versai un doppio scotch, andai nel mio studio e accesi la luce. Controllai gli scaffali pieni di libri di medicina, scienza e astronomia, l'enciclopedia britannica, i manuali di giardinaggio, i volumi su flora, fauna, insetti, rocce, minerali e bricolage. Trovai il dizionario di francese e lo posai sulla scrivania. Loup voleva dire lupo, ma garou non c'era. Cercai una soluzione alternativa al mio problema e mi venne un'idea. La Petite France era uno dei ristoranti più eleganti di Richmond e, sebbene il lunedì fosse il giorno di chiusura, conoscevo bene lo chef e sua moglie e li chiamai a casa. Rispose lui e mi salutò con cordialità. «Non l'abbiamo più vista, dottoressa», disse. «È un peccato.» «Esco poco», risposi. «Lavora troppo.» «Volevo chiederle un favore», dissi. «Ma la pregherei di non parlarne con nessuno. È una cosa riservata.» «Certamente.» «Che cosa vuol dire loup-garou?» «Dottoressa, soffre di incubi?» esclamò divertito. «Per fortuna che non c'è la luna piena! Le loup-garou è il lupo mannaro!» In quel momento suonò il campanello. «In Francia, centinaia di anni fa, se credevano che uno fosse un loupgarou lo impiccavano. È nelle cronache, sa?» Guardai l'ora: erano le sei e un quarto. Marino era in anticipo e io non ero ancora pronta. Ringraziai il mio amico chef. «Una sera di queste la vengo a trovare, promesso. Il campanello suonò di nuovo. «Vengo!» urlai al citofono. Spensi l'allarme e aprii la porta. Marino aveva la divisa pulita, i capelli pettinati all'indietro e troppo dopobarba. «Stai molto meglio di quando ci siamo lasciati», commentai accompagnandolo in cucina. «Hai fatto pulizia?» mi chiese occhieggiando la sala. «Era ora», replicai. Si sedette al suo solito posto vicino alla finestra e mi guardò incuriosito mentre prendevo l'aglio e il lievito istantaneo dal frigo.
«Allora, che cosa prepari? Posso fumare?» «No.» «Tu però fumi.» «È casa mia.» «Se apro la finestra?» «Da che parte tira il vento?» «Per sicurezza apriamo anche la ventola. Sento odore di aglio.» «Pensavo di fare la pizza.» Frugai nella dispensa alla ricerca di una scatola di passata di pomodoro e di farina ad alto contenuto di glutine. «Le due monetine che abbiamo trovato sono una sterlina e un marco tedesco. Ma sta' a sentire: quando tu te ne sei andata, io sono rimasto in porto per farmi la doccia e via dicendo. Così ho visto che non hanno perso tempo e hanno scaricato i cartoni da quel container e hanno dato una pulita. Vedrai che vendono tutto come se niente fosse.» Mescolai mezza bustina di lievito con un po' di acqua tiepida e del miele in una ciotola, poi presi la farina. «Ho una fame da lupi.» La radio era sul tavolo e gracchiava codici dieci e numeri di unità. Marino si tolse la cravatta e si slacciò il cinturone con tutti i suoi accessori d'ordinanza. Io cominciai a impastare. «Mi è venuto il mal di schiena, a furia di portare tutto questo peso», si lamentò. Mi osservò preparare la pasta per la pizza e si rallegrò. «A proposito, loup-garou vuol dire lupo mannaro», lo informai. «Cosa?» «Licantropo. Hai presente?» «Cazzo, io li odio.» «Non sapevo che ne conoscessi.» «Ti ricordi Lon Chaney, quando gli cresceva il pelo sulla faccia appena spuntava la luna? Mi faceva una paura... Rocky guardava Shock Theater, te lo ricordi?» Rocky era l'unico figlio di Marino che io non avevo mai conosciuto. Coprii la pasta con uno strofinaccio tiepido. «L'hai più sentito?» gli chiesi, cauta. «A Natale lo vai a trovare?» Marino fece cadere la cenere nel posacenere. «O non sai nemmeno dove abita?» «Figurati!» esclamò. «Certo che lo so.»
«Ti comporti come se non te ne importasse niente», gli feci notare. «Be', forse è così.» Cercai fra le bottiglie un buon rosso. Marino dette una tirata alla sigaretta e quindi espirò rumorosamente. Rocky era un discorso chiuso, come al solito. «Uno di questi giorni ne parliamo», gli dissi versando la polpa di pomodoro in un piatto. «Non saprei che cosa dire», replicò. «Però gli vuoi bene, Marino.» «No, non è vero. Anzi, vorrei che non fosse mai nato. Vorrei non averlo mai incontrato.» Guardò dalla finestra il giardino ormai in penombra. C'erano momenti in cui mi sembrava un estraneo: era come se non conoscessi affatto quell'uomo seduto nella mia cucina, che aveva un figlio che non vedeva mai e di cui non sapeva niente. Non mi guardò negli occhi, né mi ringraziò quando gli posai una tazza di caffè davanti. «Vuoi due noccioline?» gli chiesi. «No», mi rispose. «Pensavo di mettermi a dieta.» «Pensarci serve a poco. È dimostrato.» «Ti metti l'aglio intorno al collo, per fare l'autopsia al lupo mannaro? Sai che se ti morde, poi diventi un lupo mannaro anche tu? È come l'AIDS.» «Ma smettila con quest'AIDS. Non è per niente come l'AIDS.» «Pensi che l'abbia scritto lui?» «Non sappiamo se esiste un legame fra la scritta e il morto.» «Buon viaggio, licantropo. Hai ragione, è pieno il mondo di scatoloni di materiale fotografico con quella scritta sopra. Su quelli vicino ai cadaveri, poi, non manca mai.» «Torniamo alla Bray e al tuo ritorno alla divisa», dissi. «Comincia dal principio. Come hai fatto a entrare nelle sue grazie?» «Tutto iniziò due settimane dopo il suo insediamento. Ti ricordi di quel tale che si era impiccato mentre si masturbava?» «Sì.» «Be', arriva lei e comincia a dare ordini a destra e a manca, manco fosse un'investigatrice. Piglia le riviste porno che il tipo stava guardando quando è soffocato nella maschera di cuoio e comincia a sfogliarle. Poi va a interrogare la moglie.» «Roba da matti», commentai. «Le dico di togliersi dai piedi, che sta incasinando tutto, e il giorno dopo
mi convoca nel suo ufficio. Io mi aspettavo che fosse incavolata nera, invece non fa cenno a quello che è successo e mi chiede che cosa ne penso della divisione Investigativa.» Bevve un sorso di caffè e aggiunse due cucchiaini di zucchero. «Insomma, ho capito che in realtà non gliene fregava niente», continuò, «che voleva qualcos'altro... Cosa c'entrava lei con l'Investigativa?» Mi versai un bicchiere di vino. «E cosa voleva in realtà?» «Parlare di te. Infatti comincia a farmi un sacco di domande sul tuo conto, con la scusa che io e te collaboriamo da tanto tempo e via dicendo.» Controllai la pasta e il pomodoro. «Mi chiede cosa facevi prima, cosa pensano di te i poliziotti...» «E tu che cosa le hai risposto?» «Che eri un genio, con un quoziente d'intelligenza più alto del mio stipendio, che tutti i poliziotti, maschi e femmine indistintamente, ti adoravano e... cos'altro le ho detto?» «Mi sembra sufficiente.» «No, no. Mi ha chiesto di Benton, di quello che gli era successo e se il tuo lavoro ne aveva risentito.» Mi sentii invadere dalla collera. «Poi ha attaccato con Lucy: perché se ne è andata dall'FBI, cosa combina nella vita...» «Quella donna non ha ritegno!» esclamai. «Le ho raccontato che Lucy se n'è andata dal Bureau perché la NASA le aveva proposto di fare l'astronauta», continuò Marino. «Che però, quando è entrata nel programma spaziale, ha deciso che pilotare gli elicotteri le piaceva di più e così è entrata nell'ATF. Ah, mi ha chiesto anche di avvisarla, la prossima volta che viene a Richmond, perché vorrebbe conoscerla e magari chiederle di lavorare con lei. Io le ho detto che sarebbe stato come chiedere ad Andre Agassi di fare il raccattapalle. Basta, tutto qui. Non l'ho trattata male né niente, le ho solo fatto presente che non sono la tua segretaria. Una settimana dopo ero fuori dell'Investigativa.» Presi il pacchetto delle sigarette sentendomi una drogata. Dividemmo il portacenere e fumammo senza parlare, frustrati. Cercai di non lasciarmi prendere dall'odio. «Secondo me è solo gelosa di te», decretò Marino dopo un po'. «Arriva qui da Washington credendosi chissà chi e sente parlare della dottoressa Scarpetta di qua e della dottoressa Scarpetta di là. Magari ci gode, a non
farci più lavorare insieme: chissà come si sente importante...» Spense la sigaretta. «Questa è la prima volta che non lavoriamo insieme da quando sei a Richmond», commentò. In quel momento suonò il campanello. «E chi è?» domandò. «Hai invitato qualcun altro senza dirmelo?» Mi alzai per controllare il videocitofono e rimasi strabiliata. «Sto sognando», dissi. 7 Lucy e Jo mi parvero un miraggio, un'apparizione che non poteva essere vera. Otto ore prima erano per le strade di Miami e adesso erano fra le mie braccia. «Sono senza parole», dissi almeno cinque volte, mentre posavano le valigie per terra. «Ma che cosa succede?» chiese Marino entrando in sala. «E che cosa ci fate voi qui?» domandò poi a Lucy, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Non era mai stato capace di esprimere i propri sentimenti di affetto. Più scontroso e sarcastico era, più voleva dire che era contento di vedere Lucy. «T'hanno già sparato?» «Ma come ti sei conciato?» ribatté Lucy toccandogli la manica della camicia della divisa. «Vuoi farci credere che sei un poliziotto vero?» «Marino», dissi entrando in cucina. «Conosci Jo Sanders?» «No», rispose. «Ma te ne ho parlato, vero?» La guardò con aria assente. Era una ragazza molto atletica, con i capelli biondi e gli occhi azzurri. Capii che la trovava carina. «Sa perfettamente chi sei», spiegai a Jo. «Non è maleducato, è fatto così.» «Lavori?» le domandò Marino, prendendo il mozzicone dal portacenere per dare un'ultima boccata. «Solo quando non posso farne a meno», rispose Jo. «E cosa fai?» «Niente di speciale: salto giù dagli elicotteri, lavoro sotto copertura, faccio retate.» «Non mi dire che tu e Lucy siete nella stessa divisione.» «Lei è della DEA», precisò Lucy.
«Davvero?» fece Marino a Jo. «Mi sembri piccoletta, per la DEA.» «Non hanno pregiudizi», replicò Jo. Marino aprì il frigo e spostò quello che c'era dentro finché non trovò una bottiglia di birra. La aprì e cominciò a bere. «Offre la casa», dichiarò quindi. «Marino, sei impazzito?» intervenni. «Sei di servizio.» «Ti sbagli. Vieni che ti faccio vedere.» Posò la bottiglia sul tavolo e fece un numero. «Ciao, sono io», disse al telefono. «Sì, sì. Senti, non scherzo, mi sento da cani. Ti spiace sostituirmi stasera? A buon rendere, eh?» Ci strizzò l'occhio. Riagganciò, premette il tasto del vivavoce e fece un altro numero. Risposero al primo squillo. «Bray», annunciò la voce del vicecomandante della polizia nella mia cucina. «Buonasera, sono Marino», esordì lui con voce da moribondo. «Scusi se la disturbo.» Diane Bray tacque, evidentemente irritata di essere stata chiamata a casa. «Che cosa c'è?» chiese quindi. «Mi sento malissimo», rispose Marino con un filo di voce. «Ho dato di stomaco e ho la febbre. Mi conviene andare a casa e mettermi a letto.» «Qualche ora fa, quando ci siamo visti, non mi sembrava affatto malato.» «Infatti mi sono sentito male dopo. Spero solo di non essermi preso qualche batterio...» Scrissi su un foglietto Streptococco e Clostridio. «...non so, uno streptococco o un clostridio o cosa ne so. Speriamo bene. Il medico mi ha detto che a stare vicino a un cadavere...» «E quando finisce il suo turno?» «Alle undici.» Lucy, Jo e io eravamo paonazze e facevamo fatica a non scoppiare a ridere. «Non sarà facile trovare qualcuno che la sostituisca a quest'ora», replicò fredda Diane Bray. «Ho appena telefonato al tenente Mann del terzo distretto, che è stato così gentile da promettermi di finire il turno per me», le comunicò Marino con voce sempre più malata. «Avrebbe dovuto informarmi prima!» si offese la Bray.
«Speravo di farcela.» «Va bene, adesso se ne vada pure a casa. Ma domani l'aspetto nel mio ufficio.» «Se starò meglio, verrò di sicuro. Buona serata. Speriamo che non si senta male anche lei.» La Bray riattaccò. «Che persona deliziosa!» commentò Marino mentre tutti scoppiavamo a ridere. «Non mi sorprende», disse Jo quando riuscì finalmente a parlare. «Ho sentito che non gode di molte simpatie.» «E dove l'hai sentito?» chiese Marino. «Non mi dire che la voce è arrivata fino a Miami?» «Io sono di qui. Abitavo in Old Mill, dietro a Three Chopt, non lontano dalla University of Richmond.» «Tuo padre insegna lì?» «È ministro battista.» «Molto divertente.» «Sì», intervenne Lucy, «è strano pensare che è cresciuta qui e noi ci siamo conosciute a Miami. Che cosa pensi di fare con la Bray?» «Niente», rispose finendo la bottiglia e andandosene a prendere un'altra nel frigo. «Be', io qualcosa farei», replicò lei sicura. «Sai, quando si è giovani si pensa di poter fare tutto», ribatté lui. «Verità, giustizia, tutti i sani principi dell'America. Poi, invecchiando, si cambia...» «Io non invecchierò mai.» «Lucy mi ha detto che fai l'investigatore», disse Jo a Marino. «Come mai sei in divisa?» «È una lunga storia», replicò lui. «Vieni a sederti sulle mie ginocchia, così te la racconto...» «Tiro a indovinare: hai fatto incavolare qualcuno. Magari proprio la Bray.» «Ti hanno insegnato alla DEA a fare deduzioni come queste o sei straordinariamente intelligente per la tua giovane età?» Affettai funghi, peperoni verdi e cipolle, quindi sminuzzai la mozzarella. Lucy mi guardava. A un certo punto, colsi la sua occhiata. «Dopo che mi hai telefonato tu, mi ha chiamato il senatore Lord», mi sussurrò. «Siamo rimasti tutti sconcertati, devo dire.»
«Lo credo.» «Mi ha chiesto di salire sul primo aereo e venire da te...» «Se mi avessi ascoltato...» Stavo tremando dentro. «Perché avevi bisogno di me.» «Non sai quanto sono contenta che...» Mi si spezzò la voce e ripiombai in un baratro freddo e scuro. «Perché non mi hai detto che avevi bisogno di me?» «Non volevo essere invadente. Sei talmente presa, laggiù. E poi mi sembrava che non avessi voglia di parlare...» «Bastava che mi dicessi che avevi bisogno di me.» «Eri su un cellulare.» «Mi fai vedere la lettera?» 8 Posai il coltello sul tagliere e mi asciugai le mani in uno strofinaccio. Guardai Lucy negli occhi e vidi dolore e paura. «Voglio leggerla solo con te», mi disse. Annuii e andai in camera da letto a prendere la lettera dalla cassaforte. Ci sedemmo sul bordo del letto e notai la Sig-Sauer 232 nel fodero alla caviglia che le spuntava dalla gamba destra dei pantaloni. Non potei fare a meno di sorridere pensando a quella che sarebbe stata la reazione di Benton: avrebbe scosso la testa e tracciato un'analisi psicologica che ci avrebbe fatto morire dal ridere. Ma, con il suo humour, avrebbe colto nel segno. Ero cosciente del lato negativo e pericoloso di quell'atteggiamento: Lucy era sempre stata un'ardente sostenitrice dell'autodifesa, ma, da quando Benton era stato ucciso, era diventata un'estremista. «Adesso che sei in casa mia», le dissi, «non te la vuoi togliere?» «L'unica maniera per abituarsi a questa roba è tenerla il più possibile», mi rispose. «L'acciaio inossidabile è talmente pesante...» «Perché allora hai scelto l'acciaio inossidabile?» «Preferisco. Laggiù, con tutta quell'umidità, l'aria di mare...» «Lucy, quanto tempo lavorerai ancora sotto copertura?» non riuscii a fare a meno di chiederle. «Zia Kay.» Mi guardò negli occhi e mi posò una mano sul braccio. «Non ricominciamo.» «Dicevo solo per...»
«Lo so. Non vuoi che un giorno ti arrivi una lettera come questa anche da me.» Quando la prese per leggerla, aveva le mani ferme. «Non dirlo nemmeno per scherzo», la minacciai. «Guarda che neanch'io ne voglio una da te», replicò. Le parole di Benton mi fecero lo stesso effetto di quella mattina, quando il senatore Lord me le aveva recapitate e a me era parso di risentire la sua voce, di rivedere la sua faccia, il suo sguardo pieno d'amore. Lucy lesse molto lentamente. Quando ebbe finito, rimase un attimo senza parlare. Poi disse: «Non ti azzardare a mandarmene una, per favore. Non ne voglio sapere». Le tremava la voce per il dolore e per la collera. «A che cosa serve? A scombussolarti di nuovo?» esclamò alzandosi dal letto. «Lucy, tu sai perché l'ha fatto», dissi asciugandomi gli occhi e abbracciandola. «In fondo in fondo, lo sai.» Portai la lettera in cucina per farla leggere anche a Marino e a Jo. La reazione di lui fu guardare fuori della finestra con le mani in grembo; quella di lei alzarsi e girare per la stanza senza sapere dove andare. «È meglio che io me ne vada», ripeteva, nonostante noi le dicessimo di non farlo. «Voleva che foste insieme voi tre. Io non c'entro.» «Se ti avesse conosciuto, avrebbe invitato anche te», replicai. «Non se ne va nessuno», ordinò Marino con il tono del poliziotto. «Siamo tutti qui e ci restiamo, maledizione.» Si alzò in piedi e si coprì il viso con le mani. «Mi dispiace che abbia scritto questa lettera.» Mi guardò. «Tu non mi faresti mai una cosa del genere, vero? Scordatelo, eh? Non voglio messaggi dall'oltretomba.» «Mettiamo su la pizza», proposi. Uscimmo sulla terrazza. Stesi la pasta e la condii con il pomodoro, gli affettati, le verdure e il formaggio. Marino, Lucy e Jo si sedettero sulle sedie a dondolo perché non volevo che mi aiutassero. Cercarono di fare conversazione, ma nessuno aveva voglia di chiacchierare. Versai un filo d'olio sulla pizza e la posai sulla griglia. «Non credo che vi abbia riuniti perché vi deprimeste», disse Jo a un certo punto. «Mica mi deprimo, io», ribatté Marino. «Sì, invece», intervenne Lucy.
«E perché dovrei?» «Per un sacco di motivi.» «Almeno io non ho paura a dire che sento la sua mancanza.» Lucy lo guardò incredula. Marino aveva appena toccato un punto delicatissimo. «Non riesco a credere che tu abbia appena detto una cosa del genere», fece Lucy. «Credici, invece. È l'unico padre che tu abbia mai avuto e non t'ho sentito una volta - una - dire che ti mancava. E perché? Perché pensi ancora che sia colpa tua, vero?» «Ma che cosa ti è preso?» «Ti dico una cosa, agente Lucy Farinelli», continuò imperterrito Marino. «Tu non c'entri un cazzo. E stata colpa di Carrie Grethen e, anche se l'hai ammazzata, quella per te non morirà mai. Più la odi, più la tieni in vita.» «Perché, tu non la odi?» ribatté Lucy. «Be'», replicò Marino tracannando il resto della birra. «Forse anche più di te.» «Non credo che Benton avesse intenzione di metterci qui a parlare di quanto odiamo Carrie o chiunque altro», intervenni io. «Ma lei come fa ad andare avanti, dottoressa?» mi chiese Jo. «Diamoci del tu», le ripetei per l'ennesima volta. «Niente, vado avanti e basta. Non posso fare altro.» Mi parve una banalità nel momento stesso in cui la dicevo. Jo si chinò e mi guardò come se avessi la risposta a tutti gli interrogativi che la angustiavano. «Ma come fai?» domandò. «Come si fa? Noi ci scontriamo giornalmente con orrori e atrocità, ma in fondo siamo dall'altra parte. Non ci toccano più di tanto. Chiudiamo la porta e non pensiamo più alla donna violentata e uccisa o all'uomo a cui hanno fatto saltare le cervella. Noi ci occupiamo di "casi", illudendoci di non diventare mai dei casi noi stessi. Invece non è così.» Si interruppe. Guardai le luci e le ombre muoversi sul suo volto, pensando che era troppo giovane e delicato per una donna così piena di dubbi. «Come si fa ad andare avanti?» ripeté. «L'umana capacità di sopportazione è molto alta.» Non sapevo che cos'altro dire. «Be', io ho paura che non ce la farei», disse. «Se succedesse qualcosa a Lucy...»
«Stai tranquilla, non mi succederà niente», intervenne mia nipote. Si alzò e andò a baciare Jo sulla testa. Poi la abbracciò e, se questo segnale della natura della loro relazione giunse a Marino come una novità, non se ne fece accorgere. Conosceva Lucy da quando lei aveva dieci anni e se era poi entrata nelle forze dell'ordine in parte era dovuto anche alla sua influenza: Marino le aveva insegnato a sparare, l'aveva portata in giro sul suo pick-up e una volta era persino arrivato a lasciarglielo guidare. Quando si era reso conto che a Lucy non piacevano gli uomini, si era molto scandalizzato, forse anche perché sentiva di non avere avuto un'influenza positiva nel campo che per lui era più importante di tutti e probabilmente si era sentito in colpa. Ma ormai erano passati tanti anni e non ricordavo che avesse mai fatto un commento bigotto sugli orientamenti sessuali di mia nipote. «Tu lavori con la morte quotidianamente», insisteva Jo. «Quando vedi che succede a qualcun altro, non ti ricorda... be', quello che è successo a te? Io non vorrei, cioè, la morte mi fa troppa paura.» «Non ho la formula magica», dissi alzandomi. «Ma si impara a non pensare troppo.» La pizza era pronta. La tirai fuori con una spatola. «Che profumino!» esclamò Marino. Poi assunse un'aria preoccupata. «Pensi che basterà?» Ne preparai una seconda e poi una terza, quindi accesi il fuoco nella sala e ci sedemmo tutti intorno al caminetto con le luci spente. Marino continuò a bere birra, mentre Lucy, Jo e io aprimmo una bottiglia di borgogna bianco. «Forse dovresti trovarti qualcuno», disse a un certo punto Lucy. «Cazzo, ma cosa ti viene in mente così di punto in bianco?» sbottò Marino. «Vogliamo fare il gioco delle coppie o cosa? Se vuole parlare di cose private come queste, ne parla lei. Sono cose che non si chiedono. Non è carino.» «La vita è piena di cose non carine», ribatté Lucy. «E a te poi cosa importa se fa il gioco delle coppie?» Jo rimase in silenzio a fissare il fuoco. Ero irritata e cominciava a venirmi il dubbio che avrei fatto meglio a passare la serata da sola. In fondo Benton non aveva sempre ragione. «Ma scusa, se quando Doris ti ha lasciato nessuno ti avesse chiesto niente, come l'avresti presa?» continuò Lucy. «Se non gliene fosse fregato niente a nessuno di come stavi e di come tiravi avanti? Perché non eri certo
tu a far venire il discorso. Come con le altre deficienti con cui ti sei messo da allora in poi. Tutte le volte che andava a finire male, i tuoi amici dovevano venire a tirarti fuori le parole di bocca!» Marino posò la bottiglia vuota con un impeto tale che temetti rompesse il piano d'ardesia. «Quando ti deciderai a diventare grande?» la investì. «Cosa aspetti, di avere trent'anni, per smettere di fare la piccola petulante? Io vado a prendermi un'altra birra.» Uscì a grandi passi. «E ti dico un'altra cosa», le gridò dietro. «Non ti credere tanto superiore perché sai portare un elicottero e programmare i computer e fai bodybuilding o cosa cazzo fai, capito?» «Guarda che non mi sento affatto superiore!» gli rispose Lucy. «Col cazzo!» urlò lui dalla cucina. «La differenza fra te e me è che io so quello che voglio dalla vita», continuò Lucy. «E non mi pongo limiti.» «Perché sei un'arrogante di merda, agente Farinelli.» «Allora è questo che ti rode!» fece Lucy vedendolo riapparire. «Che io sono un agente federale che lotta contro i grandi criminali nelle grandi strade del mondo mentre tu fai la balia ai poliziotti in difficoltà nei turni più sfigati che ci siano.» «E a te rode non avere l'uccello. Per questo ti porti sempre appresso la pistola.» «Che cosa?!» «Adesso basta!» esclamai. «Smettetela, tutti e due! Dovreste vergognarvi a comportarvi così proprio... proprio questa...» Mi si incrinò la voce e mi si riempirono gli occhi di lacrime. Non volevo perdere il controllo e mi terrorizzava il fatto di non riuscire più a mantenerlo. Mi girai dall'altra parte. Il silenzio era pesante, rotto solo dallo scoppiettio del fuoco. Marino si alzò e spostò le braci, poi aggiunse un altro ceppo. «Quanto odio il Natale», disse Lucy. 9 La mattina dopo Lucy e Jo avevano un volo molto presto e io non potevo sopportare il vuoto che sarebbe tornato a circondarmi dopo aver chiuso la porta di casa. Perciò presi la mia ventiquattrore e uscii con loro. Sapevo
che sarebbe stata una giornata terribile. «Mi dispiace che andiate via», dissi. «Ma suppongo che Miami non sopravviverebbe un altro giorno senza di voi.» «Miami probabilmente non sopravviverà comunque», replicò Lucy. «Ma è per questo che ci pagano: per combattere una battaglia già persa in partenza. Un po' come a Richmond, per altro. Santo cielo, mi sento di merda.» Avevano tutte e due i jeans e la camicia stropicciati e si erano messe solo un po' di gel nei capelli. Avevamo dormito poco e bevuto troppo. Quando uscimmo di casa, i lampioni si stavano spegnendo e il cielo era di un azzurro scuro. Eravamo tre sagome nella luce incerta, con gli occhi lucidi e il fiato che si condensava davanti alla bocca. Faceva freddo e la brina sulle nostre macchine sembrava un complicatissimo ricamo. «Solo i Centossessantacinque non sopravviveranno», decretò Lucy. «Con mia grandissima gioia.» «I chi?» domandai io. «Quegli stronzi di trafficanti di armi a cui stiamo dando la caccia. Ti ricordi che ti avevo detto che si chiamano così perché usano pallottole Speer Gold Dot a centosessantacinque grani? Roba tosta, tenuto conto di che cosa ci mettono insieme: AR 15, fucili calibro due e ventitré, porcate automatiche russe e cinesi arrivate direttamente dalla terra promessa. Brasile, Venezuela, Colombia, Puerto Rico. «Il fatto è che te li scaricano un pezzo di qua e un pezzo di là da portacontainer che non ne sanno niente», continuò. «Prendi il porto di Los Angeles che movimenta un container ogni minuto e mezzo. Come si fa a controllarli tutti?» «Be', certo.» Avevo la testa che mi pulsava. «Siamo molto lusingate del compito che ci hanno assegnato», osservò sarcastica Jo. «Un paio di mesi fa in un canale del Sud della Florida è stato trovato il cadavere di un signore di Panama che aveva avuto a che fare con il cartello. Quando gli hanno fatto l'autopsia, gli hanno trovato la lingua nello stomaco perché i suoi compatrioti gliel'avevano fatta mangiare.» «Non voglio sapere queste cose», dissi turbata. «Io sono Terry», continuò imperterrita Lucy. «E lei è Brandy.» Le sorrise. «Siamo studentesse della University of Miami che non si sono ancora laureate perché ce ne sbattiamo i coglioni, ci droghiamo e ci facciamo scopare e così nel frattempo scopriamo degli indirizzi utili. Siamo diventate amiche di un paio di membri della banda che trafficano armi, soldi e droga. In questo periodo li stiamo mettendo in contatto con uno di Fisher Island
che ha abbastanza pistole da aprire un negozietto e abbastanza coca da mettere in scena una nevicata...» Non potevo sentirla parlare così. «Naturalmente anche la vittima è sotto copertura», continuò Lucy, mentre alcuni corvi neri gracchiavano sopra di noi e nelle case cominciavano ad accendersi le prime luci. Notai le candele alle finestre e le coroncine appese ai portoni e mi resi conto che non avevo ancora pensato al Natale, nonostante mancassero meno di tre settimane. Lucy prese il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni e mi mostrò la patente. La foto era sua, ma tutto il resto no. «Terry Jennifer Davis», lesse. «Donna, bianca, ventiquattro anni, statura un metro e sessantasette, peso cinquantaquattro chilogrammi. Strano essere qualcun altro. Dovresti vedere come sono sistemata, zia Kay. Ho questa casetta carina a South Beach e una Benz dodici cilindri sequestrata a São Paulo. Grigia metallizzata. E dovresti vedere la Glock. Modello da collezione. Calibro quaranta, acciaio inossidabile, piccolina. Un gioiellino.» Mi mancava l'aria. A un certo punto vidi rosso e non mi sentii più mani e piedi. «Lucy, lascia perdere», le disse Jo accorgendosi di quanto stavo male. «È come se lei ti facesse vedere un'autopsia. Forse non vuole proprio sapere tutto, capito?» «Lei me l'ha fatta vedere, un'autopsia», replicò Lucy sbruffona. «Altro che una. Dieci, dodici.» Jo stava perdendo la pazienza. «Le dimostrazioni per la polizia», continuò Lucy alzando le spalle. «Non le autopsie di morti ammazzati a colpi di accetta.» La sua mancanza di sensibilità mi feriva: sembrava che stesse parlando di ristoranti. «Morti per cause naturali o suicidi. Sai, quando la famiglia dona il corpo alla divisione di anatomia.» Le sue parole erano come gas tossico, per me. «Evidentemente non gliene frega niente che lo zio o il cugino venga aperto davanti a un gruppo di poliziotti. Magari non si possono permettere di fargli un funerale come si deve e i quattro soldi che gli danno per la donazione gli fanno comodo. Non è vero, zia Kay?» «No, non è vero. I corpi donati dalle famiglie non vengono utilizzati per fare dimostrazioni», risposi arrabbiata. «Si può sapere che cosa ti è preso?»
Gli alberi spogli sembravano ragni alla luce dell'alba. Due Cadillac ci passarono davanti; mi sentii osservata. «Spero che tu non faccia sempre la dura così.» Le mie parole gelide la colpirono. «Perché è un atteggiamento stupido, da persone ignoranti e deficienti. Per la cronaca, Lucy, ti ho lasciato assistere a tre autopsie e, sebbene le dimostrazioni per la scuola di polizia non riguardino persone morte a colpi di accetta, come dici tu, ti ricordo che si tratta comunque di esseri umani. Quelle tre persone erano state amate e avevano avuto dei sentimenti, si erano innamorate, erano state felici, tristi... Avevano mangiato, lavorato, fatto festa come tutti noi.» «Non intendevo...» cominciò Lucy. «Sicuramente da vivi non pensavano di finire in un obitorio davanti a venti allievi poliziotti e a una ragazzina come te, che guardavano il loro corpo nudo e aperto in due», continuai. «Avresti voluto che sentissero quello che hai appena detto di loro?» A Lucy vennero le lacrime agli occhi. Deglutì e si voltò dall'altra parte. «Scusa, zia Kay.» «Perché io credo che ci si debba comportare come se loro ci potessero sentire. Come se loro ci vedessero fare scherzi e battutacce. Del resto noi vediamo e sentiamo tutto, no? Che cosa succede quando senti te stessa o gli altri dire certe cose?» «Zia Kay...» «Te lo dico io, che cosa succede», esclamai arrabbiata. «Finisci così.» Tesi il braccio, come a presentarle il mio mondo. Mi guardò sbigottita. «Finisci come me», esclamai. «Davanti a casa all'alba, a immaginare la persona che amo su un tavolo d'obitorio. A immaginare gli altri che ci scherzano sopra, che fanno battutacce sulle dimensioni del suo pisello o su quanto puzza. Che magari lo sbatacchiano malamente di qua e di là e a un certo punto gli infilano un asciugamano nella cavità toracica vuota e vanno a mangiarsi un panino. O fanno dello spirito ridacchiando dell'agente flambé, del federale alla brace o troppo cotto.» Lucy e Jo mi guardavano senza parole. «Pensate che non l'abbia mai sentito?» chiesi aprendo la portiera della mia macchina. «Sono esseri umani, quelli che passano fra mani indifferenti, scrosci d'acqua e getti di aria fredda. Quanto è fredda la morte... È freddissima. Anche fosse morto nel proprio letto, alla fine sarebbe stato freddo comunque. Per favore, non venite a parlare di autopsie a me.» Mi sedetti al volante.
«E non assumere più quell'atteggiamento in mia presenza, Lucy», continuai inarrestabile. Avevo l'impressione che la mia voce venisse da un'altra parte. A un certo punto pensai persino di aver perso la testa. Non è così che si diventa pazzi, del resto? Ci si estrania da se stessi, ci si vede fare cose nelle quali non ci si riconosce, come uccidere qualcuno o camminare su un cornicione. «Certe cose ti restano impresse», dissi. «Non te le riesci a togliere dalla testa. Non è vero che le parole non fanno male. Le tue mi hanno appena fatto un male da morire», confidai a mia nipote. «Va', tornatene a Miami.» Lucy era impietrita, quando misi in moto e me ne andai toccando con una gomma il muretto di granito. La guardai nello specchietto retrovisore. Lei e Jo si dicevano qualcosa e poi salivano in macchina. Mi tremavano tanto le mani che non riuscii ad accendermi una sigaretta finché il traffico non mi bloccò. Non mi lasciai raggiungere. Uscii in Ninth Street e le immaginai correre sulla I-95 verso l'aeroporto, pronte a tornare alle loro vite sotto copertura. «Va' a quel paese», borbottai, pensando a mia nipote. Avevo il cuore che batteva come se avesse voluto uscire dalla cassa toracica. «Va' a quel paese, Lucy!» Piangevo. 10 La sede dell'Istituto di medicina legale si trovava proprio nell'occhio del ciclone urbanistico che aveva investito Richmond e che non avrei immaginato nemmeno lontanamente negli anni Settanta. Ricordavo che mi ero sentita tradita quando, appena arrivata da Miami, mi ero ritrovata in una città che si espandeva alla velocità del fulmine verso le contee vicine e in cui la gente incominciava a evitare il centro, soprattutto di sera. Fino alla metà degli anni Novanta il nucleo storico della città era caduto vittima di abbandono e criminalità, ma poi la Virginia Commonwealth University aveva iniziato a ricuperare e rivitalizzare quelle aree disastrate e gli eleganti palazzi di vetro e mattoni erano spuntati come funghi. L'obitorio adesso era affiancato ai laboratori e al recente Virginia Institute of Forensic Science and Medicine, che rappresentava la prima scuola di medicina forense non solo del paese, ma forse anche del mondo. Avevo un posto macchina riservato vicino alla porta d'ingresso, dove
rimasi seduta un momento per raccogliere le idee e le mie cose. Con un gesto infantile avevo spento il cellulare perché Lucy non si potesse mettere in contatto con me. In quel momento lo riaccesi sperando che mi chiamasse e rimasi a fissarlo. L'ultima volta che avevo fatto una cosa del genere era stato quando io e Benton avevamo litigato furiosamente e io gli avevo ordinato di uscire dalla mia casa e non metterci più piede. Avevo staccato tutti i telefoni, solo per riaccenderli un'ora dopo e farmi prendere dal panico perché lui non chiamava. Guardai l'orologio. Lucy sarebbe salita in aereo nel giro di un'ora. Meditai se chiamare USAir perché la avvertissero. Mi vergognavo di come mi ero comportata. Mi sentivo impotente perché non potevo chiedere scusa a una ragazza chiamata Terry Davis che non aveva nessuna zia Kay, abitava chissà dove a South Beach e non era rintracciabile telefonicamente. Entrai nell'atrio tutto vetri dell'istituto con l'aria affranta e Jake, La guardia all'ingresso, lo notò immediatamente. «Buongiorno, dottoressa Scarpetta», mi disse, nervoso come sempre. «Non ha l'aria di sentirsi troppo bene.» «Buongiorno, Jake», risposi. «Come stai?» «Si tira avanti. Ho sentito che sta per venire freddo tutto insieme: mi sento male solo al pensiero.» Giocherellava con una biro. «Sa che non riesco più a togliermi il Mal di schiena? Qui, fra le scapole.» Ruotò il collo e le spalle. «Mi dà fastidio, come se avessi qualcosa fuori posto. Mi è venuto l'altro giorno dopo che ho fatto pesi. Che cosa devo fare secondo lei, dottoressa? O per avere una consulenza le devo scrivere?» Credevo fosse una battuta, ma mi accorsi che non rideva. «Tieni la schiena calda e non fare pesi per un po'», gli consigliai. «Grazie. Quanto le devo?» «Sono troppo cara per te, Jake.» Si mise a ridere. Passai la tessera sulla serratura elettronica e aprii la porta. Sentivo Cleta e Polly, due impiegate, che battevano sui tasti chiacchierando. I telefoni squillavano già, nonostante non fossero neppure le sette e mezzo. «... È terribile.» «Secondo te gli stranieri puzzano di più, quando si decompongono?» «Ma no, Polly! Che stupidaggine!»
Erano alle loro postazioni che controllavano foto di autopsie e immettevano dati nei computer, muovendo velocemente il cursore da un campo all'altro. «Le conviene andarsi a prendere un caffè, finché può», mi salutò Cleta guardandomi con aria perplessa. «Infatti.» Polly batté sul tasto di invio. «Ho sentito», dissi. «Be', io sto zitta», fece Polly, che non riusciva a stare zitta nemmeno quando voleva. Cleta si posò un dito sulle labbra senza smettere di battere sui tasti. «Dove sono tutti gli altri?» «All'obitorio», mi rispose Cleta. «Abbiamo otto casi, oggi.» «Sei dimagrita, Cleta», le dissi prendendo i certificati di morte dalla mia casella. «Ho perso sei chili», precisò, dividendo caso per caso un mazzo di foto spaventose come se fossero carte da gioco. «Meno male che lei se ne è accorta. Non se ne accorge nessuno.» «Uffa!» esclamai guardando il certificato di morte in cima alla fila. «Quando lo capirà il dottor Carmichael che "arresto cardiaco" non è una causa di morte? Morendo il cuore cessa di battere. Quello che ci interessa sapere è perché. Questo è da rifare.» Controllai gli altri certificati percorrendo il corridoio coperto di moquette verde e viola che portava al mio ufficio. Rose, la mia segretaria, lavorava in uno spazio arioso con grandi finestre, immediatamente davanti alla porta del mio ufficio. La trovai in piedi che frugava fra le cartelline numerate di un archivio. «Come stai?» mi chiese con una penna fra i denti. «Ti ha cercata Marino.» «Rose, mi chiami per favore il dottor Carmichael?» «Di nuovo?» «Purtroppo sì.» «Dovrebbe andare in pensione.» Erano anni che lo ripeteva. Chiuse un cassetto e ne aprì un altro. «Perché mi cercava? Chiamava da casa?» Rose si tolse la penna di bocca. «No, è qui. O perlomeno lo era. Senti, ti ricordi la lettera che ti ha mandato quella donna detestabile il mese scorso?» «Quale donna detestabile?» domandai sbirciando nel corridoio alla ri-
cerca di Marino senza vederlo. «Quella che è finita in prigione perché aveva ammazzato il marito subito dopo avergli fatto sottoscrivere un'assicurazione sulla vita da un milione di dollari.» «Ah, sì.» Entrai nel mio ufficio togliendomi la giacca e posai la ventiquattrore per terra. «Perché Marino mi cercava?» chiesi di nuovo. Rose non mi rispose. Mi ero accorta che stava diventando dura d'orecchie e il pensiero che invecchiando perdesse colpi mi spaventava. Posai i certificati sopra a una pila di carte che non avevo ancora avuto il tempo di controllare e sistemai la giacca sulla spalliera della sedia. «Be', ti ha mandato un'altra lettera. Questa volta ti accusa di estorsione», mi informò Rose. Presi il camice, che tenevo appeso dietro la porta. «Sostiene che ti sei messa d'accordo con la compagnia di assicurazioni per far passare la morte del marito come violenta in modo che non fossero tenuti a sborsare un soldo, in cambio di una bella tangente. Che, a suo dire, spiegherebbe la Mercedes e il tuo costoso guardaroba.» Mi infilai il camice. «Io non ce la faccio più a tenere testa a tutti questi matti. Certi mi fanno davvero paura. E poi ho l'impressione che Internet renda tutto più difficile», protestò. Fece capolino dalla porta. «Mi stai a sentire?» chiese. «Compro solo nelle liquidazioni», replicai. «E tu dai sempre la colpa a Internet.» Probabilmente non mi sarei mai comprata niente, se Rose non mi avesse spinto a fare qualche acquisto nei saldi di fine stagione. Le uniche cose che mi piaceva comprare erano i vini e i cibi raffinati. Per il resto, mi infastidiva la gente e non sopportavo i centri commerciali. Rose invece odiava Internet, che riteneva la causa di ogni male. Per farle usare la posta elettronica avevo dovuto costringerla. «Se mi chiama Lucy, passamela ovunque io sia», le dissi. In quel momento arrivò Marino. «E prova a contattarla attraverso la sede, per favore.» Al pensiero di Lucy mi si chiudeva lo stomaco. Avevo perso la pazienza e detto cose che non volevo dire. Rose mi lanciò un'occhiata interrogativa: in qualche modo, aveva capito.
«Capitano», disse quindi a Marino. «Si è messo in ghingheri, stamattina?» Marino grugnì. Aprì una scatoletta di caramelle al limone che Rose teneva sulla scrivania e si servì senza chiederle il permesso. «Cosa vuoi che faccia della lettera di quella pazza?» mi domandò Rose voltandosi verso la porta con gli occhiali da presbite sul naso, sempre cercando nell'archivio. «Secondo me, è venuto il momento di mandare la pratica alla procura, sempre che tu riesca a trovarla», risposi. «Nel caso decida di farmi causa, come probabilmente farà. Buongiorno, Marino.» «State parlando della gentildonna che ho fatto rinchiudere?» domandò con la caramella in bocca. «Sì», risposi. «È vero, te ne eri occupato tu.» «Quindi farà causa pure a me.» «Probabile», borbottai. Ero in piedi davanti alla mia scrivania e controllavo i messaggi telefonici del giorno prima. «Perché mi chiamano tutti quando non ci sono?» «Io sono abituato, alla gente che mi fa causa», continuò Marino. «Da un certo punto di vista, è lusinghiero.» «Io invece non riesco ad abituarmi a vederla in divisa, capitano», disse Rose. «Devo farle il saluto militare?» «Non mi stuzzicare, Rose.» «Pensavo che fossi di servizio dalle tre in poi», gli dissi. «Il bello è che, quando qualcuno mi fa causa, paga l'amministrazione comunale. Alla faccia loro!» «Voglio proprio vedere come riderà quando uno di questi giorni toccherà a lei pagarsi le spese e si dovrà vendere la piscina e il pick-up. Per non parlare delle decorazioni natalizie...» replicò Rose. Nel frattempo io aprivo e chiudevo i cassetti della mia scrivania. «Ma dove sono finite tutte le mie penne?» domandai. «Possibile che io non abbia mai una penna? Rose, sai quelle biro Pilot? Venerdì ce n'era ancora una scatola, che per altro mi ero comprata l'ultima volta che sono stata da Ukrops. Non ci posso credere. Non trovo più nemmeno la Waterman!» «Non dire che non ti ho avvertito di non lasciare in giro oggetti di valore», mi disse Rose. «Io ho voglia di fumare», mi fece Marino. «Sono stufo di queste restrizioni contro il fumo negli edifici pubblici. Siete circondati di morti e vi preoccupate del fumo passivo? E i fumi della formalina? Quelli ammazza-
no anche un cavallo, ve lo dico io.» «Uffa!» chiusi con malgarbo un cassetto e ne aprii un altro. «Pensa che mi hanno fregato anche Advil, Sudafed e BC Powders. Adesso mi arrabbio.» «I soldi del caffè, il cellulare di Cleta, i panini e adesso anche le penne e le medicine. Sapete che io mi porto dietro l'agenda ovunque vada? L'ultima è che l'autore dei furti sia il "cadavere dalle mani lunghe"», disse Rose irritata. «Che non mi fa ridere per niente.» Marino le si avvicinò e le mise un braccio sulle spalle. «Cara Rose, se un cadavere allungasse le mani su di te, io lo capirei», le sussurrò in un orecchio in tono galante. «Io non ho mai osato, ma è da quando frequento la dottoressa che muoio dalla voglia di farlo...» Rose gli diede un buffetto sulla guancia e gli appoggiò la testa sulla spalla. Aveva l'aria sconsolata e mi parve invecchiata di colpo. «Sono stanca, capitano», mormorò. «Anch'io, cara Rose. Stanchissimo.» Guardai l'ora. «Rose, scusa, puoi avvertire il personale che cominceremo la riunione con qualche minuto di ritardo? Marino, dimmi tutto.» La saletta riservata ai fumatori era in un angolo. C'erano due sedie, una macchinetta della Coca-Cola e un posacenere sporco e tutto ammaccato che Marino e io mettemmo in mezzo. Prendemmo una sigaretta per uno e di nuovo mi vergognai. «Perché sei venuto qui?» domandai. «Non ti sei messo abbastanza nei pasticci ieri?» «Pensavo a quello che ha detto Lucy ieri sera», mi confidò. «A proposito della mia attuale situazione, intendo dire. Mi sento finito, da buttare. Anzi, se vuoi sapere la verità, non ce la faccio proprio più. Sono un investigatore, faccio questo mestiere da una vita, non posso cambiare adesso. Non posso lavorare per dei coglioni come Diane Bray.» «Hai preso il patentino da detective l'anno scorso», gli ricordai. «Non devi restare per forza nella polizia. Hai maturato gli anni per la pensione: saluta tutti e cercati un altro lavoro.» «Senza offesa, capo, preferirei non lavorare neanche per te», mi disse. «Né part-time, né con un contratto di collaborazione esterna o che altro.» Lo stato mi aveva autorizzato ad assumere due investigatori e ne avevo preso solo uno. «Be', hai tante possibilità», replicai. Ci ero rimasta male, ma non volevo
farmene accorgere. Marino rimase zitto. Mi venne in mente Benton, con il suo sguardo intenso, poi l'immagine sparì. Sentii la preoccupazione per Rose, il timore di aver perso Lucy, la paura della vecchiaia e dell'abbandono. «Non mi lasciare sola, Marino», gli dissi. Non mi rispose subito e, quando lo fece, aveva una luce feroce negli occhi. «Ma che vadano tutti a fare in culo», esclamò. «Io non mi faccio dire da nessuno che cosa devo o non devo fare. Se voglio occuparmi di un caso, me ne occupo e basta.» Posò la cenere, evidentemente compiaciuto di quella decisione. «Non voglio che ti licenzino o che ti facciano delle ritorsioni», dissi. «Più di così...» protestò con un altro sguardo truce. «Meno di capitano non posso essere e peggiore incarico non mi possono assegnare. Che mi licenzino, se vogliono! Ma vedrai che non lo faranno. E sai perché? Perché potrei andare a Henrico, Chesterfield, Hanover, ovunque. Sai quante volte mi hanno chiamato dagli altri dipartimenti?» Mi ricordai la sigaretta spenta che avevo in mano. «Avrei anche fatto carriera, ci fossi andato», continuò a recriminare. «Non ti fare troppe illusioni», gli dissi, mentre il mentolo mi arrivava in gola. «Oddio, non posso credere di aver ripreso a fumare!» «Non mi faccio nessuna illusione», replicò e dal tono capii che era sempre più depresso. «Mi sento sul pianeta sbagliato. Non conosco le Bray e le Anderson di questo mondo. Chi sono?» «Donne assetate di potere.» «Anche tu sei una donna potente. Molto più potente di tanta gente che conosco, uomini compresi. Eppure non sei come loro.» «Non mi sento molto potente, da un po' di tempo a questa parte. Stamattina ho perso il controllo davanti a mia nipote, alla sua amica e a un paio di vicini.» Buttai fuori il fumo. «Se ci penso, mi viene male.» Marino si protese verso di me. «Io e te siamo gli unici a prenderci a cuore quel poveretto che marcisce là dentro.» Mi indicò con il pollice l'obitorio. «Vedrai che la Anderson non si fa manco vedere, stamattina», continuò. «E comunque nella sala autopsie non ci mette piede.» La sua espressione mi turbò: era disperato. A parte una ex moglie e un figlio praticamente sconosciuto, non gli restava molto di quel che aveva fatto nella vita. Imprigionato in un corpo che sicuramente prima o poi gli avrebbe fatto pagare tutti gli abusi subiti, era senza soldi e sfortunato con
le donne; in più era politicamente scorretto, sciatto e parlava male. «Su una cosa hai ragione», gli dissi. «Non dovresti andare in giro in divisa. Sei una vergogna per il dipartimento. Che cos'è che hai sulla camicia? Senape? E la cravatta è troppo corta. Fammi vedere i calzini.» Mi chinai a controllare. «Lo sapevo: uno nero e uno blu.» «Non voglio metterti nei guai, capo.» «Sono già nei guai, Marino», replicai. 11 Uno degli aspetti più spietati del mio lavoro era che i cadaveri senza nome diventavano «il torso», «la signora del baule», «Superman». Questi soprannomi toglievano alla persona la sua identità, distruggendo tutto quello che era stata e aveva fatto prima di morire. Per me non riuscire a identificare un corpo arrivato al mio obitorio era una sconfitta personale. Generalmente mettevo le ossa in una scatola e le conservavo nella speranza di riuscire un giorno a capire a chi appartenevano, così come conservavo nei congelatori corpi o parti di corpo per mesi o anche per anni, rifiutandomi di farli seppellire nei cimiteri dei senza nome finché non ero costretta a farlo dalla mancanza di spazio: purtroppo non c'era posto per tenere tutti per sempre. Il caso di quella mattina era stato soprannominato «l'uomo del container». Era in condizioni pessime e speravo di non doverlo trattenere a lungo. Quando lo stato di decomposizione era così avanzato, nemmeno le basse temperature riuscivano a fermare il degrado. «Certe volte mi chiedo come fai», borbottò Marino. Eravamo nello spogliatoio vicino all'obitorio e sentivamo l'odore nonostante le porte chiuse a chiave e i muri di cemento. «Non devi mica restare per forza», gli ricordai. «Non me ne andrei per tutto l'oro del mondo.» Ci mettemmo due camici, guanti, manicotti, copriscarpe, berretti, mascherine e visiere protettive. Non usavamo respiratori perché io ero contraria; non volevo neppure che i miei assistenti si spruzzassero il Vicks nel naso, sebbene i poliziotti lo facessero continuamente. Se un patologo non riesce a fare i conti con gli aspetti negativi del proprio lavoro, è meglio che cambi mestiere. E poi gli odori sono importanti, hanno una loro storia. Un odore dolcia-
stro può venire dall'eterclorvinolo, mentre l'idrato di cloralio profuma di pera: entrambi fanno pensare a un'overdose di ipnotici, mentre una punta di aglio fa venire in mente l'arsenico. Fenoli e nitrobenzene ricordano l'etere e il lucido da scarpe, mentre il glicolo di etilene ha lo stesso identico odore dell'antigelo, anche perché sono esattamente la stessa cosa. Isolare odori potenzialmente significativi dal tanfo di un cadavere putrescente è un'operazione simile a quella dell'archeologo che si concentra su quel che deve ritrovare e non sulle condizioni miserevoli di ciò che lo circonda. La sala di decomposizione, come la chiamavamo noi, era una versione più piccola della sala autopsie, dotata di un frigorifero e di un impianto di ventilazione indipendenti, con un tavolo che poteva essere collegato a un grande lavandino. Tutti i mobili, compresi armadietti e porte, erano in acciaio inossidabile e pavimento e pareti erano rivestiti di un materiale acrilico antiassorbente in grado di sopportare lavaggi brutali a base di disinfettante e candeggina. Le porte automatiche venivano azionate per mezzo di pulsanti di acciaio grandi abbastanza da poter essere schiacciati con il gomito. Quando le porte si chiusero alle nostre spalle, rimasi sorpresa nel vedere Rene Anderson appoggiata a un bancone e la barella con il sacco mortuario chiuso in mezzo alla stanza: non lasciavo mai un investigatore da solo con un cadavere non ancora esaminato, soprattutto dopo quello che era successo al processo di O.J. Simpson, dove praticamente tutti, tranne l'imputato, erano stati ricusati per inadempienza. «Che cosa ci fa lei qui? Dov'è Chuck?» chiesi alla Anderson. Chuck Ruffin era l'inserviente responsabile dell'obitorio e sarebbe dovuto essere già lì a controllare gli strumenti chirurgici, etichettare le provette e verificare che tutti i papiri fossero in ordine. «Mi ha fatto entrare e poi è andato via.» «L'ha fatta entrare e poi è andato via? Ma quanto tempo fa?» «Non so, saranno venti minuti», rispose la Anderson. Guardò Marino. «Si è messa un po' di Vicks?» le chiese lui in tono gentile. La Anderson aveva le narici lucide. «Vede quel deodorizzante industriale?» continuò Marino indicandole lo speciale sistema di ventilazione sul soffitto. «Non vorrei dire, ma temo che non servirà a molto, una volta aperto il sacco.» «Non ho intenzione di restare», replicò lei. Era ovvio, visto che non si era messa neppure un paio di guanti.
«Non sarebbe dovuta entrare senza adeguata protezione», la rimproverai. «Volevo solo avvertirla che sarò fuori a interrogare i testimoni; mi chiami sul cercapersone appena ha qualche notizia da darmi.» «Quali testimoni? La Bray l'ha mandata in Belgio?» domandò Marino, con la visiera protettiva opaca per la condensa. Non credetti neppure per un attimo che fosse venuta in quel posto tanto poco invitante solo per farmi una semplice comunicazione: chiaramente aveva un secondo fine. In preda a una certa paranoia, controllai che non avesse toccato il grosso sacco bordeaux. Poi guardai l'orologio appeso alla parete: erano quasi le nove. «Mi faccia sapere», mi disse in tono imperioso. Appena le porte si furono richiuse dietro di lei, presi l'interfono e chiamai Rose. «Dove diavolo è Chuck?» domandai. «E chi lo sa?» mi rispose senza neppure cercare di nascondere la propria disapprovazione nei suoi confronti. «Per piacere, trovamelo e mandamelo subito qui», le dissi. «Mi sta facendo diventare matta. E prendi nota della mia telefonata, in maniera che sia tutto documentato.» «Lo faccio sempre.» «Uno di questi giorni lo licenzio», dissi a Marino quando ebbi riattaccato. «Appena avrò documentato abbastanza inefficienze: è pigro e irresponsabile. Prima non era così.» «Mah. A me sembra che lo sia sempre stato. Solo che adesso è peggiorato», replicò. «Quel ragazzo non mi convince, sai? Secondo me nasconde qualcosa. E, per tua informazione, ti rendo noto che sta corteggiando il dipartimento di polizia.» «Mi fa piacere», risposi. «Tenetevelo.» «Sentirà il fascino dell'uniforme, della pistola, delle luci lampeggianti sulla macchina...», osservò Marino mentre io cominciavo ad aprire il sacco mortuario. Non riuscì a finire la frase, nonostante cercasse di farsi forza. «Tutto bene?» «Sì, sì.» Il tanfo ci colpì come il fronte di un temporale. «Per la miseria!» esclamò Marino quando aprii i teli in cui era avvolto il cadavere. «Che strazio!» Certi cadaveri arrivavano in condizioni talmente orrende che diventava-
no un miasma surreale di colori, consistenze e odori innaturali, che spesso risultava sconvolgente. C'era chi non lo sopportava e sveniva. Marino corse via più in fretta che poté e io dovetti sforzarmi di non scoppiare a ridere. Marino era ridicolo, vestito da chirurgo. Con i copriscarpe scivolava sul pavimento e siccome aveva un gran testone pelato, il berretto gli stava sul cocuzzolo. Al massimo, riusciva a tenerlo in testa un quarto d'ora. «Lui non ne può niente, poveretto», gli ricordai. Si stava spruzzando del Vicks in tutte e due le narici. «Non sei un po' ipocrita?» In quel momento le porte si aprirono ed entrò Chuck Ruffin con una serie di lastre. «Se fai entrare una persona, poi non puoi andartene via», lo rimproverai con meno astio di quel che provavo. «Tanto più se si tratta di un investigatore alle prime armi.» «Non sapevo che fosse alle prime armi», si giustificò lui. «Cosa credevi?» intervenne Marino. «È la prima volta che viene e dimostra suppergiù tredici anni!» «Seno ne ha poco, effettivamente. A me piacciono più prosperose», commentò Ruffin. «E poi mi sa che è lesbica. Allarme rosso!» Fece il verso della sirena e allargò le braccia. «Non si lasciano le persone non autorizzate sole insieme con i cadaveri. Neanche i poliziotti. Che siano alle prime armi o meno.» Avevo voglia di licenziarlo lì su due piedi. «Lo so.» Cercò di fare lo spiritoso. «Dopo la storia del guanto di O.J., poi...» Ruffin era un ragazzo alto e snello con gli occhi castani un po' spenti e capelli biondi e ribelli che gli davano un'aria scapigliata che piaceva molto alle donne. Ma su di me il suo fascino non sortiva alcun effetto e Chuck ormai non provava nemmeno più a usarlo. «A che ora è arrivata la Anderson?» gli domandai. Per tutta risposta cominciò a schiacciare interruttori accendendo i diafanoscopi sulle pareti. «Scusi il ritardo, ero al telefono. Mia moglie è ammalata», continuò. Aveva usato la scusa della moglie tante di quelle volte ormai, che quella poveretta doveva essere o ipocondriaca o gravemente malata, avere una fantasia alla Münchhausen o essere in punto di morte. «Vedo che Rene ha preferito andare via...» disse. «Rene?» lo interruppe Marino. «Da quando in qua siete tanto amici?» Ruffin cominciò a estrarre radiografie da alcune buste di carta.
«Chuck, a che ora è arrivata la Anderson?» riprovai. «Esattamente?» Ci pensò su un momento. «Mah, forse al quarto.» «Alle otto e un quarto?» chiesi. «Più o meno.» «E tu l'hai fatta entrare nell'obitorio sapendo che eravamo tutti in riunione?» gli domandai mentre sistemava le radiografie sui diafanoscopi. «Sapendo che non ci sarebbe stato nessuno e che in giro c'erano corpi, carte ed effetti personali?» «Non c'era mai stata e io le ho fatto fare un giro veloce...» Continuò. «E poi io ero qui a contare le pillole. Sono indietro come non mai.» Uno dei compiti di Chuck era contare i farmaci che arrivavano insieme con molti dei nostri casi e quindi eliminarli gettandoli nel lavandino. «Accipicchia!» esclamò. Le radiografie del cranio in proiezioni diverse mostravano suture metalliche sul lato della mandibola sinistra, evidenti come le cuciture di una palla da baseball. «L'uomo del container si era rotto la mandibola», osservò Ruffin. «Questo dovrebbe aiutarla molto nell'identificazione, dottoressa.» «Se riusciremo a trovare delle lastre precedenti», risposi. «Come sempre», fece Ruffin. Stava facendo di tutto per distrarmi perché sapeva di essere dalla parte del torto. Controllai le ombre radio-opache e la forma dei seni paranasali e delle ossa senza riscontrare altre fratture, deformità o alterazioni, a parte una cuspide di Carabelli. Tutti i molari hanno quattro cuspidi o protuberanze, mentre quello ne aveva uno con cinque. «Chi è 'sto Carabelli?» chiese Marino. «Non so bene.» Gli indicai il dente in questione. «Arcata superiore. Linguale e mesiale, cioè anteriormente verso la lingua.» «Straordinario», replicò Marino. «Non ho capito un corno.» «E una caratteristica strana», spiegai. «Insieme con la configurazione dei seni nasali e la mandibola fratturata, abbiamo abbastanza elementi per identificarlo, se troviamo qualche riscontro pre mortem con cui confrontarlo.» «Dici sempre così, capo», mi ricordò Marino. «Perdio, ti sono capitati per le mani cadaveri con un occhio di vetro, un arto artificiale, una placca nella testa, un anello con il sigillo, l'apparecchio per i denti e chi più ne ha più ne metta, ma non sei riuscita a identificarli lo stesso perché nessuno aveva fatto denuncia di scomparsa o, se era stata fatta, poi era andata per-
sa; oppure non c'erano più cartelle cliniche o lastre precedenti.» «Alcuni interventi odontoiatrici», notai indicando un certo numero di otturazioni che risultavano di un bianco brillante sulla sagoma opaca di due molari. «Evidentemente andava dal dentista con regolarità. Anche le unghie sono curate. Mettiamolo sul tavolo. Dobbiamo sbrigarci perché, più tempo passa, peggio è.» 12 Gli occhi erano fuori dalle orbite come quelli di una rana e il cuoio capelluto e la barba si staccavano insieme con gli strati esterni della pelle sempre più scura. Quando lo afferrai per le ginocchia e Ruffin lo prese sotto le ascelle, la testa penzolò da una parte riversando per terra i liquidi che erano rimasti all'interno. Con fatica lo sollevammo e lo posammo sul tavolo mobile, mentre Marino teneva ferma la barella. «Abbiamo preso apposta i tavoli mobili per non fare più questa fatica», brontolai senza fiato. Non tutti i servizi di trasporto si erano adattati alla novità, tuttavia. Spesso i loro addetti lasciavano i corpi sulla prima barella che trovavano in giro, invece di sistemarli già sui nuovi tavoli da autopsia che potevamo avvicinare ai lavandini. Fino a quel momento il mio tentativo di risparmiare una fatica inutile era stato vano. «Allora, caro il mio Chuckie, ho sentito che vuoi entrare nella polizia», lo stuzzicò Marino. «E dove l'ha sentito?» chiese Ruffin evidentemente sorpreso e subito sulla difensiva. Si sentì il tonfo del cadavere sull'acciaio inossidabile. «In giro», replicò Marino. Ruffin non rispose e cominciò a lavare la barella con un getto d'acqua, poi la asciugò con uno straccio e quindi la coprì con dei teli puliti. Io, intanto, scattavo le fotografie. «Volevo solo avvertirti che non è tutto bello come sembra», gli fece Marino. «Chuck», intervenni, «mi servono delle pellicole per la Polaroid.» «Arrivo.» «La realtà è diversa», continuava Marino in tono paternalistico. «Giri per le strade tutta la notte senza che succeda niente a farti due palle così. Ti pigli sputi in faccia, insulti e mai una parola di apprezzamento... E poi a te
danno una macchina di merda, mentre i leccaculo si beccano gli uffici migliori e vanno a giocare a golf con i superiori.» Si sentiva il rumore dei getti d'aria e lo scroscio dell'acqua. Feci uno schizzo delle suture metalliche e dell'extra cuspide sperando che il senso di oppressione mi lasciasse un po' di requie. Nonostante tutto quello che avevo studiato, non riuscivo a capire come facesse il dolore a nascere nel cervello e a diffondersi in tutto il corpo come un'infezione sistemica, erosiva, pulsante, che lasciava infiammati e indolenziti e arrivava a distruggere carriera e famiglie, quando non addirittura la vita. «Era ben vestito», commentò Ruffin. «Armani. Non avevo mai visto roba firmata così da vicino.» «Solo la cintura e le scarpe di coccodrillo varranno mille dollari», dissi. «Sul serio?» fece Marino. «Magari è per questo che è finito così. Sua moglie gliele regala per il compleanno, lui scopre quanto ha speso e gli viene un coccolone. Ti spiace se me ne accendo una, capo?» «Certo che mi dispiace. Quanti gradi erano ad Anversa quando è partita la nave? L'hai chiesto a Shaw?» «Minima 9, massima 20», rispose Marino. «Strano, eh? Fa caldo dappertutto. Se continua così, per Natale vado a trovare Lucy a Miami. Oppure mi metto una palma nel salotto.» Al sentir nominare Lucy mi si strinse il cuore in una morsa gelida e implacabile. Mia nipote aveva sempre avuto un carattere difficile e complicato. Erano pochi a conoscerla veramente, anche se tanti si illudevano di capirla. Dietro alla sua intelligenza straordinaria, alle sue doti fuori del comune e al suo coraggio si nascondeva una bambina ferita e arrabbiata che inseguiva i draghi che tutti noi temevamo. Terrorizzata dalla prospettiva dell'abbandono, realistica o immaginaria che fosse, preferiva essere lei a dire di no per prima. «Avete notato che la maggioranza delle persone quando muore è malvestita?» osservò Chuck. «Mi chiedo come mai.» «Sentite, mi cambio i guanti e mi metto in un angolo», fece Marino. «Muoio dalla voglia di fumare.» «A parte la primavera scorsa, quando sono morti quei ragazzi che tornavano dal ballo della scuola», proseguì Chuck. «Mi ricordo che uno aveva lo smoking blu e il fiore all'occhiello.» I jeans erano arricciati in vita sotto la cintura. «I calzoni gli stavano larghi», osservai facendo uno schizzo. «Sono una taglia in più se non due. Forse era dimagrito.»
«Difficile dire che corporatura avesse», commentò Marino. «Adesso come adesso ha una pancia più grossa della mia.» «Perché è pieno di gas.» «Invece la sua è tutta ciccia, purtroppo», fece Chuck sfacciato. «Centosettantadue centimetri per quarantacinque chili di peso, il che significa che, tenuto conto dei liquidi che ha perso, in vita doveva pesarne sessanta o sessantacinque», calcolai. «Un uomo di corporatura media che, a giudicare dai vestiti, a un certo punto era stato più grasso. Ha gli abiti pieni di capelli. Strani, biondo chiaro, lunghi quindici o venti centimetri.» Rivoltando la tasca sinistra dei pantaloni, ne trovai altri, insieme con un tagliasigari e un accendino d'argento. Li posai su un foglio di carta bianco, attenta a non rovinare eventuali impronte. Nella tasca destra trovai due monete da cinque franchi, una sterlina inglese e un fascio di banconote straniere che non riconobbi. «Niente portafogli, niente passaporto, niente gioielli», dichiarai. «Potrebbe essere una rapina», osservò Marino. «Se non fosse per questa roba nelle tasche. Mi sembra strano che non gli abbiano preso tutto.» «Chuck, hai già chiamato il dottor Boatwright?» domandai. Era un odontoiatra forense del Medical College of Virginia che chiamavamo spesso quando ci serviva una consulenza. «Adesso vado.» Si tolse i guanti e andò al telefono. Lo sentii aprire cassetti e armadietti. «Avete mica visto l'elenco dei numeri?» chiese. «Sei tu che ti devi occupare di queste cose», replicai infastidita. «Torno subito.» Era chiaro che non vedeva l'ora di andarsene di nuovo. Uscì sotto lo sguardo curioso di Marino. «Ha l'intelligenza di un insaccato», commentò questi. «Io non so più che cosa fare», brontolai. «Perché non è scemo, Marino. Tutt'altro.» «Hai provato a chiedergli che cos'ha nella testa? Magari ha dei vuoti di memoria o qualche disturbo dell'attenzione, chi lo sa? Magari ha preso una botta in testa oppure si è tirato troppe seghe...» «No, questo non gliel'ho chiesto.» «Non ti scordare che il mese scorso ha perso un proiettile facendolo scivolare giù dal lavandino, capo. E poi ha cercato di dare la colpa a te, che è una stronzata colossale. Voglio dire, io c'ero.» Stavo combattendo con i jeans viscidi e bagnati dell'uomo, che non volevano abbassarsi.
«Mi daresti una mano?» gli chiesi. Sfilammo delicatamente i pantaloni lungo ginocchia e caviglie, quindi togliemmo gli slip neri, i calzini e la maglietta, che posai sulla barella coperta da un telo. Controllai che non ci fossero fori, strappi o altri indizi interessanti e notai che la parte posteriore dei calzoni, soprattutto in corrispondenza del sedere, era molto più sporca che davanti. Vidi che anche le scarpe erano tutte graffiate dietro. «Jeans, slip e maglietta sono di Armani e Versace. Gli slip sono al contrario», continuai, facendo l'inventario. «Scarpe, cintura e calzini sono di Armani. Vedi che sono sporchi e graffiati dietro? Potrebbe voler dire che è stato trascinato da qualcuno che lo teneva sotto le ascelle.» «È quello che pensavo anch'io», fece Marino. Una quindicina di minuti dopo le porte si aprirono e Ruffin entrò con l'elenco, che attaccò con lo scotch a uno sportello. «Che cosa mi sono perso?» chiese allegramente. «Adesso controlliamo i vestiti al Luma-Lite, poi li lasciamo asciugare e li portiamo in laboratorio», gli dissi brusca. «Gli altri effetti personali, una volta asciutti, vanno messi negli appositi sacchetti.» Si infilò un paio di guanti. «Dieci-quattro», rispose lievemente seccato. «Allora hai già cominciato a studiare per entrare nell'accademia?» continuò a stuzzicarlo Marino. «Auguri.» 13 Mi persi nel mio lavoro, assorta in un corpo necrotico, putrefatto e quasi irriconoscibile come umano. La morte aveva reso l'uomo inerme e i batteri fuoriusciti dal tratto gastrointestinale l'avevano devastato espandendosi, fermentando e riempiendolo di gas. I batteri avevano distrutto le pareti cellulari e reso di un verde nerastro il sangue nelle vene e nelle arterie così che, attraverso la pelle sbiadita, il sistema circolatorio sembrava una rete di fiumi e affluenti su una carta geografica. Le parti del corpo sotto i vestiti si erano conservate molto meglio della testa e delle mani. «Brr. Pensa trovartelo di fronte mentre fai il bagno di mezzanotte!» fece Ruffin guardandolo. «Sai che nemmeno tu, da morto, sarai un bello spettacolo, caro il mio
Chuckie?» ribatté Marino. «Sappiamo dove si trovava esattamente il container a bordo della nave?» chiesi a Marino. «Sotto ad altri container.» «E conosciamo le condizioni meteorologiche nel corso della traversata?» «Piuttosto buone, con temperature comprese fra i 15 e i 21 gradi. Tutta colpa del Nino: la gente fa gli acquisti di Natale con i pantaloni corti.» «Pensate che sia morto durante il viaggio e che qualcuno lo abbia nascosto dentro il container?» domandò Ruffin. «No, non è questo che penso, caro il mio Chuckie.» «Mi chiamo Chuck, veramente.» «Be', io ti chiamo Chuckie. E sai perché non lo penso? Perché non saprei proprio come fare a infilare un cadavere dentro un container impilato insieme a centinaia di altri», replicò Marino. «Aprirlo è impossibile. A parte il fatto che i sigilli erano intatti.» Mi avvicinai una lampada da chirurgo e raccolsi peli e fibre con un paio di pinzette e una lente d'ingrandimento. Feci anche qualche tampone. «Chuck, hai controllato quanta formalina abbiamo?» chiesi. «L'altro giorno mi sembrava che ce ne fosse poca. O hai già provveduto?» «No, non ancora.» «Sta' attento a non respirare i fumi», lo avvertì Marino. «Hai visto come riduce i cervelli che porti al Medical College?» La formalina è una soluzione acquosa di formaldeide, una sostanza chimica molto reattiva utilizzata per conservare organi, parti del corpo o, nel caso delle donazioni, interi cadaveri. Uccide i tessuti ed è estremamente corrosiva per le vie respiratorie, la pelle e gli occhi. «Vado a controllare», disse Ruffin. «No, adesso no», lo bloccai. «Prima dobbiamo finire qui.» Tolse il tappo a un pennarello indelebile. «Chiamiamo Cleta per vedere se Rene Anderson se n'è andata», proposi. «Non vorrei che si fosse messa a girare per l'istituto.» «Ci penso io», mi disse Marino. «Devo ammettere che mi fa un po' impressione vedere una bella ragazza che va a caccia di killer» fece Chuck a Marino. «Scommetto che ai suoi tempi le donne più che multe per sosta vietata non facevano, eh?» Marino andò al telefono. «Togliti i guanti», gli raccomandai, perché se ne scordava sempre nonostante i cartelli che avevo messo tutto intorno all'apparecchio.
Spostai piano la lente e a un certo punto mi fermai. Sulle ginocchia c'erano sporcizia e abrasioni, come se la vittima fosse stata carponi su una superficie sporca e ruvida senza pantaloni. Controllai i gomiti e trovai anche lì abrasioni e sporcizia, per quanto fosse più difficile accertarne la presenza perché la pelle era in uno stato molto peggiore. Bagnai un tampone in acqua sterile mentre Marino riattaccava. Sentii che si infilava un altro paio di guanti. «La Anderson non c'è più», mi comunicò. «Cleta dice che se n'è andata una mezz'oretta fa.» «Allora, lei cosa ne pensa delle donne che fanno pesi?» chiese Ruffin a Marino. «Ha visto che braccia muscolose che ha Rene Anderson?» Usando un righello da quindici centimetri come riferimento, cominciai a scattare foto con una macchina da trentacinque millimetri e un obiettivo da macrofotografia. Trovai altra sporcizia sotto le ascelle e ne raccolsi un campione. «Mi chiedo se la luna era piena quando la nave è partita da Anversa», mi disse Marino. «Se una donna vuole lavorare in un ambiente prevalentemente maschile deve essere forte e robusta», proseguì Ruffin. Lo scroscio dell'acqua era continuo, interrotto solo dal clangore dell'acciaio contro l'acciaio; le luci al soffitto non creavano ombre. «Stasera c'è la luna nuova», risposi. «Il ciclo lunare qui e in Belgio dovrebbe essere lo stesso.» «Quindi è possibile che fosse piena», concluse Marino. Sapevo dove voleva arrivare e con il mio silenzio cercai di fargli capire che non volevo che tirasse in ballo la storia del licantropo. «Cos'è successo, Marino? Avete fatto un braccio di ferro lavorativo?» domandò Ruffin tagliando lo spago che legava un pacco di asciugamani. Marino lo fulminò con un'occhiata. «Posso anche immaginare chi ha vinto, visto che Rene Anderson segue le indagini mentre lei si è rimesso la divisa», continuò Ruffin con un sorrisetto. «Stai parlando con me?» «Ha capito benissimo», replicò Chuck aprendo uno sportello. «Sto invecchiando», osservò Marino prendendo il berretto e cacciandolo nella spazzatura. «Non ci sento più come una volta. Comunque ho l'impressione che tu mi voglia rompere i coglioni. Sbaglio?» «Che cosa ne pensa delle culturiste che si vedono in TV? E di quelle che
fanno wrestling?» continuava Ruffin. «Sta' un po' zitto, fammi il favore», lo rimbrottò Marino. «Lei è single, no? Ci andrebbe con una così?» A Ruffin Marino era sempre stato antipatico. Siccome il suo mondo egocentrico ruotava su un asse molto debole, vedendolo giù di morale e mortificato, aveva colto al volo l'occasione per ferirlo. «Il problema è vedere se una così verrebbe con lei, capitano.» Ruffin la tirava per le lunghe senza capire che gli sarebbe convenuto tacere. «Ho l'impressione che lei non abbia molto successo con le donne. O sbaglio?» Marino gli si avvicinò minaccioso e gli si parò a un palmo dal naso. «Voglio dirti solo una cosa, brutto imbecille che non sei altro», gli fece dall'alto della sua visiera protettiva opaca per la condensa. «Ti consiglio di chiudere quella tua stramaledetta boccaccia, prima che ti molli un pugno. E di rimetterti il pisellino nei calzoni, che rischi di farti del male.» Chuck diventò paonazzo, anche perché nel frattempo le porte si erano aperte e Neil Vander era entrato con un tampone di inchiostro e dieci cartoncini. «Piantatela immediatamente», ordinai a Marino e Ruffin. «Oppure vi caccio, tutti e due.» «Buongiorno», salutò Vander. «La pelle viene via come niente», lo avvertii. «Tanto per facilitare le cose.» Vander era il responsabile del laboratorio che si occupava delle impronte ed era un tipo che non si scomponeva di fronte a nulla. Lo avevo visto togliere vermi dalle mani di cadaveri semiputrefatti e tagliare le dita a corpi ustionati per portarsele in laboratorio dentro un barattolo senza batter ciglio. Lo avevo conosciuto quando mi ero trasferita a Richmond e mi sembrava che non fosse cambiato affatto in tutto quel tempo. Era sempre stato pelato, alto e dinoccolato e aveva l'abitudine di mettersi camici troppo abbondanti, che gli sventolavano addosso quando camminava nel corridoio a passo svelto. Si infilò un paio di guanti di gomma e prese con delicatezza le mani del morto, rigirandole piano piano per studiarle bene. «La cosa migliore è sfilare via la pelle», decise. Quando un cadavere è in quello stato, lo strato esterno dell'epidermide viene via come un guanto, e così è infatti chiamato. Vander lo tolse velocemente dalle due mani del morto e vi infilò a una a una le dita fasciate nel
lattice. Una volta indossate le mani del morto, per così dire, posò le dita sul tampone e quindi sugli appositi cartoncini. Quindi le fece scivolare su un vassoio da chirurgo, si tolse i guanti di lattice e tornò di sopra. «Chuck, mettile in formalina, per favore», dissi. «È meglio conservarle.» Con aria offesa, Chuck si apprestò ad aprire un barattolo da un litro. «Giriamolo», dissi. Marino ci aiutò a voltare il corpo a faccia in giù. Trovai altra sporcizia, soprattutto sui glutei, e ne presi un altro campione. Non vidi traccia di ferite o lesioni, ma notai una zona più scura sulla spalla destra. Presi una lente d'ingrandimento e controllai meglio, cercando di sgombrare la mente dai pregiudizi, come mi imponevo sempre di fare quando esaminavo segni di morsicature o altre lesioni controverse. Era un po' come immergersi in acque molto torbide e aggirarsi fra sagome e ombre nella speranza di imbattersi in qualcosa. «L'hai visto anche tu, Marino, o è la mia immaginazione?» chiesi. Si infilò un po' di Vicks nel naso e si appoggiò al tavolo a guardare. «Può darsi», decretò dopo un po'. «Non saprei.» Passai un panno umido sulla pelle, staccando l'epidermide: lo strato sottostante, detto derma, aveva l'aspetto rugoso della carta crespa e pareva macchiato di inchiostro scuro. «È un tatuaggio.» Ne ero piuttosto sicura. «L'inchiostro è penetrato nel derma. Il disegno mi sfugge, però: vedo solo una macchia scura.» «Potrebbe essere una voglia», suggerì Marino. Avvicinai la lampada e guardai attentamente con la lente, mentre Ruffin puliva furiosamente il bancone di acciaio inossidabile. «Proviamo con i raggi ultravioletti», proposi. La lampada a raggi ultravioletti multipla era semplice da usare e assomigliava a certi metal detector manuali che si usano negli aeroporti. Abbassammo le luci e io provai prima di tutto con le onde lunghe, tenendo la lampada vicino alla zona che mi interessava. Non vidi nulla di fluorescente, ma mi parve di distinguere una traccia di viola e mi chiesi se fosse in corrispondenza di inchiostro bianco, perché ai raggi ultravioletti il bianco, come il telo candido sulla barella lì vicino, assumeva quella colorazione. Poi provai con le onde corte e non riscontrai nessuna differenza. «Luci», ordinai. Ruffin le accese. «Avrei detto che l'inchiostro di un tatuaggio avrebbe avuto l'effetto di un neon», osservò Marino.
