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POPPY Z. BRITE CADAVERE SQUISITO (Exquisite Corpse, 1996) A mia madre, Connie Burton Brite, che mi ha dato tutto il coraggio di cui mai avrò bisogno. Dai rapporti relativi all'autopsia del serial killer Jeffrey Dahmer, effettuata nel 1994, risulta che gli incaricati hanno mantenuto i ceppi ai piedi del cadavere per tutta la durata dell'intervento, «tanta era la paura che ispirava quell'uomo», secondo l'anatomopatologo Robert Huntington. Milwaukee Journal - AP, 17 marzo 1995 1 A volte una persona si stanca di portarsi addosso tutto quello che il mondo gli scarica sulla testa. Le spalle tracollano, la spina dorsale s'incurva in modo allarmante, i muscoli tremano di sfinimento. Ti muore dentro la speranza di trovare sollievo. E allora bisogna decidere se scrollarsi di dosso quel peso o sopportarlo sino a che il collo ti si spezza come un rametto secco in autunno. Verso la fine del mio trentatreesimo anno mi trovavo in questa situazione. Benché meritassi tutto quello che il mondo mi aveva scaraventato contro — e, dopo la morte, tormenti di gran lunga peggiori di qualsiasi cosa ti possa riservare il mondo... lo scheletro torturato, l'anima immortale violata e lacerata — benché meritassi tutto questo e qualcosa di più, capii che non potevo più sopportare quel peso. Insomma, mi.resi conto che non ero costretto a portarmelo addosso. Mi resi conto che avevo un'alternativa. Dev'essere stato difficile perfino per Cristo sopportare i tormenti della crocifissione — il sudiciume, la sete, le tremende spine che penetravano nella carne gelatinosa delle sue mani — sapendo di avere un'alternativa. E io non sono certo Cristo, neanche di striscio. Mi chiamo Andrew Compton. A Londra, tra il 1977 e il 1988, ho ucciso ventitré ragazzi. Avevo diciassette anni quando ho cominciato, ventotto quando mi hanno beccato. Per tutto il tempo in cui sono stato in prigione,
sapevo che, se mai mi avessero rilasciato, avrei continuato a uccidere. Ma sapevo anche che non mi avrebbero mai mollato. I miei ragazzi e giovanotti erano persone di passaggio in città: senza amici, affamati, ubriachi e sotto l'effetto dell'ottima eroina pakistana che, dai gloriosi anni Sessanta, scorre nelle vene di Londra. Offrivo loro buoni cibi, tè forte, un posto caldo nel mio letto, e quei miseri piaceri che il mio corpo poteva offrire. In cambio chiedevo solo la loro vita. A volte sembravano disposti a concedermela con la stessa facilità del resto. Ricordo uno skinhead dagli occhi di gazzella che è venuto a casa con me perché, a sentir lui, ero un bravo tipo bianco, non una checca stronza come gran parte di quelli che lo abbordavano nei pub di Soho. (Che cosa ci facesse nei pub di Soho proprio non lo so.) Non parve disposto a rivedere la sua opinione neppure quando gli succhiai il cazzo e gli infilai due dita lubrificate nell'ano. Più tardi mi accorsi che aveva una linea tratteggiata tatuata sulla gola, con la scritta TAGLIARE QUI. Non mi restò che seguire le indicazioni. («Hai un'aria da fottuta checca», avrei volentieri dichiarato al cadavere decapitato, ma il giovin signore campione dell'Inghilterra bianca non era più in grado di dir nulla di suo.) Gran parte dei ventitré sono stati uccisi con armi da taglio. Incidendo le grandi arterie con un coltello o un rasoio quando le vittime erano stordite dall'alcol. Non li ammazzavo così per vigliaccheria o per evitare la lotta: pur non essendo grande e grosso, avrei potuto, in uno scontro alla pari, avere la meglio su tutti quei randagi mezzi morti di fame e rincoglioniti dalla droga. Li uccidevo così perché apprezzavo quei begli oggetti che erano i loro corpi, i lucenti rivoli di sangue serpeggianti sul velluto della pelle, la sensazione dei muscoli che cedevano come burro a temperatura ambiente. Due li ho annegati nella vasca da bagno, un altro l'ho strangolato con le stringhe dei suoi stessi scarponcini Dr. Marten mentre era in una sorta di coma alcolico. Ma per lo più incidevo e tagliavo. Il che non vuol dire che li facessi a pezzi per divertimento. Non cavavo alcun piacere da volgari mutilazioni o smembramenti... non allora, quantomeno; quel che più gradivo era il fruscio appena percettibile del rasoio. I miei ragazzi mi piacevano com'erano: grosse bambole morte con una o due bocche extra, scarlatte e sanguinanti. Me li tenevo così anche per una settimana, sino a che il tanfo non ammorbava l'appartamento. Non trovavo sgradevole l'odore della morte. Era un po' come quello dei fiori recisi lasciati troppo a lungo nell'acqua stagnante, un sentore dolciastro e appiccicoso che ti si infilava nelle narici e nella gola a ogni respiro.
Ma poiché i vicini si lamentavano, ogni tanto dovevo inventare una qualche scusa, tipo che il mio tritaspazzatura si era inceppato o lo scarico della fogna era intasato. (Era umiliante, e, in ultima analisi, si rivelò inutile, dato che infine fu proprio un vicino a chiamare la polizia.) Quando andavo al lavoro, sistemavo sulla poltrona un ragazzo, e lui aspettava con pazienza il mio rientro. Me lo portavo a letto e per tutta la notte tenevo tra le braccia quel tenero e levigato ammasso. Per uno, due giorni o anche una settimana non mi sentivo più solo. Poi era tempo di disfarsene. Con una sega lo tagliavo in due alla vita, separavo le braccia dal torso, rompevo le gambe al ginocchio. Infilavo i pezzi in grandi sacchi di rifiuti umidi dove le strane sporgenze e la puzza ammorbante potevano essere camuffate, e li lasciavo fuori in attesa della nettezza urbana. Bevevo whisky sino a che l'appartamento diventava una giostra. Vomitavo nel lavabo e mi addormentavo tra i singhiozzi, avendo perso un ennesimo amore. Solo in seguito cominciai ad apprezzare l'estetica dello smembramento. Ma per il momento ero in un'umida cella della Regia Prigione Villaggio del Dolore, nella via del Mattatoio, vicino alla squallida zona industriale di Birmingham. Questi nomi sembrano fatti apposta per terrorizzare e titillare lo spirito, e di fatto così è. Basta guardare una qualsiasi carta geografica dell'Inghilterra per trovarne un bel campionario, a fianco di nomi assai più banali. L'Inghilterra è un paese che non si priva di niente quando si tratta di dare denominazioni evocative e colorite a determinati luoghi, per bieche che siano. Quando, cinque anni fa, mi portarono dentro, mi diedi un'occhiata attorno senza soverchio interesse. Sapevo di essere stato classificato come prigioniero di categoria A. (D era quella meno pericolosa; C e B erano tipi cui non era il caso di dare la schiena; A era, naturalmente, un omicida scatenato.) I giornali mi avevano definito «l'eterno anfitrione» e avevano caricato il mio banalissimo volto in bianco e nero di un terrore quasi talismanico. Il contenuto del mio appartamento era stato amorevolmente inventariato centinaia di volte. Il mio processo fu una babele legale tra le più indegne. L'eventualità di una mia fuga veniva ritenuta un grave pericolo pubblico. Sarei rimasto di categoria A sino al giorno in cui fossi morto, con gli occhi puntati su una tetra eternità al di là di queste quattro mura muffose. Potevo ricevere visite solo con l'autorizzazione del direttore del carcere e sotto stretta sorveglianza. A me non importava nulla: tutti coloro che avevo amato erano morti. Forse non avrei beneficiato né di corsi di istruzione né di periodi di ricreazione, ma in quel momento non c'era nulla nella vita
che avrei voluto apprendere né nulla con cui avrei potuto «ricrearmi». Giorno e notte, una lampadina restava accesa nella mia cella, sino a che i suoi contorni mi si impressero per sempre nelle cornee. All'epoca pensai: È per meglio vedere queste mani intrise di sangue. Oltre alla luce accesa e alle mani assassine, avevo una brandina di ferro imbullonata al muro e coperta con un materasso collinoso, un tavolo e una sedia traballanti, e un vaso in cui pisciare, ma erano comodità un po' freddine — anzi letteralmente gelide, nelle mattinate invernali al Villaggio del Dolore. Tutte queste cose erano racchiuse in una specie di scatolone tre e cinquanta per quattro metri. Mi chiedevo quanti tra i prigionieri di Sua Maestà britannica capissero che quel mezzo metro in più lungo una parete era una sottile forma di tortura. (Oscar Wilde, trascinato in catene nel cortile della prigione, osservò che, se quello era il modo in cui Sua Maestà trattava i prigionieri, forse avrebbe fatto meglio a non tenerli affatto.) Quando contemplavo a lungo questa parete — e come altro potevo contemplarla, se non a lungo? — lo squilibrio geometrico cominciava a darmi fastidio agli occhi. Quel quadrato imperfetto mi torturò per più di un anno. Visualizzavo le quattro pareti in avanzamento, tese all'eliminazione di quello stupido mezzo metro, che finivano per crollarmi addosso. Poi piano piano mi ci abituai, e quello mi raggelò quanto il tormento precedente. Non mi è mai piaciuto abituarmi alle cose, specie senza avere alternativa. Non appena capirono che non avrei creato alcun fastidio, mi diedero tutti i quaderni e le matite che volevo. Di rado mi facevano uscire dalla cella, se non per fare esercizi in isolamento, e per la doccia; grevi pasti mollicci mi venivano portati da guardie mute, con facce da giudizio universale. Con le matite non avrei potuto fare nulla, salvo cacciarmele nell'occhio, ma di solito le consumavo troppo per poterle usare a quello scopo. Nel primo anno riempii venti quaderni, nel secondo trentuno, nel terzo diciannove. In quel periodo fui più vicino che mai a un autentico senso di rimorso. Era come se avessi vissuto in un sogno lungo undici anni e mi fossi svegliato in un mondo che a stento riconoscevo. Come avevo potuto commettere ventitré omicidi? Che cosa mi aveva spinto a farlo? Cercai di sondare con le parole i recessi della mia anima. Scrutai la mia infanzia e la mia famiglia (frustranti, ma non certo traumatiche), i miei trascorsi sessuali (falliti su tutta la linea), la mia carriera in vari settori dell'impiego statale (per niente brillante, tranne per il numero di licenziamenti per insubordinazione).
Ciò fatto, e con scarsi risultati, mi diedi a scrivere delle cose che mi interessavano. Mi ritrovai con un sacco di descrizioni di omicidi e di atti sessuali inflitti a ragazzi morti. Cominciarono a tornarmi alla mente piccoli particolari, come le impronte digitali che permangono a lungo sulla coscia di un cadavere, come se fossero impresse nella cera, o un freddo filamento di sperma che talvolta fuoriusciva da un pene flaccido che mi stavo rigirando in bocca. Il solo motivo ricorrente dei miei appunti di prigione era una solitudine pervasiva, priva di un inizio individuabile e di una fine immaginabile. Ma un cadavere è qualcosa che non può alzarsi e andar via. Mi convinsi che quei ricordi fossero la mia salvezza. Non volevo cercare di capire perché avevo fatto certe cose, se quello significava non volerle più fare. Misi da parte per sempre i quaderni. Ero diverso, e basta. Avevo sempre saputo di esserlo: non potevo trascinarmi nella vita ruminando felicemente qualsiasi bolo mi fossi trovato in bocca, come sembravano fare quelli intorno a me. I miei ragazzi erano solo una delle cose che mi separavano dagli altri. Un tempo, qualcuno aveva amato i miei ragazzi, qualcuno che non era costretto a privarli della vita per dar prova di quell'amore. Un tempo, ognuno di loro era stato un bebè. Quanto a questo, lo ero stato anch'io, ma a che cosa mi era servito? Da quel che mi è stato detto, sono venuto al mondo tutto cianotico, con il cordone ombelicale avvolto intorno al collo, e si è discusso per svariati minuti se ero davvero vivo e vitale prima che mi decidessi a inspirare una gran boccata d'aria e cominciassi a respirare di mio. I ragazzi che ho ucciso possono anche essere stati bebè scoppianti di salute, ma al momento della morte erano dei tossici che si scambiavano siringhe come se prendessero in prestito un fazzoletto da naso, e che spesso facevano pompini in cambio di contante o di una dose. Tra quelli che mi sono portato a letto quand'erano ancora vivi non ce n'è stato uno che mi abbia chiesto di usare un preservativo, né uno che si sia preoccupato di vedermi inghiottire lo sperma. In seguito ho pensato che forse, uccidendo alcuni di loro, avevo salvato qualche vita. Non sono mai stato incline al moralismo, quindi come potrei disquisire di etica proprio adesso? Non c'è giustificazione per l'omicidio gratuito e casuale. Però sono arrivato a capire che non avevo bisogno di una scusa. Mi occorreva solo una ragione, e la terribile gioia del gesto in sé era una ragione sufficiente. Volevo tornare alla mia arte, volevo che si compisse quello che era chiaramente il mio destino. Volevo riappropriarmi del resto
della vita per fare quello che volevo, e non avevo dubbi che così sarebbe stato. Le mie mani anelavano a una lama, al tepore del sangue fresco, alla levigatezza marmorea della carne frollata per tre giorni. Decisi di esercitare il mio libero arbitrio. Prima di iniziare a uccidere ragazzi, e anche dopo, quando non ne trovavo uno o non avevo l'energia per andarmelo a cercare, mi dilettavo facendo un'altra cosa. Era cominciata come una rudimentale tecnica masturbatoria ed era finita ai confini del misticismo. Al processo mi definirono «necrofilo», senza tener presente l'esatta etimologia della parola né le sue connotazioni più profonde. Ero amico dei morti, amante dei morti. E, prima di tutto, ero amico e amante di me stesso. Cominciai quando avevo tredici anni. Mi sdraiavo supino e mi rilassavo muscolo dopo muscolo, fibra dopo fibra. Immaginavo gli organi che si trasformavano in un intruglio amaro, il cervello che cominciava a liquefarsi nel cranio. Talvolta mi passavo un rasoio sul petto e lasciavo che il sangue stillasse lungo le costole e si raccogliesse nell'incavo dell'ombelico. Talvolta intensificavo il mio naturale pallore con un trucco bianco-bluastro e qualche chiazza violacea qua e là, un'artistica interpretazione della lividezza cadaverica e delle macchie ipostatiche. Cercavo di sfuggire a quella che mi appariva l'odiosa prigione della carne: l'unico modo per amare il mio corpo era immaginare di essere al di fuori di esso. Acquisita una certa esperienza in queste tecniche, cominciai ad avvertire determinati mutamenti nel mio corpo. Non sono mai riuscito a separare completamente lo spirito dalla carne. Se così fosse stato, probabilmente non sarei tornato in circolazione. Ma raggiungevo uno stato sospeso tra la coscienza e il nulla, uno stato in cui i polmoni sembravano smettere di inglobare aria e il cuore di battere. Avvertivo ancora un frullo subliminale di funzioni corporee, ma nessun battito, nessun respiro. Mi pareva di sentire la pelle che si staccava dal tessuto connettivo, gli occhi che si ritraevano dietro le palpebre azzurrate, il mio nucleo ardente che cominciava a raffreddarsi. Ogni tanto lo facevo anche in prigione, naturalmente senza trucco né rasoio, ripensando a qualche ragazzo, immaginando che il mio rancido corpo vivente fosse la sua carne morta. Mi ci vollero cinque anni per capire che il mio talento poteva essere sfruttato a un altro fine, un fine che un giorno forse mi avrebbe consentito di riabbracciare un vero cadavere. Passavo gran parte del tempo sdraiato sulla brandina. Annusavo l'eccitante odore di carne di centinaia di uomini che mangiavano e sudavano e
pisciavano e cagavano e scopavano e vivevano insieme in spazi ristretti e sporchi, spesso potendo beneficiare al massimo di una doccia la settimana. Chiudevo gli occhi e ascoltavo i ritmi del mio corpo, gli infiniti sentieri del mio sangue, il sudore stillante sulla pelle, la dilatazione e la contrazione dei polmoni, il tenue fruscio elettrico del mio cervello e di tutti i suoi tributari. Mi chiedevo sino a che punto sarei riuscito a rallentare tutte le funzioni, e quante di esse avrei potuto far cessare del tutto. E mi domandavo, qualora ci fossi riuscito, se avrei potuto rimettere tutto in moto. Avevo in mente qualcosa di molto più avanzato del mio vecchio gioco di fingermi morto. Avrei dovuto esser morto quel tanto che bastava a trarre in inganno le guardie, l'infermiere e quasi sicuramente un medico. Avevo letto di fachiri indù che riuscivano a fermare il proprio battito cardiaco, che si facevano seppellire per settimane senza ossigeno. Sapevo che era fattibile. E ritenevo di poterlo fare. Dimezzai la quantità di cibo, che in prigione non aveva mai brillato per abbondanza. Fuori, ero stato una specie di buongustaio. Spesso, prima delle celebrazioni serali, invitavo i miei ragazzi al ristorante, benché la mia scelta di piatti fosse di solito troppo esotica per loro: curry di agnello alla portoghese, ravioli cinesi con ripieno di maiale, anguille in gelatina, involtini di foglie di vite, curry alla vietnamita, carne cruda all'etiope e cose simili. Il rancio della prigione o era tutto un grassume o un trionfo di farinacei o sapeva di cavolo. Non mi costava niente lasciarne metà nel piatto. Comunque sapevo che il cervello mi sarebbe stato più utile dei muscoli; era sempre stato così. E poi pensavo che un aspetto emaciato avrebbe in qualche modo facilitato il mio compito. («Con il mangime hai chiuso, Compton?» fu l'unico commento a questo proposito, fatto dalla guardia che distribuiva e ritirava i vassoi dei pasti. Abbozzai un distratto cenno del capo, capendo che, a suo modo, stava cercando di essere cordiale. Ogni tanto qualche guardia tentava di scambiare due parole con me, presumibilmente per poter raccontare a moglie e figli che quel giorno l'eterno anfitrione gli aveva parlato. Ma io non volevo che venisse ricordata questa particolare conversazione.) Un giorno, di proposito, sbattei la fronte contro le sbarre ferendomela. Affermando di essere inciampato, mi guadagnai un giro in intermeria. Pur restando in manette e ceppi per tutto il tempo, riuscii a dare un'occhiata in giro mentre un infermiere chiacchierone disinfettava la ferita e la chiudeva con dei punti.
«Hummer è stato qui?» chiesi, riferendomi a un prigioniero del braccio A che il mese prima era morto per collasso cardiaco. «Il vecchio Artie? No. Non conoscendo la causa del decesso, l'hanno portato via in ambulanza. Hanno fatto l'autopsia qui in via del Mattatoio e l'hanno restituito a quel che restava della sua famiglia. Artie era dentro per aver sparato a moglie e figlio, ma c'era una figlia che in quel momento era a scuola. Immagino che non le abbia fatto per niente piacere riavere il paparino, eh?» «Che cosa ne fanno degli organi dopo l'autopsia?» chiesi, in parte perché non ricordasse che gli avevo rivolto una sola domanda, in parte spinto da genuina curiosità. «Li ricacciano dentro come viene viene e ricuciono. Ah, e. il cervello lo tengono per studiarlo. Specialmente quello degli assassini. Scommetto che anche il suo finirà in un vaso di alcol, signor Compton.» «Forse», risposi. Forse un giorno qualcuno l'avrebbe davvero conservato. Ma avrei fatto il possibile perché non finisse in mano a un ghignante segaossa di via del Mattatoio. Quel giorno, per ragioni a me ignote, l'infermiere mi fece un prelievo di sangue. Una settimana più tardi venni di nuovo trascinato in intermeria dove appresi qualcosa che mi avrebbe aiutato più di quanto avrei potuto immaginare. «Sieropositivo?» chiesi al pallido infermiere sudaticcio. «Che cosa vuol dire?» «Be', signor Compton, forse niente.» Prese un opuscoletto tra indice e pollice e me lo porse con la dovuta cautela. Mi accorsi che indossava guanti di gomma. «Ma vuol dire che potrebbe venirle l'AIDS.» Esaminai con interesse l'opuscolo, poi alzai gli occhi sul volto mesto dell'agente-infermiere. Aveva le cornee venate da una ragnatela rossa e l'aria di chi non si è rasato da giorni. «Qui dice che il virus può essere trasmesso attraverso i contatti sessuali o attraverso il sangue», osservai. «La settimana scorsa mi ha messo i punti al taglio. Non era un rischio per lei?» «Noi... Io non...» Fissò le mani guantate e scosse il capo, quasi singhiozzando. «Non si sa.» Mi coprii la bocca con le mani ammanettate per nascondere un sorrisetto malvagio, camuffato da tosse. Tornato in cella, lessi due volte l'opuscolo e cercai di ricordare quel che avevo sentito su questa malattia trasmessa dalle secrezioni dell'amore. Prima dell'arresto mi era capitato sott'occhio qualche articolo, ma non ero
mai stato uno che segue assiduamente le notizie, e poi non avevo più letto un giornale dai tempi del processo. Ce n'era qualcuno nella biblioteca del carcere, ma, quand'ero lì, preferivo dedicare il mio prezioso tempo alla lettura di libri. A quel punto, non vedevo quale utilità potessero avere per me gli eventi del mondo. Tuttavia ricordavo un'impressionante sfilza di articoli: titoloni proclamanti «La peste gay», pacate dichiarazioni secondo le quali era tutta una macchinazione del Partito laburista, isteriche ipotesi sul contagio, che poteva capitare a tutti, praticamente in qualsiasi modo. Ero riuscito ad appurare che le persone più a rischio erano i gay e quelli che si bucavano. Talvolta mi ero chiesto se qualcuno dei miei ragazzi fosse infetto, ma non mi era mai venuto in mente di poter essere contagiato. Poiché avevo avuto contatti soprattutto con cadaveri, avevo ritenuto che la morte facesse piazza pulita anche dei virus. Ma, a quanto pareva, i virus si erano rivelati più resistenti dei ragazzi. Bene, Andrew, mi dissi, chiunque violi la dolce santità del culo di un ragazzo morto, non può aspettarsi di farla franca. Adesso non pensare all'eventualità di ammalarti, visto che per ora non sei malato, e ricorda solo che questo virus nel tuo sangue fa sì che la gente abbia paura di te. E ogni volta che qualcuno ti teme, puoi sfruttare la circostanza a tuo vantaggio. Arrivò il vassoio della cena. Mangiai un pezzetto di bollito, una foglia di cavolo stracotta e qualche briciola di pane. Poi mi sdraiai sulla branda, fissai il reticolo azzurro di vene sotto la pelle del braccio, e pianificai la mia fuga dal Villaggio del Dolore. Compton... Chiusi gli occhi e mi girai verso il rumore del mare. La luce del sole sembrava oro liquido versato sulle mie guance, sul petto, sulle gambe ossute. Le dita dei piedi nudi scavavano nella terra fresca e ricca del promontorio. Avevo dieci anni ed ero in vacanza con la mia famiglia nell'isola di Man. Andrew Compton... La ginestra giallo sole e l'erica viola scuro formavano un muro mobile, alto abbastanza da nascondere un bambino sdraiato che non voleva muoversi, non voleva rispondere. Nessuno al mondo sapeva dove fossi, e neppure chi fossi. Mi pareva di poter cadere dalla terra nell'infinità azzurra del cielo. Ci sarei annegato come in un mare, agitando braccia e gambe, respirando a fatica, inalando boccate cristalline di nuvole. Nuvole che, nella
mia immaginazione, sapevano di mentine, e che avrebbero immediatamente trasformato le mie viscere in ghiaccio. Decisi che non mi sarebbe dispiaciuto cadere nel cielo. Cercai di lasciarmi andare, di sovvertire le leggi della gravita. Ma la terra mi tenne stretto a sé, quasi volesse risucchiarmi. Bene, pensai. Affonderò nella terra, lascerò che i succhi nutrienti del mio corpo arrivino alle radici dell'erica, lascerò che vermi e insetti sfaldino la tenera carne tra le mie ossa. Ma neppure la terra mi volle. Ero intrappolato in questa cripta di cielo e terra e mare, separato da tutti gli altri, in sintonia con nulla, tranne la mia miserevole carne. COMP...TONNN... Le sillabe erano prive di senso, come l'insistente fragore che le accompagnava. C'era una cassa fatta di pietra, e in quella cassa c'era una lastra di metallo coperta da una sottile imbottitura di stoffa, e sopra l'imbottitura giaceva una cosa inerte fatta di ossa rivestite di carne. Ero legato a quella cosa da un'invisibile pastoia, un fragile cordone ombelicale fatto di ectoplasma e di abitudine. Ogni luogo e ogni spazio sembravano un fiume che fluiva costante, e mentre la cosa inerte giaceva sulla sponda, io ero immerso nelle acque. Solo il fragile cordone ombelicale mi impediva di essere trascinato via dalla corrente. Sentivo il cordone tendersi e il suo effimero tessuto disintegrarsi. Sentii il rimbombo del metallo contro la pietra e capii che era la porta della cella che si apriva. Un fucile venne armato e risuonarono dei passi. «Compton, non far scherzi o ti sparo in testa. A che cazzo di gioco stai giocando?» Un'altra voce. «Sparagli nel culo, Arnie, e vedi se si muove.» Una risata roca, cui non fece eco la risata del primo agente. I miei muscoli non si tesero, le palpebre non ebbero un fremito. Se l'agente mi avesse sparato, chissà se avrei sentito il proiettile penetrarmi nella carne. La manette scattarono intorno ai miei polsi, una sensazione familiare; poi dita callose mi controllarono il polso. Qualcosa di freddo e liscio mi sfiorò le labbra. L'agente chiamato Arnie parlò di nuovo, con voce bassa, quasi timorosa. «Credo che sia morto.» «Compton morto? Impossibile. E come un gatto... solo che lui di vite ne ha ventitré.» «Taci, Blackie. Non respira e non riesco a sentire il battito al polso. È meglio chiamare l'intermeria.»