«Se l'inchiostro è fluorescente», gli feci notare. «Ma siccome iodio e mercurio in concentrazioni elevate non fanno molto bene alla salute, adesso non li usano più.» Erano le dodici passate quando cominciai a fare l'autopsia, praticando l'incisione a Y e rimuovendo lo sterno. Era come mi aspettavo: gli organi, molli e friabili, si disfacevano al tocco e dovevo fare molta attenzione per pesarli e sezionarli. Dalle arterie coronarie non capii molto, tranne che non erano occluse. Non era rimasto sangue, ma solo il liquido putrefatto che si chiama essudato oleoso e che raccolsi dalla cavità pleurica. Il cervello si era liquefatto. «Mandiamo qualche campione di cervello e di essudato ai laboratori per l'esame tossicologico», dissi a Ruffin senza smettere di lavorare. Urina e bile erano filtrate attraverso le cellule degli organi cavi che le contenevano e lo stomaco non esisteva più. Quando spostai il cuoio capelluto dalla scatola cranica, trovai la risposta al mio interrogativo principale: la cresta petrosa delle ossa temporali e le cellette pneumatiche mastoidee, bilateralmente, erano macchiate. Sebbene non potessi esprimere una diagnosi certa prima di aver ricevuto tutti gli esami tossicologici, ero abbastanza sicura che quell'uomo era annegato. «Che cosa c'è?» mi chiese Marino fissandomi. «Vedi la macchia?» indicai. «È stata una foltissima emorragia, probabilmente intervenuta mentre lottava per non affogare.» Il telefono squillò e Ruffin corse a rispondere. «Quando è stata l'ultima volta che hai lavorato con l'Interpol?» domandai a Marino. «Cinque o sei anni fa, quando un uomo fuggito dalla Grecia era venuto da queste parti ed era rimasto coinvolto in una rissa in un bar in una traversa di Hull Street.» «Questo è un caso dai risvolti internazionali. Se è scomparso in Francia, Inghilterra, Belgio o Dio sa dove, o se stava cercando di fuggire, noi qui a Richmond non lo sapremo mai senza l'Interpol.» «Hai mai avuto a che fare con loro?» mi chiese. «No. È roba vostra.» «Dovresti sentire i miei colleghi. Non vedono l'ora che gli capiti un caso per cui devono interpellare quelli dell'Interpol, ma se gli chiedi chi sono e che cosa fanno, manco ti sanno rispondere», mi spiegò Marino. «Con tutta franchezza, a me non me ne frega niente di collaborare con l'Interpol. Mi
fa paura, come la CIA. Preferisco che non sappiano nemmeno come mi chiamo.» «È ridicolo. Tu sai che cosa vuoi dire Interpol, Marino?» «Sì. Servizi segreti.» «Vuol dire International Police, polizia internazionale. Lo scopo è fare da tramite fra i paesi membri incoraggiando la collaborazione. Come è giusto.» «Allora all'Interpol non c'è gente come la Bray.» Guardai Ruffin al telefono. Chiunque fosse la persona con cui stava parlando, cercava di non farsi sentire. «Dispone di una rete di telecomunicazioni riservata alle forze dell'ordine di tutto il mondo... Non le sopporto, queste cose. Non solo mi risponde, ma fa anche il furbo», borbottai guardando storto Ruffin. Marino gli lanciò un'occhiataccia. «L'Interpol dirama segnalazioni codificate per colore», continuai distrattamente, osservando Ruffin che si infilava un asciugamano nella tasca posteriore dei calzoni e prendeva un contapillole da un armadietto. Vidi che si sedeva davanti a un lavandino di acciaio inossidabile, dandomi la schiena, apriva un sacchetto di carta marrone con un numero sopra e tirava fuori tre boccette di Advil e altri due flaconi di medicinali. «Per esempio, per i cadaveri non identificati si usa il codice nero», dissi. «Di solito si sospetta un fuggitivo con legami internazionali. Chuck, scusa, che cosa stai facendo?» «Gliel'ho detto, sono indietro con questo lavoro. Sono arrivate tante di quelle pillole, ultimamente! Non ce la faccio più. Quando arrivo a sessanta o settanta, squilla il telefono, perdo il conto e devo ricominciare.» «Caro il mio Chuckie», commentò Marino, «tu perdi il conto troppo facilmente.» Ruffin si mise a fischiettare. «Cos'hai da essere tanto allegro?» chiese Marino insofferente, mentre Ruffin prendeva le pillole con le pinzette per disporle in un apposito contenitore di plastica azzurra. «Ci servono impronte digitali, schemi della dentatura, tutto quello che possiamo», dissi a Marino tagliando una sezione muscolare profonda dalla coscia per l'esame del DNA. «Tutto quello che può servire mandargli...» «A chi?» fece Marino. Stavo perdendo la pazienza. «All'Interpol», risposi.
Il telefono squillò di nuovo. «Marino, per favore, risponde lei? Sto contando le pillole.» «Peggio per te», gli fece Marino. «Mi ascolti?» chiesi io. «Ma sì», rispose. «Conosco quello che se ne occupa. È uno della Polizia Criminale che era sergente maggiore. Una volta l'ho invitato a bere una birra o a mangiare da Chetti con degli altri colleghi. Così, tanto per essere gentile. Lui non ha mai cambiato tono di voce. Giurerei che ha registrato tutto quello che gli dicevo.» Mi concentrai su un pezzo di vertebra che avrei poi pulito con acido solforico e fatto analizzare per scoprire se vi restava traccia di microrganismi chiamati diatomee, presenti nelle acque di tutto il globo. «Peccato che non mi ricordi più come si chiamava», diceva Marino. «Lui comunque prendeva tutte le informazioni e contattava Washington, che a sua volta contattava Lione dove c'è la sede dell'Interpol. Pare che sia un palazzo spaventoso in un luogo isolato protetto con cavi elettrificati, filo spinato, cancelli automatici e guardie armate di mitragliatore. Sai, tipo il rifugio di Batman. Insomma, un incubo.» «Hai visto troppi film di James Bond», lo presi in giro. «Macché, da quando non c'è più Sean Connery, non li guardo più. Non c'è più un film decente e la TV fa schifo. Una noia...» «Potresti provare a leggere un libro.» «Dottoressa?» mi chiamò Chuck riattaccando. «Era il dottor Cooper. Dall'esame tossicologico risulta che l'alcol nell'essudato è zero virgola zero otto e assente nel cervello.» Il valore 0,08 non voleva dire niente, se non era presente alcol nel cervello. Poteva darsi che l'uomo avesse bevuto prima di morire o che l'alcol si fosse formato dopo la sua morte per effetto dei batteri. Purtroppo non c'erano né urina né sangue né corpo vitreo dell'occhio con cui fare un raffronto. Se il contenuto di alcol fosse stato veramente 0,08, era possibile che l'uomo non fosse in condizioni di lucidità perfette e quindi fosse più vulnerabile. «Cosa scrivi sul referto?» domandò Marino. «Mal di mare», scherzò Ruffin, cercando di uccidere una mosca con un asciugamano. «Cominci a darmi sui nervi», lo avvertì Marino. «Morte violenta per cause ancora da determinare», risposi. «Questo non è un povero portuale rimasto accidentalmente chiuso dentro a un container:
è stato assassinato. Chuck, scusa, mi serve un vassoio chirurgico. Me lo puoi mettere lì sul bancone? Ah, prima di andare via, ricordati che ti voglio parlare.» Ruffin distolse immediatamente lo sguardo. Io mi sfilai i guanti e chiamai Rose. «Ti spiace andarmi a cercare uno dei miei vecchi taglieri di sughero?» L'OSHA aveva deciso che tutti i taglieri dovevano essere rivestiti in Teflon perché quelli porosi erano soggetti a contaminazione. Era giusto, se si aveva a che fare con dei pazienti vivi o si faceva il pane, e io mi ero adeguata, ma non avevo buttato via quelli vecchi. «Mi servono anche delle forcine», le chiesi. «Ce ne dovrebbe essere un sacchetto nel cassetto in alto a destra della mia scrivania. A meno che non mi abbiano fregato anche quelle.» «È possibile», mi rispose Rose. «Credo che i taglieri siano nello scaffale in basso in fondo al ripostiglio, vicino alle scatole con i vecchi manuali di anatomia.» «Nient'altro?» «Lucy non ha chiamato, vero?» «Non ancora. Se chiama, ti avverto.» Riflettei che era l'una passata: ormai era scesa dall'aereo e avrebbe già potuto chiamarmi, se avesse voluto. Mi assalirono depressione e paura. «Mandale dei fiori in ufficio», le dissi. «Con un biglietto che dice: "Grazie della visita. Con affetto, zia Kay".» Silenzio. «Ci sei?» chiesi alla mia segretaria. «Sicura di voler scrivere proprio così?» Esitai. «Hai ragione: scrivici che mi dispiace e che le voglio bene.» 14 Generalmente usavo un pennarello indelebile per segnare dove occorreva incidere, ma nel caso specifico la pelle era in uno stato tale che lo rendeva impossibile. Mi arrangiai con un righello da quindici centimetri, misurando dalla base destra del collo fino alla spalla, lungo la parte inferiore della scapola verso l'alto. «Ventidue per diciassette per cinque per dieci», dettai a Ruffin.
La pelle è elastica: quando la si incide, si contrae. Era importante che, fissandola sul tagliere di sughero, la riportassi alle dimensioni originarie in maniera da non deformare il disegno tatuato. Marino era andato via e tutti all'obitorio stavano lavorando nella sala autopsie o in ufficio. Di tanto in tanto le televisioni a circuito chiuso mostravano un furgone che caricava o scaricava un corpo. Ruffin e io eravamo soli nella sala di decomposizione. Decisi di parlargli. «Se vuoi entrare nella polizia, va bene», esordii. Stava riponendo alcune provette e sentii un tintinnio di vetro. «Se però resti qui, occorre che tu sia presente, affidabile e rispettoso.» Presi un bisturi e un paio di pinze dal tavolo degli strumenti e lo guardai. Ebbi l'impressione che si aspettasse una ramanzina e che avesse già pensato anche a come rispondermi. «Non sarò perfetto, ma affidabile credo di sì», replicò. «Ultimamente non lo sei stato. Mi servono dei morsetti», dissi. «Sono successe tante cose», si giustificò andandomeli a prendere. «Nella mia vita, intendo dire. Mia moglie, la casa... Sapesse quanti problemi!» «Mi dispiace per te, ma io devo gestire questo istituto e non posso tenere conto delle magagne di tutti. Se non fai il tuo lavoro, crei un disservizio: voglio entrare in obitorio e trovare tutto pronto. E mi secca che tu ti renda irreperibile.» «Certo, con tutti i problemi che abbiamo...» sospirò con l'aria di chi sta per tirare fuori un asso dalla manica. Cominciai a incidere. «Lei non lo sa, però...» continuò. «Se pensi che non sappia qualcosa, dimmelo», replicai. Ripiegai la pelle del morto lungo lo strato sottocutaneo. Ruffin mi guardò fissare i bordi con i morsetti per mantenerla tesa. Mi interruppi e lo guardai negli occhi. «Avanti», lo esortai. «Parlamene.» «Non credo spetti a me farlo», si schermì e nel suo sguardo c'era qualcosa che mi fece innervosire. «Senta, dottoressa, so benissimo di non essere stato sempre preciso e corretto. Mi sono assentato per fare un colloquio di lavoro e comunque non sempre ho fatto tutto quello che dovevo fare. E con Marino non vado d'accordo. Lo riconosco, ma se promette di non prendersela con me, le dirò quello che gli altri si guardano bene dal dirle.» «Io non me la prendo mai con chi dice la verità», replicai irritata che avesse anche solo potuto pensare una cosa del genere. Si strinse nelle spalle e notai che era compiaciuto: evidentemente fare la
spia gli piaceva. «In generale, non me la prendo con nessuno», ribadii. «Mi aspetto che la gente faccia quello che deve. Chi non lo fa, se ne deve assumere la responsabilità, tutto lì. Se sarai licenziato, sarà perché non hai lavorato abbastanza bene.» «Forse non ho usato il termine giusto», si scusò andandosi ad appoggiare al bancone con le braccia conserte. «Non mi esprimo bene come lei, lo so. È solo che non voglio che si arrabbi con me se le dico qualcosa di spiacevole. Ambasciator non porta pena, okay?» Non risposi. «Sa, siamo rimasti tutti molto male quando abbiamo saputo della morte dell'agente speciale Wesley», cominciò. «E non sappiamo proprio come ha fatto lei ad andare avanti. Io non so come avrei reagito, se avessi perso mia moglie. Soprattutto in quel modo.» Avevo sempre trovato buffo che Ruffin chiamasse Benton «agente speciale». Benton non era uno che teneva ai titoli; anzi, lo imbarazzavano. Tuttavia, ora che Marino mi aveva rivelato che Chuck ambiva a entrare nelle forze dell'ordine, capii che, insicuro e debole com'era, doveva essersi sentito in grande soggezione nei confronti di un agente dell'FBI specializzato in profili psicologici. Mi venne il dubbio che forse, se prima si comportava molto meglio, era più per Benton che per me. «Siamo rimasti tutti scioccati», continuò. «Veniva sempre, sa, era gentile e cordiale. Ci facevamo portare delle pizze, si scherzava. Un uomo così importante eppure così alla mano... Non mi sembrava vero.» Pensai al fatto che Ruffin aveva perso il padre da piccolo in un incidente d'auto ed era stato tirato su dalla madre, una donna molto intelligente e capace che faceva l'insegnante; aveva poi sposato una donna forte e adesso lavorava con me. Ma è consueto rimettere in scena le tragedie dell'infanzia e cercare dei sosia di chi ci ha fatto soffrire: non mi sorprendeva pertanto che Ruffin si affiancasse continuamente a donne forti e autorevoli. «La trattiamo tutti con i guanti», proseguì Ruffin. «Se sbaglia, nessuno glielo fa notare. E così succedono un sacco di cose di cui lei non si accorge nemmeno.» «Per esempio?» chiesi staccando un lembo di pelle con il bisturi. «Be', tanto per cominciare, il fatto che in questo stramaledetto istituto spariscono le cose», protestò. «Per me, è uno che lavora qui. Ormai è un bel po' che va avanti e lei non ha fatto assolutamente niente.» «L'ho scoperto solo di recente.»
«Come volevasi dimostrare.» «Ma è ridicolo: Rose mi dice tutto.» «Be', anche con Rose andiamo con i piedi di piombo. Insomma, dottoressa, si sa che è la sua informatrice, che le viene a riferire tutto. Quindi stiamo tutti attenti a come le parliamo.» Cercai di concentrarmi, ma ero ferita e umiliata. Continuai a ripiegare il tessuto, attenta a non perforarlo o rovinarlo. Ruffin era in attesa di una mia reazione. Lo guardai negli occhi. «Rose non è la mia informatrice. E comunque non dovrei averne bisogno. Chi mi conosce sa che con me si può parlare.» Mi rispose con un silenzio e continuò a mantenere un atteggiamento strafottente e compiaciuto. Posai i polsi sul tavolo di acciaio. «Non credo di dovermi giustificare, Chuck», dissi. «L'unico che ha dei problemi con me sei tu. Del resto capisco che tu ti possa sentire a disagio ad avere una donna come capo, visto che tutte le figure dominanti della tua vita sono state donne.» Gli brillò una luce strana negli occhi e si irrigidì. Io ripresi a staccare la pelle fragile e scivolosa. «Apprezzo comunque che tu mi abbia esposto con sincerità il tuo punto di vista», aggiunsi gelida. «Non è solo il mio punto di vista», rispose brusco. «Il fatto è che tutti pensano che lei stia uscendo di testa.» «E tu come fai a sapere che cosa pensano gli altri?» ribattei senza lasciar trapelare la collera che mi bruciava dentro. «Non è difficile», replicò. «Non sono mica l'unico ad aver notato che lei non è più quella di una volta. E che non se ne rende neanche conto, purtroppo. Lo ammetta.» «Che cosa dovrei ammettere?» Sembrava avere pronto un elenco. «Che fa delle stranezze. Che va sui luoghi di delitti che non richiedono la sua presenza, così poi è stanca morta e non si accorge dei problemi che ci sono in ufficio. Che, quando chiamano i familiari delle vittime, lei non trova mai il tempo di parlargli. Prima lo faceva.» «Come sarebbe?» Stavo per perdere l'autocontrollo. «Ma se parlo sempre con le famiglie, con chiunque chiede di me... Certo, purché abbia diritto a ricevere informazioni!» «Chieda al dottor Fielding quante volte gli ha dovuto parlare lui... Quante volte ha dovuto intervenire, coprirla... E poi quella storia di Internet! Se-
condo me esagera davvero. Non se ne può più.» Rimasi sconcertata. «Quale storia di Internet?» «La chat line, o cos'è che tiene. Guardi, io non ho nemmeno il computer a casa e non sono collegato, quindi non l'ho mai visto. Però...» Pensieri bizzarri e rabbiosi mi attraversarono la mente come mille storni, oscurando la percezione che avevo sempre avuto della mia vita. Una miriade di pensieri cupi e ombrosi mi ottenebrò. «Non volevo metterla in difficoltà, dottoressa», mi consolò Chuck. «Guardi che capisco benissimo che uno faccia delle cose strane, dopo un trauma così.» Non volevo sentire un'altra parola; volevo che la piantassero di parlarmi dei miei traumi. «Grazie della comprensione, Chuck», dissi guardandolo negli occhi con un'intensità che gli fece distogliere lo sguardo. «Ormai dovrebbe essere arrivato il corpo che aspettiamo da Powatan. Se vuole, vado a vedere», replicò, ansioso di uscire dalla stanza. «Sì, E rimetti questo nella cella frigorifera.» «Certo», rispose. Le porte si chiusero alle sue spalle e nella sala ritornò il silenzio. Ripiegai l'ultimo lembo di tessuto e lo posai sul tagliere in preda a una paranoia che minava ogni mia sicurezza. Cominciai a fissare il lembo di tessuto con le forcine, tendendolo e misurandolo, poi posai il tagliere dentro un vassoio chirurgico e lo coprii con un telo verde prima di metterlo nella cella frigorifera. Mi feci una doccia e mi cambiai, cercando di liberarmi dalle fobie e dall'indignazione. Decisi di andarmi a prendere un caffè, ma trovai solo un vecchio fondo. Andai dalla responsabile amministrativa per darle venti dollari e chiederle di comprarne dell'altro. «Jean, hai mai partecipato a una delle chat line che si dice che io tenga su Internet?» le domandai. Scosse la testa, ma capii che era a disagio. Provai a rivolgere la medesima domanda a Cleta e a Polly. Cleta arrossì e abbassò gli occhi. «Qualche volta.» «Polly?» Smise di battere sui tasti e arrossì. «Raramente», rispose. Annuii.
«Non sono io a tenerle», rivelai loro. «C'è qualcuno che si fa passare per me. Sono venuta a saperlo solo adesso.» Le due donne parvero confuse. Ebbi l'impressione che non mi credessero. «Capisco che non abbiate voluto parlarmene», continuai. «Al vostro posto, forse avrei fatto lo stesso. Adesso però ho bisogno che mi diate una mano. Se avete idea di chi possa essere, me lo dite?» Parvero sollevate. «È una cosa terribile», commentò Cleta con emozione. «Dovrebbero metterlo in galera, quello che fa una cosa simile.» «Mi dispiace non averla avvertita», aggiunse Polly contrita. «Ma non ho idea di chi possa essere.» «Il fatto è che sembra proprio lei», aggiunse Cleta. «Sembra me?» chiesi accigliata. «Be', sa, dà informazioni sulla prevenzione degli infortuni e sulla sicurezza, su come gestire il dolore... Roba così, insomma.» «State dicendo che è un medico, o comunque qualcuno che di medicina se ne intende?» domandai sempre più incredula. «Be', chiunque sia, sa quello che dice», spiegò Cleta. «Anche se il tono è discorsivo. Cioè, non è come leggere un referto.» «A me, ora che ci penso, non sembra lei», osservò Polly. Mi cadde l'occhio sulla cartella che teneva aperta sul tavolo: era piena di foto elaborate al computer di un uomo con la testa spappolata da un colpo di fucile. Sua moglie, che l'aveva ucciso, mi scriveva dal carcere muovendomi accuse che andavano dall'incompetenza alla corruzione. «Come mai è qui?» le domandai. «Pare che la signora abbia interpellato "Times-Dispatch" e la procura. Poco fa ha chiamato Ira Herbert per controllare», mi spiegò. Ira Herbert faceva la cronista di nera per un giornale locale. Se aveva chiamato, voleva dire che era in arrivo una denuncia. «Poi Harriet Cummins ha chiamato Rose per farsi dare una copia della documentazione», mi informò Cleta. «Pare che l'ultima che questa pazzoide ha tirato fuori sia che il marito si era messo la canna del fucile da caccia in bocca e aveva premuto il grilletto con il piede.» «Ma se aveva gli scarponi...» replicai. «E poi come avrebbe fatto a premere il grilletto con il piede e spararsi alla nuca?» «Ci vuole una bella faccia tosta...» esclamò Polly con un sospiro. «Appena li rinchiudono, si mettono a raccontare storie e sporgere denunce per
cavarsi dai pasticci. È disgustoso.» «Anche secondo me», disse Cleta. «Sapete dov'è il dottor Fielding?» chiesi. «L'ho visto in giro poco fa», rispose Polly. Lo trovai in biblioteca, intento a sfogliare «Sport e alimentazione». Vedendomi, sorrise, ma aveva l'aria stanca e lievemente infastidita. «Non mangio abbastanza carboidrati», mi disse puntando l'indice sulla pagina. «Se la mia dieta non comprende dal cinquantacinque al settanta per cento di carboidrati, mi si abbassa il glicogeno. Negli ultimi tempi non ho molta energia e...» «Jack», lo interruppi. «Vorrei che fossi franco con me.» Chiusi la porta, gli raccontai quel che mi aveva detto Ruffin e notai il suo sconforto. Prese una sedia, si sedette vicino a un tavolo e chiuse il libro. Mi andai a sedere di fronte a lui. «Gira voce che Wagner voglia mandarti via», mi disse. «Secondo me è una stronzata e mi dispiace che Ruffin te ne abbia parlato. È un idiota.» Sinclair Wagner era segretario alla Sanità; erano lui e il governatore a nominare i capi degli Istituti di medicina legale. «Quando l'hai saputo?» gli chiesi. «Non è tanto. Sarà qualche settimana.» «Perché vuole mandarmi via?» «Ufficialmente perché avete avuto dei dissapori.» «Ma non è vero!» «Non è contento di te e quindi non lo è nemmeno il governatore.» «Jack, sii più specifico.» Esitò e cambiò posizione. Sembrava quasi che si sentisse in colpa, come se i miei problemi dipendessero da lui. «Se devo proprio dirti tutta la verità, pare che Wagner si sia indispettito per la storia di Internet.» Mi protesi in avanti e gli posai una mano sul braccio. «Non sono io», gli assicurai. «Ma qualcuno che fa finta di essere me.» Mi guardò perplesso. «Scherzi?» «Assolutamente no. È una cosa seria.» «Oh, Cristo!», esclamò disgustato. «A volte mi viene da pensare che Internet sia una rovina per l'umanità.» «Jack, perché non me ne hai parlato? Se avevi l'impressione che stessi facendo qualcosa di sbagliato, avresti potuto dirmelo... Possibile che tutti
qui dentro abbiano paura di parlarmi?» «Non è questione di avere paura», mi spiegò. «Se mai è stato un segno di gentilezza: volevamo proteggerti.» «Ma da cosa?» «Quando uno perde una persona cara, ha bisogno di un po' di tempo per riprendersi», replicò a bassa voce. «E impossibile rimanere efficienti come prima. Io non ci riuscirei. Se penso a quanto ci ho messo a riprendermi dal divorzio...» «Be', io mi sono ripresa e sono efficiente come prima, Jack. Il mio dolore non ha influito sul mio rendimento professionale.» Mi guardò a lungo negli occhi, scettico. «Fosse così semplice...» replicò. «Non ho detto che sia semplice. Certe mattine faccio fatica ad alzarmi dal letto. Ma non voglio che i miei problemi personali interferiscano con il mio lavoro e faccio in modo che non succeda.» «Francamente non sapevo come comportarmi. Ci ho pensato a lungo», mi confessò. «La morte di Benton ha scioccato anche me e so che tu lo amavi molto. A volte mi veniva voglia di invitarti a cena o di chiederti se avevi bisogno di qualcosa. Ma, come tu ben sai, ho anch'io i miei crucci e alla fine il massimo che potevo fare era cercare di aiutarti qui, sul lavoro.» «Nel senso di prendere tu le telefonate dei parenti?» Non riuscivo a crederci. «Per carità», minimizzò. «Non ho fatto niente di eccezionale.» «Oh, santo cielo!» esclamai chinando la testa e passandomi le dita fra i capelli. «È incredibile.» «Non ho fatto poi...» «Jack», lo interruppi, «sono qui tutti i giorni, tranne quando sono in tribunale. Perché dovevi rispondere tu al telefono in vece mia? Potevi almeno dirmelo...» Fielding mi guardò perplesso. «Non ti rendi conto che è brutto che io mi rifiuti di parlare con i familiari delle vittime?» continuai. «Che non risponda alle loro domande, che me ne freghi di loro?» «Io pensavo...» «Roba da matti!» esclamai, con lo stomaco stretto. «Certo, un medico legale che fa così merita di essere licenziato. Anzi, dovrebbe andarsene da solo. Come si fa a non ascoltare una persona che ha appena perso tragicamente un proprio caro? A non rispondere alle sue domande, a non cercare
di alleviare la sua pena e di mandare sulla sedia elettrica chi l'ha fatta soffrire?» Ero sul punto di scoppiare a piangere. Mi si incrinò la voce. «L'iniezione letale, ci vorrebbe. Anzi, bisognerebbe ricominciare a impiccarli sulla pubblica piazza.» Fielding guardò verso la porta per accertarsi che nessuno mi avesse sentito. Trassi un respiro profondo e mi ricomposi. «Quante volte è successo?» gli chiesi. «Quante volte hai risposto tu al telefono al posto mio?» «Ultimamente, tante», mi rispose con una certa riluttanza. «Cioè quante?» «Probabilmente in questi ultimi mesi il cinquanta per cento.» «Non è possibile...» Rimase zitto e io riflettei, rosa dai dubbi. Era vero che negli ultimi tempi avevo parlato con meno familiari del solito, ma non ci avevo fatto caso perché non era sempre uguale e non si poteva prevedere: alcuni parenti volevano resoconti dettagliati, altri semplicemente sfogare la rabbia. Altri ancora si rifugiavano nella negazione e non volevano sapere niente. «Posso capire che, se mi rifiuto di parlare con gente che soffre ed è sconvolta, qualcuno si sia lamentato», dichiarai. «Che pensino che sono arrogante e fredda. Non posso certo biasimarli.» «Infatti qualche lamentela c'è stata.» Gli lessi in faccia che non erano state poche. Sicuramente qualcuno aveva scritto persino al governatore. «Chi ti ha passato le chiamate, comunque?» chiesi nel tono più calmo che mi riuscì, temendo di scoppiare e prendermela con il primo che mi capitava sottomano. «Non mi è sembrato strano che non volessi parlare di certe cose con delle persone sconvolte», cercò di farmi capire. «In fondo c'eri appena passata anche tu e... voglio dire, a me pareva ragionevole. In fondo a loro bastava una voce amica, un medico. Se non c'ero io, c'erano Jill o Bennett», mi spiegò, riferendosi a due degli interni. «Il problema era quando noi non potevamo e allora andavano a rispondere Dan o Amy.» Dan Chong e Amy Forbes erano studenti di medicina che stavano facendo una sorta di stage e che non avrebbero dovuto assolutamente essere messi in condizione di dover parlare con i parenti delle vittime. «Che cosa?!» Chiusi gli occhi al pensiero di quell'incubo. «Soprattutto a fine turno. Maledetta segreteria telefonica...» disse.
«Chi ti passava le chiamate?» gli chiesi ancora una volta, in tono ancor più deciso. Sospirò. Aveva l'aria affranta e turbata. «Dimmelo», continuai. «Rose», rispose. 15 Rose si stava abbottonando il cappotto e legando una lunga sciarpa intorno al collo, quando entrai nel suo ufficio poco prima delle sei. Come al solito, si era fermata oltre l'orario di uscita. A volte dovevo impuntarmi per farla andare a casa e, sebbene un tempo la sua disponibilità mi facesse piacere, negli ultimi tempi mi metteva a disagio. «Ti accompagno alla macchina», le proposi. «Non è il caso», mi rispose. Assunse un'espressione tesa e cominciò a giocherellare con i guanti di pelle. Si era resa conto che volevo dirle qualcosa che non voleva sentire e sospettai che avesse capito anche che cosa. Nel corridoio non aprimmo bocca o quasi, decisamente imbarazzate, e ascoltammo il rumore felpato dei nostri passi sulla moquette. Avevo il cuore gonfio, non sapevo se di collera o di sconforto, e la mente piena di dubbi. Che cos'altro mi aveva tenuto nascosto Rose e da quanto tempo? Dietro la sua lealtà si nascondeva una possessività che non avevo riconosciuto? Aveva forse l'impressione che io le appartenessi? «Allora Lucy non ha chiamato», dissi arrivando all'ingresso vuoto, con il pavimento di marmo. «No», mi rispose. «L'ho cercata diverse volte.» «I fiori sono arrivati?» «Sì, sì.» La guardia ci salutò. «Fa freddo. Esce senza cappotto?» mi chiese. «Rientro subito», risposi con un sorriso. Poi mi voltai verso Rose. «Siamo sicure che Lucy li ha visti?» Mi guardò confusa. «I fiori, intendo dire», insistei. «Sono arrivati proprio a lei?» «Ma sì, certo», ripeté. «Il suo supervisore ha detto che li ha visti e ha letto il biglietto e che tutti la prendevano in giro per farsi dire chi glieli aveva mandati.»
«Non sai se li ha portati a casa?» Rose mi lanciò un'occhiata, mentre uscivamo nel parcheggio buio e vuoto. Mi sembrò vecchia e stanca e non sapevo se aveva gli occhi lucidi per colpa mia o del freddo. «No, questo non lo so.» «Non capisco più niente», mormorai. Rose si alzò il colletto per proteggersi il collo dal vento. «Era inevitabile», continuai. «Quando Carrie Grethen ha ucciso Benton, ha ucciso qualcosa in ognuno di noi, non pensi?» «Be', è stato un dramma per tutti. Non sapevo che cosa fare, ma ho provato comunque ad aiutarti.» Alzò gli occhi verso di me, ingobbita per il gelo. «Ci ho provato e continuo a provarci.» «Non capisco davvero più niente», ribadii. «Lucy è arrabbiata con me e quando è così mi esclude. Marino non è più nell'Investigativa e adesso scopro che tu hai passato a Jack delle telefonate che avrei dovuto fare io senza nemmeno dirmelo, che famiglie disperate volevano parlare con me e non ci sono riuscite. Perché l'hai fatto?» Eravamo arrivate davanti alla sua Honda Accord azzurra. Sentii le chiavi che le tintinnavano nella tasca del cappotto. «Strano», disse. «Credevo che mi volessi parlare dei tuoi appuntamenti. Hai un sacco di lezioni all'istituto e quando ho preparato il programma del mese prossimo mi sono resa conto che hai troppi impegni. Avrei dovuto controllare prima ed evitarlo.» «In questo momento è l'ultimo dei miei problemi», replicai cercando di nascondere il mio turbamento. «Perché mi hai fatto una cosa del genere?» le chiesi. Non mi riferivo ai troppi impegni. «Mi hai tenuto nascoste delle cose... Questo mi fa male sia dal punto di vista personale sia professionale.» Rose salì in macchina e mise in moto per accendere il riscaldamento. «Ho fatto quello che mi hai chiesto di fare», mi rispose emettendo una nuvoletta di condensa. «Non ti ho mai chiesto di fare una cosa del genere», replicai non credendo a una sola parola di quel che mi diceva. «Lo sai benissimo. Sai benissimo che mi preme essere disponibile con le famiglie.» Certo che lo sapeva: negli ultimi cinque anni avevo mandato via due patologi perché erano troppo freddi e poco disponibili. «Infatti mi sono stupita», mi disse con il suo tono comprensivo.
«E quando te l'avrei detto?» «Non me l'hai detto. Mi hai dato istruzione di farlo attraverso la posta elettronica. Alla fine di agosto.» «Non ti ho mai scritto un'e-mail così», risposi. «Ce l'hai ancora?» «No», si rammaricò. «Non le salvo mai, non ne vedo il motivo. La posta elettronica non mi piace.» «Che cosa c'era scritto?» «Di evitare il più possibile di passarti le telefonate dei parenti delle vittime, perché in questo particolare momento per te era difficile parlargli. Concludevi con un: "Sono certa che capirai".» «E tu ci hai creduto?» chiesi sbigottita. Abbassò il riscaldamento nella macchina. «Perché non avrei dovuto?» mi rispose. «Ti ho mandato un'altra e-mail esprimendoti la mia perplessità e tu mi hai risposto di fare come ti avevo detto senza discutere.» «Io non l'ho mai ricevuta!» replicai. «Non so che cosa dire», fece lei allacciandosi la cintura. «Magari te lo sei scordata. Io le e-mail le dimentico spesso: mi sembra di non aver mai detto una cosa e invece poi scopro che l'ho detta.» «No. Impossibile.» «Allora vuol dire che c'è qualcuno che scrive e-mail al posto tuo...» «Nel senso che ne hai ricevuto più d'una?» «Be', un paio che...» rispose. «Non so, messaggi in cui mi ringraziavi di essere così disponibile nei tuoi confronti, oppure...» Si sforzò di fare mente locale. Le luci del parcheggio facevano sembrare verde la sua macchina azzurra. Aveva il volto in ombra e non riuscivo a guardarla negli occhi. Batté le dita guantate sul volante. Io ero fuori della macchina e avevo un freddo cane. «Ora mi ricordo», disse a un certo punto. «Il segretario Wagner voleva vederti e tu mi hai detto di informarlo che non potevi». «Che cosa?» «All'inizio della settimana scorsa», aggiunse. «Un'altra e-mail?» «A volte non si riesce a comunicare altrimenti. Mi ha scritto la sua segretaria e io ho scritto a te; mi pare che fossi in tribunale, quella mattina. La sera mi è arrivato il tuo messaggio di risposta, penso da casa.» «Ma è una follia!» esclamai cercando una spiegazione senza riuscire a trovarne una.
In ufficio avevano tutti il mio indirizzo di posta elettronica, ma nessuno la password, indispensabile per mandare messaggi a nome mio. Rose stava pensando la stessa cosa. «Non capisco come sia possibile», mi disse. Poi esclamò: «Un momento. American On Line sui computer l'ha installato Ruth». Ruth Wilson era la responsabile dei sistemi informatici. «Certo. Quindi deve avere la mia password», continuai. «Ma non credo che farebbe mai una cosa del genere.» «No, infatti.» Rose era d'accordo. «Però potrebbe essersela scritta da qualche parte. Non può mica ricordarsi la password di tutti.» «È vero.» «Perché non sali in macchina, prima che ti pigli un accidente?» mi chiese. «Non importa. Vai a casa e cerca di non pensarci più», le dissi. «Adesso vado anch'io.» «Non ci credo», mi rispose. «So benissimo che tornerai in ufficio a rimuginare su questa faccenda.» Aveva ragione. Appena andò via rientrai nell'istituto chiedendomi perché fossi stata tanto scema da uscire senza cappotto: ero intirizzita. La guardia scosse la testa. «Dottoressa Scarpetta, non le viene freddo a uscire così?» «Sì che mi viene freddo», risposi. Passai la chiave magnetica sulla serratura e aprii le prime due porte a vetri, quindi entrai nella mia ala dell'edificio. Il silenzio era assoluto e, quando entrai nell'ufficio di Ruth, rimasi un attimo in piedi a guardare i microcomputer, le stampanti e lo schema a parete che raffigurava le interconnessioni fra i vari uffici. Sul pavimento c'erano cavi e mucchi di moduli continui stampati con scritte e formule di programmazione astruse. Passai in rassegna gli scaffali pieni di libri, mi avvicinai all'archivio e provai ad aprirlo: tutti i cassetti erano chiusi a chiave. Meno male, pensai. Andai nel mio ufficio e la chiamai a casa. «Pronto?» rispose. Sembrava di fretta: sentii le urla di un bambino piccolo e una voce di uomo che chiedeva che cosa fare di una padella. «Scusa se ti disturbo», dissi. «Oh, dottoressa Scarpetta!» esclamò sorpresa. «Ma che disturbo, si figu-
ri... Frank, potresti portare di là la bambina?» «Volevo chiederti una cosa», le spiegai. «Dove tieni le password di AOL?» «È successo qualcosa?» «Ho l'impressione che qualcuno conosca la mia password e scriva messaggi spacciandosi per me», le dissi chiaro e tondo. «Vorrei sapere dove potrebbe averla trovata. Pensi che sia possibile scoprirla?» «Oddio», esclamò. «Ma è sicura?» «Sì.» «Ovviamente lei non l'ha mai detta a nessuno», mi chiese. Ci pensai un attimo. Nessuno conosceva la mia password, neanche Lucy. Non gliene sarebbe importato nulla. «A parte te, non credo», risposi. «Io non la direi a nessuno, lei lo sa.» «Certo», risposi. Ed era vero. Anche perché Ruth non voleva rischiare il posto. «Tengo gli indirizzi e le password in un file a cui non può accedere nessuno», mi spiegò. «Non ne hai una copia su disco?» «Sì, ma la tengo nell'archivio, chiusa a chiave.» «Sempre?» Rimase un attimo titubante, poi precisò: «Be', sempre sempre no. Quando vado via lo chiudo, ma durante l'orario di lavoro no, a meno che non vada e venga dal mio ufficio in continuazione. Comunque di solito sto lì: esco solo quando vado a prendere il caffè o a mangiare un panino». «Come si chiama il file?» chiesi, mentre la paranoia incombeva su di me come un nuvolone foriero di burrasca. «E-mail», rispose, perfettamente consapevole di come l'avrei presa. «Dottoressa, deve capire che io gestisco migliaia di file pieni di codici, programmi, patch, antivirus, novità e così via. Se non li chiamo in un modo abbastanza chiaro, poi mi ci perdo.» «Capisco», le dissi. «Anch'io ho lo stesso problema.» «Domani mattina, appena arrivo in ufficio, le cambio la password.» «Va bene. Senti, Ruth, questa volta non la mettere in un posto accessibile. Non la mettere in quel file, okay?» «Spero che non ce l'abbia con me, dottoressa», mi disse un po' in imbarazzo, mentre la bambina continuava a strillare. «Con te no», risposi. «Ma con qualcun altro sì. E spero tanto che tu mi
aiuterai a scoprire chi è.» Non mi ci voleva un grande intuito per pensare a Ruffin. Era un uomo in gamba ed era chiaro che gli ero antipatica. Ruth lavorava spesso con la porta chiusa, ma ero abbastanza sicura che per Ruffin non sarebbe stato difficile entrare nel suo ufficio mentre lei era a prendere il caffè, chiudersi dentro e fare quel che voleva. «Questa conversazione è assolutamente riservata», dissi a Ruth. «Non ne parlare con nessuno, nemmeno alla tua famiglia.» «Le do la mia parola.» «Mi dici la password di Chuck?» «R-O-O-S-T-R. Me la ricordo perché me l'ha chiesta lui», mi disse. «L'indirizzo è C-H-U-K-O-C-M-E, come lei sa.» «E se qualcuno cercasse di entrare con la mia password nella mia casella mentre ci sono io?» «Non ci riuscirebbe: otterrebbe un messaggio di errore. Chi è già collegato, però, no. Supponiamo che chi le ha rubato la password sia dentro e lei provi a collegarsi: lei riceverebbe il messaggio di errore, ma lui no.» «Quindi se qualcuno cerca di entrare quando sono connessa, io non me ne accorgo.» «Infatti.» «Chuck ha il computer, a casa?» «Una volta mi ha chiesto consiglio su quelli che costavano meno e io gli ho consigliato di rivolgersi ai consignment shop e gli ho fatto un nome.» «Quale?» «Disk Thrift. È di un mio amico.» «Potresti chiamarlo e chiedergli se Chuck alla fine ha comprato?» «Posso provare.» «Io resterò in ufficio ancora per un po'», la informai. Richiamai il menu sul mio computer e osservai l'icona di AOL. Entrai senza problemi, il che voleva dire che non c'era nessun altro collegato in quel momento. Fui tentata di usare la password di Ruffin per vedere chi corrispondeva con lui e se aveva qualcosa da nascondere, ma mi venne paura: mi disturbava profondamente entrare nella casella di qualcun altro. Chiamai Marino sul cercapersone e, quando mi richiamò, gli spiegai la situazione e gli chiesi che cosa ne pensava. «Ma sei matta?» esclamò. «Io non mi farei tanti scrupoli. Quello è una merda che non mi ha mai ispirato nessuna fiducia. Piuttosto, capo, mi viene in mente che, se ha mandato dei messaggi a Rose, non si può escludere
che ne abbia mandati anche ad altri.» «È vero», dissi, furibonda al solo pensiero. «Ti faccio sapere se scopro qualcosa.» Ruth mi richiamò poco dopo, un po' agitata. «Ha comprato un computer e una stampante il mese scorso», mi riferì. Per seicento dollari. E nel computer c'era il modem.» «E qui noi abbiamo il software per AOL.» «Infatti. Se non l'ha comprato, può benissimo averlo preso da noi.» «Potrebbe essere una cosa grave: mi raccomando, non dire una parola», le ricordai. «Chuck mi è sempre stato antipatico.» «Non dirlo in giro», aggiunsi. Riagganciai, mi misi il cappotto e pensai a Rose con dispiacere: chissà com'era sconvolta. Non mi sarei sorpresa se mi avesse detto che aveva pianto fino a casa. Era una donna stoica che non lasciava trapelare spesso le emozioni, ma sapevo che il pensiero di avermi fatto del male sarebbe stato insostenibile, per lei. Andai a prendere la macchina: volevo confortarla e avevo bisogno del suo aiuto. L'e-mail di Chuck avrebbe dovuto aspettare. Rose si era stancata di stare dietro alla sua casa troppo grande e si era trasferita in un piccolo appartamento nel West End, in una traversa di Grove Avenue, non lontano da un caffè che si chiamava Du Jour, dove di tanto in tanto andavo a fare colazione la domenica. Abitava in una palazzina di mattoni rossi a tre piani, ombreggiata da grosse querce. Era una zona abbastanza tranquilla, ma io avevo l'abitudine di guardarmi bene intorno, prima di scendere dalla macchina. Posteggiando vicino alla Honda di Rose, vidi quella che mi parve una Taurus scura a poche macchine di distanza. Luci e motore erano spenti, ma c'era qualcuno seduto dentro. Sapevo che la polizia di Richmond usava spesso le Taurus, ma mi sfuggiva il motivo per cui un poliziotto avrebbe dovuto starsene lì al freddo e al buio. Poteva darsi che fosse qualcuno che aspettava qualcun altro, ma di solito in questi casi non si spengono luci e motore. Sentendomi osservata, presi la mia Smith & Wesson sette colpi dalla cartella e la feci scivolare nella tasca del cappotto. Mi incamminai sul marciapiede e lessi il numero di targa della Taurus, mandandolo a memoria. Mi sentivo lo sguardo della persona al suo interno sulla schiena. All'appartamento di Rose si arrivava per una scala illuminata da una lampada troppo debole a ogni pianerottolo. Ero in ansia e mi fermavo ogni
due o tre passi per controllare che non mi seguisse nessuno. Non c'era anima viva. Rose aveva messo una ghirlanda di Natale sulla porta e il suo profumo mi suscitò emozioni profonde. Sentivo una musica di Händel all'interno. Infilai una mano nella cartella, presi una penna e un blocco e scrissi il numero di targa. Quindi suonai il campanello. «Oh, Signore!» esclamò Rose. «Come mai da queste parti? Vieni, entra! Che bella sorpresa!» «Non guardi dallo spioncino prima di aprire la porta?» le chiesi. «Almeno chiedi chi è!» Rose scoppiò a ridere: mi prendeva sempre in giro per la mia prudenza, che sembrava eccessiva a molta gente, che per sua fortuna non vedeva le cose che io vedevo tutti i giorni. «Sei venuta per farmi la ramanzina?» mi chiese con un sorriso. «No, ma forse ti ci vorrebbe.» La casa di Rose era calda e perfettamente pulita e, sebbene non si potesse definire formale, era molto precisa e ben sistemata. Aveva un bellissimo parquet, di quelli che non si trovano più, e tanti tappeti. Aveva un caminetto a gas e candele elettriche sui davanzali delle finestre, che davano su un prato in cui d'estate si poteva usare il barbecue. Rose si sedette in poltrona e io mi misi sul divano. Ero stata a casa sua soltanto due volte, prima di quella, ma non vedere animali in giro mi colpì e mi intristì. Il gatto era morto e gli ultimi due levrieri che aveva adottato stavano con la figlia, perché nel condominio erano vietati gli animali. Le era rimasto soltanto un acquario con qualche guppy, molly e un po' di pesci rossi in perenne movimento. «Chissà quanto ti mancano i cani», le dissi. Evitai di fare riferimento al gatto perché io e i gatti non andavamo d'accordo. «Uno di questi giorni me ne prendo uno anch'io. Se penso a quei poveri levrieri, mi fanno tanta pena...» Ricordavo che i cani di Rose non si lasciavano accarezzare le orecchie perché i loro addestratori gliele tiravano, fra le tante torture cui li sottoponevano. A Rose vennero le lacrime agli occhi, si voltò dall'altra parte e si posò le mani sulle ginocchia. «Con questo freddo mi fanno male le articolazioni», osservò, schiarendosi la voce. «Stavano diventando vecchi. Meno male che ce li ha Laurei. Non potrei sopportarlo, se mi morissero. Secondo me, dovresti proprio prendertene uno. Tutte le brave persone dovrebbero prendersene uno.» Ogni anno venivano uccisi centinaia di cani da corsa in declino ed era
una delle tante cose che mi facevano arrabbiare, nella vita. Cambiai posizione. «Ti faccio una tisana di ginseng di quelle che mi procura Simon?» mi chiese, riferendosi al suo adorato parrucchiere. «O preferisci un goccio di qualcosa di più forte? Sai, ogni tanto penso che dovrei diventare astemia e concedermi come unico vizio i pasticcini.» «Non posso restare tanto», le dissi. «Volevo solo fare un salto a vedere che stessi bene.» «E perché non sarei dovuta stare bene?» mi chiese stupefatta. Rimasi un attimo zitta e Rose mi guardò, aspettando che le spiegassi il vero motivo della mia visita. «Ho parlato con Ruth», cominciai. «Stiamo seguendo una pista e abbiamo qualche sospetto...» «Su Chuck, scommetto», mi interruppe annuendo. «Ho sempre pensato che fosse la mela marcia. Mi evita come la peste perché sa che ho capito di che pasta è fatto. Può farmi tutte le moine che vuole, ma prima che io ci caschi...» «Non sei proprio il tipo», ribadii. Attaccò il Messiah di Händel e mi si riempì il cuore di tristezza. Rose mi scrutò. Sapeva quanto era stato triste per me il Natale precedente. Lo avevo passato a Miami, per cercare il più possibile di fare finta di niente ma, anche se fossi scappata a Cuba, non sarei comunque riuscita a sfuggire alla musica e alle luci. «Che cosa farai quest'anno?» mi chiese. «Andrò verso ovest, credo», risposi. «La neve mi piace, invece i cieli grigi mi deprimono. A Richmond ci sono solo pioggia e ghiaccio. Eppure mi ricordo che i primi inverni che stavo qui nevicava una o due volte l'anno.» Pensai alla neve sugli alberi e sui finestrini della macchina, il mondo imbiancato intorno a me che andavo a lavorare nonostante tutti gli enti statali fossero chiusi. La neve e il sole dei tropici erano antidepressivi, per me. «Sei stata molto gentile a venire», mi disse alzandosi dalla poltrona blu. «Ti preoccupi troppo per me.» Andò in cucina e la sentii rovistare nel congelatore. Quando tornò in soggiorno, mi porse un contenitore con del tupperware. «È passato di verdura», disse. «È proprio ciò che ti ci vuole stasera.» «È proprio vero», le dissi commossa. «Adesso vado a casa e me lo scal-
do.» «Che cosa pensi di fare con Chuck?» mi domandò con espressione seria. Ero titubante perché avrei preferito non chiederglielo. «Rose, sostiene che sei la mia informatrice, che mi riferisci tutto.» «È vero.» «In questo periodo ho proprio bisogno che tu lo faccia», continuai. «Tienilo d'occhio e vedi che cosa combina.» «Il suo è puro e semplice sabotaggio», osservò. «Ci servono le prove», replicai. «Sai come vanno le cose nello stato: è più facile camminare sull'acqua che licenziare un dipendente. Ma non voglio assolutamente che l'abbia vinta lui.» Rimase un attimo zitta, poi disse: «Tanto per cominciare non dobbiamo sottovalutarlo. È in gamba, anche se si crede più furbo di quello che è. E ha un sacco di tempo per pensare e per muoversi indisturbato. Il problema è che sa meglio di tanti altri come lavori. Meglio di me, per esempio, visto che per mia fortuna io nell'obitorio non metto piede. Ed è proprio quello il cuore del tuo lavoro, dove ti può colpire più facilmente». Rose aveva ragione, anche se mi rodeva ammettere che Chuck avesse tanto potere. Eppure era vero: poteva scambiare etichette, contaminare prove, raccontare frottole a giornalisti che lo avrebbero protetto o difeso a spada tratta. In realtà i danni che poteva causare erano inimmaginabili. «A proposito», dissi alzandomi dal divano. «Sono abbastanza sicura che abbia un computer a casa. Quindi anche su questo ha mentito.» Mi accompagnò alla porta e mi ricordai l'automobile parcheggiata vicino alla mia. «Conosci qualcuno con una Taurus scura, che abita da queste parti?» Mi guardò perplessa. «Be', è una macchina abbastanza comune. Però, no, a dire il vero non mi viene in mente nessuno.» «Potrebbe essere un agente di polizia che ogni tanto si porta a casa la macchina di servizio?» «Se mai, io non ne so niente. Senti, non cedere ai fantasmi, capito? Io mi rifiuto di rovinarmi la vita per certe cose. Anche perché ho la sensazione che, più ti preoccupi, più è facile che ti succeda qualcosa di brutto.» «Mah, non sarà niente. È solo che quando ho visto questa persona in macchina, senza luci e con il motore spento, mi è venuto l'istinto di prendere il numero di targa», spiegai. «Ma certo!» Sorrise e mi diede una pacca sulla schiena. «Chissà perché, non mi stupisce.»
16 Lasciando l'appartamento di Rose, sentii i miei passi risuonare sulle scale e quando uscii di nuovo nella notte fredda pensai alla pistola che avevo in tasca. L'automobile non c'era più. Andando verso la mia macchina, mi guardai intorno. Il parcheggio non era bene illuminato. Mi sembrava che gli alberi spogli emettessero lugubri lamenti e che nell'ombra si nascondessero spettri terrificanti. Chiusi immediatamente le portiere dando un'ultima controllata e mi allontanai; poi chiamai Marino sul cercapersone. Mi telefonò subito perché era di turno e non aveva niente da fare. «Mi controlli una targa?» gli chiesi appena sentii la sua voce. «Conta su di me.» Gli dissi il numero. «Sono stata a casa di Rose e ho visto questa macchina parcheggiata che mi ha insospettito», spiegai. Marino prendeva quasi sempre sul serio i miei sospetti, anche perché generalmente non erano ingiustificati. Ero un medico con una laurea in giurisprudenza e tendevo ad assumere un atteggiamento clinico e razionale, senza dare spazio a proiezioni emotive o irragionevoli. «Non è tutto», aggiunsi. «Vuoi che faccia un salto da te?» «Sì.» Lo trovai che mi aspettava davanti a casa; scese faticosamente dalla sua automobile, trafficando con il cinturone e con la cintura di sicurezza, che non allacciava praticamente mai. «Ma porca miseria!» inveì. «Io non so quanto riesco a resistere ancora.» Chiuse la porta con un calcio. «Cazzo di macchina.» «Intanto sei arrivato prima di me», gli feci notare. «Solo perché ero più vicino. Oddio, che mal di schiena!» Continuò a brontolare fino in casa. Il silenzio che vi regnava mi colpì. La spia dell'allarme era verde. «Non va mica bene», fece Marino. «Eppure stamattina l'ho inserito: sono sicurissima.» «E venuta la domestica?» mi domandò guardandosi intorno, con le orecchie tese. «Sì, ma lo inserisce sempre», spiegai. «Sono due anni che lavora per me
e non se l'è mai scordato.» «Resta dove sei.» «Non ci penso nemmeno», replicai, perché restare lì da sola era l'ultima cosa che volevo al mondo e comunque era da evitare che due persone armate e spaventate si separassero in uno spazio così ristretto. Inserii nuovamente l'allarme e lo seguii da una stanza all'altra guardandolo aprire gli armadi e controllare dietro le tende e le porte. Controllammo anche al piano di sopra senza trovare niente di strano finché non scendemmo di nuovo e notai la passatoia nel corridoio. Marie, la domestica, non aveva finito di passarci il battitappeto e non aveva cambiato gli asciugamani nel Bagno. «Di solito è più precisa», commentai. «Ha i figli piccoli e tira avanti con poco. È una donna che si dà da fare.» «Speriamo che non mi chiami nessuno», borbottò Marino. «Mi faresti un caffè?» Ne preparai un bricco con la miscela che Lucy mi portava da Miami e nel vedere il sacchetto rosso e giallo mi tornò l'angoscia. Marino e io lo andammo a bere nel mio studio, dove mi collegai a AOL utilizzando l'indirizzo e la password di Ruffin. Rimasi sollevata nel non trovare ostacoli. «Via libera», annunciai. Marino si avvicinò una sedia e guardò lo schermo. Ruffin aveva posta: c'erano otto messaggi. Non riconobbi chi glieli aveva spediti. «Che cosa succede se glieli apri?» mi domandò Marino. «Se li salvo come nuovi, gli rimangono nella casella», replicai. «Ma lui si accorge che glieli hai aperti?» «Lui no, ma chi glieli ha mandati sì, perché può controllare se la sua posta è stata letta e a che ora.» «Capito», fece alzando le spalle. «Però mica tutti vanno a controllare a che ora gli hanno letto i messaggi, no?» Non gli risposi e cominciai a entrare nella posta di Ruffin. Forse avrei dovuto avere più paura, ma ero troppo arrabbiata. Quattro e-mail erano di sua moglie, che gli dava una serie di istruzioni su faccende domestiche. Marino scoppiò a ridere. «Quella tiene i coglioni del marito nel cassetto del comodino», ridacchiò. Il quinto messaggio proveniva da un certo MAYFLR e diceva semplicemente: «Ti devo parlare».
«Interessante», osservai. «Controlliamo i messaggi che Ruffin ha mandato a questo Mayflower.» Richiamai il menu e scoprii che da due mesi a quella parte Ruffin gli mandava quasi un messaggio al giorno. Diedi una scorsa al contenuto e mi resi conto che Chuck lo incontrava spesso. Forse era una donna con cui aveva una relazione. «Mi chiedo chi sia», disse Marino. «Se lo scoprissimo, potremmo ricattarlo.» «Non sarà facile», gli feci notare. Uscii in fretta dalla casella, sentendomi come un ladro che si è appena introdotto abusivamente in casa d'altri. «Proviamo Chatplanet», proposi. L'unico motivo per cui conoscevo le chat line era che di tanto in tanto qualche collega all'estero le usava per chiedere un parere su questioni particolarmente delicate o per dare comunicazioni utili. Mi collegai scegliendo una casella che mi permettesse di comunicare senza essere vista. Controllai l'elenco di chat room e cliccai su una chiamata Cara Kay. La dottoressa Kay era nel pieno di un dibattito con sessantatré persone. «Oh, cazzo. Mi dai una sigaretta, Marino?» chiesi. Mi porse il pacchetto e si avvicinò con la sedia per leggere. Cara Kay, è vero che Elvis morì seduto sul gabinetto e che succede spesso? È un problema che mi sta molto a cuore, visto il mestiere che faccio... Grazie, idraulico dell'Illinois. Caro idraulico dell'Illinois, sì, mi duole confermarti che Elvis morì veramente seduto sul gabinetto. È un fatto abbastanza comune perché il cuore può cedere per lo sforzo. L'arresto cardiaco che colpì il grande cantante nel suo lussuoso bagno di Graceland fu la conseguenza di anni di cattiva alimentazione e di stravizi. Che questo sia di monito a tutti noi. <MEDSTU> Cara Kay, perché hai scelto di occuparti dei morti invece che dei vivi? Necrofilo del Montana. Caro necrofilo del Montana, se i tuoi pazienti sono già morti non ti devi preoccupare dei loro sentimenti. All'università mi sono resa conto che curare i vivi è una grandissima rottura di scatole. «Cristo santo!» esclamò Marino. Ero furibonda e mi sentivo impotente.
«Sai una cosa?» disse Marino indignato. «Mi dà veramente fastidio che continuino a tirare fuori questa storia che Elvis è morto seduto sul gabinetto.» «Per favore, Marino», lo bloccai. «Sto cercando di pensare.» La discussione continuava sullo stesso tono vergognoso. Mi venne l'impulso di prendere la parola e precisare che io non c'entravo niente. «Come facciamo a scoprire chi è la Cara Kay?» domandò Marino. «Se è il moderatore, non si può: il moderatore può risalire a tutti gli altri, ma gli altri non possono risalire a lui.» <JULIE W> Cara Kay, in quanto esperta di anatomia, conosci i punti più sensibili al piacere? Ho l'impressione che da un po' di tempo a questa parte il mio ragazzo a letto si annoi un po': pensa che una volta si è addormentato mentre lo facevamo! Sexy girl. Cara sexy girl, se il tuo ragazzo non prende farmaci che possono indurre sonnolenza, ti consiglio di comprare biancheria più osé. Oggigiorno le donne non si impegnano più come una volta a far sentire importanti i loro uomini. «Adesso basta!» esclamai. «Io l'ammazzo, questa Cara Kay!» Mi alzai frustrata, senza sapere che cosa fare. «Che vergogna!» A pugni stretti corsi in sala, dove mi bloccai e mi guardai intorno prima di tornare indietro. «Chi la fa, l'aspetti», dichiarai. «Come fai a vendicarti, se non sai nemmeno chi sia questa Cara Kay?» «Forse per la chat room non posso fare niente, ma per l'e-mail il rimedio c'è.» «In che senso?» chiese Marino un po' diffidente. «Nel senso che gliela faccio pagare, e cara. Adesso però controlliamo quel numero di targa.» Marino prese la radio dal cinturone e si sintonizzò sul canale di servizio. «Come hai detto che era?» «RGG-7112», risposi a memoria. «Della Virginia?» «Non ho controllato», risposi. «Scusa.» «Pazienza.» Riferì il numero di targa al Virginia Criminal Information Network, o
VCIN, e chiese un dieci-ventinove. Erano le dieci passate. «Mi faresti un panino, prima che mi tocchi andare?» mi chiese. «Sto morendo di fame. Stasera sono lenti e mi fanno venire il nervoso.» Mi chiese bacon, lattuga, pomodoro, cipolla e salsa piccante. Invece di friggere il bacon, lo misi nel microonde. «Perché me lo rovini?» mi chiese scandalizzato appena se ne accorse. «Quanto più è grasso, tanto più è buono. Io non lo asciugo nemmeno nella carta, lo mangio grondante d'olio.» «Vedrai che è buono anche così», dissi. «Se tu ti vuoi fare del male, fai quello che credi, ma io non voglio essere responsabile del tuo colesterolo alto.» Marino fece tostare del pane di segale e vi spalmò burro e Ketchup, visto che non avevo salsa piccante. Poi aggiunse lattuga e pomodoro, sale e cipolla. Si preparò due bei panini e li avvolse nell'alluminio. Aveva quasi finito quando la radio lo chiamò. Il numero di targa corrispondeva a una Ford Contour del 1998, non a una Taurus. Il colore era blu e risultava appartenere alla Avis Leasing Corporation. «Interessante», borbottò. «Le targhe delle auto a noleggio a Richmond cominciano tutte per R. Per averla diversa, bisogna fare domanda. Di solito si fa per non farsi accorgere che si è di fuori.» L'auto risultava libera da qualsiasi vincolo e/o denuncia. 17 Alle otto del mattino del giorno dopo, mercoledì, mi infilai in un parcheggio a pagamento. Dall'altra parte della strada il Campidoglio ottocentesco del Commonwealth si stagliava candido dietro la cancellata di ferro battuto, avvolto nella nebbia. Il dottor Wagner, insieme con altri membri del gabinetto e il procuratore generale, lavorava nell'Executive Office Building di Ninth Street; il servizio d'ordine era talmente rigido che mi fece sentire come una criminale. Dietro la porta c'era un tavolo, dove una guardia mi controllò la cartella. «Se trova qualcosa me lo dica», scherzai. «Io non ci trovo mai niente.» La guardia, un uomo basso e rotondetto, sorrise. Era sui trentacinque anni, con pochi capelli e la faccia di chi è stato un bel bambino prima di rovinarsi con l'età e i chili di troppo. Mi sembrava di averlo già visto. Gli mostrai le mie credenziali, ma lui le guardò appena.
«Non ce n'è bisogno», mi spiegò. «Non si ricorda di me? Prima che vi trasferiste, ogni tanto sono venuto anche da voi.» Indicò il palazzo di Fourteenth Street che un tempo ospitava l'Istituto di medicina legale, a pochi isolati di distanza. «Rick Hodges», si presentò. «Ai tempi dell'emergenza uranio, si ricorda?» «E come potrei dimenticarmene?» replicai. «È stato uno dei momenti peggiori.» «Ero anche amico di Wingo e certe volte lo venivo a trovare all'ora di pranzo, quando c'era poco da fare.» Si rabbuiò. Wingo era stato uno dei dipendenti più sensibili e in gamba che avessi mai avuto ed era morto qualche anno prima di vaiolo. Gli misi una mano sulla spalla. «Ci penso tanto», dissi. «Non sa quanto mi manca.» Hodges si guardò intorno e poi mi si avvicinò. «È rimasta in contatto con la famiglia?» mi chiese a bassa voce. «Non molto.» Dal modo in cui lo dissi, capì che i parenti di Wingo non volevano parlare del loro figlio gay né con me né con nessun altro e che quindi non avrebbero gradito le telefonate di Hodges o di altri amici. Annuì, addolorato. Si sforzò di sorridere. «Quel ragazzo la adorava, sa, dottoressa?» mi rivelò. «È tanto che glielo volevo dire.» «Mi fa piacere», risposi, emozionata. «Grazie di avermelo detto, Rick.» Passai sotto il metal detector e ripresi la cartella. «Ci venga a trovare più spesso», mi salutò. «D'accordo», risposi guardandolo negli occhi azzurri. «Mi sento più sicura, con voi intorno.» «Sa dove andare?» «Credo di sì», risposi. «Be', si ricordi che l'ascensore è un po' lunatico.» Salii su per le scale di granito fino al sesto piano, dove Sinclair Wagner aveva un ufficio che si affacciava su Capitol Square. In quella mattina buia e piovosa la statua di George Washington a cavallo non si vedeva quasi. La temperatura era scesa moltissimo durante la notte e la pioggia cadeva fitta e incessante. La sala d'attesa davanti all'ufficio del segretario alla Sanità era elegantemente arredata in stile coloniale e adorna di bandiere che non erano nello
stile di Wagner, il cui ufficio, disordinato e ingombro, era tipico di chi lavora come un mulo senza sbandierare il proprio potere. Wagner era nato e cresciuto a Charleston, nel South Carolina, e aveva studiato psichiatria e giurisprudenza. Prima di entrare in politica aveva insegnato al Medical College of Virginia e adesso coordinava servizi di salute mentale, comunità terapeutiche, servizi sociali e assistenza medica. Era un uomo che rispettavo e sapevo che anche lui aveva stima di me. «Kay», mi salutò, alzandosi dalla poltroncina girevole. «Come stai?» Mi fece segno di sedermi sul divano e chiuse la porta, poi tornò dietro la scrivania: non mi parve un buon segno. «Sono soddisfatto del lavoro che svolge l'istituto. E tu?» «Molto», risposi. «Va meglio di quanto pensassi.» Prese la pipa e una busta di tabacco da un posacenere. «Mi chiedevo che fine avevi fatto», disse. «Pensavo che fossi sparita dalla faccia della terra.» «Perché dici così?» gli chiesi. «Seguo sempre lo stesso numero di casi, se non di più.» «Be', certo. Ho letto sui giornali.» Cominciò a caricare la pipa. In tutto il palazzo era vietato fumare, ma Wagner aveva l'abitudine di mettersi in bocca la pipa spenta quando era nervoso. E sapeva benissimo che non ero andata lì per parlare dell'istituto o chiacchierare amabilmente. «Ho immaginato che fossi molto occupata», continuò. «Visto che non trovi mai il tempo di venirmi a trovare.» «Ho scoperto solo oggi che la settimana scorsa mi avevi cercato», gli confidai. Mi guardò negli occhi, la pipa in bocca. Wagner aveva una sessantina di anni, ma sembrava più vecchio, quasi che custodire i segreti dei suoi pazienti per tanti anni avesse cominciato a pesargli. Aveva uno sguardo dolce che spesso faceva dimenticare al suo interlocutore che era anche un astuto uomo di legge. «Se non ti hanno avvertita che ti ho cercato», replicò, «vuol dire che i tuoi dipendenti non lavorano come dovrebbero, Kay.» Parlava lentamente, a voce bassa, prendendo sempre tutto alla lontana. «È vero, ma non nel senso che dici tu.» «E in quale, allora?» «Qualcuno si è introdotto nel file dove sono annotate le nostre password e ha cominciato a usare la mia e-mail», replicai.
«Alla faccia della privacy...» Alzai la mano per bloccarlo subito. «Non è tanto un problema di privacy, quanto del fatto che qualcuno vuole mettermi in difficoltà cercando di ledere la mia immagine e forse di farmi cacciare via. La tua segretaria ha scritto alla mia chiedendo un appuntamento e lei me lo ha riferito per posta elettronica, ricevendo poi un messaggio in cui mi dichiaravo troppo occupata per incontrarti.» Capii che Wagner trovava la mia spiegazione confusa, per non dire ridicola. «E non solo», proseguii, sempre più a disagio nel rivelare quella che alle mie stesse orecchie sembrava una storia assurda. «Ne ha ricevuto anche uno in cui le dicevo di dirottare le telefonate dei familiari delle vittime al mio vice. Per non parlare di quella vergognosa chat line...» «Lo so», commentò serio. «Tu vorresti dire che questa Cara Kay è la stessa persona che ti ha rubato la password?» «E qualcuno che mi ha rubato la password e si fa passare per me.» Wagner rimase zitto a succhiare la pipa. «Sospetto che sia l'inserviente responsabile dell'obitorio.» «Perché?» «Perché è discontinuo nel lavoro, scontroso, un po' assente. È ostile e credo che stia macchinando qualcosa. Vuoi che vada avanti?» Silenzio. «Appena riuscirò a dimostrare la sua colpevolezza, prenderò opportuni provvedimenti», annunciai. Wagner posò di nuovo la pipa, si alzò in piedi e venne a sedersi su una sedia accanto al divano, poi si chinò verso di me e mi guardò fisso. «Ti conosco da tanto tempo, Kay», esordì in tono cordiale ma realistico. «So che hai un'ottima reputazione e sei preziosa per il Commonwealth. So anche che hai attraversato momenti terribili e che da allora non è passato molto tempo.» «Stai giocando allo psichiatra con me, Sinclair?» Non stavo scherzando. «Non sei una macchina.» «Neanche una squilibrata, però. Quello che ti ho raccontato è tutto vero: ultimamente sono successe delle cose strane. Ammetto di essere stata meno attenta del solito, ma ti assicuro che questo non c'entra niente.» «Come puoi esserne sicura, visto che ammetti tu stessa di essere stata meno attenta? Dopo una tragedia come la tua, la gente non torna subito a lavorare. Quanto tempo sei stata a casa?»
«Sinclair, ognuno reagisce a modo suo.» «Vuoi che mi risponda da solo?» continuò. «Dieci giorni. Dieci. E il tuo ambiente di lavoro non è dei più allegri, vorrei farti notare. Tragedia, morte...» Non dissi nulla e cercai di mantenere un certo contegno. Ero entrata in un antro buio e ricordavo appena di aver sparso le ceneri di Benton a Hilton Head, il luogo che amava di più. Ricordavo appena di aver rimesso a posto la sua casa laggiù per poi attaccare con i suoi cassetti e i suoi armadi a casa mia. Avevo eliminato subito tutto quello che comunque prima o poi sarebbe dovuto sparire, con una velocità maniacale. Se non fosse stato per Anna Zimmer, non ce l'avrei fatta. Era una psichiatra di una certa età, mia amica da anni. Non avevo idea di che cosa avesse fatto dei begli abiti di Benton, delle sue cravatte, delle sue scarpe di pelle lucida e della sua acqua di Colonia. Non volevo sapere dove fosse finita la sua BMW. E soprattutto dove fosse la biancheria che avevamo usato nel nostro bagno e nel nostro letto. Anna era stata abbastanza saggia da tenere le cose più importanti. Non aveva toccato libri e gioielli e aveva lasciato gli attestati e i diplomi appesi alle pareti del suo studio, dove nessuno li vedeva, perché Benton era un uomo modesto. Mi aveva anche consigliato di lasciare in giro le foto, perché sosteneva che era importante che me le tenessi intorno. «Bisogna vivere con il ricordo», mi diceva sempre con il suo forte accento tedesco. «Il ricordo resta, Kay. Non puoi cancellarlo. Non ci provare neanche.» «Su una scala da uno a dieci quanto sei depressa, Kay?» sentii che mi chiedeva la voce di Wagner. Mi faceva male accettare che Lucy non si fosse fatta viva in tutto quel tempo. Benton mi aveva lasciato la sua casa di Hilton Head e Lucy si era arrabbiata perché l'avevo venduta, pur sapendo benissimo che non saremmo mai riuscite a metterci piede, nessuna delle due. Quando avevo cercato di darle l'amato giubbotto un po' consunto che Benton metteva ai tempi dell'università, mi aveva risposto che non lo voleva e che, se l'avessi costretta a prenderlo, lo avrebbe regalato. Sapevo che non lo aveva fatto, sapevo che lo aveva nascosto da qualche parte. «Non ti devi vergognare. Penso che tu abbia difficoltà ad ammettere che sei un essere umano», continuava la voce di Wagner. Aprii gli occhi. «Hai pensato di fare una cura contro la depressione?» mi domandò.
«Leggera, magari di Wellbutrin?» Presi fiato prima di parlare. «Prima di tutto la depressione situazionale è abbastanza normale. Non posso scacciare magicamente il dolore prendendo una pillola. Posso essere stoica, avere difficoltà a manifestare le mie emozioni, a esprimere i miei sentimenti più profondi ed effettivamente è vero che mi riesce più facile litigare, alzare la voce e agire che provare dolore. Ma il mio non è un meccanismo di negazione. Ho abbastanza sale in zucca per capire che il dolore deve seguire il suo corso. Ma non è facile, se quelli in cui hai fiducia cominciano a scardinare i pilastri su cui ti reggi.» «Sei appena passata dalla prima alla seconda persona», mi fece notare. «Mi chiedo se ti rendi conto che...» «Non mi psicanalizzare, Sinclair.» «Kay, chi non lo prova non può capire, ma la tragedia e la violenza hanno una vita propria», disse. «I loro effetti permangono a lungo, per quanto in maniera sempre meno visibile e manifesta.» «Lo so benissimo. Ci convivo quotidianamente», replicai. «E se ti guardi allo specchio?» «Sinclair, subire una perdita come quella che ho subito io è già abbastanza terribile senza che tutti quelli che hai intorno comincino a dubitare delle tue capacità. È umiliante e molto triste, soprattutto quando sei in un momento di grande vulnerabilità.» Mi guardò negli occhi: ero di nuovo passata dalla prima alla seconda persona, che offriva maggiori sicurezze. Glielo lessi in faccia. «La crudeltà si pasce di quel che percepisce come debolezza», continuai. Io conoscevo il male, ne sentivo l'odore, lo riconoscevo a distanza. «Qualcuno ha approfittato della mia disgrazia per distruggermi. Chissà da quanto aspettava l'occasione giusta», conclusi. «Non pensi che la tua analisi sia lievemente paranoica?» mi domandò. «No.» «Perché qualcuno dovrebbe approfittare delle tue debolezze? Pensi che siano tutti invidiosi e meschini?» «Vogliono il potere. Vogliono rubarmi il fuoco.» «Interessante, come analogia», commentò. «Che cosa vuole dire, per te?» «Uso il potere che ho per un giusto scopo», spiegai. «Chi cerca di farmi del male vuole appropriarsi del mio potere per utilizzarlo a proprio uso e consumo. E chi fa così non dovrebbe avere potere.»
«Certo», riconobbe. Squillò il telefono. Sinclair si alzò e andò a rispondere. «No, adesso no», disse. «Sì, me ne rendo conto. Lo faccia aspettare comunque.» Tornò alla sedia e fece un lungo sospiro, poi si tolse gli occhiali e li posò sul tavolo. «Credo che la cosa migliore sia diffondere un comunicato stampa in cui affermi che qualcuno si è fatto passare per te sulla Rete, in maniera da chiarire il più possibile la faccenda», dichiarò. «Dobbiamo mettere fine alla cosa, se necessario sporgendo denuncia alle autorità.» «È quello che voglio», dissi. Si alzò. Io lo imitai. «Grazie, Sinclair. Mi rassicura poter contare su di te.» «Spero solo che il nuovo segretario sarà altrettanto disponibile», osservò, dando per scontato che io capissi. «Che cosa intendi dire?» chiesi, in preda a un'ansia ancora più insidiosa. Mi guardò con una faccia strana, poi assunse un'espressione arrabbiata. «Ti ho mandato un sacco di messaggi, riservati e personali! Maledizione, questo è troppo!» «Io non ho ricevuto niente...» Strinse le labbra e si fece rosso in volto. Una cosa era leggere la posta elettronica altrui, un'altra intercettare messaggi riservati e personali. Neppure Rose osava accedere a comunicazioni del genere. «La commissione anticrimine del governatore vuole trasferire il tuo istituto dalla Sanità alla Pubblica Sicurezza», mi informò. «Per l'amore del cielo, Sinclair!» esclamai. «Lo so, lo so.» Alzò una mano per bloccarmi. La stessa proposta idiota era stata avanzata poco dopo la mia nomina. Polizia e laboratori forensi dipendevano dalla Pubblica Sicurezza e se anche l'Istituto di medicina legale ne fosse andato a fare parte non ci sarebbe più stata la possibilità di effettuare controlli incrociati: il dipartimento di polizia, in sostanza, avrebbe potuto fare il bello e il cattivo tempo. «Ho espresso pubblicamente la mia opinione sulla faccenda», dissi a Wagner. «Anni fa sono andata persino a parlare in procura, alla polizia e all'ordine degli avvocati. Non possiamo permettere che succeda una cosa così.» Wagner rimase zitto. «Ma perché proprio adesso?» insistetti. «Perché l'hanno tirata in ballo
proprio in questo momento? Erano dieci anni che era tutto fermo.» «Credo che Connors stia spingendo perché gli fanno pressioni dall'alto», mi spiegò. «Non so chi, esattamente.» Io, però, lo sapevo. Tornando a casa mi caricai, ripensando agli interrogativi rimasti senza risposta, scavando alla ricerca di nodi invisibili per raggiungere la verità. Ciò che detrattori come Chuck Ruffin e Diane Bray non avevano messo in conto è che le loro macchinazioni avrebbero avuto l'effetto di risvegliarmi dal torpore. Nella mia testa si stava materializzando uno scenario possibile e molto semplice: qualcuno mi voleva mandare via a calci nel sedere per avere un ostacolo in meno nel passaggio di competenze da Sanità a Pubblica Sicurezza. Mi era giunta voce che l'attuale segretario, che stimavo molto, stava per andare in pensione. Quale coincidenza, se la Bray avesse preso il suo posto... Quando arrivai in ufficio, sorrisi a Rose e le diedi il buongiorno con allegria. «Come siamo di buon umore, oggi!» esclamò con soddisfazione. «Tutto merito del tuo passato di verdura», risposi. «Una gioia per il palato. Dov'è Chuck?» Al sentirlo nominare, Rose fece una faccia brutta. «È andato a consegnare dei cervelli al Medical College», mi rispose. Quando c'erano casi neurologicamente sospetti e complicati, di tanto in tanto mettevo il cervello in formalina e lo facevo analizzare dal laboratorio di neuropatologia del Medical College. «Avvertimi appena torna», le raccomandai. «Dobbiamo portare il LumaLite nella sala di decomposizione.» Posò il gomito sulla scrivania, il mento sulla mano e mi guardò negli occhi. «Mi dispiace dovertelo dire io», mi fece. «Che cosa è successo ancora? E pensare che credevo che fosse una bella giornata.» «C'è un'esercitazione in corso e il Luma-Lite che avrebbero dovuto usare è a riparare.» «Non me lo dire.» «Mah, io so solo che ha telefonato qualcuno, Chuck ha risposto e ha preso il Luma-Lite per portarglielo prima di andare al Medical College.» «Adesso lo vado a riprendere.» «Credo che l'esercitazione sia all'aperto, a una quindicina di chilometri
da qui.» «Chi ha autorizzato Chuck a portare via il Luma-Lite?» «Bisogna ringraziare che non l'hanno ancora rubato, altro che», replicò Rose. «Allora dovrò andare di sopra e fare l'esame nel laboratorio di Vander», riflettei. Entrai nel mio ufficio e mi andai a sedere alla scrivania. Mi tolsi gli occhiali e mi massaggiai l'attaccatura del naso, quindi decisi che era venuto il momento di organizzare un rendez-vous fra la Bray e Chuck. Entrai nella casella di Ruffin e le mandai un'e-mail. Egregio comandante Bray, ho importanti informazioni da comunicarle. L'appuntamento è al Beverly Hills Shopping Center alle 17,30, in fondo al parcheggio vicino a Buckhead's, così potremo parlarci non visti dalla macchina. Per qualsiasi contrattempo, mi chiami sul cercapersone. Se non la sento prima, sarò là. Chuck Poi mandai un messaggio di testo sul cercapersone di Chuck fingendo che fosse della Bray e lo invitai all'appuntamento. «Okay», dissi compiaciuta. In quel momento squillò il telefono. «Sono io», esordì Marino. «Il tuo investigatore privato. Che cosa fai quando finisci di lavorare?» «Continuo a lavorare: ti ricordi che ti avevo detto che volevo fargliela pagare? Mi dovresti accompagnare da Buckhead's. Non credo che tu voglia perderti un appuntamento fra due persone che ti stanno tanto a cuore. Pensavo che potresti portarmi a cena fuori. Chissà che non li incontriamo per caso», dissi. 18 Marino mi venne a prendere e andammo con il suo pickup per non correre il rischio che la Bray riconoscesse la mia Mercedes. Era buio e freddo, ma per fortuna aveva smesso di piovere. Ero seduta così in alto che riuscivo a guardare negli occhi i camionisti. Seguimmo Patterson Avenue in direzione di Parham Road, una delle strade principali della città, dove la gente mangiava, faceva compere e girava per il Regency Mail.
«Ti avverto che non sempre in fondo all'arcobaleno c'è una pentola piena d'oro», mi disse Marino gettando la cicca dal finestrino. «Uno dei due potrebbe anche non venire. Per quanto ne so io potrebbero anche fare lo scherzetto a noi. E comunque tentar non nuoce.» Il Beverly Hills Shopping Center comprendeva una serie di negozi e un emporio di fai-da-te; a prima vista non ci si aspettava di trovarvi il ristorante che serviva le bistecche migliori della città. «Non li vedo», decretò Marino guardandosi in giro. «Ma siamo in leggero anticipo.» Parcheggiò fra due macchine davanti al negozio di fai-da-te, a una certa distanza dal ristorante, e spense il motore. Io aprii la portiera. «Dove cavolo vai?» mi assalì. «Entro nel ristorante.» «E se arrivano adesso e ti vedono?» «Ho tutti i diritti di venire qui.» «E se la Bray è al bar?» si preoccupò. «Che cosa le dici?» «Le offro da bere, esco e vengo a prendere te.» «Cristo, capo!» esclamò. «Credevo che l'idea fosse di prenderli in castagna.» «Rilassati e lascia parlare me.» «E come faccio a rilassarmi, con la voglia che ho di spezzarle il collo?» «Dobbiamo agire con astuzia. Se cominciamo a sparare appena usciti dal bunker, rischiamo di farci colpire prima di riuscire a colpire loro.» «Mi stai dicendo che non vuoi sputarle in faccia che sai tutto? Che hai scoperto delle e-mail a Chuck e di tutto il resto?» Era incredulo e furioso e continuava a ripetere sempre le stesse cose. «E allora cosa cazzo ci siamo venuti a fare, qui?» continuò. Cercai di calmarlo. «Marino, non fare lo scemo. Sei un detective e devi fare il detective anche con lei. Quella è una donna pericolosa, non la metti con le spalle al muro.» Rimase senza parole. «Tu controlla dal pick-up, mentre io do un'occhiata dentro il ristorante. Se la vedi prima tu, mandami un dieci-quattro sul cercapersone e, nel caso mi sfuggisse il messaggio, telefona al ristorante chiedendo di me. Va bene?» proposi. Si accese rabbiosamente una sigaretta. «Non va bene un cazzo», replicò. «Secondo me, visto che sappiamo tutto quello che ha fatto, dovremmo prenderla di petto e dimostrarle che è più
cogliona di quello che si crede.» «Proprio tu lo dici, che predichi sempre di andare con i piedi di piombo», ribadii. Stavo cominciando ad avere paura che non riuscisse a controllarsi. «Abbiamo visto che cosa manda a Chuck.» «Abbassa il tono di voce», lo pregai. «Non possiamo dimostrare che è stata lei a mandare quelle e-mail, così come non possiamo dimostrare che non sono stata io a mandare le e-mail che mi hanno attribuito. E come non posso provare di non essere io a tenere quella scandalosa chat line.» «Forse dovrei fare il soldato di ventura.» Buttò fuori il fumo scrutando lo specchietto retrovisore. «Allora o mi chiami sul cercapersone o mi telefoni, okay?» dissi scendendo. «E se il messaggio non ti arriva in tempo?» «Non so, mettila sotto con il pick-up...» risposi spazientita, chiudendo la portiera. Mi voltai e andai verso il ristorante. Della Bray non c'era traccia. Non sapevo che macchina avesse e comunque sospettavo che non venisse con la sua. Aprii la pesante porta di legno di Buckhead's e fui accolta da un allegro brusio e dal tintinnio del ghiaccio nel mixer del barman. A una parete era appeso un trofeo di caccia, le luci erano soffuse, gli arredi scuri e le bottiglie di vino impilate fino al soffitto. «Buonasera» mi sorrise la cameriera, un po' sorpresa. «È tanto che non la vediamo, dottoressa. Abbiamo saputo che è stato un periodo molto pesante, per lei. Mi dica.» «Ha un tavolo prenotato a nome Bray?» chiesi. «Non so per che ora.» Controllò il registro delle prenotazioni scorrendo la lista dei nomi con una matita. Riprovò e mi guardò imbarazzata. Era impossibile cenare in un buon ristorante senza prenotazione, anche in un giorno feriale. «Mi dispiace», mormorò a voce bassa. «E a nome mio?» provai. Rilesse l'elenco. «Non so che cosa dirle, dottoressa Scarpetta. E purtroppo stasera siamo al completo perché c'è una comitiva che occupa un'intera sala.» Erano le sei meno venti. I tavoli erano apparecchiati con una tovaglia a quadretti bianchi e rossi e una candela al centro; erano tutti vuoti, perché non era considerato di buon gusto cenare prima delle sette. «Volevo prendere un aperitivo con un amico», continuai. «Ma se fosse
possibile mangiare presto... Non so, verso le sei.» «Non c'è problema», rispose illuminandosi. «Allora mi segni, per favore», le chiesi sempre più preoccupata. E se la Bray si fosse accorta che la macchina di Chuck non era nel posteggio e si fosse insospettita? «Per le sei. Va bene?» Aspettavo con impazienza che mi squillasse il cercapersone o che mi chiamassero al telefono. «Perfetto», replicai. Era una situazione che mi metteva profondamente a disagio. Per carattere, professione e cultura ero abituata a dire la verità e non amavo i sotterfugi e le malizie da leguleio, nonostante avessi studiato legge. Non ero abbastanza portata per ambiguità e strumentalizzazioni. Mentre la cameriera scriveva il mio nome, sentii vibrare il mio cercapersone. Lessi sul display dieci-quattro e corsi nel bar. Siccome le finestre erano opache fui costretta ad aprire la porta di legno. Notai la Crown Victoria scura. Marino in un primo momento non fece nulla. La mia ansia crebbe quando la Bray parcheggiò e spense le luci. Ero certa che non avrebbe aspettato a lungo e immaginavo che fosse seccata che una nullità come Chuck si permettesse di far aspettare un personaggio importante come lei. «Desidera?» mi chiese il barman asciugando un bicchiere. Continuai a guardare dalla porta aperta chiedendomi che cosa avesse intenzione di fare Marino. «Sto aspettando una persona che non conosce bene il posto», spiegai. «Gli dica di fermarsi davanti al Michelle's Face Works», mi consigliò. Nel frattempo Marino stava scendendo dal pick-up. Gli andai incontro nel posteggio e ci avviammo con determinazione verso la macchina di Diane Bray, la quale non fece caso a noi perché parlava al cellulare prendendo appunti. Quando Marino le tamburellò con le dita sul finestrino, fece un salto sul sedile e assunse un'espressione dura. Disse qualcosa al cellulare, chiuse la chiamata e abbassò il finestrino. «Ah, ma allora è lei veramente! Mi pareva di averla riconosciuta», le fece Marino, come se fosse contento di vederla. Si chinò e guardò dentro l'abitacolo. Chiaramente presa alla sprovvista, Diane Bray stava cercando disperatamente una via d'uscita dignitosa ostentando una nonchalance che non provava. «Buonasera», la salutai cortese. «Che piacevole coincidenza.»
«Salve, Kay», mi rispose. «Come va? Dunque anche lei conosce il piccolo segreto di Richmond.» «Be', ne conosco più di uno, ormai», risposi ironica. «Ce ne sono talmente tanti...» «Io non mangio carne rossa», mi spiegò in tono affabile. «Ma anche i piatti di pesce sono ottimi.» «Andare da Buckhead's e mangiare pesce è un po' come andare al bordello e tirarsi una sega», commentò Marino. Diane Bray fece finta di non averlo sentito e mi fissò con l'intento di farmi abbassare gli occhi. Ma non ci riuscì: dopo anni di lotta con dipendenti disonesti, avvocati bugiardi e politici spietati avevo imparato che se si guarda una persona in mezzo agli occhi invece che dentro, questa si sente altrettanto intimidita e si può reggere lo sguardo più a lungo. «Ceno qui», ci annunciò, come se avesse fretta. «Le teniamo compagnia finché non arriva il suo ospite», replicò Marino. «Non voglio lasciarla qui al buio o farla entrare da sola. Anzi, a dire il vero non dovrebbe andare in giro senza guardia del corpo, visto che da quando è arrivata ha fatto di tutto per farsi notare. La fama ha i suoi svantaggi, temo.» «Non aspetto nessuno», rispose irritata. «Nel nostro dipartimento una donna non era mai arrivata tanto in alto. E oltre a tutto lei è una donna bella e amata dai giornalisti», continuò Marino inarrestabile. Diane Bray prese la borsetta e si alzò, in preda a una collera evidente. «Volete scusarmi, per favore?» disse in tono imperioso. «Non le sarà facile trovare un tavolo, stasera», la informai mentre apriva la portiera. «A meno che non abbia prenotato», aggiunsi, facendole capire chiaramente che sapevo che non l'aveva fatto. Ebbe un attimo di incertezza, breve ma sufficiente a farmi capire quanto era spietata. Mi lanciò un'occhiataccia e quindi riprese l'espressione imperturbabile di sempre. Fece per scendere, ma si trovò Marino a sbarrarle la strada. Per superarlo avrebbe dovuto piegarsi o sfiorarlo e il suo io spropositato non glielo consentiva. Mentre era inchiodata dentro la sua bella macchina nuova, notai che indossava calzoni di velluto a coste, scarpe da ginnastica e una giacca del dipartimento di polizia di Richmond. Vanitosa com'era, non si sarebbe mai presentata in un ristorante elegante come Buckhead's vestita a quel modo. «Mi scusi», disse a Marino, a voce alta.
«Pardon», fece lui spostandosi da una parte. Scelsi con cura le parole. Non potevo accusarla direttamente, ma volevo farle capire che avevo scoperto tutto e che non le avrei permesso di continuare a farmi del male senza reagire. «Lei viene dall'Investigativa», dissi meditabonda. «Quindi forse potrebbe darmi una mano. So che qualcuno ha usato la mia password per mandare e-mail a mio nome. Presumibilmente la stessa persona che tiene una vergognosa chat line su Internet chiamata Cara Kay. Lei sa come potrebbe essere successo?» «E spaventoso. Mi spiace, ma non vedo che cosa posso fare per lei. Non mi intendo granché di computer», rispose con un sorriso. Aveva lo sguardo freddo e scuro e i denti che brillavano minacciosi alla luce dei lampioni. «Posso solo consigliarle di tenere d'occhio le persone che le stanno più vicine. Potrebbe essere qualche suo amico scorbutico e frustrato che magari ha involontariamente deluso», continuò. «Non ne ho idea, davvero, ma immagino che sia qualcuno che lei conosce. Ho sentito che sua nipote è un genio dell'informatica. Si faccia dare una mano da lei.» Nel sentirla nominare Lucy, mi venne un moto d'ira. «A proposito, mi piacerebbe conoscerla», continuò come se niente fosse. «Stiamo implementando il COMPSTAT e ci serve personale esperto.» Il COMPSTAT era un programma di elaborazione di dati statistici ed era una nuova versione dell'avanzatissimo modello messo a punto dal dipartimento di polizia di New York. Senza dubbio la sua implementazione richiedeva l'intervento di personale esperto, ma alludere a un possibile coinvolgimento di Lucy era un insulto, visto che lei si occupava di cose ben più importanti. «Glielo accenni, la prossima volta che la sente...» fece la Bray. Marino aveva raggiunto il punto di ebollizione. «Credo che un giorno di questi dovremmo vederci. Volevo parlarle della mia esperienza di Washington», mi disse, come se io non fossi mai uscita dalla provincia. «Non può capire la competitività, l'aggressività con cui bisogna fare i conti sul lavoro. Anche da parte delle donne. Ho visto della gente...» «Non ne dubito», rimarcai. Chiuse a chiave la portiera e concluse: «Perché lei lo sappia, per mangiare al bar non c'è bisogno di prenotazione. Di solito io faccio così. La bistecca con il formaggio è la loro specialità, ma le consiglio di provare l'a-
ragosta. Capitano Marino, lei ha mai assaggiato gli anelli di cipolla impanati e fritti? Sono una vera prelibatezza». La guardammo, mentre si allontanava. «Che stronza», fu il commento di Marino. «Andiamo via», gli dissi. «Sì, non voglio mangiare vicino a una simile vipera. Mi è persino passato l'appetito.» «Vedrai che adesso ti torna.» Salimmo sul suo pick-up e io sprofondai nella depressione come in un mare di pece. Avrei voluto un appiglio per tirarmene fuori, uno spiraglio di ottimismo, ma non ne trovai: mi sentivo sconfitta. Anzi, deficiente. «Vuoi una sigaretta?» mi chiese Marino premendo l'accendisigaro. «Perché no», risposi. «Tanto fra poco smetto.» Me ne porse una, si accese la propria e mi passò l'accendisigaro. Continuava a lanciarmi delle occhiate, intuendo come mi sentivo. «Secondo me abbiamo fatto bene comunque», disse a un certo punto. «Giurerei che è là dentro che si scola un whisky dietro l'altro dalla paura.» «Non le abbiamo fatto nessuna paura», risposi strizzando gli occhi, abbagliata dai fari delle altre macchine. «Con lei ci vuole ben altro. L'unico modo per evitare che ci faccia ancora del male è cercare di anticiparla senza perdere la grinta.» Abbassai leggermente il finestrino e sentii l'aria fredda fra i capelli. Buttai fuori il fumo. «Chuck non si è fatto vivo», dissi. «Sì, invece. Tu non l'hai visto, ma io sì. Appena si è accorto che c'eravamo, è scappato via come un razzo.» «Sei sicuro?» «Ho visto benissimo la sua Miata del cazzo svoltare verso il centro commerciale diretta verso il parcheggio; a un certo punto però ha fatto una rapida inversione e si è dileguata. Nel preciso momento in cui la Bray ci ha visto e ha chiuso la comunicazione al cellulare.» «Quindi Chuck fa da tramite fra me e lei», commentai. «Magari le ha anche dato la chiave del mio ufficio.» «Magari sì», fece Marino. «Tu lascia che a Chuckie ci pensi io.» «Ho un po' paura», dissi. «Non essere avventato, per favore. Chuck lavora per me, dopo tutto. Non voglio altri problemi.» «Infatti. Non vogliamo altri problemi.» Mi lasciò davanti all'istituto e aspettò che prendessi la mia macchina e
uscissi dal parcheggio. A quel punto io andai per la mia strada e lui per la sua. 19 Gli occhietti gialli tatuati sul cadavere mi perseguitavano, scrutandomi dal profondo di luoghi inavvicinabili nei quali nascondevo le mie tante paure, così diverse da quelle delle altre persone che conoscevo. Il vento scuoteva gli alberi spogli e le nuvole solcavano il cielo come lunghi stendardi. Avevo sentito alla radio che la temperatura sarebbe scesa fino a dieci sottozero quella notte e mi sembrava impossibile, dopo l'autunno mite che avevamo avuto. Pareva che tutto, nella mia vita, fosse anormale ed eccessivo. Lucy non era più Lucy: io non potevo chiamarla e lei non mi cercava. Marino stava indagando su un omicidio nonostante non fosse più un investigatore e Benton non c'era più e ovunque lo cercassi trovavo solo il vuoto. Aspettavo ancora di sentire il rumore della sua macchina sul vialetto di casa, lo squillo del telefono, la sua voce... Perché con il cuore non ero ancora riuscita ad accettare ciò che con la testa già sapevo. Uscii da Downtown Expressway e mi immisi in Cary Street, superai il centro commerciale e il ristorante Venice e a quel punto notai una macchina dietro di me. Andava molto piano ed era troppo distante perché potessi vedere chi era al volante. L'istinto mi disse di rallentare e, quando lo feci, mi resi conto che l'altra macchina mi imitava. Svoltai a destra e la macchina fece lo stesso. Quando girai a sinistra per entrare in Windsor Farms, me la ritrovai alla medesima distanza di sicurezza. Non volendomi addentrare nelle strade strette, buie e tortuose del quartiere, alcune delle quali erano senza uscita, presi Dover Street e chiamai Marino. Sempre più spaventata, mi accorsi che l'auto continuava a seguirmi. «Marino», dissi a voce alta. «Oh, speriamo che sia già a casa.» Chiusi la chiamata e riprovai. «Marino, per favore, rispondi!» dissi al mio telefono vivavoce pensando al suo cordless che squillava incessantemente. Probabilmente l'aveva lasciato vicino al televisore e non lo trovava. Ci fosse stata una volta che lo rimetteva a posto! Ma poteva anche darsi che non fosse ancora rientrato. «Sì?» La sua voce alta mi fece trasalire.
«Sono io.» «Porca miseria, se sbatto ancora una volta con il ginocchio contro quel cazzo di tavolo...» «Marino, per favore, stammi a sentire!» «Te lo giuro: lo piglio, lo porto in giardino e lo spacco a martellate. Nella rotula, capito? Non lo vedo perché è di cristallo e così ci sbatto dentro. E chi è che mi ha consigliato di metterlo in questo posto del cazzo?» «Ti calmi?» sbottai, guardando la macchina nello specchietto. «Ho bevuto tre birre, ho fame e sono stanco morto. Cosa mi volevi dire?» «C'è una macchina che mi segue.» Svoltai a destra in Windsor Way, diretta verso Cary Street, a velocità normale. Non stavo facendo niente di strano, a parte non andare a casa. «Cosa vuol dire che c'è una macchina che ti segue?» domandò Marino. «Cosa vuoi che voglia dire?» replicai divorata dall'ansia. «Vieni verso casa mia», mi ordinò. «Non stare in quel quartiere buio!» «Non ci sto.» «Vedi il numero di targa?» «Macché. È troppo lontano. Secondo me, si tiene a distanza apposta perché non possa vedere né la targa né chi c'è sopra.» Tornai sull'Expressway e mi diressi verso Powhite Parkway. La macchina che mi seguiva si arrese e mi mollò. I fari delle altre macchine e i neon mi confondevano e avevo il batticuore. Uno spicchio di luna brillava a intermittenza, coperto a tratti dalle nuvole spinte dal vento forte. Chiamai la segreteria di casa. Avevo ricevuto quattro chiamate, le prime tre mute, la quarta che mi lasciò di sasso. «Sono Diane Bray», diceva. «Mi ha fatto piacere incontrarla davanti a Buckhead's. Volevo discutere con lei di alcuni punti procedurali riguardanti principalmente la gestione delle prove. Ne vogliamo parlare insieme, Kay?» Sentirmi chiamare per nome mi fece venire il nervoso. «Andiamo a pranzo insieme, uno di questi giorni?» diceva la sua voce registrata. «Magari al Commonwealth Club, così siamo tranquille.» Il mio numero non appariva sull'elenco e io stavo molto attenta a chi lo lasciavo. Non era difficile intuire da chi lo avesse avuto, tuttavia. I miei dipendenti, Ruffin compreso, dovevano avere la possibilità di chiamarmi a casa. «Nel caso non l'abbia saputo», continuava il messaggio, «oggi si è di-
messo Al Carson. Sono certa che se lo ricorda: era il vicecomandante dell'Investigativa. Un vero peccato. Al suo posto è andato il maggiore Inman.» Rallentai al casello e infilai una moneta nella macchinetta, quindi proseguii, sotto lo sguardo strafottente di un gruppo di ragazzotti a bordo di una Toyota scalcagnata. Uno gridò vaffanculo, senza nessun motivo preciso. Mi concentrai sulla strada e pensai alle parole di Wagner. Qualcuno stava facendo pressioni su Connors perché il mio servizio passasse dalla Sanità alla Pubblica Sicurezza, dando al dipartimento di polizia maggior controllo sul mio operato. Le donne non erano ammesse al prestigioso Commonwealth Club, dove maschi dai cognomi antichi e rispettabili discutevano il cinquanta per cento dei contratti e delle trattative politiche della Virginia. Si diceva che si riunissero intorno alla piscina coperta, nudi, e che negoziassero e pontificassero negli spogliatoi, dove le donne non potevano entrare. Diane Bray non poteva varcare la soglia di quell'illustre club coperto d'edera a meno che non fosse ospite di qualche membro e questo confermava i miei sospetti riguardo alle sue ambizioni ultime. Se si accompagnava ai membri dell'assemblea generale e a potenti uomini di affari, era perché voleva diventare segretario della Pubblica Sicurezza, avere il mio istituto alle proprie dipendenze e togliersi il gusto di licenziarmi personalmente. Raggiunsi Midlothian Turnpike e vidi la casa di Marino da molto lontano: le sue vergognose decorazioni natalizie, consistenti in oltre trecentomila lampadine, brillavano nella notte come un luna park. Per arrivarci bisognava fare la coda, perché ormai la casa di Marino era diventata meta di un buon numero di curiosi e del tour del Natale più kitsch che si teneva ogni anno a Richmond. Impossibile non andare a vedere di persona quello che ormai era diventato uno spettacolo da non perdere. Luci di ogni colore brillavano fra gli alberi come caramelle colorate, in un tripudio di babbi Natale, pupazzi di neve, trenini, soldatini, finti omini di pasta frolla e bastoncini di zucchero sparsi per tutto il giardino. Un altoparlante sul tetto diffondeva canti natalizi e in un'aiuola deserta tutto il resto dell'anno brillava un giardino elettrico. C'era il polo nord dove Babbo Natale e signora discutevano l'organizzazione della vigilia, cori di angioletti, fenicotteri appollaiati sul camino e alcuni pattinatori su ghiaccio che piroettavano intorno a un abete. Mentre salivo di corsa le scale imbarazzata, davanti al cancello si ferma-
rono una limousine bianca e un furgone. «Ogni volta che vengo qui, mi chiedo se sei diventato matto», dissi a Marino appena mi aprì la porta, entrando in fretta per sfuggire agli sguardi indiscreti degli astanti. «Ogni anno è peggio.» «Ho tre scatole di valvole», mi annunciò fiero. Era in jeans, con una camicia di flanella rossa fuori dei pantaloni e le calze di lana. «Almeno quando torno a casa c'è qualcosa che mi rallegra», mi spiegò. «La pizza sta arrivando. Se ti va, ho del bourbon.» «Che pizza?» «Quella che ho ordinato. Superfarcita. Offro io. Papa John's non mi chiede più nemmeno l'indirizzo. Segue le luci e via.» «Hai del tè deteinato?» chiesi, abbastanza certa che mi rispondesse di no. «Scherzi?» replicò. Mentre mi accompagnava in salotto e poi in cucina, mi guardai intorno. Naturalmente anche l'interno della casa traboccava di decorazioni. Aveva un albero con luci intermittenti vicino al caminetto, pacchetti regalo, quasi tutti finti, e addobbi rossi a tutte le finestre. «Mi ha chiamato la Bray», gli dissi versando l'acqua nel bollitore. «Evidentemente qualcuno le ha dato il mio numero di casa.» «Indovina chi.» Aprì lo sportello del frigo e si incupì. «Credo di sapere anche perché.» Misi il bollitore sul fornello e l'accesi. Le luci persero lievemente di intensità. «Carson si è dimesso oggi. Pare che sia andato in pensione», lo informai. Marino si aprì una birra. Non riuscii a capire se lo sapeva già oppure no. «Lo sapevi?» «Ormai non so più niente.» «Pare che al suo posto sia andato il maggiore Inman.» «Be', era prevedibile» replicò Marino a voce alta. «E sai come mai? Perché ci sono due maggiori, uno per sezione. Mi sembra ovvio che la Bray mandi il suo uomo a controllare l'Investigativa.» Finì la birra in tre sorsate, o almeno così mi parve, poi accartocciò la lattina e la gettò verso la pattumiera sbagliando la mira e facendola cadere rumorosamente per terra. «Lo sai che cosa vuol dire?» mi chiese. «Te lo dico io. Vuol dire che a-
desso la Bray comanda tutte e due le sezioni, cioè tutto il cazzo di dipartimento e probabilmente anche tutto il budget. E il comandante è contentissimo perché lei gli fa fare bella figura. Dimmi tu com'è possibile che una arrivi e nel giro di tre mesi pigli tutto...» «Avrà i suoi appoggi. Li avrà avuti prima ancora di arrivare. Non può essere solo il comandante.» «E chi, allora?» «Marino, potrebbe essere chiunque: ormai non importa più. È troppo tardi comunque. A questo punto è con lei che ci dobbiamo battere, non con il comandante. Indipendentemente da chi sia a reggere i fili, adesso dobbiamo vedercela con lei.» Si aprì un'altra birra passeggiando nervosamente per la cucina. «Adesso so perché Carson è venuto al porto», dichiarò. «Se lo sentiva. Sa che la merda puzza e magari voleva avvertirci a modo suo, oppure andarsene con dignità. La sua carriera è finita. The end. Ultimo omicidio, ultimo caso, ultimo tutto.» «È un brav'uomo», dissi io. «Santo cielo, Marino, possibile che non possiamo fare niente?» Squillò il telefono, facendomi sobbalzare. Il rumore delle automobili sulla strada era costante. Le campanelle tintinnavano al ritmo di Jingle Bells. «La Bray vuole parlarmi delle modifiche che sta introducendo», lo informai. «Che bellezza!» esclamò allontanandosi scalzo sul linoleum. «Immagino che dovrai mollare tutto perché lei ti vuole invitare a pranzo. Che poi vedrai che è te che si mangerà, con contorno di patatine.» Prese la cornetta. «Pronto?» rispose irritato. «Ah. Ah, ah. Sì», fece. Frugai negli armadietti e trovai una scatola di tè Lipton tutta ammaccata. «Sì, certo. Ma perché non vuole parlare con me?» chiese Marino indignato. Rimase in ascolto, continuando a passeggiare. «Questa è bella», disse poi. «Aspetti un momento che glielo chiedo.» Mise la mano sulla cornetta e mi chiese sottovoce: «Sei sicura di essere la dottoressa Scarpetta?». Tornò al suo interlocutore. «Sì, pare che sia veramente lei.» Mi porse il telefono furibondo.
«Sì?» feci. «La dottoressa Scarpetta?» mi chiese una voce sconosciuta. «Sono io.» «Buonasera. Sono Ted Francisco, dell'ATF di Miami.» Mi sentii come se mi avessero appena puntato una pistola alla tempia. «Lucy mi ha dato istruzione di chiamare il capitano Marino, nel caso non l'avessi trovata a casa. Le vuole parlare?» «Ma certo!» risposi allarmata. «Zia Kay?» «Lucy! Che cosa c'è?» chiesi. «Stai bene?» «Non so se hai saputo che cosa è successo qui...» «No, non ho saputo niente», risposi in fretta mentre Marino si bloccava, fissandomi. «L'operazione non è andata come doveva. Non posso spiegarti adesso, ma è successa una tragedia. Ho ammazzato due persone. Hanno sparato a Jo.» «Oh, Santo cielo!» esclamai. «Ma lei sta bene?» «Non lo so», mi rispose con una fermezza che era assolutamente fuori posto. «È al Jackson Memorial sotto falso nome e non posso nemmeno telefonarle. Sono sotto protezione perché si teme che ci vengano a cercare per farcela pagare. Quelli del cartello, capisci? Quando l'hanno portata via in ambulanza aveva perso conoscenza, perdeva sangue dalla testa e dalla gamba.» Parlava senza la minima emozione, con lo stesso tono dei robot o dei computer intelligenti che aveva programmato agli inizi della sua carriera. «Vedrò di...» cominciai. D'improvviso sentii l'agente Francisco in linea. «Sapevo che l'avrebbe sentito al telegiornale, dottoressa Scarpetta, e volevo che fosse avvertita prima. Che sapesse che Lucy sta bene.» «Fisicamente, forse», gli feci notare. «Volevo anche che sapesse che cosa succederà adesso.» «Succederà che prenderò il primo aereo e verrò lì», lo interruppi. «E se non troverò posto su un volo di linea, mi arrangerò con uno privato.» «Devo chiederle di non farlo», mi disse. «Lasci che le spieghi: abbiamo a che fare con un cartello estremamente pericoloso e Lucy e Jo sanno troppo, conoscono alcuni di loro e sanno come lavorano... A poche ore dalla sparatoria abbiamo mandato una squadra a controllare le case che Lucy e Jo utilizzavano sotto copertura e i cani hanno fiutato un ordigno in tutte e due le loro automobili.»
Presi una sedia dal tavolo della cucina di Marino e mi sedetti perché avevo le gambe molli e stavo cominciando a vedere tutto nero. «Pronto?» disse. «Ci sono.» «Perciò adesso a occuparsi del caso sarà la polizia di Miami-Dade, come è giusto che sia. Normalmente viene costituita una commissione per accertare la dinamica della sparatoria e viene mandato un team di sostegno, formato da agenti coinvolti in analoghi incidenti e addestrati ad aiutare chi ha vissuto esperienze traumatiche. Invece, per via del rischio, manderemo Lucy a nord, nel District of Columbia, o comunque in un luogo sicuro.» «Grazie dell'interessamento. Vi sono molto grata di quanto state facendo per lei», dissi con una voce che non mi parve la mia. «Senta, mi rendo conto di come si sente», proseguì l'agente Francisco. «Dico sul serio, sa? Perché io ero a Waco.» «Grazie», ripetei. «Che cosa farà la DEA di Jo?» «Appena possibile la trasferirà in un altro ospedale il più lontano possibile da qui.» «Perché non la mandate qui al Medical College?» domandai. «Io non...» «I suoi vivono a Richmond, come lei sa. E comunque è un ospedale molto efficiente; io ho spesso a che fare con loro», dissi. «Potrò controllare personalmente che riceva le cure necessarie.» Dopo un attimo di esitazione, disse: «Grazie. Riferirò la sua proposta e ne parlerò con il supervisore di Jo». Quando riattaccò, rimasi lì a guardare il telefono. «Che cosa è successo?» mi chiese Marino. «L'operazione è fallita. Lucy ha ammazzato due persone...» «È stata legittima...» «Uccidere non è mai legittimo!» «Per la miseria, capo, volevo sapere se l'ha fatto per legittima difesa. Non credo proprio che abbia fatto fuori due persone così, tanto per fare!» «No di certo. Hanno sparato a Jo. Non so in che condizioni sia.» «Oh, cazzo!» esclamò battendo il pugno sul bancone della cucina con tanta violenza che le stoviglie nello scolapiatti vibrarono. «Lo sapevo che Lucy doveva prendersela con qualcuno. Non avrebbero dovuto farla partecipare a quel cazzo di operazione. Io me lo sentivo... Non aspettava altro! Non vedeva l'ora di far fuori qualcuno, di arrivare lì come un cowboy a vendicarsi di tutto il male che...»
«Piantala!» «Hai visto com'era a casa tua l'altra sera?» continuò. «Da quando è morto Benton non c'è più con la testa. Non c'è niente che la plachi, nemmeno aver abbattuto quel cazzo di elicottero e fatto fuori Carrie Grethen e Newton Joyce!» «Adesso basta!» esclamai. Ero esausta. «Ti prego, Marino, smettila: non serve a niente. Lucy è una professionista, lo sai anche tu. L'ATF non le avrebbe affidato un incarico così delicato se non fosse stata in grado di svolgerlo. Sanno benissimo tutta la storia e l'hanno aiutata e sostenuta dopo la morte di Benton e tutto il resto. Anzi, vedere come ha gestito la perdita e il trauma ha aumentato il loro rispetto nei suoi confronti, sia come agente sia come essere umano.» Rimase zitto e aprì una bottiglia di Jack Daniel's. Poi disse: «Be', io e te sappiamo che non l'ha gestita bene». «Lucy è una che va a compartimenti stagni.» «E non va bene. O sbaglio?» «E noi, che cosa facciamo?» «Be', io ti dico che questa volta la gestirà ancora peggio», annunciò versando due dita di bourbon in un bicchiere e aggiungendo cubetti di ghiaccio. «Ha ucciso due persone meno di un anno fa e adesso ne ha ammazzate altre due. La gente di solito passa una vita senza far fuori nessuno. Non vorrei che questa volta vedessero le cose diversamente, capisci? Si chiederanno se non c'è qualcosa che non va, se non ha il grilletto un po' troppo facile...» Mi porse il bicchiere. «Ho conosciuto degli agenti così», continuò. «Per carità, se ammazzano è sempre per legittima difesa. Sono più che giustificati, intendiamoci, ma a ben guardare fanno in modo che la situazione precipiti. Più o meno consciamente, lo fanno apposta.» «Lucy non è così.» «Però è arrabbiata dal giorno in cui è nata. A proposito, tu stasera non vai da nessuna parte. Resti qui con me e Babbo Natale.» Versò un bourbon anche per sé e andammo nel suo salotto ingombro e disordinato, con gli abat-jour che pendevano da una parte, le tapparelle impolverate e il tavolino con il piano di cristallo in cui inciampava sempre. Si lasciò cadere su una poltrona tanto vecchia che aveva dovuto ripararla con del nastro adesivo. Mi venne in mente la prima volta che ero andata a casa sua e mi resi conto che gli piaceva usare la roba finché non cadeva a
pezzi. Facevano eccezione il pick-up, la piscina e le decorazioni natalizie. Mi sorprese a guardare la poltrona mentre mi sedevo sul divano di velluto verde. Di solito mi mettevo lì perché, anche se perdeva un po' di fili, era abbastanza comodo. «Un giorno o l'altro me ne dovrò comprare una nuova», commentò abbassando lo schienale e appoggiando i piedi. Si tolse le scarpe e accese la TV. Rimasi sorpresa quando si fermò su una trasmissione culturale. «Non sapevo che seguissi Biography», gli dissi. «Sì. Mi piace quando danno la parola ai poliziotti. Sarò rimbecillito, ma ho l'impressione che, da quando è arrivata la Bray, sia andato tutto in malora. Tu no?» «Con quello che ti ha fatto, è ragionevole che la pensi così.» «Sì, ma tu no?» insistette, sorseggiando il suo whisky. «Non sono l'unico che ha cercato di rovinare.» «Non credo che abbia il potere di far andare tutto in malora», risposi. «Vuoi che ti faccia l'elenco dei casini che ha combinato, capo? E ricordati che stiamo parlando di tre mesi, non di più. Da quando è arrivata a Richmond, io sono uscito dall'Investigativa, in ufficio da te sono cominciate a sparire delle cose, ti hanno fregato la password e fatto fare la figura della deficiente in una chat line. «Poi è arrivato un cadavere dentro un container, l'Interpol si è messa di mezzo e Lucy ha ammazzato due persone. Fra parentesi, per la Bray, che vorrebbe tanto che Lucy entrasse nel dipartimento di polizia di Richmond, è una manna: se l'ATF comincia a farle delle grane, tua nipote avrà bisogno di trovarsi un altro lavoro. Ah, dimenticavo, ti hanno anche pedinato.» Tenevo gli occhi fissi su un Liberace giovane e bello che suonava il piano e cantava, mentre una voce di sottofondo parlava di che uomo generoso e straordinario era. «Non mi ascolti», disse Marino alzando la voce. «Sì che ti ascolto.» Si alzò sbuffando e andò in cucina. «Li abbiamo sentiti quelli dell'Interpol?» chiesi. Lo sentii strappare un sacchetto di carta e frugare nei cassetti. «Non hanno ancora detto niente di interessante.» Sentii che accendeva il microonde. «Mi piacerebbe sapere che cos'hanno detto comunque», replicai infastidita.
Sotto le luci della ribalta, Liberace mandava baci al suo pubblico con lo smoking di paillette rosse e dorate. Marino tornò nel salotto con un piatto di patatine e una ciotola di salsa. «Hanno risposto con un'e-mail nel giro di un'ora chiedendo ulteriori informazioni. Tutto qui.» «Mi sembra indicativo del fatto che non hanno trovato niente», gli feci notare un po' delusa. «La vecchia frattura della mandibola, la cuspide di Carabelli, le impronte... Evidentemente non corrispondevano a nessuno scomparso o ricercato.» «Peccato», commentò con la bocca piena, offrendomi da mangiare. «No, grazie.» «Sono buone, sai? Bisogna far scaldare il formaggio nel microonde e poi aggiungere i jalapeños. Fa molto meglio della salsa di cipolla.» «Sicuro.» «Sai, a me piaceva», mi disse indicando il televisore con il dito bisunto. «Anche se era frocio. Devi riconoscere che aveva stile. Se la gente paga per andare ai concerti o comprare i dischi, bisogna comportarsi e presentarsi in un certo modo. «Quando spari a qualcuno è un casino», aggiunse poi con la bocca piena. «Ti mettono sotto inchiesta manco avessi cercato di assassinare il presidente e a furia di mandarti da psichiatri e dottori ti fanno diventare matto per davvero.» Bevve un sorso di bourbon e mangiò delle altre patatine. «Per un po' la terranno al caldo», disse riferendosi al fatto che sarebbe stata temporaneamente sospesa dal servizio. «E la polizia di Miami condurrà le indagini come se fosse stato un normale omicidio. È obbligatorio: bisogna accertare la dinamica dei fatti.» Mi guardò e si pulì le mani sui calzoni. «So che non ti farà piacere sentirtelo dire, ma credo proprio che in questo momento tu sia l'ultima persona al mondo che Lucy ha voglia di vedere.» 20 Nel nostro istituto tutte le prove, compresi i cartoncini con le impronte digitali, andavano trasportate sull'ascensore di servizio, che si trovava in fondo a un corridoio. Mentre andavo verso il laboratorio di Neils Vander, incontrai due addette alle pulizie che spingevano i loro carrelli.
«Buongiorno, Merle. Beatrice, come va?» chiesi loro con un sorriso. Lanciarono un'occhiata al vassoio chirurgico coperto dal telo e ai lenzuoli di carta che coprivano la barella che spingevo. Lavoravano lì abbastanza da sapere che era meglio non vedere quello che c'era sotto. «Abbastanza bene», disse Merle. «Abbastanza», fece eco Beatrice. Chiamai l'ascensore. «Che cosa farà di bello per Natale, dottoressa?» Mi lessero in faccia che Natale era un argomento del quale preferivo non parlare. «Avrà da lavorare, immagino», si corresse subito Merle. Erano a disagio, come diventavano tutti appena si ricordavano della tragica fine di Benton. «È uno dei periodi peggiori dell'anno», aggiunse cercando di cambiare discorso. «Con tutti quelli che sbevazzano e poi si mettono per strada. E poi è tempo di suicidi e di litigi.» Mancavano due settimane a Natale. Il venticinque sarebbe stato reperibile Fielding: io non ricordavo quante feste avessi passato con il cercapersone a portata di mano. «Per non parlare degli incendi.» «È che a Natale le cose brutte fanno più impressione», dissi mentre le porte dell'ascensore si aprivano. «Tutto lì.» «Può darsi.» «Non lo so, mi ricordo quell'incendio scatenato da un corto circuito...» Le porte si chiusero e io salii al secondo piano, dove si tenevano i tour per i personaggi politici e i normali cittadini interessati al nostro lavoro e tutti i laboratori erano protetti da grandi vetrate. In un primo momento ai tecnici, abituati a lavorare chiusi in bunker di cemento, era sembrato strano e un po' imbarazzante, ma ormai non ci faceva più caso nessuno. Maneggiavano armi da fuoco, campioni di sangue, impronte digitali e fibre senza badare a quel che succedeva di là dal vetro. Il mondo di Neils Vander era un vasto spazio fatto di banconi, strani strumenti e attrezzature di fortuna un po' dappertutto. Contro una parete c'erano armadi di legno con le ante di vetro, che aveva dotato di mollette e corde per stendere e che utilizzava per esporre ai vapori di speciali adesivi gli oggetti sui quali voleva rilevare impronte latenti. Fino a poco tempo prima era praticamente impossibile rilevare impronte su superfici non porose quali borse di plastica, nastro isolante e pelle. Poi
era stato scoperto casualmente che i vapori di certi adesivi aderiscono alle creste dei polpastrelli quanto le tradizionali polveri, mettendo in evidenza anche le impronte latenti. In un angolo c'era una macchina Cyvac II dove venivano trattati oggetti più grandi, quali fucili o paraurti di automobili e dove, teoricamente, sarebbe stato possibile mettere anche un cadavere. Le camere a umidità permettevano la rilevazione da superfici porose, quali carta e legno, che venivano trattate con ninidrina e quindi analizzate sotto campane di vetro a temperatura e umidità controllate, ma Vander talvolta utilizzava un semplice ferro a vapore e avevo sentito dire che in un paio di occasioni aveva bruciato la prova. Sparse qua e là c'erano lampade Nederman dotate di camera a vuoto per risucchiare fumi e residui dai sacchetti contenenti droga. Altre sale nel regno di Vander ospitavano l'AFIS, un sistema di identificazione automatica delle impronte e camere oscure per le prove audio e video digitali. Vander era inoltre responsabile di un laboratorio fotografico in cui venivano sviluppati oltre centocinquanta rullini al giorno. Mi ci volle un po' per trovarlo, ma alla fine lo scovai in un laboratorio ingombro di scatole da pizza, che usava per trasportare calchi di gesso di impronte di scarpa e di pneumatici. In un angolo c'era una porta che qualcuno aveva cercato di sfondare a calci. Vander era davanti a un terminale e stava confrontando le impronte di una scarpa. Lasciai la barella fuori della porta. «Sei molto gentile», gli dissi. Aveva gli occhi celesti sempre vagamente distratti e il camice macchiato di ninidrina e di inchiostro. «Questa te la devo raccontare», mi annunciò toccando lo schermo. «Un tizio che si deve sposare compra un paio di scarpe nuove e, per non scivolare sul pavimento della chiesa, piglia un coltello e incide la suola di cuoio.» Si alzò e uscì dal laboratorio; io lo seguii, non troppo interessata ai suoi aneddoti. «Caso vuole che gli vanno i ladri in casa e gli portano via scarpe, vestiti e altra roba. Due giorni dopo stuprano una donna nello stesso quartiere e la polizia trova queste strane impronte. I furti in quel periodo si sprecavano.» Entrammo in un laboratorio. «Insomma, viene fuori che era un ragazzino di tredici anni.» Vander scosse la testa e accese la luce. «Io non so più cosa pensare. Quando avevo tredici anni io, al massimo abbattevo gli uccelli con la fionda.»
Montò il Luma-Lite su un cavalletto. «Brutta roba», commentai. Sistemai gli indumenti sulla carta bianca sotto la cappa, Vander inserì la spina e la ventola cominciò a ronzare. Un minuto dopo accese il LumaLite, regolando l'intensità al massimo. Mi posò accanto un paio di occhiali protettivi e mise un filtro ottico azzurro da 450 nanometri. Inforcammo gli occhiali e Vander spense le luci. Il Luma-Lite mandava un bagliore bluastro sul pavimento. L'ombra di Vander si muoveva fra barattoli di colorante gialli, verdi e rossi, le cui polverine fluorescenti formavano una costellazione al neon. «Adesso ci sono degli idioti nella polizia che si prendono un Luma-Lite e pretendono di fare tutto da soli», protestò Vander nel buio. «Mettono la polvere rossa e poi usano uno sfondo nero, così poi io devo fotografarlo con il Luma-Lite e invertire i colori.» Cominciò con il cestino di plastica che avevamo trovato nel container e trovò subito lievi tracce di impronte, su cui applicò della polvere rossa che si alzò in una nuvoletta fluorescente. «Chi ben comincia...» commentai. «Speriamo che continui così.» Vander spostò il cavalletto vicino ai jeans neri del morto e l'interno della tasca destra cominciò a emettere un bagliore rossastro. Vi infilai un dito guantato e trovai tracce di un arancione iridescente. «Non credo di aver mai trovato una sfumatura così», osservò Vander. Impiegammo un'ora a passare in rassegna tutti i vestiti, scarpe e cintura comprese, senza trovare altro. «Decisamente si tratta di due cose diverse», disse Vander mentre io accendevo la luce. «Fluorescenti naturalmente: non ho usato coloranti a parte sul cestino della carta straccia.» Presi il telefono e chiamai l'obitorio. Rispose Fielding. «Mi serve il contenuto delle tasche del cadavere che non abbiamo ancora identificato. Dovrebbe essere su un vassoio ad asciugare.» «Le monete straniere, il tagliasigari e l'accendino?» «Sì.» Spegnemmo di nuovo la luce per controllare l'esterno di tutti gli abiti, trovando altri strani capelli chiari. «Sono del morto?» mi chiese Vander mentre li raccoglievo con le pinzette alla luce azzurrognola per infilarli in una bustina. «No. I suoi sono più scuri e più spessi», risposi. «Non credo proprio che siano suoi.»
«A me paiono peli di gatto. Tipo d'Angora o himalayani, sai? Io in casa mia non voglio gatti a pelo lungo.» «Sono rari. Non ce l'ha molta gente», osservai. «Mia moglie li adora», continuò Vander. «Ne aveva uno che si chiamava Creamsicle. Si andava ad accoccolare proprio sui miei vestiti e me li impestava di peli. Perciò dico che mi sembrano uguali a questi.» «Effettivamente potrebbero essere peli di gatto», dissi. «Per essere di cane sono troppo fini.» «Non se parliamo di terrier scozzesi. Quelli hanno il pelo lungo e diritto, setoso.» «Biondo chiaro?» «Rossiccio», precisai. «Ma sotto magari è più chiaro.» «Forse faceva l'allevatore o ne aveva uno», ipotizzò Vander. «Non ci sono anche dei conigli a pelo lungo?» «Toc toc» disse Fielding aprendo la porta. Entrò con il vassoio e accendemmo la luce. «Ci sono conigli d'Angora», replicai. «Quelli da cui si fanno i maglioni.» «Vai sempre in palestra?» chiese Vander a Fielding. «Perché, si vede?» domandò Fielding. Vander assunse un'espressione sorpresa, quasi non avesse mai notato che Fielding era un fanatico di bodybuilding. «Abbiamo trovato qualcosa in una tasca», spiegai a Fielding. «Quella dove erano contenute le monete.» Fielding tolse il telo dal vassoio. «Riconosco le sterline e i marchi tedeschi», disse. «Ma queste due dorate no.» «Secondo me sono franchi belgi», dissi. «E non ho idea neanche di che paese siano le banconote.» Erano state separate a una a una perché asciugassero. «Sembra che sopra ci sia un tempio, no? Che cos'è, un dirham? Una moneta araba?» «Chiederò a Rose di controllare.» «Perché uno si tiene in tasca quattro monete diverse?» si domandò Fielding. «Forse perché viaggia da un paese all'altro fermandosi per brevi periodi», ipotizzai. «Non mi viene in mente nessun'altra spiegazione. Forza, andiamo avanti.» Inforcammo gli occhiali protettivi e Vander spense le luci. Lo stesso co-
lore rosso e arancio fluorescente apparve sulle banconote. Le controllammo su entrambi i lati, trovando macchie e pagliuzze e quindi un accenno di impronta, appena visibile sull'angolo in alto a sinistra di una banconota da cento dirham. «Siamo fortunati», commentò Fielding. «Perfetto», disse Vander. «Adesso chiamo subito qualcuno dei servizi segreti e gli chiedo di controllare su MORPHO, PRINTRAK, NEC-AFIS, WIN e tutti gli altri database. Saranno quaranta o cinquanta milioni di impronte!» Vander si emozionava sempre a trovare anche la minima cresta da raffrontare nel ciberspazio. «Il database nazionale dell'FBI non funziona ancora?» domandò Fielding. «I servizi segreti hanno gli stessi identici dati dell'FBI, ma come al solito il Bureau deve fare tutto come vuole lui. Spende e spande per creare un nuovo database e si rivolge a fornitori diversi, così siamo tutti incompatibili l'uno con l'altro. Stasera sono invitato a cena.» Puntò il Luma-Lite sul lembo di pelle scura fissato al tagliere e immediatamente apparvero due puntini di un giallo brillante. Avevano le dimensioni della testa di un chiodo, erano paralleli e simmetrici e non venivano via sfregando. «Sono quasi certo che è un tatuaggio», dissi. «Sì», confermò Vander. «Non saprei cos'altro potrebbe essere. Nient'altro reagisce.» Il frammento di carne che avevo staccato dalla schiena del cadavere sembrava opaco e torbido alla luce azzurra e fredda. «Vedete com'è scuro qui?» chiese Vander indicando una zona delle dimensioni della mia mano. «Che cosa sarà?» fece Fielding. «Non capisco perché sia così scuro», continuò Vander. «Forse il tatuaggio era nero o marrone», suggerii. «Chiediamo un parere a Phil», propose Vander. «Quanto ci vorrà? Mi spiace un po' che Edith abbia organizzato questa cena. Però adesso devo andare. Finite voi. Maledizione, quando Edith si mette in testa di festeggiare qualcosa...» «Ma se lo sappiamo tutti quanto ti piacciono i party...» «Non bevo più come una volta. Adesso mi dà fastidio.» «E meno male», intervenni.
Phil Lapointe non era di buon umore quando entrai nel laboratorio. Sembrava uno studio di produzione, più che un luogo in cui i periti lavoravano con pixel e contrasti in ogni condizione di luce e ombra per cercare di dare un volto alla malvagità. Lapointe era uno dei primi laureati dell'istituto ed era capace e determinato, ma non aveva ancora imparato a lasciare perdere quando i casi si impantanavano. «Maledizione!» esclamò passandosi le dita fra i capelli rossi e folti e strizzando gli occhi verso uno schermo da ventiquattro pollici. «Scusami», dissi. Batté sulla tastiera impaziente, cambiando la gradazione di grigio a un fotogramma di un filmato ripreso dalle telecamere a circuito chiuso di un negozio. La figura con gli occhiali scuri e la papalina lavorata all'uncinetto rimase poco chiara, ma quella del commesso del negozio, con il sangue che sgorgava dalla testa, era senz'altro più vivida. «Sono lì lì e poi lo perdo», brontolò Lapointe con un sospiro. «Sapesse, me lo sogno di notte.» «Incredibile», osservai. «Guarda quant'è rilassato. È come se gli fosse venuto in mente all'ultimo momento; come se ci avesse ripensato e si fosse detto: "Okay, tanto vale farlo fuori".» «Infatti.» Lapointe si stirò. «L'ha ammazzato senza ragione. È di questo che non riesco a capacitarmi.» «Vedrai che fra qualche anno ne prenderai atto e basta», dissi. «Non ho nessuna intenzione di diventare cinico, se è questo che dice.» «Non è questione di diventare cinici, ma di rendersi conto che ci sono persone che non hanno bisogno di una ragione per uccidere», spiegai. Guardò lo schermo, contemplando assorto l'ultima immagine di Pyle Gant vivo. Avevo effettuato io l'autopsia. «Vediamo che cosa c'è qui», disse togliendo il telo dal vassoio. Gant aveva ventitré anni e un bambino di due mesi e stava facendo lo straordinario per pagare la collana che aveva regalato alla moglie per il suo compleanno. «È il cadavere del container? Pensa che sia un tatuaggio?» Gant aveva perso il controllo della vescica, prima che gli sparassero. «Dottoressa Scarpetta?» Lo avevo capito dalla macchia di urina sulla parte posteriore dei calzoni e sulla sedia. Fuori, nel parcheggio, due poliziotti sorreggevano la moglie. Era in piena crisi isterica. «Dottoressa Scarpetta?»
La donna gridava e strepitava. Aveva ancora l'apparecchio ai denti. «Trentun dollari e dodici centesimi», borbottai. Lapointe salvò e chiuse il file. «Come?» mi domandò. «Nella cassa c'erano trentuno dollari e dodici centesimi», ripetei. Lapointe girò la poltroncina, aprì dei cassetti e tirò fuori una serie di filtri colorati alla ricerca di un paio di guanti. Squillò il telefono e rispose. «Sì, gliela passo subito.» Mi porse la cornetta. «È per lei.» Era Rose. «Ho parlato con l'ufficio cambi della Crestar», mi informò. «Il dirham è la moneta del Marocco. Attualmente un dollaro vale nove virgola tre dirham, quindi duemila dirham sono circa duecentoquindici dollari.» «Grazie, Rose...» «Ho scoperto un'altra cosa che potrebbe essere interessante», continuò. «E proibito portare dirham fuori del Marocco.» «Ho la sensazione che quell'uomo non facesse molto caso ai divieti», commentai. «Puoi riprovare a contattare l'agente Francisco?» «Certamente.» Conoscendo un po' le procedure dell'ATF, avevo il terribile sospetto che Lucy non volesse né vedermi né sentirmi. Io invece ne avevo una voglia disperata e avrei fatto di tutto per poterla vedere. Riagganciai e presi il tagliere di sughero dal vassoio. Lapointe lo esaminò sotto a una forte luce. «Non credo che ci caveremo granché», mi disse. «Be', non cominciare a sognarti di notte pure questo», replicai. «Non ho grandi speranze nemmeno io. Possiamo solo provare.» Quel che restava dell'epidermide era verde-nerastro e lo strato sottostante diventava sempre più scuro e asciutto, come la carne secca. Sistemammo il tagliere sotto una cinepresa ad alta definizione collegata a uno schermo. «Macché», fece Lapointe. «Troppi riflessi.» Provò una luce più obliqua e quindi passò al bianco e nero. Mise una serie di filtri sull'obiettivo: quello blu non andava bene, il giallo neppure. Quando provò con il rosso, rispuntarono i puntini iridescenti. Lapointe li ingrandì. Erano perfettamente rotondi. Pensai a due lune piene, a un lupo mannaro dai grandi occhi gialli. «Non credo di poter fare più di così. Ci accontentiamo?» disse Lapointe un po' deluso. Caricò l'immagine sul disco fisso e cominciò a elaborarla con un softwa-
re che ci permetteva di vedere circa duecento gradazioni di grigio impercettibili a occhio nudo. Lapointe lavorava con mouse e tastiera, entrando e uscendo da diverse finestre, regolando contrasto e luminosità, ingrandendo, rimpicciolendo e rimaneggiando. Eliminò il rumore di sottofondo - i disturbi, come li chiamava lui - e cominciammo a vedere i pori e quindi i punti lasciati dall'ago. Come dal nulla, spuntarono improvvisamente linee scure e ondulate, che diventarono un mantello di pelliccia o forse delle piume. Un contorno nero che ricordava una mezza margherita si trasformò in artiglio. «Che cosa ne pensi?» chiesi a Lapointe. «Penso che più di così sarà difficile vedere», mi rispose un po' infastidito. «Conosciamo qualcuno esperto di tatuaggi?» «Perché non comincia a chiedere al nostro istologo?» mi suggerì. 21 Trovai George Gara nel suo laboratorio che prendeva un sacchetto di roba da mangiare da un frigo su cui era scritto Non riporre alimenti. L'interno era macchiato di nitrato d'argento, mucicarminio e reagenti di Schiff, incompatibili con il cibo. «Non mi sembra una buona idea», gli feci notare. «Mi scusi», borbottò posando una borsa di plastica sul tavolo e richiudendo lo sportello. «C'è un frigo anche di là», gli ricordai. «Perché non usi quello?» Non mi rispose, ma capii che la timidezza gli impediva di andare nella saletta. Ebbi un moto di compassione: doveva essere terribile non riuscire a parlare senza balbettare. Forse era per questo che si era fatto tatuare su tutto il corpo, per sentirsi più bello e più uomo. Presi una sedia e mi sedetti. «George, posso farti una domanda a proposito dei tatuaggi?» Arrossì. «Mi affascinano e in questo momento ho un problema in cui spero tu mi possa aiutare.» «Certo», rispose un po' insicuro. «Conosci qualcuno che se ne intende veramente? Uno molto esperto?» «Sì, dottoressa», mi rispose. «Non vado da uno qualunque.» «Vai da uno di qui? Perché avrei bisogno di qualcuno a cui fare delle
domande. Ma vorrei che fosse una persona per bene, se capisci cosa intendo dire.» «Pit», replicò. «Si chiama così veramente, non è un soprannome. John Pit. È una bravissima persona. Vuole che lo chiami?» si offrì, balbettando furiosamente. «Mi faresti un grosso piacere», risposi. Gara prese una rubrica dalla tasca posteriore dei pantaloni e cercò il numero. Poi parlò con Pit spiegandogli brevemente chi ero; ebbi l'impressione che fosse una persona cordiale. «Prego», mi disse porgendomi il telefono. «Gli parli lei.» Non fu facile. Pit era a casa e si era appena svegliato. «Pensa di potermi aiutare?» domandai. «Ho visto praticamente tutte le maschere», mi rispose. «Scusi, ma non capisco.» «I modelli, per così dire. Cioè, i disegni che la gente sceglie di farsi fare. Il mio laboratorio ha le pareti completamente coperte di disegni. Stavo pensando che probabilmente le conviene venire lei qui, invece che io da lei, casomai vedesse qualcosa di illuminante. Dunque, io il mercoledì e il giovedì sono chiuso. E il week-end mi ha ucciso: non mi sono ancora ripreso. Comunque, visto che mi sembra importante, per lei apro. Vuole portare la persona con il tatuaggio?» Evidentemente non aveva capito bene. «No, porto il tatuaggio soltanto», precisai. «La persona è meglio di no.» «Scusi, ma...» fece. «Ah, certo, adesso ho capito. L'ha tagliato via a un morto.» «Le fa impressione?» «Be', non più di tanto.» «A che ora posso venire?» «Anche subito, se per lei va bene.» Riagganciai e rimasi sorpresa nel vedere Ruffin sulla porta. Mi guardava e io ebbi l'impressione che fosse lì da un po' e che avesse ascoltato la telefonata, visto che gli davo la schiena. Aveva la faccia stanca e gli occhi rossi, come se avesse fatto le ore piccole a sbevazzare. «Non hai una bella cera, Chuck», gli dissi un po' sulle mie. «Volevo chiederle il permesso di andare a casa, infatti», mi comunicò. «Forse sto covando qualcosa.» «Mi dispiace per te. So che c'è un'influenza particolarmente contagiosa. Dicono che si prenda attraverso Internet. Si chiama la sindrome delle sei e
mezzo», dissi. «Viene l'impulso irrefrenabile di correre a casa dal lavoro e attaccarsi al computer. Se uno ce l'ha a casa, naturalmente.» Ruffin sbiancò. «Carina», intervenne Gara. «Non capisco perché proprio le sei e mezzo, però.» «È l'ora in cui mezzo mondo si collega a AOL», spiegai. «Certo che puoi andare a casa, Chuck. Riposati. Anzi, ti accompagno fuori. Intanto devo passare a prendere il tatuaggio nella sala di decomposizione.» Lo avevo tolto dal tagliere di sughero e messo in un barattolo di formalina. «Pare che sarà un inverno eccezionale», cominciò Ruffin. «Stamattina ho sentito alla radio che a Natale avremo un freddo polare e a febbraio sarà di nuovo primavera.» Aprii le porte automatiche che conducevano alla sala di decomposizione e vidi Larry Posner e uno studente dell'istituto che esaminavano i vestiti del morto. «Lieta di vedervi», li salutai. «Devo ammettere che questo rebus è ancora più avvincente degli altri», fece Posner staccando del fango dalla suola di una scarpa con un bisturi e facendolo scivolare su un pezzo di carta. «Conosce Carlisle?» «Dimmi: è un bravo insegnante?» chiesi al giovane. «A volte», rispose questi. «Come va, Chuck?» disse Posner. «Non mi sembri in gran forma.» «Tiriamo avanti», replicò Chuck un po' lamentoso. «Ho saputo della storia del dipartimento di polizia di Richmond», disse Posner con un sorriso comprensivo. «Mi spiace.» Ruffin rimase male. «Come, scusa?» chiese. Posner, lievemente a disagio, replicò: «Ho sentito che non ti hanno preso all'accademia. Volevo solo dirti che non ti devi scoraggiare». Ruffin abbassò gli occhi. «Non lo sa quasi nessuno», continuò Posner mettendosi a lavorare sull'altra scarpa, «ma ai primi due esami di chimica mi hanno cacciato.» «Davvero?» fece Ruffin. «Adesso, me lo dice?» esclamò Carlisle fingendosi scandalizzato. «E pensare che mi avevano assicurato che qui avrei lavorato fianco a fianco con i migliori. Rivoglio indietro i miei soldi.» «Volevo farle vedere una cosa, dottoressa», disse Posner togliendosi la
visiera protettiva. Posò il bisturi e piegò il foglio di carta con una pinzetta da orafo. Poi andò verso i jeans neri stesi accuratamente su una barella coperta da un lenzuolo, su cui stava lavorando Carlisle. La cintura era rivoltata all'altezza delle anche e Carlisle stava raccogliendo dei capelli con un paio di pinzette dalla punta arrotondata. «È una stranezza», fece Posner indicando senza toccare i jeans che Carlisle continuava a rivoltare trovando sempre più capelli. «Ne abbiamo già raccolte diverse decine», mi comunicò Posner. «Quando abbiamo cominciato a rivoltare i pantaloni pensavamo di trovare qualche pelo in corrispondenza del pube e invece siamo sommersi da questa peluria bionda. Più continuiamo, più ne troviamo. Non capisco.» «Neanch'io», ammisi. «Potrebbe essere pelo di animale. Magari un gatto persiano», suggerì Carlisle. Ruffin aprì uno sportello e prese la boccetta di formalina che conteneva il tatuaggio. «Magari se li è tolti in fretta e furia e il gatto ci ha dormito sopra», continuò a ipotizzare Carlisle. «A me succede un sacco di volte di lasciare i pantaloni mezzi rovesciati sulla sedia e il mio cane ci si accoccola sopra.» «Per te armadi e cassetti sono superflui, vero?» lo prese in giro Posner. «Vuole dire che dovrei essere più ordinato?» «Vado a prendere una borsa per metterci questo dentro», mi annunciò Ruffin sollevando il barattolo. «Non vorrei che perdesse dal coperchio.» «Va bene», risposi. Quindi chiesi a Posner: «Quanto tempo ti ci vorrà a finire?». «Domanda da cinque miliardi: per quando le serve?» Sospirai. «Okay, capito.» «Abbiamo chiesto all'Interpol di cercare di identificare il morto. Sono sotto pressione anch'io, Larry.» «Capisco benissimo. So che quando mi chiede una cosa è perché le serve veramente. Cercherò di fare più in fretta che posso. Cosa gli è preso a quello?» aggiunse poi. «Si è comportato come se non sapesse che non l'hanno accettato in accademia, mentre qui dentro non si parla d'altro...» «Veramente io non lo sapevo», dissi. «E comunque, non capisco perché non si parli d'altro.» In quel momento mi venne in mente Marino, che si era ripromesso di da-
re una lezione a Ruffin. Forse aveva saputo del suo insuccesso e aveva sparso la voce. «Pare che sia stata Diane Bray a cacciarlo!» continuò Posner. Appena Ruffin fu tornato con una borsa di plastica in mano, uscimmo dalla sala di decomposizione e ci andammo a lavare nei rispettivi spogliatoi. Io feci con calma e lo lasciai aspettare, sapendo che si sarebbe spazientito e innervosito. Quando fui pronta, ci incamminammo in silenzio; Chuck si fermò due volte a bere un bicchiere d'acqua. «Spero solo che non mi venga la febbre», disse. Mi fermai a guardarlo; quando gli posai la mano sulla guancia, fece un salto. «Secondo me, non ce l'hai», gli dissi. Lo accompagnai nel parcheggio e mi accorsi che era spaventato. «C'è qualcosa che non va?» mi chiese alla fine, schiarendosi la voce e mettendo gli occhiali da sole. «Perché me lo chiedi?» domandai con aria innocente. «Perché mi ha accompagnato fin qui. È strano.» «Sto andando via anch'io.» «Mi dispiace di averle parlato dei problemi interni e di Internet», disse. «Dovevo tenermelo per me: sapevo che si sarebbe arrabbiata.» «Perché pensi che mi sia arrabbiata?» chiesi aprendo la portiera. Sembrava senza parole. Aprii il bagagliaio e vi posai la borsa di plastica. «Guardi qui: le si è staccato un pezzo di vernice dalla carrozzeria. Magari è stato un sassolino, ma se poi arrugginisce...» «Chuck, stammi a sentire, per favore», lo interruppi, calma. «Guarda che io so tutto.» «Come? Cosa? Non capisco», si impappinò. «Io credo di sì, invece.» Mi sedetti in macchina e accesi il motore. «Sali, Chuck», dissi. «Non prendere freddo, visto che non stai bene.» Dopo un attimo di esitazione, si avvicinò guardingo alla portiera. «Mi dispiace che tu non ce l'abbia fatta a venire da Buckhead's. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con Diane Bray. È stato molto interessante», gli raccontai mentre chiudeva la portiera. Rimase a bocca aperta. «È stato un sollievo trovare finalmente risposta a tanti misteri», proseguii. «Le e-mail, Internet, le voci sul mio posto di lavoro, i pettegolezzi...» Mi interruppi per farlo parlare e rimasi stupefatta quando sbottò: «È per
questo che non sono riuscito a entrare nell'accademia, vero? Vi siete viste ieri sera e stamattina mi danno la risposta negativa. Le ha parlato male di me, le ha consigliato di non assumermi e poi l'ha spifferato a destra e a manca per farmi fare la figura del cretino». «Non ti abbiamo nemmeno nominato, Chuck. E io non ho spifferato niente a destra e a manca.» «Balle.» Mi sembrò sul punto di scoppiare in lacrime. «È da quando ero piccolo che voglio fare il poliziotto. E lei ha mandato a monte tutto!» «No, Chuck, sei stato tu a mandare a monte tutto.» «Chiami il comandante, gli parli. Lei può fare qualcosa, se vuole», mi supplicò come un bambino disperato. «La prego.» «Perché avevi appuntamento con la Bray ieri sera?» «Me lo ha dato lei, non so che cosa volesse. Mi ha mandato un messaggio chiedendomi di incontrarci nel parcheggio del Buckhead's alle cinque e mezzo.» «E, per quanto ne sa lei, tu non ti sei presentato. Immagino che questo abbia avuto a che fare con la brutta notizia che hai ricevuto stamattina. Non credi?» «Forse», mormorò. «Ti senti sempre poco bene? Perché, se stai un po' meglio, vorrei chiederti di accompagnarmi fino a Petersburg, così finiamo la conversazione.» «Veramente io...» «Che cosa, Chuck?» «Voglio finire anch'io la conversazione», dichiarò. «Cominciamo con la Bray. Come l'hai conosciuta? Mi sembra alquanto singolare che tu abbia un rapporto di amicizia con una delle persone più potenti del dipartimento di polizia di Richmond.» «Sembra singolare anche a me!» replicò ingenuo. «È andata così: un paio di mesi fa mi chiama Rene Anderson, dice che è nuova e che vuole sapere come lavoriamo all'istituto eccetera eccetera. Mi invita a pranzo al River City Diner. È lì che mi sono impelagato. Avrei dovuto avvertirla della telefonata della Anderson e dirle che avevo appuntamento con lei. Ma lei quel giorno aveva lezione e il dottor Fielding era in tribunale e io non volevo disturbarvi. Così ho detto alla Anderson che sarei stato contento di rispondere alle sue domande.» «Ma lei non ha capito niente.» «Voleva fregarmi», replicò Chuck. «Quando sono arrivato al River City Diner e l'ho vista seduta al tavolo con Diane Bray, sono rimasto di sasso.
Anche lei voleva farmi delle domande su come lavoravamo all'istituto.» «Chi?» «La Bray.» «Straordinario», commentai. «Io da una parte ero lusingato, dall'altra un po' sulle spine perché non capivo che cosa stava succedendo. Pensi che mi hanno chiesto di accompagnarle al commissariato.» «Ma perché non me ne hai mai parlato?» gli domandai mentre andavamo verso Fifth Street per imboccare la I-95 in direzione sud. «Non lo so...» Non finì la frase. «Secondo me, sì.» «Ho avuto paura.» «Non pensi che c'entri il fatto che volevi entrare nella polizia?» «Be', diciamo le cose come stanno», ammise. «Per me era una manna. E lei sapeva che ero interessato perché quando siamo arrivati nel suo ufficio ha chiuso la porta e mi ha fatto sedere di fronte a lei.» «C'era anche Rene Anderson?» «No, eravamo solo io e la Bray. Mi ha detto che con la mia esperienza sarei potuto entrare nella Scientifica. Io ero al settimo cielo.» Mentre Ruffin parlava, io dovevo sforzarmi per non andare a sbattere contro le Barriere di cemento e i prepotenti al volante. «Devo ammettere che a quel punto ero talmente contento che ho perso un po' di interesse nel mio lavoro», confessò. «Dopo due settimane, la Bray mi ha mandato un'e-mail...» «Come faceva ad avere il tuo indirizzo?» «Me lo aveva chiesto e io glielo avevo dato. In questa e-mail mi chiedeva di passare a casa sua alle cinque e mezzo perché aveva una cosa molto importante e riservata da comunicarmi. «Le dico subito che io non ci volevo andare. Sapevo che mi sarei ficcato in qualche pasticcio.» «Tipo?» «Non lo so, ma non volevo che si facesse certe idee...» «Che ti saltasse addosso? E l'ha fatto?» «Cristo, come faccio a dirlo?» «Provaci.» «Mi ha offerto una birra e si è seduta in poltrona, vicinissima a dove ero seduto io. Mi ha fatto un sacco di domande personali, come se fosse interessata a me. E poi...»
Un camion si immise nella mia corsia davanti a me costringendomi a sorpassarlo. «Quanto li odio», brontolai. «Anch'io», fece Chuck. Il suo tono da leccapiedi mi fece venire da vomitare. «Allora? Stavi dicendo?» Trasse un respiro profondo, osservando con un certo interesse i camion e gli operai che asfaltavano un tratto di strada. Sembrava che sulla I-95 nei pressi di Petersburg ci fossero i lavori in corso dai tempi della Guerra Civile. «Non era in divisa, capisce?» riprese in tono di esagerata sincerità. «Aveva un tailleur, ma forse era senza reggiseno, o comunque la camicia era... Be', insomma, si vedeva tutto.» «Ti ha fatto delle avance esplicite, ha cercato di sedurti o era solo vestita in maniera provocante?» «No, non ha fatto niente. Ma era un po' come se aspettasse che lo facessi io. E adesso so anche perché. Non ci sarebbe stata e io mi sarei compromesso. Le avrei dato un appiglio in più per tenermi sotto controllo. Alla seconda birra arrivò al punto e mi disse che era importante che io sapessi la verità sul suo conto, dottoressa.» «Su di me?» «Sì. Disse che lei era instabile, che ormai lo sapevano tutti che lei non c'era più. Disse proprio così, me lo ricordo. Che non aveva più soldi in banca perché li aveva sperperati...» «Li avevo sperperati?» «Sì, nella casa e nell'automobile.» «E che cosa ne sa lei della mia casa?» mi stupii, riflettendo che Ruffin sapeva dell'una, dell'altra e di molte altre cose ancora. «Non ne ho idea», rispose. «Ma la cosa peggiore, secondo me, è che parlava male di lei professionalmente. Diceva che combinava un pasticcio dietro l'altro e che quelli dell'Investigativa si erano lamentati tutti, tranne Marino che la difendeva. Motivo per cui prima o poi avrebbe dovuto fare qualcosa.» «Come abbiamo visto», replicai senza emozione. «Devo proprio andare avanti?» sospirò. «Preferirei non toccare certi argomenti.» «Dipende. Se vuoi una chance di ricominciare e rimediare al male che hai fatto...» lo provocai.
«Certo che voglio!» ribatté convinto. «Allora dimmi la verità e raccontami tutto. Così potrai ricominciare daccapo e toglierti questo peso», lo incoraggiai. Sapevo che era un piccolo opportunista che non avrebbe avuto il minimo ritegno a dare la colpa di tutto agli altri. «Mi disse che una delle ragioni per cui era arrivata a Richmond era che il comandante della polizia, il sindaco e il consiglio comunale volevano mandarla via dall'istituto ma non sapevano come fare», mi spiegò come se la cosa lo addolorasse. «Anche perché, siccome lei non dipende dal comune, doveva essere il governatore a licenziarla. Disse che era come quando mandavano a chiamare un amministratore nuovo per liberarsi di un comandante di polizia incompetente. Fu talmente convincente che io le credetti. A quel punto - oddio, non me lo scorderò mai - si venne a sedere vicino a me e mi guardò negli occhi. «Mi disse: "Chuck, non ti rendi conto che quella donna può essere la tua rovina? Quando andrà a fondo, si porterà dietro tutti quelli che lavorano con lei, te compreso". Le chiesi perché avrei dovuto andare a fondo anch'io e lei mi rispose: "Perché tu non sei nulla per la dottoressa Scarpetta. Quella è una che fa la gentile, ma si crede Dio in terra e non ha la minima considerazione per il suo prossimo". Secondo lei, noi eravamo i suoi schiavi, niente di più. Mi fece arrabbiare.» «Lo credo», replicai. «Non credo di averti mai trattato come uno schiavo, però, Chuck.» «Lo so, lo so!» Ero convinta che mi stesse fornendo una versione dei fatti a proprio uso e consumo. «Così cominciai a farle dei piccoli favori. All'inizio era roba da niente», continuò. «Ma una volta che si comincia, ci si piglia la mano. Dopo un po' ci ho fatto il callo. Mi dicevo che in fondo ero giustificato, che avevo le mie ragioni; anche perché altrimenti non sarei riuscito più a guardarmi allo specchio. Ormai erano cose grosse, quelle che mi chiedeva di fare, come le e-mail. Per la verità, me le faceva chiedere dalla Anderson. Lei è troppo furba per esporsi di persona.» «Che cosa ti ha chiesto di fare?» «Di gettare il proiettile nel lavandino, per esempio. Quella è stata una delle peggiori.» «Già», replicai, cercando di non lasciar trapelare il disprezzo che provavo per lui.