Chi ha fatto l'abitudine all'assassinio di solito tende a diventare un buon attore. Adesso avevo cominciato a esibirmi nella massima interpretazione della mia vita: la mia morte. Ma non avevo l'impressione di recitare. Un accecante succedersi di ricordi a fotogrammi fissi e isolati: un carrello strepitante nel lungo corridoio di blocchi di cemento, il mio corpo saldamente fissato con cinghie, i polsi ancora ammanettati. Ero abbastanza pericoloso da richiedere costrizioni anche nella morte. Dall'odore di medicinali e di muffa riconobbi l'intermeria del carcere. Un piccolo dolore da puntura nell'incavo del braccio, nella pianta del piede. Un freddo cerchio di metallo sul petto, sullo stomaco. Una tirata alla palpebra destra e un raggio di luce penetrante e sottile come un fil di ferro. Ricordo di aver sentito la voce del direttore del carcere, un uomo che mi trapassava con uno sguardo così gelido da farti pensare che il suo primogenito fosse perito per mia mano. «Non esaminate il corpo? Dobbiamo sapere di che cosa è morto prima di farlo uscire di qui.» «Spiacente, signore.» Era l'infermiere che mi aveva suturato il taglio alla fronte, e la sua voce era più spaventata che mai. «Di recente Andrew Compton è risultato sieropositivo. La morte potrebbe essere dovuta a una complicanza legata all'AIDS. Non sono qualificato per condurre questo esame.» «Be', che diavolo, non è che le persone muoiano di AIDS così sul colpo, le pare? Hanno delle infezioni e roba simile, no?» «Non so, signore. Compton sarebbe il primo che muore qui. Gran parte dei prigionieri sieropositivi sono stati trasferiti ad Arbusto di Assenzio. Anche lui prima o poi ci sarebbe andato.» La mia anima impastoiata ebbe un piccolo brivido di piacere. Se fossi finito ad Arbusto di Assenzio, avrei avuto ben poche possibilità di uscire, vivo o morto. Quello era il carcere più grande d'Inghilterra, e all'interno aveva un ospedale e un obitorio. «Be', qui non possiamo permetterci di scherzare con malattie infettive. Faremo fare l'autopsia nelle strutture di via del Mattatoio. Chiami il dottor Masters che venga a firmare il certificato di morte, senza il quale non lo accettano all'obitorio.» Avevo visto il dottor Masters esattamente cinque volte, per il check-up annuale obbligatorio. Adesso, rieccolo qui. Le sue mani erano delicate e secche come al solito; il suo fiato odorava come sempre di gaultheria, con un fondo di marcio. «Poveraccio», lo sentii mormorare a voce bassissima, mentre prendeva le chiavi dall'agente per togliermi le manette. Cercò inva-
no il battito sul mio polso, mi tolse l'uniforme della prigione, mi palpò il ventre, mi girò e m'infilò la fragile punta del termometro nel retto in raffreddamento. Allentai la tenue presa sul mondo e lasciai che la mia anima s'immergesse nelle nere onde dell'oblio. «Insomma, di che cos'è morto?» fu l'ultima cosa che udii, seguita dalla smorzata risposta del dottor Masters: «Non ne ho idea». Uno sferragliamento metallico, poi le rotelle risonanti sul lastricato. Non c'erano spazi lastricati intorno alla prigione. Non potevo azzardarmi ad aprire gli occhi, e, quand'anche l'avessi voluto, sentivo le palpebre pesanti, come se vi fossero posati sopra dei sacchetti di sabbia. Sentii il tintinnio di tubi e flaconi, le scariche intermittenti di un radiotelefono, i gemiti e gli stridori del traffico contrastati dall'urlo crescente di una sirena. Ero su un'ambulanza. Ce l'avevo fatta a uscire dal Villaggio del Dolore; adesso non mi restava che tornare alla vita. Ma non ancora. Venni legato su un'altra lettiga e spedito di gran carriera lungo un altro corridoio in cui il rumore delle ruote era molto più risonante, come se le pareti fossero di piastrelle e vetro anziché di blocchi di cemento sgretolati. Un'altra lastra di freddo metallo sotto la schiena, e subito il mio corpo venne avvolto in spessa plastica scrocchiante. Una sacca per cadaveri. Se avessi respirato, l'interno della sacca sarebbe ben presto diventato insopportabilmente caldo e umido. Una volta usato l'ossigeno disponibile all'interno, sarei soffocato. Ma i miei polmoni erano sigillati, imbevuti come spugne di tutto l'ossigeno di cui avrebbero avuto bisogno per un bel po'. Potevo godermi la sensazione di essere racchiuso in una sacca di plastica, il corpo in progressivo raffreddamento. A tutti gli effetti, l'involucro di pelle pieno di carne chiamato Andrew Compton era un cadavere. Pensai a Londra al tempo della peste, alle viuzze fangose trasformate in ossari, ai corpi nudi accatastati sui carri e trasportati attraverso la città, cadaveri pallidi e inerti che cominciavano a gonfiarsi, a trascolorare. Immaginavo la puzza di carne bruciacchiata, l'odore penetrante e onnipresente della malattia, il rumore delle ruote con i cerehioni di ferro sull'acciottolato sconnesso, l'appello continuo, fiacco: «Portate fuori i vostri morti». Mi vedevo sbatacchiato su un carro sopra un cumulo di fratelli infetti, un volto gonfio di peste contro il mio, pus nero stillante nei miei occhi, gocciolante nella mia bocca... Temetti di avere un'erezione che mi avrebbe tradito. Ma era una preoccupazione stupida. Sapevo che i cadaveri erano perfettamente in grado di avere piacevolissime erezioni. Di certo anche i medici ne erano al corrente.
Una violenta luce bianca mi filtrò sotto le palpebre tracciando in rosso fuoco la ragnatela di vene. Poi cessò anche quella. Non avvertivo più il passare del tempo. Nella testa mi echeggiarono parole senza senso, e presto svanirono anche quelle. Non ricordavo più il mio nome né quanto avrebbe dovuto succedermi. Era come roteare in uno spazio anonimo, privo di dimensioni, un universo vuoto di mia creazione. Era questo, dunque, il punto in cui il seme della coscienza era piantato nel terriccio dell'esistenza. Di qui avevo l'impressione di poter vorticare lontano, di cominciare ad affondare. Non dovevo necessariamente tornare. Riuscivo a stento a ricordare perché mai avessi voluto farlo. Credo che a quel punto avrei potuto lasciarmi morire. Sotto il profilo medico e legale ero già morto. Avevano auscultato il cuore senza rilevarne i battiti; avevano tastato il polso senza avvertire nulla. Sarebbe stato così facile lasciarmi andare. Ma nel seme della coscienza si annida il germe dell'io. Non avevo mai dubitato che l'io fosse l'ultima parte dell'organismo a morire. Talvolta negli occhi dei miei ragazzi avevo visto balenare l'ultimo lampo di furia impotente nell'istante in cui capivano che stavano davvero andandosene: come poteva succedere a loro? E che cos'era quel fantasma se non un ultimo rimasuglio dell'io, incapace di credere che era stato piantato in asso dalla sua stessa debole carne? Allo stesso modo, il mio fantasma, il mio io o la mia anima — non mi ha mai detto come preferiva essere chiamato — non voleva separarsi del tutto dal grigio e greve viluppo di nervi che l'aveva ospitato per trentatré anni. Come un animale selvatico tenuto troppo a lungo in gabbia, aveva paura di avventurarsi fuori anche se lo sportello era spalancato. Così rimasi sospeso tra vita e morte, incapace di imboccare una via o l'altra, rigirandomi come un ragno all'estremità di un lungo filamento setoso. Ero bloccato nel vuoto della semicoscienza? Era questo il fato cui mi ero votato, un necrofilo intrappolato nel proprio corpo in putrefazione? C'erano fati peggiori di quello. Ma non adesso, proprio quando avevo deciso di vivere nel mondo e godermi i frutti del destino. Sapevo di possedere un'enorme forza di volontà. L'avevo usata per fingere un fascino che non possedevo, per tenere a bada i vicini che si lamentavano del tanfo, per fermare un ragazzo che mi era sfuggito e stava per raggiungere la porta limitandomi a pronunciare il suo nome. (Questo era un ricordo graditissimo. «Benjamin», gli dissi con voce pacata ma con il tono più severo che lui avesse mai udito in vita sua; e lui si voltò, il volto lacerato da tremende
emozioni, brama e terrore e il desiderio di farla finita e basta, desiderio che soddisfai su due piedi.) Mi appellai alla mia grande forza di volontà e cercai di svegliarmi, di muovermi. Dapprima non ebbi una precisa sensazione del mio corpo ma solo dei suoi confini e dello spazio che esso occupava, senza peraltro riuscire a controllare queste dimensioni. Poi il cuore ebbe un fremito, il cervello parve scattare, e la carne si levò intorno a me come i fianchi di una bara. Anzi, una bara avrebbe avuto un effetto meno claustrofobico. Ero tornato, se mai ero stato altrove. Ma ancora non riuscivo a muovermi. All'improvviso la sacca venne aperta e rimossa. Sentii di nuovo il contatto con un tavolo di metallo sotto di me: ormai eravamo vecchi amici, anche se la sua accoglienza era un po' gelida. La folata d'aria che m'investì la testa puzzava di formaldeide, di disinfettante e di cipolla nel fiato di qualcuno. Sentii sul petto palmi guantati simili a fette di lesso, e intorno ai bicipiti la stretta di dita a salsicciotto. «Chiudi quella porta», disse una voce a me ignota. «Tutti cacciano la testa dentro per dare un'occhiata, e io non voglio essere disturbato.» Quindi non era il dottor Masters. Ne fui lieto, perché avevo una certa simpatia per lui. Sentii un clic e il tizio che si occupava di me cominciò a registrare i dati dell'autopsia. «Cinque novembre... Dottor Martin Drummond, assistito dal dottor Waring... Oggetto dell'autopsia è Andrew Compton, maschio bianco di trentatré anni, detenuto da cinque anni... la pelle presenta illividimento, ma nessuna macchia ipostatica. Il rigor mortis può già essere passato. Aprigli la bocca, Waring.» Un dito ricoperto di gomma dall'orribile sapore mi dischiuse le mascelle. «Denti in buona condizione... il deceduto era risultato sieropositivo, ma non ha mostrato alcun sintomo di AIDS. La causa del decesso permane ignota.» Se Drummond non avesse emanato un cattivo odore e il suo tocco non fosse stato ripugnante, avrei potuto immaginare che mi leggesse una poesia d'amore. Altro termometro su per il culo. «La temperatura rettale è in aumento», registrò Drummond, «il che indicherebbe il rapido sopravvenire della decomposizione.» Sentii la voce di Waring, giovane e innervosita: «Magrolino, eh? Come ha potuto ammazzare ventitré uomini?» «Non erano uomini: erano adolescenti drogati.» (Menzogna: gran parte erano sopra i venti.) «Balordi e prostituti. Non devono essersi difesi più di
tanto.» «Neanche quando capivano di non avere scampo?» suggerì timidamente Waring. «Li drogava. Non se ne accorgevano neppure.» Altra menzogna. Mi limitavo a offrire un drink e continuavo a riempire il bicchiere come farebbe qualsiasi padrone di casa. E purtroppo più d'uno capì quello che gli stava succedendo, solo che nessuno di loro sembrava curarsene granché. I medici s'interruppero per scrivere qualcosa. Sapevo che, quando avessero ripreso, avrebbero fatto sul serio. Avevo letto la prassi dell'autopsia. Presto sarebbero ricorsi al bisturi per praticare un'incisione a Y partendo dalle clavicole, convergendo sullo sterno e scendendo dritto sino al pube. Mi avrebbero tagliato la cassa toracica per estrarre, pesare ed esaminare le mie viscere. Ho sentito dire che gli organi di persone decedute dopo lunghe malattie degenerative talvolta sembrano spappolati, ma naturalmente i miei erano in perfetto ordine. Una volta esaminati e rimpacchettati gli organi interni, non restava che scollare il cuoio capelluto ripiegandolo sul viso, segare la scatola cranica e rimuovere il cervello, che avrebbero messo in un vaso pieno d'alcol, dove si sarebbe sentito perfettamente a suo agio e dove sarebbe rimasto a marinare per una quindicina di giorni sino a che non avesse raggiunto una consistenza tale da poter essere sezionato e analizzato. Il cervello comincia ad andare in pappa al momento della morte, e immagino che, una volta completate tutte queste operazioni, sarei stato davvero morto. Mi sforzai di rimettere in moto il sistema nervoso, di riacquistare il controllo dei muscoli e dello scheletro. Mi sembrava di non ricordare più come si rimetteva in funzione tutto quel tremendo groviglio. Era come se, dopo essere risalito attraverso torbidi strati di coscienza, ora stessi premendo contro una membrana sottile ma robusta tesa sulla superficie. «Incidiamo», disse Drummond. La lama penetrò a fondo nel pettorale sinistro. Il dolore lacerò la membrana, percorse i miei nervi come una scossa elettrica e mi strappò del tutto alla morte. Spalancai gli occhi e incrociai quelli di Drummond, stupefatti e color fango. Levai la mano sinistra, afferrai Drummond per i radi capelli e lo trassi a me. Con la destra gli strappai il bisturi di mano. La lama scivolò via dall'incisione per danzare sul palmo del dottore, tagliando il guanto e affondando nella carne sino all'osso. Vidi la sua bocca spalancarsi per lo stupore o la sofferenza, mettendo in mostra due file di denti giallastri, una gola carnosa, una ruvida lingua rosa pallido.
Prima che potesse reagire oltre, ritrassi il bisturi e glielo cacciai in uno di quei suoi occhi color fango — o, per essere più preciso, gli impalai la testa sul bisturi. Un caldo fluido sanguinolento stillò sulle mie nocche. Ricadendo in avanti Drummond fece penetrare la lama nel cervello. Ero sveglio! Mi godetti tutte le sensazioni... il piccolo risucchio umido dei globi oculari ritornati alla vita, il puzzo di fogna dilagante nell'istante in cui lo sfintere di Drummond si arrese, sconfitto, il lamento terrorizzato che immagino provenisse dalla gola del giovane Waring. Dalla cavità oculare giunse un risucchio sensuale mentre estraevo il bisturi. L'avrei lasciato lì — certi strumenti così appropriati al taglio meritano di avere le loro soddisfazioni — ma avevo bisogno di un'arma. Mi stavo chiedendo se sarei riuscito a mettermi seduto, quando mi accorsi che l'avevo già fatto. Waring stava indietreggiando verso la porta. La sua fuga, in quel momento, era impensabile. Avevo le mani viscide di sangue e di umor vitreo. Mi portai la destra al petto e la ritrassi ancor più sanguinolenta. Mi azzardai a guardare la ferita. La pelle lungo i margini era raggrinzita, il sangue, scorrendo lungo il petto e il ventre, imbeveva i peli pubici e spruzzava di rosso il pavimento. Allungai verso Waring la mano a coppa, colma dei miei veleni. Lui si scansò, allontanandosi dalla porta. Mossi verso di lui, bisturi in una mano, sangue appestato nell'altra, e lo guardai negli occhi. Erano di un limpido azzurro britannico, dietro lenti quadrate con montatura dorata. I capelli avevano il colore delle barbe di granturco, tagliati a scodella come quelli di un ragazzino; il volto era tenero come il burro. Sembrava uscito dritto dritto dallo Yorkshire descritto da James Herriot; e se non fosse stato per il filo di bava lungo il mento, avrebbe potuto essere il giovane e perennemente stupito assistente del buon veterinario, con tanto di stetoscopio al collo e una traccia di scottatura solare sulla pelle morbida e rosata. Che delizioso sempliciotto! «La prego, signor Compton», piagnucolò, «la prego... i serial killer in qualche modo mi affascinano, sa, e non farei mai la spia...» Lo feci arretrare contro un carrello pieno di lucenti morsetti e divaricatori per ossa, che si ribaltò con un frastuono assordante. Waring incespicò all'indietro e cadde tra gli strumenti. Scalciò invano mentre lo bloccavo a terra, gli strappavo gli occhiali e mi ripulivo la mano sui suoi occhi, accecandolo con il mio sangue. Lui cercò di mordermi la mano, ma riuscì solo a ingollare una boccata di viscidume sanguinolento. Gli cacciai il bisturi nel collo e tagliai sino alla clavicola. Il solido corpo da ragazzo di campa-
gna ebbe uno spasmo. Rigirai la lama nella ferita. Lui levò debolmente la mano per artigliarmi. Lo afferrai per i bei capelli color granturco, ora neri di sangue, e gli spaccai la testa con un divaricatore per ossa. Il cranio cedette con un entusiasmante scricchiolio. Waring ebbe un ultimo guizzo e si bloccò. L'eccitazione, quasi dimenticata ma ridiventata all'istante familiare, di sentire un corpo che diventa inerte tra le mie braccia... l'estasiante velo che cala sugli occhi socchiusi... il modo in cui le dita si irrigidiscono, hanno un piccolo tremito di morte e poi si ripiegano nei palmi... il tenero volto perduto in un vuoto sogno infinito. I biondi mi sono sempre piaciuti. La loro carnagione latte e miele mette in risalto le vene azzurre alle tempie, e i capelli intrisi di sangue sono come pallida seta vista attraverso un vetro rosso rubino. Mi chinai su Waring e lo baciai, ritrovando la morbidezza delle labbra e la durezza dei denti e il ricco sapore metallico di una bocca piena di sangue. Era così appetitoso che avrei voluto sdraiarmi accanto a lui sul freddo pavimento dell'obitorio e divertirmi un po'. Ma non osai. Nonostante le mie ricerche sugli esami autoptici, non avevo idea di quanto dovesse durare una vera autopsia. La porta era chiusa, ma prima o poi sarebbe arrivato qualcuno con una chiave, ed era prudente supporre che sarebbe arrivato più prima che poi. Erano cinque anni che non avevo a disposizione un bel ragazzo biondo, e non potevo farne proprio niente. Staccai gli occhi da Waring e mi guardai attorno. Eravamo in un piccolo locale rettangolare, apparentemente una sorta di anticamera dell'obitorio. Un soffitto basso, di cemento, pareti piastrellate, niente finestre. I viscidi resti di Drummond giacevano ai piedi di un tavolo per dissezione, mentre il giovane Waring e io eravamo a terra, abbracciati, tra un groviglio di tubi di gomma tutti macchiati che sparivano sotto un lavello. La porta sembrava essere l'unica via d'uscita. Ero nudo come un verme e perdevo molto sangue. I dipendenti dell'ospedale al corrente della mia autopsia in loco avrebbero avuto ben presente la mia faccia. Ma dovevo avere l'ardire di passare tra di loro. Pensavo di poterlo fare; anzi, ero sicuro di riuscirci. E poi non è che avessi alternative. Infilai un paio di guanti di gomma, frugai negli armadietti e nei cassetti, trovai una cassetta per il pronto soccorso, tamponai la ferita con cotone e applicai una compressa di garza. Quasi all'istante il sangue affiorò sulla fasciatura, ma non potevo farci nulla, tranne essere grato che avesse rico-
minciato a fluire. Mentre, davanti al lavandino, mi ripulivo con salviette di carta, avevo ancora la tormentosa certezza di aver sfiorato il confine della morte irreversibile. Il camice di Drummond era tutto impregnato di ogni genere di lerci umori colanti da quel sacco in disfacimento che era il suo corpo. Ma Waring aveva appeso il suo a un attaccapanni accanto alla porta, ed era morto nell'uniforme chirurgica verde. Tra me, benedissi quel ragazzo. Poi gli tolsi scarpe e calze e mi provai uno dei suoi brutti mocassini con la suola di gomma. Mi stava come una barca, ma pensai che se avessi stretto il laccetto di cuoio e infilato in punta qualche salvietta di carta sarei riuscito a tenere le scarpe addosso. Con grandi stiracchiamenti e sollevamenti, riuscii a togliergli l'uniforme verde. Nella tasca dei calzoni trovai un piccolo portafogli contenente due banconote da venti sterline e qualche moneta, che presi. In mutande, il corpo di Waring era liscio, rosato e glabro, salvo per la sottile peluria bionda sulle gambe e all'inguine. Non provavo più alcuna attrazione per lui: adesso mi ricordava molto da vicino un ratto appena nato. Mi era già successo talvolta anche con i miei ragazzi. Mi ritrovavo con un cadavere bello fresco e pronto per la notte e, invece di lanciarmi su quel corpo inerte, di colpo mi passava tutta la voglia. Capitava più spesso con i ragazzi che erano morti senza opporre alcuna resistenza. Naturalmente, l'uniforme verde di Waring era troppo grande e molto insanguinata. Ma pensavo che potesse passare inosservata sotto il camice bianco pulito. Dopotutto ero in un ospedale. Vidi a terra gli occhiali con la montatura d'oro tutti coperti di ditate sanguinolente ma intatti. Li ripulii e li inforcai, aspettandomi una visione offuscata e danzante, da emicrania. E invece tutto mi apparve più netto, con i contorni più definiti. Ma guarda! Gli stupefatti occhi azzurri di questo ragazzone avevano lo stesso difetto dei miei! Com'era prevedibile, nel locale non c'era uno specchio vero e proprio. E chi mai vorrebbe guardarsi in faccia dopo aver affettato cadaveri tutto il giorno? Ma qualche dottorino vanitoso (sospettai) aveva appeso uno specchietto tondo a un chiodo sopra il lavello. Scrutai la mia immagine, stabilii che gli occhiali avevano già cambiato molto il mio aspetto, ma si poteva far di meglio. Sebbene ai prigionieri s'imponga di tenere i capelli corti, io non vedevo un barbiere da settimane. La mia chioma scura arrivava a metà collo e ricadeva disordinata sulla fronte. Trovai un paio di forbici e cominciai a tagliare alla bell'e meglio. Li la-
sciai lunghi sul dietro, ma eliminai diversi centimetri sul davanti e sui lati sino a che i miei capelli folti e grossi rimasero ritti sul cranio. Era un'acconciatura alla moda che non stonava su un anatomopatologo non più giovanissimo. Alla televisione, l'ultima volta che avevo avuto il permesso di andare nella sala di ricreazione, avevo visto un personaggio che sfoggiava proprio una capigliatura del genere. Trassi il bisturi dalla gola di Waring e lo attaccai con nastro adesivo sul lato interno del polpaccio, dove avrei potuto estrado con facilità in seguito. Canterellavo, compiaciuto del mio nuovo aspetto. Con gli occhiali e il nuovo taglio di capelli mi pareva di dimostrare cinque anni di meno, e di non somigliare per nulla al più tristemente famoso assassino che mai si fosse visto in Inghilterra dal tempo in cui Jack andava a caccia di puttane a Whitechapel. Gli assassini hanno la fortuna di avere volti molto «mimetici». Spesso sembriamo tranquilli e banali: nessuno, incrociando per strada Jack lo Squartatore, deve aver pensato: Quel tizio ha l'aria di uno che ieri sera si è mangiato i reni di una ragazza. Anni prima del mio arresto avevo visto sui giornali svariate foto di un serial killer americano, tutte scattate a pochi mesi di distanza le une dalle altre. Se non ci fosse stato il nome nella didascalia, non avresti detto che era lo stesso uomo. Sembrava capace di modificare i lineamenti del volto, la forma degli occhi, perfino la struttura ossea. Non ero in grado di fare una cosa simile — o perlomeno non me ne ritenevo capace — ma, dati i mezzi a disposizione, me l'ero cavata bene. Quando staccai dall'attaccapanni il camice di Waring, dalla tasca caddero due oggetti. Uno era un consunto volume tascabile dal titolo Il cannibale preferito d'America — La storia di Ed Gein. L'altro, un mazzo di chiavi d'auto. Raccolsi le chiavi e passai il pollice sulla morbida targhetta di cuoio con la scritta JAGUAR. Per me le chiavi erano state oggetti proibiti per cosi tanto tempo che al tatto mi parvero pericolose. Avevo visto ben poche chiavi d'auto in vita mia. Sapevo guidare, ma non avevo mai posseduto una macchina. Girare in auto a Londra è logorante e per giunta inutile, data la vasta rete della metropolitana. Adesso non mi restava che trovare il parcheggio riservato ai medici e la Jaguar giusta. Andai alla porta e girai la maniglia. Trovando l'uscio chiuso, ebbi un lampo di panico. Sanno che sono qui, unico sopravvissuto, intrappolato. Poi ricordai che Drummond aveva chiesto a Waring di chiudere dall'interno.
Feci scattare il pulsante della sicura e la pesante porta si aprì, il primo uscio che avessi aperto da solo in cinque anni. La stanzetta puzzava di formaldeide, escrementi e terrore, un tanfo greve e vomitevole. Ero lieto di congedarmi da questo cubicolo umido in cui un uomo spaventoso aveva pensato di rimuovermi le viscere e di metterle a marinare, assistito da un ragazzo appena grande abbastanza da meritare di essere ucciso. La porta si era quasi richiusa quando ricordai che Drummond aveva preso appunti con un registratore. Presumibilmente era stato inciso tutto quello che era successo dopo la mia resurrezione. Schizzai dentro, presi la cassetta, uscii di nuovo e mi richiusi l'uscio alle spalle. Il corridoio deserto sembrava stendersi all'infinito. Mi chiesi dove fossero tutti gli altri cadaveri, quelli veri. Ma non potevo perder tempo in quei pensieri. Ai lati, in rientranze scure, si intravedevano delle porte. Le poche stanze aperte erano buie e vuote. Una porta risultò essere quella di un ascensore. Premetti il pulsante e attesi. In corridoio non c'era anima viva in vista, anche se si sentivano echeggiare voci lontane. A quanto pareva il Villaggio del Dolore mi aveva inviato in un sonnacchioso ospedale di campagna, forse per cercare di evitare la pubblicità il più a lungo possibile. Suppongo che volessero sapere di che cosa ero morto prima che gli avvoltoi della stampa si precipitassero a strapparmi la carne dalle ossa. E adesso che bel banchetto aspettava quegli stessi avvoltoi! Ma non sulle malsane carni di Andrew Compton! La porta dell'ascensore slittò via come una spessa lingua metallica e le fauci della cabina rigurgitarono due lunghe figure biancastre, una verticale e l'altra orizzontale. Per poco non indietreggiai per la sorpresa. Ma era soltanto un barelliere tetro e foruncoluto che spingeva una lettiga coperta da un lenzuolo bianco. Sotto il telo c'era una forma contorta, una forma che non sembrava più possedere tutte le dovute componenti e dava l'impressione di smollarsi e cedere davanti ai miei occhi. Ma distolsi subito lo sguardo, e se il barelliere credeva opportuno ignorarmi, io ritenevo altrettanto opportuno essere ignorato. Premetti il pulsante T. Nell'aria aleggiava un odore di bruciato. L'ascensore iniziò la salita, e il mio stomaco ebbe una punta di nausea. Poi la porta si aprì sul caos: gente che correva e gridava, carrelli che schizzavano a gran velocità, zampilli di sangue da un tavolo circondato da schiene verdi e bianche tra le quali si levò una mano che, tremante, si protese come se volesse raggiungere Dio, per poi sparire. E ovunque, molto più intenso ades-
so, quello stesso odore di bruciato. Avevo preso l'ascensore che portava al pronto soccorso. Su un carrello vidi delle maschere chirurgiche, ne presi una e me la legai sopra naso e bocca. Presi anche un paio di guanti di gomma, pensando che prima o poi avrebbero potuto farmi comodo. Poi avanzai in quel girone dantesco verso una doppia porta che avevo intravisto al capo opposto del locale. La porta dava su un'ala dell'ospedale, e al di là, seduta a una scrivania, c'era un'infermiera le cui dita volavano sulla tastiera di un computer. Il suo volto era più sereno e gentile di quelli che avevo visto fino a quel momento. «Scusi», dissi attraverso la maschera, «ma sono nuovo qui e ho perso un po' la bussola. Dov'è il parcheggio riservato ai medici?» «Imbocchi questo corridoio, svolti a sinistra e salga due rampe di scale. Livello Tre. Ma non può trattenersi, dottore? Stanno arrivando le vittime di questo terribile incidente e abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile.» «Sono di guardia da venti ore», buttai lì. «Il primario mi ha ordinato di andarmene a casa a riposare... ha detto che se non lo faccio corro il rischio di recidere il tubo sbagliato.» L'infermiera batté le palpebre, poi mi lanciò un sorriso comprensivo (benché un po' gelido). Mi girai e percorsi il corridoio a passi rapidi. Alcuni medici stavano correndo nella direzione opposta, ma nessuno badò a me. Sentii uno di loro dire: «...un'occhiata a Compton...» e un altro rispondere, con un certo compiacimento: «Drummond non ti lascerà mai entrare». Qualche minuto più tardi mi ritrovai in un parcheggio a più livelli, deserto quanto l'obitorio e apparentemente pieno di Jaguar. C'erano Jaguar d'ogni colore e d'ogni annata, decappottabili, coupé e berline, alcune tenute come gioielli, altre del tutto decrepite. Qua e là vidi una Ferrari o una MG, tanto per rompere la monotonia, e, nascosta in un angolo buio, mi parve di intravedere una patetica Mini. Ma rispetto a ogni altro tipo di auto, c'erano almeno tre o quattro Jaguar. Alla trentasettesima auto, la chiave della portiera finalmente funzionò. Mentre salivo vidi, sul sedile posteriore, una pila di libri. Erano dei volumi in edizione economica, logorati dalla lettura, con vistose copertine in rosso sangue e nero incubo. Gli assassinii del bagno di acido. Il Macellaio di Hannover. Zodiac. Uccidere per solitudine. Il Vampiro di New York. Sogni sepolti. Infilai la chiavetta dell'accensione e il motore partì con un morbido, bas-
so rombo. Una spia lucente mi assicurò che il serbatoio era pieno di benzina. Londra era a meno di due ore d'auto. Con un po' di fortuna, ci sarei arrivato ancor prima che all'ospedale si accorgessero della mia scomparsa. E quel giorno sembrava che di fortuna me ne fosse toccata più di un po'. 2 Nel tardo pomeriggio, Jay Byrne lasciò il gelo spartano del Charity Hospital e si diresse di buon passo lungo la trafficata Tulane Avenue in direzione del Quartiere francese. All'altezza di Carondelet svoltò a sinistra, traversò l'animata Canal, sgusciò lungo Bourbon Street, e ben presto si ritrovò al centro del Quartiere. Persino in novembre capitavano giornate in cui a New Orleans faceva un caldo quasi tropicale. Non era uno di quei giorni. Sulla maglietta grigia Jay portava una giacca di un tessuto nero e opaco che sembrava assorbire e divorare tutta la luce. Era un capo costoso, ma a lui, con quegli stecchini di polsi che sbucavano dalle maniche come ossicini di pollo, non stava per niente bene. Nei suoi ventisette anni di vita, di rado aveva trovato qualcosa che gli andasse a pennello: maniche e calzoni non erano mai della misura giusta, e nessun tessuto o taglio lo faceva sentire a suo agio. Quando gli era possibile, preferiva stare nudo. I capelli lunghi, biondi e sottili di Jay svolazzavano nella brezza che spirava dal fiume. Camminando, sfiorò con la mano la sommità di una inferriata di ferro battuto e poi un consunto muretto di mattoni. Quando giunse a Jackson Square la luce pomeridiana aveva assunto un tono dorato. Sulla scalinata della cattedrale di St. Louis lo attendeva un piccoletto in camicia rossa a vistosi disegni fiorati, calzoncini neri e larghi, e lucenti capelli corvini. Era un ragazzino vietnamita sui diciassette-diciotto anni che, a quanto risultava a Jay, si chiamava Tran. Lo aveva visto spesso in giro nel Quartiere francese. Il volto del ragazzo gli ricordava una delicata maschera intagliata nell'avorio: struttura ossea esotica, più asessuato che androgino. Ma questa maschera era sormontata da un taglio di capelli alla moda, una lucida cascata di capelli ricadente sulle spalle e sul volto. Il ragazzo prese le due banconote nuove e scrocchianti da cento dollari l'una senza alcun fremito di sorpresa e tese a Jay una busta marrone chiusa, priva di etichetta o intestazione.