«Ragion per cui, quando mi ha dato appuntamento al Buckhead's ieri sera, ho intuito che aveva in mente qualcosa di grosso», continuò. «Mi raccomandava di non farne parola con nessuno e di non rispondere a meno che non ci fossero problemi. Di presentarmi e basta. «Avevo paura», disse e gli credetti. «Mi aveva in pugno, sa? Perché io ormai mi ero compromesso. Temevo che mi chiedesse chissà cosa.» «Che cosa temevi che ti chiedesse?» Esitò, prima di rispondere. Un camion davanti a me sbandò costringendomi a frenare. Le scavatrici riempivano l'aria di terra e polvere. «Di distruggere qualche prova relativa all'uomo del container. È questo che temevo. Che mi ordinasse di fare qualcosa di talmente grave che per lei fosse la fine, capisce? Visto che c'era di mezzo l'Interpol e tutto.» «L'hai già fatto, Chuck? Hai già compromesso la soluzione di quel caso?» «No, dottoressa Scarpetta.» «E di altri?» «Ho fatto solo sparire quel proiettile, nient'altro.» «Ti rendi conto che alterare o distruggere prove è un reato perseguibile per legge? Ti rendi conto che Diane Bray ti ha fatto rischiare la galera e che probabilmente ti ci avrebbe mandato, una volta che si fosse liberata di me?» «Questo sinceramente non lo credo», rispose. Io invece ne ero sicura: senz'altro lo considerava una nullità, un imbecille accecato dall'ambizione e da un io esagerato, che non si accorgeva dei tranelli che lei gli tendeva. «Sei sicuro?» lo stuzzicai. «Sei sicuro che Diane Bray non ti avrebbe usato come capro espiatorio?» Non rispose. «Sei tu che fai sparire la roba in ufficio?» gli chiesi, prendendo il toro per le corna. «È tutto a casa mia. È stata lei a chiedermelo: voleva che le facessi fare la figura dell'incapace. Ho tenuto tutto in una scatola. Prima o poi l'avrei portata in ufficio in maniera che ognuno si ripigliasse la sua roba.» «Perché facevi tutto quello che ti diceva?» gli domandai. «Compreso rubare e ostacolare il corso della giustizia?» «Per favore, non mi faccia arrestare, dottoressa!» mi supplicò spaventato. «Ho la moglie incinta. Se lei mi denuncia, io mi ammazzo, giuro. E so anche come fare.»
«Non dire queste cose», lo rimproverai. «Toglitelo dalla testa.» «Invece no. Ho rovinato tutto. È tutta colpa mia. Sono stato un cretino.» «Salvare la situazione dipende da te.» «Ormai...» borbottò. Cominciai a temere che dicesse sul serio. Si passava continuamente la lingua sulle labbra e parlava a fatica perché aveva la bocca asciutta. «A mia moglie intanto non importa niente e per mio figlio è meglio crescere orfano che con un padre in prigione.» «Non farmi brutte sorprese, Chuck», gli dissi arrabbiata. «Non voglio vederti arrivare cadavere, capito?» Si voltò dalla mia parte, scioccato. «Datti una regolata», lo sgridai. «Non è sparandosi in testa che si rimedia ai propri problemi, capito? Lo sai cos'è il suicidio?» Mi guardò con gli occhi sgranati. «L'estremo vaffanculo di chi vuole sempre avere l'ultima parola», risposi. 22 Il Pit Stop era appena dopo il Kate's Beauty Salon e l'insegna di una chiromante. Parcheggiai accanto a un pick-up nero malandato e ricoperto di adesivi tatuati sul parafango che mi illuminarono sul carattere e sulle opinioni del signor Pit. La porta del suo laboratorio si aprì immediatamente e mi ritrovai di fronte un uomo che aveva orecchini dappertutto e tatuaggi su tutta la pelle esposta, testa e collo compresi. Era più vecchio di quanto mi aspettassi - doveva aver superato la cinquantina - era magro e aveva la barba e i capelli grigi raccolti in una coda di cavallo. Indossava un giubbotto di pelle su una T-shirt e un paio di jeans con una catena da cui pendeva il portafoglio. Sembrava che l'avessero preso a pugni in faccia. «Pit?» domandai aprendo il bagagliaio per ricuperare la borsa di plastica. «Prego», replicò disinvolto, come se niente al mondo potesse turbarlo. Entrò precedendo Ruffin e gridò: «Taxi, cuccia. Da brava». Quindi ci rassicurò: «Non vi preoccupate. Non farebbe del male a un moscerino». Io invece mi preoccupai. «Avevo capito che veniva da sola», mi disse, e vidi che aveva un orecchino argentato sulla lingua. «Come ti chiami?»
«Chuck.» «È un mio collaboratore», spiegai. «Ci aspetta qui, se ha da sedersi.» Taxi era una pit bull, un ammasso di muscoli a quattro zampe marrone e nero. «Sì, certo», replicò Pit indicando un angolo con delle sedie e un televisore. «C'è la sala d'aspetto. Prego, Chuck, accomodati. Dimmi se hai bisogno di moneta per il distributore della Coca.» «Grazie», rispose Chuck un po' a disagio. Lo sguardo di Taxi non mi piaceva per niente. Non mi fidavo dei pit bull, anche se il loro padrone giurava sulla loro docilità. A mio parere incrociare bulldog e terrier era stato un esperimento alla Frankenstein e purtroppo avevo esperienza della ferocia di quei cani, specie con i bambini. «Dài, Taxi, vieni che ti accarezzo», fece Pit con il tono con cui ci si rivolge ai bambini. Taxi si mise sulla schiena con le zampe per aria e Pit le massaggiò la pancia. «Sapete», spiegò, «questi cani sono cattivi solo se il padrone li addestra a essere cattivi. Altrimenti sono come i bambini. E lei è la mia bambinona, eh, Taxi? L'ho chiamata così perché me l'ha data uno che guidava il taxi più o meno un anno fa; era venuto a farsi tatuare una Morte con la falce e il nome dell'ex moglie sotto. È così che ci siamo conosciuti, eh, Taxi? Mi fa morire che anch'io mi chiamo Pit: è come se fossimo parenti.» Il laboratorio di Pit era un luogo a me sconosciuto e inimmaginabile, sebbene nella mia vita avessi visitato parecchi posti strani. Le pareti erano interamente coperte di disegni: c'erano migliaia di pellerossa, cavalli alati, draghi, pesci, rane e simboli a me ignoti, oltre a una serie di massime del genere Non ti fidare e Già fatto. Dagli scaffali occhieggiavano teschi di plastica e riviste di tatuaggi per i coraggiosi che avevano il fegato di sfogliarle in attesa dell'ago nella pelle. Stranamente ciò che un'ora prima mi sarebbe sembrato offensivo mi parve dotato di una certa autorevolezza e importanza. Pit e i suoi clienti erano persone che rivendicavano il diritto di essere come gli pareva e piaceva. Il diverso in quel posto era il morto di cui tenevo in mano un lembo di pelle: non c'era nulla di alternativo, di controculturale, in uno vestito Armani e con le scarpe di coccodrillo. «Come mai ha deciso di fare questo lavoro?» chiesi a Pit. Chuck guardava le pareti come fosse stato in un museo di arte moderna. Posai la borsa di plastica vicino al registratore di cassa.
«Sono partito dai graffiti», mi rispose. «Come Grime del Primal Urge di San Francisco, per quanto naturalmente lui sia molto più bravo. Ma insomma, mi piace mescolare la vivacità dello stile graffiti con le linee della vecchia scuola. Non so se mi spiego.» Posò un dito su una foto incorniciata. Era una donna nuda con un sorriso malizioso e le braccia incrociate sul petto, che aveva un tramonto dietro a un faro tatuato sul ventre. «Pensi che questa qui è venuta con il suo uomo, che le voleva regalare un tatuaggio per il compleanno. Comincia con una farfallina sull'anca, tutta spaventata. Poi una settimana dopo torna a farsene un altro. E da allora è sempre qui.» «Perché?» «Perché i tatuaggi danno assuefazione.» «La gente tende a farsene più di uno?» «Quelli che ne hanno uno solo di solito ce l'hanno dove non si vede, tipo un cuore sulla natica o sul seno. E quel tatuaggio ha un significato ben preciso. Oppure se lo sono fatti fare quando erano bevuti. Non da me, perché io li mando via. Se uno puzza di alcol, io non gli faccio niente.» «Dunque un tatuaggio solo, sulla schiena, è una cosa importante? A me non è sembrato di vederne altri. Potrebbe essere più di una semplice bravata o di una scelta avventata?» «Secondo me, sì. Un tatuaggio sulla schiena si vede, a meno che uno non si spogli mai. Sì, direi che voleva dire qualcosa di preciso.» Guardò il sacchetto di plastica sul bancone. «Ce l'aveva sulla schiena?» domandò. «Con due cerchietti gialli, grandi più o meno come la testa di un chiodo.» Pit rimase fermo a pensarci su un attimo, facendo una smorfia. «Ci sono due puntini neri dentro, tipo pupille?» domandò. «No», risposi, guardando se Chuck ci stava ascoltando o meno. Vidi che era sul divano e sfogliava una rivista. «Oddio, se non ci sono pupille è un casino», osservò Pit. «Senza pupille non mi viene in mente niente, sempre che sia un animale o un uccello. Da quel che dice non sembra copiato da un modello, ma un originale.» Indicò le pareti del negozio, aprendo le braccia come un direttore d'orchestra. «Questi sono tutti modelli», disse. «Copie, non originali come quelli che fa Grime. Voglio dire che, se si guardano bene, si riconosce lo stile, un po'
come da un quadro si capisce il pittore. Io per esempio Jack Rudy o Tin Tin li riconoscerei ovunque. Gran bei grigi.» Mi accompagnò in una saletta che pareva un ambulatorio medico, con tanto di sterilizzatore ad autoclave, apparecchiature di lavaggio a ultrasuoni, saponetta chirurgica, Biowrap, unguenti emollienti, abbassalingua e confezioni di aghi sterili. La macchinetta per i tatuaggi sembrava quella di un neurofisiopatologo e c'era un carrello con bottiglie di colori vivaci con dei recipienti per mischiarli. Al centro c'era una poltrona ginecologica. Immaginai che le staffe servissero a lavorare sulle gambe e su parti del corpo a cui non volevo nemmeno pensare. Pit stese un asciugamano sul tavolo e ci infilammo guanti di gomma. Accese una lampada da chirurgo e la avvicinò, mentre io svitavo il tappo del barattolo scatenando un terribile odore di formalina. Tirai fuori il lembo di pelle, gommoso al tatto, ormai non più deperibile. Pit lo prese in mano e lo osservò bene alla luce, voltandolo da una parte e dall'altra e con la lente d'ingrandimento. «Sì, sì», disse. «Ora vedo. Questi sono artigli su un ramo. Se si fa attenzione, si intuiscono le penne della coda.» «È un uccello?» «Sì», rispose. «Un gufo, mi pare. Sono gli occhi che ti colpiscono e, secondo me, a un certo punto erano più grandi di così. Si vede dall'ombreggiatura. Qui, vede?» Mi avvicinai a osservare la parte che mi indicava con il dito guantato. «Lo vede?» «No.» «È lievissimo. Gli occhi sono cerchiati di scuro, ma in maniera non uniforme, un po' approssimata, perché hanno cercato di rimpicciolirli. E poi oltre il contorno dell'uccello ci sono queste righe, vede? Se non ci si è dentro non si nota, perché è tutto molto scuro. E in cattivo stato. «Se guarda bene, però, si vede la zona più scura e più pesante attorno agli occhi, sempre che occhi siano. Mah. Più lo guardo più mi sembra che sia un gufo e che i puntini gialli siano un pasticcio fatto per coprire un altro tatuaggio cercando di trasformarlo in un gufo.» Stavo cominciando a intravedere le righe e le piume che mi aveva indicato e intuivo l'ombra più scura intorno agli occhi gialli, come se qualcuno avesse cercato di rimpicciolirli. «Supponiamo che questo signore si fosse fatto fare un tatuaggio con due cerchietti gialli e a un certo punto si fosse stufato e avesse cercato di co-
prirlo», fece Pit. «Siccome lo strato superiore della pelle non c'è più, il tatuaggio fatto per ultimo - cioè il gufo - non si vede, magari perché l'ago non è entrato in profondità come per il primo. Invece nei cerchietti gialli è entrato veramente in profondità. Molto più del necessario, il che mi fa pensare a due mani diverse.» Continuava a esaminare il lembo di pelle. «I tatuaggi non si riescono mai a coprire bene», commentò. «Ma se uno ci sa fare, riesce a distogliere l'attenzione dal disegno originario. È un po' un trucco, un'illusione ottica, se vogliamo.» «Non si riesce a capire che cosa fossero i due cerchi gialli originariamente?» Pit sospirò, deluso. «Se fosse in condizioni migliori...» mormorò posando il lembo di pelle sull'asciugamano e sbattendo gli occhi. «Madonna, che fastidio questa formalina! Come fa a sopportarla?» «Bisogna rare molta attenzione», dissi. «Posso fare una telefonata?» «Prego.» Andai dietro il banco occhieggiando un po' timorosa Taxi che si riscuoteva e mi scrutava come sfidandomi a fare qualcosa che non le andasse a genio. «Buona», le dissi sottovoce. «Pit, posso chiamare una persona sul cercapersone e lasciargli questo numero?» «Non è mica segreto. Faccia, faccia.» «Brava», dissi a Taxi prima di comporre il numero. La cagna aveva occhi piccoli e un po' spenti, come gli squali, e il muso grosso e triangolare da serpente. Sembrava un animale primitivo, che non si era evoluto dall'inizio del mondo, e mi fece tornare in mente la frase scritta all'interno del container. «Non potrebbe essere un lupo?» domandai a Pit. «Un lupo mannaro?» Pit sospirò, ancora stravolto dopo i bagordi del fine settimana. «Be', il lupo è un soggetto frequente nei tatuaggi. Sa, il lupo solitario e roba così», mi disse. «Difficile coprire un lupo con un uccello, però. Che fosse o meno un gufo.» «Sì?» rispose Marino. «Potrebbe essere qualsiasi cosa», continuò Pit riflettendo a voce alta. «Un coyote, un cane, un gatto. Qualsiasi cosa abbia del pelo e occhi gialli senza pupille. Doveva essere piccolo, comunque, per coprirlo con un gufo. Piccolissimo.»
«Con chi è che parli di pelo?» domandò brusco Marino. Gli spiegai dov'ero e perché. Nel frattempo Pit continuava a borbottare indicandomi una serie di modelli. «Bella roba», si arrabbiò Marino. «Già che ci sei, perché non te ne fai fare uno anche tu?» «Un'altra volta, magari.» «Non posso credere che ci sei andata da sola. Ma lo sai che gente bazzica quei postacci? Spacciatori, delinquenti in libertà condizionata, Hell's Angels...» «Non ti preoccupare.» «Mi preoccupo, invece!» esclamò. Ma non era soltanto il fatto che fossi andata in un laboratorio di tatuaggi da sola a preoccuparlo. «Che cos'hai, Marino?» «Niente. A parte che mi hanno sospeso dal servizio senza stipendio.» «Non ne hanno il diritto!» replicai arrabbiata, anche se in fondo me l'aspettavo. «Diane Bray è convinta di avercelo, però. Credo di averle rovinato la serata, ieri. Mi ha detto che alla prossima mi licenzia. L'unica consolazione è che alla prossima mi divertirò veramente.» «Senta, guardi un attimo qui», gridò Pit dall'altra parte della stanza. «Qualcosa faremo», promisi a Marino. «Eh, già.» Riagganciai e, sentendomi addosso gli occhi di Taxi, mi mossi per andare a guardare i disegni di tatuaggi appesi al muro che Pit mi stava indicando. Ero turbata perché avrei voluto che quel tatuaggio fosse un lupo, un lupo mannaro, anche piccolo, e invece probabilmente era qualcos'altro. Non sopportavo che i misteri restassero senza risposta, che scienza e ragione si dimostrassero inadeguate. Non ricordavo di essermi mai sentita tanto scoraggiata e avvilita. Mi opprimevano quelle pareti coperte di disegni spaventosi, di cuori trafitti da pugnali, teschi, lapidi, scheletri, animali terrificanti e orribili fantasmi che mi davano la claustrofobia. «Perché la gente si fa tatuare questi simboli di morte?» chiesi. Taxi alzò la testa. «Non le basta doverci convivere? Come si fa a decidere di passare la vita con un teschio sul braccio?» Pit si strinse nelle spalle, imperturbabile. «In fondo non c'è nulla di cui aver paura a parte la paura», disse. «Ci si
fa tatuare un simbolo di morte per vincere la paura di morire. Un po' come quelli che hanno paura dei serpenti e vanno allo zoo apposta per toccarli. In fondo anche per lei è così, dottoressa. Non pensa che avrebbe più paura della morte se non la vedesse ogni giorno?» Rimasi senza parole. «Lei si porta appresso un pezzo di morto in formalina senza batter ciglio», continuò. «Ma se adesso entrasse qualcuno e lo vedesse si metterebbe a gridare o a vomitare. Io non sono uno psicologo», continuò masticando un chewing-gum, «ma penso che dietro alla scelta di cosa farsi disegnare sul corpo in maniera permanente ci sia un significato profondo. Prendiamo questo tipo, per esempio. Il gufo vorrà certamente dire qualcosa, qualcosa che lui aveva in testa, che magari gli faceva paura e aveva a che fare con quello che il gufo copriva.» «Stando al suo ragionamento, molti suoi clienti hanno paura delle donne nude e procaci», osservai. Pit ci pensò su, continuando a masticare la cicca con forza, come se temesse che gli scappasse di bocca. «Non ci avevo mai riflettuto», disse dopo un po'. «Però ha ragione. Chi si fa tatuare una donna nuda ha paura delle donne. Della loro parte emotiva.» Chuck aveva acceso la televisione e guardava Rosie O'Donnell con il volume basso. Avevo visto centinaia di tatuaggi e non avevo mai pensato che rappresentassero le paure di chi li portava. Pit posò il dito sul coperchio del barattolo di formalina. «Quest'uomo aveva paura di qualcosa», osservò. «E, a giudicare dalla fine che ha fatto, aveva le sue buone ragioni.» 23 Ero appena arrivata a casa: il tempo di appendere il cappotto e posare la valigetta che squillò il telefono. Erano le otto e venti e il mio primo pensiero fu Lucy. L'unica informazione che avevo ricevuto dopo la sua telefonata era che Jo sarebbe stata trasferita al Medical College of Virginia durante il fine settimana. Avevo paura ed ero sempre più risentita: indipendentemente da protocolli, politiche e buonsenso, Lucy avrebbe potuto benissimo telefonarmi e darmi notizie di lei e Jo. Avrebbe potuto almeno dirmi dov'era. Presi il telefono e rimasi al tempo stesso stupita e imbarazzata nel sentire
la voce dell'ex vicecomandante Al Carson. Sapevo che non mi avrebbe mai contattato a casa se non fosse stato per una cosa importante e, probabilmente, molto brutta. «Non toccherebbe a me informarla ma, visto che non lo fa nessun altro...» esordì. «C'è stato un omicidio al Quik Cary, un negozio in una traversa di Cary Street, vicino a Libbie. Ha capito quale? È una specie di supermarket di quartiere.» Parlava veloce, nervoso. Mi parve spaventato. «Sì», risposi. «Non è distante da casa mia.» Presi un foglio e cominciai a prendere appunti. «A prima vista sembrerebbe una rapina. L'assassino è entrato, ha ripulito la cassa e sparato alla commessa.» Pensai al filmato che avevo visto poco prima. «Quando è successo?» «Riteniamo che sia morta un'ora fa al massimo. La chiamo perché l'Istituto di medicina legale non è stato contattato.» Non risposi perché non capivo: quello che Carson aveva appena detto non aveva senso. «Ho avvertito anche Marino», continuò. «Tanto ormai più di questo non mi possono fare.» «Senta, come mai non è stato contattato l'Istituto di medicina legale?» «Perché adesso la polizia non può più chiamare il medico legale finché non ha completato le indagini sul luogo del delitto. Prima deve arrivare la Scientifica, che si sta muovendo solo adesso. Quindi penso che potrebbero passare delle ore prima che...» «Ma chi ha tirato fuori questa fesseria?» domandai, pur conoscendo la risposta. «Dottoressa, mi hanno costretto a dare le dimissioni, ma penso che prima o poi le avrei date comunque», mi confessò. «Queste cose per me sono intollerabili. Noi e voi abbiamo sempre lavorato bene insieme, ma adesso Diane Bray ha fatto entrare tutta questa gente nuova... Basta vedere che cosa ha fatto a Marino! Comunque, l'importante è che in meno di un mese sono morti ammazzati due commessi di supermarket e io non voglio pasticci. Anche perché, se è sempre la stessa persona, continuerà ad ammazzare.» Chiamai Fielding a casa e gli raccontai tutto. «Vuoi che vada io?» mi chiese. «No», lo interruppi. «Vado io. Stanno cercando di fregarci, Jack.»
Guidai veloce, con Bruce Springsteen che cantava Santa Claus is coming to Town. Pensavo alla Bray. Non avevo mai odiato nessuno in vita mia, perché l'odio era come il veleno e avevo sempre cercato di evitarlo. Odiare equivaleva a perdere e io volevo cercare di resistere. Cominciò il notiziario, che diede ampio spazio all'omicidio con un servizio in diretta. «...in quello che è il secondo omicidio commesso in un supermarket nel giro di tre settimane. Vicecomandante Bray, che cosa vuole dirci a questo proposito?» «Non abbiamo ancora accertato la dinamica dei fatti», tuonò la sua voce nella mia macchina. «Sappiamo però che alcune ore fa un individuo è entrato nel Quik Cary, si è impossessato dell'incasso e ha sparato alla commessa.» Mi squillò il telefonino. «Dove sei?» mi chiese Marino. «Dalle parti di Libbie.» «Io entro adesso nel parcheggio di Cary Town. Ti devo dire cos'è successo perché vedrai che non ti considereranno nemmeno, quando arriverai.» «Questo lo vedremo.» Pochi minuti dopo svoltai nel piccolo centro commerciale e mi fermai davanti alla gioielleria Schwarzchild, accanto al pick-up di Marino, che scese per venire sulla mia auto. Aveva un paio di jeans, scarponcini e una giacca di pelle malridotta, con la cerniera rotta e l'imbottitura rada come i suoi capelli. Si era messo troppa acqua di Colonia, e questo significava che aveva bevuto. Gettò per terra un mozzicone di sigaretta tracciando una striscia rossa nella notte. «È tutto sotto controllo», commentò sarcastico. «È arrivata Rene Anderson.» «E anche Diane Bray.» «Sta tenendo una conferenza stampa davanti al negozio», disse Marino disgustato. «Andiamo.» Tornai in Cary Street. «Allora», iniziò, «questo stronzo le spara alla testa davanti alla cassa, poi chiude la porta, mette il cartello CHIUSO, trascina la poveraccia nel retrobottega e la picchia selvaggiamente.» «Prima le spara e poi la picchia?» «Sì.»
«E la polizia chi l'ha avvertita?» domandai. «Alle sette e sedici minuti scatta l'allarme antifurto», rispose. «La porta sul retro è collegata anche quando il negozio è aperto. Quando arriva la polizia, trova la porta d'ingresso sbarrata e il cartello CHIUSO; allora va sul retro e vede che la porta è spalancata. Entra e trova una donna in un lago di sangue. L'hanno identificata provvisoriamente come Kim Luong, asiatica, trentadue anni.» Diane Bray continuava a parlare alla radio. «Prima ha accennato a un testimone», diceva il giornalista. «Be', abbiamo ricevuto la segnalazione di una persona che sostiene di aver visto un uomo vestito di scuro in un vicolo poco lontano all'ora in cui riteniamo sia avvenuto l'omicidio», replicò la Bray. «Purtroppo costui non è in grado di identificarlo, ma confidiamo che qualcun altro l'abbia visto e si faccia avanti. Anche il più piccolo particolare potrebbe essere importante, per noi. Per poter vivere in una città più sicura dobbiamo impegnarci tutti.» «Ma che cosa fa? La campagna elettorale?» protestò Marino. «Nel negozio c'era una cassaforte?» domandai. «Sì, nel retro, dove è stato ritrovato il corpo. Intatta, o almeno così mi è stato detto.» «C'è un sistema di telecamere a circuito chiuso?» «No. Forse dopo aver fatto secco Gant, ha imparato la lezione e ha deciso di scegliersi accuratamente i negozi in cui non rischia di finire sulla Candid Camera.» «Dici che è la stessa persona?» Sapevamo tutti e due che erano mere supposizioni e che quello di Marino era un tentativo disperato di non arrendersi. «Te l'ha detto Carson?» chiesi. «Di certo la polizia no, visto che sono stato sospeso», rispose. «E ho già capito che secondo te la mano è diversa. Ma non è una scienza, capo, ricordatelo.» Benton lo diceva spesso, con il suo sorrisetto ironico. Da bravo esperto di profili psicologici, studiava il modus operandi dei criminali cercando di prevederne le mosse, ma era perfettamente consapevole che ogni delitto ha una sua coreografia particolare, perché ogni vittima è diversa. Cambiavano umori, circostanze e persino il tempo, e il killer ne restava influenzato. Benton si lamentava che nei film hollywoodiani la realtà veniva sempre presentata in maniera esageratamente semplicistica, perché i com-
portamentisti non erano chiaroveggenti e i violenti non erano dei robot. «Forse la cassiera gli ha fatto saltare i nervi», continuò Marino. «Magari aveva appena litigato con sua madre, chi lo sa.» «Cosa succederà quando Al Carson o chi per lui non ti avvertirà più?» «Di questo caso mi devo occupare io», continuò, come se non mi avesse nemmeno sentito. «Se non altro, perché ho seguito l'omicidio Gant. Anche supponendo che l'assassino non sia lo stesso, chi può accertarlo meglio di me?» «Non puoi sempre piombare sul luogo del delitto ad armi spianate», gli dissi. «Con la Bray non funziona: devi trovare il modo di farti tollerare. E ti conviene trovarlo nel giro di cinque minuti.» Svoltai in Libbie Avenue. Marino rimase zitto. «Sei in gamba», continuai. «Usa la testa. Metti da parte l'orgoglio, per una volta: questa poveretta è morta.» «Porca merda!» esclamò. «Ma cosa cazzo ha nella testa questa gente?» Il Quik Cary era un piccolo supermercato senza vetrine o insegne luminose, non aveva distributori di benzina e non era in un punto di passaggio. A parte i festivi, restava aperto solo fino alle sei. Nel parcheggio lampeggiavano le luci delle volanti e fra auto, agenti e personale di soccorso Diane Bray gesticolava sotto i riflettori in mantella rossa, tacchi alti e orecchini di brillante che scintillavano a ogni più piccolo movimento della testa. Sembrava appena uscita da una festa di gala. Stava cominciando a nevischiare quando presi la mia valigetta dal bagagliaio. La Bray mi vide prima dei giornalisti, poi scorse Marino e nei suoi occhi apparve un lampo di collera. «...non riveleremo l'identità della vittima prima di aver avvertito i familiari», stava dicendo. «Stai attenta», mi disse Marino sottovoce. Si incamminò a passo spedito verso il negozio e fece una cosa che non gli avevo mai visto fare: si lasciò sorprendere dai giornalisti. Arrivò al punto di prendere la radio, come a dire che aveva la situazione in mano ed era a conoscenza di informazioni di vitale importanza. «Ci sei, due zero due?» La voce di Marino risuonò nella macchina. «Dieci-quattro», rispose qualcuno. «Sto arrivando», borbottò Marino. «Okay.» Almeno dieci fra reporter e cameramen lo circondarono. La velocità a cui si muovevano era straordinaria.
«Capitano Marino?» «Capitano Marino!» «Quanto c'era nella cassa?» Marino non li scacciò e Diane Bray assunse un'espressione furibonda nel vedere che tutta l'attenzione era concentrata sull'uomo che stava cercando di rovinare. «È vero che non tenevano più di sessanta dollari in cassa, come fanno tanti negozi?» «Secondo lei, i negozi dovrebbero essere maggiormente controllati dalle forze dell'ordine, soprattutto in questo periodo dell'anno?» Marino, non rasato e un po' bevuto, guardò le telecamere e disse: «Se io fossi il proprietario, aumenterei di certo le misure di sicurezza». Chiusi la macchina. La Bray stava venendo verso di me. «Secondo lei, queste due rapine con omicidio sono legate alle feste di Natale?» chiese un giornalista a Marino. «Secondo me, sono legate a qualche incosciente con il grilletto facile, che probabilmente ci riproverà», replicò Marino. «Per questo dobbiamo fermarlo e ci stiamo impegnando al massimo per farlo al più presto.» Mentre mi facevo largo fra le macchine della polizia, la Bray mi si avvicinò stringendosi nella mantella, evidentemente intirizzita. «Perché glielo ha lasciato fare?» mi domandò. Io mi bloccai e la guardai negli occhi, sbuffando nuvolette di condensa come un locomotore in procinto di travolgerla. «Marino fa quello che vuole», replicai. «Come penso lei si stia rendendo conto a proprie spese.» Il giornalista di un tabloid alzò la voce: «Capitano Marino, corre voce che lei non è più nell'Investigativa. Come mai è intervenuto, allora?». «Il vicecomandante Bray mi ha affidato il caso», rispose tristemente Marino ai microfoni. «Dirigerò io l'inchiesta.» «Questo è il colmo», sibilò la Bray. «Non si lascerà mandare via a calci nel sedere», la avvertii. «Vedrà che scatenerà un macello.» 24 Marino mi aspettava davanti all'ingresso del negozio. Entrando, la prima persona che vedemmo fu Rene Anderson. Era in piedi davanti al bancone che avvolgeva il cassetto del registratore di cassa in un foglio di carta mar-
rone, mentre Al Eggleston, della Scientifica, spennellava la cassa alla ricerca di impronte. Nel vederci, la Anderson assunse un'aria sorpresa e scocciata. «Che cosa ci fa lei qui?» chiese brusca a Marino. «Sono venuto a comprarmi la birra. Come va la vita, Eggleston?» «Si tira avanti.» «Scusi, ma non abbiamo ancora finito», mi disse la Anderson. Feci finta di niente, chiedendomi quanti guai avesse già combinato. Per fortuna era Eggleston a svolgere i compiti più delicati. Notai subito che la sedia dietro la cassa era rovesciata. «Era così quando è arrivata la polizia?» chiesi a Eggleston. «Che io sappia, sì.» Rene Anderson uscì di corsa, probabilmente alla ricerca della Bray. «Chi fa la spia...» la schernì Marino. «C'è poco da fare gli spiritosi.» Sul muro dietro la cassa c'erano spruzzi di sangue evidentemente prodotti da un'arteria. «A me fa piacere che sei venuto, Pete, ma mi sa che non è stata una mossa prudente.» La scia sanguinolenta andava da dietro il bancone verso il corridoio fra gli scaffali più lontani dalla porta d'ingresso. «Marino, vieni un attimo», chiamai. «Senti, Eggleston, vedi un po' se riesci a trovare il DNA di questo gentiluomo e mettilo in un bottiglino, così lo cloniamo e scopriamo chi è», disse venendo verso di me. «Sei un genio, Pete.» Gli indicai gli archi di sangue provocati dall'innalzamento e dall'abbassamento del ritmo sistolico del cuore di Kim Luong prima di morire dissanguata dalla carotide. Il sangue andava dall'altezza del pavimento al ripiano più alto, dove erano esposti i fazzoletti di carta e la carta igienica. «Madonna santa», esclamò Marino rendendosi conto di quello che volevo dire. «L'ha trascinata mentre schizzava sangue da tutte le parti?» «Sì.» «E quanto pensi che sia sopravvissuta, in quelle condizioni?» «Pochi minuti», risposi. «Dieci al massimo.» Non c'erano altre macchie di sangue, tranne quelle lasciate dai capelli e dalle dita insanguinate. Immaginai che l'assassino l'avesse presa per i piedi e che la vittima avesse aperto le braccia come ali al vento mentre i capelli
si spandevano come piume. «La teneva per le caviglie», dissi. «Aveva i capelli lunghi.» La Anderson era rientrata e ci guardava. Mi dava fastidio dover stare attenta a quello che dicevo di fronte alla polizia, ma a volte capitava. Nel corso degli anni avevo avuto spesso a che fare con agenti che parlavano troppo e non potevo fare altro che trattarli con diffidenza. «Subito non è morta senz'altro», aggiunse Marino. «Un foro nella carotide non ti fa perdere immediatamente i sensi», dissi. «Con la gola tagliata si può ancora chiamare il pronto intervento. Non sarebbe dovuta rimanere subito paralizzata, ma chiaramente lo è rimasta.» Gli schizzi sistolici diventavano più bassi e più deboli a mano a mano che ci si allontanava dal bancone e notai che alcune macchie erano asciutte e che le chiazze più grosse si stavano coagulando. Le tracce di sangue ci portarono davanti al frigo pieno di birra e oltre la porta del retrobottega, dove ci ritrovammo la visuale bloccata dal tecnico Gary Ham, che era inginocchiato con le spalle verso di me, e da un altro agente che stava scattando alcune foto. Appena li superai rimasi di sasso. Kim Luong aveva i blue jeans e gli slip abbassati fino alle ginocchia e un termometro chimico inserito nel retto. Vedendomi, Ham assunse un'espressione imbarazzata, come se l'avessi sorpreso a rubare. Erano anni che lavoravamo insieme. «Cosa diavolo fai?» gli chiesi con un tono che non mi aveva mai sentito usare con lui. «Le piglio la temperatura», rispose. «Prima di inserire il termometro, le hai fatto un tampone caso mai fosse stata sodomizzata?» domandai con lo stesso tono rabbioso mentre Marino si avvicinava a guardare il cadavere. Un po' titubante, Ham rispose: «No». «Hai fatto una cazzata», sentenziò Marino. Ham aveva meno di quarant'anni, era un bel ragazzo alto e moro con gli occhi scuri e le ciglia lunghe. Chi aveva un po' di esperienza era facilmente tentato a sostituirsi a un tecnico della Scientifica se non addirittura al medico legale, ma Ham era sempre stato un uomo corretto e rispettoso. «E adesso che hai introdotto un oggetto rigido nell'ano, come faccio a stabilire se ci sono state lesioni?» gli chiesi. Non sapeva cosa rispondere. «Se trovo una contusione nell'area rettale, posso giurare in tribunale che non l'hai provocata tu con il termometro? Non solo: a meno che tu non
possa assicurare con assoluta certezza che i tuoi strumenti sono sterili al cento per cento, anche la prova del DNA diventa dubbia», continuai. Ham era paonazzo. «Quali altre interferenze ci sono state, da quando sei qui, Ham?» gli domandai. «Sono stato molto attento.» «Per favore, togliti di mezzo.» Seccata, aprii la mia valigetta e tirai fuori un paio di guanti che mi infilai rapidamente. Porsi una torcia a Marino e mi guardai intorno prima di procedere. Il retrobottega era in penombra, ingombro di centinaia di confezioni di birra e di bibite, sporche di sangue nel raggio di sei metri. A pochi centimetri dal cadavere c'erano scatole di assorbenti e di fazzoletti di carta impregnate di sangue. Fino a quel momento sembrava che il killer fosse interessato esclusivamente alla propria vittima. Mi accucciai a osservarla, soffermandomi su ogni parte del suo corpo senza toccare nulla, studiando ogni macchia di sangue e ogni tratto dell'arte macabra dell'assassino. «L'ha proprio massacrata, eh?» commentò il poliziotto che scattava le foto. Era come se un animale feroce avesse portato la propria preda morente nella tana per sbranarla. Felpa e reggiseno erano strappati, scarpe e calze gettate lontano. Kim Luong era una donna in carne, con i fianchi larghi e il seno prosperoso, ma l'unico modo per sapere che faccia avesse era controllare la foto sulla patente: era graziosa, con un sorriso timido e lunghi capelli neri e lucenti. «Aveva gli slip, quando l'avete trovata?» domandai ad Ham. «Sì.» «Le scarpe e le calze?» «Quelle no. Erano così come sono: non le abbiamo toccate.» Non c'era bisogno di prenderle in mano per capire che erano zuppe di sangue. «Perché le ha tolto calze e scarpe e non le mutande?» chiese uno degli agenti. «Già, è strano, no?» Controllai e vidi che aveva le piante dei piedi sporche di sangue. «Quando la porteremo in obitorio, la luce sarà migliore», dissi. Il foro d'ingresso del proiettile sulla parte anteriore del collo era chiaramente visibile. Le girai appena la testa per vedere quello di uscita, sulla
parte posteriore sinistra. Era stato quel proiettile a tranciarle la carotide. «Avete ritrovato il proiettile?» chiesi ad Ham. «Ne abbiamo tirato fuori uno dal muro dietro alla cassa», rispose, troppo imbarazzato per guardarmi negli occhi. «Nessun bossolo, sempre che ce ne siano.» Se l'assassino le avesse sparato con un revolver, non ce ne sarebbero stati. Li lasciavano solamente le pistole, ed era una delle poche cose buone che facevano. «Dove, esattamente?» domandai. «Guardando il registratore di cassa, sulla sinistra del punto in cui presumibilmente si trovava la sedia.» «Anche il foro di uscita è sulla sinistra», dissi. «Se quando le ha sparato erano faccia a faccia, può darsi che l'assassino sia mancino.» Il volto di Kim Luong era maciullato, la pelle lacerata dai colpi sferrati con uno o più oggetti che lasciavano segni tondeggianti e lineari, ma sembrava che il suo aggressore l'avesse anche presa a pugni. Quando la palpai alla ricerca di eventuali fratture, sentii frammenti di ossa. Anche i denti erano rotti e piegati all'indietro. «Puntala lì», ordinai a Marino. Lui spostò la torcia come gli avevo chiesto e io spostai delicatamente la testa di Kim Luong verso destra e verso sinistra, passando le dita sul cuoio capelluto e sulla parte posteriore e laterale del collo. Trovai lividi provocati dalle nocche di una mano e altre ferite tondeggianti e lineari, oltre ad alcune abrasioni striate. «Oltre ad abbassarle gli slip per prenderle la temperatura», chiesi a Ham «le avete fatto altro?» «Le abbiamo abbassato i pantaloni, che erano allacciati e con la zip tirata su», rispose. «Felpa e reggiseno erano come sono.» Me li indicò. «Strappati al centro.» «A mani nude.» Marino si accovacciò accanto a me. «Per la miseria, se è forte. Capo, quando l'ha portata qui era quasi morta, vero?» «Non credo. C'è stata reazione a livello dei tessuti: ha dei lividi.» «Ma per il resto quest'uomo ha preso a pugni una donna morta», ribadì Marino. «Voglio dire, non è che opponesse resistenza, che lottasse. Si vede dal fatto che non c'è niente fuori posto, qui intorno; non ci sono nemmeno impronte di piedi insanguinati.» «La conosceva», dichiarò Rene Anderson alle mie spalle. «Comunque, la vittima conosceva il suo assassino. Altrimenti lui si sarebbe limitato a
ucciderla, prendere i soldi e scappare.» Marino era ancora vicino a me, con i gomiti sulle ginocchia e la torcia in mano. Alzò gli occhi verso la Anderson e la guardò come si guarda un imbecille. «Non sapevo che fosse esperta di profili psicologici», dichiarò. «Ha fatto un corso o cosa?» «Marino, per favore, mi illumini qui?» gli chiesi. «Non vedo niente.» Il fascio di luce si posò su alcune macchie di sangue che prima non avevo notato perché ero troppo intenta a controllare le ferite. Ogni parte del corpo esposta aveva tracce di sangue, circolari o diritte, che parevano disegnate con le dita. Il sangue si stava asciugando. Notai che sulle macchie erano appiccicati dei capelli chiari e fini. Li indicai a Marino, che si chinò a guardarli. «Non dire niente», gli bisbigliai, accorgendomi che aveva capito. «Sta arrivando il capo», annunciò Eggleston sulla soglia. La stanza era piena di gente e mancava l'aria. Sembrava che fosse stata appena investita da una pioggia di sangue. «Dobbiamo prendere le misure per calcolare le traiettorie dei vari colpi», intervenne Ham. «Ho ricuperato un bossolo», annunciò Eggleston a Marino, compiaciuto. «Se vuole, gliela tengo io, la torcia», propose Ham a Marino, ansioso di farsi perdonare. «Mi pare abbastanza ovvio che quando l'ha picchiata lei giaceva per terra», dissi perché non credevo che nel caso specifico fosse necessario calcolare nessuna traiettoria. «Prendendo le misure lo stabiliremo con certezza», ribadì. Di solito si usava una vecchia tecnica francese, che prevedeva il fissaggio di un'estremità di una corda a una macchia di sangue e dell'altra al punto da cui si calcolava geometricamente che provenisse. L'operazione veniva ripetuta diverse volte in maniera tale da ottenere un modello tridimensionale indicante il numero di colpi sferrati e la posizione della vittima al momento in cui erano stati inferti. «Siamo in troppi, qui dentro», protestai a voce alta. Marino aveva la faccia sudata. Era talmente vicino che sentivo il suo fiato caldo. «Avverti l'Interpol», gli dissi a voce abbastanza bassa perché nessun altro sentisse. «Non c'è da scherzare.»
«Speer tre-ottanta. Mai sentito?» fece Eggleston a Marino. «Altroché. Quella è roba di alto livello. Gold Dot», replicò Marino. «Non mi quadra.» Estrassi il mio termometro chimico e lo posai sopra a una scatola di piatti di carta per misurare la temperatura ambiente. «Gliela so già dire io», fece Ham. «Qui dentro sono 24 gradi. Fa un caldo micidiale.» Marino spostava la torcia mentre io toccavo e guardavo il corpo. «La gente normale non ha munizioni Speer», diceva. «Costano dieci o undici dollari la scatola da venti. Per non parlare del fatto che ci vogliono armi serie, altrimenti rischi che ti scoppino fra le mani.» «Ci sarà di mezzo la malavita organizzata, allora.» Rene Anderson mi era venuta vicina. «Narcotraffico.» «Il caso è risolto», replicò Marino. «Complimenti, detective Anderson. Ragazzi, possiamo tornarcene a casa.» Sentivo l'odore dolce e stucchevole del sangue di Kim Luong mentre si coagulava, il siero si separava dall'emoglobina e le cellule si decomponevano. Tolsi il termometro chimico che Ham aveva inserito nel corpo. Segnava 31,5. Alzai gli occhi. Nella stanza c'erano tre persone, oltre a me e a Marino. Ero sempre più frustrata e arrabbiata. «Abbiamo ritrovato il cappotto e la borsetta», continuò la Anderson. «Aveva sedici dollari nel portafoglio, quindi penso che lì il killer non abbia guardato. Ah, c'era anche un sacchetto con un contenitore di plastica e una forchetta. Probabilmente si era portata da casa qualcosa da scaldare nel microonde.» «Come fa a sapere che lo scaldava nel microonde?» si informò Marino. La Anderson non seppe rispondere. «Due e due non sempre fa ventidue», commentò lui. Il livor mortis era appena accennato. La mascella era serrata e i muscoli del collo e delle mani contratti. «E troppo rigida per essere morta da un paio di ore soltanto», osservai. «Perché i cadaveri si irrigidiscono?» chiese Eggleston. «Davvero. Me lo sono sempre chiesto anch'io.» «Pensate che una volta a Bon Air...» «Che cosa ci facevi a Bon Air, tu?» chiese quello che scattava le fotografie. «È una storia lunga. Comunque: c'era uno che era schiattato mentre era a
letto con la fidanzata. Questa lì per lì ha pensato che si fosse addormentato, poi la mattina si è svegliata e si è accorta che era andato al Creatore. Per non far vedere che era morto a letto, lo ha messo sulla poltrona. Era impalato come un'asse da stiro.» «Sul serio, dottoressa, che cosa provoca l'irrigidimento?» domandò Ham. «È una cosa che ha sempre incuriosito anche me», disse la voce di Diane Bray. Era sulla porta, lo sguardo gelido fisso su di me. «Alla morte il corpo smette di produrre ATP, cioè adenosintrifosfato. È questo che provoca il rigor mortis», risposi senza guardarla. «Marino, per favore, me la tieni così? Vorrei scattare una foto.» Marino si spostò e mise le mani protette dai guanti sotto il fianco destro della morta perché io potessi fotografare una ferita sotto l'ascella sinistra, sulla parte carnosa del seno. Nel frattempo cercavo di calcolare quanto fossero avanzati livor mortis e rigor mortis sulla base della differenza fra temperatura corporea e ambiente. Sentii rumore di passi, borbottii, qualche colpo di tosse. Sotto la mascherina da chirurgo ero in un bagno di sudore. «Ho bisogno di spazio», dichiarai. Nessuno si mosse. Guardai Diane Bray e mi interruppi. «Ho bisogno di spazio», ripetei seccata. «Faccia uscire qualcuno.» La Bray fece un cenno con il capo a tutti i presenti tranne me. Prima di uscire, gli agenti si tolsero i guanti e li gettarono in un sacco rosso per rifiuti a rischio biologico. «Anche tu», ordinò la Bray alla Anderson. Marino fece finta di niente. La Bray non mi toglieva gli occhi di dosso. «Non voglio più arrivare sul luogo di un delitto e trovarlo in queste condizioni», le dissi riprendendo a lavorare. «Non voglio che gli agenti, i tecnici o chiunque tocchino il corpo della vittima prima che intervenga io o qualcuno del mio staff.» Alzai gli occhi. «È chiaro?» Sembrò riflettere su quanto le avevo detto. Misi un rullino nella mia macchina da trentacinque millimetri. Avevo gli occhi stanchi perché la luce era pessima; mi feci dare la torcia da Marino. Il fascio di luce illuminò obliquo la parte vicina al seno sinistro e quindi la spalla destra. Diane Bray si avvicinò a controllare che cosa stavo guardando. Il suo profumo, che si
mischiava a quello del sangue, mi colpì. «Spetta a noi svolgere le prime indagini», mi rispose. «Capisco che lei sia abituata a lavorare in un modo diverso, per quanto probabilmente all'inizio non sarà stato così. Ed è questo che intendevo quando le dicevo che...» «Stronzate!» le disse in faccia Marino. «Capitano, per favore non si intrometta», rintuzzò la Bray. «È lei che farebbe meglio a non intromettersi», replicò lui alzando la voce. «Vicecomandante Bray, la legge della Virginia prevede che sia il medico legale a occuparsi del cadavere. Quindi i cadaveri sono di mia competenza.» Finii di scattare le foto e la guardai negli occhi gelidi. «Desidero pertanto che il cadavere non venga toccato, spostato o mosso in alcun modo. È chiaro?» ripetei. Mi sfilai i guanti e li gettai con stizza nel sacco rosso. «Lei ha appena tolto ogni chance a questa poveretta, vicecomandante.» Chiusi la valigia. «Penso che il p.m. sarà molto contento», aggiunse furioso Marino togliendosi i guanti anche lui. «Questo è il classico caso di invito a nozze.» Indicò la morta con il gesto che avrebbe fatto se fosse stata la Bray a massacrarla. «Non avrà mai giustizia!» gridò. «Per colpa sua e della sua smania di potere! Non creda che non si capisca che lei è arrivata dov'è passando da un letto all'altro!» La Bray divenne paonazza. «Marino!» esclamai afferrandolo per un braccio. «Voglio dire ancora una cosa.» Era incontrollabile: cercava di allontanarmi e ansimava come un orso ferito. «Questa povera crista non c'entra un cazzo con la politica, ha capito? Le piacerebbe se ridotta così ci fosse sua sorella? Ma cosa dico?» esclamò alzando le braccia. «A lei non fregherebbe niente comunque, perché a lei non importa di niente e di nessuno!» «Marino, fai tornare gli altri», dissi. «Marino non fa tornare nessuno», decretò la Bray con un tono che non ammetteva repliche. «Che cosa vuole fare, licenziarmi?» continuò a provocarla lui. «Prego, si
accomodi. Sappia che io racconterò il perché ai giornalisti di tutto il pianeta!» «Licenziarla sarebbe farle un favore», replicò la Bray. «Preferisco farla soffrire tenendola sospeso senza stipendio. Posso farlo per molto, molto tempo.» Se ne andò sprezzante come una regina stizzita e pronta a chiamare il proprio esercito a vendicarla. «No, no!» le gridò dietro Marino. «Lei forse non ha capito! O sono io che mi sono scordato di dirle che me ne vado?» Prese la radio e chiamò Ham per avvertirlo di tornare insieme con il resto della squadra, mentre io ripassavo mentalmente una serie di formule. «Gliene ho dette quattro, eh?» fece Marino. Io però non lo ascoltavo. L'antifurto era scattato alle sette e sedici minuti e non erano ancora le nove e mezzo. Stabilire l'ora della morte era un compito difficile, che dipendeva da molte variabili, ma temperatura corporea, livor mortis e lo stato del sangue versato contraddicevano l'ipotesi che Kim Luong fosse morta da sole due ore. «Mi manca l'aria, capo.» «Secondo me, è morta da almeno quattro o cinque ore», dissi. Si asciugò il sudore sulla manica, lo sguardo vacuo. Non riusciva a stare fermo e si toccava continuamente il pacchetto di sigarette nella tasca dei jeans. «Cioè, secondo te, sarebbe morta alle quattro o alle cinque del pomeriggio? Scherzi? E che cos'ha fatto l'assassino in tutto quel tempo?» Lanciava occhiate nervose verso la porta per vedere chi si presentava. «Un sacco di cose, credo», risposi. «Mi sono fottuto da solo, vero?» mi chiese Marino. Sentimmo un rumore di passi e un clangore di barelle, inframmezzati da voci sommesse. «Non credo che abbia sentito il tuo ultimo intervento di alta diplomazia», risposi. «Forse è meglio così.» «Pensi che sia rimasto qui tutto quel tempo per paura di uscire alla luce del sole tutto sporco di sangue?» «Non solo», risposi mentre due paramedici in tuta sistemavano la barella di traverso per farla passare dalla porta. «C'è molto sangue»», li avvertii. «Passate di lì.» «Oddio», esclamò uno di loro. Presi i teli dalla barella e Marino mi aiutò a stenderli per terra.
«Se voi due la alzate un pochino le passiamo sotto questo telo», suggerii. «Okay, così.» Kim Luong era sulla schiena e ci fissava con sguardo opaco dalle orbite fracassate. La coprii con un altro telo di carta plastificata, poi la sollevammo e la infilammo dentro un sacco bordeaux. «Fuori è sempre più freddo», ci informò uno dei due paramedici. Marino si guardò intorno, quindi sbirciò nel parcheggio dove le luci rosse e blu delle auto della polizia continuavano a lampeggiare, ma l'attenzione era decisamente scemata: i giornalisti erano tornati alle loro redazioni ed erano rimasti solo i tecnici della Scientifica e un agente in divisa. «Okay», borbottò Marino. «Io sarò anche sospeso, ma tu vedi qualche altro detective a occuparsi del caso? Avrei dovuto lasciare che andasse tutto in malora.» Mentre tornavamo alla macchina, nel parcheggio entrò un vecchio Maggiolino blu. Il motore si spense tanto rapidamente che la macchina fece un sobbalzo in avanti. La portiera si aprì e una ragazza dalla pelle chiara e i capelli scuri si precipitò fuori talmente in fretta che rischiò di cadere e si mise a correre verso il sacco mortuario che i paramedici stavano caricando sull'ambulanza, come per fermarli. «Scusi?» disse Marino andandole dietro. La ragazza raggiunse l'ambulanza nel momento in cui il portellone si chiudeva. Marino la fermò. «Lasciatemela vedere!» urlava la ragazza. «Mi lasci, mi lasci! La voglio vedere!» «Non è possibile, signorina», le disse Marino. I due paramedici salirono ai loro posti. «Fatemela vedere!» «Su, cerchi di calmarsi.» «No! No! Vi prego!» Le sue parole trasudavano un'angoscia senza fine. Marino la tratteneva da dietro. Il diesel andò in moto e io non sentii che cosa le stesse dicendo, ma vidi che la lasciava andare non appena l'ambulanza ripartì. La ragazza cadde in ginocchio, si prese la testa fra le mani e alzò gli occhi verso il cielo freddo e coperto piangendo, strepitando e gridando il nome della morta. «KIM! KIM! KIM!» 25
Marino decise di restare con Eggleston e Ham, noti anche come i Breakfast Boys, per calcolare la traiettoria dei vari colpi nonostante non ce ne rosse alcun bisogno. Io tornai a casa. Alberi ed erba erano coperti di brina e mi augurai che non saltasse la luce. La mia paura, tuttavia, si rivelò fondata. Nel mio quartiere le case erano tutte buie e sembrava che Rita, alla guardiola, stesse facendo una seduta spiritica. «Non mi dire», esclamai. Quando aprì la porta stringendosi sul petto la giacca della divisa, la fiammella delle candele tremolò. «Manca la corrente dalle nove e mezzo, più o meno», mi annunciò sconsolata. «Pare che la città sia tutta coperta di ghiaccio.» Il blackout era totale e faceva venire in mente il coprifuoco. La luna era completamente coperta dalle nuvole. Riuscii a fatica a trovare il vialetto di casa e nel salire i gradini davanti alla porta rischiai di scivolare sul ghiaccio. Mi aggrappai alla ringhiera per cercare le chiavi. L'allarme era ancora inserito grazie alla batteria d'emergenza, che però aveva un'autonomia di dodici ore soltanto, mentre i blackout provocati dal gelo a Richmond potevano andare avanti anche per giorni e giorni. Digitai il codice e riaccesi l'allarme. Avevo bisogno di fare una doccia, ma non avevo nessuna voglia di entrare in garage a gettare i vestiti che avevo usato per esaminare il cadavere di Kim Luong nella lavatrice, e il pensiero di correre nuda per la casa buia e di chiudermi nel bagno senza luce mi faceva orrore. Il silenzio era assoluto, tranne che per il fievole rumore del nevischio. Cercai le candele e cominciai a sistemarle strategicamente per la casa, poi andai a prendere le torce elettriche e accesi il fuoco nel caminetto, trasformando le mie stanze in una serie di angoli oscuri circondati da chiazze di luce. Il telefono funzionava, ma naturalmente la segreteria telefonica era morta. Non riuscivo a stare ferma. Finalmente andai in camera mia a spogliarmi. Poi mi lavai, mi misi in accappatoio e pantofole e pensai a che cosa fare per riempire il vuoto che mi sentivo dentro. Mi venne in mente che Lucy poteva avermi lasciato un messaggio che in quel momento mi era impossibile sentire. Mi misi a scrivere una lettera, ma finii per accartocciare il foglio e gettarlo nel fuoco. Guardai la carta ingiallire sui bordi, prendere fuoco e quindi annerire. La neve continuava a cadere e il freddo ad aumentare.
La temperatura in casa scendeva lentamente con l'avanzare della notte. Provai a mettermi a letto, ma avevo troppo freddo per riuscire a prendere sonno. La mente non mi dava requie: i pensieri rimbalzavano da Lucy a Benton e alla povera donna che avevo appena esaminato. Mi sembrava di vederla sanguinare sul pavimento, mi tornavano in mente due occhi di gufo che mi scrutavano da un lembo di pelle morta, mi giravo e rigiravo. Lucy continuava a non chiamare. Quando guardai fuori della finestra nell'oscurità, mi sentii attanagliare dalla paura. Il respiro annebbiò il vetro. Poi, nel dormiveglia, il rumore della neve si trasformò nel suono dei ferri di mia madre che lavorava a maglia a Miami quando mio padre stava per morire, confezionando sciarpe per poveretti senza nome abitanti in luoghi freddi. Non passava neanche una macchina. Chiamai Rita alla guardiola, ma non mi rispose. Verso le tre cercai di nuovo di dormire. Avevo male agli occhi. I rami scossi dal vento schioccavano come fucili e da lontano arrivava il rombo del treno lungo il fiume, il cui fischio cupo pareva dare il via a una cacofonia di suoni striduli, metallici e tonanti che mi diede angoscia. Sdraiata nel buio, avvolta in un piumino, aspettai che la luce dell'alba illividisse l'orizzonte. A quel punto la luce tornò. Pochi minuti dopo mi chiamò Marino. «A che ora vuoi che ti venga a prendere?» mi domandò con voce assonnata. «Perché, dove dobbiamo andare?» «A lavorare.» Non capivo di che cosa stesse parlando. «Hai guardato dalla finestra?» mi chiese. «Non vorrai prendere quella macchina da nazisti che ti ritrovi, vero?» «Ti ho pregato di non chiamarla così: non è divertente.» Andai alla finestra e aprii le persiane. Il mondo sembrava ricoperto di glassa trasparente, l'erba era un tappeto spesso e ispido e dai tetti scendevano lunghe zanne di ghiaccio. Ero d'accordo con Marino: la mia macchina non sarebbe andata da nessuna parte, almeno per un po'. «Mi offri un passaggio?» gli chiesi. Il suo pick-up con le catene rombò per le strade di Richmond per quasi un'ora prima di raggiungere l'Istituto di medicina legale. Il parcheggio era vuoto. Entrammo lentamente nell'edificio stando attenti a non scivolare perché il marciapiede era coperto di ghiaccio e noi eravamo i primi a passarci sopra. Andai a posare il cappotto nel mio ufficio e, insieme con Marino, mi avviai verso gli spogliatoi.
I paramedici avevano usato un tavolo da autopsia mobile per cui non ci fu bisogno di spostare il corpo. Nel silenzio di quel cupo teatro di morte, abbassammo la cerniera lampo del sacco mortuario e aprimmo i teli insanguinati. Alla luce le ferite di Kim Luong erano ancora più orripilanti. Presi una lente di ingrandimento, accesi la lampada a fluorescenza e le osservai. La pelle era un deserto di sangue secco, scavato da venature e da ferite profonde e aperte. Raccolsi decine e decine di capelli, biondi e fini come quelli di un neonato, e lunghi dai quindici ai venti centimetri. Kim Luong li aveva sulla pancia, sulle spalle e sul petto, ma nemmeno uno sul volto. Li riposi in una busta di carta per farli asciugare. Le ore, furtive come ladri, ci rubarono la mattina e per quanto cercassi di trovare una spiegazione per gli strappi nella felpa spessa e nel reggiseno imbottito, non trovai alternative alla verità: il killer li aveva fatti a mani nude. «Mai visto niente di simile», decretai. «Deve avere una forza incredibile.» «Magari si era fatto di coca o di qualche altra porcheria», azzardò Marino. «E questo spiegherebbe anche il modo in cui l'ha ridotta e le munizioni Gola Dot.» «Secondo me, Lucy ne aveva parlato», ricordai. «Infatti le usano i narcotrafficanti», replicò Marino. «Mi sembra strano che fosse drogato», gli feci notare mettendo alcune fibre in un'altra busta. «Per via del pensiero organizzato: ha chiuso a chiave il negozio, messo il cartello, evitato di uscire dalla porta sul retro dove era inserito l'allarme fino al momento giusto... È possibile anche che si sia lavato.» «Come fai a dirlo?» ribatté Marino. «Nel lavandino e nel gabinetto non abbiamo trovato niente. Non un fazzoletto di carta sporco di sangue, niente di niente. Nemmeno sulla porta che ha aperto per entrare nel retrobottega. Questo mi fa pensare che abbia usato qualcosa, magari un vestito, una salvietta o chissà che per non sporcare la maniglia e non lasciare impronte.» «Infatti: è stato lucidissimo. Non si è comportato come uno che è sotto l'effetto di sostanze stupefacenti.» «Io preferisco pensare che fosse fatto», decretò Marino tristemente. «Perché altrimenti vuol dire che abbiamo a che fare con un bestione, con l'incredibile Hulk. Mi spiace solo...» Si bloccò e io capii che era stato lì lì per rimpiangere che non ci fosse Benton a darci un consiglio. Ma, per quanto fosse facile dipendere da
qualcun altro, non sempre ci voleva l'esperto. Ogni delitto, ogni ferita esprimevano un'emozione e nell'omicidio di Kim Luong c'erano frenesia, sesso e collera. Ne trovai conferma osservando alcune contusioni irregolari. Presi la lente d'ingrandimento e vidi dei piccoli segni curvi. «Morsicature», dissi. Marino venne a vedere. «Quel che resta. L'ha massacrata», aggiunsi. Spostai la luce alla ricerca di altri segni dello stesso tipo e ne trovai due sul lato del palmo della mano destra, uno sulla pianta del piede sinistro e due su quella del destro. «Gesù!» esclamò Marino in un tono che gli avevo sentito usare di rado. Spostò lo sguardo dalle mani ai piedi, con gli occhi sbarrati. «Ma con chi abbiamo a che fare?» I segni dei morsi erano talmente malridotti che si riuscivano a vedere solo le abrasioni provocate dai denti e nient'altro. Non c'era abbastanza per prendere impronte e ricostruire la dentatura. Era inutile: c'era troppo poco anche solo per un raffronto. Presi un tampone per la saliva e quindi cominciai a scattare delle foto cercando di immaginare che significato potesse avere per il killer morsicare il palmo delle mani e le piante dei piedi. Che l'assassino conoscesse veramente la vittima? Che le sue mani e i suoi piedi avessero un significato per lui, che gli ricordassero chi era lei al pari del suo volto? «Dunque sa come non lasciare tracce», osservò Marino. «Probabilmente sa che possiamo identificarlo dalle morsicature», risposi aprendo la manichetta per pulire il corpo. «Brr», esclamò Marino. «Mi fai venire freddo.» «Lei ormai non sente più niente.» «Spero che abbia sentito poco anche prima.» «Secondo me, quando ha cominciato a picchiarla era già morta o quasi, per grazia di Dio», replicai. L'autopsia mise in luce un altro elemento terrificante: il proiettile che aveva trapassato il collo di Kim Luong tranciandole la carotide le aveva anche lesionato il midollo spinale tra la quinta e la sesta vertebra cervicale, paralizzandola all'istante. Quando il suo assassino l'aveva trascinata per terra, la poveretta era pertanto in grado di respirare ma non di muoversi. Mentre il sangue le usciva a fiotti, le sue braccia ormai inutili spazzavano il pavimento senza riuscire a stringersi intorno alla ferita. Immaginai il terrore nei suoi occhi, i lamenti che dovevano esserle sfuggiti al pensiero del-
le torture che avrebbe ancora dovuto subire prima di esalare l'ultimo respiro. «Maledetto bastardo!» esclamai. «Mi dispiace solo che siano passati all'iniezione letale», commentò Marino in tono duro e pieno di odio. «Quelli così dovrebbero bruciare sulla sedia elettrica o respirare cianuro fino a farsi uscire gli occhi dalle orbite. Altro che chiudere gli occhi per sempre.» Passai rapidamente il bisturi dalle clavicole allo sterno e quindi al pube, praticando quella che si chiama incisione a Y. Marino rimase in silenzio. «Tu pensi che ce la faresti, a infilargli l'ago in vena? Pensi che potresti accendere il gas o legarlo sulla sedia e premere l'interruttore?» Non risposi. «Io ci penso un sacco», continuò. «Secondo me, ci pensi troppo», replicai. «Io credo che tu ce la faresti», andò avanti. «Sai una cosa? Secondo me, ti piacerebbe anche, per quanto non lo ammetteresti mai. A me certe volte ne viene proprio voglia.» Alzai gli occhi; avevo le maniche del camice e la mascherina sporche di sangue. «Adesso mi preoccupi», dissi. Era la verità. «Per me non sono né il primo né l'ultimo; solo che gli altri non lo ammettono.» Cuore e polmoni erano nella norma. «Io sono convinta che la maggioranza delle persone la pensa diversamente.» Marino si stava scaldando, come se la collera per quello che Kim Luong aveva dovuto subire lo facesse sentire altrettanto inerme. «Io credo che Lucy la pensi come me.» Lo guardai: non volevo crederci. «Per me aspetta solo l'occasione giusta. Se non si dà una regolata, prima o poi la mettono a servire ai tavoli.» «Piantala, Marino.» «La verità fa male, eh? Ammettilo, almeno. Prendi lo stronzo che l'ha ridotta così. Io? Io lo legherei mani e piedi, gli infilerei la canna della pistola in bocca e gli chiederei se conosce un buon ortodonzista, perché entro breve gliene servirà uno.» Milza, reni e fegato erano nella norma. «Poi gliela punterei nell'occhio, gli direi di guardare bene e dirmi se la
canna ha bisogno di una pulita.» Nello stomaco c'erano resti di pollo, riso e verdure; mi vennero in mente il contenitore e la forchetta ritrovati nel sacchetto vicino alla borsa e al cappotto della morta. «Poi farei un passo indietro e prenderei la mira, fingendo che fosse il bersaglio. Vorrei proprio vedere se così si diverte, il bastardo...» «Piantala!» La piantò. «Cristo santo, Marino, ma che cosa ti è preso?» gli domandai, il bisturi in una mano e le pinze nell'altra. Rimase zitto un po' e io continuai a lavorare in un silenzio sempre più opprimente. A un certo punto disse: «La donna che correva dietro l'ambulanza ieri sera è un'amica di Kim che fa la cameriera da Shoney's e la sera studia alla VCU. Abitavano insieme. Pare che ieri sera sia tornata a casa dopo le lezioni senza sapere assolutamente niente di quello che era successo, abbia risposto al telefono e si sia trovata un giornalista che le fa: "Qual è stata la sua reazione nel sentire che la sua amica è stata barbaramente trucidata?"». Si interruppe. Lo guardai. Osservava il corpo aperto, la cavità toracica vuota, le costole luccicanti e rossastre curve sopra la spina dorsale perfettamente diritta. Attaccai la sega Stryker. «Dice che Kim Luong non conosceva nessuno di strano. Non aveva mai parlato di pazzoidi che frequentavano il negozio o le facevano paura. Questa settimana, martedì, c'era stato un falso allarme della porta sul retro. Pare succedesse spesso, anche perché la gente si dimentica che è sempre collegata all'impianto di allarme», continuò, lo sguardo lontano. «È come se fosse piombato lì all'improvviso, direttamente dall'inferno.» Cominciai a segare la scatola cranica, colpita e fratturata in più punti da qualche oggetto contundente che non avevo ancora identificato, sprigionando per la sala una finissima polvere d'osso. 26 Nel primo pomeriggio le strade erano abbastanza pulite da consentire di venire in ufficio ad altri onesti e coscienziosi dipendenti oberati dal lavoro arretrato. Inquieta, decisi di fare comunque io da fattorino. La mia prima tappa fu alla sezione di biologia forense, un laboratorio di novanta metri quadrati cui poteva accedere solo personale autorizzato e
munito di tesserino elettronico per l'apertura della porta. Non era un posto dove ci si fermava a scambiare quattro chiacchiere e lungo i corridoi tutti camminavano svelti occhieggiando i periti in camice bianco intenti al loro lavoro dietro alle pareti di cristallo. Suonai il citofono e chiesi di Jamie Kuhn. «Glielo vado a cercare», mi rispose una voce. Kuhn mi aprì e mi porse subito un lungo camice bianco e pulito, guanti e maschera protettiva. La contaminazione era acerrima nemica del DNA, soprattutto in un'epoca in cui ogni pipetta, microtomo, guanto, frigo e persino la penna usata per scrivere sulle etichette potevano essere messi in discussione durante il processo. Le precauzioni che andavano prese in un laboratorio ormai erano le stesse richieste in una sala operatoria. «Mi dispiace disturbarti, Jamie», esordii. «Dice sempre così, dottoressa», fece lui. «Si accomodi.» C'erano tre porte da superare e a ogni passaggio bisognava cambiare camice. Sul pavimento c'erano strisce di carta adesiva per pulire la suola delle scarpe. L'operazione veniva ripetuta diverse volte in maniera tale da assicurare che nessuno portasse sostanze contaminanti da un'area all'altra. Quella riservata ai tecnici era una sala aperta e molto luminosa, con tavoli, terminali, vasche, unità di contenimento e cappe a corrente laminare. Le postazioni erano equipaggiate di olio minerale, pipette automatiche, provette di plastica e portaprovette. I reagenti venivano preparati in grossi contenitori a partire da prodotti chimici ad alto grado di purezza, dotati di un numero di identificazione e conservati in piccole quantità a distanza dai prodotti chimici di uso generico. La contaminazione veniva controllata principalmente attraverso serializzazione, denaturazione da calore, digestione enzimatica, screening, analisi ripetute, radiazioni ultraviolette e ionizzanti e l'utilizzo di campioni controllo prelevati da volontari sani. Se tutte queste prove fallivano, il tecnico abbandonava temporaneamente per riprovare dopo qualche mese o non riprovare più. Con il sistema di amplificazione genica o PCR, era possibile ottenere i risultati dell'esame del DNA nel giro di pochi giorni invece che di settimane. Insieme con lo Short Tandem Repeat Typing o STR, in teoria sarebbe stato possibile avere i risultati in giornata. Questo in presenza di tessuto cellulare, che però, nel caso della peluria bionda ritrovata negli indumenti del cadavere non identificato, non c'era. «Peccato», esclamai. «Perché penso di avere trovato altri capelli uguali.
Questa volta addosso al cadavere della donna ammazzata ieri sera al Quik Cary.» «Aspetti un momento: ho sentito bene? Le ha trovato addosso gli stessi peli che ha trovato addosso al cadavere del container?» «Mi sembra di sì. Capisci perché ho tanta urgenza?» «La sua urgenza diventerà sempre più urgente, temo», disse. «Perché non si tratta di pelo di gatto o di cane. Non è animale, ma umano.» «Sei sicuro.» «Sicurissimo.» Kuhn era un uomo alto e magro che non si scombussolava facilmente. Non ricordavo di avergli mai visto uno sguardo tanto vivace. «Fine, non pigmentato, rudimentale», continuò. «Come i capelli di un neonato. Pensavo che magari avesse un figlio piccolo. Ma se adesso si ripresenta in questo caso... Se effettivamente fosse dello stesso tipo...» «I neonati non hanno i capelli così lunghi...» gli feci notare. «E quelli che ho raccolto addosso alla donna sono lunghi quindici o venti centimetri.» «Forse in Belgio i bambini nascono con i capelli più lunghi», scherzò. «Ma perché il cadavere ritrovato nel container avrebbe dovuto avere nei vestiti capelli di neonato?» domandai. «Anche supponendo che avesse un figlio piccolo a casa e che un neonato possa avere capelli così lunghi.» «Non sono tutti della stessa lunghezza. Alcuni sono molto corti, anzi. Mezzo centimetro o giù di lì.» «Tagliati o caduti?» domandai. «Non ho visto radici con tessuto follicolare ancora attaccato, ma le radici bulbose che di solito si trovano sui capelli che cadono naturalmente. In pratica, perde i capelli. Ragion per cui non posso fare la prova del DNA.» «Ma non ce n'è qualcuno tagliato o rasato?» chiesi. «Qualcuno è tagliato e qualcuno no. Esistono tante pettinature strane, asimmetriche, magari con i capelli corti in cima alla testa e più lunghi ai lati.» «Ma non per i bambini piccoli.» «Supponiamo che abbia tre, cinque o sei gemelli perché la moglie ha fatto qualche cura contro l'infertilità», suggerì Kuhn. «Avremmo lo stesso tipo di capelli, ma di lunghezze diverse perché appartenente a individui diversi. Anche avessimo il materiale per fare la prova del DNA, tuttavia, il risultato sarebbe il medesimo.» Nei gemelli identici il DNA è lo stesso; solo le impronte digitali sono
diverse. «Senta», mi fece, «posso solo dirle che i peli sono visivamente e morfologicamente uguali.» «Sono visivamente uguali anche a quelli che ho trovato sulla morta.» «Corti, come se se li fosse tagliati?» «No», risposi. «Mi dispiace non poterle dire di più.» «Credimi, Jamie, mi hai già detto molto», lo rassicurai. «Peccato che io non sappia cavarci niente di utile.» «Se scopre qualcosa, poi ci scriviamo su un articolo», mi disse sforzandosi di essere più allegro. Andai a cercare Larry Posner nel suo laboratorio e lo trovai intento al microscopio. Alzò gli occhi e mi mise a fuoco con una certa difficoltà. «Larry», esordii senza neppure salutarlo. «Sta andando tutto a ramengo.» «Non sarebbe la prima volta.» «Cosa mi dici del cadavere non identificato? Hai scoperto qualcosa?» domandai. «Perché ti confesso che sono in alto mare.» «Sono contento che non sia venuta a chiedermi della sua signora del piano di sotto», mi rispose. «Perché avrei dovuto dirle che non ho le ali ai piedi come Mercurio.» «Potrebbe esserci un legame fra i due casi. Su entrambi i cadaveri abbiamo ritrovato lo stesso tipo di peluria. Umana, Larry.» Ci pensò a lungo. «Non ci capisco più niente», disse poi. «E mi dispiace ammetterlo, ma non ho notizie altrettanto entusiasmanti.» «Hai notizie, però?» «Cominciamo con i campioni di terra prelevati dal container. Al microscopio polarizzante ho riscontrato le solite cose», disse. «Quarzo, sabbia, farina fossile, silice ed elementi come ferro e alluminio. E un sacco di robaccia tipo vetro, scaglie di pittura, residui vegetali, peli di roditore. Non può immaginare che razza di schifezze girano per i container. «E diatomee ovunque. Lo strano, tuttavia, è che quando ho esaminato quelle prelevate dal fondo del container e quelle sul corpo e sui vestiti, ho trovato un misto di diatomee di acqua di mare e di acqua dolce.» «È ragionevole, visto che la nave è salpata dallo Scheldt di Anversa e poi ha viaggiato per mare», sottolineai. «Solo che dentro i vestiti è tutta roba di acqua dolce. Non si spiega, a
meno che non si sia lavato vestiti, scarpe, calze e biancheria in un fiume, in un lago o qualcosa del genere. E non è tanto normale che uno si lavi abiti di Armani e scarpe di coccodrillo in un fiume, le pare? O che si butti in un lago vestito così. «Dunque ci sono diatomee di acqua dolce sulla sua pelle, che è singolare, e diatomee di acqua salata e di acqua dolce all'esterno, che è prevedibile date le circostanze. Se uno cammina sul molo, le diatomee di acqua di mare nell'aria gli si posano sopra i vestiti, ma non entrano dentro.» «Cosa mi dici della colonna vertebrale?» chiesi. «Diatomee di acqua dolce. Compatibili con l'annegamento in acqua dolce, magari nel fiume di Anversa. Anche nei capelli ha esclusivamente diatomee di acqua dolce.» Posner sgranò gli occhi e se li sfregò, come se fosse stanco. «Questa storia mi fa diventare matto. Non ci capisco un accidente, fra diatomee, strani peli e colonna vertebrale. Sembra una di quelle merendine con un biscotto al cacao da una parte, uno alla vaniglia dall'altra, la crema al cioccolato in mezzo e la glassa alla vaniglia sopra.» «Risparmiami le analogie, per favore. Ho già abbastanza confusione in testa.» «Ma allora come lo spiega?» «Io posso solo avanzare un'ipotesi.» «E cioè?» «Il fatto che nei capelli ci siano esclusivamente diatomee di acqua dolce si spiega con l'immersione della testa in acqua dolce», cominciai. «Per esempio, potrebbero averlo ficcato a testa in giù in una botte piena di acqua dolce. Uno non riesce più a uscire, come succede ai bambini che cadono a testa in giù nei secchi o nei fustini del detersivo. Rimangono imprigionati fino alla vita e non riescono né a liberarsi né a rovesciarsi. È anche possibile che lo abbiano annegato in un secchio, tenendogli la testa sott'acqua.» «Stanotte me lo sogno», commentò Posner. «Vai a casa prima che le strade ghiaccino di nuovo», gli consigliai. Marino mi diede un passaggio e io mi portai a casa il barattolo di formalina nella speranza che quel lembo di pelle potesse dirmi ancora qualcosa di importante. Volevo tenerlo nello studio e osservarlo di tanto in tanto, come un'archeologa che cerca di interpretare strani segni incisi su una pietra. «Vuoi entrare un momento?» chiesi a Marino. «È un po' che mi suona il cercapersone e non riesco a capire chi cavolo
è», mi disse ingranando la marcia del pick-up. Alzò l'apparecchio e strizzò gli occhi. «Perché non accendi la luce?» gli suggerii. «Sarà qualche informatore troppo suonato per fare il numero giusto», rispose. «Se mi dai da mangiare, salgo un momento. Poi però vado.» Mentre entravamo in casa, il suo cercapersone vibrò di nuovo. Esasperato, se lo strappò dal cinturone e lo mosse finché non riuscì a leggere il numero. «Ma uffa! Chi è che ha un numero che inizia o finisce con cinque tre uno? A te viene in mente qualcuno?» domandò irritato. «Rose», risposi. 27 Rose aveva sofferto molto per la morte del marito e quando si era reso necessario abbattere uno dei suoi levrieri avevo creduto che crollasse. Invece aveva mantenuto la contegnosa dignità che dimostrava anche nel modo di vestire, semplice, discreto e sobrio. Quella mattina, venendo a sapere dalla radio che Kim Luong era morta, tuttavia, aveva avuto una crisi isterica. «Se solo...» continuava a ripetere in un fiume di lacrime, accasciata sulla poltrona di fronte al caminetto. «Rose, per piacere, adesso basta», le disse Marino. Conosceva Kim Luong perché andava spesso a fare la spesa al Quik Cary. Ci era andata anche la sera precedente, forse proprio mentre l'assassino stava massacrando di botte la commessa. Per fortuna aveva trovato il negozio chiuso. Portai in salotto due tazze di tè al ginseng; Marino prese un caffè. Rose tremava, aveva gli occhi gonfi, i capelli grigi scompigliati e sembrava la povera derelitta d'un ospizio. «Non ho guardato la televisione perché leggevo. Così non l'ho saputo finché non ho acceso la radio stamattina.» Continuava a ripetere sempre la stessa storia in modi diversi. «Non me l'aspettavo. Ero lì seduta sul letto che leggevo e pensavo a tutti i problemi che ci sono in ufficio. A Chuck, soprattutto. Io credo che quel ragazzo non ci sia tutto con la testa. Ormai è chiaro.» Le posai la tazza accanto. «Rose», intervenne Marino, «di Chuck possiamo parlare in un altro
momento. Adesso vorremmo sapere esattamente che cosa è successo ieri...» «Ma ci stavo arrivando!» esclamò. «Capitano, le dica di darmi ascolto. Quel ragazzo la odia! Ci odia tutti e tre. Gliel'ho detto e ripetuto: bisogna mandarlo via prima che sia troppo tardi.» «Ci penserò appena sarò...» cominciai. Ma Rose scuoteva la testa. «È cattivo, cattivo dentro. Ho l'impressione che mi segua, o che mi faccia seguire da qualcuno», dichiarò. «Magari è la stessa macchina che hai visto l'altra sera nel parcheggio e che poi ha pedinato anche te. Cosa ne sai che non fosse lui che l'ha noleggiata sotto falso nome per non usare la sua e non rischiare di farsi riconoscere? Come fai a sapere che non è un suo scagnozzo?» «Be', adesso non esageriamo», fece Marino alzando una mano per fermarla. «Perché dovrebbe pedinarvi?» «Perché ha la coscienza sporca», rispose Rose, come se lo sapesse con certezza. «La settimana scorsa è arrivata una donna morta di overdose e per pura combinazione io ho deciso di andare in ufficio un'ora e mezzo prima, perché durante l'ora di pranzo volevo andare dal parrucchiere.» Non credevo che Rose fosse andata in ufficio in anticipo per pura combinazione. Le avevo chiesto di aiutarmi a tenere d'occhio Ruffin ed ero praticamente certa che l'avesse fatto per questo. «Tu quel giorno non c'eri», mi disse. «E avevi lasciato l'agenda chissà dove, ti ricordi? Avevamo guardato dappertutto senza riuscire a trovarla, ma lunedì ho deciso di cercarla meglio perché sapevo che ti serviva. E così sono scesa in obitorio. «Ci sono andata direttamente, senza neanche togliermi il cappotto», continuò. «E chi ti vedo alle sette meno un quarto del mattino? Il nostro Chuck, seduto al tavolo con decine e decine di boccette di medicinali, intento a contare le pillole. Ha fatto una faccia che sembrava l'avessi beccato con le brache calate. Gli ho chiesto come mai era già al lavoro e lui mi ha risposto che quel giorno c'era tanto da fare e non voleva rimanere indietro.» «Aveva lasciato la macchina nel posteggio?» chiese Marino. «Lui parcheggia fuori», spiegai. «Dall'ufficio non si vede.» «Era un caso di cui si occupava Fielding», riprese Rose, «e per curiosità ho dato una letta al rapporto. Be', quella donna era una farmacia ambulante: tranquillanti, antidepressivi, narcotici. In tutto aveva milletrecento pa-
sticche, pensate un po'.» «Lo so», commentai. I suicidi e i morti per overdose arrivavano in obitorio con una quantità di farmaci sufficiente ad andare avanti per mesi, se non per anni. Codeina, Percocet, morfina, metadone, PDC, Valium e Fentanile, tanto per dirne alcuni. Contare tutte le pastiglie era un compito insopportabilmente noioso, ma necessario per calcolare la differenza fra quante erano nei flaconi e quante ce ne sarebbero dovute essere. «Pensa che se le tenga, invece di gettarle nel lavandino?» chiese Marino. «Io non lo posso dimostrare», rispose Rose. «Ma quel giorno non c'era poi tutto quel daffare. Anzi, quella era l'unica morta che avevamo. Da allora, Chuck cerca di evitarmi in tutti i modi e, ogni volta che arriva un morto con dei farmaci, mi chiedo se se li mette in tasca, invece di buttarli.» «Possiamo spostare una telecamera senza dirglielo. La sala è monitorata, no? Se lo fa di nuovo, lo becchiamo», propose Marino. «Ci mancava solo questa!» protestai. «La stampa griderà allo scandalo. Non vorrei proprio finire in televisione. Pensa se a qualcuno viene in mente di indagare e scopre per esempio che da un po' di tempo a questa parte non rispondo alle telefonate dei familiari delle vittime e tengo una chat line di dubbio gusto. Per non parlare del fortuito incontro con Diane Bray nel parcheggio di Buckhead's.» La paranoia mi soffocava. Trassi un respiro profondo. Marino mi guardava. «Non penserai che ci sia lo zampino della Bray», disse scettico. «Solo nel senso che ha aiutato Chuck a mettersi su una cattiva strada. Lui stesso ha ammesso che, a furia di fare cose che non andavano fatte, ci aveva preso l'abitudine.» «Be', io credo che gli psicofarmaci li rubi di sua iniziativa. È troppo facile per un verme come lui. È un po' come quei poliziotti che non resistono alla tentazione di infilarsi in tasca qualche mazzetta durante le retate. Per la miseria, roba come Lortab, Lorcet e Percocet va dai due ai cinque dollari al pezzo, per strada. Vorrei tanto sapere come fa a smerciarla.» «Può chiedere alla moglie se esce spesso la sera», suggerì Rose. «Cara Rose», replicò Marino, «i cattivi lavorano alla luce del sole.» Rose era avvilita e un po' imbarazzata, come se il turbamento avesse fatto tremare pericolosamente il suo castello di convinzioni. Marino si alzò a prendere un altro caffè. «Secondo lei, la seguiva perché aveva paura che sospettasse qualcosa?»
chiese a Rose. «Non lo so, appena lo dico a voce alta mi sembra tutto così campato in aria...» «Potrebbe essere qualcuno legato a Chuck, se vogliamo continuare su questa pista. E non penso che sia da trascurare», aggiunse Marino. «Se Rose sa una cosa, la sai anche tu», mi disse. «Chuck ne è perfettamente consapevole.» «Supposto che rubi gli psicofarmaci, perché ci dovrebbe seguire? Per farci del male? Per intimidazione?» domandai. «Questo è sicuro», rispose Marino dalla cucina. «Si è invischiato con gente molto più sporca di lui. Qui sono in ballo grosse cifre, tenuto conto della quantità di roba che arriva con certi cadaveri. Nella polizia siamo obbligati a consegnare tutti i farmaci che troviamo. Basta pensare agli antidolorifici e alla roba che la gente tiene normalmente nelle cassette dei medicinali...» Tornò in salotto e si sedette soffiando con foga sul caffè per farlo raffreddare. «Aggiungici la roba che prendono o che dovrebbero prendere e vedi cosa viene fuori!» continuò. «L'unico motivo per cui Chuck si tiene stretto il suo posto di lavoro è per rubare psicofarmaci. Lo stipendio non gli interessa più di tanto. Probabilmente è per questo che da qualche mese a questa parte combina un pasticcio dietro l'altro.» «Tirerà su qualche migliaio di dollari alla settimana», calcolai. «Potrebbe avere un complice in qualche altro ufficio, capo? Che gli passa le pasticche in cambio di una percentuale?» «Non ne ho idea.» «Ci sono quattro uffici di distretto. Se fregasse psicofarmaci in tutti e quattro, farebbe i soldi a palate...» disse Marino. «Potrebbe far parte della criminalità organizzata, quello stronzetto, essere una delle tante pedine in gioco. Il problema è che non è esattamente come andare a fare la spesa. Lui ha a che fare con un signore in gessato grigio o una signora con il colletto di volpe, ma questi poi passano la merce a qualcun altro e di anello in anello alla fine la catena magari arriva al traffico di armi di New York.» O di Miami, pensai. «Meno male che ci hai avvertiti, Rose», dissi io. «Non vorrei mai che dal nostro istituto uscisse qualcosa che va a finire in mano a certi giri.» «Secondo me, Chuck ormai ha i giorni contati», commentò Marino. «Quelli come lui non durano tanto.»
Si alzò e andò a sedersi accanto a Rose. «Adesso mi spiega che cosa c'entra tutto questo con l'omicidio di Kim Luong?» le disse con dolcezza. La mia segretaria trasse un respiro profondo e spense la lampada lì vicino come se le desse fastidio agli occhi. Le tremavano talmente le mani che quando prese la tazza rovesciò un po' di tè e si dovette asciugare la macchia sul grembo con un fazzoletto di carta. «Tornando a casa dal lavoro ieri sera, ho pensato di fermarmi a comprare due pasticcini», cominciò con voce rotta. «Che ora era, esattamente?» domandò Marino. «Con precisione non me lo ricordo. Penso che fossero le sei meno dieci, all'inarca.» «Vediamo se ho capito bene», fece Marino prendendo appunti. «Lei si è fermata al Quik Cary poco prima delle diciotto. Era chiuso?» «Sì. E mi è venuto il nervoso perché fino alle sei non dovrebbe chiudere. Così ho mandato mentalmente a quel paese quella poveretta che invece era morta. Adesso mi sento così in colpa! E solo per un po' di pasticcini...» Scoppiò in lacrime. «C'era qualche auto nel parcheggio?» domandò Marino. «Ha visto qualcuno?» «Macché», rispose Rose. «Ci pensi bene. Non ha notato proprio niente?» «Ma sì», replicò lei. «È quello che sto cercando di dire. Io mi sono accorta che era chiuso già in Libbie Street, perché c'era la luce spenta, così sono entrata nel parcheggio a fare manovra e ho visto il cartello CHIUSO. Sono rientrata in Libbie Street e all'altezza dell'ABC mi sono accorta che dietro avevo una macchina con gli abbaglianti accesi.» «Stavi andando a casa?» «Sì. E devo dire che finché non ho girato in Grove Street non ci ho fatto caso più di tanto. Ce l'avevo proprio attaccato, con gli abbaglianti accesi e le macchine dall'altra parte che gli facevano segno di abbassarli. Ma evidentemente quello lo sapeva benissimo e non li voleva spegnere. Allora mi sono spaventata.» «Che macchina era? L'ha vista bene?» chiese Marino. «Ero praticamente accecata e anche un po' confusa. Mi è venuto in mente che martedì sera, quando sei venuta a trovarmi, c'era quell'auto nel parcheggio di casa mia», disse rivolta a me. «Che poi ti avevano seguito... Ho pensato a Chuck che rubava i farmaci e alla gentaglia che bazzica quei gi-
ri...» «Ed era in Grove Street.» Marino cercava di riprendere il discorso. «Sì. Sono passata dritta davanti a casa mia pensando a come liberarmi del mio inseguitore. Non so come mai, mi è venuto in mente di tagliare a sinistra e fare inversione. Poi sono andata fino a Three Chopt e ho svoltato a sinistra. E lui sempre dietro. Nella strada successiva c'è il Country Club: io l'ho presa e sono arrivata fin davanti all'ingresso, dove ci sono i posteggiatori. Naturalmente a quel punto il mio inseguitore si è volatilizzato.» «Una mossa davvero abile», si complimentò Marino. «Ma perché non ha chiamato la polizia?» «Perché non sarebbe servito a niente. Non mi avrebbero creduto e comunque io non sarei stata in grado di dare una descrizione.» «Avrebbe dovuto chiamare me, almeno», ribadì Marino. «Lo so.» «E poi che cosa ha fatto?» «Sono tornata qui.» «Rose, mi fai paura», dissi. «E se ti avesse aspettata al varco?» «Non potevo mica stare fuori tutta la notte. Ho fatto una strada diversa, però.» «Ha idea di che ora fosse quando lo ha seminato?» domandò Marino. «Fra le sei e le sei e un quarto. Oh, Signore, non posso credere che ero davanti al negozio mentre lei era in un lago di sangue. E magari l'assassino era ancora dentro. Se solo l'avessi immaginato... Non riesco a fare a meno di pensare che me ne sarei dovuta accorgere. Magari martedì sera, quando c'ero andata l'ultima volta.» «E come poteva accorgersene? Le ci sarebbe voluta la sfera di cristallo!» disse Marino. Rose trasse un respiro profondo e si strinse nella vestaglia. «Che freddo!» disse. «Kim era una così brava ragazza!» Si interruppe di nuovo e fece una smorfia di dolore. Aveva gli occhi pieni di lacrime. «Era sempre gentile con tutti, così efficiente. Come hanno potuto farle una cosa simile? Sapete che voleva fare l'infermiera? Voleva aiutare il prossimo! Mi faceva pena, sempre sola, anche quando fuori era buio. Martedì ci ho pensato, ma poi non ho detto niente...» Le si incrinò la voce. Mi avvicinai e mi inginocchiai accanto a lei. «È come quando ha cominciato a stare male Sassy... Dormiva sempre e io pensavo che avesse mangiato qualcosa che non doveva...»
«Su, Rose, non fare così», la consolai. «E invece aveva inghiottito un pezzo di vetro... Sanguinava dentro e io non me ne sono accorta... Non ho fatto niente...» «Non lo sapevi. Non si può sapere tutto», dissi. Stavo male anch'io. «Se l'avessi portata dal veterinario prima, forse... Ah, non me lo perdonerò mai. Povera cagnetta, chiusa per anni in una cuccia piccolissima con quel bruto che la picchiava sul muso se non correva abbastanza forte; poi arrivo io e la lascio morire!» Scoppiò a piangere, afflitta da tutti i mali e dalla cattiveria del mondo. Le presi i pugni stretti fra le mani. «Rose, stammi a sentire», le dissi. «Hai salvato Sassy da quell'inferno come hai fatto con tanti altri cani. Non potevi fare di più per lei, così come non avresti potuto fare di più ieri sera quando sei andata al Quik Cary. Kim era già morta. Era morta da ore.» «E lui?» gridò. «Se fosse stato ancora dentro il negozio e fosse uscito mentre io ero lì? Sarei morta anch'io, a quest'ora. Gettata in un angolo con una pallottola nella testa. O magari chissà cosa mi avrebbe fatto...» Chiuse gli occhi, esausta, le guance rigate di lacrime. Quando i singhiozzi cessarono, rimase spossata. Marino si protese verso di lei e le posò una mano sul ginocchio. «Deve aiutarci», le disse. «Deve dirci come mai collega il fatto di essere seguita all'omicidio.» «Perché non vieni da me?» le proposi. Le si illuminò lo sguardo e cominciò a riprendersi. «Quella macchina è uscita dal parcheggio del negozio dove Kim era stata uccisa subito dopo di me. Prima non mi seguiva», spiegò. «Teniamo conto che l'allarme è scattato un'ora, un'ora e mezzo dopo. A voi non sembra strano?» «Sì che mi sembra strano», replicò Marino. «Ma ci sono tante cose strane a questo mondo.» «Mi sento scema», sussurrò Rose guardandosi le mani. «Siamo tutti stanchi», dissi. «A casa mia c'è posto...» «Inchioderemo Chuckie per essersi intascato quelle pasticche», le disse Marino. «Grazie a lei, Rose.» «Ti ringrazio, ma io resto qui e vado a dormire», mi rispose Rose. Mentre scendevamo le scale andando verso la macchina ripensai a quello che ci aveva detto. «Senti», mi fece Marino aprendo la portiera. «Tu conosci Chuck da pri-
ma di me. E lo conosci molto meglio, purtroppo per te.» «Vuoi sapere se è lui che ci ha seguito con una macchina a noleggio?» gli chiesi mentre faceva retromarcia per immettersi in Randy Travis Street. «No, non lo è. È un essere abbietto, un bugiardo e un ladro, ma è anche codardo, Marino. E ci vuole del fegato, per seguire qualcuno con gli abbaglianti accesi. Chiunque fosse, è uno sicuro di sé, uno che non ha paura di farsi beccare perché pensa di essere troppo furbo.» «Uno psicopatico, insomma», commentò. «Così adesso sto ancora peggio. Merda, non vorrei proprio che a seguire te e Rose fosse l'assassino di Kim Luong.» Le strade erano di nuovo ghiacciate e gli automobilisti di Richmond, senza un minimo di buonsenso, slittavano e facevano testa-coda ovunque. Marino aveva la radio della polizia accesa, che gracchiava segnalando degli incidenti. «Quando pensi di restituirla?» «Quando me la verranno a chiedere», replicò. «Io a quegli stronzi non restituisco un bel niente.» «Mi sembra giusto.» «Il difficile, in tutti i casi di cui mi sono occupato, è che non c'è mai una pista sola. Si mettono insieme talmente tanti elementi che, quando alla fine si risolve il caso, si potrebbe scrivere una biografia dettagliata della vittima. E la metà delle volte che si trova un legame fra due fatti diversi non c'entra un accidente. Prendi il marito che litiga con la moglie. Lei esce incazzata come una belva e finisce stuprata e uccisa in un parcheggio. Il fatto che avesse litigato con il marito non c'entra niente: magari sarebbe uscita comunque.» Svoltò nel vialetto di casa mia e si fermò. Io lo guardai a lungo. «Marino, come pensi di fare economicamente?» «In qualche modo farò.» Sapevo che non era vero. «Potresti darmi una mano come investigatore, almeno per un po'», gli proposi. «Finché non ti riprendono in servizio.» Rimase zitto. Finché c'era di mezzo Diane Bray, non l'avrebbero ripreso. Sospenderlo senza stipendio era un modo per costringerlo a dare le dimissioni e, una volta fuori, non sarebbe più rientrato. Come Al Carson. «Potremmo fare in due modi», continuai. «O ti offro delle consulenze a cinquanta dollari il...» Sbuffò. «Cinquanta dollari?»
«Oppure ti assumo part-time. Quando ci sarà il concorso, potrai fare domanda come tutti gli altri.» «Mi viene da vomitare.» «Quanto guadagni adesso?» «Sessantadue, più i benefit.» «Io al massimo posso farti entrare come quattordicesimo livello. Trenta ore la settimana. Trentacinque l'anno. Niente benefit.» «Bella roba. Mi viene da ridere.» «Se vuoi farmi da istruttore e coordinatore delle indagini sugli omicidi, te ne posso dare altri trentacinque. Così arriveresti a settanta senza benefit. Guadagneresti più di adesso.» Ci pensò su un momento, facendo un tiro alla sigaretta. «Per il momento, non ho bisogno del tuo aiuto», rispose poi brusco. «Anche perché bazzicare medici legali e cadaveri non è la mia massima aspirazione.» Scesi dal pick-up. «Buonanotte», lo salutai. Fece retromarcia rabbiosamente, ma sapevo che non ce l'aveva con me. Era frustrato e furibondo perché gli era dispiaciuto essersi mostrato vulnerabile. Nonostante questo, le sue parole mi avevano ferito. Gettai il cappotto sulla sedia nell'ingresso e mi sfilai i guanti di pelle. Misi il CD dell'Eroica di Beethoven e a poco a poco cominciai a riprendermi. Mangiai un'omelette e mi misi a letto con un libro che ero troppo stanca per leggere. Mi addormentai con la luce accesa e mi svegliai di soprassalto nel sentire l'urlo dell'allarme. Presi la Glock dal cassetto e lottai contro l'impulso di staccare l'impianto. Benché il frastuono fosse insopportabile, non sapevo perché fosse scattato. Pochi minuti dopo squillò il telefono. «Pronto, polizia.» «Sì, sì», replicai a voce alta. «Non so come mai sia scattato.» «A noi risulta la zona cinque», mi informò l'uomo. «La porta di servizio in cucina.» «Non saprei.» «Mandiamo qualcuno, allora.» «È meglio di sì», risposi, mentre l'urlo del mio antifurto continuava a squarciare la notte. 28
Supponevo che a far scattare l'allarme fosse stata una folata di vento e qualche minuto dopo lo staccai per sentire quando arrivava la polizia. Mi sedetti ad aspettare sul letto, senza controllare come facevo di solito ogni angolo della casa, nelle docce, in ogni camera e nei più remoti recessi delle mie paure. Rimasi ad ascoltare il silenzio, attenta al minimo suono. Udivo il vento, il fievole ticchettio dell'orologio digitale, il soffio del riscaldamento, il mio respiro. Sentii entrare un'auto nel vialetto di casa mia e andai ad aprire al portone proprio mentre un agente bussava con il manganello invece di suonare il campanello. «Polizia», annunciò una voce femminile. Erano due, un uomo e una donna. Li feci entrare. La donna, più giovane del compagno, aveva qualcosa che mi colpì. Sulla targhetta appuntata alla giacca aveva scritto J.F. Buder. «La zona è quella della porta della cucina», dissi. «Grazie di essere intervenuti tanto prontamente.» «Mi dice il suo nome?» chiese l'uomo, che si chiamava R.I. McElwayne. Faceva finta di non sapere chi ero, quasi fossi una signora di mezz'età in accappatoio che abitava in un bel quartiere in cui la polizia andava raramente. «Kay Scarpetta.» Si sciolse lievemente. «Non sapevo che esistesse per davvero. Ho sentito molto parlare di lei, ma non sono mai andato in obitorio, in diciott'anni che sono qui. Non che la cosa mi dispiaccia.» «Una volta la formazione professionale non prevedeva obbligatoriamente certe dimostrazioni», lo stuzzicò la Butler. McElwayne cercò di non sorridere. Lanciava occhiate curiose per la casa. «Se desidera, può venire alla prossima», lo invitai. La Butler era molto attenta e all'erta: a differenza del suo compagno, che in quel momento era soprattutto incuriosito da me e dalla mia casa, non aveva ancora perso interesse al proprio lavoro. Probabilmente lui si era stufato di fermare macchine e rispondere a falsi allarmi per pochi soldi e ancor meno gratificazioni. «Possiamo dare un'occhiata in giro?» chiese lei chiudendo il portone. «Cominciamo da qua.» «Prego. Guardate pure dove volete.»
«Se vuole rimanere qui», mi disse andando verso la cucina. Fu in quel momento che mi accorsi del motivo per cui mi aveva colpita e rimasi assolutamente di sasso. Mi ricordava Lucy. Aveva gli stessi occhi, il naso diritto, il medesimo modo di gesticolare. Lucy non riusciva a muovere le labbra senza muovere anche le mani. Rimasi in piedi nell'ingresso e sentii i loro passi sul parquet, le loro voci sommesse, le porte che si aprivano e si chiudevano. Ci misero un po' e pensai che la Butler volesse controllare tutti gli angoli in cui si sarebbe potuto nascondere un essere umano. Scesero le scale e uscirono nella notte fredda, passando i fasci di luce delle torce su finestre e persiane. Rimasero fuori un quarto d'ora, poi bussarono alla porta per rientrare e quindi mi condussero in cucina. McElwayne si soffiava sulle mani livide. La Butler aveva qualcosa di importante da comunicarmi. «Lei sa che il montante della porta della cucina è piegato?» mi chiese. «No», risposi stupefatta. Aprì la porta vicino al tavolo dove mangiavo di solito se ero sola o con qualche amico. Una folata di aria gelata mi investì appena mi avvicinai a guardare. La donna puntò la luce su un'ammaccatura nella piastra di alluminio e sul bordo del montante di legno, dove sembrava che qualcuno avesse cercato di forzare la porta. «Potrebbe esserci da un pezzo senza che lei lo abbia notato», mi disse. «Quando martedì è scattato l'allarme non abbiamo controllato perché la zona segnalata era quella della porta del garage.» «Mi è scattato l'allarme anche martedì?» chiesi sbigottita. «Non ne sapevo niente.» «Io vado un attimo in macchina», annunciò McElwayne alla compagna, uscendo dalla cucina fregandosi le mani intirizzite. «Torno subito.» «Io facevo il turno di giorno», mi spiegò. «Pare che la sua domestica l'abbia fatto scattare accidentalmente.» Non riuscivo a capire come avesse fatto Marie a far scattare l'allarme nel garage, a meno che non fosse uscita da lì per qualche ragione ignorando il bip. «Era molto scossa», mi spiegò la Butler. «Non riusciva a ricordare il codice.» «Che ore erano?» domandai. «Le undici.» Marino non aveva sentito la chiamata perché a quell'ora era in obitorio
con me. Mi venne in mente che la sera, quando ero tornata a casa, avevo trovato l'allarme disinserito, gli asciugamani sporchi nel bagno e la passatoia impolverata. Mi chiesi come mai Marie non mi aveva lasciato un biglietto spiegandomi che cosa era successo. «Non avevamo motivo di controllare la porta della cucina», continuò la Butler. «Perciò non le so dire se questo segno ci fosse già martedì.» «Comunque sia», osservai, «è evidente che qualcuno ha cercato di entrare.» «Unità tre-venti», chiamò la Butler per radio. «Dieci-cinque il detective del distretto che si occupa dei furti.» «Unità sette-nove-due», fu la risposta. «Tentato furto al seguente indirizzo», lo informò. «Puoi intervenire?» «Dieci-quattro. Sarò lì fra quindici minuti.» La Butler posò la radio sul tavolo della cucina e controllò di nuovo la serratura. L'aria gelida scompigliò una pila di tovaglioli di carta e aprì il giornale. «Viene dal distretto, all'incrocio fra Meadow e Cary Street», mi disse come se fosse importante per me saperlo. Chiuse la porta. «Non sono più nella divisione Investigativa», continuò studiando la mia reazione. «Si sono trasferiti e sono tornati a fare parte delle squadre in divisa. Sarà un mese, più o meno», aggiunse, mentre io cominciavo a sospettare dove volesse arrivare. «I detective che si occupano dei furti dipendono dal vicecomandante Bray?» chiesi. Dopo un attimo di esitazione, sorrise. «Come tutti, del resto.» «Posso offrirle un caffè?» «Grazie. Se non è troppo disturbo.» Presi un sacchetto di caffè dal freezer. La Butler si sedette a riempire un modulo mentre io prendevo le tazze, il latte e lo zucchero e operatori e agenti comunicavano per radio con i loro codici dieci. Sentii bussare alla porta e andai ad aprire al detective. Non lo conoscevo, ma da quando la Bray aveva mandato via molta gente che sapeva fare il proprio lavoro e introdotto gente nuova, non conoscevo più nessuno. «È questa la porta?» chiese alla Butler. «Sì. Senti, Johnny, hai mica una penna che funziona?» Stava cominciando a venirmi il mal di testa. «Questa scrive da fare schifo.»
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. «Data di nascita?» mi chiese la Butler. «Sono pochi ad avere l'allarme nel garage», fece la Butler. «I contatti sono più deboli, rispetto alle altre porte, per via del metallo leggero e della superficie troppo grande. Basta un colpo di vento...» «Veramente il vento non ha mai fatto scattare l'allarme», ribattei. «Ma un ladro che si rende conto che una casa ha l'antifurto», continuò la Butler, «pensa che la porta del garage non sia collegata e magari ci prova.» «In pieno giorno?» domandai. Il detective stava spargendo polvere sul montante e facendo entrare aria gelida in cucina. «Vediamo un po'», disse la Butler continuando a riempire il modulo. «L'indirizzo di casa l'ho scritto. Mi servono quello del lavoro e i suoi numeri di telefono.» «Il mio numero non è sull'elenco. Non vorrei che finisse in mano a qualche giornalista», risposi cercando di trattenere la stizza per quell'intrusione nella mia privacy. «Dottoressa Scarpetta, le sue impronte sono registrate da qualche parte?» mi chiese l'investigatore con il pennellino in mano. «Sì, certo. Per poterle escludere.» «Lo immaginavo. È giusto avere le impronte di tutti i medici legali, caso mai sfiorino qualcosa che non devono», osservò. Non intendeva insultarmi, ma mi offese comunque. «Ha capito che cosa le ho detto?» Volevo alzasse gli occhi e mi stesse a sentire. «Non voglio che lo venga a sapere nessuno. Non voglio che i giornalisti o chi altro comincino a chiamarmi a casa, vengano a sapere il mio indirizzo, il numero di tessera sanitaria, razza, sesso, luogo e data di nascita, altezza, peso, colore degli occhi e parenti più prossimi. Chiaro?» «È successo qualcosa di recente di cui ritiene di doverci informare?» continuò McElwayne mentre la Butler porgeva all'investigatore il nastro per rilevare le impronte. «Mi ha seguito un'automobile mercoledì sera», risposi un po' di malavoglia. Mi sentii addosso lo sguardo di tutti. «E pare che anche la mia segretaria sia stata seguita. Ieri sera.» La Butler prese nota di tutto. Suonò di nuovo il campanello e vidi Marino sul display del videocitofono accanto al frigo. «Non voglio leggerlo sui giornali», avvertii andandogli ad aprire.
«Non si preoccupi. Il rapporto non verrà segnalato ai giornalisti», mi rispose la Butler. «Per favore, dammi una mano tu», dissi a Marino appena aprì la porta. «Qualcuno ha cercato di entrare in casa mia e adesso questi poliziotti cercano di entrare nella mia vita privata.» Marino masticava chewing-gum e mi guardava come se avessi commesso un reato gravissimo. «Mi piacerebbe essere avvertito, quando qualcuno cerca di entrare in casa tua. Preferirei non venirlo a sapere via radio», mi rimproverò truce avviandosi verso la cucina. Seccata, andai nel mio studio per chiamare Marie. Mi rispose un bambino, che me la passò. «Ho saputo che martedì mattina è scattato l'allarme mentre eri in casa mia», le dissi. «Mi scusi tanto, dottoressa», mi rispose supplichevole. «Non sapevo che cosa fare. Non ho fatto nessuna imprudenza. Stavo passando il battitappeto quando è scattato. Mi è venuta una paura tale che non mi ricordavo più il codice.» «Ti capisco. Viene paura anche a me», le dissi. «È scattato di nuovo stasera, quindi lo dico a ragion veduta. Ma ti prego di avvisarmi, quando succedono queste cose.» «La polizia non mi ha creduto, ne sono sicura. Gli ho spiegato che non ero andata nel garage, ma mi sono resa conto benissimo che...» «Non ti preoccupare», la interruppi. «Avevo paura di farla arrabbiare perché era venuta la polizia, che magari poi non voleva più farmi lavorare. Ma ho sbagliato. Dovevo dirglielo, mi scusi, non lo farò più...» «Non ti preoccupare. Negli Stati Uniti la polizia è dalla parte del cittadino. È diverso, da noi. Vorrei solo che stessi attenta, quando vieni a casa mia. Tieni sempre l'allarme inserito e assicurati che lo sia anche quando vai via. Hai notato qualcuno, magari un'auto che ha attirato la tua attenzione?» «Mi ricordo che faceva freddo e pioveva forte. Non ho visto nessuno.» «Se ti viene in mente qualcosa, avvertimi», le raccomandai. 29 Chissà come, il rapporto stilato dalla polizia sul tentato furto in casa mia
giunse alla stampa in tempo perché la notizia potesse uscire al telegiornale delle sei di sabato. I giornalisti cominciarono a tempestare di telefonate Rose e me a casa. Non avevo dubbi sul fatto che dietro a quel piccolo contrattempo ci fosse Diane Bray. Probabilmente per lei costituì un gradevole diversivo in un week-end altrimenti freddo e noioso. Naturalmente il fatto che la mia segretaria avesse sessantaquattro anni e vivesse sola in un condominio senza portineria non la turbava affatto. Domenica pomeriggio sul tardi ero seduta in sala con il caminetto acceso e lavoravo in terribile ritardo a un articolo che non avevo nessuna voglia di scrivere. Il tempaccio continuava a imperversare e la mia concentrazione andava e veniva. Mi venne in mente che ormai Jo doveva essere al Medical College e Lucy a Washington. Non lo sapevo con certezza, ma di una cosa ero certa e cioè che Lucy era arrabbiata. E, come sempre quando si arrabbiava, mi tagliava fuori. Era capace di tenermi il muso per mesi, se non addirittura per un anno. Fino a quel momento ero riuscita a trattenermi dal chiamare mia madre o mia sorella Dorothy - gesto che, presumibilmente, era stato interpretato come segno di grande freddezza - per evitare ulteriori fonti di stress. Ma la sera della domenica cedetti. Mia sorella non era in casa. Provai da mia madre. «No, Dorothy non c'è», mi rispose. «È a Richmond. Te l'avremmo anche detto, se ti fossi premurata di telefonarci. Lucy è stata coinvolta in una sparatoria e tu non...» «Dorothy è a Richmond?» domandai incredula. «Che cosa ti aspettavi? In fondo è sua madre.» «Allora anche Lucy è a Richmond!» Era una coltellata, per me. «Per questo c'è anche sua madre. È evidente che Lucy è a Richmond.» Non capivo come mai mi stupissi tanto: Dorothy era un'egocentrica narcisista che, tutte le volte che succedeva qualcosa, voleva essere al centro dell'attenzione. Se questo comportava fare la madre, lo faceva nonostante della figlia non gliene fosse mai importato niente. «È partita ieri e non ha voluto disturbarti, visto che evidentemente la tua famiglia per te viene all'ultimo posto», si lamentò mia madre. «Dorothy non è mai voluta venire a casa mia.» Mia sorella amava i bar degli hotel e comunque a casa mia non aveva molte possibilità di incontrare uomini, a meno che io non decidessi di presentarle qualche mio amico.
«Dov'è alloggiata?» domandai. «Lucy è con lei?» «Non me l'hanno voluto dire. Top secret. E pensare che io sono la nonna!» Non ne potevo proprio più. «Scusa, mamma, ma adesso devo andare.» Le buttai giù il telefono e chiamai a casa il primario del reparto di ortopedia, il dottor Graham Worth. «Ho bisogno di un favore, Graham», esordii. «Non mi dire che è morto un mio paziente», replicò sarcastico. «Non te lo chiederei, se non fosse assolutamente indispensabile.» Rimase zitto. «Tu devi avere una paziente ricoverata sotto falso nome. Dell'ATF, ferita in una sparatoria a Miami. Sai a chi mi riferisco, vero?» Non mi rispose. «Mia nipote Lucy è stata coinvolta nella stessa sparatoria», continuai. «So di che cosa parli», replicò. «Era sul giornale.» «Sono stata io a chiedere al supervisore di Jo Sanders di trasferirla al Medical College. Ho promesso di seguirla personalmente, Graham.» «Senti, Kay», mi disse. «Ho ricevuto istruzione di proibire le visite a tutti, tranne che ai parenti stretti.» «Come?» esclamai. «E a mia nipote?» Dopo un attimo di silenzio, rispose: «Mi duole dirtelo, ma soprattutto a tua nipote». «Che cosa?! Ma è ridicolo!» «Non dipende da me.» Non potevo immaginare come avrebbe reagito Lucy nel sentirsi proibire di vedere la propria amante. «Ha una frattura multipla e comminuta del femore sinistro», mi spiegò. «Abbiamo dovuto mettere una placca. Ha la gamba in trazione ed è sotto morfina, Kay. È in stato soporoso quasi tutto il tempo. Possono vederla solo i genitori. Non sono sicuro nemmeno se capisca dove si trova e cosa le è successo.» «E la ferita alla testa?» mi informai. «L'ha sfiorata un proiettile ferendola superficialmente.» «Lucy è in ospedale? Fuori della porta, magari? Potrebbe essere con sua madre.» «È venuta stamattina, sì. Da sola», mi rispose Worth. «Dubito che sia ancora là.»
«Dammi almeno la possibilità di parlare con i genitori di Jo.» Non rispose. «Graham?» Silenzio. «Per l'amor del cielo, sono colleghe, amiche...» Silenzio. «Ci sei ancora?» «Sì.» «Maledizione, Graham, si vogliono bene. Forse Jo non sa neppure se Lucy è viva o morta.» «Jo è al corrente del fatto che tua nipote sta bene. E non vuole vederla.» Riattaccai e rimasi a guardare il telefono. Mia sorella era in qualche albergo della città e sapeva dove si trovava Lucy. Sfogliai le Pagine Gialle e cominciai con l'Omni, il Jefferson e gli altri alberghi più noti. Scoprii ben presto che Dorothy alloggiava al Berkeley, nel quartiere storico della città noto come Snockhoe Slip. Non rispondeva al telefono in camera. I locali dove poteva essere andata a fare baldoria la domenica a Richmond non erano molti, per cui uscii e presi la macchina. Il cielo era coperto. Lasciai l'auto ai parcheggiatori davanti all'hotel, entrai e capii subito che Dorothy non c'era. L'albergo, piccolo ed elegante, aveva un bar molto intimo, con luci soffuse, sedili in pelle e una clientela silenziosa. Il barista aveva una giacca bianca e mi guardò premuroso non appena mi avvicinai. «Sto cercando mia sorella», gli spiegai. Gliela descrissi, ma lui scosse la testa. Uscii e attraversai la strada per provare nel Tobacco Company, un antico magazzino di tabacco recentemente trasformato in ristorante, con un ascensore di cristallo e ottone che saliva e scendeva in mezzo a un atrio pieno di piante e fiori esotici. Vicino alla porta d'ingresso c'era un piano bar in cui si poteva anche ballare. Vidi Dorothy seduta a un tavolo insieme con cinque uomini. Mi avvicinai con piglio deciso. La gente ai tavoli vicini smise di parlare e si voltò a guardarmi, come se fossi stata un cowboy che aveva appena varcato la soglia del saloon. «Mi scusi», dissi educatamente all'uomo seduto alla sinistra di Dorothy. «Le spiace se mi siedo qui un attimo?» Gli spiaceva, ma mi cedette il posto senza protestare e si avviò al bancone. Gli altri compagni di bevute di mia sorella erano a disagio. «Sono venuta a prenderti», dissi a Dorothy, che evidentemente stava be-
vendo da un po'. «Guarda un po' chi si rivede!» esclamò alzando il bicchiere. «La mia cara sorella maggiore. Aspetta che ti presento i miei amici», disse. «Lascia perdere e ascoltami», la interruppi a bassa voce. «La mia famosissima sorella.» Dorothy diventava cattiva, quando beveva. Non strascicava le parole, non perdeva l'equilibrio, ma civettava con gli uomini e sputava veleno. Mi vergognavo per come si comportava e per come si vestiva. Mi sembrava che fo facesse contro di me. Quella sera aveva un tailleur blu stile donna in carriera, ma sotto la giacca portava un top aderentissimo rosa che lasciava intravedere i capezzoli. Dorothy aveva il complesso del seno piccolo e faceva in modo che gli uomini glielo guardassero comunque. «Dorothy», le bisbigliai nell'orecchio, un po' stordita dalla quantità di Chanel che si era messa addosso. «Vieni con me, per favore. Ti devo parlare.» «Sapete chi è?» disse ai suoi amici facendomi vergognare. «È il capo dell'Istituto di medicina legale di questo splendido stato. Non ci credete? Mia sorella fa il coroner.» «Interessante», commentò uno. «Posso offrirle da bere?» chiese un altro. «Qual è la verità sul caso Ramsey, secondo lei? Sono stati i genitori?» «Bisognerebbe dimostrare che quelle che hanno trovato sono veramente le ossa di Amelia Earhart.» «Dov'è la cameriera?» Posai la mano sul braccio di Dorothy e la feci alzare. Una cosa andava riconosciuta a mia sorella: era troppo orgogliosa per fare scene imbarazzanti. La accompagnai fuori, nella strada buia e piena di nebbia. «Io a casa con te non ci torno», mi annunciò quando nessuno ci sentiva. «E lasciami il braccio, porca miseria.» Si diresse verso l'hotel, mentre io cercavo di trascinarla alla macchina. «Invece tu vieni con me. Dobbiamo parlare di come fare con Lucy.» «L'ho vista oggi in ospedale», mi disse. La feci salire sul sedile del passeggero. «Non ti ha nemmeno nominato», mi confidò la mia sensibilissima sorella. Salii e bloccai le portiere. «I genitori di Jo sono molto simpatici», aggiunse mentre io mettevo in
moto. «Sono rimasta stupita che non sapessero che genere di relazione avessero Jo e Lucy.» «Che cosa? Gliel'hai detto, Dorothy?» «Non esplicitamente, ma ho fatto alcune allusioni, sicura che loro lo sapessero. Com'è diversa da Miami questa città.» Mi venne voglia di schiaffeggiarla. «E comunque dopo aver parlato con i Sanders, sono giunta alla conclusione che sono dei tipi bacchettoni, e che non avrebbero perdonato alla figlia di essere lesbica.» «Preferirei che non usassi quel termine.» «Be', perché non dovrei? Lo è, no? Sono come le amazzoni che abitavano sull'isola di Lesbo, nel mar Egeo, al largo della Turchia. Hai notato quanto sono pelose le donne turche?» «Hai mai sentito parlare di Saffo?» «Certo che ne ho sentito parlare. Era un poeta, vero?» fece Dorothy. «Una poetessa. Era lesbica e fu una delle poetesse più grandi dell'antichità.» «Invece certi donnoni con il piercing sono tutt'altro che poetiche. Naturalmente i Sanders non si sono esposti al punto di dire che pensavano che Lucy e Jo fossero lesbiche. La loro teoria è che Jo è rimasta molto traumatizzata e che vedere Lucy le farebbe tornare in mente tutto. Sono stati molto cari e gliel'hanno comunicato nel miglior modo possibile.» Passai il casello. «Però tu sai com'è Lucy. Non se n'è stata, ha detto che non ci credeva, ha alzato la voce ed è stata maleducata. Io ho spiegato ai Sanders che dopo quello che aveva passato era traumatizzata anche lei e loro sono stati pazienti e le hanno detto che pregheranno per lei. Poi è arrivata un'infermiera e l'ha mandata via. «Avessi visto con che faccia se n'è andata», continuò mia sorella. Poi alzò gli occhi verso di me e aggiunse: «Naturalmente sarà venuta a cercarti, nonostante ce l'avesse con te. Come sempre...». «Come hai potuto fare una cosa del genere?» domandai. «Come hai potuto intrometterti negli affari loro? Ma che cos'hai nella testa?» Dorothy rimase male e si irrigidì. «Sei sempre stata gelosa di me perché è figlia mia e non tua», replicò. Invece di proseguire verso casa, presi l'uscita di Meadow Street. «Diciamo la verità» sibilò acida Dorothy. «Tu non sei una donna, tu sei una macchina, uno di quegli strumenti ad alta tecnologia che ti piacciono
tanto. C'è da chiedersi che cos'ha che non va una che sceglie di passare la vita in mezzo ai cadaveri. Cadaveri freddi, puzzolenti, marci, di gente che anche in vita non valeva una cicca.» Ripresi Downtown Expressway tornando verso il centro. «Io, al contrario di te, credo nei rapporti umani. Faccio un lavoro creativo, rifletto molto, frequento gente e mi prendo cura di me e del mio corpo. Invece tu... Guardati!» Si interruppe, per dare maggior peso alle proprie parole. «Fumi, bevi, non vai in palestra... Sei già fortunata a non essere una cicciona flaccida, ma forse è perché ti muovi da un cadavere all'altro, seghi le ossa alla gente e stai in piedi dalla mattina alla sera. Ma non è tutto.» Si chinò verso di me e sentii che aveva l'alito che puzzava di vodka. «Allacciati la cintura, Dorothy», le dissi a bassa voce. «Guarda come hai ridotto mia figlia, la mia unica figlia... Tu non ne hai avuto perché non avevi tempo di stargli dietro, però ti sei presa la mia», mi gridò. «Non avrei dovuto lasciarla venire da te. Ma dove avevo la testa quando la lasciavo venire qui l'estate?» Si toccò le tempie con gesto teatrale. «Le hai messo in mano armi e munizioni, l'hai riempita di stronzate! Me l'hai fatta rimbecillire davanti a un computer a dieci anni, quando le altre bambine andavano alle feste, facevano passeggiate a cavallo e giocavano con le amichette!» La lasciai sbraitare e stetti attenta alla strada. «Le hai fatto frequentare un poliziotto orribile e maschilista, che fra l'altro è l'unico uomo con cui riesci ad avere un rapporto stabile. Spero solo che tu non ci vada a letto, con quel maiale. E sai che Benton mi era simpatico, ma non puoi negare che era uno smidollato. Non aveva spina dorsale, quell'uomo: era una mezza sega. «Li portavi tu, i pantaloni. Del resto sei il capo, il medico, l'avvocato, no? Te l'ho già detto e te lo ripeto: nonostante le tette grosse, tu sei un uomo. Non si vede subito perché ti vesti bene e vai in giro con una bella macchina. Ti credi sexy solo perché sei tettona e mi fai venire il complesso di inferiorità. Se penso a quanto mi hai preso in giro per Mark Eden e tutte le diavolerie che mi compravo... E ti ricordi che cos'ha detto la mamma? «Mi ha dato una foto di una mano pelosa di uomo e mi ha detto: "È così che vengono le tette belle".» «Sei ubriaca», dissi. «Mi hai sempre preso in giro, sin da quando eravamo ragazzine!»
«Non ti ho mai preso in giro.» «Mi hai sempre considerato brutta e stupida, solo perché eri bionda, avevi le tette grosse e i ragazzi parlavano sempre di te. Perché eri intelligente, no? Ti credevi tanto intelligente solo perché io ero brava in inglese e basta.» «Smettila, Dorothy.» «Ti odio.» «Non è vero, Dorothy.» «Non sono mica scema, sai? Non te lo credere.» Scosse la testa e mi puntò contro un dito. «Non mi far passare per scema, sai? Io l'ho sempre sospettato.» Eravamo di fronte al Berkeley Hotel, ma Dorothy non se ne era nemmeno accorta. Gridava e piangeva. «L'ho sempre saputo che sei lesbica anche tu, per quanto tu non voglia riconoscerlo», mi sputò addosso con odio. «E hai fatto diventare lesbica mia figlia! Povera figlia, che ha rischiato di morire ammazzata! E che mi tratta come un cane.» «Perché non sali in camera e non vai a dormire?» le dissi. Si asciugò gli occhi e guardò fuori del finestrino, sorpresa di vedere l'albergo, neanche fosse un'astronave che si era appena posata accanto a lei. «Non ti voglio mollare in mezzo a una strada, Dorothy. Ma in questo momento penso sia meglio se ci separiamo.» Tirò su con il naso e la sua collera si spense come un fuoco artificiale nella notte. «Ti accompagno su», mi offrii. Scosse la testa, le mani immobili in grembo, le lacrime che le scendevano sul volto. «Non mi ha neanche voluto vedere», sussurrò. «Quando sono uscita dall'ascensore dell'ospedale mi ha guardato come se le avessi appena sputato nel piatto.» Vidi un gruppo di persone che usciva dal Tobacco Company e riconobbi alcuni dei compagni di tavolo di Dorothy, che barcollavano e parlavano a voce alta. «Sei sempre stata tu il suo modello, Kay. Ti immagini come mi posso sentire?» piangeva. «Sono un essere umano anch'io, sai? Perché non vuole essere come me?» Mi si avvicinò, mi abbracciò e mi pianse sulla spalla, scossa dai singhiozzi. Avrei voluto provare affetto per lei, ma non ne provavo. Non ave-
vo mai voluto bene a mia sorella. «Quanto vorrei che amasse un po' anche me!» esclamò, spinta dall'emozione e dall'alcol, oltre che dal gusto per la teatralità. «Che provasse un minimo di ammirazione anche per sua madre! Che fosse fiera di me come lo è di te! Quanto vorrei che pensasse che anch'io sono forte e brillante, una che la gente si volta a guardare quando entra in una stanza. Vorrei che lo pensasse, che dicesse di me quello che dice di te! Vorrei che qualche volta chiedesse consiglio anche a me, che cercasse di imitarmi.» Innescai la prima e mi avvicinai all'ingresso dell'hotel. «Dorothy», dissi, «sei la persona più egoista che io abbia mai conosciuto.» 30 Erano quasi le nove quando tornai a casa. Mi dispiaceva non aver portato Dorothy con me e averla lasciata in albergo. Non mi sarei stupita se avesse riattraversato la strada per tornare al bar. Magari era rimasto ancora qualche uomo a cui tenere compagnia. Ascoltai i messaggi sulla segreteria e mi disturbò sentire che per sette volte chi aveva chiamato aveva riattaccato senza lasciare detto niente. Cercai di controllare chi era, ma il display diceva: numero non disponibile. I giornalisti di solito non lasciavano messaggi neppure in ufficio, perché sapevano che non avrei richiamato. Sentii sbattere una portiera e mi chiesi se non fosse Dorothy, ma quando andai a guardare vidi un taxi giallo che si allontanava e Lucy che suonava il campanello. Aveva una valigia e una borsa della spesa, che lasciò nell'ingresso. Sbatté la porta e non mi abbracciò. Aveva un grosso livido sulla guancia sinistra e altri, più piccoli, che stavano diventando giallastri. Con la mia esperienza, non mi ci volle molto per capire che era stata presa a pugni. «La detesto», esordì, guardandomi come se avessi la colpa di tutto. «Chi le ha detto di venire qui? Sei stata tu?» «Sai che non lo farei mai», risposi. «Vieni a sederti. Parliamone. Abbiamo tante cose da dirci. Santo cielo, stavo cominciando a pensare che non mi volessi più rivedere.» Mi sedetti di fronte al caminetto e aggiunsi un ceppo al fuoco. Lucy era in uno stato terribile, aveva gli occhi pesti, un paio di jeans e una felpa troppo grandi per lei e i capelli sul volto. Posò un piede sul tavolino e si strappò il fodero dalla caviglia.
«Hai da bere?» mi domandò. «Del bourbon o qualcosa del genere? Nel taxi faceva un freddo cane e non si chiudeva il finestrino. Guarda che mani che ho!» Me le mostrò: aveva le unghie viola. Gliele strinsi fra le mie, poi mi avvicinai e le gettai le braccia al collo. Mi parve smagrita. «Dove sono andati a finire tutti i tuoi muscoli?» cercai di scherzare. «Non mangio più molto...» Guardò il fuoco. «Non ti danno da mangiare, a Miami?» Non sorrise. «Perché è venuta la mamma? Perché non mi lascia in pace? È una vita che non fa altro che impormi i suoi stramaledetti uomini...» protestò. «Uno dietro l'altro, cazzo, e io sola come un cane. Poveretti, erano soli come cani pure loro... E nemmeno se ne rendevano conto.» «Non sei mai stata sola come un cane. Avevi me.» Si tolse i capelli dagli occhi, come se non mi avesse neanche sentito. «Sai che cos'ha fatto in ospedale?» «Come faceva a sapere dov'eri?» Per me era importante saperlo, e Lucy capì subito perché. «Perché è mia madre», rispose con sarcasmo. «E, che mi piaccia o no, appare su tutti i moduli. Naturalmente lei sa di Jo, così rintraccia i suoi qui a Richmond e scopre tutto perché è un'intrigante e sa come prendere la gente per farsi dire quello che vuole. Infatti i Sanders le dicono dov'è ricoverata la loro figlia e lei decide di andarci. Stamattina, mentre ero lì che aspettavo nel corridoio, me la vedo arrivare con l'aria della primadonna.» Stringeva i pugni, come per combattere il freddo. «Da non credere», continuò. «Ha fatto tutta la gentile con i Sanders, gli ha portato caffè e panini e gli ha propinato le sue perle di saggezza. Chiacchierava con loro, affabile, e io lì, come se non esistessi. Poi mi viene vicino, mi accarezza la mano e mi fa "Guarda che Jo oggi non riceve visite". «Le chiedo chi cavolo è lei per dirmi che non posso andare a trovare Jo e lei mi risponde che sono stati i Sanders a chiederle di dirmelo, per paura che ci rimanessi troppo male. Così tolgo il disturbo. Per quello che ne so io, la mamma potrebbe essere ancora là.» «No, è andata via», risposi. Lucy si alzò e spostò un ceppo, scatenando una pioggia di scintille. «Questa volta ha passato il limite. L'ha fatta troppo grossa», decretò. «Non parliamo di lei. Dimmi di te, piuttosto. Raccontami che cos'è successo a Miami.»
Si sedette sul tappeto, la schiena appoggiata al divano, gli occhi fissi sul fuoco. Mi alzai e andai a versarle un bourbon. «Zia Kay devo vederla.» Le porsi da bere e mi risedetti. Poi le massaggiai le spalle e lei cominciò a rilassarsi. «E lì e non sa che io ci sono. Non vorrei che pensasse che non me ne frega niente.» «Perché dovrebbe pensarlo, Lucy?» Continuò a guardare le fiamme, assorta, e non mi rispose. Bevve un sorso di whisky. «Eravamo sulla mia Benz e stavamo andando da quei tizi», cominciò a raccontare con voce distante. «Jo aveva un brutto presentimento e me lo ha comunicato. Io le ho detto che era normale avere dei brutti presentimenti prima di un'azione così. L'ho persino presa in giro.» Si interruppe, fissando il fuoco come se fosse qualcos'altro. «Arriviamo alla porta dell'appartamento che questi Centosessantacinque usavano come sede», riprese. «Jo entra per prima. Invece di tre ne troviamo sei e ci rendiamo conto che ce l'abbiamo in quel posto. Io capisco subito che cosa stanno per farci. Uno piglia Jo e le punta una pistola alla testa per farsi dire dove abita il tipo di Fisher Island.» Trasse un respiro profondo e rimase zitta, come se le fosse estremamente difficile continuare. Bevve un altro sorso. «Santo cielo, cos'è 'sta roba? Mi ubriaca solo sentirne l'odore.» «È forte. Non sono favorevole all'abuso di alcol, ma penso che in questo momento ti faccia bene bere un goccio. Stai qui con me per un po'.» «L'ATF e la DEA hanno fatto quello che era giusto fare», mi disse. «Succede, Lucy.» «Non avevo il tempo di pensare. Sapevo solo che dovevo fingere che non me ne fregasse niente, anche se le facevano saltare le cervella. Così, mentre questo le puntava la pistola alla tempia, io ho fatto finta di essere incazzata con lei. E li ho presi di sorpresa.» Bevve un altro sorso. L'alcol stava cominciando a farle effetto. «Mi avvicino a questo marocchino di merda con la pistola e gli urlo in faccia di ammazzarla pure, che io me ne sbatto, tanto è una scema e io sono stufa di averla tra i piedi. E aggiungo che, però, se la fa secca adesso, lui e gli altri ce l'hanno nel culo.» Guardò il fuoco con gli occhi sbarrati, ripensando alla scena. «Gli ho detto: "Pensavate che non lo sapessi che avreste cercato di usarci
per poi fare così? Credevate che fossi stupida? Be', devo dirvi una cosa: Tortora ci sta aspettando". Ho guardato l'orologio. "Abbiamo appuntamento fra un'ora e un quarto. Pensavo che sarebbe stato interessante intrattenerlo, prima che voi stronzi arrivaste per sparargli e fregargli armi, soldi e coca. Cosa succede se noi non ci presentiamo? Non pensate che gli verrebbe il nervoso?"» Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso, la mente piena di pensieri. La immaginavo mentre rischiava il tutto per tutto, la rivedevo in tuta sul luogo di un incendio, alla guida di un elicottero e a programmare computer. Vedevo una bambina difficile, ribelle, che io avevo contribuito a crescere. Marino aveva ragione: Lucy pensava di dover dimostrare tante cose e il suo primo impulso era sempre stato quello di lottare. «Non pensavo che mi credessero», continuò. «Perciò mi sono voltata verso Jo. Non mi scorderò mai lo sguardo che mi ha lanciato, la pistola contro la tempia. Quegli occhi...» Si interruppe. «Era calmissima e mi guardava, perché...» Le si incrinò la voce. «Perché voleva che sapessi che mi amava...» Le sfuggì un singhiozzo. «Mi amava e voleva dirmelo perché non pensava di poter...» Si fermò perché non ce la faceva più. «Era convinta di morire. E io ho cominciato a gridarle di tutto. Le ho dato della stronza e le ho mollato uno schiaffone tanto forte che mi sono fatta male alla mano. «Intanto lei mi guardava come se fossi l'unica cosa che le era rimasta al mondo. Aveva un rivolo di sangue che le usciva dal naso e dai lati della bocca e le scendeva fin sul mento. Non si è nemmeno messa a piangere. Era fuori, persa, non si ricordava più la parte, le regole che ti insegnano durante l'addestramento, tutto quello che hai imparato a fare in un caso come quello. Io l'ho afferrata e l'ho buttata per terra, poi mi sono lanciata contro di lei insultandola e l'ho presa a botte.» Si asciugò gli occhi e guardò fisso davanti a sé. «Ma la cosa peggiore, zia Kay, è che in parte facevo sul serio. Ero veramente arrabbiata con lei, perché mi aveva lasciato lì da sola, si era arresa. Si sarebbe lasciata ammazzare, capito?» «Come Benton», dissi io a voce bassa. Lucy si asciugò la faccia nella manica della camicia. Forse non mi aveva neanche sentito. «Sono stufa di avere a che fare con gente che si arrende e mi lascia nella merda», protestò affranta. «Che cede proprio quando io ho più bisogno.»
«Benton non ha ceduto, Lucy.» «Così io ho continuato a gridare e a picchiarla e a dirle che l'ammazzavo. L'ho presa persino per i capelli. A un certo punto si risveglia, forse per rabbia, e comincia a rispondermi. Mi dice di tutto, mi sputa in faccia, mi piglia a pugni. Intanto gli stronzi ridono, fischiano e si toccano i coglioni.» Trasse un altro respiro profondo e chiuse gli occhi. Non si reggeva quasi. Si appoggiò alle mie gambe, con il fuoco che le illuminava il bel viso. «Comincia a darmele di brutto. Io ero a cavalcioni sopra di lei e la tenevo stretta fra le ginocchia con tanta forza che mi sembra strano di non averle rotto le costole. Mentre ci meniamo, le strappo la camicetta, così i porci perdono la testa e non mi vedono mentre tiro fuori la pistola dalla fondina che ho alla caviglia. Comincio a sparare. Sparo, sparo, sparo...» Le si incrinò la voce. Mi chinai e le misi le braccia al collo. «Sai una cosa? Avevo i jeans larghi in fondo per nascondere la Sig. Dicono che ho sparato undici colpi. Io non mi ricordo nemmeno di aver cambiato il caricatore. A un certo punto vedo agenti dappertutto e mi rendo conto che sto trascinando Jo verso la porta. E vedo che sanguina dalla testa.» Aveva il labbro inferiore che tremava, la voce distante. Era come se non fosse lì con me, ma ancora laggiù, in mezzo all'inferno. «Sparo, sparo, sparo. Ho le mani sporche di sangue.» Alzò la voce. «L'ho presa a sberle. Sento ancora la mano che mi brucia.» Si guardava la mano severa, come volesse condannarla a morte. «Ha la pelle delicata, sai? Sanguinava. Le ho fatto uscire il sangue. Ho percosso la faccia che amavo e che avevo accarezzato tante volte, l'ho ferita. E poi le pistole, le pistole, le pistole, il fumo, le orecchie che mi fischiavano. È una baraonda, quando succede così. Finisce che nemmeno ti sei accorta che è iniziata. Ho pensato che fosse morta.» Chinò la testa e pianse silenziosamente, mentre io le accarezzavo i capelli. «Le hai salvato la vita. Oltre a salvare la tua», dissi poi. «Jo lo sa e sa perché l'hai fatto, Lucy. Ti amerà ancora di più, dopo quello che hai fatto.» «Questa volta sono nei guai, zia Kay.» «Hai compiuto un'azione eroica, Lucy.» «No, non capisci. Non importa che sia stata legittima difesa. Non importa se l'ATT mi darà una medaglia.»
Si tirò su, poi mi guardò dall'alto con l'aria sconfitta e un'altra espressione che non riuscii a decifrare. Forse era dolore, un dolore che non aveva mostrato nemmeno quando era morto Benton. Allora aveva saputo esprimere soltanto rabbia. «Sai il proiettile che le hanno estratto dalla gamba? Era un Hornady Custom Jacketed a punta cava, novanta grani. Come quelli che avevo io nella pistola.» Ero senza parole. «Le ho sparato io, zia Kay.» «Anche se fosse...» «E se rimanesse zoppa? E se non potesse più lavorare per colpa mia?» «Per un po' non potrà saltare giù dagli elicotteri, questo sì», dissi. «Ma si rimetterà.» «E se l'ho sfregiata prendendola a pugni in faccia?» «Lucy, ascoltami», intervenni. «Le hai salvato la vita. Se per farlo hai dovuto ammazzare due persone, pazienza. Non avevi scelta. Non l'hai fatto perché volevi.» «Invece sì», replicò. «Volevo ammazzarli tutti quanti.» «Non è vero.» «Forse sono solo un mercenario», commentò amaramente. «Avete un assassino, uno stupratore, un rapinatore, un pedofilo, uno spacciatore che vi rompe i coglioni? Chiamate L-U-C-Y, all'uno-otto-zero.» «Ammazzando la gente non farai tornare Benton.» Di nuovo, fu come se non mi avesse sentito. «Lui non vorrebbe vederti così.» Squillò il telefono. «Benton non ti ha abbandonato, Lucy. Non puoi avercela con lui perché è morto.» Il telefono squillò una terza volta e Lucy non riuscì a trattenersi. Lo prese senza riuscire a nascondere il misto di paura e di speranza nei suoi occhi. Non avevo il coraggio di riferirle che cosa mi aveva detto il dottor Worth. Non era il momento. «Un attimo solo», rispose porgendomi il telefono con l'aria delusa e addolorata. «Pronto?» risposi controvoglia. «Parlo con la dottoressa Kay Scarpetta?» mi chiese una voce maschile che non riconobbi. «Chi parla?»
«È molto importante per me essere sicuro della sua identità.» Parlava con accento americano. «Lei è un giornalista?» «Le do un numero di telefono.» «E io le do un avvertimento», replicai. «O mi dice chi parla, oppure butto giù.» «Aspetti che le do il numero.» E me lo disse. Riconobbi il prefisso della Francia. «In Francia sono le tre del mattino», calcolai, come se lui non lo sapesse. «Non importa che ore sono. Lei ci ha mandato delle informazioni che noi abbiamo elaborato al computer.» «Io non vi ho mandato niente.» «Non direttamente, forse.» Parlava con voce baritonale e profonda, liscia come legno lucidato. «Chiamo da Lione», mi disse. «Se prova il numero che le ho dato, le risponderà la segreteria telefonica che inseriamo fuori dell'orario di ufficio.» «Ma che cosa vuole che...» «La prego.» Riattaccai e provai. Mi rispose una voce femminile registrata, con forte accento francese, che diceva «Bonjour, hello» e comunicava gli orari di ufficio in francese e inglese. Feci l'interno che l'uomo mi aveva dato e risentii la sua voce. «Bonjour, hello? Secondo lei, adesso io dovrei sapere con chi sto parlando?» esclamai. «Potrebbe essere un ristorante, per quanto ne so.» «Vuole mandarmi per fax la sua carta intestata? Quando la vedrò le dirò di più.» Mi lasciò un numero. Lo misi in attesa e andai nello studio a prendere un foglio di carta intestata che gli spedii via fax, mentre Lucy restava davanti al caminetto con un gomito sul ginocchio e il mento appoggiato a una mano, irrequieta. «Mi chiamo Jay Talley e sono l'ufficiale di collegamento dell'ATF qui all'Interpol», si presentò quando ripresi la linea. «Vorremmo che lei ci raggiungesse al più presto, dottoressa. Insieme con il capitano Marino.» «Non capisco», replicai. «Lei dovrebbe avere i miei rapporti. Non ho altro da aggiungere, in questo momento.» «Non glielo chiederemmo, se non fosse di estrema importanza.» «Marino non ha passaporto.» «È andato alle Bahamas tre anni fa.»
Mi ero dimenticata che Marino aveva portato una delle sue sfortunate conquiste in una crociera di tre giorni. La storia d'amore con lei non era durata molto di più. «Non mi interessa se è importante o meno», ribattei. «Non ho nessuna intenzione di prendere un aereo e venire in Francia senza sapere che cosa...» «Scusi un attimo», mi interruppe, educatamente ma con autorevolezza. «Senatore Lord, mi sente?» «Sì, la sento.» «Frank?» esclamai stupefatta. «Dove sei? In Francia?» Mi chiesi da quanto fosse in ascolto. «Ascolta, Kay, è una cosa importante», mi disse Lord con una voce che mi ricordò chi era. «Parti subito. Abbiamo bisogno del tuo aiuto.» «Abbiamo?» A quel punto intervenne Talley. «Lei e Marino dovrete recarvi al terminal privato Millionaire alle quattro e trenta di stanotte. Cioè fra meno di sei ore.» «Non posso partire adesso...» Cominciai a dire, mentre Lucy mi raggiungeva sulla porta. «Siate puntuali. La coincidenza da New York è alle otto e trenta», mi informò. Pensavo che il senatore Lord avesse riattaccato, ma d'improvviso sentii la sua voce. «Grazie, agente Talley», disse. «Adesso le parlo io.» Sentii Talley che riagganciava. «Volevo sapere come stai, Kay», mi chiese il mio amico senatore. «Non te lo so dire.» «Non ti preoccupare», disse. «Non voglio che ti succeda niente. Fidati di me. E adesso dimmi come stai.» «Come vuoi che stia, a un passo dal licenziamento e in procinto di partire per la Francia?» Gli avrei raccontato anche la storia di Lucy, se non fosse stata lì. «Andrà tutto bene», mi rassicurò Lord. «Vorrei sapere come», replicai. «Fidati di me.» Mi ero sempre fidata di lui. «Ti chiederanno cose che non ti piaceranno. E che potranno farti paura.» «Non mi spavento facilmente, Frank.»
31 Marino mi venne a prendere alle quattro meno un quarto, un'ora assurda del mattino che mi fece venire in mente le notti che passavo in ospedale all'inizio della mia carriera, quando mi chiamavano a occuparmi di casi che non voleva nessuno. «Adesso sai che cosa vuol dire fare il turno di notte», commentò Marino mentre percorrevamo le strade ghiacciate della città. «Lo sapevo già», replicai. «Sì, ma la differenza è che tu non lo fai. Tu puoi mandare qualcun altro e startene a casa. Sei il capo, comandi tu.» «Quando Lucy ha bisogno di me, io la lascio sempre da sola.» «Secondo me, capisce. E poi probabilmente se ne sarebbe dovuta andare comunque. La convocheranno a Washington per quella benedetta inchiesta.» Non gli avevo raccontato di Dorothy. Lo avrebbe fatto arrabbiare e basta. «Non fai parte del Medical College of Virginia? Voglio dire, sei un dottore anche tu.» «Grazie tante.» «Non puoi parlare con l'amministrazione, con i responsabili?» disse premendo il pulsante dell'accendisigaro. «Non puoi fare in modo che gliela lascino vedere?» «Finché Jo non è in grado di decidere autonomamente, è la sua famiglia a stabilire chi può andarla a trovare e chi no.» «Mentalità religiosa del cazzo. Nazisti con la Bibbia in mano...» «Anche tu eri di mentalità piuttosto ristretta, mi pare», gli ricordai. «Una volta parlavi di checche e finocchi e usavi dei termini che non voglio nemmeno ripetere.» «Be', era un modo di dire.» Al Millionaire Jet Center la temperatura era sotto lo zero e il vento gelido mi investì mentre prendevo le valigie dal bagagliaio. Ci vennero incontro due piloti che, senza tante chiacchiere, ci aprirono il cancello e ci guidarono verso un Leariet collegato a un alimentatore mobile. Su uno dei sedili c'era una busta con il mio nome; quando decollammo nella notte fredda e limpida, spensi le luci e cercai di dormire fino all'atterraggio a Teterboro, nel New Jersey.
Mentre scendevamo la scaletta metallica, vedemmo venirci incontro una Explorer blu scura. La neve mi sferzava il volto. «Polizia», disse Marino indicando con un cenno del capo l'Explorer che si fermava vicino all'aereo. «Come fai a saperlo?» «Lo so», fu la risposta. L'autista aveva un paio di jeans, un giubbotto di pelle e l'aria di chi ne ha viste tante, nella vita. Pareva contento di venirci a prendere. Caricò le valigie nel bagagliaio e fece accomodare Marino davanti, cominciando subito a chiacchierare con lui, perché lavorava nel dipartimento di polizia di New York, di cui Marino aveva fatto parte per un certo periodo. Io li stavo a sentire solo a tratti e dormicchiavo. «...Figurati che Adams, dell'Investigativa, mi chiama intorno alle sette. Io pensavo che l'avesse contattato l'Interpol: non sapevo che avesse a che fare con loro.» «Davvero?» Marino aveva la voce soporifera come il bourbon sul ghiaccio. «Che rompicoglioni.» «Ma no, è uno tranquillo.» Mi assopii; ogni tanto aprivo gli occhi, vedevo le luci della città e mi sentivo il vuoto dentro. «...la sera prima mi ero ridotto in uno stato tale che al mattino non sapevo più dov'erano la macchina e le carte di credito. E mi ha chiamato questo...» Il mio unico altro volo supersonico era stato con Benton. Ricordavo il suo corpo vicino al mio sul sedile di pelle grigia, il calore del mio seno che lo sfiorava... Avevamo bevuto vino francese e guardato barattoli di caviale che nessuno dei due aveva voglia di assaggiare. Ricordavo che avevamo litigato e poi fatto l'amore disperatamente a Londra, in un appartamento vicino all'Ambasciata americana. Forse Dorothy aveva ragione: a volte ero troppo presa da me stessa, meno aperta di quel che avrei voluto essere. Ma su Benton si sbagliava: non era affatto uno smidollato e il nostro era stato un amore appassionato. «Dottoressa Scarpetta?» Una voce ridestò la mia attenzione. «Siamo arrivati», mi annunciò l'autista guardandomi nello specchietto retrovisore. Mi fregai la faccia con le mani e soffocai uno sbadiglio. Il vento soffiava ancora più forte e la temperatura era ancora più rigida. Andai io al check-
in dell'Air France perché non mi fidavo a consegnare biglietti e passaporti a Marino, che negli aeroporti non si orizzontava. Mancava un'ora e mezzo alla partenza del volo numero 2 e, non appena mi sedetti nella sala di attesa riservata ai passeggeri del Concorde, mi sentii stanchissima e assonnatissima. Marino era impressionato. «Guarda!» mi sussurrò a voce un po' troppo alta. «C'è uno al bar che si sta scolando una birra alle sette del mattino!» Si sentiva chiamato a intervenire in qualche modo. «Tu vuoi qualcosa?» mi chiese. «Ti piglio il giornale?» «In questo momento non mi importa nulla di quel che succede nel mondo», risposi. Volevo solo essere lasciata in pace. Tornò con due piatti di formaggio e cracker e una lattina di Heineken. «Ti spiego perché», esordì posando la colazione sul tavolino vicino alsuo sedile. «In Francia sono le tre del pomeriggio.» Aprì la birra. «C'è gente che beve champagne e succo d'arancia: l'avevi mai sentita? Laggiù c'è una famosa, sono sicuro: ha gli occhiali da sole e la guardano tutti.» Non me ne importava niente. «Anche quel tipo mi sembra uno famoso. Assomiglia un po' a Mel Brooks.» «E la donna con gli occhiali da sole assomiglia a Ann Bancroft?» gli chiesi. «Sì.» «Allora è Mel Brooks.» Gli altri passeggeri, molto meglio vestiti di noi, ci occhieggiavano. Un uomo leggeva «Le Monde» sorseggiando un espresso. «L'ho vista nel Laureato. Te lo ricordi?» continuò Marino. A quel punto ero sveglia e avrei voluto nascondermi. «Me la sognavo di notte, cazzo. Come la prof che ti fa fermare dopo la fine delle lezioni e ti costringe a incrociare le gambe.» «Da quella finestra si vede il Concorde», indicai. «Come ho fatto a dimenticarmi la macchina fotografica?» Bevve un altro sorso di birra. «Vattene a comprare una», gli proposi. «Pensi che vendano quelle usa e getta?» «Made in France, però.» Rimase un attimo incerto, poi mi guardò male.
«Torno fra un momento.» Naturalmente biglietto e passaporto erano nella tasca della giacca che aveva lasciato sulla sedia così, quando annunciarono il volo e mi preparai a salire a bordo, ricevetti un messaggio urgente sul cercapersone: non lo lasciavano rientrare nella sala d'aspetto. Lo trovai al banco con la faccia rossa e una guardia a fianco. «Scusate», dissi porgendo all'impiegato il passaporto e il biglietto di Marino. «Per piacere, non cominciamo», gli dissi sottovoce ritornando nella sala d'aspetto per fare la coda con gli altri passeggeri. «Gliel'ho detto, che lo andavo a prendere. Ma questi francesi sono cocciuti più dei muli. Se parlassero inglese decentemente, peraltro, certe cose non succederebbero.» Avevamo due sedili vicini, ma per fortuna l'aereo era mezzo vuoto e mi potei spostare dall'altra parte del corridoio. Marino si risentì, ma mi feci perdonare regalandogli metà del mio pollo con lime e tutta la mousse alla vaniglia, oltre ai cioccolatini. Non avevo idea di quanto stesse bevendo, ma si alzava spesso a prendere una birra, barcollando per il corridoio mentre l'aereo procedeva a una velocità doppia rispetto a quella della luce. Arrivammo all'aeroporto Charles De Gaulle alle diciotto e venti. Fuori del terminal ci aspettava una Mercedes blu. Marino cercò di attaccare discorso con l'autista, che però non lo lasciò sedere davanti e non lo degnò della minima considerazione. Marino allora, di pessimo umore, fumò fuori del finestrino con l'aria fredda sul volto e guardò le case coperte di graffiti e i binari che si addentravano fra i palazzi verso il centro della città. Dall'alto del loro Olimpo, Hertz, Honda, Technics e Toshiba scintillavano nella notte come divinità antiche. «Cazzo, sembra di essere a Chicago», brontolò Marino. «Non capisco più niente.» «È il jet lag.» «Quando sono andato sulla West Coast non ne ho sofferto.» «Evidentemente stavolta sì.» «Secondo me, è colpa della velocità», continuò. «Pensaci bene. Guardi dall'oblò e ti sembra di essere su un'astronave: non vedi nemmeno l'orizzonte. A quella quota non c'è una nuvola, l'aria è irrespirabile, la temperatura probabilmente quaranta sotto zero. Non c'è un uccello, un aereo, niente di niente.» Un agente di polizia su una Citroen bianca e azzurra con le strisce rosse
aveva appena fermato un signore per eccesso di velocità vicino alla Banque de France. Vedendo le boutique esclusive lungo il Boulevard des Capucines mi venne in mente che non avevo controllato quanto valeva il franco. «E viene anche fame.» Marino continuava la sua spiegazione scientifica. «Perché a quelle velocità ti cambia il metabolismo. Pensa alle calorie che bruci. Io fino alla dogana non ho sentito niente: come se non avessi né bevuto né mangiato.» Non c'erano molte decorazioni natalizie, nemmeno nel centro. I parigini avevano appeso qualche luminaria e sistemato dei rami verdi fuori dei bistrot e dei negozi, ma a parte il Babbo Natale gonfiabile all'aeroporto, che sbatteva le braccia come stesse facendo ginnastica ritmica, non avevo visto altro. Nell'atrio del Grand Hotel, che la nostra guida spiegò essere l'albergo in cui eravamo alloggiati, c'erano stelle di Natale e un abete decorato. «Cazzo!» esclamò Marino osservando le colonne e il lampadario di cristallo. «Quanto costerà una stanza in questo posto?» I telefoni squillavano in continuazione e la fila davanti alla reception era straordinariamente lunga. C'erano valigie ovunque e mi scoraggiai capendo che era appena arrivata una comitiva di turisti. «Sai una cosa, capo?» continuò Marino. «Mi sa che qui non mi posso permettere neanche una birra.» «Intanto non avremo il tempo di andare al bar», replicai. «Ho l'impressione che ci vorrà tutta la sera, per farsi dare la chiave.» Non avevo finito di dirlo che mi sentii sfiorare un braccio e mi trovai a fianco un uomo vestito di scuro, sorridente. «Madame Scarpetta, Monsieur Marino?» Ci fece segno di toglierci dalla fila. «Scusate, ma vi ho visti solo adesso. Sono Ivan. Venite, vi accompagno alle vostre stanze.» Non riuscivo a capire che accento avesse, ma ero certa che non fosse francese. Ci accompagnò verso gli ascensori lucidissimi e ci fece salire al terzo piano. «Di dove è?» gli chiesi. «Un misto, ma vivo a Parigi da molti anni.» Lo seguimmo lungo un corridoio verso due stanze vicine, ma non comunicanti. Con un certo fastidio mi accorsi che i nostri bagagli erano già lì. «Se avete bisogno di qualcosa, chiamate me», ci raccomandò Ivan. «Probabilmente vi conviene cenare qui in hotel. Vi abbiamo prenotato un
tavolo. Se preferite, però, potete chiedere il servizio in camera.» Se ne andò prima che potessi dargli la mancia. Marino e io restammo sulla soglia a contemplare le nostre rispettive stanze. «Non mi convince», dichiarò lui a un certo punto. «Questi maneggi non mi sono mai piaciuti. Chi sarà questo Ivan? Scommetto che non è nemmeno un dipendente dell'hotel.» «Marino, non parliamo nel corridoio», bisbigliai. Avevo la netta sensazione che, se non me lo fossi scrollata di dosso per un po', sarei diventata cattiva. «A che ora pensavi di andare a cena?» «Ti busso fra un po'», proposi. «Io ho una fame da lupi.» «Perché allora non scendi subito?» suggerii, sperando che dicesse di sì. «Se mai io ti raggiungo dopo.» «No, meglio che stiamo insieme», replicò. Entrai in camera, chiusi la porta e rimasi stupefatta nel vedere che qualcuno mi aveva disfatto la valigia e riposto la roba nell'armadio. Abiti, camicie e pantaloni erano appesi, la biancheria era nei cassetti e profumi e accessori da bagno ordinati sul comò. In quel momento squillò il telefono. Non ci voleva molto a capire chi era. «Cosa c'è?» «Mi hanno aperto la valigia e messo via la roba!» sbraitò Marino come una radio a un volume troppo alto. «C'è un limite a tutto, Cristo santo! Io non tollero che mi si frughi nelle borse. Ma chi cazzo si credono di essere questi francesi, la dogana? Vai in un bell'hotel e questi ti aprono le valigie?» «Non credo proprio che sia la dogana», risposi. «Allora dev'essere l'Interpol.» «Ti richiamo.» Sul tavolo c'erano un cesto di frutta e una bottiglia di vino. Mi sbucciai un'arancia e versai un bicchiere di merlot. Poi tirai le tende e guardai dalla finestra la gente in abito da sera che saliva su macchine eleganti e le sculture dorate del teatro dell'opera che si stagliavano nude dall'altra parte della strada; tetti e comignoli si estendevano a perdita d'occhio. Mi sentivo sola e angosciata. Feci un lungo bagno e meditai di lasciar perdere Marino per il resto della serata, ma non me la sentii. Non era mai stato in Europa, e comunque non a Parigi, e mi spaventava un po' l'idea di lasciarlo solo. Lo chiamai e gli
chiesi se era d'accordo a farsi mandare su una cena leggera. Insistette per una pizza, nonostante lo avessi avvertito che non era una specialità francese, e frugò nel minibar alla ricerca di una birra. Io ordinai un piatto di ostriche e abbassai le luci perché per quel giorno avevo visto abbastanza. «Stavo pensando a una cosa», mi disse Marino dopo che ci ebbero portato da mangiare. «Mi dispiace tirare fuori il discorso, ma ho questo strano presentimento. Insomma, vorrei sapere se anche tu hai la stessa sensazione», continuò addentando la pizza. «Cioè, se all'improvviso è venuto in mente anche a te.» Posai la forchetta. Le luci della città brillavano oltre la mia finestra, ma nonostante la luce bassa intravidi la sua paura. Cercai di essere delicata. «Non so di che cosa parli», gli dissi prendendo il vino. «Va bene. Pensiamoci un attimo solo.» Non ne avevo nessuna voglia. «Per prima cosa ricevi una lettera dal senatore Lord, che guarda caso è il presidente della Commissione giustizia ed è potente come pochi, soprattutto per quanto riguarda le forze dell'ordine. Cioè sa tutto di servizi segreti, ATF, FBI eccetera eccetera.» Mi misi in allarme. «Devi ammettere che è strano che il senatore Lord ti porti una lettera di Benton e subito dopo l'Interpol ci faccia partire per Parigi...» «Smettila, per favore», lo interruppi. Avevo lo stomaco stretto e il batticuore. «No, stammi a sentire», continuò. «Nella lettera Benton ti diceva di smettere di piangerlo, perché andava tutto bene e lui sapeva che cosa stavi facendo...» «Piantala!» In preda a un forte turbamento, alzai la voce e gettai il tovagliolo sul tavolo. «Guardiamo in faccia la realtà», continuò Marino, anche lui fortemente emozionato. «Come facciamo a sapere... Cioè... E se non l'avesse scritta qualche anno fa, ma adesso?» «Come fai a dire una cosa del genere? Sta' zitto!» esclamai con le lacrime agli occhi. Mi alzai in piedi. «Vattene», gli ordinai. «Non voglio stare a sentire le tue assurdità. Vuoi farmi rivivere tutto l'inferno che sto appena cominciando adesso a superare? Vuoi che ricominci a illudermi, dopo che ho fatto tanto per accettare la realtà? Vattene immediatamente.»