«È roba pulita», disse il ragazzo, vivacemente. «Una roba chiamata 'Nuke', che viene da Santa Cruz. Basta prenderne una alla volta.» Il suo accento era un curioso minestrone, in parte vietnamita, in parte dialetto di New Orleans, in parte quell'americano frizzante e un po' gergale che spesso i giovani stranieri rappattumavano da qualche parte — forse dalla televisione, ipotizzava Jay, benché personalmente non l'avesse mai guardata a sufficienza per poterne riconoscere il linguaggio. «Bene: ora sono fornito.» Jay infilò la busta nella fodera di seta della giacca. Prese fiato e si tuffò. «Faccio il fotografo. Foto artistiche, sai, nudi maschili. Vuoi posare per me stasera?» Il ragazzo parve sorpreso, poi cambiò espressione... Allarmato? Divertito? Jay non riusciva a leggere in quegli occhi così scuri. «Stasera non posso», rispose. «C'è un grosso rave nel Warehouse District, e ho un bellissimo abito da sfoggiare. Possiamo fare un'altra volta?» «Ah... certo. Senz'altro.» Jay sapeva che avrebbe dovuto indicare una data precisa, ma ormai tutto il suo coraggio si era esaurito nella proposta iniziale. Gli era impossibile procedere oltre senza l'aiuto di un po' d'alcol o di droga. «Ok, ci vediamo.» Tran benedì Jay con un luminoso sorriso, si voltò e imboccò una viuzza acciottolata. Sulla piazza gravavano opprimenti le guglie della cattedrale. Quel sorriso... dolce come il sesso, succulento come la carne. Ma il rifiuto del ragazzo era stato troppo rapido, e a Jay era parso di vedere un lampo di avversione — pietà? ripugnanza? — nei recessi di quegli occhi dall'elegante taglio a mandorla. Era umiliante sentirsi respinto da un ragazzetto del Quartiere francese che aveva quasi dieci anni meno di lui. Ma, nonostante la vergogna, Jay avvertì un guizzo di desiderio. Rimpianse di non aver potuto portare quel ragazzo vietnamita nella sua casa di Royal Street, quella casa protetta da una cancellata di ferro battuto, annidata come un buio gioiello in un cortile orlato di foglie e di ombre. Lì avrebbe potuto tollerare quelle labbra indifferenti, quegli occhi sprezzanti e guardinghi. Avrebbe potuto fotografarli e catalogarli, esaminarli, scoprire il modo esatto in cui si scomponevano, cedevano. I ragazzini del Quartiere francese diffidavano di Jay, anche se talvolta lo ammettevano nel loro giro perché portava quantità industriali di alcol e droga senza battere ciglio. Talvolta li convinceva a posare per istantanee polaroid, ma non si spingeva mai oltre con quelli del posto. Non li coin-
volgeva mai nelle sue imprese più oscure. Quando non riusciva a beccare un turista, andava in cerca di qualche sbandato proveniente dai quartieri popolari. Jay offriva al ragazzo del denaro per posare, si assicurava che il furbetto non avesse un'arma, poi gli faceva la festa... Si chiedeva spesso come mai i ragazzi del posto avessero la bontà di tollerarlo. Senza dubbio nel Quartiere c'erano molti uomini con il portafoglio ben fornito, disposti a scucire i soldi per un drink o un pasto per un fanciulletto dalla pelle liscia e le gambe lunghe. E probabilmente c'erano anche delle donne non più giovanissime, con molti dubbi sul loro fascino, che cercavano di puntellare l'io vacillante con un giovane amante. Jay sapeva che quei ragazzi non avevano bisogno di lui... addirittura lo trovavano uno schifo. Glielo aveva sentito dire quando non pensavano di essere ascoltati. Lui era un campione nel non farsi notare, nell'ascoltare cose che non avrebbe dovuto udire, nell'osservare sparendo nello sfondo. Immaginava di essere una sorta di curiosità per loro. Probabilmente lo avrebbero snobbato del tutto se non avessero saputo il suo cognome. Ma neppure la sua notorietà gli apparteneva; si ritrovava nudo e tremante nei brandelli di notorietà fornitigli da una famiglia riccamente vestita. LYSANDER DEVORE BYRNE: così aveva scritto con calligrafia minuscola e contorta quando, all'ingresso dell'ospedale, aveva dovuto apporre una firma per andare a trovare la madre, con quel suo volto cascante e grinzoso dietro il quale si celava un cervello in spappolamento. Nessuno lo aveva mai chiamato Lysander, che era il nome del padre. In famiglia era sempre stato Junior, sino ai limiti del tollerabile, e poi semplicemente Jay. Lo scheletro devastato nel letto d'ospedale un tempo era stata Mignon Devore, discendente di una prestigiosa famiglia del luogo, ex reginetta di Comus, gran bellezza locale. Aveva sposato un ricco ragazzotto texano, divenuto ancor più ricco grazie a lei. Insediata in un palazzetto neogotico di Charles Street, aveva chiuso un occhio sulle varie amanti di Lysander, a condizione che il marito non aprisse conti in banca a loro nome. Aveva consumato notevoli quantità di Pernod, una sorta di succedaneo dell'assenzio, altrettanto disgustoso, ma legale. Non aveva mai badato molto al suo unico figlio. Aveva seppellito in gran pompa il marito, e avrebbe occupato un posto parimenti lussuoso nella tomba di famiglia. Non appena saputo che il cancro stava venando i lobi temporali della madre come il grasso di un taglio di manzo molto tenero, Jay l'aveva installata nel Charity Hospital anziché nella lussuosa clinica privata in cui Lysander era morto della stessa forma di tumore cinque anni prima. Mi-
gnon non avrebbe voluto essere ricoverata lì; ma poiché quel luogo le ispirava terrore, e il pensiero di morire lì la scandalizzava, Jay aveva pensato che se ne sarebbe andata prima. Era un gesto misericordioso, un piccolo male giustificato da un fine lodevole. Stava traversando Jackson Square diretto verso il Café du Monde per prendere un caffelatte quando dietro di sé udì passi affrettati di piedi calzati con scarpe da tennis. Jay si girò con una rapidità che lui stesso trovò sorprendente. Tran si fermò di botto, il volto dall'aggraziata struttura percorso da disagio e sorpresa. «Mi chiedevo», disse, e si bloccò. Sorrise. Cincischio l'orlo dei bermuda mettendo in mostra la pelle liscia del ginocchio. «Mi chiedevo se volevi venire con me a quel rave. Insomma... a prendere foto o roba simile», aggiunse mentre sul volto di Jay dilagava la sorpresa. «A prendere?...» Jay sentì il cuore scoppiargli in petto. Immaginò di vederlo schizzare fuori dalla cassa toracica per spiaccicarsi sulla faccia di Tran, lasciando una scia di vivido marrone rossastro su quelle perfette labbra rosate. «Ehm... che cosa succede precisamente in un rave?» Tran sorrise e alzò gli occhi. «È meglio chiedere che cosa non succede. La droga uno se la deve portare da solo, però si trovano ottimi drink e roba con cui ti puoi impasticcare legalmente. Circolano un sacco di allucinogeni e di Ecstasy e l'atmosfera è all'insegna del 'vogliamoci bene e lasciamoci andare'.» «Be'...» Jay non sopportava neppure il suono della parola «rave», e men che meno l'immagine che essa gli evocava: una festa sensuale che sconfinava nel delirio. Vedeva gruppetti di adorabili ragazzini che farfugliavano frasi senza senso, magari con la bava alla bocca. «Non mi sembra il mio genere di cosa. Non mi piace prendere allucinogeni in pubblico.» «Sì, conosco gente così.» Il ragazzo annuì con aria saggia, come se avesse preso nota di infinite opinioni sull'uso di droghe psichedeliche in pubblico... e magari l'aveva davvero fatto. Molte famiglie vietnamite di New Orleans erano cattoliche, e i loro figli, dopo un'infanzia passata a imparare a memoria i tabù, spesso erano i più scatenati di tutti. «Però mi piacerebbe farti delle foto», disse Jay. «Vieni a trovarmi qualche volta. Ecco...» Trasse di tasca una penna e un taccuino e scrisse l'indirizzo. «Grazie.» Tran mise in tasca il foglietto, lo graziò con un ultimo, dolce sorriso e sparì nella bolgia di turisti, lettori di tarocchi, musicisti di strada e tutta la varia fauna del Quartiere francese. Dio, se era bellino. Ma era an-
che un ragazzo del posto, si ricordò Jay. I ragazzi del Quartiere poteva fotografarli, forse, ma niente di più. Decise di fare due passi sul lungofiume prima di prendere il caffelatte e rientrare a casa. Sull'argine l'aria era più fresca, soffusa dalla luce limpida che precede il tramonto. Jay guardò il fiume impetuoso e lucente. Era talmente maestoso e inquinato; di certo aveva trasportato più veleni di qualsiasi singola fabbrica. Ma nessuno dava dell'assassino al Mississippi. Erano passati ormai quarant'anni dall'apertura della Byrne Metals and Chemicals a Terrebonne Parish, una fabbrica nuova di zecca, stupenda come la plastica, pronta a favorire l'ingresso della Louisiana meridionale nell'era atomica. In un primo tempo l'industria di suo padre era stata una benedizione per quella zona depressa, creando posti di lavoro per gente troppo vecchia per poter campare delle ricchezze della palude. Il fatto che la fabbrica scaricasse rifiuti in quelle stesse acque che alimentavano quella ricchezza sembrava non avere importanza. La palude era immensa, sconfinata, e di sicuro era in grado di assorbire qualsiasi cosa vi venisse immessa. Aveva come valvola di sfogo i bayous, e, più in là, l'intero Golfo del Messico. Ma, con il passare degli anni, il numero di uomini e donne giovani e sani che chiedeva lavoro in fabbrica aumentò. A quanto pareva, nella zona non c'erano più tanti pesci, animali da pelliccia e alligatori come un tempo. I gamberi abbondavano come sempre, ma quelli prosperavano con qualsiasi porcheria. Gli altri animali erano perlopiù piccoli o malati. A un occhio inesperto, la palude sembrava ancora ribollire di vita. Ma chi ci abitava sapeva che stava morendo. Poi cominciarono a morire anche loro. Un comitato di cittadini affermò che, in un raggio di ottanta chilometri dalla Byrne Metals and Chemicals, i casi di cancro erano il doppio che altrove. Nacquero numerosi bambini con malformazioni craniche o del volto, con lesioni cerebrali o privi di cervello. Si verificò un grave incidente in cui era coinvolto un cajun licenziato dalla divisione solventi dopo diciotto anni di lavoro. Quando, un mese dopo, gli venne diagnosticato un cancro all'intestino, l'uomo sfondò il cancello della fabbrica con un camioncino, si fermò nel cortile, estrasse un vecchio fucile a due canne e cominciò a sparare. Una guardia giurata ci rimise la gamba sinistra prima di riuscire a colpire alla testa il cajun. In soccorso alla fabbrica arrivò il fratello maggiore di Mignon, Daniel Devore. Aveva il dono di saper parlare con uòmini politici e giornalisti e di manipolare i fatti. Aveva anche un debole per i passeggiatori che, dopo la
mezzanotte, bazzicavano dalle parti di Burgundy Street, nella parte bassa del Quartiere francese. Finì con il sistemare il suo favorito in un appartamento del vecchio Quartiere degli schiavi, dove passava tre o quattro notti la settimana. Quando, anni dopo, Jay si trasferì nel Quartiere francese, l'ex passeggiatore era ancora da quelle parti, avendo ricevuto una generosa eredità da Daniel. Un biondone sbiadito, ben navigato nella vita del Quartiere ma non più appetibile, che ogni tanto riusciva a tirarsi in casa qualche ragazzino vantando le sue ricchezze. Jay lo osservava a debita distanza, affascinato dall'idea che quelle ricchezze erano intrise del sangue della palude che suo padre aveva inquinato. Vicinissimo a lui, un organetto strillava «Dixie» a un volume pazzesco. Jay si rese conto di essere arrivato alla banchina che portava all'approdo dei grandi battelli a vapore. Monumentali, dai vivaci colori, con ottoni lucenti e intagli ornamentali, torreggiavano sul molo, simili a enormi torte nuziali: il Natchez, il Cajun Queen, il Robert E. Lee. Jay immaginò che uno di essi si rovesciasse gettando il suo carico umano nella brodaglia venefica del fiume. Infilò la mano sotto la giacca e toccò la busta. Era rassicurante sentirsela contro il cuore. «Nuke», gli aveva detto Tran. Cento dosi di LSD di prima qualità. Ne avrebbe prese quattro o cinque e il resto l'avrebbe messo nel freezer. Lì dentro teneva un sacco di prelibatezze. Jay tornò al Café du Monde per prendere il caffelatte, com'era stato nelle sue intenzioni. L'aria sotto la vecchia tenda verde era impregnata dall'odore di pastella fritta e di zucchero vanigliato, un dolce miasma che non svaniva mai. Gli aromi del Café si mescolavano ai fumi dei tubi di scappamento in Decatur Street e all'odore fienoso dello stereo dei muli che tiravano le carrozzelle per i turisti. Il pomeriggio stava sfumando nella sera. Nell'aria limpida migliaia di uccelli volavano in cerchio sopra Jackson Square prima di appollaiarsi per la notte. I loro canti, il sassofonista sul marciapiede, il chiacchiericcio della folla, il rombo del traffico lungo Decatur Street... era tutto parte del gioioso rito vespertino di New Orleans. Jay sedette a un tavolo accanto alla ringhiera da dove poteva godersi lo spettacolo. Il caffè di cicoria era forte e saporito, il latte dolce e schiumoso. Avvertì una presenza accanto a sé. All'altro lato della ringhiera c'era un ragazzo il cui sguardo da cucciolo colava su Jay come burro riscaldato. Indossava quella che era l'uniforme di tutti i giovani vagabondi: bandana legata intorno alla testa con i capelli cortissimi, orecchi e naso ornati di bor-
chie, eskimo trasformato in un'opera d'arte a furia di spille da balia e pennarello nero, scarpe trendy che di strada dovevano averne fatta parecchia. Il viso dall'ossatura forte era involontariamente angelico. Doveva avere sui diciotto anni. Forse. «Mi porti a casa con te?» chiese a Jay. «Voglio essere il tuo animale da compagnia. Non mangio molto e sono molto affettuoso.» Jay bevve un sorso di caffè e alzò un sopracciglio. «E se urinassi o cagassi sul pavimento? Potrei essere costretto a sopprimerti.» «Uso sempre la cassettina della sabbia», si affrettò a rassicurarlo il ragazzo. Sul suo volto si leggeva la fame, pura e semplice fame; ma era una fame recente, quella di un ragazzo che è in giro da poche settimane e sente la mancanza della cucina ben fornita dei genitori. Quella era la fame che piaceva a Jay: forte abbastanza da rendere incauto un ragazzo, ma non tale da avergli inflaccidito la muscolatura. Ordinò per il ragazzo un caffelatte e un piatto di bignè. «Parliamo seriamente», disse Jay guardando il ragazzo che metteva nel caffelatte una valanga di zucchero. «Com'è questa faccenda dell'animale da compagnia? Mi permetterai di metterti un collare e un guinzaglio? e di incatenarti?» «Certo.» Il ragazzo sorrise con la bocca piena di bignè. Uno spruzzo di zucchero vanigliato innevò le labbra, il mento e il davanti della maglietta nera. «Tutto quello che vuoi. Basta che mi lasci accoccolare ai piedi del tuo letto.» Jay si chiese come mai quel cucciolotto così esotico stesse mendicando avanzi alla sua porta. Aveva l'aria da danaroso, si disse, ma non poi così smaccatamente. In nessun modo appariva ricco quanto in realtà era. A New Orleans, dove rapine, scippi e assassinii erano comuni quanto i temporali pomeridiani, solo i turisti sfoggiavano la ricchezza come un'etichetta appiccicata sulla fronte. «Magari ti do pure un cuscino», disse. «È tanto che sei in giro?» «Solo un paio di mesi.» «Da dove vieni?» «Dal Maryland.» «Com'è da quelle parti?» Un'alzata di spalle diffidente; era come avergli chiesto come si stava sulla luna. «Fa schifo. Sai... una gran noia.» L'ultimo bignè sparì nella gola rosata e affamata. «Allora? Vuoi portarmi a casa con te?»
Jay si protese in avanti avvicinando il volto a quello del ragazzo. «Chiariamo subito alcune cosette. Se vuoi essere il mio animale da compagnia, allora cerca di esserlo fino in fondo. Sta' seduto sino a quando non decido di alzarmi. Seguimi quando cammino. Mettiti a pancia all'aria quando te lo ordino. E quando ti carezzo, leccami la mano.» Allungò la mano e gli lisciò i capelli, poi fece scorrere le dita lungo la guancia del ragazzo, sulla morbida peluria della mascella. Mentre stava per ritrarre la mano, il ragazzo girò il capo, prese in bocca due dita di Jay e le avvolse con la lingua. L'interno della sua bocca era morbido come il velluto, caldo come il sangue. Con la coda dell'occhio Jay vide una coppia di anziani turisti al tavolo accanto che lo fissava ipnotizzata. Non poteva importargliene di meno, e quasi non riuscì a muoversi e a respirare finché durò quell'umida e calda carezza. «Chiamami pure Fido», disse il ragazzo. 3 Le avvisaglie del tramonto avevano spennellato di lillà il cielo sopra l'autostrada Chef Menteur. A bordo dell'auto, Tran s'inoltrò tra fatiscenti strutture di centri commerciali semideserti, di motel pulciosi, di quello spaventoso pianeta al neon che era la facciata dell'Orbit Bowling Alley, di quel triste arcobaleno di bar e di librerie porno che, coraggiosamente, stavano ancora cercando di beccare gli ultimi rifiuti umani in giro a quell'ora. Di lì a poco la Escort di Tran si ritrovò in aperta campagna, tra lucenti distese di acqua, canneti ed erba, punteggiate qua e là da casette. East New Orleans era uno strano cocktail di pace, di volgarità e di esotismo. Tran aveva ventun anni, ed era nato ad Hanoi da genitori che, tre anni più tardi, nell'esodo di massa del 1975, erano scappati dal Vietnam. Nella sua componente genetica c'era una traccia di sangue francese cui si dovevano l'ondulazione dei lunghi capelli neri, il fondo rosato della morbida carnagione ambrata e il riflesso dorato degli occhi scuri. I suoi soli ricordi del Vietnam erano voci basse nel cuore della notte, qualcuno che lo incitava a correre lungo una via illuminata da piccole luci colorate vibranti e ondeggianti nell'aria umida, il pungente odore di arbusti appena tagliati. Talvolta gli pareva di rammentare altre cose — granate che esplodevano in lontananza, la massa argentea di un aereo — ma non era mai sicuro se questi frammenti fossero ricordi o sogni.
Grazie a un tizio che suo padre aveva conosciuto nell'esercito americano, la famiglia riuscì ad arrivare a New Orleans senza venire a contatto con l'orrore di fango e cemento dei campi di rifugiati. Il suo nome, originariamente, era Tran Vinh. Al momento dell'iscrizione alla scuola materna, i genitori capovolsero l'ordine dei nomi, in modo che il cognome venisse per ultimo, come quello di un bambino americano. E allungarono il nome di battesimo in Vincent, appellativo che non gli era mai piaciuto e a cui non aveva mai risposto, neppure a cinque anni. In famiglia lo chiamavano ancora Vinh. Per tutti gli altri era Tran. In inglese, quel monosillabo suggeriva movimento (transizione, transito) e valicamento di limiti (transoceanico, transfuga, transessuale), concetti a lui molto graditi. Quella sera Tran aveva preso acido ed Ecstasy sino a che le luci e i video e l'offensiva sonora non si erano fusi in un unico, convulso caos di vividi colori. Al rave c'era un bar in cui fanciulle in lamé verde mescolavano strane polverine in beveroni che presumibilmente ti accendevano il cervello e che avevano un sapore migliore del Tang. C'erano ragazzi in uniforme da combattimento con caschi ornati di fiori, ragazzi armati solo di bottiglie d'acqua e succhietti per neonati, ragazzi che sembravano personaggi usciti dai libri per l'infanzia del dottor Seuss, ma con una spruzzata di allucinogeni. Il che non era strano: da piccoli avevano tutti letto i libri del dottor Seuss, e molti di loro erano davvero fatti di allucinogeni. Tran portava un abito morbido e lungo fino al ginocchio, realizzato con uno stampato a cerchi viola e rossi. Sotto aveva tenuto i bermuda in cui, al ritorno a casa, avrebbe potuto infilare il vestito per farlo apparire una camicia, per quanto un po' sui generis. Gli occhi erano impiastricciati di liner nero, mal applicato, un trucco che lo faceva sembrare ancor più giovane e un po' fuori testa. Era andato solo alla festa e si era divertito un mondo. Di questi tempi, non era cosa da poco, per lui. Negli ultimi mesi non era uscito molto. Temendo di imbattersi in una persona che non voleva vedere, preferiva starsene in casa a leggere, scrivere il diario, ascoltare musica, rimuginare su vecchie lettere d'amore. Tran ricordò di aver letto da qualche parte un particolare cretino ma in certo qual modo interessante: una star del cinema di molti, molti anni prima, tal Jayne Mansfield, era morta proprio lì, sull'autostrada Chef Menteur. La sua auto era finita contro la parte posteriore di una delle autocisterne che percorrevano le tangenziali intorno alla città spruzzando veleno sufficiente da uccidere decine di migliaia di insetti. Tran immaginava la famosa testa decapitata che volteggiava tra nubi di insetticida e di gasolio,
una sanguinante cometa che tracciava un arco perfetto. La visione della morte di quella star lo aveva sempre ossessionato. L'aveva descritta in uno dei suoi quaderni d'appunti in una prosa il più possibile barocca e gioiosa. Ma se avesse cercato di parlarne con gli amici — vietnamiti o americani che fossero — sapeva esattamente come avrebbero reagito. Sei malato, Tran, lo sai? Sei davvero fuori di testa. Era quasi a casa. Più oltre, a un lato della tangenziale, cominciò a profilarsi un groviglio di ciminiere e di piloni. Al lato opposto, un gruppo di edifici mal illuminati era il cuore della comunità in cui Tran aveva passato gran parte della vita. Il terreno paludoso che circondava questi edifici, il lacero velo grigio-azzurro di foschia, l'aspetto un po' cadente e le scritte in vietnamita sui cartelli facevano pensare a un piccolo villaggio straniero, ma il tutto era a soli venti minuti d'auto dal centro di New Orleans. Noto come Versailles o Piccolo Vietnam, quel quartiere era stato fondato da rifugiati nordvietnamiti e perpetuato dalle famiglie che li avevano raggiunti e dai figli nati lì. Uscì dalla Chef Menteur e s'inoltrò in vie fiancheggiate da casette di mattoni con tanto di pollai, orti, risaie e pontili sul retro. Si fermò davanti a una casa che non possedeva nessuna di queste dilettevoli appendici. Da piccolo, Tran aveva invidiato gli amici le cui famiglie si dedicavano alla pesca e ai lavori di campagna. Li supplicava per avere il permesso di dar da mangiare alle anatre o gettare le reti per prendere i gamberetti. Solo in seguito aveva capito che il giardino di casa sua, così ben tenuto da apparirgli poco interessante, indicava che la sua famiglia era più agiata di gran parte dei vicini. Non erano affatto ricchi, ma non avevano bisogno di produrre da sé il necessario per sfamarsi. Da quelle parti, molta gente era costretta a farlo. Tran si chiese che cosa avrebbero pensato di quella situazione i perdigiorno, i cranietti tecnologici e i baby pacifisti che erano al rave della sera prima. Probabilmente avrebbero detto che era un gran bella cosa, che quella gente non aveva ancora perso il contatto con la terra, entità che tutti volevano salvare, a condizione di non dover smettere di ballare per farlo. Ma Tran era pronto a scommettere che nessuno di quei festaioli aveva mai tirato il collo a un'anatra e buttato la carcassa nell'acqua bollente per spiumarla. Né si era mai staccato le sanguisughe dalle caviglie dopo aver camminato nell'acqua stagnante dei canali per prendere i gamberi. Come molti ragazzi asiatico-americani che aveva conosciuto, Tran viveva in due mondi. Poiché i fratellini gemelli erano ancora troppo piccoli,
spesso gli capitava di dover dare una mano nel ristorante dei genitori. Come cameriere se la cavava a malapena, ma alla cassa era un drago e in cucina sapeva preparare almeno un terzo degli ottantasette piatti tradizionali del menù. Ristorante, casa e famiglia erano un mondo. L'altro era quello del Quartiere francese, con il suo piccolo giro di acidi, i club e i rave, e la gente come Jay Byrne. Uomini fascinosi, pericolosi... come quello che lo aveva introdotto in quest'altro mondo. Ma quella era storia ormai, una cosa cui non voleva pensare dopo una notte così bella. Scese dall'auto, traversò il prato umido ed entrò in casa. Il soggiorno era una stratificazione di ombre blu e grigie, immerse nell'alba. Imboccò il corridoio, passò oltre la porta chiusa della camera dei gemelli e andò nella sua stanza. Sul letto era seduto suo padre. Quello, di per sé, fu già uno choc. A Tran non risultava che suo padre fosse mai entrato in camera sua. Di rado capitava che lui e il padre fossero a casa, e svegli, nello stesso tempo. Ma il vero choc fu la faccia del padre. Truong Van Tran, detto T.V., aveva due espressioni di base che sembravano adattarsi a quasi tutte le circostanze: un sorriso conciliante ma vagamente impaziente, e uno sguardo fermo che sembrava quasi neutrale se ti sfuggiva l'aggrottamento appena sprezzante di un soppracciglio. T.V. non amava perdere tempo, e mostrava scarsa tolleranza per gli scemi. Non li sopportava per nulla, quando aveva un'alternativa. Ma l'espressione di quella mattina risultò del tutto nuova al figlio maggiore. Aveva componenti di dispiacere, rabbia, stanchezza, e, cosa ancor più allarmante, di perplessità. La perplessità di un uomo che era sempre parso sicuro di tutto, che gestiva il proprio ristorantino come una caserma. Lo sguardo del padre fece sentire Tran come un estraneo, un intruso nella sua stessa casa, nella sua stessa stanza. Sulla fronte di T.V. c'era una macchia scura, come se avesse toccato qualcosa di sporco e poi si fosse passato la mano sul capo. Tran non ricordava di aver mai visto il padre in disordine. Alla sua mente si affacciarono scenari spaventosi. Doveva essere successo qualcosa alla madre o ai gemelli. Ma, in tal caso, come mai T.V. era lì solo, ad aspettarlo? Nei momenti di catastrofe le famiglie vietnamite si riunivano. Se fosse successo qualcosa di grave a un membro della famiglia, soggiorno e cucina sarebbero stati invasi dai parenti e l'aria sarebbe stata impregnata dell'odore di caffè forte addolcito con latte condensato.
Questa doveva essere una cosa che riguardava lui, e lui soltanto. Tran cominciò mentalmente a contemplare le varie possibilità. Ed erano tutte pessime. «Papà?» chiese, esitante. «Qualcosa non va?» Il padre si alzò e infilò la mano nella tasca dei calzoni. In quel momento Tran si rese conto di avere ancora indosso lo sgargiante abito del rave, tutto bagnato di sudore; non si era neppure preso la briga di infilarlo nei bermuda. Ma era l'ultima delle sue preoccupazioni. T.V. stava per trarre di tasca o la provvista di acido o le lettere. Le lettere sarebbero state infinitamente peggio. La mano di T.V. emerse stringendo un mazzo di fogli spiegazzati e alcune buste aperte. Tran si sentì lo stomaco risucchiato verso il basso. Di colpo tutto l'acido e l'Ecstasy con cui si era fatto tornarono a sbarellarlo alla decima potenza. Non era neppure arrabbiato per la violazione della sua privacy: un simile risentimento sarebbe stato del tutto fuori luogo. Suo padre non l'avrebbe capito. Il padrone di casa era lui, e quindi tutte le stanze e relativo contenuto potevano essere ispezionate a suo piacere. Tran temette di essere sul punto di vomitare non appena T.V., data un'occhiata al primo foglio, cominciò a leggere. Ti voglio sotto di me ora, subito, ragazzo mio, cuor mio, mio labirinto intestinale. Voglio infilare due dita nell'incavo del tuo braccio, là dove la pelle è morbida quanto la punta vellutata del tuo cazzo. Ho un ago nuovo proprio per te, destinato all'erezione arteriosa che pulsa in te. Inserisco acciaio nella tua carne, e la stilla di sangue che emerge quando tolgo l'ago è tenera quanto il tuo... T.V. smise di leggere. Tran conosceva le quattro parole successive, le poteva addirittura vedere scribacchiate in un folle violetto sul foglio che il padre stringeva tra le mani. Erano: «mielato buco del culo». Tran fece un tentativo di sorriso. Che morì sul nascere, un frignetto patetico e gracile. «Be', sì, Luke ha uno stile del tutto particolare. Vuol diventare il prossimo William S. Burroughs. Lui... ehm... mi manda tutti i suoi racconti.» «Vinh, per favore, non prendermi in giro.» Il padre parlava in vietnamita, un brutto segno in momenti come quello: implicava emozioni così complesse o profonde che lui non era sicuro di poter rendere in inglese. Le
tonalità stesse della loro lingua madre sottintendevano migliaia di sfumature e di varianti. «Questa non è narrativa. Sono lettere dirette a te, su cose che hai fatto tu. Sono la verità, queste cose?» Non: «Sono vere queste cose?» bensì: «Sono LA VERITÀ, queste cose?» la verità assoluta, come se non ce ne potessero essere altre. Tran alzò le spalle. Lo sguardo del padre lo trapassava come un artiglio. «Sì, in momenti diversi, ho fatto tutte quelle cose. Ma non è che mi sia bucato tutti i giorni o giù di lì.» «Chi è quest'uomo? Questo Luke?» «E uno scrittore. Davvero, papà. Ha pubblicato quattro libri ed è un brillante autore. Ma è...» Malato, crudele, folle di dolore come un cane investito e morente. «Piuttosto instabile. Ho smesso di vederlo mesi fa.» «Vive a New Orleans?» Sulle lettere non c'era l'indirizzo del mittente — Luke non era scemo — ma tutte le buste recavano il timbro postale del luogo. «Non più», mentì Tran. Be', poteva anche essere vero. Non sapeva se Luke stesse ancora spargendo terrore alla radio: da mesi non si sintonizzava più su quel programma. Solo grazie a qualche brandello di pettegolezzi gli risultava che Luke era ancora al mondo. La miglior difesa era passare all'attacco. «Senti, papà, non so che cosa vuoi da me. Sei venuto in camera mia e hai frugato nella mia roba... quindi è ovvio che già non ti fidavi di me. Sei davvero così stupito?» «No, Vinh... no.» Il padre gli stava di fronte con le spalle ricurve. Tran non ricordava di aver mai visto il padre in quella posizione. Di solito T.V. si teneva eretto, quasi sull'attenti. Ma non ora. «Vorrei tanto provare stupore, ma non è così. Appunto per questo ho frugato tra le tue cose. E ne sono spiacente.» «Spiacente per che cosa?» Tran sentì la propria voce spezzarsi, e s'irritò. Ma capiva che la conversazione stava volgendo al termine, e sapeva che la conclusione non avrebbe portato nulla di buono. «Per la mia parte di responsabilità in questa faccenda. Tua madre e io dobbiamo aver fatto degli errori madornali. E se i gemelli dovessero diventare come te?» Sul volto del padre calò una nuova ombra, un'oscurità finora inesplorata. «Tu non faresti mai... non hai mai fatto niente a loro?» Se avesse avuto un sia pur minimo potenziale di violenza, Tran, in quel momento, si sarebbe avventato contro il padre. Era più alto di T.V. e aveva le spalle più larghe. Avrebbe afferrato il padre per il davanti della volgare e costosa camicia di materiale sintetico e lo avrebbe preso a sberle.
Ma i vietnamiti non picchiano i propri genitori. La tradizione del culto degli antenati era morta solo da due generazioni e giaceva inquieta nella fossa. I genitori di Versailles si lagnavano della terribile maleducazione che i figli imparavano a scuola, dell'assenza di rispetto ormai così diffusa. Ma l'idea di aggredire fisicamente un genitore era estranea a questi ragazzi quanto il gesto di bruciare l'incenso davanti alla foto del bisnonno. E Tran non aveva neppure una vena di violenza in sé: era attratto solo da quella altrui. Era una delle ragioni principali del suo amore per Luke. Ma l'idea che lui potesse fare del male ai fratelli... l'idea che una parte essenziale del suo carattere fosse dovuta a qualche errore commesso dai genitori... tutto questo era davvero insopportabile. La conversazione era finita, e stava a lui concluderla. «Bene», disse. «Esci da camera mia. Va' al lavoro. Di' a mamma di darmi due ore dopo aver accompagnato a scuola i gemelli... dille di andare a far compere o qualcosa del genere. Al suo ritorno, non sarò più qui.» «Vinh...» «Voglio la mia auto. E intestata a me. Non prenderò niente da casa, tranne la roba che è qui.» «Dove andrai?» chiese T.V. Ma non sembrava aspettarsi una risposta. «Nel Quartiere francese. Dove, altrimenti?». Tran avrebbe potuto dire: «In Angola» o «negli ultimi gironi dell'inferno». T.V. scosse il capo, sconfortato. «Già è brutto passare un sacco di tempo da quelle parti. Ma come si può vivere nel Quartiere francese? Non sapremo più niente di te.» «Come sarebbe a dire?» «È pericoloso.» «New Orleans Est è pericolosa. Qui sparano in continuazione alla gente. Il Quartiere è un posto sicuro.» Relativamente parlando, era vero. Il Quartiere francese non era certo immune da rapine e omicidi, ma perlopiù le vittime erano turisti che nelle ore piccole incautamente si avventuravano in sacche insidiose: Rampart, Barracks, la spettrale zona vicino a Canal dove la facciata devastata del vecchio palazzo D.H. Holmes dominava l'angusta via. Se sapevi dove andare e chi c'era in giro, di solito te la cavavi egregiamente. «Pensavamo di portarti da un medico.» Tran chiuse gli occhi. Sentì una sensazione di bruciore diffondersi sotto le palpebre. «Non vado da nessun fottuto dottore», disse. «Sto benone.» «Non ti rendi conto di quanto sei malato. Malato di cervello. Così intel-
ligente, così pieno di capacità... ma non ne fai una giusta.» Tran si girò e cominciò a tirare giù i libri dagli scaffali per impilarli a terra. «Vogliamo solo aiutarti.» È quello che mi ha detto anche Luke, pensò Tran, quando voleva farmi morire con lui. Ma non aprì bocca. «Hai fatto il test per vedere se sei sieropositivo?» Chiedimi qualsiasi cosa. Chiedimi che effetto mi ha fatto vomitare l'anima la prima volta che mi sono lasciato fare un buco. Chiedimi della volta in cui per sbaglio Luke mi è venuto in bocca e io ho sentito un sapore di morte che mi impregnava la lingua, la gola, tutti i tessuti. Chiedimi delle telefonate che duravano sino all'alba, il ricevitore viscido di sudore e lacrime, incollato all'orecchio come un cirripede. Chiedimi una qualsiasi di queste cose. Per favore, papà, chiedimi tutto, tranne quello. «Sì», rispose Tran con tutta la calma possibile. «Ho fatto il test. Era negativo.» Era vero: aveva avuto un risultato negativo. Ma era successo solo tre settimane dopo l'ultima volta che era andato a letto con Luke. E gli avevano detto di ripassare dopo sei mesi, e poi dopo altri sei mesi, e altri sei mesi ancora... Tran vide la propria vita procedere a balzi di mezz'anno per volta, a sacche temporali separate. Ogni sacca diventava una provetta di vetro chiusa con un cerchio di plastica rossa. Su ogni tappo c'era una piccola etichetta con le iniziali di Tran. Ogni provetta era piena per tre quarti di sangue scuro. Lui le spaccava una dopo l'altra in una cieca ricerca della provetta appestata. Ma una volta trovatala, conteneva solo la sua morte. E allora che faccio per il tempo che mi resta? pensò. Vivo gratis presso i miei genitori, scrivo sui miei quadernetti, vado a ballare, sballo e mi faccio qualche scopata? Non sembra poi cosi male. Ma se mi restassero... diciamo cinque anni di vita? La vita che aveva fatto sino ad allora gli stava stretta. Questa malaugurata scena con il padre aveva solo accelerato una decisione che Tran avrebbe preso comunque. Era il prossimo passo della sua avventura, il passo che l'avrebbe tenuto vivo. Come avrebbe potuto morire nel mezzo di questa grande avventura? Si chiese se Luke avesse mai pensato la stessa cosa. Poi fece presente a se stesso che non gli importava nulla di quello che pensava Luke. «Il test era negativo», ripeté. «Non ho l'AIDS e non ho scopato i gemelli.
Adesso esci di qui.» «Vinh, se tu...» «Papà.» Tran gli si avvicinò e gli prese le lettere. «Tu non mi conosci. Io sono proprio quello che viene fuori da queste lettere.» Agitò il mazzetto di fogli spiegazzati davanti a T.V. «Adesso lasciami in pace.» Lo sguardo del padre si attardò un istante su di lui. Gli occhi neri, nonostante l'espressione rammaricata, mostravano un vago distacco, come se stessero già contemplando il corpo del figlio in una bara. Tran poteva quasi vedere se stesso riflesso in quegli occhi, un'immagine in miniatura, spettrale e devastata, stesa in una cassa di mogano issata sul catafalco di una chiesa cattolica, circondata da fiori bianchi e parenti in lacrime. Se fosse morto tra cinque anni, se fosse morto domani, così sarebbero andate le cose. Per alcuni istanti Tran si sentì precipitare negli occhi di suo padre, in quel futuro. Poi T.V. si girò e uscì, e Tran fu libero. Stringeva ancora le lettere di Luke. Le contemplò per un istante prima di posarle sul comodino, sopra una pila di libri. Per un lungo periodo gli era bastata la vista della calligrafia di Luke per sentire un brivido di odio. Quei caratteri violetti erano l'equivalente visivo della voce di Luke, impastata di whisky e autocommiserazione, al telefono alle tre del mattino. Ziggy Stardust che, dopo lo scioglimento della band, sfregava il volto sui frammenti di vetro del marciapiede, giurando di riuscire a vedere le stelle. Scherzando con la morte, corteggiandola e seducendola ogni momento, ma senza mai spingersi fino in fondo sino a che c'era un'alternativa. Tran si guardò attorno chiedendosi da dove cominciare il trasloco, e si sentì travolgere da una nuova ondata di impotenza. C'erano abiti ovunque, puliti e sporchi; c'erano quaderni, schizzi, libri e giornali. Mai perdere di vista le priorità, si disse. Comincia con la roba importante. Si avvicinò allo scaffale e prese un grosso volume sulla morte e il morire. Sapeva che i suoi genitori avevano visto molti corpi maciullati in Vietnam — corpi di vicini, di insegnanti, di parenti. Non avrebbero mai toccato un libro simile. Tran fece scorrere pagine e pagine piene di foto a colori di esseri umani in vari stadi di mutilazione, decomposizione e altre alterazioni sino a che trovò la bustina di plastica contenente cinquanta dosi di LSD e cinque banconote da cento dollari. Sedette sulla sponda del letto tenendo in mano tutti i suoi beni a immediato realizzo, maledicendo il nome di Lucas Ransom e ogni parola che quell'uomo aveva messo per iscritto. Ciò fatto, procedette a maledire se
stesso sino a che non si stufò. Poi si alzò e cominciò a far le valigie. 4 Ricorda, ricorda il cinque novembre, Polvere da sparo, tradimento e complotto! Nel 1605, il famoso traditore Guy Fawkes e un gruppo di furfanti della sua stessa risma ordirono un complotto per far saltare in aria il Parlamento di Londra. Fawkes era solo un pulcioso soldato di ventura, una pedina ben pagata al soldo di alcuni ricchi cattolici che nutrivano del rancore verso il re, ma la storia ha tramandato il suo nome e la sua immagine. Dopo aver messo gli esplosivi sotto il palazzo, i cospiratori ripararono su un'altura all'estremità sudorientale di Hampstead Heath, sperando di godersi la vista dell'esplosione. Quest'altura — sia detto per inciso — deve il suo splendore alle vittime della peste, seppellite in fosse comuni nella brughiera. Da un terreno formato da milioni di ossa appestate, i furfanti videro spegnersi il loro sogno. Quanto a Fawkes, venne sorpreso nei sotterranei del palazzo con tanto di torcia e una gran quantità di polvere da sparo. Venne torturato nella Torre di Londra, processato a Westminster, impiccato e squartato nell'Old Palace Yard davanti al Parlamento. Le fondamenta che aveva sperato di veder crollare e bruciare vennero bagnate con il sangue dei suoi stessi intestini, e generazioni future di bimbi inglesi avrebbero trovato in quell'evento una giustificazione della piromania e dell'estorsione. Peccato. Tutte quelle guglie puntute, quelle maestose mura con finestre simili a buchetti muffosi in un enorme formaggio grigio, e quel maledetto orologio... tutto che scivolava maestosamente nel Tamigi! Naturalmente il Parlamento aveva tutt'altro aspetto nel 1605. Ma nella mente di ogni londinese è impresso proprio com'è adesso: quattro ettari di parrucche incipriate, di pergamene polverose, di coni di pietra avvolti in nebbia grigiovioletta. Non si può fare a meno di immaginarsi un luminoso fiore di fuoco eruttante dalle buie interiora del complesso, e chiedersi se anche il ponte di Westminster sarebbe crollato. Senza un briciolo di attenzione per gli istigatori del complotto, l'opinione pubblica inglese volle che fosse istituita una festa in onore di Guy Fawkes, e che ogni anno la sua effigie venisse torturata e bruciata. E poi la Chiesa d'Inghilterra afferma di aver sradicato il paganesimo!
Il «giorno di Guy Fawkes» affligge certe anime sensibili, turba la loro vista, le costringe a guardarsi timorose alle spalle e a restare nelle vie ben illuminate. Le esplosioni dei fuochi d'artificio le innervosiscono e il greve odore di fumo dei falò è come un rogo per loro. Trovano deplorevole lo schiamazzo delle turbe di scolaretti laceri; trovano insopportabili le richieste di: «Un penny per Guy, signore? Un penny?» Ma basta osservare da vicino queste anime nobili, e si vede subito che non riescono neppure a guardarlo, questo Guy... oppure non riescono a staccargli gli occhi di dosso. Il fantoccio di paglia in giacca e calzoni frusti e cappellaccio informe, disteso su un letto di penny sopra un rustico carro... quell'inerme, inoffensiva effigie sembra spaventarli. E nato ieri da un cumulo di stracci, e stanotte morirà su un falò. Ma a loro non piace guardare quel simulacro di un volto incenerito. Credo che in queste effigi vedano una rabbia che prende forma e vita, l'incredulità di un'anima che viene bruciata miliardi di volte per un crimine che non è mai stato commesso. Spero che si verifichi ciò che queste anime inquiete temono: che un bel giorno i vari Guy si levino e demoliscano quei palazzi. Il giorno in cui tornai alla vita era la festa di Guy Fawkes. Come tutti quei fantocci di paglia, ero stato troppo a lungo sul carro, ma pensavo che prima di notte avrei felicemente preso fuoco, ed entro mattina sarei stato solo un ricordo per quelli che una volta si erano beffati di me, una spolverata di cenere dispersa nel cielo. Arrivai a Londra percorrendo l'autostrada M1 e lasciai la Jaguar in una tranquilla via di un quartiere residenziale vicino alla fermata di Queensbury. Poi mi immersi nelle polverose e scricchiolanti viscere della metropolitana. Quella era una vecchia stazione, priva di distributori automatici di biglietti. Andare allo sportello significava parlare con una persona che avrebbe potuto ricordarsi della mia faccia. Indossavo ancora l'uniforme verde e insanguinata di Waring e il camice bianco, anche se avevo buttato via la mascherina. Finii con l'alzare il colletto del camice sino al mento e andare allo sportello per comprare un biglietto per Piccadilly. Chiunque poteva recarsi a Piccadilly, proprio chiunque. L'impiegato della biglietteria non mi degnò di uno sguardo. Il vuoto echeggiare del marciapiede, le colorate esortazioni dei manifesti pubblicitari e dei distributori automatici, il ritmico sobbalzare del treno, il mormorio dei pochi passeggeri a metà giornata, le gallerie e le stazioni sfreccianti per poco non mi fecero addormentare. Ma resistetti a Morfeo,
che negli ultimi cinque anni era stato per me un amante fedele. Riemersi dalla metropolitana a Piccadilly Circus, e il mondo parve esplodere intorno a me, tracciato in ghirigori al neon e punteggiato da autobus rossi a due piani. Piccadilly è il vorticoso centro di Londra, a metà strada tra un ingorgo di traffico e una specie di giostra. Dalle balconate di music hall vittoriani sorridono spente immagini di cera di vecchie rock star, e moderni e rilucenti centri commerciali sono efficacemente nascosti dietro facciate arzigogolate. Il traffico era assordante, gli odori impressionanti: esalazioni di marmitte e speziati aromi di ristoranti. Comprai uno spiedino d'agnello da un takeaway e lo divorai in tre bocconi. Era la cosa più deliziosa che avessi mai mangiato, con un pane morbido e fragrante, una carne tenera e saporita, condita come se a qualcuno stesse a cuore il risultato finale, il grasso colante e gustoso, il sugo dilagante sulla lingua e agli angoli della bocca. E gli odori della gente: la pelle pulita, gli aromi, i saponi e gli shampoo profumati, il sudore che non puzzava di disperazione! D'impulso mi fermai a un'edicola per dare un'occhiata agli annunci del London Gay Times. Ricordavo l'epoca in cui questo giornale veniva relegato nei punti meno in vista, seminascosto dietro riviste che sfoggiavano lucenti foto colorate di culi lubrificati e cazzi circoncisi in erezione. E questo nelle edicole in cui era disponibile. Adesso era ben in vista, insieme agli altri giornali della città. Oltre ai consultori per i sieropositivi e per i malati di AIDS che sembravano essere spuntati come funghi dopo la pioggia, era stata aperta una miriade di nuovi pub e club, ognuno dei quali prometteva di essere più decadente dell'altro. Nessuno di questi scintillanti templi della carne sembrava fare al caso mio. Erano luoghi in cui correvi il rischio di farti notare o di parlare con gente che magari aveva la testa un po' sballata da stimolanti o intontita dall'alcol. Rimisi a posto il giornale e imboccai Coventry Street, dirigendomi verso Leicester Square, Chinatown, Soho. Il mio vecchio territorio di caccia. Conoscevo un negozio di abiti usati dove, nel 1988, potevi comprare una giacca, un maglione e un vecchio paio di calzoni per tre sterline. Adesso quegli stessi capi muffosi ne costavano quasi dieci. «E si ritenga fortunato di aver trovato pantaloni della sua misura», disse il proprietario quando mi vide aggrottare la fronte sentendo il prezzo. «Abbiamo quasi esaurito la mercé. Guy Fawkes, sa, questi vestiti vanno a ruba tra i ragazzi.» Scambiai gli orrendi mocassini di Waring con un paio di lucide scarpe
con mascherina, e il venditore mi diede persino un paio di calzini nuovi, inclusi nel prezzo. (I calzini di Waring, mi spiace dirlo, erano talmente puzzolenti che dovetti buttarli via.) Il bisturi era ancora fissato saldamente al polpaccio, e per il momento lo lasciai dov'era. Scelsi indumenti neri, ideali per nascondere le macchie di sangue e per dissimularsi tra la folla. Non vistosi abbastanza da essere notati nei bar alla moda di Soho, ma neppure disprezzabili. Con gli occhialini d'oro e il nuovo taglio di capelli, non ero niente male. Nessuno avrebbe mai immaginato che quel giorno avevo già ammazzato due uomini e intendevo farne fuori un terzo. Ma l'intento era proprio quello, no? Fuori del negozio venni accostato da un branco di ragazzi che si tiravano dietro un carretto in cui, su un mucchio di soldini, era gettato un fantoccio informe. «Un penny per Guy? Un penny?» Consegnai tutti gli spiccioli a quelle sudice e fragili mani. Non potevo farne a meno. C'era una pungente aria novembrina aromatizzata dal fumo dei fuochi d'artificio e dei falò, e gli occhi dei ragazzini erano lustri e spiritati, le guance rubiconde come mele autunnali, spolverate di peluria bionda e macchie di cenere. A Leicester Square, ragazzini di tutt'altro genere se ne stavano a fumare nel parco, ragazzini pitturati che il sabato sera forse si pavoneggiavano lungo la King's Road guardando nelle vetrine gli impermeabili zebrati di plastica, gli scarponcini Dr. Marten in viola scintillante, i body di pizzo per tutti i sessi... e le cose più belline e vistose di tutto: i loro riflessi sui vetri. Dal collo in giù questi ragazzini erano una sinfonia di nero, grigio e bianco, in tessuti d'ogni tipo, tenuti insieme da pezzetti di metallo. Dal collo in su erano dei quadri astratti in furibonde sfumature arcobaleno. Uno scarabocchio multicolore di capelli contorti, grandi occhiaie tipo panda in azzurro o verdolino, una striscia vermiglia sulle morbide labbra giovanili, ed eccoli pronti. Un tempo, di questi ragazzi, invidiavo la libertà, anche se consisteva nel campare alle spalle di mamma e papà o di sussidi di disoccupazione. Volendo, potevano conciarsi in modo da apparire come strani incroci tra uccelli del paradiso e cadaveri ambulanti. Potevano sputare sul marciapiede, stravaccarsi con aria insolente in luoghi in cui non erano desiderati, lanciare battutacce ai turisti che li guardavano a bocca aperta. Potevano mettersi in mostra quanto volevano. Non erano mai costretti a mimetizzarsi in nessun ambiente, né si sognavano di provarci. Indirettamente, erano stati proprio questi ragazzetti a farmi abbandonare
il mio ultimo impiego statale tre mesi prima dell'arresto. Lavoravo in un ufficio della Commissione Acquedotti metropolitana. In Gran Bretagna, la struttura del pubblico impiego consente alle persone di raggiungere il loro massimo livello di incompetenza; benché fossi già stato licenziato da tre o quattro posti analoghi, furono disposti a riassumermi per vedere come me la sarei cavata in quest'ultimo lavoro. Sapevano vagamente che ero intelligente e che scrivevo a macchina, e dal curriculum si deduceva che svolgevo in modo impeccabile le mie mansioni sino al momento in cui dicevo a qualche misero capufficio di andare a prenderselo in quel posto. Ma in un giorno molto simile a questo, in cui si avvertivano i primi freddi autunnali e il cielo era di un raro, limpido azzurro, guardai la pila di insulse scartoffie sulla scrivania e la cartaccia bisunta e appallottolata in cui era stato avvolto il pollo che avevo mangiato un'ora prima, nel momento consentito, benché avessi avuto fame già in mattinata. Ascoltai le conversazioni che si snodavano intorno a me, e sentii dei dialoghi che sembravano usciti dritti dritti da un'opera teatrale di Joe Orton («Come osi coinvolgermi in una situazione riguardo la quale non è ancora stato diramato un comunicato di servizio»). Pensai a un ragazzo che avevo visto la sera prima in King's Road, neri capelli pazzamente cotonati, sorriso aperto, libero e disinvolto. Molto probabilmente non aveva in tasca neanche i soldi per un pasto, ma nessuno poteva imporgli l'ora in cui consumarlo. Con pacata fermezza, qualcosa in me si ribellò. Mi alzai. Buttai il cartoccio unto nel cestino della carta; non mi era mai parso bello lasciare ad altri il compito di rimuovere i miei rifiuti. E lasciai per sempre quell'ufficio. Nessuno mi parlò, nessuno mi vide uscire. Passai il resto della giornata a Chelsea, a bere nei pub. Guardai i ragazzini pavoneggiarsi a destra e a manca scrutandosi l'un l'altro (e, perlopiù, trovandosi reciprocamente scarsini). Non parlai con nessuno. Quando, barcollando, tornai a casa, non portai un compagno con me. Ne avevo già due di cui dovevo liberarmi, uno che si stava già gonfiando in guardaroba, e l'altro fresco abbastanza da dividere ancora il letto con me. All'epoca non avevo alcuna prospettiva, tranne qualche piccolo risparmio e l'insaziabile desiderio di uccidere dei ragazzi. Come risultò poi, era tutto quel che mi occorreva per tirare avanti per i pochi mesi che mi restavano. Ma oggi gli stravaganti ragazzi di Leicester Square non facevano al caso mio. Avevo bisogno di una persona meno vistosa, più anonima... in breve, di qualcuno più simile a me. E soprattutto avevo bisogno di un drink.