Marino spinse la sedia all'indietro facendola cadere per terra e prese le sigarette dal tavolo. «E se fosse ancora vivo, cazzo?» Alzò la voce anche lui. «Come fai a sapere che non è dovuto scomparire per un po' per qualche faccenda importante che coinvolgeva ATF, FBI, Interpol e magari anche la NASA?» Presi il bicchiere con le mani che mi tremavano al punto che temetti di rovesciare il vino, sconvolta come avevo sperato di non sentirmi mai più. Marino camminava per la stanza gesticolando, con una sigaretta in mano. «Per certo non lo possiamo sapere», continuò. «Hai visto un mucchio di ossa bruciate e un Breitling uguale al suo. E con questo?» «Sei uno stronzo, Marino! Sei un maledetto stronzo! Dopo tutto quello che ho passato adesso vieni qui a...» «Non sei mica l'unica, sai? Ci abbiamo patito anche noi, non credere. Il fatto che tu ci andassi a letto non vuol dire che fosse tua proprietà esclusiva.» Furibonda, mi precipitai contro di lui e mi ripresi solo un attimo prima di mollargli uno schiaffone. «Oddio», mormorai guardandolo negli occhi sbigottiti. «Oddio.» Pensai a Lucy che aveva preso a schiaffi Jo e feci un passo indietro. Marino si voltò verso la finestra a fumare. Mi sentivo oppressa dall'angoscia e dalla vergogna e appoggiai la testa contro il muro con gli occhi chiusi. Non ero mai arrivata così vicina a picchiare qualcuno e tantomeno una persona a cui tenevo e per cui provavo affetto. «Nietzsche aveva ragione», sussurrai desolata. «Bisogna stare attenti a chi si sceglie come nemico, perché è a lui che si assomiglierà di più.» «Scusami», si limitò a dire. «Come il mio ex marito, come quell'idiota di mia sorella, ecco come sono. Un'egoista cattiva e incapace di controllarsi. Uguale identica a loro.» «Non è vero.» Avevo la fronte appoggiata al muro come in preghiera ed ero contenta che fosse buio e gli stessi dando la schiena, perché non volevo che vedesse il mio dolore. «Non volevo, capo. Giuro che non volevo. Non so neanche perché l'ho detto.» «Non importa.» «Stavo solo cercando di prendere in considerazione tutte le ipotesi, perché ci sono delle cose che non mi quadrano.» Si avvicinò al portacenere e spense la sigaretta.
«Non so come mai siamo qui», dichiarò. «Non certo per farci questo», replicai. «Be', non capisco perché non potessimo scambiarci informazioni attraverso il computer, per telefono o come diavolo si fa normalmente. Tu lo capisci?» «No», sussurrai. Trassi un profondo respiro. «E così mi è venuto in mente che forse c'era di mezzo Benton... Voglio dire, magari dovevano proteggerlo per un certo periodo, cambiargli identità e tutto il resto... Noi non sapevamo che cosa faceva, esattamente. Non lo sapevi bene neanche tu, perché erano questioni riservate e comunque non ce l'avrebbe detto per non metterci in pericolo. E poi non voleva che ti preoccupassi per lui.» Non risposi. «Non voglio dire che è così, ma che potrebbe essere», aggiunse. «No, invece», replicai schiarendomi la voce, affranta. «Non potrebbe essere. È stato identificato, Marino, in maniera scientifica e inequivocabile. Non hanno fatto finta che Carrie Grethen l'avesse ucciso per aiutarlo a scomparire. È morto veramente, Marino. Non ci sono santi: è morto.» «Sei andata all'autopsia? Hai letto il referto?» insistette. I resti di Benton erano stati esaminati dal medico legale di Philadelphia. Io non avevo mai chiesto di vedere i risultati. «No, non ci sei andata, anche perché se fossi andata all'autopsia di Benton saresti stata una pazza», continuò Marino. «E quindi non hai visto niente. Sai solo quello che ti hanno raccontato. Non voglio tormentarti, ma è la verità. E se qualcuno avesse voluto far passare quelle ossa per Benton, tu non te ne saresti mai accorta, perché non hai mai controllato.» «Versami uno scotch», mormorai. 32 Mi voltai verso Marino con la schiena appoggiata al muro, come se non avessi la forza di reggermi in piedi. «Porca miseria, hai visto quanto costa un whisky?» brontolò chiudendo la porta del frigobar. «Non me ne frega niente.» «Tanto probabilmente paga l'Interpol», decise. «E ho bisogno anche di una sigaretta», aggiunsi. Mi accese una Marlboro; la prima boccata mi bruciò i polmoni. Marino
mi si parò davanti con un bicchiere di single mah on the rocks in una mano e una Beck's nell'altra. «Quello che sto cercando di dire», riprese, «è che se l'Interpol può organizzare 'sta roba con tanto di biglietteria elettronica, hotel sciccosi e Concorde senza che nessuno si faccia vedere o ti dica niente, può fare qualsiasi cosa.» «Non si può far finta che uno venga ammazzato da uno psicopatico», risposi. «Invece si può, eccome. Magari i tempi erano perfetti.» Buttò fuori il fumo e bevve un sorso di birra. «Il punto è che secondo me sono capaci di qualsiasi cosa. Pensaci bene, capo.» «La prova del DNA ha stabilito con assoluta...» Non riuscii a finire la frase: quelle parole mi facevano riaffiorare alla mente immagini che avevo a lungo cercato di soffocare. «Non sai se il referto era vero o no.» «Adesso basta!» Ma la birra gli aveva abbattuto le difese e ormai il flusso di teorie sempre più assurde, deduzioni illogiche e illusioni senza speranza era inarrestabile. Parlava, parlava, e la sua voce cominciò a sembrarmi distante e irreale. Scossa da un brivido, intravidi uno spiraglio di luce nella parte più devastata di me stessa e capii che volevo crederci anch'io. Disperatamente. Alle cinque mi ritrovai a dormicchiare sul divano ancora vestita, con un mal di testa lancinante. Avevo in bocca un sapore orribile di fumo e di alcol. Mi feci una doccia e guardai a lungo il telefono sul comodino. Il pensiero di quel che stavo per fare mi gettava nel panico. Ero nella confusione più totale. A Philadelphia era quasi mezzanotte. Lasciai un messaggio nella segreteria telefonica del dottor Vance Harston, capo dell'Istituto di medicina legale, dandogli il numero del fax che avevo in camera. Poi appesi il cartello NON DISTURBARE sulla porta. Quando incontrai Marino nel corridoio, non gli dissi niente, a parte un veloce buongiorno. Si sentiva l'acciottolio di stoviglie al piano di sotto, dove stavano preparando il buffet della colazione; un uomo puliva i vetri con una spazzola e uno straccio. Il caffè non era ancora pronto e l'unico altro ospite sveglio era una signora con la pelliccia di visone appoggiata sulla sedia. Davanti all'hotel c'era una Mercedes che ci aspettava. Il nostro autista era di cattivo umore e andava di fretta. Mi massaggiai le tempie, la mente invasa da pensieri che arrivavano fulminei come motoci-
clette, zigzagando nel traffico e infilandosi nei tunnel più oscuri e stretti. Mi venne in mente Lady Diana e la mia depressione aumentò. Ricordavo la mattina che avevo saputo della sua morte alla radio, appena sveglia, e il mio primo pensiero era stato di incredulità, quasi i nostri dèi fossero immuni dalla morte improvvisa e casuale che affligge il resto dell'umanità. Non vi è nulla di glorioso nel morire per colpa di un ubriaco al volante, ma di fronte alla morte siamo tutti uguali. La morte non fa distinzioni. Il cielo era azzurro polvere, i marciapiedi ancora bagnati dopo il lavaggio e i mezzi della nettezza urbana stavano svuotando i cassonetti verdi lungo la strada. Sobbalzammo sull'acciottolato di Piace de la Concorde e costeggiammo la Senna, che non si vedeva a causa di un muro. L'orologio digitale fuori della Gare de Lyon segnava le sette e venti. La folla si dirigeva verso l'edicola a comprare il giornale. Mi misi in coda alla biglietteria dietro a una donna con un cagnolino e trasalii nel vedere un signore grigio e distinto che da lontano assomigliava a Benton. Istintivamente mi guardai intorno alla sua ricerca, con il cuore in gola. Mi sentivo morire. «Caffè?» proposi a Marino. Ci sedemmo al banco nell'Embarcadére, dove ci servirono un espresso in una tazzina marrone. «Che roba è questa?» brontolò Marino. «Non ce l'hanno un caffè normale? E lo zucchero?» chiese alla cameriera. La donna gliene porse alcune bustine. «Scusi, ma io volevo un café crème», precisai. La donna fece di sì con la testa. Marino ne bevve quattro, mangiò due baguette al prosciutto e fumò tre sigarette nel giro di venti minuti. «Sai una cosa?» gli dissi quando fummo saliti sul treno ad alta velocità. «Mi dispiace vederti tentare quotidianamente il suicidio.» «Tranquilla», mi rispose sedendosi di fronte a me. «Se cercassi di seguire una vita più sana, lo stress mi ucciderebbe.» La carrozza era quasi vuota e i pochi passeggeri sembravano assorti nella lettura del giornale. Il silenzio ci spinse a parlare a voce bassa, anche perché il treno partì quasi senza emettere alcun rumore. Uscimmo dalla stazione e ci ritrovammo ben presto nella campagna, sotto un cielo celeste. Avevo caldo e sete. Cercai di dormire, con il sole negli occhi. Mi risvegliai nel sentire una signora inglese che parlava al cellulare a pochi sedili di distanza da me. Un signore dall'altra parte del corridoio sta-
va completando un cruciverba facendo stridere la matita sul foglio. Incrociammo un altro treno e, vicino a Lione, il cielo divenne bianco e cominciò a nevicare. Marino era di umore sempre più cattivo: guardava fuori del finestrino e quando scendemmo a Lyon Part-Dieu mi trattò con sufficienza. Sul taxi non spiccicò parola e io, ripensando a quello che mi aveva detto la sera prima, mi arrabbiai ulteriormente. Arrivammo nella parte più antica della città, alla confluenza della Saona nel Rodano, dove le case e i palazzi arroccati sui colli mi facevano venire in mente Roma. Stavo malissimo e avevo il cuore gonfio. Mi sentivo sola come non ero mai stata in tutta la mia vita, quasi non esistessi ma fossi un'ombra nell'incubo di qualcun altro. «Ho perso le speranze», mi confessò di punto in bianco Marino. «Mi piacerebbe se succedessero delle cose, ma non oso più sperarci. Tanto non serve. Mia moglie mi ha lasciato un sacco di tempo fa e non ho più trovato nessun'altra. Adesso sono sospeso dal servizio e tu mi proponi di venire a lavorare per te. Se lo facessi, poi tu non mi rispetteresti più.» «Figurati!» «È vero, invece. Quando lavori per qualcuno, cambia tutto. E tu lo sai meglio di me.» Aveva l'aria sconsolata e stanca, le spalle curve sotto il peso di una vita carica di tensione e sofferenza. Aveva la camicia di jeans sporca di caffè e pantaloni troppo larghi. Avevo notato che, più ingrassava, più si comprava roba grande, come se servisse a qualcosa. «Sai, Marino? Non è molto gentile farmi capire che lavorare per me sarebbe la cosa peggiore che ti possa capitare.» «Non la peggiore, forse. Ma quasi», replicò. 33 La sede dell'Interpol si ergeva solitaria nel Parc de la Tête d'Or come una fortezza di cristallo che non sembrava assolutamente ciò che era. Ero sicura che quasi nessuno di coloro che ci passavano davanti in macchina intuisse ciò che si svolgeva al suo interno. Il viale di platani che la ospitava non aveva nome così che, se non si sapeva dove andare, ci si arrivava difficilmente. Non c'erano targhe con scritto Interpol. Anzi, non c'erano targhe di sorta. Antenne paraboliche e non, barriere di cemento e telecamere erano poco
visibili e la recinzione di metallo verde con il filo spinato in cima era ben mascherata dietro piante e alberi. La segreteria dell'unica organizzazione internazionale di polizia criminale del mondo emanava un senso di pace e di decoro, permettendo com'era giusto a chi vi lavorava di guardare fuori, senza lasciare che nessuno guardasse dentro. Quella mattina fredda e nuvolosa l'albero di Natale sul tetto chinava ironicamente il capo alle feste imminenti. Quando premetti il pulsante del citofono al cancello per avvisare chi di dovere del nostro arrivo, non vidi nessuno. Una voce ci chiese di identificarci e attese la risposta. Quindi la serratura scattò e Marino e io ci incamminammo lungo un sentiero che portava a una palazzina la cui porta si aprì automaticamente. Ci venne incontro una guardia in giacca e cravatta, che aveva l'aria di essere in grado di sollevare di peso Marino e lanciarlo fino a Parigi. Un'altra guardia, seduta dietro a un vetro antiproiettile, fece scivolare un cassetto verso di noi per darci un pass in cambio dei nostri passaporti. Posammo i nostri effetti personali su un nastro trasportatore perché venissero esaminati ai raggi X e la guardia che ci aveva accolto ci spiegò a gesti che dovevamo passare, uno per volta, in quello che sembrava un tubo pneumatico trasparente che andava dal pavimento al soffitto. Ubbidii, per quanto un po' timorosa di venire risucchiata chissà dove. Sentii una porta di plexiglas che si chiudeva e un'altra che si apriva dall'altra parte, mentre ogni più piccola parte di me veniva esaminata. «Cos'è 'sta roba? Star Trek?» chiese Marino una volta che mi ebbe raggiunto dall'altra parte. «E se fa venire il cancro o a noi uomini dà qualche altro problema?» «Piantala, Marino.» Dopo quella che ci parve un eternità, da un portico di unione che collegava la palazzina all'edificio principale spuntò un uomo molto diverso da quello che mi aspettavo. Aveva la camminata elastica di un giovane atleta e un risico perfetto. Indossava un abito di flanella antracite di taglio squisito, con la camicia bianca e cravatta di Hermès sui toni del bordeaux, del verde e del blu. Quando ci strinse la mano, notai che aveva un orologio d'oro. «Piacere, Jay Talley. Scusate se vi ho fatto aspettare», si presentò. Mi sentii trapassare da parte a parte dai suoi occhi nocciola e credetti di capire subito con che tipo avevo a che fare, convinta com'ero che gli uomini belli fossero tutti uguali. Mi resi conto che anche Marino l'aveva in-
quadrato. «Ci siamo parlati per telefono», mi disse, come se potessi essermene dimenticata. «E da allora non ho più chiuso occhio», risposi senza riuscire a togliergli gli occhi di dosso. «Volete seguirmi?» Marino mi lanciò un'occhiata e fece un gesto alle spalle di Talley per segnalarmi che a suo parere era gay. Talley aveva spalle larghe, fianchi stretti e il profilo di una divinità romana, con le labbra carnose e il mento volitivo. Mi chiesi quanti anni potesse avere. La carica che ricopriva era molto ambita e di solito veniva occupata da gente di un certo livello e con una certa anzianità, ma Talley dimostrava una trentina d'anni appena. Ci accompagnò in un atrio di marmo dai soffitti altissimi, inondato di luce, con un pavimento a mosaico che raffigurava il mondo. Notai che gli ascensori erano di cristallo. Superata una serie di serrature elettroniche, citofoni e combinazioni, e sorvegliati da un congruo numero di telecamere, arrivammo al terzo piano. Sembrava di essere in una reggia scintillante, in cui Talley pareva risplendere di luce propria. Mi sentivo un po' oppressa e risentita perché l'idea di andare lì non era stata mia e non mi sentivo padrona della situazione. «Cosa c'è qui sopra?» chiese maleducatamente Marino. «Il quarto piano», rispose Talley imperturbabile. «Sul pulsante non c'è numero e mi pareva che ci volesse la chiave, per arrivarci», continuò Marino guardando il soffitto dell'ascensore. «Mi chiedevo se è lì che tenete tutti i computer.» «No. È l'abitazione del segretario generale», rispose Talley affabile, come se non ci fosse nulla di strano. «Davvero?» «Per motivi di sicurezza vive qui con la famiglia», spiegò Talley passando davanti a una serie di uffici dall'aria normale, popolati di persone dall'aria normale. «Stiamo andando da lui.» «Bene. Chissà che non ci dica che cosa siamo venuti a fare fin qui», replicò Marino. Talley aprì un'altra porta, questa volta di legno massiccio, scuro, e fummo accolti educatamente da un signore con l'accento inglese che si presentò come il responsabile delle comunicazioni. Ci offrì un caffè, avvertì il segretario generale George Mirot che eravamo arrivati e pochi minuti dopo
ci fece entrare nel suo ufficio privato. Mirot era un uomo imponente e con i capelli grigi; era seduto dietro a una scrivania con il piano di pelle scura, fra armi antiche, medaglie e altri oggetti appesi alle pareti. Si alzò e ci strinse la mano. «Accomodatevi», ci disse. Ci indicò un salottino davanti alla finestra che dava sul Rodano. Talley, nel frattempo, prese dal tavolo una spessa cartella. «Mi scuso per il disagio che avete avuto: chissà come sarete stanchi», ci disse Mirot in un inglese quasi perfetto. «Non so come ringraziarvi. Vi abbiamo dato un preavviso tanto breve...» Il viso impassibile e il portamento militare non lasciavano trapelare emozione alcuna; in sua presenza tutto sembrava più piccolo. Si sedette su una poltroncina e accavallò le gambe. Marino e io ci sistemammo sul divano e Talley posò la cartella sul tappeto. «Agente Talley», disse Mirot. «Cominci lei. Non vi dispiace se arriviamo subito al dunque, vero?» ci chiese. «Abbiamo poco tempo.» «Prima di tutto vorrei spiegare il motivo per cui l'ATF è coinvolta nel caso del cadavere non identificato ritrovato all'interno di un container nel porto di Richmond», cominciò Talley rivolgendosi a Marino e a me. «Voi conoscete l'HIDTA, vero? Non fosse altro per via di sua nipote Lucy.» «Mia nipote non c'entra con questa faccenda», dichiarai lievemente sulle spine. «Come certamente saprete, l'HIDTA si occupa fra l'altro di evasi rei di crimini violenti», continuò come se non mi avesse neanche sentito. «L'FBI, la DEA, le forze dell'ordine competenti e naturalmente l'ATF collaborano attivamente nei casi più difficili e particolarmente urgenti.» Prese una sedia e si sedette di fronte a me. «Circa un anno fa costituimmo una task-force allo scopo di indagare su una serie di omicidi avvenuti a Parigi e che ritenevamo commessi dallo stesso individuo.» «Non ero al corrente di un serial killer parigino», dissi. «In Francia l'informazione è più controllata rispetto agli Stati Uniti», intervenne il segretario generale. «Gli omicidi sono stati resi noti, naturalmente, ma senza grande scalpore e soprattutto senza entrare nei dettagli. I parigini sanno che sono stati commessi degli omicidi, è stato raccomandato alle donne di non aprire la porta di casa agli sconosciuti e così via, ma non sono state divulgate altre informazioni. Secondo noi, è inutile svelare i particolari raccapriccianti, le sevizie, gli abiti strappati, le morsicature...»
«Perché lo chiamate Loup-Garou?» domandai. «È stato lui stesso a chiamarsi così», rispose Talley lanciandomi uno sguardo intenso e penetrante. «L'assassino?» domandai. «Si fa chiamare lupo mannaro?» «Sì.» «E voi come fate a saperlo?» si intromise Marino. Mi resi conto dal suo atteggiamento che stava per perdere la pazienza. Talley esitò e guardò Mirot. «Come ha fatto a dirvelo?» insistette Marino. «Ha lasciato la firma vicino ai cadaveri? Ve lo ha scritto su un foglietto? È questo che mi dà sui nervi delle organizzazioni grosse. «Per fare un lavoro come si deve ci vuole gente come me, abituata a infilare le mani nel fango. Task-force; computer e balle varie si perdono a snocciolare supposizioni intelligenti, quando invece il più delle volte l'assassino non è intelligente per niente...» «È qui che si sbaglia», lo interruppe Mirot. «Il Loup-Garou è molto intelligente. E aveva i suoi buoni motivi per farci sapere come si chiamava. Per lettera.» «A chi ha scritto una lettera?» «A me», rispose Talley. «Quando?» domandai io. «Più o meno un anno fa. Dopo il suo quarto omicidio.» Aprì la cartella e tirò fuori una lettera protetta da una busta di plastica. Me la porse, sfiorandomi la mano con le dita. Era in francese, ma riconobbi la strana scrittura squadrata che avevo visto sulla scatola di cartone nel container. La carta era intestata con un nome di donna e sporca di sangue. «Dice», cominciò a tradurre Talley, «Per i peccati di una dovranno morire tutte. Il lupo mannaro. La carta intestata e il sangue sono della vittima. Ciò che all'epoca mi lasciò perplesso è che sapesse che mi occupavo io delle indagini. E qui arriviamo al motivo per cui vi abbiamo fatto venire in Francia: abbiamo infatti ragione di credere che l'assassino sia membro di una famiglia potente, perfettamente al corrente di ciò che lui fa e decisa a impedirne la cattura. Questo non tanto per proteggere lui, quanto se stessi.» «Pensate che siano arrivati a chiuderlo dentro a un container, per proteggersi?» domandai. «Che a un certo punto non ne abbiano potuto più e l'abbiano mandato a migliaia di chilometri da Parigi, morto e senza documenti?»
Mirot mi squadrò e cambiò posizione sulla sedia, giocherellando con una penna d'argento. «Io non credo», mi rispose Talley. «Anche se in un primo momento è venuto in mente anche a me, dato che tutto faceva pensare che il morto di Richmond fosse il killer: la descrizione fisica, per quanto possibile tenuto conto dello stato in cui vi arrivò, il fatto che su uno dei cartoni ci fosse scritto Loup-Garou, gli abiti firmati. Quando però lei ci ha informato del tatuaggio, che ha descritto come "occhi gialli che potrebbero essere stati modificati nel tentativo di farli sembrare più piccoli"...» «Scusate un attimo», interruppe Marino. «Questo Garou aveva un tatuaggio con occhi gialli?» «No», rispose Talley. «Lo aveva suo fratello.» «Lo aveva?» «Ci arriviamo subito. E così arriviamo anche al motivo per cui sua nipote Lucy è legata al caso», fece Talley riempiendomi di angoscia. «Avete mai sentito parlare di un'organizzazione criminale internazionale detta dei "Centosessantacinque"?» «Oh, no!» esclamai. «A causa della loro predilezione per le pallottole Speer Gold Dot da centosessantacinque grani», continuò Talley. «Che contrabbandano e utilizzano in maniera praticamente esclusiva, tanto che generalmente riconosciamo la loro mano proprio grazie alle munizioni.» Pensai al bossolo che era stato ritrovato nel Quik Cary. «Quando ci avete notificato l'assassinio di Kim Luong - e meno male che lo avete fatto - abbiamo incominciato a mettere insieme i pezzi», spiegò Talley. Intervenne Mirot. «Tutti i membri del cartello hanno un tatuaggio con due cerchietti gialli.» Disegnò su un blocco due tondini delle dimensioni di una monetina. «Simbolo di appartenenza a una banda violenta e molto potente, a testimonianza del fatto che una volta che se ne fa parte, uscirne è impossibile, così come è impossibile cancellare un tatuaggio. L'unico modo per lasciare il clan dei Centosessantacinque è morire.» «Oppure cercare di rimpicciolire i due cerchietti gialli trasformandoli in occhi, magari di gufo. In fondo è un modo rapido e abbastanza semplice. E poi fuggire in un luogo in cui nessuno ti verrà più a cercare.» «Come il porto di Richmond, in Virginia», aggiunse Talley. Mirot annuì. «Esattamente.»
«Ma perché?» domandò Marino. «Come mai questo a un certo punto piglia e scappa? Che cosa gli è saltato in testa?» «Aveva tradito il cartello e la sua famiglia. Crediamo che sia lui, il morto ritrovato nel container», rispose Talley. «Thomas Chandonne. Figlio del padrino - per così dire - della banda dei Centosessantacinque. Thomas aveva sgarrato, trafficando droga e armi per conto proprio e fregando la famiglia.» «Badate bene che la famiglia Chandonne vive dal diciassettesimo secolo sull'Île Saint-Louis, una delle zone più antiche e ricche di Parigi, i cui abitanti si fanno chiamare Louisiens e sono molto chiusi e orgogliosi», fece notare Mirot. «Pensate che alcuni di essi non si considerano neppure parigini, sebbene l'isola sia al centro della città, in mezzo alla Senna. «Balzac, Voltaire, Baudelaire, Cézanne sono alcuni dei più noti personaggi che vi hanno risieduto», spiegò. «Ed è lì che la famiglia Chandonne si nasconde dietro la facciata di nobiltà, le azioni filantropiche e la politica, a dirigere uno dei cartelli criminosi più potenti e sanguinari del mondo.» «Non siamo mai riusciti a incastrarli», spiegò Talley. «Ma, con il vostro aiuto, adesso abbiamo la possibilità di farcela.» «E come?» domandai, non avendo nessuna intenzione di avere a che fare con un'organizzazione tanto famigerata. «Tanto per cominciare verificando che il cadavere nel suo obitorio sia effettivamente quello di Thomas. Io non ho dubbi, ma purtroppo la legge vuole fatti, non parole.» Mi sorrise. «DNA, impronte, lastre? Che cosa abbiamo per effettuare dei confronti?» chiesi intuendo già la risposta. «I criminali professionisti stanno molto attenti a certe cose», disse Mirot. «Non abbiamo trovato niente», replicò Talley. «Ed è qui che entra in scena il Loup-Garou. Poiché attraverso il suo DNA potremmo identificare il fratello.» «Volete mettere un annuncio sul giornale chiedendogli di farci cortesemente avere un campione di sangue?» fece Marino sempre più acido. «Secondo noi, le cose sono andate così», riprese Talley come se non l'avesse neanche sentito. «Il 24 novembre scorso, due giorni prima che la Sirius partisse per Richmond, l'uomo che si fa chiamare Loup-Garou tentò quello che riteniamo sia stato il suo ultimo omicidio a Parigi. Vi prego notare che ho usato il verbo tentare. Infatti la donna gli sfuggì. «Erano le venti e trenta circa», continuò Talley. «Quando la donna sentì bussare alla porta, andò ad aprire e trovò sulla soglia un uomo educato e
forbito, che le diede l'impressione di essere una persona raffinata; indossava un bel cappotto scuro, lungo, forse di pelle, e una sciarpa al collo. Le raccontò di aver avuto un piccolo incidente d'auto e le chiese il permesso di usare il suo telefono per chiamare la polizia. Fu molto convincente, tanto che lei stava per lasciarlo entrare quando il marito la chiamò dall'altra stanza; a quel punto lo sconosciuto scappò via.» «Lo vide bene?» domandò Marino. «Aveva il cappotto, la sciarpa, forse anche un cappello. È abbastanza sicura che tenesse le mani in tasca e si stringesse nelle spalle per il freddo», rispose Talley. «Non lo vide in faccia perché era buio. Nel complesso ebbe l'impressione di un uomo educato e ammodo.» Rimase zitto un istante. «Volete un caffè? Un bicchiere d'acqua?» chiese poi, guardando me. Vidi che aveva il buco all'orecchio destro, ma non notai il brillantino finché non si chinò a versarmi da bere. «Due giorni dopo il tentato omicidio, la Sirius partì da Anversa insieme all'Exodus, una nave marocchina che trasporta regolarmente fosfato in Europa», riprese Talley tornando a sedere. «Ma Thomas Chandonne aveva fatto in modo che la Exodus finisse a Miami con un carico di armi ed esplosivo nascosto fra il fosfato. Noi ne eravamo al corrente e forse adesso comincerete a capire perché la HIDTA è collegata alla vicenda. L'operazione cui prese parte sua nipote avrebbe dovuto sventare una delle tante attività illecite che Thomas curava per proprio conto.» «Ma la sua famiglia aveva mangiato la foglia», intervenne Marino. «Riteniamo che Thomas fosse riuscito a farla franca tanto a lungo perché usava rotte molto particolari, falsificava i documenti e faceva le cose con cura», rispose Talley. «In termini giuridici, si chiama appropriazione indebita, in termini volgari fregare, nella famiglia Chandonne suicidio. Non sappiamo con esattezza che cosa sia successo, ma qualcosa successe senz'altro perché noi eravamo sicuri che Thomas fosse a bordo dell'Exodus e invece non c'era. «E perché non c'era?» Talley lo disse come fosse una domanda retorica. «Perché aveva capito di essere stato scoperto. Si era modificato il tatuaggio e aveva scelto una destinazione relativamente sicura.» Mi guardò. «Da questo punto di vista, Richmond fu una scelta azzeccata: è un porto piccolo, in cui arrivano molte navi da Anversa.» «Quindi Thomas, sotto falso nome...» cominciai a dire.
«Uno dei tanti», si intromise Mirot. «Si imbarcò come marinaio sulla Sirius con l'intenzione di sbarcare sano e salvo a Richmond mentre la Exodus andava a Miami senza di lui», disse Talley. «Ma cosa c'entra il lupo mannaro con tutto questo?» voleva sapere Marino. «Possiamo solo azzardare delle ipotesi», rispose Mirot. «Il Loup-Garou era sempre più incontrollabile, l'ultima vittima gli era sfuggita, forse era stato visto. Probabilmente i suoi familiari ne avevano abbastanza e avevano deciso di farlo smettere una volta per tutte. Ma lui se n'era accorto e contemporaneamente era venuto a sapere che il fratello aveva deciso di fuggire a bordo della Sirius e lo aveva pedinato, scoprendo che si era fatto cambiare il tatuaggio e tutto il resto. A quel punto è possibile che lo abbia annegato e abbia nascosto il corpo nel container cercando di farlo passare per se stesso, ovvero il Loup-Garou.» «Gli ha messo addosso i propri abiti?» mi chiese Talley. «Se il suo scopo era prendere il posto di Thomas sulla nave, non poteva certo presentarsi a lavorare vestito Armani.» «Che cosa avete ritrovato nelle tasche?» Talley mi stava vicinissimo. «Accendino, soldi...» risposi. «Ha trasferito tutto dalle tasche di Thomas in quelle dei calzoni firmati che il cadavere aveva indosso quando è arrivato a Richmond.» «Quindi ha spostato la roba dalle tasche, ma trattenuto i documenti.» «Infatti», replicai. «E non sappiamo se il trasferimento sia avvenuto quando Thomas era già morto, anche se credo che sia difficile. È più probabile che abbia costretto la vittima a svestirsi.» «Già», affermò Mirot. «Stavo per dirlo io. Si devono essere scambiati gli abiti prima dell'omicidio, spogliandosi entrambi.» Pensai alla biancheria alla rovescia, al posteriore e ai gomiti sporchi di terra. Le scarpe potevano essersi graffiate in seguito, dopo che Thomas era stato annegato, quando il suo cadavere era stato trascinato nel container. «Quante persone contava l'equipaggio della Sirius?» domandai. Mi rispose Marino. «Sull'elenco ne risultano sette. Sono stati interrogati tutti, ma non da me, visto che non parlo la lingua. Ha avuto l'onore di farlo un collega della dogana.» «Si conoscevano tutti fra loro?» domandai. «No», rispose Talley. «E non è strano, se si pensa che quelle navi sono sempre per mare. Due settimane all'andata e due al ritorno, senza fermarsi
mai. È ovvio che l'equipaggio fa i turni. Per non parlare del fatto che quella è gente che cambia lavoro spesso. Quindi su un equipaggio di sette persone, magari soltanto due si conoscevano.» «Sono rientrati tutti e sette ad Anversa?» domandai. «Secondo Joe Shaw», rispose Marino, «nessuno di loro è mai uscito dal porto di Richmond. Hanno mangiato e dormito a bordo e poi sono ripartiti.» «Be'», esclamò Talley. «Non è andata proprio così. Uno è stato chiamato dalla famiglia per un'emergenza. L'agente della compagnia di navigazione l'ha accompagnato all'aeroporto di Richmond, ma non l'ha visto salire sull'aereo. Era registrato come Pascal Léger, nome che non risulta da nessuna parte e che probabilmente era quello falso utilizzato da Thomas prima di morire e quindi adottato dal Loup-Garou.» «Ho dei problemi a pensare a questo mostro come al fratello di Thomas Chandonne», dissi. «Che cosa vi rende tanto sicuri?» «Come dicevamo, il tatuaggio modificato», rispose Talley. «Ma anche i dati che ci avete passato voi a proposito dell'omicidio di Kim Luong. Il fatto che l'abbia picchiata, morsicata, le abbia strappato i vestiti e tutto il resto... Un modus operandi unico e terrificante. Da bambino, Thomas Chandonne diceva ai suoi compagni di scuola di avere un fratello che sembrava un'espèce de sale gorille, uno scimmione stupido e orribile che doveva restare sempre chiuso in casa.» «Ha detto lei stesso che non abbiamo a che fare con uno stupido», gli feci notare. «Decisamente», ribadì Mirot. «Non abbiamo trovato traccia di questo fratello. Non risultano nomi, né niente», disse Talley. «Ma noi siamo convinti che esista.» «Capirete meglio quando prenderemo in considerazione i casi uno per uno», disse Mirot. «Possiamo farlo adesso?» chiesi. 34 Jay Talley prese la cartella e tirò fuori diversi plichi di documenti, che posò sul tavolino davanti a me. «Li abbiamo tradotti in inglese», spiegò. «Le autopsie sono state effettuate all'Institut Médico-Légal di Parigi.» Cominciai a sfogliarli. Tutte le vittime erano state massacrate di botte e
le foto documentavano lividi e ferite a stella dove la pelle si era lacerata sotto i colpi di un'arma che mi pareva diversa da quella che aveva sfigurato Kim Luong. «Perforazioni sul cranio», commentai girando pagina. «Deve aver usato un martello o qualcosa del genere. Non avete ritrovato armi, vero?» «Vero», confermò Talley. Tutte le vittime erano sfigurate e presentavano ematomi subdurali, emorragie intratecali e nella cavità toracica e segni di morsicature. L'età andava dai ventuno ai cinquantadue anni. «Frantumazione massiva dell'osso parietale sinistro, fratture depresse che hanno spinto la lamina ossea interna del cranio nella massa cerebrale sottostante», lessi ad alta voce scorrendo un referto dopo l'altro. «Ematomi subdurali erniali. Lacerazione del tessuto cerebrale sottostante con emorragia subaracnoidea... fratture frammentate... frattura dell'osso frontale destro estendentesi lungo la linea mediana dell'osso parietale destro... I coaguli indicano che la vittima è sopravvissuta almeno sei minuti dopo che le è stato infetto il colpo...» Alzai gli occhi e decretai: «È arrabbiato e infierisce sulle vittime. Perde la testa». «La spinta è sessuale, secondo lei?» chiese Talley guardandomi negli occhi. «Lo è sempre», fece Marino. Le vittime erano tutte mezze nude, con gli abiti strappati dalla vita in su, scalze. «È strano», dissi. «Sembra che natiche e genitali non gli interessino.» «È attirato solo dal petto», commentò Mirot. «Il seno materno», continuai. «Se è vero che da piccolo lo hanno tenuto chiuso in casa, potrebbe soffrire di patologie interessanti.» «Le deruba?» chiese Marino. «Non sempre, ma in qualche occasione lo ha fatto. Soldi, nient'altro. Nulla che possa essere rintracciato, come gioielli», rispose Talley. Marino si toccò il pacchetto di sigarette come faceva sempre quando aveva disperatamente voglia di fumare. «Prego, non si preoccupi», disse Mirot. «Potrebbe avere ucciso altrove? Oltre a Richmond, intendo, sempre che sia stato lui ad ammazzare Kim Luong», dissi. «È stato lui, è stato lui», fece Marino. «Il modus operandi è riconoscibilissimo.»
«Non sappiamo quante volte abbia ucciso», replicò Talley. «Né dove.» Intervenne Mirot: «Se vogliamo provare a fare un collegamento, disponiamo di un software in grado di trovare eventuali punti in comune con altri delitti nell'arco di due minuti. Ma potrebbero esserci casi che non sono stati neppure segnalati. L'Interpol è formata da centosettantasette stati membri, dottoressa Scarpetta. Alcuni si rivolgono a noi più di altri». «È solo un'idea», disse Talley. «Ma ho il sospetto che il nostro non sia uno che viaggia molto. Soprattutto se ha un handicap che lo ha costretto a stare chiuso in casa. Perché secondo me, quando ha cominciato a uccidere, abitava ancora con la famiglia.» «L'intervallo fra un omicidio e l'altro si sta riducendo?» chiese Marino. «Gli ultimi due omicidi di cui siamo al corrente sono stati commessi in ottobre; poi c'è stato il tentativo di cui vi parlavo. In tutto ha colpito tre volte in cinque settimane», rispose Talley. «A conferma del nostro timore che sia sempre più incontrollabile, che si sia spinto troppo in là e dunque sia fuggito.» «Forse sperava di ricominciare daccapo e smettere di uccidere», commentò Mirot. «Non funziona così», osservò Marino. «Non ho visto prove di laboratorio», notai, rabbrividendo al pensiero di dove stavamo arrivando. «Non capisco come mai. Non avete fatto tamponi, prelevato capelli, fibre, unghie rotte? Possibile che non sia stato trovato niente?» Mirot guardò l'ora. «Almeno le impronte digitali!» esclamai incredula. Mirot si alzò in piedi. «Agente Talley, vuole portare a pranzo i nostri ospiti?» disse. «Purtroppo io non vi posso tenere compagnia.» Ci accompagnò alla porta. «Grazie ancora di essere venuti», disse a Marino e a me. «Capisco che per voi è solo l'inizio, ma spero che collaborando riusciremo in qualche modo a porre fine a questo massacro.» La sua segretaria premette un tasto sul telefono. «Sottosegretario Arvin, è in linea?», chiese alla persona in attesa. «Posso passarle la telefonata?» Mirot le fece segno di sì, tornò in ufficio e chiuse piano la porta. «Non ci avrete fatto venire fin qui solo per parlarci di quei casi», dissi a Talley mentre percorrevamo un labirinto di corridoi.
«Volevo farvi vedere una cosa», disse. Dietro un angolo, ci trovammo davanti a una galleria spettrale di ritratti di morti. «Cadaveri non identificati», spiegò Talley. «Codice nero.» Le foto erano in bianco e nero, a grana grossa, complete di impronte digitali e altri segni caratteristici; i dati erano in inglese, francese, spagnolo e arabo. Era evidente che la maggioranza di quegli individui senza nome non aveva avuto una bella morte. «Lo riconosce?» mi chiese Talley indicandomi la più recente acquisizione. Fortunatamente non mi ritrovai di fronte il volto grottesco del cadavere arrivato in obitorio, ma una breve descrizione, uno schema dentale ben poco eccitante e alcune impronte digitali. «A parte queste segnalazioni, l'Interpol non usa supporti cartacei», ci fece notare. Ci accompagnò a un ascensore. «Ogni documento viene scannerizzato e memorizzato nel mainframe, conservato per un periodo limitato di tempo e quindi distrutto.» Premette il pulsante del primo piano. «Dovete pregare che il millennium bug non vi cancelli tutto quanto», commentò Marino. Talley sorrise. A guardia del ristorante c'erano alcune armature e un'aquila di ottone. Ai tavoli erano seduti centinaia di uomini e donne, tutti membri delle forze dell'ordine giunti lì da ogni parte del mondo per combattere organizzazioni dedite ad attività criminali che andavano dal furto di carte di credito alla contraffazione e al traffico di cocaina. Talley e io prendemmo pollo arrosto e insalata; Marino preferì le costine di maiale alla griglia. Ci sedemmo in un angolo. «Il segretario generale di solito non partecipa a questo tipo di riunioni», ci informò Talley. «Per darvi un'idea dell'importanza che dà alla cosa.» «Dobbiamo sentirci onorati?» fece Marino. Talley tagliò un boccone di pollo senza cambiare di mano la forchetta, all'europea. «Non voglio autoconvincermi che questo cadavere non identificato sia Thomas Chandonne solo perché lo spero con tutto il cuore», continuò. «In effetti sarebbe imbarazzante se toglieste la segnalazione dai vostri computer per poi scoprire che quello stronzo è tutt'altro che morto e il
Loup-Garou non c'entra un fico», commentò Marino. «Ci perdereste la faccia e un bel po' di sovvenzioni, non crede?» «Non è questione di perdere o meno la faccia o le sovvenzioni, capitano Marino», precisò Talley imperturbabile. «So che lei si è occupato di moltissimi casi difficili nel corso della sua carriera e si rende conto di quanto è impegnativo. Noi vorremmo che la gente che si sta occupando di questo caso potesse seguirne altri. È indispensabile rompere il muro di omertà intorno a questo assassino e far cadere con lui coloro che lo proteggono. Ci preme molto chiudere una bella volta questa sporca faccenda.» Spinse il vassoio da una parte senza finire di mangiare e prese un pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca. «Uno dei vantaggi dell'Europa», ci comunicò sorridendo, «è che fumare fa male alla salute, ma non è antisociale.» «Posso chiederle una cosa?» continuò Marino. «Se le sovvenzioni non c'entrano, mi spiega come mai spendete tutti questi quattrini in Learjet, Concorde, hotel di lusso e Mercedes?» «I taxi qui sono quasi tutti Mercedes.» «Negli Stati Uniti, noi preferiamo le Chevie e le Ford», replicò ironico Marino. «Sa com'è, sosteniamo l'economia nazionale.» «D'abitudine l'Interpol non usa Learjet e hotel di lusso», spiegò Talley. «E allora come mai?» «Immagino dobbiate chiederlo al senatore Lord», rispose Talley. «Ma vorrei ricordarvi che la criminalità organizzata è incentrata sul denaro, la maggior parte del quale proviene dalle tasche di onesti cittadini e oneste imprese commerciali e produttive, che pertanto desiderano estirparla quanto lo vogliamo noi.» Vidi che Marino serrava la mascella. «In fondo per una grossa impresa comprare due biglietti per il Concorde non è un gran costo, se può servire a stornare alcuni milioni di dollari di strumentazione elettronica, armi o esplosivi.» «Dunque il viaggio ce lo ha pagato la Microsoft o chi per lei?» chiese Marino. Talley stava perdendo la pazienza. Non gli rispose. «Mi risponda, per piacere. Voglio sapere chi mi ha pagato questo viaggio e voglio sapere anche chi mi ha frugato nelle valigie. Un agente dell'Interpol?» insistette Marino. «L'Interpol non ha agenti propri, ma rappresentanti delle varie forze dell'ordine, come ATF, FBI, dipartimenti di polizia e così via.»
«Sì, certo: come la CIA ha le mani pulite.» «Per l'amor del cielo, Marino!» intervenni. «Io voglio sapere chi mi ha frugato nella valigia», continuò paonazzo. «È una cosa che mi fa proprio girare le balle.» «Vedo», disse Talley. «Dovrebbe fare denuncia alla polizia, anche se io sono convinto che sia stato fatto nel vostro interesse. Per evitarvi rogne nel caso vi foste portati appresso una pistola, per esempio.» Marino stette zitto e giocherellò con quello che gli era rimasto nel piatto. «Non me lo dire!» esclamai guardandolo. «Chi non è abituato a viaggiare all'estero può commettere qualche leggerezza», aggiunse Talley. «Soprattutto se è un poliziotto americano abituato a girare armato e non si rende conto di che cosa gli costerebbe fare lo stesso da queste parti.» Marino non fiatò. «Immagino che l'unico motivo per cui vi hanno disfatto i bagagli sia stato di evitarvi guai», continuò Talley posando la cenere. «Ho capito», borbottò Marino. «Dottoressa Scarpetta», disse allora Talley. «Lei sa come funziona la magistratura francese?» «Abbastanza da poter dire che sono contenta che da noi sia diversa.» «I magistrati hanno una nomina a vita. Sono loro a scegliere il medico legale, a decidere quali prove di laboratorio effettuare e persino a stabilire la causa della morte», spiegò Talley. «Succede anche in certi stati americani», replicai. «Ma, quando ci sono di mezzo politica e voti...» «Potere», mi interruppe Talley. «Corruzione. Le indagini dovrebbero essere separate dalla politica.» «Non lo sono mai, agente Talley. Neanche qui, nell'organizzazione in cui lavora lei», dissi. «Nell'Interpol?» chiese lievemente divertito. «L'Interpol non ha nessun motivo di agire in maniera scorretta, per quanto possa sembrare altisonante dirlo. Noi non ci attribuiamo il merito di nulla, non abbiamo pubblicità, auto, armi o divise, non abbiamo neppure conflitti di competenza. Il nostro budget è ridottissimo, tenuto conto di quello che facciamo. Per molti, è come se non esistessimo.» «Perché usa la prima persona plurale?» chiese Marino. «Non capisco più niente. Un momento fa era dell'ATF e adesso è un agente segreto...» Talley inarcò un sopracciglio e buttò fuori il fumo. «Un agente segreto?»
domandò. «Come mai lavora qui?» chiese Marino. «Mio padre è francese e mia madre americana. Sono cresciuto a Parigi, ma a un certo punto la mia famiglia si è trasferita a Los Angeles.» «E poi?» «Mi sono iscritto a giurisprudenza, ma non mi piaceva e sono entrato nell'ATF.» «Quanto tempo fa?» continuò Marino. «Sono cinque anni, ormai.» «Davvero? E da quanto tempo è qui?» Marino stava diventando sempre più aggressivo. «Due anni.» «Bella vita, eh? Tre anni sul campo e poi qui a bere vino in questa reggia di cristallo fra bella gente.» «Sono stato fortunato», replicò Talley con una punta di asprezza. «Ha ragione. Immagino che il fatto che io parli quattro lingue e abbia girato il mondo mi abbia facilitato un po' le cose. Così come aver studiato informatica e diritto internazionale a Harvard.» «Io vado al gabinetto», fece Marino alzandosi. «Harvard è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso», spiegai a Talley appena Marino si fu allontanato. «Non volevo farlo arrabbiare», si giustificò. «Certo che voleva farlo arrabbiare», replicai. «Le ho dato quest'impressione?» «Di solito non è così maleducato», dissi. «Ma il nuovo vicecomandante di polizia lo ha tolto dalla sezione Investigativa, lo ha sospeso e ha fatto di tutto per toglierselo di torno.» «Come si chiama questo prepotente?» chiese Talley. «È una donna», risposi. «E a volte le donne sono peggio degli uomini. Forse perché si sentono più insicure, minacciate. Invece di aiutarsi a vicenda, tendono a mettersi i bastoni fra le ruote l'una con l'altra.» «Lei non mi sembra così», replicò osservandomi. «Il sabotaggio richiede tempo e fatica.» La mia risposta lo lasciò perplesso. «Le sembrerò brutale, agente Talley, perché non ho nulla da nascondere e vado diritta al punto. Può darsi che io litighi o discuta animatamente con lei, ma sappia che lo farò comunque senza astio, perché non mi interessa veder soffrire la gente. A differenza di Diane Bray, che avvelena il suo
prossimo e resta a guardare compiaciuta la loro lenta agonia.» «Diane Bray. Bene, bene», fece Talley. «Una serpe in un vestito di velluto.» «La conosce?» domandai sorpresa. «E andata via da Washington per rovinare altri dipartimenti di polizia. Sono stato in sede per qualche tempo, prima di essere trasferito a Parigi. La Bray cercava di coordinare quello che facevano i suoi sottoposti e quello che facevamo noi. Per noi intendo FBI, servizi segreti, eccetera. Non che ci sia niente di male a lavorare insieme, ma non era compito suo, non so se mi spiego. Voleva solo mettersi in mostra, e ci è riuscita.» «Non voglio perdere tempo a parlare di lei», dissi. «Mi ha già rubato fin troppe energie.» «Gradisce un dessert?» «Perché non sono state effettuate prove di laboratorio nei casi di omicidio?» ricominciai. «Un caffè?» «Gradirei una risposta, agente Talley.» «Vogliamo darci del tu?» «Perché mi avete fatto venire fin qui?» Un po' titubante, lanciò un'occhiata alla porta come se temesse che arrivasse qualcuno che preferiva non vedere. Forse stava pensando a Marino. «Se il killer è Chandonne, come sospettiamo fortemente, la sua famiglia non sarebbe affatto felice che venisse reso noto che il figlio ha l'abitudine di massacrare di botte le donne. Tantopiù che ha cercato di nasconderne del tutto l'esistenza», aggiunse guardandomi negli occhi. «Tenendolo segreto e segregato.» «Come fate a sapere che esiste, allora?» «Sappiamo che la madre ha partorito due figli, nessuno dei quali risulta morto.» «Non risulta nemmeno che sia vivo, però.» «Sulla carta no. Ma non esiste solo quella. La polizia ha interrogato molte persone, soprattutto dell'Île Saint-Louis. Oltre che i compagni di scuola di Thomas, anche altri avrebbero confermato le voci secondo cui un misterioso individuo passeggerebbe sulle sponde dell'isola la notte o la mattina presto, quando è buio.» «Passeggia soltanto o nuota anche?» chiesi pensando alle diatomee di acqua dolce all'interno dei vestiti del cadavere. Talley mi guardò sorpreso.
«È singolare che tu me lo chieda. È proprio così: alcuni hanno dichiarato di aver visto un uomo nuotare nudo nella Senna nei pressi dell'Île SaintLouis, anche d'inverno. Esclusivamente al buio.» «Tu credi a queste voci?» domandai. «Il mio lavoro non è credere o non credere.» «Che cosa vuoi dire?» «Che il nostro compito è facilitare le indagini e la collaborazione fra i vari enti, indipendentemente da chi siano o dove operino. Siamo la sola organizzazione al mondo capace di fare questo. Non sono qui per giocare al detective.» Si interruppe e mi guardò negli occhi, scrutandomi alla ricerca di qualcosa che avevo paura di mostrargli. «Non sono un esperto di profili psicologici, Kay.» Dunque sapeva ai Benton. Del resto era naturale che lo sapesse. «Non ne avrei né le capacità né l'esperienza», precisò. «Lungi da me cercare di tratteggiare la personalità di quest'uomo. Non so che faccia abbia, come cammini o come parli ma so che parla francese e forse anche altre lingue. «Una delle sue vittime era italiana», continuò. «E parlava solo la sua lingua madre. Viene spontaneo pensare che si sia fatto capire, altrimenti lei non gli avrebbe aperto la porta.» Si appoggiò allo schienale e prese in mano il bicchiere d'acqua. «Di certo i mezzi per studiare li aveva», disse. «Probabilmente veste bene, anche perché Thomas aveva fama di apprezzare abiti firmati e gioielli, oltre alle automobili veloci, e probabilmente li passava al povero fratello nascosto nello scantinato.» «I jeans che il cadavere non identificato aveva indosso erano larghi in vita», ricordai. «Thomas ingrassava e dimagriva abbastanza facilmente. Sappiamo che cercava di mantenersi in forma ed era molto vanitoso. Chissà», continuò. «Una cosa è certa, però: se suo fratello è strano come si dice in giro, dubito che uscisse a fare spese.» «Credi veramente che questa persona tornasse a casa tutto insanguinato dopo un omicidio e i suoi gli lavassero i panni sporchi e lo proteggessero?» «Qualcuno lo ha protetto», replicò Talley. «Non a caso le indagini si bloccavano all'obitorio. Non sappiamo che lavoro sia stato fatto lì, a parte quello che ci è arrivato e ti abbiamo fatto vedere.»
«Pensi che il magistrato lo coprisse?» «Se non lui, qualche altro personaggio influente. Più di uno, forse.» «Come avete avuto i referti dell'autopsia?» «Attraverso l'iter normale», rispose. «Abbiamo fatto domanda alla polizia parigina e questo è quanto abbiamo ricevuto. Non ci sono state prove di laboratorio, indagati, processi. Non è successo niente, a parte il fatto che a un certo punto la famiglia si deve essere stufata di proteggere il figliolo psicopatico che, oltre a essere una vergogna, era diventato anche un pericolo.» «Perché dimostrare che il Loup-Garou è il figlio psicopatico della famiglia Chandonne vi aiuterebbe a sbaragliare il cartello dei Centosessantacinque?» «Tanto per cominciare perché ci auguriamo che il Loup-Garou, una volta imputato di una serie di delitti e soprattutto di quello commesso in Virginia, parli... Be', potremmo offrirgli in cambio qualcosa. A parte il fatto che, avendo identificato i figli di Monsieur Chandonne», aggiunse sorridendo, «otterremmo senza dubbio un mandato per perquisirgli la casa di tre piani sull'isola e l'autorizzazione a rovistare nei loro archivi...» «Sempre che riusciamo a prendere il Loup-Garou», gli feci notare. «Questo è indispensabile.» Mi guardò negli occhi per quella che mi parve un'eternità. «Dobbiamo assolutamente dimostrare che l'assassino è il fratello di Thomas, Kay.» Mi offrì una sigaretta, che non accettai. «Forse sei tu la nostra unica speranza», aggiunse. «La nostra unica chance.» «Sarebbe estremamente rischioso per Marino e me ficcare il naso in questa faccenda», osservai. «La polizia non può entrare nell'obitorio di Parigi a fare domande», disse. «Nemmeno mandando qualcuno sotto copertura. E va da sé che per l'Interpol sarebbe ancora più difficile.» «E perché? Perché la polizia non ci può andare?» «Perché il medico legale che ha effettuato le autopsie con la polizia non vuole parlare. È una donna molto diffidente e non ha tutti i torti. Pare che si fidi di te, invece.» Rimasi zitta. «Se non hai altra motivazione, pensa a quello che è successo a Lucy e Jo», mi disse.
«Non è giusto.» «Sì che è giusto, Kay. È questa la gente con cui abbiamo a che fare, Kay, quella che ha cercato di far saltare le cervella a tua nipote e che poi le ha nascosto dell'esplosivo nella macchina. Mi sembrano esempi molto concreti, no?» «La violenza è sempre concreta.» Avevo i sudori freddi. «Ma quando colpisce qualcuno a cui vuoi bene è diverso», disse Talley. «Non è così?» «Non mi dire quello che devo o non devo sentire.» «Comunque sia, quando colpisce uno a cui vuoi bene, la spietatezza è ancora più insopportabile», continuò imperterrito. «Dobbiamo fermarli, Kay. In fondo hai un debito da pagare: Lucy è viva.» «Dovrei tornare da lei», dissi. «Stando qui potrai aiutarla di più. E anche Jo.» «Non sta a te dirmi che cosa posso o non posso fare per mia nipote e la sua amica. O per me.» «Per noi, Lucy è uno dei nostri migliori agenti. Che sia o meno tua nipote è irrilevante.» «Dovrei rallegrarmene?» «Penso proprio di sì.» Sentii scendere il suo sguardo sul mio collo, sfiorarmi come una brezza e arrivarmi sulle mani. Ne prese una fra le sue e commentò: «Che mani forti hai!». Guardò le dita, il palmo e aggiunse: «Ti sei occupata tu del cadavere del container e di Kim Luong: conosci i dettagli, sai che cosa chiedere, dove cercare. È ragionevole che tu vada a parlarle». «A chi?» Ritirai la mano e mi chiesi se qualcuno ci stava guardando. «A Ruth Stvan, direttrice dell'Istituto di medicina legale, nonché massimo anatomopatologo di Francia. Vi siete già conosciute.» «So chi è, ma non l'ho mai conosciuta.» «Sì, invece. A Ginevra, nel 1988. È svizzera. Vi siete conosciute prima che si sposasse: allora si chiamava Durenmatt.» Mi scrutò per vedere se quel nome mi diceva qualcosa, ma non mi veniva in mente nulla. «Avete fatto un seminario insieme, sulla morte neonatale improvvisa.» «E tu come fai a saperlo?» «È sul tuo curriculum vitae», mi rispose divertito. «Non penso proprio che sul mio c.v. ci fosse scritto anche che ho cono-
sciuto lei», replicai sulla difensiva. Il suo sguardo non mi lasciava un istante. Io non riuscivo a smettere di guardarlo e non riuscivo neanche a pensare. «Ci andrai?», mi chiese. «Non c'è niente di strano che tu vada a fare un saluto alla tua vecchia amica, visto che sei in vacanza a Parigi. E sono certo che lei sarà molto contenta di riceverti. È questo il motivo del tuo viaggio, del resto.» «Fortuna che me l'hai detto», replicai indignata. «Può darsi che tu non ottenga niente, che lei non sappia gran che o che non abbia nulla da aggiungere a quello che sappiamo già. Ma non credo. È una donna intelligente e con un gran senso morale, che si è spesso scontrata con un sistema che non sempre è dalla parte della giustizia. Probabilmente vi capirete.» «Ma chi ti credi di essere?» sbottai. «Pensi di poter tirare su il telefono, farmi venire qui e chiedermi di fare un salto nell'obitorio di Parigi stando attenta a non finire nel mirino di un cartello criminale?» Non rispose e continuò a guardarmi negli occhi. Il sole riempiva la finestra alle sue spalle facendogli schiarire gli occhi castani. «Non mi interessa che tu sia dell'Interpol o di Scotland Yard. Potresti pure essere la regina d'Inghilterra», decretai. «Non hai nessun diritto di mettere a repentaglio la vita mia, di Marino o della dottoressa Stvan.» «Marino non ti accompagnerà all'obitorio.» «Diglielo tu, per favore.» «Se lo facesse, sarebbe sospetto, oltre a tutto considerato come si comporta», mi fece notare Talley. «Non credo che alla dottoressa Stvan sarebbe simpatico.» «E se le prove ci fossero, che cosa vorresti che facessi?» Non mi rispose e io capii perché. «Vuoi che le prenda, vero? Non so in Francia, ma negli Stati Uniti è un reato, lo sapevi?» «Falsificazione o manomissione di prove, così lo definisce il nuovo codice penale. Reato punibile con sanzioni pecuniarie fino a trecentomila franchi e tre anni di carcere. Nella peggiore delle ipotesi, potresti essere imputata anche di violazione di cadavere e quindi essere passibile di condanna detentiva fino a un anno e pecuniaria fino a centomila franchi.» Spostai la sedia. «Devo dire che non succede spesso che un agente federale mi chieda di infrangere la legge», dichiarai gelida.
«Non te lo sto chiedendo», precisò lui. «È una faccenda fra te e la dottoressa Stvan.» Mi alzai senza starlo nemmeno a sentire. «Sono laureata in giurisprudenza», dissi. «Tu forse hai letto il codice penale, ma io l'ho studiato.» Talley non si mosse. Avevo le tempie che mi pulsavano e il sole che mi abbagliava. «Nella mia vita, ho sempre rispettato la legge e i principi della scienza e della medicina», continuai. «L'unica cosa che hai fatto tu nella vita, caro il mio agente Talley, è stato trastullarsi nel bel mondo!» «Non ti succederà nulla», replicò Talley calmissimo, senza batter ciglio di fronte ai miei insulti. «Domattina io e Marino torneremo in America.» «Per piacere, siediti.» «Hai detto che conosci Diane Bray, no? È il suo gran finale, questo? Farmi rinchiudere in un carcere francese?» «Per favore, siediti», ripeté. Gli ubbidii, anche se controvoglia. «Se verrai sorpresa a fare qualcosa che la dottoressa Stvan ti chiederà, interverremo noi», dichiarò. «Così come siamo intervenuti con ciò che ero certo che Marino si sarebbe portato appresso.» «E io dovrei crederci?» esclamai. «Vuoi che di fronte alla polizia francese armata di mitragliette in aeroporto alzi le mani e dica "Tranquilli, ragazzi, questa è una missione segreta dell'Interpol"?» «Vogliamo solo che tu e la dottoressa Stvan vi incontriate.» «Storie! So perfettamente quello che volete. E so anche che, se dovessi finire nei guai, fareste quello che fanno tutti, e cioè neghereste di avermi mai conosciuta.» «Non lo farei mai.» Mi lanciò uno sguardo talmente intenso che mi sentii boccheggiare. «Kay, non farei mai una cosa del genere, devi credermi. E nemmeno il senatore Lord. Fidati.» «No, non mi fido.» «Quando vuoi tornare a Parigi?» Dovetti fermarmi a pensare, da quanto ero furiosa e confusa. «Avete un treno nel tardo pomeriggio», mi ricordò. «Ma se vuoi restare qui stanotte, conosco un hotel molto grazioso in Rue du Bœuf. Si chiama La Tour Rose. Penso che ti piacerebbe.»
«No, grazie», risposi. Sospirò, si alzò e prese il suo e il mio vassoio. «Dov'è finito Marino?» domandai, rendendomi conto solo in quel momento che mancava da un sacco di tempo. «Stavo cominciando a chiedermelo anch'io», replicò Talley attraversando il ristorante. «Non credo di essergli molto simpatico.» «Mi sembra un'ottima deduzione», commentai. «Penso che non gli piaccia che gli uomini mostrino interesse nei tuoi confronti.» Non risposi. Posò i vassoi nella rastrelliera. «Le telefonerai, almeno?» insistette Talley. «Per favore!» Rimase immobile nel mezzo della tavola calda e mi posò una mano sulla spalla, prima di richiedermelo. «Spero solo che parli inglese», replicai. 35 Quando raggiunsi telefonicamente la dottoressa Stvan, si ricordò di me senza esitazione, a conferma di ciò che mi aveva detto Talley, e cioè che aspettava la mia chiamata e voleva vedermi. «Domani pomeriggio ho lezione all'università», mi disse in un inglese un po' arrugginito. «Ma puoi venire di mattina. Io entro alle otto.» «Va bene alle otto e un quarto?» «Ma certo. Posso fare qualcosa per te, mentre sei a Parigi?» mi chiese con un tono che mi fece sospettare che temesse di essere ascoltata. «Mi interessa vedere come funziona l'Istituto di medicina legale in Francia», risposi per farle vedere che avevo capito. «Non troppo bene, purtroppo», rispose. «Siamo vicino alla Gare de Lyon, in una traversa di Quai de la Rapée. Se vieni in macchina, parcheggia sul retro, dove arrivano i carri. Altrimenti entra pure dall'ingresso principale.» Talley alzò gli occhi dai messaggi telefonici che stava leggendo. «Grazie», mi disse, quando ebbi riattaccato. «Dove sarà andato Marino?» domandai. Stavo cominciando a preoccuparmi. Non mi fidavo di Marino quando andava in giro per conto suo: temevo che offendesse qualcuno. «Non ci sono molti posti in cui può essere andato», mi rispose Talley.
Lo trovammo al piano di sotto, nell'atrio, seduto con aria infelice vicino a una palma in vaso. Si era perso, ma non aveva voluto chiedere aiuto al personale. Non lo vedevo così petulante da un pezzo e durante il viaggio di ritorno a Parigi fu talmente scorbutico che cambiai posto e gli diedi le spalle. Chiusi gli occhi e mi assopii. Poi andai nella carrozza ristorante a comprarmi una Pepsi senza nemmeno chiedergli se voleva qualcosa. Mi comprai anche un pacchetto di sigarette e non gliene offrii. Quando arrivammo in hotel, non ce la feci più. «Posso offrirti da bere?» gli proposi. «Devo salire in camera mia.» «Cos'hai?» «Cos'hai tu, piuttosto.» «Marino, non ti capisco proprio. Andiamo un attimo al bar e cerchiamo di capire che cosa fare per uscire da questo casino in cui ci siamo ficcati.» «No, io me ne vado in camera mia. Non sono io che mi sono ficcato in un casino.» Lo lasciai salire in ascensore da solo; lo guardai sparire dietro le porte automatiche e presi le scale. Immediatamente mi resi conto di quanto fa male fumare. Quando aprii la porta della mia stanza, ciò che vidi mi colse impreparata. Mi avvicinai al fax in preda a un terrore cieco, fissando quello che mi aveva mandato il dottor Harston, medico legale di Philadelphia. Mi sedetti sul letto irrigidita. Le luci della città brillavano fra l'insegna del Grand Marnier e l'affollato Café de la Paix. Staccai il foglio dal fax con le mani che mi tremavano e i nervi tesi. Presi tre bottigliette di scotch nel frigobar e me le versai tutte e tre in un bicchiere, senza neppure premurarmi di metterci un po' di ghiaccio. Non mi preoccupai di come mi sarei sentita il giorno dopo, perché sapevo che sarei stata male comunque. La lettera del dottor Harston diceva così: Kay, ero stupito che non me lo avessi ancora chiesto, ma immaginavo che dovesse passare un po' di tempo. Resto a tua disposizione per ogni tuo dubbio o domanda. Vance Lessi il referto del primo esame del medico legale, che descriveva lo stato del cadavere in situ, ovvero nel negozio bruciato in cui Benton era mor-
to, come in catalessi. Le frasi mi passavano davanti agli occhi come cenere. Corpo carbonizzato, polsi fratturati, mani assenti, fratture lamellari del cranio desquamate, torace e addome carbonizzati fino al tessuto muscolare. Il proiettile aveva provocato un foro di un centimetro di diametro nel cranio con inclinazione interna della frattura ossea. Entrando, aveva determinato fratture radiali all'orecchio destro con incuneamento fino alla regione petrosa destra. Aveva un lieve diastema fra gli incisivi superiori centrali. Mi era sempre piaciuto quel piccolo spazio fra gli incisivi. Gli rendeva ancor più interessante il sorriso, perfetto per ogni altro verso perché la sua perfetta famiglia del New England gli aveva fatto portare l'apparecchio. Era partito per Hilton Head senza di me perché ero stata chiamata a risolvere un caso. Se solo avessi detto di no e fossi andata con lui... Se solo mi fossi rifiutata di occuparmi di quello che si sarebbe rivelato il primo di una serie di orribili delitti culminante con la sua morte... Quella che avevo sotto gli occhi era la verità. Non c'era nessuna macchinazione: solo Benton e io sapevamo della cicatrice di quattro centimetri sul ginocchio sinistro, che si era procurato con un coccio a Black Mountain, nel North Carolina, dove avevamo fatto l'amore la prima volta. Quella cicatrice era diventata l'emblema del nostro amore adulterino. Se si vedeva sul cadavere, era solo perché un pezzo di materiale isolante fradicio era caduto dal soffitto e l'aveva protetto. Quella cicatrice, che mi era sempre parsa il simbolo di un peccato, adesso trasformava la sua morte in una punizione, perché tutto ciò che quel referto raccontava io lo avevo già visto e le immagini che rievocava mi paralizzavano. Scoppiai a piangere e invocai il suo nome. Non sentii bussare alla porta finché non temetti che stessero per abbatterla. «Chi è?» chiesi con voce rotta dal pianto. «Cos'hai?» urlò Marino da fuori. Mi alzai faticosamente e gli aprii la porta barcollando. «Sono cinque minuti che busso...», cominciò. «Oh, Madonna santissima! Cosa ti è preso?» Gli voltai le spalle e andai alla finestra. «Che cosa è successo, capo?» Sembrava spaventato. «È successo qualcosa?» Mi si avvicinò e mi mise le mani sulle spalle. Era la prima volta che lo
faceva, in tanti anni che lo conoscevo. «Dimmi, che cosa sono quei fogli sul letto? Lucy sta bene?» «Lasciami stare, per favore.» «Prima voglio sapere che cosa ti è successo.» «Vattene.» Mi staccò le mani dalle spalle e io sentii freddo. Quando si allontanò per andare a guardare il fax, sentii la distanza fra noi. Rimase zitto. Poi mi chiese: «Ma cosa cazzo fai? Sei impazzita? Perché leggi queste cose?». Percepii panico e dolore nella sua voce. «Ma perché? Hai perso la testa?» Mi girai di scatto e gli strappai di mano il fax, sbattendoglielo sulla faccia. Diagrammi, risultati di esami tossicologici, prove di laboratorio, certificato di morte, cartellino, schemi della dentatura e contenuto dello stomaco si sparpagliarono sul pavimento come foglie secche. «Perché tu non sei riuscito a tenertelo per te», gli gridai. «Hai dovuto aprire quella tua boccaccia e mettermi in testa che forse non era morto! Be', adesso lo sappiamo tutti e due. Leggiti bene tutto, Marino.» Mi sedetti sul letto e mi asciugai gli occhi e il naso. «Leggitelo bene e non parlarmene mai più», continuai. «Non tirare mai più fuori l'argomento. Non mi dire che forse è vivo. Non farlo mai più.» Il telefono squillò. Rispose lui. «Sì?» rispose malamente. «Ah, sì?» aggiunse dopo un momento di silenzio. «Be', hanno ragione: abbiamo alzato la voce. Se vuole mandare su una guardia, sappia che io gliela rimando subito giù perché sono un poliziotto e ho le palle di traverso e quindi per favore non rompetemi i coglioni.» Sbatté giù la cornetta. Poi si sedette vicino a me con gli occhi lucidi. «Che cosa facciamo, capo? Che cosa cazzo facciamo?» «Voleva che vi invitassi a cena per farci litigare e piangere così», mormorai singhiozzando. «Sapeva benissimo che ci saremmo presi a ditate negli occhi e dati la colpa l'uno con l'altro, perché non sappiamo tirare fuori il dolore in nessun altro modo. Ma se non lo facciamo, non riusciamo ad andare avanti.» «Da bravo esperto di profili psicologici, aveva capito tutto», replicò Marino. «Sapeva che prima o poi sarebbe successo, che noi avremmo reagito così.» «Mi conosceva bene», mormorai. «Dio, se mi conosceva bene! Sapeva che l'avrei presa peggio di tutti. Io non piango, mi rifiuto di piangere. Ho
imparato a non piangere quando è morto mio padre, perché piangere voleva dire provare dolore e il dolore era troppo, per me. Così, per non soffrire, mi sono inaridita. E adesso mi ritrovo a pezzi. Marino, non ce la faccio più. Forse se mi licenziassero sarebbe meglio. Anzi, dovrei andarmene io.» «Non dire sciocchezze», replicò. Vedendo che stavo zitta, andò ad accendersi una sigaretta e si mise a passeggiare avanti e indietro. «Vuoi cenare?» «Voglio solo dormire», risposi. «Forse uscire un po' da questa stanza ti farebbe bene.» «No, Marino.» Mi intontii di Benadryl e la mattina dopo, quando mi costrinsi ad alzarmi dal letto, avevo la testa pesante e confusa. Nello specchio del bagno vidi uno spettro con gli occhi stanchi e gonfi. Mi lavai la faccia con l'acqua fredda, mi vestii e presi un taxi alle sette e mezzo, questa volta senza l'aiuto dell'Interpol. L'Institut Médico-Légal era in una palazzina di tre piani in mattoni rossi nella parte orientale della città. La superstrada la separava dalla Senna, che quel mattino era color miele. Il taxi mi lasciò proprio di fronte. Attraversai un giardinetto molto curato, con alberi di platano, primule, viole del pensiero, margherite e fiori di campo. La coppietta che pomiciava su una panchina e il vecchio che portava a spasso il cane parevano ignari dell'odore di morte che filtrava dalla porta d'ingresso e dalle finestre sbarrate dell'istituto. Ruth Stvan era famosa per avere introdotto alcune novità nel proprio lavoro. Chiunque entrasse veniva accolto dal personale addetto, così che, quando arrivava qualche parente sconsolato, trovava sempre una persona gentile che l'aiutava a trovare la strada. Appena entrai, mi venne incontro una signorina, che mi accompagnò lungo un corridoio di mattonelle dove alcuni investigatori aspettavano parlottando. Mi parve di capire che qualcuno la sera prima si era buttato dalla finestra. Seguii la mia guida silenziosa oltre una cappella con le vetrate colorate, dove una coppia piangeva su una piccola bara bianca. Il lutto era vissuto in maniera diversa, rispetto agli Stati Uniti, dove non avevamo tempo per cappelle, servizi di accoglienza e semplice solidarietà. Nella nostra società c'erano troppe sparatorie per potersi occupare decentemente dei morti. La dottoressa Stvan stava lavorando nella Salle d'Autopsie, come la definiva un cartello affisso sopra a una porta automatica. Quando entrai, fui
colta dall'ansia e mi pentii di esserci andata. Non sapevo che cosa dire. Ruth Stvan, con gli occhiali e il camice verde macchiati di sangue, stava pesando un polmone. Mi resi subito conto che si trattava del suicida che si era gettato dalla finestra, perché aveva la faccia spappolata, i piedi spaccati e tibia e perone conficcati nelle cosce. «Scusami un attimo», mi disse. C'erano altre due autopsie in corso, seguite da medici in camice bianco. Sulle lavagne erano segnati i nomi e i numeri dei casi. Una sega Stryker stava aprendo una scatola cranica, mentre l'acqua scorreva rumorosamente in un lavandino. La dottoressa Stvan era energica e rapida, chiara di capelli, robusta e più vecchia di me. Ricordavo che a Ginevra era molto riservata. Coprì il cadavere che stava esaminando con un lenzuolo, si sfilò i guanti e cominciò a slacciarsi il camice sulla schiena venendomi incontro con passo deciso. «Come stai?» mi chiese. «Non so», risposi. Se la trovò una risposta strana, non lo diede a vedere. «Vieni con me, così mentre mi do una ripulita facciamo quattro chiacchiere e poi ci andiamo a prendere un caffè.» Mi accompagnò in un piccolo spogliatoio, dove lasciò il camice in un sacco per i vestiti e ci lavammo le mani con sapone disinfettante. La dottoressa Stvan si lavò energicamente anche il viso, che poi asciugò in una salvietta azzurra. «Non sono venuta a fare quattro chiacchiere o a farmi raccontare come lavorate qui in Francia. Penso che tu lo sappia benissimo» «Ma certo», rispose guardandomi negli occhi. «Non sono abbastanza socievole da ricevere visite di cortesia.» Sorrise. «E vero che ci siamo conosciute a Ginevra, ma è anche vero che non abbiamo fatto amicizia. Mi dispiace un po', a dire il vero: eravamo così poche donne...» Uscimmo nel corridoio e continuò a parlare. «Quando mi hai telefonato, ho capito subito il motivo della tua chiamata; sono stata io a chiedere di parlare con te», aggiunse. «Se dici così, mi agito. Come se non lo fossi già abbastanza.» «Noi facciamo lo stesso lavoro: anch'io sarei venuta, se al mio posto ci fossi stata tu. Anch'io avrei detto: non si può andare avanti così, non possiamo permettere che questo mostro continui a uccidere. Adesso il LoupGarou è in America.»
Entrammo nel suo ufficio, che era senza finestre e aveva le pareti piene di scaffali carichi di libri, riviste e appunti. Prese il telefono e chiamò un interno, ordinando due caffè. «Accomodati, se riesci a trovare un angolino su cui sederti. Sposterei qualcosa, se solo sapessi dove.» Avvicinai una sedia alla scrivania. «Mi sentivo fuori posto, a Ginevra», mi confidò chiudendo la porta. «In parte per via del modo in cui lavoriamo qui in Francia. I medici legali sono emarginati da sempre e per sempre lo resteranno. Pensa che non possiamo parlare con nessuno! Non che a me dispiaccia particolarmente, visto che amo lavorare da sola.» Si accese una sigaretta. «Io faccio l'elenco delle ferite e la polizia ricostruisce i fatti come le pare e piace. Se un caso è particolarmente importante, parlo personalmente con il magistrato; a volte riesco a ottenere qualcosa, a volte no. Spesso, quando richiedo determinate analisi, non trovo un laboratorio disponibile. Non so se capisci.» «Dunque il tuo compito si limita a stabilire la causa della morte», dissi. Annuì. «Caso per caso il magistrato mi affida il compito di stabilire la causa della morte. Punto e basta.» «Non svolgi indagini, quindi.» «Non al tuo livello, no. Non quanto vorrei», rispose buttando fuori il fumo da un angolo della bocca. «Capisci, il problema della giustizia francese è che i magistrati sono indipendenti. Io posso parlare soltanto con il magistrato che mi ha affidato il caso e solo il ministro della Giustizia può togliere il caso a un magistrato e darlo a un altro. Perciò, quando ci sono dei problemi, io non posso fare assolutamente niente. Il magistrato piglia il mio referto e ne fa quello che vuole. Se secondo me la vittima è stata uccisa e lui non è d'accordo, basta così: la cosa non mi deve riguardare. È la legge che lo stabilisce.» «Il magistrato può cambiare il tuo referto?» La sola idea mi sembrava assurda. «Sono sola contro tutti. Come sospetto accada anche a te, a volte.» Non volevo nemmeno pensare a quanto sola ero io. «Mi rendo conto che, se qualcuno sapesse che siamo qui a parlarne, la cosa potrebbe avere delle ripercussioni negative, soprattutto per te», cominciai a dire. Lei alzò una mano per farmi segno di non andare avanti. Un istante dopo
la porta si aprì e la stessa ragazza che mi aveva accompagnato nella sala autopsie entrò con un vassoio con due tazze di caffè, zucchero e latte. La dottoressa Stvan la ringraziò e le disse qualcosa in francese, che non capii. La ragazza annuì e se ne andò silenziosamente, chiudendo la porta alle proprie spalle. «Le ho chiesto di non passarmi telefonate», mi spiegò Ruth Stvan. «Voglio che tu sappia subito che il magistrato che mi ha affidato il caso è una persona che io stimo molto. Ritengo tuttavia che gli stiano facendo pressioni dall'alto, se capisci quello che voglio dire. Da molto in alto, più ancora del ministro della Giustizia. Non so bene chi, ma so che questa volta non sono state effettuate prove di laboratorio. Motivo per cui ti abbiamo convocato.» «Come sarebbe a dire? Chi mi ha convocato?» «Come lo prendi?» mi chiese indicandomi il caffè. «Chi mi ha convocato?» «Sei stata convocata perché io potessi confidarti le mie perplessità. Cosa che farò molto volentieri. Zucchero? Latte?» «No, grazie, lo prendo nero.» «Quando è stata uccisa quella donna a Richmond, mi è stato detto che saresti venuta a Parigi, se io avessi accettato di parlare con te.» «Ma allora non sei stata tu a chiedere che venissi a Parigi?» «Non avrei mai osato farlo. Non avrei mai creduto che la mia richiesta sarebbe stata accolta.» Pensai al jet privato, al Concorde e a tutto il resto. «Mi daresti una sigaretta?» chiesi. «Scusa, non te l'ho offerta. Non sapevo che fumassi.» «Non fumo, infatti. Solo una volta ogni tanto. Da un anno a questa parte. Ma allora chi mi ha fatto venire in Francia? Tu lo sai?» «Una persona abbastanza influente da riuscirci subito, evidentemente. Ma non ho idea di chi possa essere.» Pensai al senatore Lord. «Sapessi che cosa mi ha fatto arrivare qui il Loup-Garou... Per ora siamo a quota otto donne», disse con sguardo assorto e tormentato. «Che cosa posso fare per te?» «Non ho mai trovato traccia di stupro né a livello vaginale né anale», mi disse. «Ho fatto il tampone ai segni delle morsicature, che tra l'altro sono piuttosto strani perché mancano dei molari, i denti sono piccoli e distanziati fra loro e l'occlusione è particolare. Ho raccolto peli, capelli e le solite
cose. Ma è meglio che cominci dal primo caso, quando hanno cominciato a succedere le cose strane. «Come da programma, il magistrato mi chiese di mandare in laboratorio tutto quello che avrei trovato, cosa che puntualmente feci. Passarono giorni, settimane, mesi, senza che arrivassero i risultati. E capii l'antifona. Così quando mi capitarono le altre vittime del Loup-Garou, non mandai più nulla.» Rimase un attimo zitta, immersa in altri pensieri. Poi disse: «È uno strano uomo, questo Loup-Garou. Morde i palmi delle mani, le piante dei piedi. Mai vista una cosa del genere. Chissà che cosa vuole dire. E adesso anche tu devi fare i conti con le stesse cose». Si interruppe, come per trovare il coraggio di andare avanti. «Devi stare molto attenta. Verrà a cercarti, così come è venuto a cercare me. Perché devi sapere che quella che è sopravvissuta sono io.» Rimasi sbigottita. «Mio marito fa lo chef a Le Dome e la sera non è mai in casa, ma per misericordia divina, quando qualche settimana fa quella creatura si presentò alla porta di casa mia, era malato. Pioveva. Mi disse che aveva avuto un incidente d'auto e che doveva chiamare la polizia. Naturalmente il mio istinto fu di aiutarlo: volevo assicurarmi che non si fosse fatto male. Ero molto preoccupata. «Ha fatto leva sul mio punto debole», continuò. «Noi medici ci sentiamo sempre un po' come se dovessimo salvare l'umanità, no? Abbiamo l'impressione di doverci fare carico dei problemi degli altri ed è su questo che io credo contasse. Non ebbi il minimo sospetto e penso che lui sapesse che l'avrei fatto entrare. E l'avrei fatto entrare veramente. Paul, però, sentendo delle voci, mi chiese dall'altra stanza chi era e quello fuggì. Non lo guardai bene. La luce fuori della porta era spenta: in seguito scoprii che aveva svitato la lampadina.» «Hai chiamato la polizia?» «Un investigatore di cui mi fido.» «Perché?» «Per cautela.» «Come facevi a sapere che era lui?» Bevve un sorso di caffè. Ormai era freddo e ne aggiunse un po' di caldo alle due tazze. «L'ho intuito. Ricordo di aver sentito odore di bestia, di bestia bagnata, anche se forse me lo sono immaginato. Ho sentito la sua cattiveria, la luce
malvagia dei suoi occhi. E poi il fatto che si nascondesse... Non l'ho visto in faccia. Ma lo sguardo sì, quando ho aperto la porta.» «Odore di bestia bagnata?» domandai. «Sì, un odore diverso dal normale odore di sudore. Un po' come i cani quando sono sporchi. È così che lo ricordo. Ma successe tutto talmente in fretta che non sono più sicura di niente. Il giorno dopo ricevetti un suo messaggio. Aspetta che te lo vado a prendere.» Si alzò e aprì un cassetto chiuso a chiave in un archivio di metallo. Le cartelline erano talmente fitte che fece fatica a tirare fuori quella che le interessava. Non aveva etichetta, ma dentro c'era un pezzo di carta marrone macchiato di sangue, protetto da una busta di plastica trasparente. «Pas la police. Çi va ça va. Pas de problème, tout va bien. Le LoupGarou», lesse. «Niente polizia. Tutto bene, tutto bene. Nessun problema, è tutto a posto. Il lupo mannaro.» Osservai la scrittura squadrata e un po' infantile che ormai conoscevo. Sembrava tracciata meccanicamente. «Deve averlo scritto su un pezzo di sacchetto del mercato», disse la Stvan. «Non posso dimostrare che sia lui, a parte il fatto che non vedo chi altri avrebbe potuto scrivermela. Non so di chi sia il sangue perché non posso mandarlo ad analizzare in nessun laboratorio. Solo mio marito sa che l'ho ricevuta.» «Perché ti è venuto a cercare?» chiesi. «Perché proprio te?» «Presumo che mi abbia visto sul luogo di qualcuno dei suoi delitti. So che controlla. Quando uccide, poi rimane nascosto nel buio a guardare che cosa facciamo. È intelligente e astuto e sono certa che sa perfettamente che cosa succede qui all'obitorio, quando mi arrivano le sue vittime.» Inclinai il messaggio verso la luce alla ricerca di tracce latenti del supporto al quale si poteva essere appoggiato per scriverlo, ma non vidi nulla. «Quando l'ho letto, ho capito tutto il marciume che circonda questa vicenda. Caso mai avessi avuto ancora dei dubbi», spiegò la Stvan. «Il LoupGarou sapeva che mostrare il messaggio alla polizia o a un laboratorio sarebbe stato inutile. Mi stava avvertendo che non sarebbe servito a niente. È strano, ma ho la sensazione che volesse anche dirmi che non ci avrebbe più riprovato.» «Non ci conterei troppo», le dissi. «Credo che abbia bisogno di una persona amica e magari si fa delle fantasie sul mio conto perché l'ho visto e non sono morta. Ma chi può entrare nella testa di una persona simile?»
Si alzò e aprì un altro cassetto, dal quale estrasse una scatola da scarpe, il cui coperchio era chiuso con il nastro adesivo. Dentro c'erano otto scatolette di carta con i buchi per la ventilazione e altrettante buste con il numero del caso e la data. «Purtroppo non abbiamo fatto il calco della dentatura dai segni delle morsicature», disse. «Perché per farlo avrei dovuto chiamare un dentista e sapevo che non me lo avrebbero permesso. Ma ho fatto dei tamponi e mi auguro che a qualcosa servano. Speriamo bene.» «Sul cadavere di Kim Luong ha cercato di mascherarli», le spiegai. «In maniera tale che non potessimo prendere le impronte. Non serviranno nemmeno le foto, temo.» «Non mi sorprende. È consapevole del fatto che lì non ha nessuno che lo protegge. Gioca fuori casa, come si dice. E ti assicuro che dalla dentatura sarebbe facilissimo identificarlo, perché ha denti molto strani, aguzzi e distanziati fra loro. Come un animale.» Mi venne la pelle d'oca. «Ho ricuperato dei peli su tutti i corpi», continuò la Stvan. «Sembrano di gatto. Mi chiedo se non allevi gatti d'Angora o qualcosa del genere.» Mi protesi in avanti. «Sembrano di gatto?» chiesi. «Li hai tenuti?» Prese un paio di pinzette da un cassetto della scrivania e le infilò in una busta per estrarre diversi peli sottilissimi che posò sul tampone dell'inchiostro. «Sono tutti uguali, vero? Lunghi da dieci a venti centimetri, biondo chiaro. Sottili come capelli di neonato.» «Questi non sono peli di gatto. Sono umani. Erano anche sul cadavere non identificato ritrovato dentro il container e sul corpo di Kim Luong.» Ruth Stvan sgranò gli occhi. «Dopo il primo omicidio, hai mandato anche questi peli al laboratorio per le analisi?» domandai. «Sì.» «E non hai mai avuto i risultati?» «Secondo me, non hanno mai fatto le analisi che avevo chiesto.» «Io credo di sì, invece», replicai. «Credo che sappiano benissimo che sono umani e che non sono capelli di neonato. Sanno anche che cosa vogliono dire quei segni di morsicatura. Potrebbero avere anche ricuperato il DNA.» «Anche noi possiamo farlo: dai tamponi», replicò sempre più turbata.
Ma a me non interessava più. «Naturalmente dai peli non si può ottenere molto», continuava. «Irsuti, senza pigmentazione. C'è compatibilità, vero?» Non la ascoltavo più. Stavo pensando a Kaspar Hauser, che aveva passato i primi sedici anni di vita chiuso in una segreta perché il principe Carlo di Baden non voleva che gli rubasse il trono. «... senza le radici niente DNA, suppongo», continuava. A sedici anni era stato ritrovato vicino a un cancello con un foglio attaccato ai vestiti: Era pallido come un proteo e non parlava. Animalesco, non sapeva neanche scrivere il proprio nome senza che qualcuno gli guidasse la mano. «Lo stampatello infantile di una persona che ha appena imparato a scrivere», riflettei ad alta voce. «Recluso, privato di contatti umani, non ha ricevuto un'istruzione se non a casa propria. Forse è addirittura autodidatta.» La dottoressa Stvan smise di parlare. «Solo la famiglia può tenere nascosta una persona sin dalla nascita. Solo una famiglia molto potente può aggirare la legge e permettere a un anormale di continuare a uccidere senza venire catturato. Per evitare di attirare l'attenzione su di sé, per evitare la vergogna.» Ruth Stvan restò zitta ad ascoltare le mie parole, che le suscitavano una paura nuova e più angosciante. «La famiglia Chandonne sa perfettamente a chi appartengono questi strani peli e questa dentatura anomala», dissi. «E anche lui lo sa. È ovvio che lo sappia e che sospetti che anche tu ne sia al corrente, nonostante i laboratori non ti abbiano fatto avere i risultati. Io credo che sia venuto a casa tua perché lo hai visto di riflesso nello scempio che fa delle sue vittime. Hai scoperto la sua vergogna, o almeno così lui crede.» «Vergogna...?» «Non credo che lo scopo di quella lettera fosse assicurarti che non ci avrebbe riprovato», continuai. «Credo che ti stesse prendendo in giro, che ti stesse dicendo che lui può fare quello che vuole senza pagare. Che tornerà, e la prossima volta non commetterà errori.» «Ma non è più qui», replicò la dottoressa Stvan. «Qualcosa lo ha costretto a cambiare i suoi piani.» «Ma perché pensa che io conosca la sua vergogna? Non l'ho visto in faccia!» «Ma hai visto le sue vittime. Quelli che perde non sono capelli», conclusi. «Ma peli, che ha su tutto il corpo.»
36 Avevo visto solo un caso di ipertricosi in tutta la mia vita, quando facevo l'internato a Miami. Nel periodo in cui ero in pediatria, una messicana aveva partorito una bambina che quarantotto ore dopo la nascita si era coperta di pelo grigio chiaro, molto sottile e lungo più o meno cinque centimetri. Aveva folti ciuffi di peli che le uscivano dal naso e dalle orecchie ed era fotofobica, ovvero ipersensibile alla luce. Nella maggior parte degli individui ipertricotici, la pelosità aumenta gradualmente fino a coprire tutto il corpo tranne le membrane mucose, i palmi delle mani e le piante dei piedi. In alcuni casi, a meno che non si rasino frequentemente, i peli sulla fronte raggiungono una lunghezza tale da coprire gli occhi. L'ipertricosi è spesso collegata ad anomalie nella dentatura, ipotrofia genitale, un numero eccessivo di dita e capezzoli e asimmetria del viso. Nei secoli passati chi ne soffriva veniva venduto alle corti o diventava un fenomeno da baraccone. Alcuni erano chiamati lupi mannari. «Peli bagnati, sporchi. Come una bestia bagnata», ipotizzava la dottoressa Stvan. «Mi chiedo se l'unico motivo per cui gli ho visto solo gli occhi quando ho aperto la porta è che aveva la faccia coperta di peli. Magari teneva le mani in tasca perché anche quelle sono estremamente pelose.» «Di certo non può andare in giro così», replicai. «A meno che non esca solo di notte. Si vergogna, è fotosensibile e adesso anche un assassino: è probabile che si muova soltanto con il favore delle tenebre.» «Potrebbe radersi», rifletté la Stvan. «Almeno in faccia, sulle mani e sul collo...» «Alcuni dei peli che abbiamo ricuperato erano stati tagliati», dissi. «Se lavorava a bordo di quella nave, avrà ben dovuto fare qualcosa.» «Evidentemente quando uccide si spoglia, almeno parzialmente», osservò la Stvan. «Per lasciare tutti quei peli...» Mi chiesi se aveva genitali ipotrofici e se era per questo che svestiva le sue vittime solo dalla vita in su. Forse vedere genitali normali in una donna gli ricordava la propria inadeguatezza di maschio. Potevo soltanto immaginare l'umiliazione, il rancore che covava dentro. Era normale che i genitori di un bambino ipertricotico tendessero a nascondere il figlio, tanto più se appartenevano a una famiglia potente e orgogliosa che abitava sull'esclusiva Île Saint-Louis, come gli Chandonne.
Pensai a quel figlio tormentato, quella espèce de sale gorille, che viveva al buio nell'antica dimora di famiglia e usciva soltanto la notte. Indipendentemente dalle sue attività criminose, una famiglia ricca e prestigiosa non voleva che il mondo venisse a conoscenza di un figlio così. «C'è sempre la speranza che in qualche ospedale francese sia registrata la nascita di un bambino affetto da ipertricosi», dissi. «Non dovrebbe essere difficile, visto che è una malattia così rara. Credo che colpisca un individuo su un miliardo o qualcosa del genere.» «Non troveremo niente», dichiarò sicura la dottoressa Stvan. Le credevo: la famiglia doveva avere fatto in modo che non risultasse da nessuna parte. Intorno a mezzogiorno salutai la dottoressa Stvan con la paura nel cuore e una serie di campioni nella valigetta. Uscii dal retro, fra i carri funebri con le tende tirate in procinto di partire per l'ennesimo triste viaggio. Un uomo e una donna vestiti di nero aspettavano seduti su una panchina accanto al muretto di mattoni. Lui teneva il cappello in mano e gli occhi bassi. Lei mi guardò con il volto contratto in una smorfia di dolore. Mi avviai di buon passo sul lungosenna con la mente invasa da immagini raccapriccianti. Pensavo a un volto mostruoso che spuntava dal buio non appena una donna apriva la porta di casa. Immaginavo un animale notturno in agguato, che colpiva e uccideva con ferocia. La sua vendetta era costringere le sue vittime a guardarlo: il suo potere era il loro terrore. Mi fermai e mi guardai intorno: il traffico correva incessante e mi ritrovai sgomenta a chiedermi come avrei fatto a trovare un taxi. Non c'era nemmeno posto per accostare. Le strade vicine erano meno frequentate, ma dubitavo che fosse possibile trovarvi un taxi. Mi sentii prendere dal panico. Risalii nel parco dell'obitorio e mi sedetti su una panchina a cercare di riprendere fiato. L'odore di morte mi arrivava alle narici fra fiori e alberi. Chiusi gli occhi e alzai la faccia verso il sole invernale, aspettando che il battito del mio cuore tornasse normale; avevo i sudori freddi, mani e piedi intorpiditi e la valigetta di alluminio stretta fra le ginocchia. «Hai bisogno di una voce amica?» mi sentii dire all'improvviso. Era Jay Talley. Trasalii, senza fiato. «Scusami», disse sedendosi vicino. «Non ti volevo spaventare.» «Che cosa fai qui?» chiesi confusa, mentre i miei pensieri si scontravano l'uno contro l'altro come soldati su un campo di battaglia pieno di fango e
di sangue. «Ti avevo detto che ci saremmo presi cura di te, no?» Si sbottonò il cappotto di cachemire color tabacco e prese un pacchetto di sigarette dalla tasca interna. Ne accese una per sé e una per me. «Mi hai anche detto che per te sarebbe stato troppo pericoloso venire all'obitorio», replicai in tono di accusa. «Per questo sono andata a sbrigare questa sporca faccenda. E adesso mi arrivi qui come se niente fosse?» Buttai fuori il fumo arrabbiata e mi alzai in piedi, afferrando la valigetta. «A che gioco credi di giocare?» gli domandai. Si mise una mano in tasca e tirò fuori un cellulare. «Non credo di giocare a nessun gioco», rispose. «Pensavo ti facesse piacere un passaggio. Andiamo.» Compose un numero e disse qualcosa in francese. «Cosa succede? Aspettiamo la spia che venne dal freddo?» domandai acida. «No, un taxi. Penso che la spia che venne dal freddo sia andata in pensione qualche annetto fa.» Ci incamminammo verso una strada silenziosa, dove pochi minuti dopo ci venne incontro un taxi. Salimmo in macchina e Talley guardò la valigetta. «Sì», risposi, senza bisogno che formulasse nessuna domanda. Arrivati in hotel, lo feci salire in camera mia perché era l'unico posto in cui potevamo parlare senza correre il rischio di essere sentiti. Provai a chiamare Marino, ma non c'era. «Devo tornare in Virginia», gli dissi. «Non dovrebbero esserci problemi», replicò. «Quando vuoi.» Appese il cartello NON DISTURBARE fuori della porta e la chiuse con la catena. «Domani mattina.» Ci sedemmo sulle poltrone vicino alla finestra, con il tavolino in mezzo. «Immagino che la dottoressa Stvan ti abbia aperto il cuore», disse. «Era il problema più spinoso, ora te lo posso dire. Quella donna è diventata talmente paranoica, poveretta, che temevamo non volesse raccontare la verità a nessuno. Non che non avesse le sue buone ragioni, intendiamoci. Ma per fortuna il mio istinto si è rivelato giusto.» «Il tuo istinto?» domandai guardandolo fisso. «Già.» Non distolse il suo sguardo. «Sapevo che, se c'era una persona
con cui poteva confidarsi, quella eri tu. Perché godi di ottima fama e lei ti stima molto. Naturalmente il fatto di sapere qualcosa sul tuo conto mi ha aiutato.» Si zittì un momento. «Devo ringraziare Lucy.» «Conosci mia nipote?» Non gli credevo. «Abbiamo seguito alcuni corsi insieme a Glynco», mi spiegò, facendo riferimento all'accademia nazionale della Georgia dove veniva formato il personale di ATF, Dogana, Border Patrol, servizi segreti e delle altre forze dell'ordine. «Mi faceva compassione, per certi versi, perché quando c'era di mezzo lei si finiva sempre per parlare di te. Come se la sua dote principale fosse essere tua nipote.» «Lucy è molto più dotata di me», ribattei. «È molto più dotata della maggioranza della popolazione.» «Ma che cosa c'entra Lucy adesso?» chiesi. «Secondo me, a causa tua fa come Icaro e vola troppo vicino al sole. Spero solo che non esageri e non precipiti rovinosamente.» Quel commento mi mise paura, anche perché non avevo idea di che cosa stesse facendo Lucy in quel momento. Ma Talley aveva ragione: mia nipote doveva fare tutto meglio, più velocemente e più pericolosamente di me, come se soltanto attraverso la competizione potesse ottenere quell'amore di cui si credeva immeritevole altrimenti. «I peli che l'assassino ha lasciato sulle proprie vittime di Parigi non appartengono al cadavere del container», dissi, riferendogli quello che mi aveva raccontato Ruth Stvan. «Ma sono come quelli che aveva sui vestiti?» chiese Talley. «Nei vestiti. Che è ragionevole: se l'assassino ha il corpo coperto di pelo lungo e fine, naturalmente ne ha i vestiti pieni. Quindi sarebbe logico trovarli nei vestiti che si è tolto e che ha fatto indossare alla vittima prima di annegarla.» «E la vittima sarebbe il cadavere ritrovato dentro il container, cioè Thomas.» Talley rimase un istante a pensare. «Il Loup-Garou avrebbe il corpo coperto di pelo? E non si rade?» «Non è facile rasarsi tutto il corpo quotidianamente. Probabilmente si rade solo nelle zone esposte.» «E non può fare nessuna cura? Non esiste una terapia efficace?» «Adesso con il laser si ottengono buoni risultati, ma forse lui non ne è ancora al corrente. O, più probabilmente, la sua famiglia non gli ha permesso di andare in una clinica a sottoporsi al trattamento, soprattutto dopo gli omicidi.»
«Perché pensi che abbia scambiato i vestiti con l'uomo ritrovato nel container, cioè Thomas?» «Se uno vuole scappare a bordo di una nave, non può mettersi abiti firmati, sempre che la tua teoria che Thomas passava i vestiti smessi al fratello sia vera», risposi. «Ma potrebbe averlo fatto per spregio, per disprezzo, per avere l'ultima parola. Potremmo stare qui tutto il giorno a formulare ipotesi senza arrivare a niente. Sono i fatti che contano.» «Vuoi qualcosa?» mi chiese. «Sì, una risposta», replicai. «Perché non mi hai detto che era la dottoressa Stvan la donna sopravvissuta? Tu e il segretario generale mi avete raccontato una storia a cui mancava il dettaglio più importante.» Talley rimase zitto. «Avevate paura che mi spaventassi?» chiesi. «Che temessi che, avendo cercato di uccidere lei, cercasse di uccidere anche me?» «Non ero l'unico a temere che rifiutassi di andare dalla Stvan, se avessi saputo tutta la storia.» «Be', allora non eri l'unico a non aver capito niente di me», replicai. «Perché sapere tutta la storia sarebbe stato un motivo di più per farlo. Indipendentemente dalle idee che ti sei fatto sul mio conto parlando di me con Lucy un paio di volte.» «Kay, è stata la dottoressa Stvan a insistere. Voleva dirtelo lei stessa per un motivo che ritengo più che valido. Non aveva mai rivelato i dettagli della faccenda a nessuno, nemmeno al suo amico investigatore, che infatti ci ha fornito una descrizione molto generica.» «Perché?» «Perché, se chi protegge l'assassino fosse venuto a sapere che la Stvan l'aveva visto in faccia, sarebbero stati in pericolo lei, il marito e i due figli. Ma la dottoressa Stvan sapeva che tu non l'avresti tradita parlandone con qualcuno che avrebbe potuto metterla in una situazione di estrema vulnerabilità. E voleva decidere quanto dirti lei stessa, una volta faccia a faccia con te.» «Caso mai avesse deciso che era meglio non fidarsi.» «Io ero sicuro che non sarebbe andata così.» «Okay, allora: missione compiuta.» «Perché sei così arrabbiata con me?» mi domandò. «Perché sei un grandissimo presuntuoso.» «Non è questione di presunzione», si giustificò. «Il fatto è che voglio fermare questo lupo mannaro prima che uccida e massacri dell'altra gente.
Voglio scoprire cos'è che lo scatena.» «La paura e l'emarginazione», risposi, «la sofferenza e il rancore che prova sentendosi punito per qualcosa di cui non ha nessuna colpa. L'isolamento... Immagina essere abbastanza intelligente da capire...» «Penso che odi soprattutto sua madre», osservò Talley. «Forse dà a lei la colpa di tutto.» Il sole gli brillava sui capelli facendoli sembrare di ebano e schiarendogli gli occhi castani. Intuii le sue emozioni prima che si ricomponesse di nuovo. Mi alzai e andai alla finestra, per evitare di vedere di più. «Odia le donne che vede», continuò. «Le donne che lui non può avere. Le donne che gridano di terrore nel vedere lui e il suo corpo.» «Odia se stesso più di tutto il resto», commentai. «Sì, lo credo anch'io.» «Sei stato tu a pagarmi il viaggio, Jay?» Si alzò e si appoggiò alla finestra. «Non una fantomatica società decisa a sgominare il cartello dei Centosessantacinque», continuai. Lo guardai in faccia. «Tu hai fatto in modo che io e la dottoressa Stvan ci incontrassimo. Hai pianificato, organizzato e pagato tutto di tasca tua», dissi ancora incredula, ma convincendomene sempre di più. «Te lo potevi permettere perché sei ricco, sei ricco di famiglia. È per questo che sei entrato nell'ATF, vero? Per non fare il figlio di papà? Ma poi ti comporti da ricco, hai l'aria da ricco comunque.» Per un attimo rimase senza parole. «Non ti piace quando sono gli altri a fare le domande, vero?» dissiv «È vero che non volevo seguire le orme di mio padre, la laurea a Princeton, le regate, un matrimonio con una ragazza come si deve, i figli come si deve e tutto come si deve...» Eravamo fianco a fianco e guardavamo la strada sotto di noi come se fuori della nostra finestra stesse accadendo qualcosa di molto interessante. «Non credo che tu ti voglia ribellare a tuo padre», dissi. «Penso che tu voglia ingannare te stesso facendo l'alternativo, per quello che può essere alternativo entrare nelle forze dell'ordine, andare in giro con una pistola e farsi il buco nell'orecchio.» «Perché mi dici tutto questo?» Si voltò verso di me e me lo ritrovai così vicino che sentii l'odore del suo alito e della sua acqua di Colonia.
«Perché non voglio svegliarmi domani mattina e ritrovarmi in mezzo a qualche tua manovra per dimostrarti alternativo. Non voglio credere che sono appena andata contro la legge e i principi di una vita perché un giovane ricco e viziato voleva fare l'alternativo incoraggiandomi a fare qualcosa di talmente alternativo da rischiare la carriera, o quel che resta di essa, e di finire in qualche prigione francese.» «Ti verrei a trovare spesso.» «Non sei spiritoso.» «Non sono viziato, Kay.» Pensai al cartello NON DISTURBARE appeso fuori della porta chiusa con la catena. Gli posai una mano sul collo e gli accarezzai la mascella forte, attardandomi sull'angolo della bocca. Non sentivo la barba di un uomo sulla pelle da oltre un anno. Gli presi il viso fra le mani e gli passai le dita fra i capelli sentendovi il calore del sole. Jay mi guardava negli occhi, aspettando di leggervi le mie intenzioni. Lo attirai verso di me, lo baciai e gli passai le mani sul corpo sodo e muscoloso, mentre lui lottava con i miei vestiti. «Sei bellissima», mi sussurrò, le labbra sulle mie. «Mi fai impazzire...» Strappò un bottone e piegò due gancetti. «Eravamo nell'ufficio del segretario generale e io dovevo farmi forza per non guardarti le tette!» Vi posò le mani sopra. Mi sentivo sfrenata, senza limiti: volevo fare l'amore furiosamente, perché non volevo pensare a Benton e al suo modo dolce e delicato di accompagnarmi verso le vette del piacere. Trascinai Talley verso il letto e mi accorsi subito che non aveva né la mia esperienza né le mie capacità: lo controllai dall'inizio alla fine, lo dominai e mi servii di lui finché non fummo esausti e madidi di sudore. Benton non c'era ma, se avesse visto quello che avevo appena fatto, avrebbe capito. Quel pomeriggio bevemmo vino e restammo a osservare le ombre che si allungavano sul soffitto e il sole che tramontava stancamente. Quando suonò il telefono, non risposi. Quando Marino bussò alla porta chiamandomi, feci finta di non esserci. Quando il telefono suonò di nuovo, scossi la testa. «Marino, Marino», dissi. «La tua guardia del corpo.» «Questa volta non ha fatto un buon lavoro», commentai mentre Talley mi baciava dappertutto. «Forse dovrò licenziarlo.» «Dài, licenzialo.»
«Mi pare di aver commesso già abbastanza scorrettezze, per oggi.» «Dici?» Sembrava proprio che Marino avesse abbandonato ogni speranza. Era sera quando Talley e io facemmo una doccia insieme. Mi lavò i capelli e scherzò sulla differenza di età fra noi, dicendo che anche in questo gli piaceva essere alternativo. Io gli proposi di cenare insieme. «Andiamo al Café Runtz?» mi chiese. «Non lo conosco.» «I francesi lo definirebbero chaleureux, ancien et familial, ovvero caldo, antico e familiare. È vicino all'Opéra-Comique e ci sono le foto di tutti i cantanti d'opera appese alle pareti.» Pensai a Marino e decisi di avvertirlo che non mi ero persa in una capitale straniera. «È a un quarto d'ora a piedi da qui», continuava Talley. «Venti minuti al massimo. Lungo una bella strada.» «Prima devo trovare Marino», dissi. «Sarà al bar.» «Vuoi che lo vada a cercare io e te lo mandi su?» «Penso che apprezzerebbe molto», replicai ridendo. Marino mi trovò prima che Talley trovasse lui. Mi stavo ancora asciugando i capelli quando si presentò alla porta con una faccia dalla quale capii subito che sapeva perfettamente il motivo per cui ero stata irraggiungibile tutto il giorno. «Dove diavolo sei stata?» mi chiese entrando. «All'Institut Médico-Légal.» «Tutto il giorno?» «No, non tutto il giorno.» Marino guardò il letto. Talley e io l'avevamo rifatto, ma non era perfetto come dopo il passaggio delle cameriere. «Io stasera pensavo di...» cominciai. «Di uscire con lui», continuò Marino alzando la voce. «Lo sapevo, lo sapevo! Non posso crederci, Madonna santa! E io che ti credevo superiore a certe cose...» «Marino, per favore, non sono affari tuoi», dissi stancamente. Chiuse la porta e si mise le mani sui fianchi, come una governante severa. Aveva un'aria talmente buffa che non riuscii a trattenermi dal ridere. «Che cosa ti è preso?» esclamò. «Ieri eri lì che guardavi l'autopsia di Benton e oggi ti scopi uno stupido playboy che ha la metà dei tuoi anni? Meno di ventiquattr'ore dopo, ti faccio notare. Ma come hai potuto fare
una cosa simile al povero Benton?» «Marino, per cortesia, abbassa il tono di voce. Abbiamo già gridato abbastanza, in questa camera.» «Ma come hai potuto?» ripeté guardandomi disgustato. «Ti arriva la sua lettera, inviti Lucy e me, piangi fino a ieri sera e poi? Ricominci come se niente fosse. E con un dongiovanni da strapazzo...» «Per favore, Marino, vattene.» Non ne potevo più. «Non ci penso nemmeno», replicò, puntandomi un dito contro il petto con aria minacciosa. «Non me ne vado, nossignore. Se vuoi scoparti i ragazzini, abbi il coraggio di farlo davanti a me. Perché io non te lo permetterò, sai? Qui bisogna che qualcuno usi il buonsenso e, visto che non lo fai tu, lo devo fare io.» Camminava furiosamente avanti e indietro, sempre più arrabbiato. «Chi sei tu per permettermi o meno di fare qualcosa?» replicai furibonda. «Chi ti credi di essere, Marino? Impicciati degli affari tuoi.» «Povero Benton. Ancor grazie che è morto, se è questo l'amore che provavi per lui...» Si bloccò e mi puntò contro l'indice. «E io che credevo che tu fossi diversa! Che cosa facevi quando Benton girava l'occhio? Mi piacerebbe proprio saperlo, sai? E io che ero dispiaciuto per te!» «Adesso basta. Esci subito da questa camera.» Avevo perso l'autocontrollo. «Sei geloso, ecco che cosa sei! Come osi parlare del mio rapporto con Benton? Che cosa ne sai? Non sai un accidente, Marino. È morto, capisci? È morto da oltre un anno. Invece io sono ancora viva e tu anche.» «Be', in questo momento mi dispiace, che sei ancora viva.» «Sembri Lucy quando aveva dieci anni.» Uscì sbattendo la porta con una violenza tale che i quadri tremarono e il lampadario si mise a ondeggiare. Presi il telefono e chiamai la reception. «Scusi, può controllare se c'è Jay Talley nell'atrio?» domandai. «Un signore giovane, scuro di capelli, alto, con un paio di jeans e una giacca di pelle?» «Sì, è qui.» Qualche secondo dopo mi rispose al telefono. «Marino è appena uscito da camera mia incavolato come una bestia», lo avvertii. «Non farti vedere, Jay. È impazzito.» «Sta scendendo dall'ascensore in questo preciso momento. Hai ragione, sembra incavolato nero. Meglio che mi volatilizzi.»
Uscii di corsa dalla mia camera e mi precipitai lungo il corridoio e giù per le scale moquettate, ignorando gli sguardi delle persone ben vestite che in un hotel di lusso si comportavano educatamente e non facevano a pugni. Rallentai prima di entrare nell'atrio perché avevo il fiatone e con sommo orrore vidi Marino che prendeva Talley per il collo mentre due camerieri cercavano di intervenire. L'uomo alla reception prese il telefono in mano e immaginai che volesse chiamare la polizia. «Marino, no!» gridai in tono autorevole, correndogli incontro. «Piantala!» Lo presi per un braccio. Aveva lo sguardo truce, era sudato e per fortuna non aveva la pistola, perché chissà che cosa non avrebbe fatto in quel momento. Mentre io lo tenevo per un braccio, Talley disse qualcosa in francese, assicurando al personale dell'albergo che la situazione era sotto controllo e non era il caso di chiamare il pronto intervento. Presi Marino per mano e lo condussi fuori come una mamma arrabbiata con il figlio monello, fra gli sguardi stupefatti degli inservienti. Mi fermai sul marciapiede, vicino a macchine elegantissime. «Ma ti rendi conto di quello che stai facendo?» gli chiesi. Si asciugò la faccia sul dorso della mano. Respirava tanto affannosamente che temetti stesse per avere un attacco di cuore. «Marino, mi senti?» Lo scossi per un braccio. «Ti sei comportato in maniera inqualificabile. Talley non ti ha fatto niente e io nemmeno.» «Forse piglio le parti di Benton, visto che lui non può difendersi», rispose in tono stanco e sconsolato. «Non è vero. Te la stavi pigliando con Carrie Grethen, con Joyce. Sono loro che vuoi prendere a pugni, massacrare di botte, ammazzare.» Sospirò. «Non pensi che io sappia che cosa stai facendo?» continuai a voce bassa, in tono appassionato. I passanti erano ombre intorno a noi. Dalle brasserie e dai caffè affollati provenivano luce e rumore. «Devi prendertela con qualcuno», continuai. «Sei fatto così. E non sai con chi prendertela perché Carrie e Joyce sono morti.» «Almeno tu e Lucy li avete ammazzati, quei due stronzi. Gli avete sparato, li avete fatti precipitare in mare da un elicottero.» Si mise a singhiozzare. «Dai, Marino», lo consolai. Lo presi sottobraccio e cominciai a camminare.
«Non li ho ammazzati io», dissi. «Non che mi sarei tirata indietro, a dire la verità. Ma è stata Lucy a premere il grilletto. E sai una cosa? Non le è servito a niente. È rimasta piena di odio e di rancore e continua a vivere con la pistola in pugno. Un giorno o l'altro si accorgerà che l'unico modo per andare avanti è dimenticare quello che è stato, come oggi te ne sei accorto tu.» «Perché ti sei messa con uno così?» mi chiese in tono addolorato, asciugandosi gli occhi nella manica. «Perché? Come mai proprio lui?» «Non c'è nessuno che vada bene per me, è questo che pensi?» Ci rifletté. «E nessuna che vada bene per te. Perché non reggono il confronto con Doris, vero? Quando hai divorziato sei stato male, no? E le donne che hai avuto dopo non sono state niente, rispetto a lei. Ma bisogna continuare a provare, Marino. Continuare a vivere.» «E comunque, anche se non andavano bene per me, mi hanno mollato tutte, dalla prima all'ultima.» «Perché erano delle oche, Marino.» Lo vidi sorridere nel buio. 37 Le strade di Parigi si stavano animando quando io e Talley ci incamminammo verso il Café Runtz. L'aria fresca sul viso mi faceva piacere, ma ero angosciata e piena di dubbi. Rimpiangevo di essere venuta in Francia. Quando attraversammo Piace de l'Opéra e Talley mi prese per mano, rimpiansi anche di averlo conosciuto. Aveva le dita calde, forti e sottili; non mi aspettavo che un gesto così affettuoso mi turbasse e mi ripugnasse più di quel che avevamo fatto in camera poche ore prima. Mi vergognai di me stessa. «Voglio che tu sappia che faccio sul serio», mi disse. «Non sono un dongiovanni, Kay. Quando sto con una donna, non è per una notte e basta. Volevo che tu lo sapessi.» «Non ti innamorare di me, Jay.» Lo guardai negli occhi. Dal suo silenzio capii l'effetto che avevano avuto su di lui le mie parole. «Questo non significa che non me ne importa niente, Jay.» «Vedrai che questo locale ti piacerà», disse. «È molto poco conosciuto. Parlano tutti francese e se non parli francese devi fare il segno con il dito o tirare fuori il dizionario. La proprietaria, Odette, è una donna simpatica,
con i piedi per terra.» Non lo ascoltavo quasi. «Io e lei abbiamo fatto un patto: se lei è gentile con me, io le faccio pubblicità. Se io sono gentile con lei, lei mi lascia fare pubblicità.» «Vorrei che mi stessi a sentire», dissi togliendo la mano dalla sua e appoggiandogliela sul braccio. «Non voglio fare del male a nessuno, tantomeno a te. E non vorrei avertene già fatto.» «E come? Questo pomeriggio è stato bellissimo.» «Sì, però...» Si fermò sul marciapiede e mi guardò negli occhi, mentre la gente ci passava accanto e la luce delle vetrine respingeva la notte. Mi sentivo sensibile e vulnerabile nei punti in cui mi aveva toccato. «Non ti ho chiesto di amarmi», precisò. «Non sono cose che si possono chiedere.» Ricominciammo a camminare. «So che non è una cosa che offri facilmente, Kay», riprese. «L'amore è il tuo Loup-Garou, il mostro di cui hai paura. E capisco anche perché. Ti ha fatto male tutta la vita.» «Non mi psicoanalizzare, per favore. E non cercare di cambiarmi.» I passanti ci spintonavano. Alcuni ragazzetti con il piercing da tutte le parti e i capelli tinti ci urtarono e scoppiarono a ridere. Un gruppo di gente fissava e indicava un biplano giallo di dimensioni quasi reali attaccato al lato del palazzo con l'insegna del Grand Marnier che pubblicizzava una mostra di orologi Breitling. L'aria profumava di caldarroste. «Non avevo più toccato nessuno dalla morte di Benton», gli confidai. «È questo il posto che occupi nella mia catena alimentare, Jay.» «Non volevo essere crudele...» «Domani mattina torno in America.» «Mi dispiace che parti.» «Ho una missione da compiere, ricordi?» La collera sfuggì dall'angolo in cui l'avevo nascosta e, quando Talley fece per prendermi di nuovo per mano, non glielo permisi. «O forse più che un ritorno è una fuga», precisai. «Visto che mi porto via una valigetta piena di prove scottanti che, oltre a tutto, costituiscono un rischio biologico. Ma, da bravo soldato, seguirò gli ordini e se sarà possibile otterrò il DNA dai tamponi, per confrontarlo con il DNA del cadavere non identificato. Così stabilirò se lui e il killer sono fratelli. Nel frattempo,
chissà che la polizia non sia così fortunata da braccare un lupo mannaro che vaga per le strade d'America massacrando tutte le donne che trova e farsi raccontare per filo e per segno le attività criminose della famiglia Chandonne.» «Non essere così acida», disse. «Acida? E perché non dovrei essere acida?» Svoltammo dal Boulevard des Italiens in Rue Favard. «Mi avete fatto venire qui a risolvere i vostri problemi, pedina in un gioco a me sconosciuto, e io non dovrei essere acida?» «Mi dispiace che la pensi a questo modo», disse. «Ci stiamo facendo del male a vicenda.» Il Café Runtz era piccolo e silenzioso, con le tovaglie a quadretti bianchi e verdi e le stoviglie in tinta; il lampadario al soffitto e le plafoniere alle pareti erano rossi. Quando entrammo, Odette stava preparando un drink al bar. Nel vedere Jay, alzò le braccia al cielo brontolando. «Mi sta accusando di non essermi fatto vivo per due mesi e di essermi presentato senza prenotare», tradusse Jay a mio beneficio. Si chinò a baciarla su tutte e due le guance per farsi perdonare. Nonostante il locale fosse affollato, Odette riuscì a metterci a un tavolo in un angolo, perché Talley faceva questo effetto sulla gente e otteneva sempre tutto quello che voleva. Ordinò un borgogna rosso Santenay dicendo che io gli avevo detto che mi piaceva, sebbene io non me lo ricordassi. Ma a quel punto era difficile stabilire che cosa gli avevo raccontato io e che cosa sapeva già sul mio conto. «Vediamo», disse leggendo il menu. «Ti consiglio vivamente le specialità alsaziane. Come antipasto che cosa preferisci? La salad de gruyère? Insalata di lattuga e pomodoro con gruviera grattugiato? E un po' pesante, però.» «Magari prendo solo quella», replicai, visto che non avevo appetito. Tirò fuori un sigaro e un tagliasigari dalla tasca interna della giacca. «Così fumo meno sigarette», spiegò. «Ne vuoi uno?» «In Francia fumate troppo. Bisogna che smetta di nuovo», replicai. «Sono ottimi.» Ne tagliò la punta. «Intinti nello zucchero. Questo è alla vaniglia, ma ne ho anche alla cannella e al sambuco.» Accese un fiammifero. «Il mio preferito è alla vaniglia.» Fece un tiro. «Dovresti assaggiarlo.» Me lo offrì. «No, grazie», risposi. «Me li faccio spedire da un venditore all'ingrosso di Miami», continuò
abbassando la testa all'indietro per soffiare fuori il fumo. «Cojimar. Da non confondere con i Cohiba, che sono stupendi ma illegali, visto che sono fatti a Cuba e non nella Repubblica Dominicana. Illegali negli Stati Uniti, per la precisione. Lo so, visto che sono nell'ATF. Conosco bene alcol, tabacco e armi da fuoco.» Aveva già finito il primo bicchiere di vino. «Per certe cose non serve l'università: basta la strada.» Si riempì il bicchiere e versò ancora un po' di vino nel mio. «Se io tornassi in America, mi vorresti rivedere? Così, per sapere, nel caso mi trasferissero... diciamo a Washington?» «Non volevo...» risposi. Gli vennero gli occhi lucidi e si voltò dall'altra parte. «Non era mia intenzione. Scusami», sussurrai. «È colpa mia.» «Colpa?» esclamò. «Chi ha parlato di colpa? Pensi che ci sia da essere in colpa? Io credevo che ci si sentisse in colpa solo quando si faceva qualcosa di sbagliato.» Si protese in avanti e sorrise, come se mi avesse appena preso in castagna. «Colpa... Mmm», fece, continuando a giocare al detective. «Jay, sei tanto giovane», dissi. «Un giorno capirai.» «Mi dispiace se ho gli anni che ho», mi interruppe con un tono che fece girare qualche testa ai tavoli vicini. «E poi vivi in Francia, santo Dio!» «Ci sono posti peggiori.» «Se vuoi, giraci pure intorno», dissi, «ma prima o poi i problemi bisogna affrontarli.» «Sei pentita, vero?» Si appoggiò allo schienale. «Ti conosco bene, eppure ho fatto una sciocchezza del genere...» «Non ho mai detto che fosse una sciocchezza.» «Perché non eri pronta.» Stavo cominciando a essere turbata. «Come fai a sapere se sono o non sono pronta?» gli dissi. Il cameriere, che si stava avvicinando per prendere le ordinazioni, passò oltre, discreto. «Pensi troppo a che cos'ho io nella testa quando invece dovresti pensare a cos'hai tu nella tua.» «Okay, non ti preoccupare. Non cercherò più di prevedere le tue reazioni.» «Sei petulante», replicai. «Com'è giusto che sia alla tua età.»
Mi lanciò un'occhiataccia. Bevvi un sorso di vino. Jay aveva già finito il secondo bicchiere. «Merito rispetto anch'io», disse. «Non sono mica un bambino. Che cos'è stato questo pomeriggio, Kay? Un'opera buona? Un'azione a fin di bene? Una lezione di educazione sessuale? Un gesto materno?» «Non credo che dovremmo parlarne in questa sede», suggerii. «O forse mi hai soltanto usato», continuò. «Sono troppo vecchia per te. Per favore, abbassa il tono di voce.» «Vecchie sono mia madre e mia zia. O la vedova sorda che abita vicino a casa mia.» Mi resi conto che non sapevo dove abitava. Non avevo nemmeno il suo numero di telefono. «Sei vecchia quando fai la prepotente, assumi questi toni condiscendenti e diventi pusillanime», continuò alzando il bicchiere. «Pusillanime? Mi sono sentita dire tante cose, nella vita, ma mai che ero pusillanime.» «Dal punto di vista emotivo, lo sei.» Bevve come per spegnere un fuoco che gli ardeva dentro. «Per questo stavi con lui. Perché ti dava sicurezza. Non so se lo amassi o no, ma di certo con lui ti sentivi sicura.» «Non parlare di cose che non conosci», lo avvertii. Stavo cominciando a tremare. «Perché sei piena di paure. Da quando è morto tuo padre, da quando hai cominciato a sentirti diversa... Perché tu sei diversa ed è questo il prezzo che gente come noi deve pagare. Siamo speciali. Siamo soli e non ci capita quasi mai di pensare che è perché siamo speciali. Crediamo di avere qualcosa che non va.» Posai il tovagliolo sul tavolo e spinsi indietro la sedia. «Il problema di chi raccoglie informazioni sugli altri», dissi con voce calma e bassa, «è che si appropria dei segreti, dei tesori, dei tormenti e delle estasi del prossimo e si comporta come se fossero i suoi. Almeno io vivo la mia vita, non quella degli altri come un voyeur. Almeno io non faccio la spia.» «Neanch'io faccio la spia», replicò. «Ho raccolto informazioni sul tuo conto, tutto qui.» «E hai fatto un ottimo lavoro», replicai ferita. «Soprattutto oggi pomeriggio.» «Per piacere, non te ne andare», sussurrò prendendomi per mano. Mi ritrassi e uscii dal ristorante sotto lo sguardo degli altri avventori.
Qualcuno scoppiò a ridere e fece un commento che non aveva bisogno di traduzione. Era evidente che il bel giovanotto e la sua stagionata amichetta avevano bisticciato. Che fosse il suo gigolò? Erano quasi le nove e mezzo. Mi incamminai decisa verso l'hotel, mentre i parigini sembravano continuare a uscire. Una vigilessa con i guanti bianchi dirigeva il traffico mentre io aspettavo insieme con molta gente di attraversare il Boulevard des Capucines. La sera risuonava di voci e brillava del pallido riflesso della luna. L'aroma di crêpes, beignets e caldarroste mi faceva venire la malinconia. Correvo come un evaso che non voleva farsi riacciuffare, ma poi rallentavo perché in realtà avrei voluto essere raggiunta. Tuttavia Talley non mi seguì. Arrivai in albergo senza fiato e sconvolta e mi resi conto che non sopportavo né l'idea di tornare in camera mia né di vedere Marino. Presi un taxi perché avevo un'altra faccenda da sbrigare e ormai avrei dovuto occuparmene da sola, di notte, inquieta e disperata com'ero. «Sì?» mi chiese l'autista, voltandosi dalla mia parte. «Madame?» Mi sentivo scombussolata e non riuscivo a rimettere insieme i pezzi di me stessa. «Parla inglese?» chiesi. «Sì.» «Conosce la città? Può spiegarmi dove passiamo?» «Intende dire ora?» «Mentre andiamo.» «Devo farle da guida?» domandò divertito. «Non sono una guida, ma vivo a Parigi. Dove vuole andare?» «Lei sa dov'è l'obitorio? Sulla Senna, vicino alla Gare de Lyon?» «È lì che vuole andare?» Si voltò verso di me con aria perplessa e aggrottò la fronte cercando di immettersi nel traffico. «Sì, voglio andare lì. Ma prima vorrei andare all'Île Saint-Louis», replicai guardando tra la folla mentre la speranza di rivedere Talley scemava come la luce. «Che cosa?» L'autista scoppiò a ridere, convinto ormai che fossi matta. «Vuole andare all'obitorio e all'Île Saint-Louis? Che legame c'è? È morto un riccone?» Mi stavo seccando. «La prego», dissi. «Partiamo.» «Okay, se è questo che vuole.» Le ruote rumoreggiavano sull'acciottolato e la luce dei lampioni si riflet-
teva sulla Senna. Passai la mano sul finestrino appannato e lo aprii per vedere meglio mentre attraversavamo il Pont Louis-Philippe per arrivare sull'isola. Riconobbi immediatamente le case seicentesche che un tempo ospitavano l'aristocrazia. C'ero già stata con Benton. Avevamo passeggiato per le strade strette e letto le targhe sui muri che spiegavano chi vi aveva risieduto. Ci eravamo fermati nei caffè e avevamo mangiato un gelato al Berthillon. Chiesi al tassista di fare il giro dell'isola. I palazzi erano bellissimi e segnati dal tempo, con i balconi di ferro battuto nero, e attraverso le finestre illuminate si vedevano splendidi soffitti, librerie e quadri. Non un volto davanti ai vetri, tuttavia: era come se i nobili abitanti di quel luogo non volessero farsi vedere dai comuni mortali. «Ha mai sentito parlare della famiglia Chandonne?» chiesi al tassista. «Certamente!» replicò lui. «Vuole vedere dove vivono?» «Grazie», risposi, piena di timori. Andammo verso il Quai d'Orléans, passando davanti alla casa in cui era morto Pompidou, e arrivammo sul Quai de Béthune, vicino alla punta orientale dell'isola. Infilai una mano in borsa e cercai una boccetta di Advil. Il taxi si fermò e io mi resi conto che l'autista non si voleva avvicinare più di tanto alla casa della famiglia Chandonne. «Giri lì all'angolo e vada al Quai d'Anjou; vedrà un portone con un camoscio inciso: è lo stemma degli Chandonne. Ci sono camosci dappertutto, persino sulle gronde: è uno spettacolo da non perdere. Stia lontana dal ponte sulla sponda destra, però», mi raccomandò. «Lì sotto ci sono senzatetto e omosessuali. È pericoloso.» L'hôtel particulier in cui da centinaia di anni abitava la famiglia Chandonne era un palazzo di quattro piani con molti abbaini, comignoli e un œil de bœuf, ovvero una finestra rotonda vicino al tetto. Come il tassista mi aveva anticipato, il portone di legno scuro e le grondaie dorate erano decorati con camosci. Mi venne la pelle d'oca. Mi rifugiai nell'ombra e osservai il luogo dov'era nato e vissuto l'uomo che si faceva chiamare Loup-Garou. Dalle finestre intravidi enormi lampadari di cristallo e scaffali pieni di libri. Sussultai nel vedere un volto di donna dietro un vetro. Era grassissima e indossava una vestaglia bordeaux con le maniche larghe, di seta o di raso. La fissai sbigottita. Sembrava nervosa e muoveva velocemente le labbra come se stesse parlando a qualcuno. Poco dopo apparve una cameriera con un vassoio d'argento su cui era posato un bicchierino di liquore. Madame Chandonne, se
di costei si trattava, lo prese e cominciò a sorseggiarlo. Poi accese una sigaretta con un accendino d'argento e si allontanò dalla finestra. Andai a passo svelto verso la punta dell'isola, che era a poca distanza, e dal giardinetto pubblico cercai la sagoma dell'obitorio qualche chilometro più a monte, dall'altra parte del Pont Sully. Guardai la Senna pensando all'assassino che stavamo cercando, forse il figlio della donna obesa che avevo appena visto, che da anni faceva il bagno nudo nel fiume senza che lei lo sapesse, il corpo coperto di pelo lungo e chiaro bagnato dalla luna. Lo immaginai uscire dalla sua ricca dimora e vagare per quelle strade la notte per tuffarsi in cerca di sollievo. Da quanti anni si immergeva in quelle acque gelide e sporche? Mi chiesi se fosse mai stato sulla sponda destra a guardare altri emarginati come lui, se avesse mai cercato di mescolarsi a loro. Una scala conduceva dalla strada al Quai e l'acqua arrivava a lambire l'acciottolato lasciando piccole pozze che puzzavano di fogna. La Senna era in piena dopo le piogge continue e la corrente molto forte. Ogni tanto nel riflesso dorato della luce dei lampioni passava una papera, sebbene di solito non nuotassero di notte. Aprii il flacone di Advil e gettai le pastiglie per terra, poi mi avventurai guardinga giù per i gradini bagnati e scivolosi. Misi la boccetta nel fiume, la sciacquai e quindi la riempii di acqua gelata, la richiusi e tornai al taxi guardando un po' timorosa la casa degli Chandonne, quasi temessi che ne uscissero improvvisamente dei pericolosi criminali arrabbiati con me. «Mi può portare all'obitorio, per favore?» dissi al tassista. Era buio e il filo spinato che di giorno non si vedeva, brillava alla luce dei fari delle auto di passaggio. «Entri pure nel parcheggio», dissi. L'uomo svoltò da Quai de la Rapée verso lo spiazzo dietro l'edificio dove parcheggiavano i carri funebri e dove quella mattina avevo visto la coppia in lutto. Scesi. «Mi aspetti qui», chiesi al tassista. «Ci metterò un minuto.» Aveva la faccia pallida e, guardandolo bene, mi accorsi che era pieno di rughe e senza denti. Sembrava a disagio e si guardava intorno nervoso come valutando se andare via o meno. «Non si preoccupi», dissi prendendo un blocco per appunti dalla cartella. «È una giornalista?» fece lui sollevato. «Sta scrivendo un articolo?» «Sì.» Sorrise e si appoggiò al finestrino aperto.
«Mi era venuto un colpo, sa? Mi era venuta paura che avesse in mente chissà cosa!» «Ci metto un attimo», ripetei. Mi avviai sentendo l'umidità della pietra e dell'aria che veniva dal fiume, muovendomi nell'ombra e osservando ogni dettaglio, immedesimandomi in lui. Ero certa che quel luogo lo affascinasse: era lì che esibiva i suoi macabri trofei e che si beava della propria impunità. Poteva fare ciò che voleva e quando voleva, lasciando tutte le tracce di sé che gli pareva, perché intanto nessuno lo avrebbe toccato. Probabilmente da casa sua all'obitorio c'erano venti o trenta minuti di strada a piedi e io lo immaginai seduto nel giardino a guardare l'edificio di pietra e a pensare a quel che succedeva là dentro, al lavoro che aveva procurato alla dottoressa Stvan. Mi chiesi se l'odore di morte lo eccitava. Una lieve brezza agitò le acacie e mi sfiorò la pelle mentre ripensavo a quello che la dottoressa Stvan mi aveva raccontato dell'uomo che aveva bussato alla sua porta. Era andato lì per ucciderla e non l'aveva fatto. Era tornato il giorno dopo e le aveva lasciato una lettera. Pas la police... Forse facevamo il suo modus operandi più complicato di quello che era. Pas de problème... Le Loup-Garou. Forse era semplicemente un essere che non riusciva a controllare la propria furia omicida. Chi risvegliava il mostro che era in lui non aveva scampo. Ero certa che, se fosse stato ancora in Francia, la dottoressa Stvan non ci sarebbe stata più. Forse quando era fuggito a Richmond, aveva sperato di riuscire a controllarsi. E forse c'era riuscito, per tre giorni. O forse aveva subito messo gli occhi su Kim Luong e fantasticato finché non era riuscito più a trattenere l'impulso malvagio. Corsi al taxi, i cui finestrini erano talmente appannati che non vedevo all'interno. Aprii la portiera posteriore. Il riscaldamento era al massimo e l'autista si era assopito. Sentendomi, fece un salto sul sedile e imprecò. 38 Il Concorde parti dall'aeroporto Charles De Gaulle alle undici e arrivò a New York alle otto e quarantacinque, ovvero prima di quando fossimo partiti. Giunsi a casa a metà pomeriggio, confusa, fisicamente stanca ed emotivamente provata. Il tempo stava peggiorando, i meteorologi preannunciavano pioggia e nevischio e io dovevo fare la spesa. Marino andò a casa sua
contento di possedere un pick-up. Ukrops era affollatissimo perché quando le previsioni erano cattive gli abitanti di Richmond facevano incetta di provviste per paura di morire di fame o di sete. Non c'erano più né pollo né tacchino e non trovai nemmeno una pagnotta. Comprai quello che riuscii a trovare, sperando che Lucy restasse con me qualche giorno. Tornai a casa alle sei passate, senza neanche la forza di mettere la macchina in garage, e parcheggiai davanti a casa. Le nuvole che coprivano la luna sembravano un teschio, poi il vento forte le disperse, facendo tremare e sussurrare gli alberi. Avevo male dappertutto, tanto che temevo di essermi presa qualcosa. Non vedendo tornare Lucy e non ricevendo sue notizie, mi preoccupai. Supponevo che fosse all'ospedale, ma quando contattai il reparto di ortopedia e mi sentii dire che l'ultima volta che l'avevano vista era la mattina del giorno prima, persi la testa. Mi misi a passeggiare avanti e indietro per la sala pensando. Erano quasi le dieci quando risalii in macchina e mi diressi verso il centro in preda a una tensione tale che temevo di esplodere. Era possibile che fosse partita per Washington, ma non riuscivo a credere che non mi avesse neanche lasciato un biglietto. Che scomparisse senza una parola era sempre un brutto segno. Girai in Ninth Street e mi infilai nelle strade vuote del centro per poi passare da un piano all'altro del parcheggio dell'ospedale in cerca di un buco in cui lasciare la macchina. Prima di scendere, presi il camice dal sedile posteriore. Il reparto di ortopedia era nell'edificio nuovo, al secondo piano. Quando arrivai davanti alla camera, mi infilai il camice e aprii la porta. Vicino al letto c'erano quelli che supposi essere i genitori di Jo. Mi avvicinai. Jo aveva la testa fasciata, la gamba in trazione, ma era sveglia e mi guardò. «I signori Sanders?» dissi. «Sono la dottoressa Scarpetta.» Ebbi l'impressione che il mio nome non dicesse loro niente. Il signor Sanders si alzò educatamente in piedi e mi strinse la mano. «Piacere», disse. Non era per nulla come me lo ero immaginato. Siccome Jo aveva parlato del loro atteggiamento molto rigido, li immaginavo duri e severi; invece i signori Sanders erano sovrappeso, un po' sciatti e molto normali. Quando chiesi loro di Jo, furono cortesi e un po' timidi. Jo mi lanciava delle occhiate che io interpretai come una richiesta di soccorso. «Vi spiace se parlo a vostra figlia in privato per un momento?» domandai.
«Si figuri», rispose la donna. «Jo, fa' come ti dice la dottoressa», raccomandò il padre. Uscirono e, non appena ebbi chiuso la porta, gli occhi di Jo si riempirono di lacrime. Mi chinai e le diedi un bacio sulla guancia. «Ci hai fatto prendere uno spavento da morire», le dissi. «Come sta Lucy?» sussurrò lei scoppiando in singhiozzi. Presi un fazzoletto di carta e glielo misi in mano. Nel polso aveva infilato il tubicino della flebo. «Non lo so. Non so dove sia, Jo. I tuoi le hanno detto che tu non volevi vederla e lei...» Jo scosse la testa. «Lo sapevo!» esclamò cupa. «Lo sapevo che avrebbero fatto così. E a me hanno detto che era lei a non voler vedere me, che era troppo sconvolta per quello che era successo. Io non gli ho creduto, perché so che Lucy non farebbe mai una cosa del genere. Ma loro l'hanno mandata via e adesso chissà dov'è. Magari gli ha anche creduto.» «È convinta che quello che ti è successo sia colpa sua», le dissi. «È possibile che il proiettile che ti ha spezzato la gamba sia stato sparato dalla sua pistola.» «Per favore, la trovi. La faccia venire qui. Per favore.» «Hai idea di dove potrebbe essere?» domandai. «Non c'è un posto dove va quando è agitata? Miami, magari?» «No, là non è andata di sicuro.» Mi sedetti su una sedia accanto al letto e sospirai. «Un albergo?» continuai. «Da un'amica?» «Potrebbe essere andata a New York», rispose Jo. «C'è un bar nel Greenwich Village, Rubyfruit...» «Pensi che sia andata a New York?» la interruppi sgomenta. «Lo gestisce un'ex poliziotta. Si chiama Ann», continuò lei con voce rotta. «Ma non lo so, non so più niente. Mi fa paura, quando scappa così. Perché, quando è in quello stato, non ragiona.» «Lo so. E dopo tutto quello che è successo è anche comprensibile. Jo, io credo che, se fai quello che ti dicono, fra un giorno o due ti dimetteranno», le dissi con un sorriso. «Dove vorresti andare?» «A casa no. La troverà, vero?» «Ti farebbe piacere venire a casa mia?» chiesi. «I miei non sono cattivi», mormorò, mentre la morfina le scendeva goccia a goccia in vena. «Non capisco, però. Credono che sia... Ma perché do-
vrebbe essere sbagliato?» «Non è sbagliato», la rassicurai. «Amare non è mai sbagliato.» Si stava assopendo. Uscii. I suoi genitori erano fuori della porta; avevano l'aria stanca e triste. «Come sta?» chiese lui. «Non benissimo», risposi. La signora Sanders scoppiò in lacrime. «Avete il diritto di pensarla come volete», dissi. «Ma in questo momento impedirle di vedere Lucy è la cosa peggiore che potete fare a vostra figlia. È già abbastanza depressa e spaventata: non conviene rischiare che perda del tutto la voglia di vivere.» Non risposero. «Sono la zia di Lucy», spiegai. «Jo è libera di fare quello che vuole», disse il signor Sanders. «Ora che sta meglio, deciderà lei. Noi abbiamo solo cercato di fare il suo bene.» «Jo ne è perfettamente consapevole», replicai. «Vi vuole molto bene.» Non mi salutarono, ma mi guardarono salire in ascensore. Chiamai Rubyfruit non appena fui tornata a casa e chiesi di Ann. Sentivo voci e musica in sottofondo. «Lucy non sta troppo bene», mi spiegò Ann. Capii subito a cosa si riferiva. «Può starle vicino?» la pregai. «È quello che sto facendo», mi rispose. «Un attimo che gliela passo.» «Ho visto Jo», dissi a Lucy appena venne a rispondere. «Oh.» Lo disse in un modo da cui capii con assoluta certezza che era ubriaca. «Lucy!» «Non ho voglia di parlare», replicò. «Jo ti ama», le dissi. «Torna.» «A fare?» «Quando la dimettono può venire a casa mia e stare con te», risposi. «Ecco che cosa devi tornare a fare.» Non riuscii a dormire. Alle due mi alzai e andai in cucina a farmi una tisana. La pioggia scrosciava dal tetto e schizzava sulla terrazza. Avevo freddo. Pensai ai tamponi, ai peli e alle foto dei segni di morsicatura che avevo nella valigetta e per un attimo ebbi l'impressione che l'assassino fosse in casa mia. Ne sentivo la presenza, quasi quelle parti di lui emanassero malvagità.
Riflettei sulla tragica ironia della situazione: l'Interpol mi aveva fatto andare in Francia e alla fine l'unica prova che avrei potuto portare in tribunale era una boccetta di Advil piena di acqua della Senna. Alle tre mi sedetti sul letto a scrivere una lettera a Talley. Appena mettevo insieme una frase, tuttavia, la cancellavo, perché non mi sembrava che andasse bene niente. Mi faceva paura sentire la sua mancanza e ripensare a come lo avevo trattato. Dopo quello che avevo fatto, meritavo la sua freddezza. Accartocciai l'ennesimo foglio e guardai il telefono. Calcolai che ora doveva essere a Lione e lo immaginai seduto alla scrivania in uno dei suoi completi elegantissimi, con il telefono in mano, oppure in riunione, o forse insieme a un'altra persona e comunque che non pensava a me. Pensai al suo corpo asciutto e prestante. Andai a lavorare. Quando in Francia erano quasi le due del pomeriggio, chiamai l'Interpol. «Bonjour, hello...» «Vorrei parlare con Jay Talley, per favore.» Mi passarono un interno. «HIDTA», rispose una voce di uomo. Mi bloccai, confusa. «Cercavo il signor Talley.» «Chi parla?» Glielo dissi. «Non c'è», mi rispose. Mi venne un brivido di paura: non gli credevo. «Con chi parlo, scusi?» mi informai. «Sono Wilson, dell'FBI. Purtroppo l'altro giorno non ci siamo incontrati. Jay è fuori ufficio.» «Può dirmi a che ora torna?» «Non ne ho la minima idea.» «Capisco», replicai. «Non sa dove posso contattarlo? O può farmi richiamare?» Ero consapevole del mio tono agitato. «Non so dove sia», replicò. «Ma quando torna, gli dirò certamente che ha chiamato. A meno che non voglia dire a me.» «No, grazie», risposi. Riattaccai in preda al panico. Ero sicura che Talley non volesse parlarmi e avesse raccomandato ai colleghi di non passargli le mie telefonate. «Oddio», esclamai passando davanti alla scrivania di Rose. «Che cos'ho
fatto?» «Stai parlando con me?» mi chiese alzando gli occhi dalla tastiera e guardandomi da dietro le lenti. «Hai di nuovo perso qualcosa?» «Sì.» Alle otto e mezzo entrai nella sala riunioni e mi sedetti come al solito a capotavola. «Che cosa abbiamo?» domandai. «Una donna nera di trentadue anni, della contea di Albemarle», cominciò Chong. «Uscita di strada. Pare che abbia perso il controllo della vettura. Frattura della gamba destra e della base del cranio. Il dottor Richards ha chiesto l'autopsia.» Mi guardò. «Mi chiedo perché, visto che la causa della morte mi sembra piuttosto chiara.» «La legge stabilisce che se un medico della contea ci chiede un servizio, noi glielo dobbiamo fornire», risposi. «In fondo è meglio perderci un'ora adesso che dieci fra un po' perché è venuto fuori qualche problema.» «Poi abbiamo una donna bianca di ottant'anni, vista l'ultima volta ieri mattina intorno alle nove. Il suo amico l'ha trovata ieri sera alle sei e mezzo...» Dovevo fare uno sforzo per non distrarmi. «...non sembra che sia overdose di medicinali né morte violenta», continuò Chong in tono soporifero. «Ma accanto al cadavere c'era della nitroglicerina.» Talley faceva l'amore con passione e desiderio, come affamato. Ci pensai e non mi capacitai di averci pensato durante una riunione di lavoro. «Conviene sottoporla a esame tossicologico e controllare l'eventuale presenza di lesioni», intervenne Fielding. «La guardo io.» «Sapete in che corso insegno la settimana prossima all'istituto?» si informò il tossicologo Tim Cooper. «Tossicologia, presumo.» «Mi serve una segretaria», replicò Cooper. «Dico sul serio.» «Oggi ho tre udienze in tribunale», diceva Riley. «E non so come farò, visto che sono in tre posti diversi.» La porta si aprì e Rose fece capolino per farmi segno di uscire un istante. «Larry Posner sta per andare via», mi avverti. «Vorrebbe che facessi un salto da lui prima che puoi.» «Vado subito.» Quando arrivai stava preparando un vetrino permanente spargendo con una pipetta una goccia di Cargille Melt Mount sul bordo di un vetrino co-
prioggetto mentre gli altri vetrini si stavano riscaldando su una piastra. «Non so se voglia dire qualcosa», esordì. «Da' un'occhiata. Diatomee del tuo cadavere non identificato. Tieni presente che l'unica cosa che una diatomea ti può dire, tranne rare eccezioni, è se l'acqua è marina, salmastra o dolce.» Guardai attraverso la lente le alghe unicellulari che si rivestivano di un guscio di vetro e la cui forma faceva venire in mente barche, catene e zigzag, spicchi di luna e striature di tigri, croci e fiches. C'erano parti che mi ricordavano i coriandoli, i grani di sabbia e altre particelle variopinte che probabilmente erano minerali. Posner tolse il vetrino e ne mise un altro. «Il campione di acqua della Senna», annunciò. «Cymbella, Melosira, Navicula, Fragilaria e così via. Comuni come la polvere e tutte di acqua dolce. Almeno questo è buono, ma in sé non dicono niente.» Mi appoggiai allo schienale e lo fissai. «Mi hai fatto venire qui per dirmi questo?» domandai delusa. «Be', non sono mica Robert McLaughlin», replicò con un sorrisetto, riferendosi al grande studioso di diatomee che era stato suo insegnante. Si chinò sul microscopio e regolò l'ingrandimento a 1000x, quindi cominciò a spostare i vetrini. «Comunque no, non ti ho chiesto di venire qui per questo», continuò. «Siamo stati fortunati nella frequenza con cui si presentano le varie specie della flora.» Si riferiva all'insieme delle diatomee, specie per specie. «Cinquantuno per cento di Melosira, quindici per cento di Fragilaria. Non ti voglio tediare, ma i campioni sono molto simili fra loro. Talmente simili, a dire il vero, che potrei definirli identici, cosa che ritengo alquanto miracolosa, visto che a trenta metri di distanza dal punto in cui hai immerso la boccetta di Advil la flora poteva essere completamente diversa.» Mi fece venire i brividi pensare alla sponda dell'Île Saint-Louis e alle voci che volevano che nell'oscurità un uomo nudo si gettasse nel fiume vicino alla casa degli Chandonne. Forse si rivestiva senza farsi la doccia né asciugarsi, trasferendo cosi le diatomee all'interno dei vestiti. «Se nuota nella Senna e ha le diatomee nei vestiti, vuol dire che non si sciacqua prima di rivestirsi», dissi. «E sul corpo di Kim Luong?» «La flora è decisamente diversa rispetto a quella della Senna», rispose Posner. «Ma ho prelevato un campione d'acqua dal fiume James, vicino a dove abiti tu. E ho trovato di nuovo la stessa distribuzione.»
«Sul corpo di Kim Luong e nell'acqua del fiume?» Dovevo esserne sicura. «Un dubbio che ho è se le diatomee del fiume James si trovano addosso a chiunque lo bazzichi», disse Posner. «Non mi sembra difficile accertarlo.» Presi dei bastoncini di ovatta e me li passai sull'avambraccio, sui capelli e sulla suola delle scarpe. Posner preparò degli altri vetrini. Non c'era una sola diatomea. «E nell'acqua del rubinetto?» domandai. Posner scosse la testa. «Dunque una persona non dovrebbe averne addosso, a meno che non sia stata a contatto con l'acqua del fiume, del lago, dell'oceano...» Mi interruppi, colta da uno strano pensiero. «Il mar Morto, il fiume Giordano!» «Che cosa?» chiese Posner stupefatto. «L'acqua di Lourdes!» continuai in preda a un'eccitazione crescente. «Il fiume sacro del Gange... Sono tutti ritenuti luoghi miracolosi dove i ciechi, gli storpi e i paralitici si immergono sperando nella guarigione.» «Pensi che si immerga nel fiume James di questa stagione?» chiese Posner. «Allora è pazzo!» «L'ipertricosi è incurabile», replicai. «La che?» «E una malattia orribile e molto rara, per cui nasci con il corpo coperto di pelo. Pelo lungo e sottile, che può arrivare a quindici, venti centimetri di lunghezza. E si accompagna ad altre anomalie.» «Santo cielo!» «Forse sperava in un miracolo immergendosi nudo nella Senna. E può darsi che ci stia riprovando nel fiume James», conclusi. «Che roba!» esclamò Posner. «Mi fai venire i brividi!» Quando tornai in ufficio, trovai Marino seduto davanti alla mia scrivania. «Nottataccia?» mi chiese ingollando del caffè. «Lucy è scappata a New York. Ho parlato con Jo e con i suoi.» «Che cos'ha fatto Lucy?» «Adesso toma. È tutto a posto.» «Be', le conviene mettere la testa a posto: in questo momento fare certi colpi di testa per lei è deleterio.» «Marino, è possibile che l'assassino faccia il bagno nel fiume sperando
in una cura miracolosa», lo aggiornai. «Mi chiedo se non stia vicino al fiume James.» Ci pensò su un momento, poi assunse un'espressione strana. Sentimmo dei passi lungo il corridoio. «Spero solo che non sia sparito dalla circolazione il proprietario di qualche villetta sul lungofiume», rifletté. «Mi è venuto un brutto presentimento.» Fielding entrò nel mio ufficio e aggredì Marino. «Ma che cosa le è saltato in testa?» Aveva le vene del collo gonfie ed era paonazzo: non l'avevo mai visto in quello stato. «Ha fatto entrare la stampa prima di noi?» gridò, nonostante non fosse solito alzare la voce. «Si calmi», replicò Marino. «Dove avrei lasciato entrare la stampa?» «Hanno ucciso Diane Bray», continuò Fielding. «Alla TV non parlano d'altro. Hanno fermato il presunto colpevole: Rene Anderson.» 39 Il cielo era coperto e quando arrivammo a Windsor Farms pioveva. Mi parve strano passare con la Suburban nera dell'ufficio davanti alle case in stile Tudor e georgiano e ai giardini curati dei miei vicini. Non erano persone che si preoccupavano della criminalità, convinti com'erano che essere di buona famiglia e abitare in vie eleganti dai nomi inglesi potesse creare un'oasi di sicurezza. Ma ero certa che non sarebbe durato. La casa di Diane Bray era ai limiti del quartiere, vicino al muro di cinta dietro cui rumoreggiava continuamente Downtown Expressway. Quando svoltai nella sua strada, rimasi strabiliata dal numero di reporter intorno alla casa, una villetta bianca che pareva portata lì direttamente dal New England. Furgoni e macchine della stampa bloccavano il traffico ed erano tre volte più numerosi rispetto alle auto della polizia. «Più di così non riesco ad avvicinarmi», dissi a Marino. «Vediamo», replicò, aprendo la portiera. Scese e sotto la pioggia torrenziale approcciò l'uomo seduto al posto di guida del furgone di una radio, parcheggiato sul prato davanti alla casa della Bray. L'uomo abbassò il finestrino e commise la sciocchezza di sbattergli un microfono sulla faccia. «Circolare!» gridò Marino aggressivo.
«Capitano Marino, può confermare che...» «È sordo? Le ho detto di andarsene!» Sentii i pneumatici slittare sul fango e vidi il furgone fare retromarcia e fermarsi in mezzo alla strada. Marino gli mollò un calcio in una ruota posteriore. «Più lontano!» ordinò. Il furgone si allontanò azionando i tergicristalli al massimo e si fermò davanti al giardino di una casa poco più in là. Con la pioggia e il vento che mi sferzavano il viso presi la mia valigetta dal bagagliaio della Suburban. «Speriamo che non ti abbiano ripreso mentre facevi la tua scenata quotidiana», dissi a Marino non appena lo raggiunsi. «Ma chi cazzo si sta occupando del caso?» «Tu, mi auguro», risposi camminando a passo svelto e con la testa bassa. Marino mi prese per un braccio. Sul vialetto di casa Bray erano parcheggiate una Ford Contour blu e un'auto della polizia con un agente davanti e uno dietro, seduto accanto a Rene Anderson. La detective aveva l'aria affranta e furiosa e scuoteva la testa gridando parole che non sentivo. «Dottoressa Scarpetta?» Un giornalista televisivo mi si avvicinò, seguito da un cameraman. «Hai riconosciuto la nostra macchina a noleggio?» mi chiese Marino sottovoce fissando con il volto bagnato la Ford blu targata RGG-7112. «Dottoressa Scarpetta?» «No comment.» Quando le passammo davanti, la Anderson non ci degnò di uno sguardo. «Può dirci...?» I giornalisti non mollavano. «No», risposi, correndo su per la scala. «Capitano Marino, mi è parso di capire che la polizia è arrivata qui in seguito alla soffiata di un informatore.» Continuava a piovere e i motori rombavano. Ci chinammo per passare sotto il nastro giallo che cingeva il luogo del delitto. Tutto a un tratto la porta si aprì e un agente chiamato Butterfield ci fece entrare. «Sono proprio contento di vedervi», ci disse. «Credevo che fossi in vacanza», aggiunse poi rivolgendosi a Marino. «Infatti. Mi ci hanno mandato a forza», rispose. Ci infilammo un paio di guanti e Butterfield chiuse la porta con aria truce, guardandosi intorno attentissimo. «Dimmi tutto», fece Marino osservando l'ingresso e zoomando verso il salotto.