M'immersi nella fiumana di umanità di Charing Cross Road, cedetti a un impulso irresistibile e m'infilai in una libreria per dare un'occhiata alla sezione dedicata alle storie di cronaca nera. Ero il soggetto di tre sgargianti libriccini economici: copertine color sangue, inserti fotografici che mostravano il mio bagno, l'armadio della mia camera, i miei coltelli da cucina, le scale che portavano al mio appartamento, il tutto corredato da didascalie cariche di suspense («Ventitré uomini hanno salito queste scale senza neppur sospettare che quello sarebbe stato il loro ultimo viaggio!»). Uscii dalla libreria in preda a un vago compiacimento, svoltai in Lisle Street e mi inoltrai in Chinatown godendomi lo strano miscuglio di odori, il tocco esotico delle lanterne appese davanti ai negozi, i vividi volti asiatici dei ragazzi. Poi, traversata la caotica Shaftesbury Avenue, mi ritrovai nella parte di Soho che ricordavo meglio. La Londra dei gay ha una decisa impronta sanitaria, una sorta di brillio igienico. Persino i sex-shop e i negozi di cassette porno hanno alle loro dipendenze dei giovanotti tirati a lucido che, di buon grado, rispondono cortesemente a qualsiasi domanda, sia essa relativa al miglior caffè del quartiere o al giusto modo di inserire un tampone anale. Entrai in un pub piccolo e tetro che in passato avevo frequentato poco. Dato che le distese di pannelli di legno scuro e le rifiniture di ottone annerito gli conferivano la classica atmosfera da pub inglese, il locale, naturalmente, era quasi sempre pieno di americani. Posai sul banco una banconota da cinque sterline, ricevetti metà del resto che mi aspettavo e un bicchiere da una pinta pieno di uno dei miei più antichi e veri amori: birra chiara gelata. Non mi ha mai convinto la tradizione inglese di servire birra tiepida e torbida, il cui sapore ricorda qualcosa che sarebbe più indicato come mangime per il bestiame. Mi portai la birra a un tavolo d'angolo e per un istante la contemplai: la sommità spumosa, le piccole bolle risalenti nell'oro liquido, le goccioline di condensa che imperlavano l'esterno del bicchiere e che scorrevano in basso a formare un cerchio umido sul sottobicchiere. Per la bellezza di questa visione vengono rovinate reputazioni, distrutti matrimoni, abbandonati posti di lavoro. A Londra ci sono settemila pub. Infine presi il bicchiere e mandai giù avidamente metà del suo contenuto, senza fermarmi. La mia gola sembrava un cactus sotto una violenta pioggia del deserto. La lingua ebbe un orgasmo tutto suo. Il sapore era seta liquida, gioia a lenta fermentazione. La pena capitale non ha mai costituito un deterrente per l'omicidio. I
peggiori di noi accoglierebbero con gratitudine la morte. Ma come si fa a dire a un uomo che non potrà mai più gustare una birra gelata! Avrei preferito morire — e questa volta in modo permanente — piuttosto che tornare in prigione. Stasera dovevo andarci piano. Tra breve, non appena fossi riuscito a sfuggire del tutto all'artiglio d'acciaio di Sua Maestà, avrei avuto molte occasioni di bere sino a che il mondo non mi vorticasse intorno. Ma ora dovevo tenere d'occhio i turisti che cominciavano ad affluire. La fase successiva del mio piano dipendeva da loro, o almeno da uno di loro. Però, dopo cinque anni di astinenza, è difficile resistere alla tentazione di alzare un po' il gomito. Avevo appena intaccato la terza pinta e mi godevo la piacevole sensazione di abbandono che mi invadeva quando entrò Sam. Naturalmente, allora non sapevo che si chiamasse Sam. Sapevo solo che era un maschio all'incirca della mia statura, corporatura, età e colore di capelli e carnagione, e che scrutava con più interesse gli uomini che le donne. Di faccia ci rassomigliavamo a malapena, ma quel poco bastava. Se fosse stato un avventore del quartiere o un turista europeo, avrei dovuto lasciar perdere, e non avrei mai saputo il suo nome. Ma se fosse stato americano, sarebbe diventato il mio compagno per quella serata. Lasciai che facesse la prima ordinazione (una Guinness scura, particolare poco rivelatore, al di là della nostra divergenza in fatto di birra), lo vidi pagare traendo i soldi da un portafogli di cuoio marrone tenuto nella tasca interna della giacca, e bere tutto solo al banco. Lui continuava a scrutare il locale e i nostri sguardi si incrociarono svariate volte, ma io puntualmente distolsi il mio. Quando nel suo bicchiere rimase una sola sorsata di quello schifoso beverone scuro, presi la mia birra e mi avvicinai al banco. Lui finì la Guinness, attrasse l'attenzione del barista con un gesto francamente eccessivo per un britannico, e, con un accento atroce e strascicato che poteva solo provenire dal Sud degli Stati Uniti, disse: «Mi dia un'altra birra, per favore». Dentro di me mi rallegrai. Ma a lui dissi soltanto: «Sulla sommità di quella roba ci puoi piantare un fiammifero, sai». Quando capì che mi stavo rivolgendo a lui, i suoi occhi scuri si illuminarono di gioia. Mi chiesi se, nel corso delle vacanze, avesse mai trovato una persona cordiale o se avesse incontrato solo degli stronzi che lo avevano subito classificato come uno stupido yankee. Naturalmente, gli sarebbe andata meglio se fosse finito nelle mani di uno di quei coglioni anziché
nelle mie. Ma, per il momento, non lo sapeva. E se facevo tutto a puntino, non lo avrebbe mai saputo. «Eh?» disse, con un sorriso. Pensavo di capire le ragioni che avevano generato lo stereotipo dello yankee cretino. Ma quando lavoravo all'ente del turismo avevo conosciuto molti americani e non li avevo trovati per niente stupidi. Semplicemente, non erano abituati a esprimersi in un certo modo. O erano talmente intimiditi dal nostro accento (che alle loro orecchie sembrava chic) che non riuscivano a trovare nulla da dire, oppure si buttavano a dire la stessa cosa in cinque o sei modi diversi. Un po' troppo volonterosi, senza dubbio. Frustranti come interlocutori, senza dubbio. Ma non necessariamente stupidi. Mi appoggiai al banco del bar. Tenevo il braccio sinistro contro il fianco, vicino al punto in cui avvertivo il piccolo ma costante dolore della ferita. Sotto il nuovo maglione nero sentivo il cuore balzare come un animale frenetico in una gabbia surriscaldata. Una sinistra sensazione di irrequietezza. «Sulla schiuma di quella birra ci sta in piedi un fiammifero», ripetei. «E talmente densa.» Presi una scatola di fiammiferi di legno dal banco del bar, ne tirai fuori uno e lo piazzai ritto sulla setosa spuma bianca. Non si mosse: rimase dritto come una piccola sentinella dalla testa rossa. «Accidenti», disse l'americano. «Come fa a stare così?» «Immagino che sia per via delle bollicine.» «Sì, ma la tensione superficiale di ogni singola bolla deve essere piuttosto elevata per produrre un simile effetto di coesione...» Si mise a ridere. «Scusa. Ho lasciato i testi di fisica a casa, ma il modo di pensare è venuto con me.» «Sei studente?» «Sto terminando il dottorato di ricerca. Teoria delle particelle elementari. Vorrei ottenere una borsa per la ricerca sui quark.» «Quark?» «Particelle elementari che esistono in sei sapori: up, down, strano, charm, alto e basso. E ogni sapore esiste in tre colori: rosso, verde e blu.» «Come un ghiacciolo», osservai. «Be'... più o meno! Userò quest'immagine in uno dei miei corsi. Hai presente gli atomi, no? Be', sono formati da protoni, neutroni ed elettroni, e questi a loro volta sono formati da quark.» «E i quark di che cosa sono fatti?» «Di onde.»
«Onde?» Avevo finito la terza pinta e cominciavo a essere suscettibile. «Ma le onde non sono 'tangibili'. Sono solo dei fattori di 'disturbo'.» «Vibrazioni, per l'appunto! L'intero universo è fatto di vibrazioni.» Sorrise, ignaro del mio sgomento. «Mica male, eh? A proposito, non ci siamo ancora presentati. Sono Sam.» Mi tese una mano dalle dita lunghe e il palmo liscio, molto simile alla mia. La strinsi, quasi aspettandomi che la mia carne passasse attraverso la sua come un fantasma. Dopotutto, non eravamo altro che vibrazioni. Tutte le pietre e il ferro della prigione Villaggio del Dolore erano solo vibrazioni. Se l'avessi saputo allora, avrei potuto vibrare a una frequenza diversa e in tal modo attraversare le sbarre. Dissi di chiamarmi Arthur. Lo spettro degli ottantasette quaderni dei diari di prigione si levò davanti a me, e, in un lampo d'ispirazione, dichiarai di essere uno scrittore. «Che bello! Che cosa scrivi?» «Narrativa drammatica.» «Sai una cosa», e i suoi occhi scuri assunsero un'espressione malinconica, «ho sempre desiderato scrivere. Ho un sacco di ottime idee. Magari te ne racconto qualcuna che potresti usare.» Mi aspettavo che dicesse: «Poi divideremo gli utili», ma non lo fece. Povero Sam: era un'anima buona e generosa che non voleva far male a nessuno. Sentii la lama del bisturi solleticarmi la gamba come se non vedesse l'ora di entrare in azione. Finite le birre, ordinai un altro giro. Mezz'ora più tardi eravamo contro un muro di mattoni in una viuzza vicino a Dean Street, le mani sotto i rispettivi indumenti, i corpi appiccicati, le lingue intrecciate. Il mio volto era umido di baci. Un freddo vento di novembre fischiava nel vicolo portando l'odore dei falò, gelandomi le ossa. In lontananza sentivo gli scoppiettii dei fuochi d'artificio e grida festose. Sam armeggiò con i bottoni dei miei calzoni. «Ti faccio venire proprio qui nel vicolo», biascicò. Quello non andava per niente bene. «Ma non hai una camera da qualche parte?» «Certo che ce l'ho.» La sua bocca era un umido morbido fiore contro il mio orecchio. «Ma è a Muswell Hill... e non voglio aspettare...» «E un'abitudine di tutti gli studenti di fisica americani scopare nei vicoli?» «No!» mi assicurò. «Proprio no. Ma tu sei il tipo più eccitante ch'io abbia mai incontrato...» Tornò ad assalirmi con la lingua, mentre io riflettevo sui sottili meccanismi del narcisismo. Non concupivo Sam quanto lui con-
cupiva me, sapevo che l'avrei trovato molto più attraente da morto. La sua camera era nella zona nord, al capo opposto della città rispetto all'aeroporto Heathrow. Un'esibizione in pubblico era l'ultima cosa ch'io desiderassi, ma Sam, a quanto pareva, trovava eccitante l'idea. Il sesso nei vicoli, nei parchi... mi sembrava una cosa da Londra fine anni Sessanta, il risvolto sordido e furtivo di una Londra che avevo fatto appena in tempo a conoscere da ragazzino. Però mi venne un'idea. Mi staccai delicatamente da Sam e lo pilotai fuori del vicolo. Lui mi segui senza opporre resistenza. «A qualche isolato di qui c'è un parco», gli dissi. «La strada non è un posto sicuro, ma le casette sì.» «Le casette?» «I cessi pubblici.» «Le toilette?» «Talvolta gli uomini che non dispongono di una camera scopano nei bagni pubblici», gli spiegai. «E lo fanno anche quelli che una stanza ce l'hanno, ma ogni tanto vogliono un brivido in più. Si può finire in galera per aver fatto quello che stiamo per fare, sai. Quindi è essenziale avere un minimo di privacy.» Capivo sempre la particolare posizione di debolezza e di disorientamento delle mie vittime, ma ne approfittavo solo quand'era necessario, come in questo caso. I gabinetti pubblici erano al limitare di una piazzetta alberata oltre Tottenham Court Road, e la piccola costruzione avvolta da cespugli e nebbia si articolava nel seminterrato cui si accedeva scendendo una scalinata di cemento. Mi avviai per primo per assicurarmi che non vi fosse nessuno, poi socchiusi la porta e feci cenno a Sam di entrare. I nostri passi echeggiarono sulle sporche lastre di pietra del pavimento e rimbalzarono sulle pareti piastrellate. Gli orinatoi erano come una fila di bocche spalancate con un labbro inferiore sporgente. La porcellana, sotto la patina di sporcizia e urina, aveva un lucore spettrale. Sam si guardò attorno, mi rivolse un sorriso stupito e grato quanto quello di un bimbetto che apre i doni la mattina di Natale e mi tirò in una toilette. Lo sbattei contro la fredda parete e incollai le mie labbra sulle sue. Aveva il sapore amarognolo della Guinness appena bevuta, con un retrogusto speziato dall'ardore. Posai il piede sull'asse del water. Con la mano sinistra gli afferrai la nuca, là dove i capelli erano corti e morbidi. Abbassai la destra e piano piano cominciai a tirare su la gamba dei calzoni. Il bisturi era incollato al nastro adesivo. Cercai di rigirarlo senza muove-
re il braccio, tentando di sfilarlo pian piano. Questo sforzo mi fece capire che ero più sbronzo di quanto credessi. Per uno che non aveva toccato alcol per cinque anni e doveva mantenersi lucido, quattro birre erano troppe. Sam mugolò e spinse le anche in avanti. Il gabinetto puzzava di disinfettante, di sozzura umana, di sperma irrancidito, il tutto condito da un soffio di acqua di colonia da pochi soldi. Il bisturi non si muoveva. Sam stava mordendomi le labbra e sfiorandomi con le mani. Mi toccò il braccio destro e si scostò quasi impercettibilmente. «Arthur?» mi sussurrò. «Che cosa stai facendo?» Con un grande strattone, il bisturi si staccò. Reciso il nastro adesivo, penetrò oltre la spessa stoffa dei calzoni di Sam per conficcarsi nella gamba prima ch'io potessi fermarlo. Sam si irrigidì. Afferrò il mio maglione con entrambe le mani lanciando grida inarticolate, L'incisione del dottor Drummond si riaprì provocandomi un dolore lacerante al petto. Mi avventai sulle dita di Sam sentendo la lama scontrarsi con le ossa. Lui emise un suono spaventoso, a metà tra un singhiozzo e un urlo. Capii che, nel suo intontimento da alcol, stava cercando di mettere a fuoco la situazione, e mi rimproverai di aver bevuto quel tanto che bastava a rendermi maldestro. Mi ero riproposto di farlo fuori presto e bene. E invece stavo facendo un macello. Lo afferrai per il colletto della giacca, lo trassi a me come se volessi baciarlo e spinsi la sua testa contro la parete con tutta la forza che avevo. Fece il rumore di un melone che finisce su una lastra di marmo e lasciò una macchia scura sulle piastrelle. Alle labbra gli affiorò un rivolo di vomito scuro, birroso. Lo guardai fisso negli occhi mentre sbattevo di nuovo la sua testa contro il muro, cercando di non assumere un'espressione furiosa o crudele. Molto probabilmente Sam era già oltre ogni percezione. Ma se ancora fosse riuscito a vedermi, volevo fargli capire che il mio gesto non era dettato dall'odio. Anzi, era proprio il contrario. Prima l'avevo solo considerato un mezzo per raggiungere un fine. Ma in questi ultimi istanti di vita, lo amavo. Glielo dissi nel momento in cui gli infilavo il bisturi sotto l'orecchio. I suoi occhi lampeggiavano di dolore e di terrore — due emozioni che non gradivo vedere in circostanze così intime — ma avevano già cominciato ad appannarsi. Una colata tiepida m'inondò le dita, sgocciolò sul polso, si raccolse nella piega del gomito. La testa di Sam ricadde all'indietro. Una grande bocca rossa si spalancò
sul suo collo. Per un istante i bordi furono una perfetta e nitida sezione dei vari strati di tessuti. Poi ne fuoriuscì un torrente di sangue che macchiò le pareti, stillò nel water, inondò il volto di Sam e il davanti della sua giacca. Spinsi il corpo da parte e mi scansai appena in tempo. Le membra morenti si accasciarono in un angolo del gabinetto, incastrate tra parete e water. Il viso era una rossa, cieca colata. Adesso Sam era solo un insieme di particelle, se mai era stato qualcosa d'altro. Avevo solo alterato la velocità di vibrazione delle particelle. Nell'universo, non vi era stata alcuna perturbazione. Aprii la lampo dei suoi calzoni e li abbassai, dicendomi che quella non era una stupida perdita di tempo. Cercavo solo di far apparire quell'uccisione un delitto a sfondo sessuale. Sono cose che capitano tutti i giorni. I tutori dell'ordine avrebbero imboccato tutt'altra pista, pensai mentre prendevo in mano il pene di Sam e ne sentivo l'appiccicosità di recente produzione. Guardai la lucente colata biancastra sul mio palmo, simile alla traccia di una lumaca in un prato. A Sam gli incontri rischiosi dovevano piacere più di quanto avessi immaginato. Mi portai la mano alle labbra per leccare quel fluido salmastro. Era amarognolo, pungente. Mi parve di individuare il sentore metallico della Guinness, ma poteva essere imputabile al sangue colatomi sulla mano. Leccai via anche quello. Quando mi rialzai avevo le gambe tremanti e la testa pesante, ma ebbi l'accortezza di non appoggiarmi alla parete. Per il momento non potevo toccare nulla. Avevo bevuto troppo. Avevo procurato a Sam una brutta morte. Ma quel che era fatto, era fatto. Ora dovevo ripulire il tutto e andarmene di lì. Se fosse entrato qualcun altro, avrei dovuto uccidere anche lui. Quel giorno, per la prima volta nella mia vita, avevo ucciso due uomini uno dopo l'altro. Non volevo rifarlo anche adesso, a distanza così ravvicinata. Mi avvicinai a un lavabo, feci scorrere la fredda acqua rugginosa sulle mani e con le salviette di carta ripulii le ultime tracce di sangue. Tolsi le impronte dal rubinetto e infilai i guanti di gomma rubati al pronto soccorso. Tornai accanto a Sam, trovai il bisturi a terra sotto la sua gamba, lo ripulii sul lembo della sua giacca e me lo infilai in tasca. Avrei dovuto liberarmene, insieme ai guanti, prima di arrivare all'aeroporto, ma non potevo lasciarlo qui. Era possibile che gli ospedali contrassegnassero gli strumenti chirurgici. Dalla tasca interna della giacca di Sam trassi il portafogli che avevo visto prima. Conteneva una patente rilasciata dallo Stato della Virginia, un
tesserino dell'università, tre carte di credito, un preservativo e una mazzetta di banconote da cinquanta sterline e altri biglietti di piccolo taglio. Nella stessa tasca trovai un passaporto. Era stato rilasciato nel 1989, e il volto sorridente della foto era più affilato, i capelli più corti, e, nell'insieme, appariva meno curato di quello del turista tutto ripulito che avevo visto stasera. Potevo facilmente passare per l'uomo raffigurato nella foto. Il mio nome era Samuel Edward Toole, e venivo da un paese chiamato Charlottesville. Conservai il portafogli con tutto il suo contenuto. Meno elementi venivano rinvenuti sul corpo di Sam, tanto più plausibile sarebbe stata un'uccisione a scopo di rapina. Che poi era anche la verità. Presi lo Swatch di plastica nera che Sam aveva al polso e me lo misi. Per Sam il tempo poteva anche essere stato un concetto relativo, ma io dovevo prendere la metropolitana per Heathrow prima di mezzanotte, ed erano già le nove e mezzo. Uscii dal gabinetto, diedi un'occhiata alla mia pallida immagine occhialuta nella lercia specchiera sopra i lavabi, ripulii una macchia di sangue sul mento e rimisi a posto una ciocca sudaticcia di capelli che mi era ricaduta sulla fronte. Dimentico qualcosa? mi chiesi. Ho lasciato il mio marchio sul luogo del delitto, sul povero corpo sconciato di Sam? Non mi veniva in mente niente. Qualcosa mi stava scendendo in un calzino, una tiepida colata tra le dita dei piedi. Abbassai gli occhi e lanciai un'imprecazione. Un piccolo lago di sangue si stava già diffondendo fuori dal gabinetto, lucido e nerastro in quella luce fioca. La suola delle mie scarpe ne era imbevuta. Avevo impiastrato di sangue tutto il pavimento, e in prigione sapevano il mio numero di scarpe. Ma non potevo perdere tempo a ripulire le impronte. Il lavabo alla estremità opposta rispetto all'ingresso era già malfermo sui sostegni, probabilmente per via di tutti gli uomini che vi si erano appoggiati contro con la patta aperta. Mi sedetti sul bordo e saltai su e giù sino a che non lo sentii cedere del tutto. Con uno scricchiolio metallico, il tubo si spezzò e il lavabo cadde a terra rompendosi in due. Dal tubo infranto si levò un grande getto ad arco. In pochi secondi il pavimento venne coperto da uno strato di acqua sporca e rosata, in cui camminai per ripulire le suole. Lanciai un'ultima occhiata a Sam e, con la mente, gli offrii tutte le mie scuse perché lo avrei lasciato lì solo, ma proprio non potevo trattenermi oltre. «La tua vita è entrata in rotta di collisione con la mia», gli spiegai, «e tu non sei sopravvissuto all'urto.»
Poi salii di corsa le scale di cemento e lasciai per sempre quello squallido posto. A quanto pareva, all'improvviso ero diventato un esperto nell'abbandonare i posti squallidi. Speravo solo di trovare un luogo in cui mi piacesse stare. *** Tra i detenuti del Villaggio del Dolore c'era (e probabilmente è ancora lì) un certo Mason, ladruncolo e stupratore occasionale. L'avevo conosciuto il giorno di Natale, una delle rare volte in cui mi era stato concesso di uscire dalla cella per andare nella sala di ricreazione. Nei programmi televisivi natalizi era incluso un concerto con un quartetto d'archi che suonava un pezzo di Mozart. Prima che qualcuno potesse cambiare canale, Mason si era lanciato davanti al televisore per alzare al massimo l'audio. Essendo un tipo mingherlino, era stato subito spazzato in un canto da un marcantonio irruento che preferiva le differite delle partite di rugby. Mason aveva passato il resto della giornata in un angolo con me, spiegandomi l'affinità che sentiva per Mozart. Aveva visto sette volte il film Amadeus. Riteneva di avere un talento fulminante, misconosciuto in gioventù e lasciato a marcire sull'albero. «E allora che cosa ti ha impedito di ottenere fama e successo?» gli avevo chiesto una volta. La sua risposta mi aveva lasciato di stucco. «Mamma e papà non mi hanno fatto prendere lezioni di piano.» Era la stessa cosa con gli assassini, mi dicevo spesso. C'erano quelli che aspiravano a esserlo, quelli che non ne erano capaci, e quelli che uccidevano per caso o senza pensarci. Ma quante persone avevano di fatto sentito un autentico bisogno di uccidere, il bisogno di gustare la morte di un'altra persona? C'è chi pensa che uccidere sia facile per quelli come me, che sia un gesto compiuto con l'incuranza e la disinvoltura con cui ci si lava i denti. Gli edonisti ci vedono come grotteschi eroi di culto che si dilettano in mutilazioni. I moralisti non ammettono neppure la nostra appartenenza al genere umano, e riescono a spiegare la nostra esistenza solo chiamandoci mostri. Ma «mostro» è un termine medico, che definisce un essere che presenta anomalie tali da essere destinato unicamente alla tomba. Di assassini, capaci di adattarsi a qualunque ambiente, è seminata la terra. In metropolitana, frugando nel portafogli di Sam, ebbi una brutta fitta di
paura. Il mio piano era di puntare sui distributori automatici di contanti dell'aeroporto, ritirare il massimo consentito dalle tre carte di credito di Sam e poi acquistare un biglietto per la prima destinazione che titillasse la mia fantasia. Ma guardando i tre rettangoli di plastica, ricordai la tessera della Barclay Bank che avevo posseduto nella mia vita precedente. Un distributore ti dava tutto il contante che volevi... a condizione che tu conoscessi il numero di codice. Era questo che impediva alle persone come me di darti un colpo sul cranio, prenderti la tessera del bancomat e ritirare tutti i tuoi soldi. Non potevo certo tornare da Sam per chiedergli i codici segreti. Avrei dovuto usare una delle carte di credito per comprare il biglietto, ma se il cadavere di Sam fosse stato identificato e la sua morte imputata a me, la polizia avrebbe saputo qual era la mia destinazione. Naturalmente, non sarei rimasto nel luogo in cui fossi sbarcato. Ma la polizia avrebbe comunque avuto un punto di riferimento da cui iniziare le ricerche. E io volevo privarli anche di quello. Inclinai la carta Visa tra le mani facendo fluttuare le ali dell'aquila nell'ologramma. Passai il dito sulla scritta in rilievo indicante il nome di Sam, cercando di assorbire la sua identità, i suoi ricordi. Ripensai al cervello che si spegneva nel gabinetto, alle cellule che si trasformavano in una poltiglia rancida, quelle cellule che custodivano l'informazione di cui avevo bisogno. Non molte ore prima ero stato morto anch'io. Quanto avrei voluto che nell'aldilà ci fosse stata una sorta di scambio d'informazioni, una qualche spettrale banca dati contenente tutte le indicazioni relative alle anime morte. Ma anche se ci fosse stata, io non mi ero fermato abbastanza per consultare quei dati. Decisi di acquistare un biglietto con ogni carta di credito, e, se necessario, avrei attinto ai contanti di Sam. In tal modo avrebbero dovuto iniziare le ricerche in quattro luoghi diversi, anziché in uno solo. Prima della mezzanotte l'aeroporto Heathrow è una bolgia di passeggeri che si spintonano e corrono, di voci rimbalzanti, di luci stroboscopiche. Ci sono bar e paninoteche, ciambelline appiccicose e dure come rocce che, assistite da tè di pessima qualità, sferrano un assalto allo stomaco. Ci sono librerie e banchi di caviale e carrelli portabagagli e scale mobili e negozi duty free. E ovunque tabelloni che annunciano partenze imminenti, che ti esortano ad andare in mille altri posti, ovunque fuorché lì. Heathrow è l'aeroporto più frequentato del mondo. Di li parte un volo ogni quarantasette secondi. Nessuno può controllarli tutti.
Bangkok. Zaire. Tokyo. Salt Lake City. I nomi mi vorticavano in testa, tentatori, seducenti, stordenti. Sapevo che Tangeri era piena di adorabili fanciulli che oziavano su spiagge sonnolente, supplicando di essere molestati. Singapore era la capitale mondiale per i palati fini, ma aveva un apparato di polizia brutale. Chiunque poteva perdersi nella labirintica e tanfosa Calcutta. E questo era solo uno dei tanti terminal di Heathrow. Finii con il comprare biglietti per Amsterdam, Hong Kong, Cancùn e Atlanta. Tutti e quattro i voli partivano nell'arco di un'ora. Avrei preso quello in partenza dalla prima uscita che avessi raggiunto. Una volta acquistati i biglietti, andai in una toilette e buttai le carte di credito di Sam in un bidone dei rifiuti. Non mi servivano più. Poi presi la cassetta con la registrazione di Drummond, ci pisciai sopra e buttai anche quella. Passai davanti a un'edicola e diedi un'occhiata alla prima pagina dell'Evening Standard, e il cuore mi si gelò. SCOMPARSO IL PLURIOMICIDA GAY! Sotto, il mio nome. O meglio, i miei nomi: quello di battesimo e quello che mi ero guadagnato. ANDREW COMPTON — L'ETERNO ANFITRIONE DI LONDRA. E poi la solita foto sfocata, ormai risalente a più di sei anni fa, con il ciuffo sulla fronte e labbra così bianche che svanivano nel pallore del volto. Per nulla somigliante al mio aspetto odierno, ma pur sempre sufficiente a rinnovare il ricordo di me nella gente, a spingerli a chiedersi dove mai sarei rispuntato. Tutti i poliziotti d'Inghilterra dovevano essere impegnati nella ricerca, come pure tutti gli stronzi curiosi che avevano letto i giornali. Heathrow era senz'altro piena di gente simile. Dovevo scoprire di quali informazioni erano in possesso. Comprai un quotidiano cercando di scrutare la reazione del giornalaio pakistano senza guardarlo negli occhi. Lui si stava pulendo le unghie con uno stuzzicadenti e non parve notarmi. Scorsi l'articolo. Andrew Compton, condannato nel 1989 per 23 omicidi nell'area londinese... «...firmato il certificato di morte», ha dichiarato il dottor Selwyn Masters. «Non può esserci stato un errore, ne sono certo.» (Ebbi un moto d'affetto per quel vegliardo incompetente.)
La polizia non ha voluto precisare se nell'obitorio vi fossero tracce di effrazione... ...medici barbaramente uccisi... «A quale folle scopo è attribuibile la sottrazione del cadavere di un tristemente famoso...» Erano ancora convinti che io fossi morto! Avrei voluto lanciarmi in una danza trionfale nel bel mezzo del passaggio affollato. Ma mi limitai a procedere nella ressa, leggiucchiando un articoletto in un box che rievocava famose violazioni di tombe e sottrazioni di cadaveri, senza peraltro capirci nulla, tanto ero stupito della mia pazzesca fortuna e fiero di aver saputo rendere una così efficace imitazione della morte. Ho detto «imitazione»? Dovrei definirla piuttosto «un'intima conoscenza della morte», perché senza dubbio nessuna imitazione avrebbe tratto tutti in inganno. Ma è ovvio che la collaborazione richiede una conoscenza intima, anche se non necessariamente gradita. E che cos'ero io se non il ghostwriter della morte? La sala d'attesa si profilava davanti a me, un lungo salone luminoso che finiva in un punto caotico, da cui si dipartiva un intrico di scale mobili. Passando sotto il metal-detector, ebbi all'improvviso il terrore che queste signore gentili ed efficienti mi trovassero il bisturi insanguinato attaccato alla gamba... ma quell'oggetto stava resistendo alla ruggine in fondo al Tamigi e i guanti chirurgici erano appallottolati in un vomitoso cestino dei rifiuti in quel di Soho. Non avevo oggetti metallici addosso, neppure una chiave o un pennino. Guardai i quattro biglietti e il numero delle uscite d'imbarco. L'aereo per Atlanta partiva di lì a cinque minuti, a pochi metri da dove mi trovavo. «Ultima chiamata», stava dicendo a un microfono un assistente di volo greco dagli occhi puttaneschi, «ultima chiamata per Atlanta, Georgia.» Mi immaginai a oziare sotto il portico di una vecchia villa coloniale trasformata in albergo di campagna, il viale ombreggiato da un tunnel di querce nodose, un mini julep in mano. La giornata era serena e tiepida, con una lieve avvisaglia d'autunno. Non avevo la più pallida idea di quali ingredienti componessero un mini julep, tranne il bourbon, che non mi piaceva, e sospettavo che persino in Georgia dovesse far freschino in novembre. Ma poco importava. Non m'importava un accidente. Tesi il biglietto al giovanotto greco. Nel restituirmelo mi sfiorò le dita, e
per un istante ebbi una voglia pazza di tagliargli la gola, lasciarlo raffreddare e premere la mia carne ardente contro l'adorabile immobilità della sua. La sensazione non svanì del tutto, ma si ridusse a un vago disagio. Avevo creato tre cadaveri in un solo giorno e non avevo avuto un momento di pace con nessuno di loro. Imboccai il tunnel telescopico che portava all'interno dell'aereo. Una hostess mi indicò il posto, l'ottimo posto accanto al finestrino promesso dalla carta d'imbarco, il posto che Sam non avrebbe mai dovuto pagare, e che era stato tenuto apposta per me, come se me lo meritassi. Poi i portelli vennero chiusi e l'aereo si staccò dal terminal procedendo lungo la pista di rullaggio e infine decollando. Londra si aprì sotto di me, una tremula rete di luci alla deriva in un mare di oscurità. In meno di un minuto ci eravamo alzati sopra la grigia coltre di nubi che sovrasta sempre Londra, e io avevo lasciato per sempre quella città. Ben presto sorvolammo il Mare d'Irlanda, puntando verso l'Atlantico. Dal finestrino sembrava che non ci fosse nulla né sotto né sopra di noi. L'omicida con un sottile filo di sangue sotto le unghie, gli ignari compagni di viaggio che si tenevano stretti valigette, bimbetti, libri tascabili, simili a talismani destinati a riportarli a terra sani e salvi, il fragile tubo di metallo che ci accoglieva... tutto avrebbe potuto essere immobile, sospeso in un qualche viscido budino nero. Mi sentivo vulnerabile e nel contempo protetto, edibile ma poco accessibile quanto un'ostrica nella sua conchiglia. L'idea mi piacque a tal punto che decisi di mangiarmi un piatto di ostriche non appena fossi arrivato in America. Sapevo che, specie nel Sud, venivano mangiate crude. Non riuscivo a immaginarmene una cruda in bocca, che mi sgusciava tra i denti e mi scivolava lenta lungo la gola. Ma ero ben deciso ad assaggiarle. Avrei imparato a godere la sensazione di una massa indifferenziata di tessuto sulla mia lingua, il sapore di colla salata dilagante sulle papille gustative. Sarebbe stato parte della mia rinascita. Con il senno di poi, posso affermare che le ostriche non erano niente in confronto a quello che avrei imparato. 5 Jay era rannicchiato in una grande poltrona di pelle nera dello studio, le membra nude coperte da una morbida coperta d'angora. I primi sprazzi di alba coloravano di lillà i vetri della finestra e proiettavano un'ombra ondulante sul pavimento. Jay stava sfogliando le tavole a colori di un testo di
chirurgia che suo padre aveva acquistato chissà quando, per ragioni che il figlio non riusciva neppure a immaginare. Aveva rubato il libro durante l'ultima visita alla casa avita in St. Charles Street, dove ora il cugino, il figlio di Daniel Devore, viveva con la famiglia. Mignon aveva lasciato loro la casa in cambio dell'aiuto che Daniel aveva dato all'azienda di famiglia. Sapeva che il figlio Jay non avrebbe mai voluto abitare nei quartieri alti. Jay stava contemplando l'immagine di un'operazione alla prostata: un paio di pinze emostatiche inserite in un'incisione allo scroto per chiudere una piccola vena, un dito guantato che s'inseriva nella cavità rettale, carezzando la ghiandola malata per poi inciderla con il bisturi e lasciare che i suoi dolci succhi defluissero attraverso le pareti intestinali. La prostata sembrava una noce scura e rugosa. Le pareti del retto formavano morbide onde rosate intorno alla lama del bisturi. Jay si ritrovò a pensare a Tran, il ragazzo vietnamita da cui il giorno innanzi aveva acquistato l'acido. La giovane prostata di Tran doveva essere liscia e non più grande di una mandorla. Il dorso del grosso volume gli premeva contro l'inguine provocandogli fitte di dolore. Si accorse di avere ancora un'erezione, come se la notte non fosse bastata a sfiancarlo. C'era un incavo alla sommità del retto, proprio sopra la prostata, in cui svariati oggetti si inserivano alla perfezione... Si alzò dalla poltrona, infilò il libro sullo scaffale ben fornito e uscì dallo studio. La casa era immersa nel silenzio, rotto solo da qualche risata ebbra degli ultimi buontemponi che si aggiravano ancora nel Quartiere francese. In una nottata qualunque, Jay si sarebbe dedicato alla lettura, o avrebbe guardato un video, o controllato i propri bilanci. Adorava la matematica per la sua squisita simmetria. Ma quella non era una nottata qualunque. Aveva un ospite. No, si corresse, questa volta non si trattava di un ospite. Un animale da compagnia. Il quadrante luminoso del vecchio pendolo dell'atrio segnava le cinque meno dieci. Strane ombre si muovevano come fantasmi intrappolati dietro il disegno arabescato della tappezzeria rossa e oro. Jay entrò in salotto, un delirio barocco di drappeggi di velluto, nappe di seta e scuro tek intagliato, con un levigato parquet color miele, coperto da un enorme tappeto cinese. I colori dominanti della stanza erano il viola, il rosa e il giallo oro; alla luce del giorno aveva l'aspetto di un utero dorato. Una delle pareti era quasi interamente occupata da un caminetto di mar-
mo rosa con intarsi stile liberty in malachite, corniola e giaietto, un'opera veramente squisita. La sua bellezza era offuscata da una patina fuligginosa che resisteva persino alla spazzola di ferro imbevuta di candeggina. Jay si fermò come bloccato da un momento d'incertezza, poi prese una tazza di finissima porcellana da un tavolino con zampe ad artiglio e bevve l'ultimo sorso rimasto sul fondo. Un brivido lento, simile alla percussione di uno xilofono, gli percorse la schiena. Il tè era corretto con cognac e LSD. Aveva bevuto quella potente miscela per tutta la notte, da quando si era portato a casa la nuova bestiola. Il ragazzo incontrato al Café du Monde lo aveva seguito docilmente, a una rispettosa distanza di pochi passi, abbastanza vicino da far capire ai turisti e alle baldracche di Jackson Square che quella bella creatura era con lui. Di solito Jay era prudente in quelle circostanze, ma ieri sera era stato come se un levriero di gran lusso o qualche altro animale di razza lo avesse seguito di sua iniziativa. Levriero di gran lusso. Che barzelletta. Se Fido fosse stato un cane, sarebbe stato un randagino con un bel musetto e il mantello sporco. Per fortuna il mantello si poteva togliere. Come pure gli stivali, la sudicia maglietta, i jeans incatramati, i calzini puzzolenti e l'indescrivibile biancheria. Fido poteva essere ripulito. La spazzola di metallo e la candeggina non funzionavano sul caminetto di marmo. Ma i ragazzi erano di un materiale più malleabile. Traversando il salotto, Jay intravide il proprio riflesso nell'enorme specchio d'angolo, con una cornice dorata grondante di frutta e foglie intagliate. Era uno spettro biancoargentato bagnato dalla luce incerta dell'alba, la pelle pallida e luminosa. Il petto e il ventre erano venati di scuri spruzzi di sangue, delicati come la spuma del mare. I capelli erano irti di sangue rappreso. Gli occhi erano sbarrati, invasati, lucenti. Entrò nel bagno. Il bagliore della luce sulle piastrelle bianche e nere era variegato da strisce e chiazze rosse, simili a manciate di rubini. Il ragazzo era nella vasca, ripiegato su se stesso, legato ai polsi, alle caviglie e intorno alle cosce lisce e magre, gli occhi lucidi di acido e di inorridita consapevolezza della morte. Il corpo era stato raschiato, e nei punti più sporgenti — guance, ginocchia e fianchi — si vedeva il lucore bianco-bluastro delle ossa. La candeggina aveva provocato bruciature rossastre sulla poca pelle rimasta. Il pene era bagnato e informe come un boccone masticato e risputato. L'addome era stato in parte sezionato, gli strati sottocutanei erano stati divaricati per estrarre una parte dell'intestino.
Jay sorrise. Il ragazzo restituì il sorriso. Non poteva far altro: la pelle intorno alla bocca era stata raschiata o divorata dalla candeggina, e il suo sorriso era un rictus di denti candidi tra gengive sanguinanti. No, non aveva avuto per niente cura della sua bestiola, riflette Jay. Senza dubbio, da un momento all'altro alla sua porta si sarebbero presentati quelli della protezione animali. I buontemponi potevano ululare quanto volevano nelle strade, ma il Quartiere francese non apparteneva a loro. Domani, la settimana prossima, l'anno prossimo se ne sarebbero andati, e il loro passaggio sarebbe stato effimero quanto la scia di un battello sul fiume. Ma Jay sarebbe rimasto. Il Quartiere era suo, sue le strade notturne con i lampioni a gas, suoi i vicoletti sordidi e i viali stellati di neon, i cortiletti segreti ombrosi di foglie, sua l'enorme luna viola che sovrastava tutto come un occhio appannato. Il Quartiere gli recava doni che lui accettava con gratitudine, con voracità. Il rumore dei buontemponi non gli dava fastidio. Ma anche per lui, qui dentro, quella era stata una notte di buontempo. Il sole sarebbe sorto prima che il ragazzo morisse. 6 Più o meno nel momento in cui Tran fissava sconsolato un sacchetto pieno di LSD e qualche biglietto da cento dollari, Lucas Ransom si svegliava al fracasso di una radiosveglia in un motel da quattro soldi all'altro capo di New Orleans. Premette il tasto SNOOZE della sveglia, si tirò sino al collo le coperte puzzolenti, sentì la nausea attanagliargli lo stomaco, ma s'impose di ricacciarla indietro. Quella mattina non poteva permettersi di star male. Ripiombò brevemente nei sogni. Come sempre, in quel periodo, avevano a che fare con Tran. Quando, dieci minuti più tardi, la sveglia si riattivò, Luke si svegliò con le lacrime agli occhi. La stazione WBYU stava trasmettendo «A Taste of Honey». «A taste... more bitter... than wine», canticchiò anche Luke, tanto per svegliarsi. La sua voce sembrava friabile quanto un cracker. I polmoni erano come spugne imbevute di formaldeide e messe ad asciugare al sole. Bisognava che tutto questo cambiasse prima dell'inizio della trasmissione. Si trascinò sotto la doccia. Uno scarafaggio infilò il suo corpiciattolo marroncello e lucente nello scarico non appena l'acqua rugginosa martellò il piatto. Luke si insaponò svogliatamente, le mani scivolanti su costole
anche più sporgenti di quanto non fossero state un mese prima, e persino due settimane prima. Al di fuori di un attacco di candidosi, lo schifoso mughetto bianco che gli aveva invaso bocca e gola per una settimana, Luke non aveva ancora avuto alcuna infezione opportunistica. Ma i linfonodi erano ingrossati da più di un anno; a ogni controllo mensile all'ambulatorio gratuito il numero di linfociti T nel sangue era sempre più basso e la perdita di peso sempre più rapida. Anche ai tempi in cui si bucava, aveva conservato l'abitudine di andare nella palestra della YMCA un paio di volte la settimana. Non era mai stato un mister muscolo, ma gli piaceva sentirsi e apparire in forma. All'epoca abitava nel Faubourg Marigny, un quartiere di cadenti casette creole a un tiro di pietra dal Quartiere francese, e poiché amava arrostirsi al sole subtropicale sul terrazzo di casa, la sua pelle era più scura di quella di Tran, e la spolverata di peli sul petto, sul ventre e sulle gambe era di un biondo dorato molto più chiaro del colore dei capelli. Anche i peli pubici si erano schiariti e persino il pene aveva assunto una certa sana luminosità. Aveva avuto cura della sua persona sino a che aveva potuto. Ma ormai non ce la faceva più. E da un bel pezzo. I muscoli si erano dissolti sull'ossatura robusta, che adesso era spigolosamente evidente. Una delle medicine che assumeva lo aveva reso ipersensibile alla luce del sole, e l'abbronzatura era stata sostituita da un grigiolino pallido, simile al colore di un gamberetto crudo. Il suo corpo era ossuto, pallido e flaccido. Di questi tempi doveva chiamare a raccolta tutte le sue forze per raggiungere l'auto nel'parcheggio del motel, mettere in moto dopo due o tre tentativi e percorrere la cinquantina di chilometri che lo separava dal bayou. Il che voleva dire che i suoi programmi radiofonici scaturivano da qualcosa di più forte ed essenziale dell'energia fisica, e, a quanto gli risultava, l'unica cosa più potente dell'energia era la follia. Luke aveva capito che Lush Rimbaud era pazzo, e probabilmente lo era da tempo. Ma ora cominciava a nutrire sospetti anche su Luke Ransom. Era convinto che le cattive influenze fossero fatalmente più forti di quelle buone; e pur essendo certo che Tran aveva dei ricordi positivi di lui, sapeva anche quali di questi ricordi si fossero avvelenati nel cuore del ragazzo, nell'orrore che aveva segnato l'ultima fase del loro rapporto. Per questo Luke, da sempre, era sicuro che la parte folle della sua mente prima o poi avrebbe avuto la meglio su quella sana. Era stata la componente folle a volere che Tran si iniettasse nelle vene il sangue infetto — il suo. Era quella componente che aveva voluto che Tran morisse, e non con lui,
ma al suo posto. E adesso a che pro lottare per non cedere alla follia? Per una visita mensile all'ambulatorio, per le inalazioni di pentamidina e l'assunzione di integratori alimentari, per le lunghe notti passate a scrivere inutili parole che impallidivano al confronto dei ricordi, e una lercia stanzetta sulla Airline Highway, tra battone e tossici? Di certo la presenza dei tossici non gli facilitava la vita. Sapeva che in quel motel, magari nella stanza accanto, c'era sempre qualcuno che sniffava o si bucava; sapeva che, volendo, avrebbe potuto procurarsi della roba in qualsiasi momento. E la sua voglia era costante. Non smetteva mai di immaginare quanto la droga gli avrebbe alleviato il senso di nausea, fatto dimenticare la tormentosa stanchezza, cancellato i ricordi del corpo di Tran. Ma sapeva anche che con il tempo la roba lo avrebbe reso indifferente a tutto, inclusa la volontà di vivere. E lui non era ancora disposto a dare al mondo la soddisfazione di vederlo crepare. Aveva cominciato a farsi di eroina a San Francisco dieci anni prima, quando aveva l'età di Tran. Ne aveva sniffata un po' a una festa e gli era piaciuta l'esaltazione seguita da un senso di quiete, in cui la sua mente aveva infine trovato un momento di requie. Se n'era procurata dell'altra, e aveva finito per iniettarsela anziché limitarsi a sniffarla. L'esaltazione era assoluta, la quiete più duratura e dolce. Scoprì che il suo metabolismo tollerava bene l'eroina. La dipendenza tendeva a minare la vitalità del tossico, come se l'ago ogni volta risucchiasse una stilla di forza vitale. L'uso regolare di eroina finiva per uccidere gran parte della gente. Ma certi soggetti ne traevano forza. Tre anni prima, più o meno all'epoca in cui aveva conosciuto Tran, aveva smesso per un po'. Niente autoinganno da metadone per Luke, ma solo sudori freddi, pruriti striscianti, nausea che gli ribolliva dentro come un groviglio di vermi brucianti. E lecito usare una sostanza per curare la dipendenza da un'altra, si disse Luke afferrando la bottiglia di Jack Daniel's dopo un attacco di nausea da astinenza, ma la nuova sostanza doveva essere qualcosa di totalmente diverso. Qualcosa che ti togliesse di testa il desiderio che ancora t'invadeva le vene. Il metadone era una bambola di plastica con cui scopare; il whisky era un amante del tutto nuovo. Che cosa avrebbe dovuto usare adesso per curare quell'ultima assuefazione? si chiese Luke. Tran era nelle sue vene proprio come il ricordo dell'ago, nei suoi tessuti proprio come il fantasma della nausea da tossico.
Nulla alleviava quel dolore lento e profondo che lo attanagliava al ricordo di Tran a letto con lui, a scopare o a chiacchierare o solo a memorizzare ossessivamente i rispettivi volti. Era tormentoso ripensare agli occhi di Tran. Luke ricordava il bagliore dorato che assumevano alla luce pomeridiana, il nero liquido delle pupille e il morbido contatto della pelle setosa delle palpebre quando le sfiorava con un bàcio. Ah sì, era bravissimo a torturarsi con i ricordi. Chiuse il rubinetto, asciugò il corpo gracile con un asciugamani liso, si trascinò fuori dal bagno e si abbandonò su una brutta poltrona di plastica nera. Il foro di un'antica bruciatura di sigaretta gli punzecchiò la parte posteriore della coscia. C'erano giorni in cui era costretto a riposarsi dopo aver compiuto il minimo gesto: la doccia, la camminata di meno di un chilometro per raggiungere il più vicino McDonald's o Popeye's, e persino la lettura del giornale. A quanto pareva, oggi era un giorno di quelli. Essendosi incamminato sul sentiero dei ricordi, Luke decise di concedersi un flashback. Di questi tempi gli capitava sempre più spesso di rivivere i momenti più pregnanti del suo passato. Spesso erano legati a Tran, e dato che i momenti buoni, nel ricordo, gli provocavano un dolore squisito, di solito sceglieva quelli negativi. Luke si appoggiò alla spalliera, chiuse gli occhi e viaggiò nel dicembre di due anni prima. Mancavano alcuni giorni a Natale, una festa che, in ogni caso, gli era sempre parsa deprimente da morire. Tran si era sottratto alle celebrazioni in famiglia, ed era sdraiato accanto a lui sul materasso del loft di Luke. Erano petto contro schiena, e Luke aveva il volto contro l'incavo della spalla di Tran e sfiorava con il naso i morbidi capelli della sua nuca, che sapevano di gel e di sudore. All'epoca Tran aveva diciannove anni, e portava i capelli molto corti, quasi a spazzola. Quel taglio gli dava un aspetto aggressivamente esotico e brutale. Dava anche maggior risalto ai tre cerchietti ai lobi delle orecchie — due a sinistra, uno a destra — ognuno dei quali, a detta di Tran, aveva scatenato ire funeste nei suoi genitori. Di colpo, senza alcun preambolo, Tran disse: «Sono spiacente». Luke ormai sapeva che Tran era incline a uscite prive di contesto, spesso in risposta a conversazioni svoltesi ore o giorni prima. Ma, chissà perché, quel mite «Sono spiacente» fece squillare in lui un campanello d'allarme. «Per che cosa?» gli chiese. Tran non rispose, e al campanello si unì un clacson strombazzante. Luke si puntellò su un gomito e, afferrata l'anca di Tran, la usò come una sorta di manico per far girare l'amico senza tanti complimenti. «Per che cosa?»
ripeté in tono più pressante. Tran distolse lo sguardo. Luke lo afferrò alla mascella costringendolo a guardarlo in faccia. Tran si lasciò sfuggire un piccolo gorgoglio angosciato, che non era esattamente una parola e non era ancora un singhiozzo. «Che cosa hai combinato?» Rispondimi, pensò Luke, rispondimi subito e risparmiami la suspense. Ottenne solo il consueto silenzio prolungato che, in Tran, precedeva la risposta a una domanda difficile. Poi: «Niente. Solo...» Tran si liberò della stretta di Luke che si era fatta involontariamente più salda alla parola «solo». Luke vide cinque impronte bianche lasciate dalle sue dita sulla pelle dorata di Tran. Sotto i suoi occhi i segni divennero rosati, il colore del sangue sotto la superficie. «La settimana scorsa quando sei andato a Baton Rouge... una sera ero nel Quartiere francese... e c'era questa festa.» Luke chiuse gli occhi e s'impose di tenere le mani lontane dal morbido collo di Tran. Sapeva già il seguito. Perché Tran non gli faceva il favore di dirglielo chiaro e tondo? Ma quando mai. «Erano tutti ciucchi traditi», disse Tran, implorante. Luke strinse i denti, contò sino a cinque e riaprì gli occhi. Tran lo stava guardando, ma qualcosa nello sguardo di Luke lo spinse a distogliere gli occhi. «Sicché tutti erano ciucchi», ripeté Luke. «Ma pensa un po'! Ciucchi a una festa nel Quartiere francese! E allora che cazzo è successo?» «Hanno giocato una specie di gioco con un'arancia e un chiodo di garofano in cui si finiva per baciarsi...» «Tran, per favore, dillo e basta.» Non dirlo, supplicò Luke in cuor suo, in un angosciato contrappunto, sino a che non lo hai espresso a parole non è successo, e allora sta' zitto, non raccontarlo... «Be' -ho-finito-per-fare-delle-cosette-con-questo-tizio», sputò fuori Tran prima di prendere fiato di colpo, come se la confessione abortita gli avesse mozzato il respiro. Luke aveva avvertito una strana sensazione di bruciore diffondersi nei muscoli della spalla, come se un acido corrosivo gli stesse divorando i tessuti. Si chiese quale fosse l'origine fisiologica di quel fenomeno, come mai la notizia di un tradimento gli provocasse uno smangiamento ai muscoli. Ma si limitò a dire: «Credevo che non dovessimo fare puttanate simili». «Anch'io! Non volevo farlo! Solo che...» «Solo che eri sbronzo e avevi il cazzo duro, vero?» «Be', sì.»
«Perlomeno lo ammetti.» «Ma non mi ha dato tregua! Aveva già scopato gran parte dei miei amici...» «Fantastico. Mi fa piacere sapere che sei selettivo nelle tue porcate.» Tran chiuse gli occhi, sconfitto, e la nera traccia delle ciglia sulla tenera pelle sotto l'occhio era ancor oggi una spina nel cuore di Luke. «Non volevo, Luke. In pratica, sono stato sedotto.» Luke vide rosso. Visualizzò la propria rabbia come un nucleo pericolosamente vicino alla fusione. Afferrò un guanciale, gli sferrò un pugno e lo strizzò. Non si rese conto di quel che stava facendo sino a che non vide una cascata di piume volteggiare intorno al letto per cadere poi a terra. Con le unghie aveva lacerato la fodera del guanciale. Di uno dei costosi guanciali di piuma, addirittura. «Fa' pure!!!» strillò. «Perché non prendi questo nostro meraviglioso rapporto e non lo distruggi? Perché non lo butti in una cunetta e ci pisci sopra solo perché ti è capitato di sbronzarti a una festa??? Che idea sublime del cazzo!!!» Fece qualche respiro profondo, poi riprese a parlare con voce pacata e chiara. «Insomma... anche se ci mettessi tutta la buona volontà del mondo, come faresti a essere così cretino? Hai fatto una cosa simile — sei corso a casa a raccontarmelo, Dio solo sa perché — e adesso mi dici che non te ne assumi neppure la responsabilità?» Tran fissava le piume sul pavimento. Lanciò un'occhiata a Luke e distolse subito lo sguardo. «No, non dico questo.» «Così m'era parso di capire.» «Be'... ehmmm...» «Risparmiati gli ehm, perfido che non sei altro! So come funziona la mente contorta degli orientali. Questa volta non puoi salvare la faccia. Dimmi solo...» Perso lo slancio, Luke tacque, limitandosi a fissare Tran. Era sicuro di avere un'espressione orribile, vulnerabile. «Che cosa è successo?» «Va bene. C'era questo tizio che talvolta ho visto nei locali.» «Come sarebbe a dire 'visto'?» «L'avevo notato nel Quartiere. E uno che gira da quelle parti, e mi era capitato di scambiare qualche parola con lui, come faccio con tutti.» «E questo 'tizio'», era una parola che Luke non usava mai, una parola che non implicava alcuna distinzione tra la miriade di sottospecie del genere maschile, «questa 'persona' ha per caso un nome?»
«Zach.» «Vuoi dire quel pallido stronzetto che sembra Edward mani di forbice, ma solo un po' più soddisfatto di sé?» Tran per poco non si lasciò sfuggire una risata. Si bloccò mordendosi l'interno del labbro inferiore, e la vista dei denti bianchi contro la pelle scura appena rosata fece rimpiangere a Luke di non essere intento a baciarlo, o a scoparlo, o a fare qualsiasi altra cosa che non fosse quella sciagurata conversazione. «Sì», rispose Tran, «proprio lui.» «Che cosa hai fatto?» «Lui continuava a... ehm, 'abbracciarmi'. Diceva che ero il suo gemello da tempo perduto.» «Che originale.» «Poi abbiamo cominciato a baciarci sulla soglia.» «Oh, sotto quel disgustoso parassita vegetale?» «Che cosa?» «Il vischio.» «Sì.» Luke si figurò i due puntellati contro lo stipite, incollati l'uno all'altro, le mani artiglianti ed esploranti, le bocche bavosamente unite. Probabilmente nel locale c'erano venti o trenta ragazzotti vitaioli del Quartiere, alcuni tutti presi nei loro sordidi palpamenti, altri intenti a guardare, ciuccamente interessati al fatto che il ragazzo di Luke Ransom stava sbavando nella bocca di una delle massime troie della città, e molti di loro dovevano malignamente trovare buffa quella scena. Luke aveva il dono di rendersi sgradito a un certo tipo di persone. Da un lato Luke avrebbe voluto appellarsi singhiozzando alla pietà di Tran, sentirsi dire che non era vero, che non poteva essere vero. Un'altra parte di lui avrebbe voluto uccidere quello stronzetto, rompergli quelle ossa traditrici, e poi riportarlo alla vita per il solo gusto di ucciderlo di nuovo. L'immagine dei due ragazzi che si baciavano sulla soglia era impressa indelebilmente nella mente di Luke, una ferita bruciante che lacerava in profondità la ribollente materia cerebrale lasciando una cicatrice che sarebbe durata per sempre. «Poi che cos'è successo?» «Be', mi ha portato in una... camera, credo, e... Luke, sei proprio sicuro di volerlo sapere?» «No», rispose Luke in tutta sincerità. «Ma ormai mi ci hai tirato dentro
per i capelli e ora devo sapere tutta la storia.» «Perché? Avevo solo bisogno di essere onesto con te. Non è necessario parlarne, se non vuoi.» «E, secondo te, io dovrei smettere di pensarci e basta, è così? Magari tu sei capace di spazzare tutto in un angolo senza problemi. Anzi, sono certo che è così. Ma io non funziono così. Quand'anche potessi cancellare subito questa schifezza dalla mia mente, non oserei farlo... perché potrebbe essermi utile un giorno o l'altro. Vuoi diventare uno scrittore, Tran? E allora faresti bene a conservare i ricordi...» Aveva blaterato per un bel po' con variazioni sullo stesso tema. C'era dell'altro, molto d'altro, ma Luke decise di interrompere lì il flashback. Non voleva rivivere l'esitante descrizione che Tran aveva fatto del pompino ricevuto e ricambiato nella buia camera di uno sconosciuto mentre al di là della porta socchiusa la festa impazzava, né voleva risentire la propria furibonda e malaugurata reazione. Aprì gli occhi, scosse il capo un paio di volte, e tornò nel presente. Più o meno. L'episodio era avvenuto sei mesi dopo il loro incontro, quasi un anno prima della scoperta della sieropositività di Luke. In quei sei mesi la condotta sessuale di Luke era stata irreprensibile, una cosa del tutto nuova per lui. Tuttavia fu costretto ad ammettere che buona parte della sua rabbia era dovuta alla meschina sensazione di aver perso delle buone occasioni. Era andato a Baton Rouge solo per firmare le copie di un suo volume alla libreria Hibiscus, cosa che aveva fatto diverse volte da single, senza che capitasse mai nulla. Ma quella volta, per puro caso, all'evento erano presenti svariati ragazzotti snelli, con capelli e occhi neri, così bellini da fargli tremare leggermente la mano mentre scriveva le dediche. Uno in particolare, un sedicente poeta di nome Michael, si era attardato a chiacchierare durante la firma dei libri. In seguito erano andati a bere qualcosa insieme, e quando Michael gli aveva proposto di trattenersi per la notte, Luke era stato molto tentato di accettare. Poi aveva ripensato alla difficile conversazione svoltasi la settimana prima tra lui e Tran. Avevano discusso delle rispettive paure e gelosie, e Luke riteneva che avessero stabilito di essere fedeli l'uno all'altro. Avrebbe voluto passare la notte a divorare il sedicente poeta come una caramella offerta sull'altare dei suoi dèi gemelli: talento e lussuria. Quel tipo di ragazzo era fatto «apposta» per quello. Invece si era ritrovato, semisbronzo e infoiato, a guidare sulla I-10 dopo la mezzanotte, cercando alla radio qualche stupido talk-show, la vista abbagliata dal panorama della zona industriale di Baton Rouge.