«Hanno chiamato il pronto intervento da una cabina del telefono poco distante da qui. Arriviamo e troviamo questo macello. L'hanno massacrata di botte», riferì. «Cos'altro?» chiese Marino. «Forse l'hanno violentata, ma potrebbe anche essere una rapina. Il portafoglio era per terra senza un soldo e la borsetta è stata svuotata completamente. Attenti a dove mettete i piedi», aggiunse come rivolgendosi a dei principianti. «Ne aveva, di quattrini», si stupì Marino osservando l'arredamento straordinario di quella casa straordinaria. «E non avete ancora visto niente», commentò Butterfield. Quello che mi colpì per prima cosa fu la collezione di orologi nel salotto. C'erano orologi da muro e da scaffale, in legno di rosa, di noce e di mogano, da campanile, di moda, calendografi, antichi e perfettamente sincronizzati. Ticchettavano rumorosamente e pensai che sarei diventata matta, se avessi dovuto vivere in mezzo a quel costante ricordo del passare del tempo. Diane Bray era appassionata di oggetti di antiquariato inglese, lussuosi e severi. Davanti al televisore c'erano un sofà con i braccioli rotondi e una libreria girevole con divisori in finta pelle; alcune poltrone rigide e barocche e un paravento di raso erano piazzati lì apparentemente senza motivo. Il mobile più imponente della stanza era una credenza enorme, color ebano. I pesanti tendoni di damasco dorato erano tirati e sulle mantovane c'erano delle ragnatele. Non vidi neanche un quadro o una scultura. Più osservavo la sua casa, più mi rendevo conto di quanto la personalità della Bray fosse fredda e arrogante. Mi era sempre meno simpatica e non mi piaceva tanto pensare così di una persona che era appena stata massacrata di botte. «Come faceva ad avere tanti soldi?» domandai. «Chi lo sa», rispose Marino. «Ce lo chiedevamo tutti», replicò Butterfield. «Avete visto che macchina?» «No», risposi. «Ogni sera si porta a casa una Crown Vic nuova», osservò Marino. «Sì, ma nel garage aveva una Jaguar rosso fuoco. A occhio direi che è del Novantotto o del Novantanove. Non ho idea di quanto possa costare.» Scosse la testa. «Due anni del mio stipendio», rispose Marino.
«E del mio.» Continuarono a parlare dei gusti e dei soldi della Bray come se il suo cadavere sfigurato non fosse nella stanza accanto. Nel salotto non vidi nulla di interessante per il caso, e in generale mi parve una stanza che la Bray usava poco e puliva ancora di meno. La cucina era sulla destra. Diedi un'occhiata alla ricerca di macchie di sangue o di altri segni di violenza, senza trovarne. Neanche la cucina pareva una stanza molto vissuta. Era perfettamente pulita e non c'era traccia di roba da mangiare, a parte un pacchetto di caffè e tre bottiglie di merlot. Marino mi raggiunse e mi passò davanti per andare ad aprire il frigorifero con le mani protette dai guanti. «Ho l'impressione che non le piacesse molto cucinare», commentò osservando i ripiani semivuoti. C'erano un cartone di latte scremato, dei mandarini, un pacchetto di margarina, una scatola di Grape-Nuts e alcune salse. Il congelatore non era meglio fornito. «Evidentemente non stava molto in casa e mangiava sempre fuori», disse aprendo la pattumiera a pedale. Vi infilò la mano e tirò fuori pezzi di una scatola di pizza, una bottiglia di vino e tre bottiglie di birra St. Pauli Girl. Mise insieme i frammenti dello scontrino. «Una media al salame piccante con formaggio extra», borbottò. «Ordinata ieri sera alle cinque e cinquantatré.» Continuò a frugare e trovò dei tovaglioli appallottolati, tre fette di pizza e almeno mezza dozzina di mozziconi di sigaretta. «Molto interessante», decretò. «Diane Bray non fumava. Evidentemente aveva compagnia.» «A che ora è arrivata la chiamata al pronto intervento?» «Alle nove e zero quattro, cioè più o meno mezz'ora fa. E non credo che abbia fatto il caffè, letto il giornale o fatto altro, stamattina.» «Sono praticamente sicuro che fosse già morta», intervenne Butterfield. Ci spostammo in camera da letto passando per un corridoio moquettato che portava in fondo alla casa. Sulla soglia ci bloccammo: aria e luce sembravano intrise di violenza, il silenzio era totale, i segni della distruzione ovunque. «Per la miseria», borbottò Marino sottovoce. Pavimento, pareti, soffitto, poltrone e poltroncine erano coperti di chiazze scarlatte con un'uniformità che sarebbe potuta sembrare una scelta del-
l'arredatore; tuttavia, macchie, striature e schizzi non erano un artistico tocco di colore, ma lo scempio provocato da uno psicopatico. Gli specchi antichi erano imbrattati di sangue e il pavimento era un lago che si stava lentamente solidificando. Il letto matrimoniale era zuppo di sangue e sfatto in maniera singolare. Diane Bray era stata picchiata tanto selvaggiamente che era difficile anche solo identificarne la razza. Era supina, la camicia di raso verde e il reggiseno nero sul pavimento. Li raccolsi e vidi che le erano stati strappati di dosso. Ogni millimetro quadrato di pelle era coperto di macchie e strane spirali rosse che parevano fatte apposta, il volto maciullato e irriconoscibile. L'orologio d'oro al polso sinistro era in frantumi e sull'anulare destro una fede d'oro era ormai tutt'uno con l'osso. Fissammo la scena a lungo. La Bray era nuda dalla vita in su e pareva che i calzoni neri di velluto e la cintura non fossero stati neanche toccati. I palmi delle mani e le piante dei piedi erano scarnificati e questa volta il Loup-Garou non si era neppure premurato di nascondere i segni delle morsicature. Riconobbi le impronte di denti piccoli e distanziati che non avevano nulla di umano. L'assassino aveva morso, straziato e picchiato la propria vittima con una violenza che sembrava gridare vendetta. Il fatto che fosse sfigurata poteva significare che aveva riconosciuto il suo assassino, proprio come le altre vittime del Loup-Garou. Era fui che non le conosceva. Bussava alla loro porta senza averle mai incontrate se non nella propria mente malata. «Cos'è successo alla Anderson?» chiese Marino a Butterfield. «Non capisce più niente. È diventata matta.» «Interessante. Questo vuol dire che non abbiamo un detective sul luogo del delitto?» «Marino, mi presti la torcia, per favore?» La puntai su alcune macchie sulla testiera del letto e sull'abat-jour, che mi parevano di sangue schizzato dall'arma mentre l'assassino la sollevava per sferrare i suoi colpi mortali, e su altre, che erano piccole pozze di sangue gocciolato lentamente sul tappeto. Mi accucciai e controllai il parquet vicino al letto, dove trovai alcuni peli lunghi e chiari. Anche il corpo della Bray ne era pieno. «A noi hanno detto di venire a controllare e aspettare la supervisione», diceva uno degli agenti. «La supervisione di chi?» si informò Marino. Puntai il fascio di luce di traverso sulle impronte sanguinolente vicino al
letto, che avevano una forma caratteristica, e alzai gli occhi verso gli agenti. «Del comandante, penso. Secondo me vuole venire a controllare, prima di qualsiasi intervento», spiegava Butterfield a Marino. «Allora sono cazzi acidi», replicò questi. «Quando arriva, resta fuori a pigliarsi la pioggia.» «Quante persone sono entrate in questa stanza?» chiesi. «Non lo so», rispose uno degli agenti. «Se non lo sa, vuole dire che ne sono entrate troppe!» risposi. «Avete toccato il cadavere? Quanto vi siete avvicinati?» «Io non l'ho toccata.» «No, no.» «Di chi sono queste impronte?» indicai. «Ho bisogno di saperlo perché, se non sono le vostre, vuol dire che l'assassino si è fermato abbastanza a lungo perché il sangue cominciasse a seccare.» Marino controllò le scarpe degli agenti, che indossavano entrambi scarponcini neri. Marino si accucciò e osservò il disegno delle impronte sul parquet. «Sembra proprio Vibram», decretò sarcastico. «Meglio che cominci», decretai prendendo dalla valigetta dei tamponi e un termometro chimico. «Qui dentro c'è troppa gente!» protestò Marino. «Cooper, Jenkins, cercatevi qualcosa di utile da fare.» Puntò il pollice verso la porta aperta e quelli rimasero a guardarlo esterrefatti. Uno fece per aprire bocca. «Lascia perdere, Cooper», lo bloccò sul tempo Marino. «E dammi quella macchina fotografica. Ti hanno detto di venire a controllare, no? Mica di svolgere indagini. E allora? Non hai resistito alla tentazione di andare a vedere da vicino il tuo capo ridotto a quel modo? È così? E quanti altri coglionastri sono venuti a fare lo stesso?» «Scusi un attimo...» protestò Jenkins. Marino gli prese di mano la Nikon. «Dammi la radio», ordinò. Jenkins la staccò dal cinturone e gliela porse di malavoglia. «Smamma!» fece allora Marino. «Capitano, non posso allontanarmi senza la radio.» «Vai, ti do il permesso io.» Nessuno osava ricordargli che era stato sospeso dal servizio. Jenkins e
Cooper se ne andarono di corsa. «Stronzi», commentò Marino appena si furono allontanati. Voltai il corpo della Bray sul fianco. Il rigor mortis era completo, a indicare che era morta almeno da sei ore. Le abbassai i pantaloni e le feci un tampone rettale per verificare la presenza di liquido seminale, prima di inserire il termometro. «Ci vogliono un investigatore e i tecnici della Scientifica», diceva Marino alla radio. «Unità nove, a che indirizzo?» «A quello a cui mi trovo», replicò Marino in codice. «Dieci-quattro, unità nove», replicò l'operatrice. «Minny», mi disse Marino. Rimasi in attesa di una spiegazione. «È la mia amica della sala radio. Ci conosciamo da una vita.» Estrassi il termometro e lo sollevai. «Trentuno e uno», dissi. «Di solito il raffreddamento di un corpo è di circa un grado all'ora nelle prime otto ore. Ma in questo caso sarà stato più rapido perché è parzialmente nuda. Cosa saranno, 21 gradi, qui dentro?» «Non lo so, ma si muore di caldo», rispose. «Di sicuro è morta ieri sera. Questo è assodato.» «Dal contenuto dello stomaco capiremo qualcosa di più», dissi. «Sappiamo com'è entrato l'assassino?» «Appena finiamo qui vado a controllare porte e finestre.» «Lunghe lacerazioni lineari», dissi toccando le ferite e alla ricerca di peli e fibre che rischiavano di non arrivare in obitorio. «Provocate da un ferro che potrebbe essere quello usato per smontare pneumatici. E perforazioni dappertutto.» «Potrebbe essere proprio l'attrezzo che si usa per smontare il pneumatico dal cerchione», confermò Marino continuando a guardare. «E qui?» domandai. Il materasso era coperto di strisce di sangue che ricordavano i solchi di un aratro, lunghe più o meno tre centimetri e distanziate di due. Erano state lasciate da un qualche oggetto e coprivano una superficie grande all'incirca come il palmo della mia mano. «Controlliamo gli scarichi dei lavandini per verificare la presenza di sangue», dissi, sentendo delle voci nel corridoio. «Speriamo che siano i Breakfast Boys», fece Marino riferendosi a Ham e Eggleston.
Arrivarono con due valigette molto grandi. «Avete idea di che cosa è successo?» chiese loro Marino. I due tecnici sgranarono gli occhi. «Per la Madonna», esclamò alla fine Ham. «Ma com'è andata?» domandò Eggleston, gli occhi fissi allo scempio sul letto. «Ne sappiamo quanto te», rispose Marino. «Perché non ti hanno chiamato fino a ora?» «Mi sorprende che abbiano chiamato te», replicò Ham. «Nessuno ci ha informato fino a poco fa.» «Ho le mie fonti», spiegò Marino. «Chi ha avvertito i giornalisti?» domandai io. «Avranno le loro fonti», replicò Eggleston. Insieme con Ham, cominciò ad aprire le valigette e a sistemare le luci. La radio che Marino aveva rubato all'agente urlò il suo numero di unità facendoci trasalire. «Merda», esclamò. «Nove», rispose quindi. Ham e Eggleston inforcarono il binocolo d'ingrandimento, che in gergo si chiamava «Luke Skywalker». «Unità nove, dieci-cinque-tre-quattordici», disse la radio. «Tre-quattordici, ci sei?» fece Marino. «Devi uscire da lì», disse la voce. «Dieci-dieci», si rifiutò Marino. I tecnici cominciarono a prendere le misure in millimetri usando ulteriori lenti di ingrandimento che sembravano quelle da orafo. Il binocolo ingrandiva di tre volte e mezzo, ma non bastava per le macchie di sangue più piccole. «Ti vogliono. Subito», continuò la radio. «C'è sangue di ritorno dappertutto», osservò Eggleston indicando le linee uniformi provocate dal sangue schizzato durante il movimento di ritorno dell'arma. «Impossibile», rispose Marino. L'unità tre-quattordici non rispose e io mi preparai al peggio. Purtroppo avevo ragione. Pochi minuti dopo, infatti, si sentirono dei passi nel corridoio e sulla soglia apparve il comandante della polizia, Rodney Harris, con la faccia dura. «Capitano Marino», disse. «Comandante», rispose questi guardando il pavimento in corrispondenza
del bagno. Ham e Eggleston, in tuta nera, guanti di gomma e binocolo di ingrandimento, non facevano che rendere ancor più spaventoso quel luogo. In quel momento stavano calcolando con una serie ai formule geometriche la posizione della vittima e del suo aggressore mentre questi infieriva su di lei. «Comandante», salutarono in coro. Harris fissò il letto serrando la mascella. Era basso di statura, con pochi capelli rossi e la pancetta in agguato. Forse erano state le durezze della vita a farlo diventare così, ma il fatto era che Harris era un tiranno: aggressivo, non nascondeva il proprio disprezzo per le donne che non stavano al loro posto. Questo rendeva ancor più incomprensibile la sua scelta di nominare vicecomandante Diane Bray, a meno che non fosse stata una mossa puramente politica. «Con tutto il rispetto, comandante», fece Marino, «è meglio che non muova un altro passo.» «Volevo chiederle se è stato lei ad avvertire la stampa, capitano», chiese Harris con un tono che avrebbe intimidito i più. «È responsabile anche di questo o ha semplicemente contravvenuto ai miei ordini?» «La seconda, comandante. Non ho chiamato io i giornalisti. Quando sono arrivato con la dottoressa qui presente, li abbiamo trovati già appostati.» Harris mi guardò come se mi avesse appena notato. Ham ed Eggleston salirono su una scala a pioli, nascondendosi dietro al proprio lavoro. «Che cosa le hanno fatto?» mi domandò Harris con voce tremula. «Cristo santo.» Chiuse gli occhi e scosse la testa. «L'hanno massacrata con un oggetto contundente. Non sappiamo ancora quale», risposi. «Voglio dire, c'è...?» cominciò, ma la sua facciata di pietra si stava sgretolando. «Cristo...» Si schiarì la voce, gli occhi fissi sul corpo della Bray. «Ma perché? Chi è stato? Non sappiamo niente?» «Ci stiamo lavorando, comandante», rispose Marino. «Per il momento non so dirle nulla, ma forse lei può togliermi un paio di dubbi.» I tecnici avevano cominciato a fissare del nastro rosa in corrispondenza delle gocce di sangue sul soffitto. Harris aveva l'aria sofferente. «Che cosa sapeva della sua vita privata?» gli domandò Marino. «Niente», rispose Harris. «Non so nemmeno se ce l'avesse, una vita privata.»
«Qualcuno è venuto a trovarla ieri sera. Hanno mangiato una pizza, forse hanno anche bevuto un po'. Pare che il suo ospite fumasse», riferì Marino. «Non ho mai sentito che avesse qualcuno.» Harris distolse lo sguardo dal cadavere. «Non eravamo propriamente amici.» Ham interruppe quello che stava facendo, lasciando il nastro che aveva in mano per aria. Eggleston osservò con il proprio Optivisor e una lente di ingrandimento le goccioline di sangue sul soffitto, prendendo appunti. «E i vicini?» domandò Harris. «Non hanno visto né sentito niente?» «Non abbiamo ancora chiesto in giro, anche perché nessuno ha chiamato l'Investigativa e la Scientifica finché non ho preso io l'iniziativa», replicò Marino. Harris si voltò e se ne andò. Io guardai Marino, ma lui evitò il mio sguardo: ero sicura che si fosse appena giocato l'ultima chance che aveva di ritornare a fare l'investigatore. «Come andiamo?» chiese ad Ham. «Abbiamo finito il nastro.» Ham ne fissò un'estremità a una goccia di sangue delle dimensioni e della forma di una virgola. «Adesso dove l'attacco questa? Provate un po' a spostare quella lampada, per favore? Grazie. Ecco, così. Perfetto», disse Ham, fissando il nastro alla lampada. «Dovrebbe dare le dimissioni e venire a lavorare con noi, capitano.» «Non penso che le piacerebbe», borbottò Eggleston. «Infatti. Non c'è niente che mi dia più fastidio che sprecare il mio tempo», replicò Marino. Quel lavoro non era una perdita di tempo, ma era noiosissimo a meno che uno non fosse appassionato di trigonometria e ossessivamente pignolo. Ogni goccia di sangue seguiva una traiettoria specifica dal punto di partenza (cioè dalla ferita) al punto di arrivo (per esempio la parete) e, a seconda della velocità, della distanza e dell'angolazione, assumeva una forma da cui si potevano ricavare informazioni importanti. Sebbene ormai molti calcoli si facessero con il computer, la rilevazione dei dati necessari era comunque un processo lungo e laborioso; inoltre avevamo sperimentato che in tribunale faceva molto più effetto un modello tridimensionale fatto di nastro piuttosto che una schermata di linee virtuali. Calcolare l'esatta posizione della vittima al momento di ogni colpo non era necessario, tranne che in casi particolarmente delicati, e il nostro non era uno di questi. Non avevo bisogno di tante misure per capire che era un omicidio e non un suicidio o che l'assassino era in preda a una terribile furia omicida.
«Bisogna che la portiamo giù», dissi a Marino. «Chiama la squadra.» «Non capisco come abbia fatto a entrare», intervenne Ham. «Era una poliziotta, non avrà mica aperto la porta al primo che passava...» «Magari lo conosceva...» «Ma per l'amor di Dio! Questo è lo stesso che ha fatto fuori la commessa del Quik Cary. E evidente.» «Dottoressa Scarpetta?» mi chiamò Harris dal corridoio. Mi voltai sorpresa: ero convinta che se ne fosse andato. «Dov'è la pistola? L'avete trovata?» domandò Marino. «Finora no.» «Posso parlarle un momento?» mi chiese Harris. Marino gli lanciò un'occhiataccia ed entrò nel bagno dicendo a voce lievemente troppo alta: «Sapete come si fa a controllare nei tubi e negli scarichi, vero?». «Arriviamo.» Uscii nel corridoio e Harris mi fece segno di andare un po' più in là, dove non ci potessero sentire. Il comandante della polizia di Richmond si era arreso alla tragedia e la collera aveva ceduto il posto alla paura. Me ne accorsi subito e intuii che era proprio questo che non voleva che vedessero i suoi uomini. Aveva la giacca sul braccio, il colletto della camicia sbottonato e la cravatta allentata; faceva fatica a respirare. «Sta bene?» domandai. «Soffro d'asma.» «Ha l'inalatore?» «L'ho appena usato.» «Cerchi di calmarsi, comandante», gli dissi, perché l'asma è pericolosa e lo stress la rende ancora peggiore. «Senta, circolavano delle voci», mi rivelò. «Che la volevano coinvolta in certe attività a Washington. Io non ne sapevo niente, quando l'ho assunta. Cioè, non so come faccia ad avere tutti questi soldi», aggiunse, come se fosse ancora viva. «E so che la Anderson la seguiva come un cagnolino.» «Forse la seguiva anche senza che la Bray se ne accorgesse», ipotizzai. «È qui fuori, su un'autopattuglia», mi comunicò, come se già non lo sapessi. «Di regola evito di compromettermi prima di aver completato le indagini», replicai, «ma non credo proprio che sia stata Rene Anderson.» Prese l'inalatore e se lo spruzzò in gola. «Comandante, questa è opera dello stesso sadico che ha ucciso Kim
Luong. Il modus operandi è il medesimo ed è troppo caratteristico perché sia stato qualcun altro. Non sono stati diffusi abbastanza particolari perché qualcuno abbia cercato di farsi passare per lui... Anzi, certe cose le sappiamo solo io e Marino.» Harris ansimava. «Mi capisce, comandante?» continuai. «Vuole che qualcun altro faccia la stessa fine? Perché succederà. E presto. L'assassino sta perdendo il controllo alla velocità del fulmine. Forse perché ha lasciato la sua città e fuori da Parigi si sente come un animale braccato... È disperato, furioso, probabilmente si sente minacciato e ci sfida...» aggiunsi chiedendomi che cosa avrebbe detto Benton se fosse stato al mio posto. «Chissà che cosa ha in testa.» Harris si schiarì la voce. «Che cosa vuole che faccia?» mi domandò. «Che emetta un comunicato stampa. Al più presto. Sappiamo che parla francese e che potrebbe avere una malattia congenita che lo rende estremamente peloso. Riteniamo che abbia il corpo coperto di pelo lungo e chiaro; forse si rade il viso, la testa e il collo. Ha una dentatura anormale, con denti piccoli, aguzzi e distanziati fra loro; probabilmente ha una faccia fuori del comune.» «Gesù.» «E indispensabile che del caso si occupi Marino», continuai, come se avessi il diritto di dire una cosa del genere. «Come? Vuole che raccontiamo all'opinione pubblica che stiamo dando la caccia a un uomo coperto di pelo e con i denti aguzzi? Vuole seminare un panico senza precedenti?» Era senza fiato. «Si calmi, la prego.» Gli posai due dita sul collo per controllargli le pulsazioni: erano troppo frequenti. Lo accompagnai nel salotto e lo feci sedere. Poi gli portai un bicchiere d'acqua e gli massaggiai le spalle parlandogli sommessamente e pregandolo di stare fermo e rilassarsi. Piano piano riprese a respirare normalmente. «Deve stare attento a non agitarsi così», gli consigliai. «Dia a Marino l'incarico di occuparsi delle indagini e lo tolga da quel turno di notte. Se non le arresta questo sadico, lei come fa? Come facciamo tutti noi?» Harris annuì. Si alzò e si avviò a piccoli passi verso la camera da letto di Diane Bray. Marino stava controllando l'armadio. «Capitano», lo chiamò.
Marino si interruppe e lo guardò con aria di sfida. «Le affido il compito di risolvere il caso», gli disse Harris. «Mi faccia sapere se ha bisogno di qualcosa.» Marino passò le mani guantate fra una serie di gonne. «Voglio parlare con Rene Anderson», replicò. 40 Lo sguardo di Rene Anderson era duro e vitreo come il finestrino da cui guardava il cadavere di Diane Bray chiuso in un sacco, che veniva caricato sul furgone con una barella. Pioveva. Reporter e fotografi fissavano me e Marino che ci avvicinavamo all'autopattuglia, pronti a scattare come nuotatori ai blocchi di partenza. Marino aprì la portiera dalla parte della Anderson e mise dentro la testa. «Ci vogliamo fare una chiacchierata?» le disse. Il suo sguardo spaventato passò da lui a me. «Su», la incoraggiò Marino. «A lei non ho niente da dire», dichiarò la Anderson guardando me. «Forse la dottoressa non è d'accordo», ribatté Marino. «Su, scenda. Non mi faccia insistere.» «Non voglio che scattino foto, però!» esclamò. Ma era troppo tardi. Gli obiettivi piombarono su di lei come uno stormo di rapaci. «Si metta la giacca sopra la testa e si copra il viso come si vede fare in TV», le consigliò Marino con un'ombra di sarcasmo. Mi avvicinai al furgone per dire una cosa ai due inservienti che stavano chiudendo il portellone. «Quando arrivate», gli raccomandai, con i capelli ormai completamente fradici di pioggia, «portate il corpo nella cella frigorifera in presenza di una guardia. Chiamate il dottor Fielding e chiedetegli di accompagnarvi.» «Sì, dottoressa.» «E tenete la bocca cucita.» «Come sempre.» «Questa volta è particolarmente importante che non parliate con nessuno», ribadii. «Non si preoccupi.» Salirono sul furgone e fecero retromarcia, mentre io tornavo verso la casa senza badare alle domande dei giornalisti e ai flash dei fotografi. Marino e la Anderson erano seduti nel salotto e gli orologi di Diane Bray segnava-
no le undici e mezzo. La Anderson aveva i jeans bagnati e le scarpe sporche di fango, come se a un certo punto fosse caduta per terra. Tremava dal freddo. «Lei sa che ormai basta una bottiglia di birra per effettuare la prova del DNA, vero?» le stava dicendo Marino. «O un mozzicone di sigaretta. Per non parlare di una crosta di pizza.» La Anderson era accasciata sul divano e sembrava completamente priva di forze. «Non c'entro con...» cominciò a dire. «Salem al mentolo. Ne abbiamo ritrovato delle cicche nella pattumiera», continuò Marino. «Non sono quelle che fuma lei? Sa, io invece credo che lei c'entri. Anzi, ho la netta sensazione che fosse qui poco prima che la Bray venisse ammazzata. E ritengo che non ci sia stata colluttazione e che la vittima conoscesse la persona che l'ha massacrata di botte.» Marino non credeva affatto che l'assassino fosse Rene Anderson. «Com'è andata?» incalzava. «Il suo capo l'ha fatta disperare al punto che lei non ce l'ha più fatta?» Pensai alla camicia di raso e alla biancheria di pizzo sexy che indossava Diane Bray. «Avete mangiato una pizza insieme e poi le ha detto di tornarsene a casa, come se non le importasse niente di lei? Le ha detto l'ennesimo no, ieri sera?» chiese Marino. Rene Anderson teneva gli occhi bassi e si passava la lingua sulle labbra sforzandosi di non scoppiare in singhiozzi. «È comprensibile, del resto. La pazienza ha un limite, no? Come quando ti mettono i bastoni fra le ruote sul lavoro, dopo un po' non ne puoi più. Vero, dottoressa? Ma di questo parleremo dopo.» Si protese in avanti, appoggiando le grosse mani sulle ginocchia finché la Anderson non alzò la testa e lo guardò negli occhi. «Si rende conto del guaio in cui si è cacciata?» le domandò. La Anderson si tirò indietro i capelli con mano tremante. «Sono venuta a trovarla ieri sera», ammise in tono sconsolato. «Ho fatto un salto da lei e abbiamo ordinato una pizza.» «Lo faceva spesso?» si informò Marino. «Di fare un salto da lei? O a volte la invitava anche?» «Certe volte mi invitava, certe volte facevo un salto io», rispose. «Certe volte quindi si presentava a casa sua senza essere invitata: è questo che sta dicendo?»
Rene Anderson annuì e si umettò nuovamente le labbra. «Ieri sera era una di queste?» La Anderson ci pensò su. Vidi l'ennesima menzogna condensarsi come una nube nel suo sguardo. Marino si appoggiò allo schienale. «Come si sta scomodi!» brontolò ruotando le spalle. «Sembra di essere in una bara. Io credo che le convenga dirmi la verità, perché prima o poi la vengo a sapere comunque e, se scopro che mi ha raccontato una balla, la faccio sbattere dentro. Non pensi che non sappiamo dell'auto a noleggio, per esempio.» «Cosa c'è di strano nel fatto che un detective abbia un'auto a noleggio?» Si stava arrampicando sugli specchi e lo sapeva benissimo. «Niente. Basta che non vada in giro a pedinare la gente», replicò Marino. A quel punto toccava a me intervenire. «L'ho vista parcheggiata davanti alla casa della mia segretaria», dissi. «Con lei o qualcun altro alla guida. Rose è stata pedinata e io anche.» La Anderson non aprì bocca. «Scusi, ma il suo indirizzo di posta elettronica è per caso M-A-Y-F-LR?» le chiesi. Si soffiò sulle mani per scaldarsele. «Già, me l'ero scordato», fece Marino. «Lei è nata di maggio, no? 10 maggio, Bristol, Tennessee. Conosco persino residenza e codice fiscale.» «E io so tutto di Chuck», aggiunsi. Mi accorsi che era tesa e spaventata. «Il fatto è che abbiamo un filmato che mostra il nostro Chuckie mentre si intasca le pasticche all'obitorio», disse Marino. «Lei ne era al corrente?» Rene Anderson trasse un respiro profondo. In realtà non avevamo ancora nessun filmato. «È un'attività redditizia. Abbastanza da permettere sia a lui sia alla Bray di fare una bella vita.» «Era lui a rubarle, non io», replicò la Anderson. «L'idea non è stata mia.» «Lei lavorava nella Narcotici», replicò Marino. «Quindi sa benissimo dove si può smerciare certa roba. Scommetto che invece l'idea è stata proprio sua. Anche perché, per quanto Chuck mi stia antipatico, prima che arrivasse qui lei non aveva mai spacciato.» «Lei seguiva Rose e me per spaventarci», dissi. «Io lavoro in città e pertanto mi sposto per la città», replicò. «Se mi capita di trovarmi in auto dietro di lei non è necessariamente per seguirla.»
Marino si alzò e fece un versaccio disgustato. «Mi faccia il favore!» esclamò. «Torniamo in camera della Bray. Dal momento che è tanto brava a fare il detective, dia un'occhiata al sangue e alla materia cerebrale spiaccicata dappertutto e mi dica che cosa è successo secondo lei. Visto che non pedinava nessuno e che non c'entra con le pasticche, faccia almeno il suo lavoro e mi aiuti, cara la mia detective.» La Anderson impallidì. Aveva il terrore negli occhi. «Come?» Marino le si sedette vicino sul divano. «Non se la sente? Vuole dire che non andrà nemmeno in obitorio ad assistere all'autopsia? Non vuole fare il suo lavoro?» Fece spallucce e si alzò di nuovo in piedi, mettendosi a camminare e scuotendo la testa. «Certo, non si può essere deboli di stomaco per andare di là. Ha una faccia che pare un hamburger...» «La smetta!» «E le hanno morsicato i seni in un modo spaventoso.» Gli occhi della Anderson si riempirono di lacrime. Si coprì il viso con le mani. «Tipico di chi viene frustrato nel proprio desiderio sessuale e ha un raptus. Amore-odio, insomma. Del resto, se uno sfigura la propria vittima, vuole dire che la conosce bene.» «La smetta!» gridò la Anderson. Marino si zittì e la guardò assorto, come se fosse stata un'equazione da risolvere. «Detective Anderson», intervenni. «Com'era vestita Diane Bray ieri sera, quando lei è venuta a trovarla?» «Aveva una camicia verde chiaro, di raso», rispose con voce tremante. «E pantaloni di velluto a coste neri.» «Aveva calze e scarpe?» «Aveva un paio di stivaletti alla caviglia neri. E calze nere.» «Portava gioielli?» «Un anello e l'orologio.» «E la biancheria? Portava il reggiseno?» Mi guardò con il naso che le colava. Parlava come se avesse avuto il raffreddore. «È importante che io lo sappia», spiegai. «Su Chuck avete ragione», rispose invece lei. «Ma non ho avuto io l'idea. È stata lei.»
«La Bray?» chiesi. «Mi trasferì dalla Narcotici alla Omicidi. Voleva liberarsi di lei», aggiunse rivolta a Marino. «Arrotondava lo stipendio spacciando psicofarmaci e non so cos'altro. Li prendeva anche, se è per questo. E voleva a tutti i costi sbarazzarsi di lei.» Si voltò di nuovo dalla mia parte e si asciugò il naso nel dorso della mano. Io presi un pacchetto di fazzoletti dalla cartella. «E anche di lei», mi disse. «Me ne sono accorta», replicai. Non mi sembrava possibile che stessimo parlando della donna di cui avevo appena esaminato il cadavere massacrato in quella stessa casa. «So che aveva il reggiseno», rispose la Anderson. «Perché portava la camicia aperta, un po' sbottonata e si chinava per mostrare il petto. Lo faceva d'abitudine, anche sul lavoro, per vedere che effetto faceva sugli altri.» «E che effetto faceva?» domandò Marino. «Be', faceva effetto. Si metteva anche delle gonne con lo spacco, che sembravano normali finché non accavallava le gambe in un certo modo. Io gliel'ho detto, che faceva male a vestirsi così.» «Mi dica che effetto faceva», insistette Marino. «Gliel'ho raccomandato un sacco di volte, di non farlo.» «Bisogna avere un bel coraggio per dire al proprio capo come deve o non deve vestirsi.» «Secondo me, non doveva farsi vedere così dagli agenti.» «Era gelosa, detective Anderson?» Non rispose. «Scommetto che Diane Bray lo sapeva e lo faceva apposta, a farla ingelosire. Era proprio il tipo che ci gode a stuzzicare gli altri per poi tirarsi indietro.» «Aveva un reggiseno nero», mi rispose la Anderson. «Con il bordo di pizzo. Non so cos'altro avesse.» «Lei si sentiva usata, vero?» continuò Marino. «Le faceva da galoppino, da tirapiedi, da Cenerentola. Cos'altro?» Rene Anderson stava cominciando ad alterarsi. «Si faceva portare la macchina all'autolavaggio, eh? Così si diceva in giro. Le faceva fare la figura della deficiente, dell'incapace, della leccapiedi che nessuno pigliava sul serio. La cosa peggiore è che magari, se l'avesse lasciata in pace, lei avrebbe anche saputo fare il suo lavoro. Purtroppo però
quella non le ha mai dato la possibilità di dimostrarlo, tenendola al guinzaglio tutto il tempo. Le dico una cosa: la Bray non sarebbe mai venuta a letto con lei. Quelle come lei non vanno a letto con nessuno. Sono come i serpenti, non hanno bisogno di nessuno che gli tenga caldo.» «La odio», esclamò la Anderson. «Mi trattava come uno straccio.» «E perché continuava a venirla a trovare, allora?» domandò Marino. La Anderson mi fissava come se non l'avesse nemmeno sentito. «Si sedeva su quella sedia lì, dov'è seduta lei. Mi chiedeva di versarle da bere, di massaggiarle il collo e di fare un sacco di altre cose. A volte si faceva fare un massaggio completo.» «E lei glielo faceva?» chiese Marino. «Si spogliava, si infilava un accappatoio e si sdraiava sul letto.» «Quello dove l'hanno uccisa? E per farsi massaggiare si toglieva anche l'accappatoio?» Rene Anderson gli lanciò un'occhiata di fuoco. «Sì, ma non del tutto! Le portavo i vestiti in lavanderia, andavo a fare il pieno alla sua stramaledetta Jaguar e poi... E poi lei mi trattava da cani!» Sembrava un bambino arrabbiato con la mamma. «È vero», fece Marino. «Trattava da cani molta gente.» «Però non l'ho ammazzata io! Non l'ho mai toccata, a parte quando me lo chiedeva lei, ve l'ho già detto!» «Che cosa è successo ieri sera?» domandò Marino. «È venuta a trovarla perché le è saltato il ghiribizzo o cosa?» «No, avevamo appuntamento. Dovevo portarle delle pasticche e dei soldi. Le piacevano il Valium, l'Ativan, il BuSpar. Così si rilassava.» «Quanti soldi?» «Duemilacinquecento dollari. In contanti.» «Che sono spariti», fece Marino. «Li aveva messi sul tavolo, in cucina. Non lo so. Abbiamo ordinato una pizza, bevuto un paio di bicchieri e fatto quattro chiacchiere. Era di pessimo umore.» «Per quale motivo?» «Aveva saputo che eravate stati in Francia», spiegò. «All'Interpol.» «E come aveva fatto a saperlo?» «Probabilmente attraverso l'Istituto di medicina legale. Magari glielo aveva detto Chuck, non lo so. Otteneva sempre tutto quello che voleva, sapeva tutto di tutti. Ed era arrabbiata perché pensava che ci sarebbe dovuta andare lei. All'Interpol, intendo dire. Abbiamo parlato praticamente solo di
quello. E mi ha anche sgridato per la storia del Buckhead's, per le e-mail, per come erano andate le indagini sull'omicidio del Quik Cary. Non le andava mai bene niente.» Gli orologi cominciarono a battere l'ora: era mezzogiorno. «A che ora è andata via?» chiesi non appena il concerto finì. «Verso le nove, mi pare.» «La Bray faceva la spesa al Quik Cary?» «Può darsi che qualche volta ci andasse», rispose. «Ma, come avrete visto ispezionando la cucina, era una che faceva di rado la spesa.» «Le portava lei da mangiare?» domandò Marino. «Sì, e non mi dava neanche i soldi indietro. Sapendo benissimo che guadagno una miseria.» «A parte gli extra che tirava su con le pasticche», osservò Marino. «Non mi dirà che non le davano la sua quota.» «Io e Chuck pigliavamo il dieci per cento e Diane Bray si teneva il resto. Glielo portavo una volta alla settimana, a seconda di dove ricuperavamo la roba. Perché certa veniva dall'obitorio e certa dalle indagini. Quando passavo, mi fermavo poco, perché lei aveva sempre fretta. A un certo punto mi diceva che aveva da fare. Io devo ancora finire di pagare la macchina: è lì che andava il mio dieci per cento. Mica come lei, che non sapeva che cosa vuol dire fare fatica ad arrivare alla fine del mese.» «Litigavate mai?» domandò Marino. «Sì, a volte bisticciavamo.» «E ieri sera avete bisticciato?» «Un pochino.» «Perché?» «Perché era di cattivo umore.» «E allora?» «Me ne sono andata, ve l'ho già detto. E poi lei aveva da fare. Era sempre lei a decidere quando troncare la discussione.» «Era venuta con la macchina a noleggio?» chiese Marino. «Sì.» Pensai che l'assassino doveva averla vista uscire, appostato chissà dove nel buio. Sia Diane Bray sia Rene Anderson erano andate al porto quando c'era la Sirius, su cui l'assassino era giunto a Richmond spacciandosi per un marinaio chiamato Pascal. Probabilmente le aveva viste, probabilmente si era interessato a tutti quelli che indagavano sull'omicidio che aveva commesso, me e Marino compresi.
«Senta, le è mai capitato di tornare dopo essersene andata, magari perché le veniva in mente un'altra cosa da dire?» «Sì», ammise. «Anche perché non era giusto che mi zittisse a quel modo.» «Dunque le succedeva spesso?» «Quando mi arrabbiavo.» «E che cosa faceva, suonava il campanello? Come faceva a farsi aprire la porta?» «Scusi?» «La polizia di solito bussa, quando viene a casa mia», spiegai. «Non suona il campanello.» «Questo perché nella maggior parte delle topaie in cui andiamo il campanello non funziona», spiegò Marino. «Bussavo», rispose la Anderson. «Come?» chiesi, mentre Marino si accendeva una sigaretta e mi lasciava parlare. «Be'...» «Due, tre volte? Piano, forte?» continuai. «Tre volte. Forte.» «E lei le apriva sempre?» «Certe volte no. Certe volte apriva appena e mi diceva di andarmene a casa.» «Chiedeva mai "Chi è"? Oppure apriva direttamente la porta?» «Se sapeva che ero io», rispose, «apriva senza chiedere.» «Se pensava che fosse lei», precisò Marino. Rene Anderson capì dove volevamo arrivare e si bloccò. Andare avanti era superiore alle sue forze e decisamente insopportabile. «Ma ieri sera non è tornata, vero?» domandai. Il suo silenzio fu significativo. No, la sera prima Rene Anderson non era tornata. Non aveva bussato tre volte, forte. Lo aveva fatto l'assassino al posto suo e Diane Bray aveva aperto la porta senza fare domande. Probabilmente era sul punto di dirle qualcosa, quando si era trovata davanti il mostro, che l'aveva spinta da parte per entrare. «Non le ho torto un capello, lo giuro», disse la Anderson. «Non è stata colpa mia», ripeté, perché non era nel suo carattere assumersi le proprie responsabilità. «Le è andata bene che non è tornata indietro ieri sera», disse Marino. «Supponendo che sia vero.»
«È vero! Lo giuro!» «Se fosse tornata, avrebbe fatto anche lei una brutta fine.» «Io non c'entro!» «Be', non direi. Diane Bray non avrebbe certo aperto la porta se...» «Non è giusto!» gridò la Anderson. Aveva ragione: qualsiasi fosse il suo rapporto con la Bray, non era colpa loro se l'assassino si era appostato nel buio per tendere l'agguato. «Dunque se n'è tornata a casa», continuò Marino. «Ha provato a chiamarla più tardi? Per cercare di fare pace, magari?» «Sì, ma non ha risposto.» «Quanto tempo dopo che se n'era andata?» «Una ventina di minuti. Ho riprovato diverse volte, pensando che non mi volesse parlare. Poi, quando a mezzanotte passata ho continuato a trovare la segreteria telefonica, ho cominciato a preoccuparmi.» «Le ha lasciato qualche messaggio?» «Non tutte le volte.» Si fermò a pensare e deglutì. «Stamattina sono andata a controllare verso le sei e mezzo. Ho bussato senza avere risposta. Siccome la porta era aperta sono entrata.» Si era rimessa a tremare e aveva gli occhi sbarrati per l'orrore. «Sono entrata e...» Non riuscì a finire la frase. «Sono scappata di corsa. Ho avuto paura.» «Paura?» «Di quello che l'ha... Era come se ne sentissi la presenza in quella stanza, come se fosse rimasto qualcosa di lui nella casa... Avevo la pistola in mano e mi sono messa a correre, poi sono salita in macchina più veloce che potevo, mi sono fermata a una cabina e ho chiamato il pronto intervento.» «Almeno ha detto chi era e non ha fatto una telefonata anonima», commentò Marino. «Di questo bisogna renderle merito.» «Pensate che adesso se la prenderà con me?» domandò sgomenta. «Io ogni tanto andavo al Quik Cary a fare la spesa. Conoscevo Kim Luong.» «Grazie per avercelo detto», fece Marino mentre io riflettevo sul ruolo che Kim Luong aveva avuto in tutta la storia. Se l'assassino spiava la Anderson, poteva darsi che questa l'avesse involontariamente portato al Quik Cary e alla prima vittima di Richmond. O forse era stata Rose. Forse il Loup-Garou aveva visto Rose e me nel parcheggio dell'istituto o addirittura quando io ero andata a trovarla a casa. «Se la fa sentire più sicura, possiamo tenerla dentro», disse Marino se-
rio. «Cosa posso fare?» piangeva la Anderson. «Abito da sola... Ho paura, tanta paura.» «Possesso e spaccio di sostanze stupefacenti», pensò ad alta voce Marino. «È reato. Vediamo: dal momento che lei e Chuckie avete un lavoro e fate una vita abbastanza normale, la cauzione non sarà altissima. Sui duemilacinquecento dollari, a occhio, che potreste tranquillamente pagare con i proventi delle vostre attività criminose. Non dovreste avere problemi.» Infilai la mano nella cartella e presi il cellulare. Chiamai Fielding. «Il cadavere è appena arrivato», mi comunicò. «Vuoi che cominci?» «No», risposi. «Sai dov'è Chuck?» «Oggi non è venuto.» «Lo credo bene», replicai. «Se lo vedi, chiudilo nel tuo ufficio e non lasciarlo uscire.» 41 Non erano ancora le due quando entrai nel parcheggio a cercare un posto abbastanza riparato. Due addetti alle pompe funebri caricavano un corpo avvolto in un sacco mortuario in un furgone vecchio stile, con le tendine ai finestrini. «Salve», li salutai. «Come va, dottoressa?» «Chi avete lì?» domandai. «Il muratore di Petersburg.» Chiusero il portellone e si tolsero i guanti di gomma. «Quello che è rimasto sotto il treno», spiegarono, parlando contemporaneamente. «Che brutta morte! Speriamo di andarcene in un altro modo. Arrivederci.» Con la tessera aprii la porta di servizio ed entrai nel corridoio bene illuminato con il pavimento rifinito di vernice epossidica contro i rischi biologici e ogni angolo monitorato per mezzo di telecamere a circuito chiuso montate a parete. Quando entrai nella saletta a vedere se c'era del caffè, Rose stava pigiando irritata il tasto della Coca-Cola Light sul distributore automatico. «Dannazione», esclamò. «Credevo che l'avessero aggiustata.» Cominciò a schiacciare invano il tasto per la restituzione delle monete. «È uguale a prima. Possibile che nessuno faccia mai qualcosa, qui den-
tro?» brontolò. «Non funziona mai niente, nello stato.» Sospirò frustrata. «Vedrai che andrà tutto a posto», le dissi poco convinta. «Non ti preoccupare, Rose.» «Dovrei prendermi un po' di riposo», mormorò sconsolata. «Dovremmo prendercene un po' tutti.» Le tazze erano appese ai ganci vicino alla macchinetta del caffè. Cercai la mia senza trovarla. «Prova nel bagno, sul lavandino, dove la lasci sempre», mi consigliò Rose. Quell'accenno di normalità mi diede un grande sollievo, sebbene temporaneo. «Chuck non tornerà», dissi. «Lo arresteranno, se non l'hanno già fatto.» «La polizia è già venuta. Be', io non piangerò.» «Vado in obitorio. Sai che cosa mi aspetta, quindi non mi passare telefonate a meno che non siano urgentissime», le raccomandai. «Ha chiamato Lucy. Stasera va a prendere Jo.» «Perché non vieni a stare qualche giorno da me, Rose?» «Grazie, ma ho bisogno di starmene tranquilla.» «Io sarei più tranquilla se venissi da me.» «Senti, se non è questo è un altro, ti pare? C'è sempre qualche criminale in giro per la città. Io devo fare la mia vita: non posso farmi condizionare dalla paura e dalla vecchiaia.» Nello spogliatoio mi misi un camice e un grembiule di plastica. Facevo fatica ad allacciarlo e continuavano a cadermi le cose di mano. Avevo freddo e mi sentivo indolenzita, come se stesse per venirmi l'influenza. Ero contenta di potermi mettere visiera protettiva, mascherina, berretto, copriscarpe, guanti di gomma e tutto quello che mi proteggeva dai rischi biologici e dalle mie emozioni. Non volevo farmi vedere da nessuno: mi dispiaceva solo che Rose si fosse accorta di come stavo. Fielding stava preparandosi a fotografare il cadavere di Diane Bray quando entrai nella sala autopsie, dove i miei due vice e tre interni stavano lavorando a nuovi casi perché la giornata continuava a recapitarci morti. Sentivo scorrere l'acqua e il rumore dell'acciaio che batteva contro l'acciaio, oltre a voci e suoni soffocati. I telefoni continuavano a squillare. Non c'era colore in quel luogo asettico, tranne le sfumature della morte. Contusioni e suffusioni erano violacee, il livor mortis rosa; il sangue brillante contro il giallo del grasso. Le cavità toraciche erano aperte e gli organi in bilico sulle bilance o sui taglieri; l'odore della decomposizione era
forte, quel giorno. C'erano due giovani, uno di origine sudamericana e uno bianco, entrambi pieni di tatuaggi e di ferite da pugnale. Sui loro volti non c'erano più né odio né rabbia, ma l'espressione pacifica che avrebbero potuto avere anche in vita, se solo fossero nati in luoghi diversi o forse con geni diversi. La banda era stata la loro famiglia, la strada la loro dimora, ed erano morti esattamente com'erano vissuti. «...penetrazione profonda. Dieci centimetri sul dorso laterale sinistro, fra la dodicesima costola e l'aorta, oltre un litro di sangue nella cavità toracica a sinistra e a destra», dettava Dan Chong al microfono puntato sul camice mentre Amy Forbes lavorava direttamente davanti a lui. «Emoaspirazione?» «Minima.» «Abrasione al braccio sinistro, forse provocata dalla caduta. Di', ti ho detto che sto facendo un corso da sub?» «Che bello! Aspetta di immergerti nella cava: è una meraviglia. Soprattutto d'inverno.» «Oddio!» esclamò Fielding. «Oddio santo.» Stava aprendo il sacco e il telo insanguinato intorno al corpo. Gli andai vicino e mi sentii di nuovo sotto shock nello scoprire il corpo. «Oddio santo», continuava a ripetere Fielding sottovoce. La trasferimmo sul tavolo, dove riassunse cocciutamente la stessa posizione che aveva sul letto. Rompemmo il rigor mortis delle braccia e delle gambe, facendo rilassare i muscoli contratti. «Ma cosa cazzo le prende, a certa gente?» esclamò Fielding mettendo un rullino nella macchina fotografica. «Quello che le è sempre preso», risposi. Fissammo il tavolo da autopsia mobile a uno dei lavandini a parete. Per un istante l'attività si fermò e i medici si avvicinarono per dare un'occhiata. Non riuscivano a trattenersi. «O Signore!» mormorò Chong. Amy Forbes rimase senza parole e si limitò a guardare inorridita. «Per favore», li pregai alzando gli occhi verso di loro. «Non è una dimostrazione. Ci pensiamo Fielding e io.» Cominciai a esaminare il corpo con una lente, raccogliendo peli lunghi e sottili. «Non gliene frega niente che sappiamo tutto di lui», dissi. «Credi che sappia che siete andati a Parigi?»
«Non vedo come possa saperlo», risposi. «Anche se potrebbe essere in contatto con la famiglia, che presumibilmente è al corrente di tutto.» Ricordai la grande casa con i sontuosi lampadari e la boccetta d'acqua che avevo raccolto nella Senna proprio dove l'assassino si immergeva nella vana speranza di guarire dalla propria malattia. Pensai alla dottoressa Stvan e sperai che non le fosse capitato niente. «Il cervello è scuro», disse Chong riprendendo il proprio lavoro. «Sì, anche quello dell'altro. Può darsi che sia l'eroina. Il quarto caso nel giro di sei settimane; tutti qui in città.» «Ci sarà in giro roba troppo buona. Dottoressa Scarpetta?» mi chiamò Chong come se fosse un pomeriggio normale e io lavorassi a una normale autopsia. «Hanno lo stesso tatuaggio, un rettangolo fra il pollice e l'indice della sinistra. Deve fare un male cane. Apparterranno alla stessa banda?» «Fotografatelo», dissi. Diane Bray aveva alcuni segni abbastanza caratteristici sulla fronte e sulla guancia sinistra, dove la forza dei colpi aveva lacerato la pelle e lasciato le stesse abrasioni striate che avevo già visto; «È possibile che sia la filettatura di un tubo?» chiese Fielding. «A me non sembra un tubo», risposi. L'esame esterno del corpo della Bray richiese altre due ore: Fielding e io misurammo meticolosamente ogni ferita, tracciando schizzi e scattando fotografie. Le ossa facciali erano rotte, la carne lacerata sulle prominenze ossee. I denti erano spezzati e alcuni staccati con una violenza tale che erano finiti in gola. Labbra, orecchie e mento erano avulsi dall'osso e le radiografie rivelarono centinaia di fratture e di perforazioni ossee, specialmente in corrispondenza della lamina ossea del cranio. Quando alle sette mi feci una doccia, l'acqua che mi scorreva sui piedi era rosa, da quanto mi ero sporcata di sangue. Avevo le vertigini e mi sentivo debole perché non avevo mangiato nulla da quella mattina. Ero rimasta l'unica nell'istituto. Uscii dallo spogliatoio con un asciugamani sui capelli e vidi Marino spuntare dal mio ufficio. Fui sul punto di lanciare un urlo, ma mi trattenni e mi misi una mano sul petto, sotto shock. «Mi hai fatto prendere uno spavento!» lo rimproverai. «Non volevo», rispose. Era corrucciato. «Come hai fatto a entrare?» «Conosco le guardie che fanno il servizio di notte. Non volevo che uscissi da sola nel parcheggio. Sapevo che eri ancora qua.» Mi passai le dita fra i capelli umidi e Marino mi seguì nel mio ufficio.
Posai l'asciugamano sulla sedia e cominciai a raccogliere le mie cose. Notai che Rose aveva lasciato dei referti sul mio tavolo. Controllai e vidi che le impronte digitali ritrovate sul cestino all'interno del container corrispondevano a quelle del cadavere non identificato. «Servisse a qualcosa», brontolò Marino. C'era anche il referto dell'esame del DNA con una nota di Jamie Kuhn. Aveva usato il metodo STR e aveva già i risultati. «...profilo molto simile con differenze lievi», lessi ad alta voce senza sperare troppo in qualcosa di risolutivo, «...coerente con il depositante del campione biologico... parente stretto...» Alzai gli occhi dal foglio. «Per farla breve, il DNA del morto e quello dell'assassino sono coerenti con un possibile rapporto di parentela fra i due. Punto e basta.» «Coerenti?» ripeté Marino disgustato. «Quanto mi dà fastidio questa coerenza scientifica! Quei due stronzi sono fratelli.» Non avevo dubbi. «Ci serve un campione di sangue dei genitori per dimostrarlo», dissi. «Chiediamogli se gentilmente passano a fare un prelievo», replicò cinico. «I due fratelli Chandonne. Urrà.» Gettai il referto sul piano della scrivania. «Urrà», dissi. «Non serve a un cazzo.» «Vorrei proprio sapere che arma usa», riflettei. «Ho passato tutto il pomeriggio a controllare le case supereleganti in riva al fiume», mi spiegò Marino cambiando discorso. «Il bello è che sembra che tutti gli abitanti siano dove devono essere. Il brutto è che non sappiamo dove cavolo stia invece il nostro amico. Tieni presente che ci sono 3 gradi sottozero, fuori: non può dormire sotto un albero.» «Hai controllato gli alberghi?» «Non risulta nessun bestione peloso con accento francese e denti aguzzi. Nessuno che gli somigli neanche lontanamente. E nei motel un po' equivoci non parlano volentieri con i poliziotti.» Eravamo nel corridoio e sembrava che non avesse nessuna fretta di andare via, ma che avesse in mente qualcosa. «Cosa c'è che non va?» gli chiesi. «A parte il solito.» «Lucy si sarebbe dovuta presentare davanti alla commissione ieri a Washington. Pensa che hanno mandato a chiamare quattro di Waco per parlare con lei e fare le cose come Dio comanda. Lei però si è rifiutata di andare
perché vuole rimanere vicino a Jo finché non si riprende.» Uscimmo nel parcheggio. «Lo posso anche capire», continuò, mentre la mia ansia cresceva. «Ma non quando il direttore dell'ATF si dà da fare per risolvere la situazione e lei non si smuove.» «Marino, sono sicura che gli avrà detto di...» cominciai a difenderla. «Sì, naturale. Ha preso in mano il telefono e gli ha promesso che fra qualche giorno si farà viva.» «Be', qualche giorno potranno pure aspettare», replicai aprendo la portiera. «Hanno ripreso tutto», mi informò mentre salivo sul sedile gelido. «E hanno guardato e riguardato il filmato.» Misi in moto e mi parve che la sera fosse più scura, più fredda e più vuota che mai. «Ci sono un sacco di dubbi non risolti.» Si infilò la mano nella tasca della giacca. «Sul fatto che la sparatoria fosse o meno giustificata? Salvare Jo e la propria pelle non è una motivazione sufficiente?» «È l'atteggiamento, più che altro. Lucy è un po'... come dire? Sempre pronta a buttarsi nella mischia e fare fuoco. Si vede in tutto quello che fa, no? Ed è uno dei motivi per cui è così brava in tutto. Da un certo punto di vista, però, può essere un problema.» «Vuoi salire in macchina così non congeli?» «Ti seguo con la mia fino a casa, ma poi devo andare. Lucy è da te, no?» «Sì.» «Davvero, altrimenti resto io. Non voglio che rimani sola con quello squinternato in libertà.» «Che cosa posso fare per lei?» domandai sottovoce. Non capivo più niente; mi pareva che mia nipote fosse ormai fuori della mia portata. A volte non ero sicura nemmeno che mi volesse bene. «È tutto per via di Benton», fece Marino. «Certo, lei è comunque incazzata con il mondo, lo è sempre stata. Ma forse dovresti farle leggere il referto dell'autopsia, costringerla a guardare in faccia la realtà, superare questa cosa prima che si rovini.» «Non voglio», risposi in preda a un dolore antico, ma non intenso come una volta. «Gesù, fa un freddo cane! E fra un po' verrà la luna piena. Ci mancava solo questa.»
«Se ci riproverà in una notte di luna piena, per noi sarà più facile catturarlo», gli feci presente. «Vuoi che ti segua con la mia macchina?» «Non è il caso.» «Però promettimi che se Lucy per qualche motivo non è in casa mi chiami, okay? Non restare da sola.» Tornando a casa, ripensai alle parole di Rose: sapevo che cosa intendeva quando diceva di non voler diventare schiava della paura, della vecchiaia, del dolore, di qualcosa o di qualcuno. Ero quasi alla guardiola quando decisi di svoltare e tagliare in West Broad Street per fare un salto da Pleasant Hardware. Era un vecchio negozio di ferramenta dove andavo ogni tanto, che si era allargato nel corso degli anni e teneva più dei soliti attrezzi da lavoro e da giardino. Quando andavo lì a fare compere difficilmente arrivavo prima delle sette di sera e trovavo il negozio pieno di uomini che dopo il lavoro facevano un salto a guardare i loro "giocattoli". Nel parcheggio c'erano molte auto, camion e furgoni. Siccome avevo fretta, passai di corsa davanti alle falciatrici e non badai alle offerte speciali di bulbi e latte di pittura bianca e azzurra. Non sapevo neppure io che cosa cercare, sebbene avessi l'impressione che l'arma che aveva ucciso Diane Bray fosse simile a un martello o a una gravina. Aperta a ogni possibilità, osservai chiodi, dadi, fermagli, gancetti a vite, cerniere, chiavistelli e serrature esposti sugli scaffali. Passai in rassegna metri e metri di corde e funi ordinatamente avvolte su se stesse, climatizzatori, cianfrini e tutto per l'idraulica. Non vidi niente di interessante né lì né nel grande reparto dedicato a martelli, cavachiodi e palanchini. Esclusi gli attrezzi per montare e smontare i pneumatici e i tubi, perché la filettatura non era né abbastanza spessa né abbastanza distanziata per corrispondere alla strana impronta che avevo notato sul materasso di Diane Bray. Stavo cominciando a scoraggiarmi quando arrivai al reparto costruzioni in muratura e, nel vedere l'attrezzo che cercavo appeso a un gancio, mi sentii il cuore in gola. Sembrava una gravina di ferro nero con un manico a spirale che ricordava una grossa molla. Mi avvicinai e lo presi in mano: era pesante. Un'estremità era appuntita, l'altra a scalpello. L'etichetta diceva che era un martelletto e che costava sei dollari e novantacinque centesimi. Il commesso a cui mi rivolsi non aveva idea di che cosa fosse né che il negozio lo tenesse.
«Mi può far parlare con qualcuno che lo sa?» domandai. Chiamò all'altoparlante la vicedirettrice del negozio, che si chiamava Julie, pregandola di presentarsi alla cassa. Poco dopo arrivò una ragazza troppo ben vestita e beneducata per essere esperta di attrezzi da lavoro. «Lo usano anche i saldatori per togliere le scorie», mi informò. «Ma è un attrezzo da muratore; per i mattoni, la pietra o quello che è. Come vede, è un attrezzo multiuso. Il pallino arancione sull'etichetta vuol dire che ha lo sconto del dieci per cento.» «Dunque in un cantiere edile se ne trovano molti? Io non ne avevo mai visti», dissi. «Perché se non fa il muratore o il saldatore non ha motivo di usarlo», rispose lei. Comprai il martelletto scontato del dieci per cento e me ne andai. Quando arrivai davanti a casa, mi accorsi che Lucy non c'era e sperai che fosse andata all'ospedale a prendere Jo per portarla da me. Il cielo si stava coprendo e forse sarebbe nevicato. Misi la macchina in garage ed entrai in casa, dirigendomi subito in cucina, dove feci scongelare due petti di pollo nel forno a microonde. Versai della salsa per barbecue sul martelletto, soprattutto sul manico a spirale, e lo feci cadere su una federa bianca. L'impronta corrispondeva. Infilzai alternativamente le due estremità di quell'orribile oggetto nero nel petto di pollo e riconobbi le lacerazioni. Chiamai Marino, ma non era a casa. Lo cercai sul cercapersone; passò un quarto d'ora prima che mi richiamasse. Avevo i nervi a fior di pelle. «Scusa», mi disse. «Il mio telefono aveva la batteria scarica e ho dovuto cercare una cabina.» «Dove sei?» «In macchina. La polizia sta sorvolando il fiume con un aereo, scandagliando dappertutto con un faro. Chissà che quel mostro non abbia gli occhi che brillano nel buio come i cani. Hai visto che cielo? Pare che verranno giù quindici centimetri di neve. Ha già cominciato.» «Marino, la Bray è stata uccisa con una specie di martelletto.» «Cosa cazzo è?» «Un attrezzo da muratori. Sai mica se ci sono dei cantieri lungo il fiume? Caso mai l'abbia fregato lì perché è lì che abita.» «E dove l'hai trovato, tu? Non mi avevi detto che andavi subito a casa? Non mi piace per niente, quando fai questi colpi di testa.» «Sono a casa», replicai spazientita. «E forse è in una casa anche lui. A
mettere le mattonelle o a tirare su un muro.» Marino rimase un attimo zitto. «Si userà anche per i tetti di ardesia?» chiese. «Perché mi viene in mente quella grande casa oltre Windsor Farms, proprio sul fiume, con tutti i ponteggi intorno. Stanno rifacendo il tetto.» «Chi ci abita?» «Nessuno. È in vendita. Lì per lì non ci ho fatto caso perché ci sono gli operai che fanno i lavori», rispose. «Potrebbe nascondervisi di giorno e uscire quando è buio e gli operai sono andati tutti via», dissi. «Magari non c'è allarme per paura che scatti inavvertitamente con i lavori.» «Ci vado subito.» «Marino, non da solo.» «Ci sono quelli dell'ATF dappertutto», replicò. Preparai il fuoco nel camino e uscii a prendere dell'altra legna. Nevicava forte e la luna faceva capolino dietro a nuvoloni scuri. Presi un po' di ceppi sottobraccio, tenendo la Glock nell'altra mano, gli occhi bene aperti e le orecchie tese. La notte pareva vibrare di paura. Rientrai in casa di corsa e inserii di nuovo l'allarme. Mi sedetti in sala a guardare le fiamme che lambivano il camino e cercai di ricostruire con alcuni schizzi il modo in cui l'assassino poteva aver portato la Bray in camera da letto senza colpirla neppure una volta. Nonostante lavorasse ormai da anni nel settore amministrativo, Diane Bray era una poliziotta: come aveva fatto il killer a renderla inerme senza un accenno di lotta? Avevo il televisore acceso e ogni mezz'ora i canali regionali trasmettevano il loro notiziario. Di sicuro il Loup-Garou non era contento delle cose che dicevano su di lui, ammesso che avesse accesso a radio e televisione. «...secondo le descrizioni, si tratterebbe di un uomo robusto, alto un metro e ottanta centimetri circa, forse con la testa rasata. La dottoressa Scarpetta dell'Istituto di medicina legale ha dichiarato che potrebbe essere affetto da una malattia che lo renderebbe estremamente peloso, deforme in viso e nella dentatura...» Grazie tante, Harris, pensai. Doveva proprio tirarmi in ballo? «...raccomandiamo estrema cautela. Non aprite la porta di casa senza chiedere chi è.» Su una cosa Harris aveva ragione, tuttavia: la gente si sarebbe fatta prendere dal panico. Il telefono squillò alle dieci meno pochi minuti.
«Ciao!» mi salutò Lucy, allegra come non la sentivo da un bel po' di tempo. «Sei ancora in ospedale?» le chiesi. «Abbiamo quasi finito. Hai visto come nevica? Viene giù come Dio la manda. Fra un'oretta dovremmo essere a casa.» «State attente, mi raccomando. Chiamami appena arrivi, così ti aiuto ad accompagnare Jo dentro casa.» Misi altri due ceppi nel camino e, nonostante la mia fortezza fosse sicura, cominciai ad avere paura. Cercai di distrarmi guardando un vecchio film con James Stewart e a fare un po' di conti. Poi mi venne in mente Talley e mi tornò la depressione e anche un po' di collera. Per quanto fossi stata ambivalente, non mi aveva dato molte chance. Avevo cercato di contattarlo e lui non mi aveva neppure richiamato. Quando il telefono squillò di nuovo, trasalii e feci cadere un fascio di carte che avevo in grembo. «Pronto?» «Lo stronzo sta qui veramente», esclamò Marino. «Però adesso non c'è. Spazzatura, scatole di roba da mangiare, merda dappertutto. E peli nel letto. Le lenzuola puzzano di cane bagnato e sporco.» Avevo l'adrenalina alle stelle. «L'HIDTA ha mandato una task-force e io ho mobilitato la polizia. Appena si tuffa nel fiume è spacciato.» «Lucy sta accompagnando qui Jo», gli dissi. «È fuori anche lei.» «E tu sei sola?» sbottò. «Chiusa in casa con l'allarme inserito e la pistola a portata di mano.» «Stai ferma lì e non ti muovere!» «Non ti preoccupare.» «Per fortuna che nevica. Per terra ci saranno già tre centimetri di neve e sai che la neve fa sembrare tutto più chiaro. Dal suo punto di vista non è il momento migliore per vagare per la città.» Riattaccai e feci un po' di zapping senza trovare niente di interessante. Mi alzai e andai nel mio studio a controllare la posta elettronica, ma non avevo voglia di rispondere ai messaggi. Presi il barattolo di formalina e lo alzai alla luce per guardare ancora una volta gli occhi gialli che nascondevano i due cerchietti dorati, riflettendo che avevo sbagliato a interpretare un sacco di cose. Mi tormentai ripensando ai miei errori e alle volte in cui avevo agito con troppa lentezza, lasciando che morissero altre due donne. Posai il barattolo sul tavolino della sala. Alle undici mi sintonizzai su
NBC per guardare il notiziario. Naturalmente non parlava d'altro che del Loup-Garou. Cambiai canale e rimasi sorpresa nel sentire scattare l'allarme. Mi cadde il telecomando di mano, saltai in piedi e corsi sul retro con il cuore che batteva all'impazzata. Mi chiusi a chiave in camera da letto e impugnai la Glock, aspettando lo squillo del telefono, che arrivò qualche minuto dopo. «Zona sei, porta del garage», mi dissero dalla centrale. «Vuole che mandiamo due agenti?» «Sì. Al più presto», risposi. Mi sedetti sul letto, con l'urlo della sirena nelle orecchie e lo sguardo fisso sul videocitofono. Poi mi venne in mente che non sarebbe entrato in funzione, se la polizia avesse bussato invece di suonare il campanello. E la polizia non suonava mai il campanello. Non potevo fare altro che spegnere l'antifurto e inserirlo di nuovo per poter aspettare in silenzio, con le orecchie talmente tese a captare ogni suono, che mi pareva persino di udire il rumore della neve che si posava per terra. Dieci minuti dopo sentii bussare alla porta e uscii nel corridoio. Una voce fuori gridò: «Polizia». Con grande sollievo posai la pistola sul tavolo della sala da pranzo e chiesi: «Chi è?». Volevo essere sicura. «Polizia, dottoressa. Siamo venuti per l'allarme.» Aprii la porta e riconobbi i due agenti che erano già venuti a casa mia qualche sera prima. Si pulirono gli scarponi pieni di neve ed entrarono. «Ultimamente scatta spesso, vero?» disse l'agente Butler togliendosi i guanti e guardandosi intorno. «Sembra quasi che il nostro sia un appuntamento fisso.» «Questa volta è la porta del garage», disse il suo compagno, McElwayne. «Andiamo a dare un'occhiata.» Li seguii nel garage e mi resi conto subito che quella volta non era stato un falso allarme. La porta del garage era stata sollevata di una quindicina di centimetri e, quando ci chinammo a guardare dalla fessura, scorgemmo le impronte nella neve che portavano alla porta e poi si allontanavano. A parte qualche graffio sulla guarnizione in fondo al portellone, non sembrava che avessero usato attrezzi. Le impronte erano appena spolverate di neve: come confermava l'allarme appena scattato, erano recenti. McElwayne prese la radio e chiamò l'investigatore, che arrivò venti minuti dopo, scattò alcune foto al portellone e alle impronte nella neve e cer-
cò impronte digitali. Ancora una volta, tuttavia, la polizia non poté fare altro che seguire le impronte sulla neve, che conducevano ai margini del giardino e quindi alla strada, dove si perdevano fra le tracce dei pneumatici. «Le mandiamo una pattuglia qui vicino», mi disse la Buder andando via. «Più di così non possiamo fare. Terremo d'occhio la casa e lei, al minimo sospetto, chiami il pronto intervento. Anche se è solo un rumore strano, okay?» Chiamai Marino sul cercapersone. Ormai era mezzanotte. «Cosa c'è?» mi domandò. Gli spiegai. «Vengo subito.» «Guarda che sto bene», lo rassicurai. «Sono solo un po' scossa. Preferisco che tu stia in giro a cercarlo piuttosto che qui a fare da baby-sitter a me.» Era titubante e io sapevo a che cosa stava pensando. «Non è nel suo stile cercare di introdursi in casa con la forza», aggiunsi. Dopo un attimo di esitazione, mi disse: «C'è una cosa che devi sapere. Non so se faccio bene a dirtelo. Talley è qui». Rimasi di stucco. «È a capo della squadra HIDTA.» «E da quando?» domandai, cercando di sembrare curiosa e niente di più. «Non ne ho idea.» «Salutamelo», dissi, come se non me ne importasse più niente. Marino non si lasciò ingannare. «Mi dispiace che si sia rivelato un deficiente.» Appena ebbi riattaccato, contattai il reparto di ortopedia del Medical College e parlai con un'infermiera che non mi conosceva e si rifiutò di darmi chiarimenti. Avevo voglia di parlare con il senatore Lord, con la dottoressa Zimmer, con Lucy, con un'amica, con qualcuno che mi volesse bene e mi venne una tale nostalgia di Benton che pensai di non riuscire ad andare avanti. Mi venne paura di rimanere sepolta sotto le macerie della mia vita, paura di morire. Cercai di attizzare il fuoco, ma senza grossi risultati perché la legna che avevo portato dentro era umida. Mi cadde l'occhio sul pacchetto di sigarette sul tavolino, ma non ebbi la forza di accendermene una. Mi sedetti sul divano e mi coprii il volto con le mani in attesa che i singhiozzi si placassero. Quando sentii bussare di nuovo alla porta, più che sconvolta mi sen-
tivo esausta. «Polizia», disse una voce maschile, bussando nuovamente con quello che supposi essere un manganello o uno sfollagente. «Non vi ho chiamato», replicai da dentro. «Mi scusi, ma abbiamo ricevuto una segnalazione: pare che un individuo sospetto si aggiri nei pressi di casa sua», disse. «Lei sta bene?» «Sì, sì», risposi. Staccai l'allarme e aprii la porta per farlo entrare. La luce fuori del portone era spenta e l'idea che parlasse inglese senza accento francese non mi aveva mai neppure sfiorata. Ma quando mi spinse da una parte e richiuse la porta con un calcio sentii l'odore di cane bagnato e sporco. L'urlo che avrei voluto lanciare mi si spense nella gola nel vedere il suo orribile sorriso e nel sentire la sua mano pelosa posarsi sulla mia guancia come per farmi una carezza. Aveva metà del viso più bassa rispetto all'altra e coperta di una peluria bionda. Gli occhi asimmetrici e folli lampeggiavano di rabbia, desiderio e scherno. Si strappò di dosso il lungo cappotto nero e fece per gettarmelo sulla testa, ma io mi misi a correre. Tutto questo accadde nel giro di pochi secondi. Il panico mi spinse nella sala. Lo sentivo alle mie spalle: emetteva strani suoni che non parevano umani. Ero troppo spaventata per pensare e avevo solo l'istinto di prendere qualcosa e tirarglielo addosso. La prima cosa che vidi fu il barattolo di formalina in cui conservavo un lembo di pelle del fratello che aveva assassinato. Lo presi in mano, saltai sul divano e cercai di aprirlo. Lui intanto aveva tirato fuori la sua arma, un martelletto come quello che avevo comprato io, e lo brandiva sopra la testa, pronto a colpire. Fu in quel momento che gli gettai la formalina sul viso. Strillò, si portò le mani sugli occhi e alla gola, assalito dai fumi chimici che gli rendevano difficile respirare. Chiuse gli occhi gridando, cercando di strapparsi di dosso la camicia zuppa, senza fiato, in preda a un bruciore insopportabile. Io scappai nella sala da pranzo per prendere la pistola, premetti il pulsante dell'allarme e corsi fuori nella neve. Sulle scale scivolai e buttai il braccio sinistro in avanti per fermare la caduta. Quando feci per rialzarmi, mi resi conto che mi ero rotta il gomito. Un attimo dopo, con raccapriccio, lo vidi uscire barcollando dietro di me. Si aggrappò alla ringhiera avanzando alla cieca, continuando a ululare dal dolore, mentre io ero in fondo alle scale, per terra, in preda al panico, che cercavo di spostarmi all'indietro. Aveva il torso coperto di pelo lungo e
chiaro, che gli cadeva folto dalle braccia e gli si attorcigliava sulla schiena. Cadde in ginocchio, prese due manciate di neve e si fregò il viso e il collo cercando di riprendere fiato. Era vicinissimo e temetti che si alzasse in piedi da un momento all'altro, come un mostro disumano. Cercai di tirare indietro il carrello della pistola, ma non ci riuscii. Continuavo a provare, ma la frattura al gomito mi impediva di piegare il braccio. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi. Continuavo a scivolare. Lui mi sentì fare rumore e strisciò dalla mia parte, mentre io mi facevo piccola piccola e tentavo di rotolare via. Emise un rantolo, poi buttò la faccia nella neve nel tentativo di placare il bruciore. Scavava nella neve come un cane, gettandosela sulla testa e sul collo. Poi allungò un braccio peloso verso di me. Non capivo il francese, ma credetti che stesse chiedendomi aiuto. Piangeva. A torso nudo, tremava dal freddo. Aveva le unghie lunghe e nere, scarponi e pantaloni da lavoro, o forse da marinaio. Gridava supplichevole e per un attimo ebbi quasi compassione. Ma non mi avvicinai. Il gomito si stava gonfiando e pulsava terribilmente. Non sentii il rumore della macchina che si avvicinava, ma a un certo punto vidi Lucy che correva nella neve rischiando di cadere e tirava indietro il carrello della sua amata Glock calibro quaranta. Si inginocchiò davanti a lui in posizione da combattimento, puntandogli la canna alla testa. «Lucy, non farlo!» gridai, cercando di tirarmi su in ginocchio. La sentivo respirare forte, il dito sul grilletto. «Maledetto stronzo!» esclamò. «Pezzo di merda!» Lui intanto continuava a lamentarsi e a passarsi la neve sugli occhi. «Lucy, no!» gridai vedendola impugnare la pistola ancora più strettamente. «Hai finito di soffrire, brutto bastardo!» Strisciai verso di lei, sentendo delle voci e un vago rumore di portiere che sbattevano. «Lucy!» gridai. «Per l'amor di Dio, no!» Era come se non sentisse né me né niente altro, chiusa in un mondo tutto suo, fatto di odio e di collera. Deglutì, gli occhi fissi sul mostro che tremava e si passava le mani piene di neve sugli occhi. «Fermo!» gli urlò. «Lucy», ripetei avvicinandomi. «Posa la pistola.» Ma l'uomo non riusciva a stare fermo e Lucy era immobile. Poi, a un certo punto, ondeggiò appena.
«Lucy, non voglio!» le dissi. «Per favore, posa quella pistola.» Non mi sentì, non mi rispose, non mi degnò neppure di uno sguardo. Mi resi conto che c'erano dei piedi vicino a noi, tute da combattimento, fucili e pistole puntati. «Lucy, metti giù la pistola», sentii che diceva la voce di Marino. Lucy non si mosse. Vidi che le tremava la pistola fra le mani, mentre l'uomo che si faceva chiamare Loup-Garou gemeva e respirava a fatica a pochi passi da lei. Anch'io ero ormai vicinissima. «Lucy, ti prego, guardami!» Mi lanciò un'occhiata e una lacrima le corse sulla guancia. «Troppi morti, Lucy. Ora basta», la implorai. «Non c'è bisogno di sparare, adesso. Questa non è legittima difesa, Lucy. Jo è in macchina che ti aspetta. Non lo fare. Ti prego, Lucy, non lo fare. Noi ti vogliamo bene.» La vidi deglutire. Allungai guardinga la mano. «Dalla a me», le dissi. «Ti prego, Lucy, dammi la pistola. Ti voglio bene.» La abbassò e la gettò nella neve, dove l'acciaio brillava come argento. Rimase dov'era, a capo chino. Poi Marino la raggiunse e le disse qualcosa che non sentii. Il gomito mi faceva un male da morire. Sentii qualcuno che mi sollevava con mani decise. «Su», mi disse Talley con dolcezza. Mi strinse a sé e io lo guardai: mi parve stranissimo, vestito con la tuta dell'ATF. Non mi sembrava lui, ma forse era un sogno, anzi, un incubo. Non era possibile: i lupi mannari non esistevano e Lucy non avrebbe mai sparato a nessuno e Benton non era morto... Mi sentivo svenire, ma Talley mi sorreggeva. «Dobbiamo portarti in ospedale, Kay. Dimmi tu quale», mi disse. «Facciamo scendere dalla macchina Jo. Chissà che freddo ha. Non si può muovere», mormorai. Non riuscivo a parlare, avevo le labbra come irrigidite. «Sta bene, non ti preoccupare.» Avevo i piedi che parevano di legno e Talley dovette aiutarmi a camminare. Per lui neve e ghiaccio non erano un problema. «Mi dispiace per come mi sono comportato», mi disse. «Ho cominciato io», replicai a fatica. «Se vuoi chiamo un'ambulanza, ma preferirei accompagnarti io», mi disse. «Sì, grazie», dissi. «Lo preferisco anch'io.»
FINE