Quando aveva scoperto che Tran lo aveva comunque tradito, aveva rimpianto di non aver scopato Michael. Poco importava che quest'ultimo fosse uno scemetto pretenzioso per niente paragonabile a Tran per bellezza. Luke aveva la brutta sensazione di essersi perso una scopata facile e piacevole mentre Tran se n'era beccata una, di aver perso l'occasione di mettere un'altra tacca per pareggiare il punteggio con Tran. E aveva anche l'impressione che Tran gli avesse provocato intenzionalmente quella reazione. Ah, le relazioni! Con un po' di fortuna, pensò Luke, non ne avrebbe mai avuta un'altra. E di recente si sentiva molto fortunato. Il solo fatto di ritrovarsi vivo ogni giorno gli faceva avvertire tutto il peso della fortuna, come un macigno di dieci tonnellate sul petto. S'infilò maglietta e jeans, mise un paio di puntuti stivali da cowboy neri, e buttò sulle spalle il vetusto giubbotto da motociclista. Da dieci anni quella era l'uniforme invernale di Luke. Ora i jeans gli stavano larghi e i bicipiti non riempivano più le maniche del giubbotto, ma gli stivali andavano ancora bene. Un buon paio di stivali era un amico per sempre, «finché morte non ci separi». Si chiese se questo paio gli sarebbe sopravvissuto. In qualche punto la pelle si stava fessurando, ma d'altra parte anche la sua non era il massimo. L'aria mattutina lo carezzò come una mano fresca e umida. Il cielo aveva una luminosità grigio-azzurra, il colore dell'alba della Louisiana. Nessuno era entrato nella sua auto durante la notte, e il motore si accese al primo colpo. Forse quella sarebbe stata una giornata positiva. Drenato di un po' d'autocommiserazione grazie al flashback, non era più dell'umore masochistico che occorreva per apprezzare le sciroppose canzoni d'amore alla WBYU. Inserì invece una cassetta dei Coil, alzò il volume al massimo — il che non era gran cosa, date le casse di pessima qualità — e affrontò l'autostrada. La versione dei Coil di «Tainted Love» era l'ideale per alimentare la sua giusta rabbia, e la giusta rabbia era quel che gli occorreva per caricarsi prima della trasmissione. «Gave you-all-a boy could-give you», cantò battendo il tempo sul cruscotto. Il volto di Tran gli ballò davanti agli occhi, e Luke odiò la sua bellezza, odiò la mente immatura e intrigante che si celava dietro quegli occhi dalle palpebre setose. Pensò alla verità che aveva riversato nei propri libri, tutta la verità che sapeva, e odiò tutti i critici che lo avevano strapazzato, tutti i lettori che non lo avevano capito. Esauriti gli obiettivi specifici della sua animosità, Luke odiò il mondo intero perché sarebbe andato avanti anche dopo la sua morte. Quel senti-
mento violento lo pervase, puro come la roba di qualità super, dandogli la forza della follia. Dopo che ebbe imboccato la rampa d'uscita verso il bayou, infilata l'auto in una cadente baracca di legno che fungeva da garage e raggiunto il pontile dove la piroga sarebbe venuta a prenderlo per portarlo al battello, sentì Lush Rimbaud ribollire dentro di sé, pronto a imperversare. «Il resto del mondo potrebbe ispirarsi alla Cina. Un bambino per famiglia, severe sanzioni per quelli in più e sterilizzazione obbligatoria. Il loro obiettivo è la crescita zero, e ci sono quasi vicini. Nella Repubblica Popolare fanno un casino d'aborti. Un casino, eccome. Raschiare via feti è diventato un modo di vivere per i cinesi. Non lasciargli neanche mettere la testa fuori nel mondo, per così dire. Sono necessarie misure estreme perché è dai tempi della fottuta dinastia Han che quelli si riproducono come conigli. Nel mondo una persona su cinque è cinese. Ma secondo voi, quale percentuale delle risorse mondiali consumano questi cinesi? Praticamente zero, se paragonati allo stronzissimo americano medio. «Benché gli americani costituiscano meno del cinque per cento della popolazione mondiale, in America ci pappiamo il trentatré per cento delle risorse della terra. E possiamo fare tutti i marmocchi che vogliamo. Ehi, siamo in un paese libero! Non dobbiamo neppure essere in grado di sfamarli. Se non possiamo mantenere i nostri mostricciattoli, se ne occupa il governo! I soldi delle mie tasse — delle vostre tasse — vengono usati per tenere senza far niente queste bestie da riproduzione affinchè mettano al mondo altre bestie da riproduzione! E non si investono soldi per la ricerca della cura di una malattia epidemica perché la gente che ne muore ha succhiato troppi cazzi!» Ormai era in onda da ore ed era lanciatissimo. Luke si scostò dal microfono e ingollò un sorso di fetente beverone proteico che Soren, fondatore, finanziatore e tecnico della WHIV, aveva messo in frigo per lui. Era denso come un milk shake di McDonald's, e leggermente viscoso. Il sapore era un misto di fragola, bicarbonato e fegato: gessoso, dolce in modo nauseante, ma in qualche modo «carneo». Era una delle cose più disgustose che avesse mai cacciato in bocca. Ma Soren giurava che gli avrebbe fatto prendere un chilo. Cosa di cui aveva bisogno. Si riaccostò al microfono. «Possono anche odiarci perché succhiamo cazzi, ma perlomeno non ci possono accusare di mettere al mondo altri piccoli pompinari. Perlomeno la riproduzione biologica del nostro DNA
sotto forma di viscidi e vocianti pezzetti di carne non è la massima soddisfazione che ci proponiamo di trarre dalla vita. Dico bene? Sono Lush Rimbaud che vi parla dalla WHIV, la vostra fonte di infezioni auricolari... e questo è dedicato alla persona che amo.» Mandò in onda «Something I Can Never Have» dei Nine Inch Nails. La voce di Trent Reznor gli penetrò dentro come un ferro rovente, rapido e acuminato, portatore di un dolore mortale. Poteva essere il tema musicale di quella trasmissione, di quella stazione radio, di tutto ciò che aveva scritto, del suo amore disperato per Tran, di tutta la sua miserevole vita. Tuttavia c'era qualcosa che lo spingeva ad andare avanti benché avesse molte buone ragioni per lasciarsi morire. Adesso avrebbe potuto ritirarsi dalla scena in qualsiasi momento: sarebbe stato facile procurarsi della roba, e un'overdose gli sembrava il modo ideale per crepare. Che importava se i benpensanti, trovandoti con un ago penzolante dal braccio, avrebbero pensato che non era una gran perdita? Tanto te n'eri andato presto e bene. Continuando a lottare per un altro giorno, un'altra settimana o un altro mese di vita, correva il rischio di ritrovarsi troppo malconcio per potersene andare con una certa eleganza. A quel punto avrebbe dovuto affrontare una morte lenta e penosa. Negli ultimi giorni i polmoni potevano cedere dandogli una morte per soffocamento. Se fosse diventato cieco, non sarebbe riuscito a vedere la morte in arrivo. Se le funzioni fondamentali si fossero bloccate, avrebbe potuto morire tra mucchi di escrementi (magari tracciando un paio di frasi scatologiche sul muro). Gli orrori da contemplare erano numerosi e pittoreschi. Spesso Luke li assaggiava tutti come se li traesse da una cornucopia di frutti marci, scegliendone uno per il sentore dolceamaro, un altro perché aveva un verme dentro. Insomma, che cosa lo teneva in vita? Per un certo tempo era stata la convinzione che lui e Tran in qualche modo sarebbero tornati insieme, perché questo era il loro destino. Per Luke era inconcepibile morire prima che questo accadesse. Ma pian piano era arrivato a capire che per gran parte della sua vita, «destino» era stato sinonimo di ciò che lui aveva voluto a ogni dato momento. Adesso non avrebbe più funzionato così. A quanto pareva, Tran aveva le sue idee sul destino, e in quel destino non c'era più posto per Lucas Ransom. Piuttosto che ammettere la possibilità di aver avuto torto, Luke aveva smesso di credere nel destino. E aveva continuato a vivere. Sentendo una piccola vampata di nausea accendersi nello stomaco, Luke
decise di lasciar perdere il beverone proteico. Tra poco avrebbe preso un panino dal frigo, e magari sarebbe anche riuscito a bere un po' di caffè. Magari. La canzone dei Nine Inch Nails stava volgendo a un lento, sinistro fine. «Ecco», disse Luke al microfono, «questa era per il mio perduto amore, dovunque egli sia. Ci sei? Sei in ascolto? Detesti ancora il suono della mia voce? Immagino che non lo saprò mai. Eccone un'altra per te, vermiciattolo mio.» Lush Rimbaud di rado suonava due canzoni di fila, senza concionare tra l'una e l'altra, ma in quel momento, avendo visto Soren con una canna accesa e temendo di diventare un po' troppo sciropposo se avesse continuato a parlare, mise un CD di Billie Holiday. Mentre le prime note dolenti di «Gloomy Sunday» si diffondevano nella palude, Soren tese la canna a Luke, il quale aspirò dal catramoso cilindretto di carta, umido di nebbia e di sputo di Soren, e senti la piccola vampata di nausea placarsi. «Cristo, Luke», disse Soren sorridendo. «Hai scelto proprio un paio di canzoni da suicidio, eh?» «Era proprio quello che volevo.» Luke prese un'altra boccata prima di restituire la canna. Il sapore pungente dell'erba gli rimase sulle labbra, sulla lingua. Guardò Soren che inalava a fondo, con avidità. Il giovane ingegnere era biondo con un volto affilato ed elegante e un guardaroba che sembrava uscito da una rivista di moda. In un'altra vita, nella vita di prima, Luke lo avrebbe snobbato considerandolo una stronzetta vitaiola. Era così che un tempo definiva un certo tipo di bel ragazzo che frequenta i locali alla moda, quello con l'aria di figlio bastardo di Bauhaus e Duran Duran, che beve cappuccino e ciancia di arte. In un'altra vita, nella vita di prima, Soren avrebbe potuto essere una di quelle stronzette vitaiole. Ma in questa vita, un anno fa, una settimana dopo il suo diciottesimo compleanno, era risultato sieropositivo. Benvenuto nel mondo reale, ragazzo mio. Ti piace essere diventato adulto? Non ti preoccupare... non lo sarai per molto. Sebbene non avesse ancora alcun sintomo, nei suoi occhi intelligenti, che erano grigi ed enormi nel volto asciutto, era affiorata un'espressione terrorizzata. La sua naturale pacatezza appariva venata di sbalordimento. Il suo pseudonimo radiofonico era Stigmata Martyr. Nonostante l'aspetto da dandy, Soren era un mago della tecnica che, in meno di un'ora, era capace di far funzionare qualsiasi pezzo di attrezzatura recalcitrante disponibile su quel battello. Per anni aveva fatto trasmissioni
pirata alla radio, ma solo alcuni mesi prima aveva creato la WHIV, dopo aver sentito il conduttore di un talk-show reazionario sbraitare contro un malato di AIDS che, dall'ospedale, aveva telefonato per protestare contro le informazioni errate che venivano diffuse su quella malattia. Soren voleva un conduttore aggressivo quanto quelli sul fronte opposto. Aveva contattato Luke attraverso una tenue rete di conoscenze. Benché non avesse mai lavorato alla radio e in un primo momento avesse trovato scostanti l'aspetto e i modi di Soren, Luke trovò interessante la proposta. Era un'occasione per lasciare a Lush Rimbaud l'opportunità di scatenarsi, senza dover poi provvedere a una revisione. Era un'occasione per far decantare un po' la sua rabbia perenne. La rabbia gli dava la carica, certo; ma, oltre un certo punto, cominciava a rodergli il cuore sino a renderlo quasi incapace di pensare. Soren aveva ragione a proposito di «Gloomy Sunday». Billie riversava tutta la sua solitudine, tutti i suoi rimpianti, tutta la tristezza del suo cuore di tossica in questa canzone d'amore per un amante morto, con un risultato devastante. «Conosci la storia di questa canzone?» chiese Luke. Soren scosse il capo. Poiché il pezzo stava per finire, Luke si protese in avanti e parlò al microfono. «C'è una storia legata a questa canzone. E stata scritta da un compositore ungherese che in seguito si è ammazzato lasciando al mondo la sua musica. La prima incisione ispirò talmente tanti suicidi che in Ungheria venne tolta dal commercio. Venne tradotta e data a Billie... buona idea, amici. Quando avete bisogno di tirarvi un po' su, ricorrete alla vecchia Billie. La gente si buttava dal tetto o si faceva saltare il cervello, e gli sbirri trovavano questa canzone sul giradischi. Finirono con il non suonarla più alla radio. E la sola canzone che sia mai stata proibita perché era troppo triste... ben due volte.» Luke prese la canna da Soren e fece due tiri rumorosi e sibilanti al microfono. «Erba gustosa, questa», disse con voce chioccia, da spinellato. «È roba nostrana, del Mississippi? Perlomeno questa fottuta terra desolata dà un prodotto utile.» Esalò mettendocela tutta. «Ehi, Martyr, indovina perché il governatore del Mississippi ha rifiutato i fondi per le ricerche sull'AIDS! Questa è bella davvero. Ha detto che era una 'malattia a eziologia comportamentale' e quindi non spettava ai contribuenti normali pagarne le spese. Perché sprecare sano denaro americano per dei germi da culi?» Fece una breve pausa per dare il dovuto impatto alla notizia. «Allora ho scritto ai deputati della mia zona chiedendo un rimborso dei miei contribu-
ti fiscali investiti in ricerche sui difetti congeniti, le terapie contro la sterilità, gli aborti spontanei... su tutto ciò che è collegato alla produzione di feti umani sani. Dato che la gravidanza è una 'condizione a eziologia comportamentale' sulla cui moralità — o immoralità — io nutro molte riserve, ho ritenuto di non dover finanziare questi disgustosi problemi di chi vuole riprodursi. E indovinate come'è andata!» Luke premette il tasto PLAY del lettore di cassette. Un ringhio di chitarre annunciò la band Service with a Smile, un gruppo di lesbiche di New Orleans che a lui piaceva molto. «I got fucked, fucked, FUCKED!!!» gridò la cantante contro un vibrante sfondo di chitarra. Benché spaziasse nei campi più disparati, dall'amputazione del pene ai controlli fiscali, la canzone durava solo un minuto e mezzo. Al suo brusco finale, Luke era pronto. «Appunto: 'I got fucked'... io, voi, tutti ce la siamo presa in quel posto! La settimana scorsa non siete risultati sieropositivi? Congratulacazzazioni! Per almeno altri sei mesi non avete di che preoccuparvi! Non vi sentite sollevati? Non vi si apre il cuore? «Sono Lush Rimbaud, e non voglio né tacere né morire. Ma ho lo stomaco intorcinato e i nodi linfatici pulsanti, e quindi mi riposo un po' e vado a sbarellarmi con Stigmata Martyr e lo skipper. Ecco a voi un intero CD tanto per alleggerire l'atmosfera.» Mise The Wall dei Pink Floyd, scostò la fragile sedia d'alluminio e si allontanò dalla consolle. Soren e lo skipper, Johnnie Boudreaux, appoggiati al parapetto del ponte, si passavano la canna avanti e indietro. Il battello era una creazione di Johnnie. L'aveva ricavato da una piccola chiatta, aggiungendovi un motore fuoribordo per avere maggiore mobilità, un parapetto in caso qualcuno avesse sofferto di vertigini, e una copertura impermeabile per proteggere l'apparecchiatura radio di Soren. Soren veniva da una vecchia famiglia di New Orleans, una famiglia con nove zie chiamate tutte Maria e con carrettate di soldi, perlomeno secondo la scalcinata media di New Orleans. Adesso investiva gran parte del suo reddito nella stazione radio e quel che restava in cure preventive. Soren aveva molta fiducia nei rimedi alternativi. Talvolta Luke si chiedeva che resistenza avrebbero opposto gli amuleti e le erbe contro una meningite da criptococco, ma il bon ton tra sieropositivi imponeva il rispetto delle illusioni altrui. Qualunque cosa ti aiutasse a passare la notte — megavitamine, visualizzazione creativa, il lento veleno dell'AZT — doveva essere esente da critiche o derisioni. Naturalmente non andava sempre così, ma Luke era
disposto a lasciare che gli amici si autoingannassero a condizione che facessero altrettanto con lui. Il battello scivolava sulle acque ferme del bayou, e il sole cominciava a fondersi tra le sommità degli alberi spandendo sulla palude una morbida luce verde-dorata. Era uno dei momenti in cui Luke s'illudeva che, in qualche modo, tutto potesse ancora essere salvato. Soren glielo sciupò dandogli una gomitata e dicendo: «Nel mio gruppo di supporto c'è un nuovo tizio che vuole conoscerti. Ha letto tutti i tuoi libri». «E tu che cosa gli hai detto? Che ero il DJ della tua stazione radio pirata?» «Ma certo che no, Lucas.» Era straordinario il modo in cui Soren riusciva a dare un tono stizzito a una frase limitandosi a pronunciare il nome dell'interlocutore. «Nessuno nel gruppo sa che gestisco la WHIV. Non vado mica in giro sbandierando le mie attività illegali. Ho solo accennato al fatto che ti conoscevo.» «Digli di andare alla libreria Faubourg Marigny. Hanno copie autografate di tutta la mia roba.» «Vuole conoscerti, Luke. Vuole invitarti a bere qualcosa nel Quartiere francese. Ha vent'anni, è sano, mezzo giapponese, e sapendo che sei una checca mangiariso...» Luke s'ingobbì e lanciò un'occhiataccia a Soren. «Smettila di darmi della checca mangiariso. Non lo sono.» «Nooooo.» Soren strascicò la sillaba, caricandola di cinismo. «Solo perché il tuo ultimo amorazzo era vietnamita, e quello prima del Laos, e al Times-Picayune hai dichiarato che la tua meta preferita per le vacanze era Bangkok...» «Non sono mai stato a Bangkok, cretino. L'ho detto per scherzo.» «L'hai detto perché rimpiangi di non esserci andato.» «Zitti, voi due, e passate la canna», li interruppe Johnnie Boudreaux. Era un cajun grande e grosso e di buon carattere che conosceva la zona dei bayou quanto Luke conosceva il Quartiere francese. Come molti cajun, Johnnie era scuro di capelli e di carnagione chiara, e la lieve abbronzatura non bastava a nascondere le piccole lesioni violacee dovute al sarcoma di Kaposi che gli punteggiavano volto, petto e braccia. Luke, pur non essendo disposto ad ammetterlo con anima viva, temeva il sarcoma di Kaposi in modo ossessivo, per ragioni estetiche. Johnnie sembrava non curarsene. Anche quando le lesioni gli avevano invaso la fronte, aveva continuato a portare i capelli raccolti a coda di cavallo anziché rica-
denti sul volto, come invece avrebbe fatto Luke. La sua unica concessione alla malattia era portare il berretto con la visiera in avanti per proteggere il viso dal sole. Con il tempo il tumore gli avrebbe invaso le viscere, e allora avrebbe dovuto scegliere tra una fulminante chemioterapia, una morte lenta o la canna del vetusto revolver con impugnatura di madreperla che teneva sempre a portata di mano. «Allora», disse Soren, accantonando l'argomento mangiariso, «che cosa devo dire a Tomiko?» «Digli che gli auguro di mantenersi sano. Conoscere me non fa bene alla salute.» Soren alzò le spalle. «Sei tu quello che ci rimette.» Verissimo, pensò Luke, sono io che ci rimetto. Ma Tomiko ci guadagna. Tran è la prova vivente di questo. I tre rimasero sul ponte chiusi in un affettuoso silenzio spinellato, i gomiti puntellati sul parapetto, gli occhi fissi sul bayou. La voce di Roger Waters li avvolse, ora furibonda, ora beffarda, ora teatralmente seducente. Il giorno era svanito. Il cielo si era incupito in un viola spettrale, l'acqua in un nero luminoso. Pallidi insetti tracciavano disegni nell'aria. Luke sentì il fruscio e lo sciacquio di un piccolo alligatore che dalla riva entrava nell'acqua lucente. In momenti come questo la tristezza in lui aveva la meglio sulla rabbia. Passava gran parte delle giornate ribollendo in un calderone di impotenza e di rabbia, senza mai dimenticare il suo inesorabile avanzare in una vita amara, verso una morte solitària. Ma qui nella palude era facile osservare la pigrizia fortuita dell'universo. Un virus era una cosa così stupida, priva di senso e di scopo, tuttavia tenace quanto la vita. Era difficile credere che un parassita con un aspetto simile a quello di una pallina da golf mal sagomata potesse vivere nel tuo sangue, cannibalizzare i fragili filamenti del tuo RNA e del DNA, creare una musica dissonante con i tuoi nucleotidi, fare delle tue cellule i suoi servitori. Un parassita così semplice da far sembrare una meraviglia strutturale persino un verme, del tutto inutile, e al riparo dalla morte sino a che l'organismo ospite aveva ancora fiato e avvertiva ancora il dolore. Ma quel parassita albergava in Luke e Soren e Johnnie, e forse era l'unica cosa che li aveva uniti, forse l'unica cosa in grado di farlo. Probabilmente era anche in Tran, nonostante avesse adottato tali e tante precauzioni nei rapporti sessuali da sfiorare il feticismo. Luke aveva adorato e tormentato quel corpo sottile in tutti i modi concessigli da Tran... talvolta anche scon-
finando. Non aveva mai eiaculato dentro a Tran: gli era stato espressamente proibito molto prima che i test stabilissero la sua sieropositività. Ma una volta, durante un languido pomeriggio di pioggia e di sballo, si erano assopiti insieme e in seguito avevano fatto un goffo ma tenero tentativo di scopata. Quando Tran si era riaddormentato, a pancia in giù, con la spina dorsale inarcata e le chiappe morbide per aria, Luke era rimasto sveglio. Aveva sfiorato con le labbra quei vellutati e muscolosi globi, leccato una traccia umida verso il basso e stuzzicato il tenero fiore dell'ano sino a che non si era aperto alla sua lingua. Un frutto proibito... be', quasi. Incantato dalla passività di Tran, Luke lo aveva montato e si era strofinato sino a raggiungere l'orgasmo tra le natiche del ragazzo, poi era rimasto lì a lungo, nell'umido tepore del proprio sperma, prima di ripulire se stesso e l'amico. C'erano stati tanti altri momenti fugaci come quello. E Luke, naturalmente, aveva succhiato qualsiasi fluido emesso da Tran, ogni volta che gli era stato possibile: aveva inghiottito sperma, divorato il tenero ano, baciato la stilla di sangue dall'incavo del braccio. Avrebbero potuto infettarsi a vicenda decine e decine di volte. Luke lo sapeva; e sapeva che Tran sapeva. Alla fin fine, Luke non poteva addurre nessuna scusa per la sua malattia. Quando The Wall giunse all'ultima canzone dopo un percorso di minacce, lusinghe e tormenti, Luke riprese la trasmissione, ma ormai cominciava a sentirsi stanco. Lesse alcuni ritagli tratti dai giornali, perlopiù statistiche di nessuna utilità. In Uganda, un abitante su otto era sieropositivo. Nella popolazione maschile degli USA, nella fascia d'età venticinque-quarantatré anni, le morti per AIDS erano quasi pari a quelle per incidenti. E qui c'era qualcosa in cui affondare i denti: un dentista di Miami ammalato di AIDS aveva deliberatamente ucciso i pazienti iniettando loro il proprio sangue infetto; così aveva dichiarato il suo ex amante in uno show televisivo. Aveva voluto far capire al pubblico che l'AIDS non era una malattia riservata ai gay. «Il dottor David Acer, un perverso demone checca che minaccia casa, famiglia e America con una gocciolante siringa piena del suo sangue ammorbato. Nessuno, di primo acchito, può dire che abbia fatto la cosa giusta. Però pensateci un attimo, eh? Figuratevelo lì, nel suo studio, che guarda nella gola appiccicosa di una stronza fattrice, e ripete tra sé le stupide chiacchiere che quella ha fatto con l'assistente che le ha pulito i denti, e poi pensa che lui tra un anno o due sarà morto e quella troia starà schizzando
fuori il terzo figlio, e la società l'adorerà come dea della fertilità, come modello da imitare, come pilastro di virtù, mentre lui marcirà in una tomba da emarginato. E provate a immaginare... come la siringa di novocaina e quella del suo sangue... si possano... scambiare. «Chiamatela demenza da AIDS, se questo vi fa sentir meglio. «Sono Lush Rimbaud, e per stasera è tutto. La settimana prossima, alla stessa ora, in qualsiasi frequenza riusciremo a inserirci, risponderò alle telefonate degli ascoltatori. Perciò non mancate... a meno che uno di noi, o uno di voi, non sia morto entro la settimana prossima. E potremmo tutti esserlo. Comunque a loro non importa un cazzo. «Grazie e buonanotte.» 7 Davanti al cancello di ferro battuto in Royal Street, Tran spostò il peso del corpo da un piede all'altro prima di premere di nuovo il pulsante del citofono. La pavimentazione sembrava molto dura sotto le suole sottili delle scarpe da tennis. Stava suonando da un bel po' e, se gli fosse andata buca anche adesso, sarebbe ripassato in futuro. Aveva lasciato l'auto con tutti i suoi averi nel parcheggio a pagamento della Jax Brewery e aveva mandato giù un caffè e un bignè prima di trovare il coraggio di venire lì. Poiché lo zucchero e la caffeina gli avevano rimesso in circolo la droga assunta la sera prima, Tran era stato costretto a sedersi a contemplare il fiume solo per darsi una calmata. Verso mezzogiorno era passato davanti al cancello, ma era un'ora assurda per presentarsi a casa di un abitante del Quartiere che conosceva a stento. Non aveva idea degli orari di Jay Byrne, ma immaginava che non fosse un tipo mattiniero. Adesso le ombre pomeridiane stavano allungandosi. Oltre il cancello vedeva il giardinetto di Jay, una ombrosa giungla di pace. Seminascosta dalle fronde, la casetta bianca non svelava nulla. Strinse le dita attorno alle nere volute di ferro. «Ti prego, cerca di essere in casa», sussurrò. «Ti prego, fammi entrare.» Non sapeva esattamente che cosa stesse cercando in quel posto. Da un pezzo si sentiva attratto da Jay, benché sino all'altroieri avesse scambiato con lui ben poche parole che non avessero a che fare con l'acquisto di droga. Ad affascinarlo sin dal primo momento era stato il volto di Jay, con quel pallore e quella magrezza da dissoluto che gran parte dei ragazzi tro-
vavano inquietante. Tran moriva dalla voglia di toccare i capelli lisci e biondi di Jay, che, alla vista, gli apparivano infinitamente morbidi. Gli piacevano le occhiaie grigie e l'ombra altrettanto grigia sotto gli zigomi, le labbra sensuali, gli occhi chiarissimi dal colore indefinito. Fantasticava sul corpo esile di Jay, così diverso dalla solida struttura muscolare di Luke. L'unica altra persona con cui era stato era il ragazzo incontrato alla festa di Natale, Zach, il cui corpo era un'immagine speculare del proprio, snello e ossuto (e Zach, al loro incontro successivo, lo aveva del tutto snobbato). Sognava un uomo alto e magro, con la pelle liscia e chiara. Sognava Jay, si masturbava rievocando il suo viso e immaginandosi il suo corpo, sperava che Jay si facesse vivo nei vari caffè in cui, a rotazione, Tran gestiva i suoi smerci settimanali di acido. Quella settimana, Jay era arrivato. Quando gli aveva chiesto di posare per lui, Tran per poco non aveva avuto un'erezione. Ma Jay non gli aveva rivolto un invito preciso e non poteva certo essere definito un amico. Tran aveva molti conoscenti nel Quartiere, ma oggi non aveva voglia di vedere nessuno di loro. La scenata di quella mattina lo aveva segnato in modi che, sul momento, non erano stati molto evidenti. Per tutta la giornata era stato perseguitato da frammenti della lite: una frase barocca tratta da una delle lettere di Luke, letta dal padre con la sua voce chiara, dal forte accento vietnamita; la vista di se stesso che dava un'ultima occhiata alla casa deserta, chiedendosi se mai avrebbe rivisto la madre e i fratellini. Tran non ricordava di aver mai provato un tale senso di solitudine, neppure nelle tremende settimane seguite alla rottura con Luke. Voleva solo che qualcuno lo stringesse tra le braccia, sussurrandogli vuote parole di conforto per addolcirgli il dolore. Tutti gli amici del Quartiere francese erano giovani, bizzarri e in rotta con la famiglia. Senza esitazione alcuna, avrebbero capito il suo problema, gli avrebbero detto che suo padre era un coglione, e la cosa sarebbe finita lì. Il guaio era che Tran capiva anche troppo bene il punto di vista di suo padre. Ma purtroppo non poteva far nulla in proposito. Talvolta ne aveva le tasche piene della gente della sua età. Jay non era in casa, non rispondeva al citofono. Con un improvviso senso di disperazione, Tran si appoggiò al pulsante. Non sapeva neppure perché gli sembrasse tanto impellente vedere Jay, però non aveva altri piani. Aveva denaro sufficiente per scendere in un hotel, ma non sopportava l'idea di dormire tutto solo in una camera anonima. Rispondi, pensò, cercando di inviare il messaggio attraverso il campanello. Ti prego, rispondi, fammi entrare. Ti prometto che non lo rimpiangerai.
Stava per rinunciare all'impresa e accasciarsi disperato contro il cancello quando il citofono entrò in funzione. «Sì?» chiese la voce di Jay, stanca, remota e secca. «Sono Tran.» «Lo so. Ti vedo.» Tran alzò lo sguardo verso la sommità del muro di mattoni che cintava la proprietà di Jay. Era sormontato da punte di ferro e da una spirale di filo tagliente come una lama di rasoio. A un angolo del cancello era installata una piccola videocamera puntata verso il marciapiede. «Be'...» Che dire adesso? Perché mai era venuto lì? «Ci siamo visti ieri. Mi hai chiesto di posare per te.» Una lunga pausa, poi: «Ah... già». Tran sentì un nodo alla gola. Jay aveva un tono tutt'altro che entusiasta. «Non potresti...» La voce di Jay si spense. Adesso sembrava disorientato, e Tran si chiese se fosse ancora in viaggio con l'acido. «Potresti tornare tra un'ora? Sono piuttosto occupato.» Era con un altro. Sicuro come una rivelazione divina. Era con un'altra persona e Tran aveva interrotto la loro scopata. Gli occhi gli si annebbiarono di lacrime. Prima aveva ritenuto di essere solo: ora sapeva davvero che cosa fosse la solitudine. «Scusa se ti ho disturbato.» Si allontanò di scatto dal citofono. La voce di Jay lo seguì. «No, aspetta! Non andar via. Ho voglia di vederti.» La nota d'insistenza nella sua voce fece tornare indietro Tran. «Vorrei fotografarti stasera. Solo che adesso sto... finendo una cosa. Perché non ripassi tra un'ora?» La voce di Jay era suadente, quasi carezzevole. Quel mutamento così repentino diede a Tran un brivido lungo la schiena. Come poteva una persona cambiare marcia con tanta rapidità e tanta naturalezza? Ma la voce lo allettò, ricordandogli la ragione per cui era venuto lì. «Se sei sicuro che a te sta bene», disse. «Mi sta ultrabene», gli rispose Jay prima di riattaccare il citofono. Tran rimase sul marciapiede, gli occhi ancora brucianti di lacrime d'imbarazzo, il corpo improvvisamente, assurdamente in preda all'eccitazione. Si diresse verso il Café du Monde. Non dormiva da trenta ore, aveva in corpo almeno cinque droghe diverse, ed era privo di fissa dimora. Era tempo di prendere un altro caffè. Aveva bisogno di darsi la carica. Nella casa di Royal Street, Jay, di carica, ne aveva fin troppa. Forse era
caricato sino all'esplosione. Nel corso della notte, tazza dopo tazza, aveva fatto fuori una bottiglia di cognac mescolata con tè Earl Grey. Aveva preso tre dosi dell'acido vendutogli da Tran e ne aveva sciolte altre due nel cognac in modo da non interrompere il volo con un tonfo. E nonostante tutti gli stimolanti, era riuscito persino a fare un sonnellino di primissima mattina. Ma la testa gli sembrava ancora piena di cotone, il pene era flaccido e dolorante come un verme infilzato su un amo e le mascelle gli dolevano per aver addentato senza posa carne che non opponeva più resistenza. Il bagno era un mattatoio. Gran parte del corpo dell'ospite, sanguinolento e puzzolente, era sparso sul letto. E Tran sarebbe ripassato tra un'ora. Dalla cucina prese gli strumenti necessari e andò in camera. Il ragazzo — Jay non se la sentiva più di dargli un nome, neppure quello scherzoso di Fido — era sdraiato di traverso sul materasso, le braccia levate sopra la testa, i piedi penzolanti sul parquet. Il piumone e le lenzuola erano impiastrate del sangue sgorgato dalla grande ferita al ventre. Sul letto e sul comodino erano sparse foto polaroid che documentavano i vari passaggi dell'ospite da essere umano a oggetto: svenimento, risveglio, furia, stordimento, pace. Jay le raccolse e le cacciò in un cassetto con centinaia di altre analoghe. Stese a terra sacchetti per la spazzatura e fogli di un vecchio numero del Times-Picayune e vi posò sopra il ragazzo. Dispose sul pavimento, a portata di mano, una bacinella d'acqua, un rotolo di asciugamani di carta, svariati sacchetti e un grosso secchio di plastica. Il coltello che preferiva era un normale utensile di cucina, ben affilato, ma del tutto comune. Cominciò con il tagliare la testa. La carne del collo era tenera e si apriva come il burro. Giunto alla spina dorsale, inserì la punta del coltello tra due vertebre e le scostò l'una dall'altra; nel contempo, afferrò una grossa ciocca di capelli e torse la testa di lato. La spina dorsale si spezzò con un clic. Jay tagliò il restante lembo di pelle e la testa si staccò dal torso. I capelli erano un arruffio incatramato, il viso era gonfio, irriconoscibile. La punta della lingua fuoriusciva tra denti sanguinolenti, quasi morsicata via nell'estasi del dolore. Non era la prima volta che Jay notava quel particolare. Infilò la testa nel sacchetto di plastica viola di un drugstore, e passò alle estremità. Mani e piedi finirono anch'essi in sacchetti del drugstore, previa sciacquatura nella bacinella per rimuovere il grosso del sangue, e poi legati ben bene come regali natalizi. Adesso veniva quella che doveva essere la parte migliore, quella che gli
piaceva affrontare con calma. Jay premette i pollici nella morbida zona di pelle sotto lo sterno, li fece scorrere lungo il torso sino a infilarli nel grande taglio all'addome. Ne aprì i lembi delicatamente tirando sino a che la pelle cominciò a lacerarsi. Le mani gli scivolavano spesso e talvolta era costretto ad aiutarsi con il coltello, ma ben presto si ritrovò di fronte un'apertura che andava dal pube al torace, un tripudio di rosso. Il calore degli organi appena esposti salì verso di lui. Jay chinò il volto su quel tanfo di visceri, quella miscela di sangue e merda e gas segreti, il raro aroma delle interiora. Batté le palpebre e dilatò le narici per il piacere. Ma non c'era tempo per divertirsi. Con questo ragazzo se l'era già goduta abbastanza quand'era vivo. Questa volta la dissezione sarebbe stata una cosa di routine. Tirò fuori metri di intestino che, tra le sue mani, sembravano avere la consistenza di sanguinacci morbidi, il sacchetto vizzo dello stomaco, i reni minuscoli e duri, l'appariscente fegato, grande e colorato come un vistoso fiore subtropicale. Il tutto finì nel secchio di plastica. Infilò la mano sotto le costole e, tagliato il diaframma, strappò via i polmoni spugnosi e infine quel muscolo gommoso che era il cuore. Se ne avesse avuto il tempo, avrebbe tagliato la cassa toracica. Richiedeva una certa fatica e l'impiego di una sega, ma a Jay piaceva vedere la sistemazione simmetrica dei vari muscoli e organi, così diversa dall'intasamento addominale. E le costole, una volta tagliato il tessuto connettivale cartilagineo, si aprivano come ali scarlatte striate di neve. Ma adesso andava di fretta e lavorava alla cieca. Benché corresse il rischio di tagliarsi e quindi di mescolare il proprio sangue con quello dell'ospite, la preoccupazione che assillava Jay in quei momenti era assai più arcana. Una volta, da bambino, nei terreni paludosi della tenuta di famiglia, aveva infilato la mano in un promettente buco alle radici di una quercia e aveva sentito dei dentini puntuti conficcarsi nella sua mano. Jay aveva afferrato la bestiola (una specie di roditore) e l'aveva stritolata con le mani. Poi, affascinato dalla sensazione delle ossa che si spezzavano, aveva fatto a brandelli l'animaletto. Ma non aveva mai dimenticato il dolore lancinante, il panico e l'orrore che l'avevano invaso, la certezza di essere stato aggredito da qualcosa di velenoso. E quel ricordo gli tornava spontaneo alla mente ogni volta che allungava la mano in una cavità toracica. Quando faceva sesso con gli ospiti usava sempre un preservativo, ma era un particolare quasi secondario. Aveva provato a mettere i guanti quando li
sezionava, li sventrava e li faceva a pezzi, ma gli era risultato insopportabile. Poteva rivestire il cazzo, ma le mani avevano bisogno di sentire la setosità delle ferite, degli organi interni. E considerando gli altri usi cui era destinata la loro carne, era stupido prendere delle precauzioni. Adesso il corpo era un contenitore svuotato. Le lucide nodosità delle vertebre erano visibili sotto uno strato sottile di tessuto rosa perlaceo. Qualche brandello di carne pendeva dalle ossa del bacino nella cavità addominale, una vista che a Jay ricordò i filamenti di polpa rimasti nelle zucche svuotate per Halloween. Solo l'arco delle costole sembrava conservare una certa forza, e Jay si compiacque di aver lasciato intatto il torace. Partendo dall'altezza della cintola, cominciò a tagliare e a tagliare sino a che le due metà del corpo rimasero unite solo dalla spina dorsale. Inserì di nuovo la punta del coltello tra le vertebre e la rigirò per separarle. Il ragazzo si divise con facilità, stillando ancora qualche goccia di sangue e altri fluidi, ma in quantità ridotta. Jay aveva fatto un buon lavoro. Infilò le due metà in sacchi separati, gli organi in un terzo — tutti sacchi grandi e robusti, destinati a spazzatura umida e pesante. Uno per uno, portò fuori i sacchi passando dal cortile sul retro per raggiungere gli antichi alloggi degli schiavi, lungo la parte posteriore del muro di cinta. Era una baracca lunga, con il tetto basso e inclinato, torrida e angusta all'interno. Grazie all'antico amore che sui vent'anni aveva nutrito per la cocaina, Jay non aveva più l'olfatto di un tempo, ma persino lui era in grado di percepire un certo fetore in quel luogo. Appoggiò i sacchi in un angolo dove già ne erano stati ammassati alcuni, in vari stadi di frollatura. Nell'arco di giorni o settimane, producevano succhi stupefacenti. L'operazione aveva richiesto poco più di mezz'ora. Benché preferisse elevarla al rango di arte, poteva anche limitarla al minimo richiesto dalla scienza. Rientrato in casa, ripulì tutto il bagno, e accese in tutte le altre stanze bastoncini di incenso e candele d'ogni genere: eleganti candele dorate, ceri votivi all'aroma di frutta, riproduzioni in cera nera di feticci vudù e di peni, candele portafortuna comprate nel negozio di alimentari all'angolo, che vendeva anche biglietti delle lotterie e radici medicamentose, ceri da chiesa in candelieri di vetro ornati con immagini di vezzosi e giovani santi e cuori sanguinanti. Infine diede una pulita ai pavimenti, cambiò le lenzuola, fece una rapida doccia, provvide a un sottofondo di musica sommessa e si sedette ad aspettare Tran. Quando, venti minuti più tardi, suonò il citofono, alla radio Glenn Miller era lanciato nello swing e Jay oscillava tra la veglia e il son-
no. Talvolta stava tre o quattro giorni senza dormire, ma in quel momento cominciava a sentirsi un po' insonnolito. Premette il pulsante che apriva il cancello e andò incontro a Tran sulla porta di casa, vagamente stupito nel vedere che era già sera. Quel giorno era proprio volato. Il ragazzo era vestito tutto di nero: fuseaux, scarpe da tennis alte, camicia di seta che lasciava scoperta gran parte del torace levigato. La chioma lucente era raccolta in una coda di cavallo, con lunghe ciocche ricadenti sul volto. E il viso era illuminato da un sorriso di sollievo, come se quel lurido pervertito di Jay Byrne del Quartiere francese fosse la persona che più desiderava vedere al mondo. Decisamente era valsa la pena di dare quella vorticosa ripulita alla casa. Tran rimase sulla soglia senza accennare a entrare. Jay lo fissò, curioso di vedere che cosa avrebbe fatto. Ma l'altro non fece nulla: si limitò a restare dov'era, sorridendo come un cretino, guardando Jay negli occhi, come se fosse ipnotizzato. Di solito, nessuno riusciva a reggere lo sguardo di Jay; era un gioco che talvolta faceva nei bar. Ma Tran lo fissò sino a che fu Jay a guardarsi alle spalle, verso l'interno della casa. «Vuoi accomodarti?» «Oh! Sì, scusa», disse Tran passandogli accanto per accedere all'ingresso. «Ieri sera mi sono fatto di acido e di Ecstasy e poco fa ho bevuto tre tazze di caffè. Sono un po' sull'intontito.» Sembri sempre un po' sull'intontito, Jay ebbe la tentazione di rispondere. Ma quello non era il modo di trattare un ospite. E poi doveva ammettere che il tipo di imbambolamento di quel ragazzo era piuttosto attraente. Unito all'androginia asiatica del suo volto, gli dava un'aria innocente e lo faceva apparire più giovane di quanto probabilmente non fosse. Andarono in salotto. La stanza era tutto un brillio di candele e avvolta dell'inebriante fumo dell'incenso. Jay si guardò attorno cercando tracce degli eccessi della notte. Su un tavolino c'era la tazza del caffè di Fido, probabilmente con i residui dei quattro tranquillanti e delle tre pasticche di acido. Ma in tutto quell'abbagliante trionfo di rosa e d'oro, Tran non avrebbe certo notato una tazzina fuori posto. «Wow! Che splendida stanza!» «Ti piace?» «Sì. E così 'romantica'.» Tran si girò verso di lui. Quegli occhi orientali con il loro scuro brillio trapassarono Jay. Questo ragazzo era stupendo... ma era del posto, Jay ricordò a se stesso; prendi delle foto ma non toccarlo, perché se cominci potresti non riuscire a fermarti. «Ma sai una cosa? Questa musica fa schifo.»
Jay non badava più al suono della radio. Adesso stava trasmettendo a tutto volume un arrangiamento per orchestra di «Seasons in the Sun». Che imbarazzante! Fece un gesto seccato. «Non so neppure che cos'è. Cambia stazione, se vuoi.» Tran si avvicinò all'apparecchio e girò la manopola. Trovò subito qualcosa di suo gradimento, una voce maschile con un fondo musicale lento, realizzato al sintetizzatore. «Perfetto. Questa dev'essere la LSU da Baton Rouge. Ti piacciono i Nine Inch Nails?» «Oh, sì.» Jay non aveva la più pallida idea di chi fossero. Ascoltava molta musica, ma non aveva alcuna preferenza individuale. Probabilmente era nato senza il bernoccolo della musica. Un pezzo come «Seasons in the Sun» o qualche schifezza analoga poteva piacergli quanto una fuga di Bach con le sue sconvolgenti vibrazioni, e quanto la musica che veniva trasmessa in quel momento. Ma non faceva una distinzione tra i generi musicali. Li gradiva tutti in modo acritico, e nessuno di essi gli comunicava qualcosa in particolare. Quando era in compagnia di ragazzi dell'età di Tran faceva una fatica terribile per stabilire quale musica fosse «in» e quale fosse decisamente «out». Tran sedette all'estremità di un divanetto a due posti, lasciando chiaramente intendere che Jay poteva accomodarsi accanto a lui. Jay ci riflette per un istante e decise di sedersi sulla poltrona di fronte. L'unico sbocco di quest'incontro dovevano essere le foto. «Allora», buttò lì, «com'era il rave?» «Il?...» Tran non finì la frase. Sembrava smarrito, come se non avesse idea di dove aveva passato le ultime ventiquattr'ore. Poi scoppiò a ridere. «Il rave. Ah, già. Se sapessi quanto rimpiango di essere andato a quello stupido rave... ma prima o poi sarebbe successo comunque. Doveva capitare.» «Che cosa?» chiese Jay, un po' seccato, augurandosi che il ragazzo cominciasse a rinsavire. Il rimbambimento aveva i suoi pregi, ma l'isterismo no. «Oh... la mia caduta in disgrazia con la famiglia... i miei scheletri nell'armadio... il mio sangue appestato. Scegli tu.» Tran fece un'altra risata. Un suono inquietante, infantile, distaccato. «Stamattina sono stato cacciato di casa. Mio padre ha scoperto che sono gay ed è convinto che abbia l'AIDS.» «E ce l'hai davvero?»
«All'ultimo controllo non è risultato niente.» «E allora qual è il problema?» «Il problema è che... adesso nessuno mi ama.» Si accigliò di fronte al pathos delle proprie parole e ancorò una ciocca di capelli dietro l'orecchio dai molti anelimi. «Insomma, non so dove andare. Pensavo...» «Che cosa pensavi?» «Delle volte non ti capita di...» Tran lanciò un'occhiata supplichevole a Jay, il quale rifiutò di venirgli in aiuto. Gli dava un certo piacere leggere la speranza mal dissimulata negli occhi di Tran. «Avevo l'impressione che tu accogliessi ospiti.» «Be', sì. A volte. Ma di solito si tratta di gente che viene da fuori e non si ferma mai molto.» Jay riflette su che cosa gli convenisse dire. Era sempre deciso a non toccare Tran. Ma se gli avesse permesso di trattenersi lì per la notte, di certo ne avrebbe ricavato delle buone foto. Magari si sarebbero fatti una sega in compagnia, ma Jay non l'avrebbe sfiorato per nessuna ragione. «Vuoi stare qui da me?» chiese. «Sì. Mi piacerebbe molto.» Tran gli rivolse uno dei suoi sorrisi mozzafiato. Poi, con un movimento aggraziato, si alzò dal divanetto per finire in braccio a Jay. «Lo voglio da molto tempo», disse posando le sue labbra su quelle secche di Jay. Jay venne preso alla sprovvista. Prima di afferrare la situazione, aveva già stretto tra le mani la nuca di Tran e le loro lingue si erano fuse insieme come cioccolato caldo. Il cazzo dolorante si ridestò e premette contro i pantaloni. Le dita di Tran lo sfiorarono e s'interruppero prima di procedere con maggior decisione. Il gemito di Jay fu un'espressione di eccitazione, di dolore e di sconfitta. Infilò la mano sotto la camicia di Tran, toccò il rilievo setoso delle vertebre e proseguì sotto la cintola dei fuseaux per toccare la fessura vellutata tra le natiche. Tran interruppe il bacio per respirare. I suoi occhi brillavano di emozione febbrile. Le sue labbra erano umide e atteggiate a un vago sorriso. La punta rosata della lingua guizzò a leccare la saliva. Alla radio, la canzone finì e nel salotto si diffuse la voce del DJ, bassa, roca e ostile. «E questa... questa è per il mio perduto amore, dovunque egli sia. Ci sei? Mi ascolti? Ti fa ancora schifo il suono della mia voce? Non lo saprò mai. Eccoti un'altra canzone, vermiciattolo mio.» Nell'istante prima che Tran si irrigidisse tra le sue braccia, Jay non era sicuro se avrebbe preferito dilaniarlo lentamente o buttarlo a terra e farse-
lo. Ma all'improvviso Tran era scattato in piedi e si era lanciato all'altro capo della stanza urlando un'imprecazione inintelligibile e spezzando a metà frase un'accorata canzone. «Stronzo!!!» strillò Tran. «Perché proprio adesso? perché qui! Come hai fatto a trovarmi?» Si artigliò i capelli disfacendo la coda, facendo ricadere le ciocche sul volto. «La mia vita...» Adesso aveva il respiro ansante, «...è...» Cadde in ginocchio sul tappeto cinese lanciando un brivido subliminaie nella cristalleria del salotto. «...Talmente... fottuta!» Si buttò sul tappeto singhiozzando. Jay non sapeva che fare. Aveva visto molti ragazzi piangere, ma solo per sua iniziativa. Rimase a guardare, senza parole. Pian piano il convulso di pianto si placò, i laceranti, profondi singhiozzi tacquero, e Tran si girò di fianco assumendo una posizione semifetale, dando la schiena a Jay. Contro il disegno rosso e oro del tappeto, i suoi capelli avevano la nera brillantezza dell'ossidiana. Se Jay si fosse seduto a terra accanto a lui, Tran gli avrebbe permesso di passargli delicatamente le dita tra la folta massa di capelli, di leccargli le lacrime sul volto, di spogliarlo e possederlo proprio lì, sul tappeto. Jay ne era certo quanto era certo di conoscere l'anatomia umana. Ma dopo una scenata come quella, preferiva astenersi. Tran si era rivelato imprevedibile, e le persone imprevedibili erano pericolose. Perciò Jay rimase in poltrona, sentendo ancora il peso del fantasma di Tran sulle ginocchia, e si lasciò trasportare dai propri pensieri. Che naturalmente riandarono a quello che aveva fatto la notte prima, e quando infine Tran aprì bocca, lui aveva già quasi dimenticato la sua presenza. «Mi spiace», disse Tran, piano. Poi, mettendosi supino e puntando gli occhi al soffitto: «No, cazzo. Non mi spiace per niente. Sono stufo di scusarmi con tutti per cose al di fuori del mio controllo. Ero venuto qui sperando di poterti piangere sulla spalla e magari dimenticare i guai con un bell'orgasmo». Girò il capo per guardare Jay. Il quale ricambiò lo sguardo senza però muoversi né parlare. Qualche istante dopo Tran riprese. «Ma sapevo che prima o poi avrei avuto un crollo. Vedi, dalla primavera scorsa niente ha più avuto un senso nella mia vita. La causa di tutto questo è il tizio che hai sentito alla radio poco fa. È stato il mio amico per un anno e mezzo. Il mio primo amico. Il mio amante. Poi lui...» Le lacrime si riaffacciarono ma Tran le inghiottì; Jay poteva quasi sentirle scendere nel liscio canale della gola. «Si è ammalato. E ha cercato di uccidermi.» Questo strappò Jay al suo torpore. «Ha cercato di ucciderti?» «Ha cercato di iniettarmi il suo sangue.» Tran inspirò ed espirò a fondo.
«Avevamo l'abitudine di farci pere di eroina insieme. Mica gran cosa: solo un paio di volte. Avevamo già smesso quando venimmo a sapere i risultati del test. Il suo era positivo e il mio... no. Eravamo sempre stati molto attenti. Ma una volta, al mio risveglio, me lo sono visto lì con tutto l'occorrente già pronto... e si è prelevato del sangue dal braccio... e stava per cacciarmi dentro l'ago. «L'ho guardato e gli ho detto: 'Luke, che cosa fai?' e lui ha risposto: 'Voglio che tu mi ami per sempre', e poi si è messo a piangere. Avevo paura di avvicinarmi a lui perché aveva ancora in mano la siringa. E così sono rimasto lì a guardarlo piangere. Dopo un po' se l'è lasciata sfilare di mano. Non sapendo che farne, l'ho infilata in una bottiglietta di Coca-cola vuota che ho chiuso con nastro adesivo nero. Ce l'ho ancora.» «Perché?» chiese Jay, benché avesse già indovinato la ragione. «Perché era sua. Praticamente, è stata l'ultima cosa che mi ha dato. Non ce la facevo a buttarla via. E poi perché è un rifiuto tossico.» «Non si sa mai quando potrai avere bisogno di un'arma.» Tran reagì alla battuta con un sorrisetto. «Luke teneva sempre un rasoio nello stivale. Dopo che si è ammalato, ha detto che se qualcuno l'avesse fatto incazzare, si sarebbe tagliato un polso e gli avrebbe fatto sprizzare il sangue negli occhi.» «Sarebbe stato capace di farlo davvero?» «Assolutamente.» A corto di commenti, Jay tacque. Poi Tran disse: «Immagino che tu ti chieda come mai mi sono messo con lui». «No, non proprio.» Tran parve non udirlo. «Mi dicevo che non era sempre stato così, che era cambiato con la malattia. Ma non è vero. Luke è sempre stato pazzo. Ha sempre avuto una vena di violenza. È brillante come scrittore e come parlatore. E bravissimo nel far sembrare belle le cose. Ma anche prima di scoprire che era sieropositivo, era sempre incazzato con il mondo, ogni giorno della sua vita. Diceva che gli sarebbe piaciuto svegliarsi almeno una volta senza sentirsi pieno di rabbia... almeno per un giorno. Ma non ci riusciva. «Adesso fa un programma in una radio pirata. Ha cominciato dopo la nostra rottura, e quindi non so da dove trasmettano né chi siano quelli che lavorano con lui. Ma lui è quello che tutti conoscono. Ha assunto il nome di Lush Rimbaud. Sento gente nel Quartiere che parla di lui, e ho paura di dire qualsiasi cosa in caso lo riconoscessero. Talvolta sostiene che bisogna ammazzare la gente, gli etero. Animali da riproduzione, li chiama. Politici,
predicatori e via dicendo... ma anche le persone normali, chiunque lo faccia incazzare. Quelli della Commissione di controllo della radio e della televisione gli sarebbero addosso in un baleno. Non voglio che lo prendano. Non voglio che muoia in prigione.» «Gli vuoi ancora bene?» Tran ci pensò su prima di annuire. «Sì. Non voglio rivederlo mai più, ma mi preoccupo per lui. È la persona più intelligente che io abbia mai conosciuto, e la sola che io abbia amato. Vorrei che vivesse bene... ma a questo punto non mi resta che augurargli una morte decente.» «Una morte decente.» La frase parve curiosa a Jay. Le morti da lui provocate erano flagrantemente indecenti, e proprio per questo gli davano piacere. Erano pensieri insoliti per lui. Passava gran parte del tempo a escogitare modi per procurarsi dei ragazzi per poi sottoporli a lente torture sino a farli morire e giocare con i loro resti rivivendo i particolari. Ma di rado si perdeva ad analizzare le proprie motivazioni. Era semplicemente una cosa che aveva bisogno di fare, di cui aveva sentito l'esigenza per gran parte della vita e ormai praticava da quasi dieci anni. Talvolta il desiderio si faceva più intenso, e gli occorreva una vittima la settimana. Altre volte la voglia si assopiva e per mesi si limitava a scattare foto e a mandar via illesi i ragazzi, con qualche soldo in tasca. Ma prima o poi il bisogno lo riassaliva, e per lunghi periodi tutti i suoi ospiti diventavano residenti permanenti. Tran si alzò e si stiracchiò. Tra il fondo della camicia e l'elastico dei fuseaux Jay vide una striscia di pelle liscia e dorata. Gli venne voglia di posare le labbra su quella zona esposta, carezzarla con la lingua, poi affondarvi i denti e strappare sino a sentire il sapore del sangue, il calore della carne, la gelatinosa essenza della vita. Il desiderio gli scoppiò dentro, gli strizzò le budella, gli fece prudere i testicoli. Non si mosse, per poco non trattenne il fiato. «Posso darmi una lavata alla faccia? Devo avere un aspetto orrendo.» Jay parlò a stento, le labbra impietrite. «In fondo al corridoio.» Tran uscì dal salotto. La smania improvvisa di Jay si placò un poco. Sentì un forte dolore alle mani e si accorse di averle strette così forte da cacciarsi le unghie nei palmi. Si sfregò gli occhi, si terse il sudore dalla fronte e sopra il labbro. Ma che cosa succede, esattamente? si chiese. Era l'ospite più pericoloso che avesse mai accolto in casa. I genitori di Tran lo avevano cacciato via quella mattina, ma era probabile che lo cercassero di lì a qualche giorno, o anche nell'arco di poche ore. Il desiderio di possedere una così bella creatura era inevitabile. Ma a-
scoltando la dolorosa storia di Tran, Jay aveva provato qualcosa di molto simile alla simpatia. Nessuno gli aveva mai parlato con tanta onestà. Aveva incontrato ragazzi che si fidavano di lui per cretineria, per disperazione o per entrambe le ragioni. Aveva conosciuto ragazzi che si mostravano apertamente diffidenti dal momento dell'incontro sino a quando perdevano coscienza. Ma nessuno aveva mai valutato le possibili alternative per poi decidere di fidarsi di lui come, a quanto pareva, aveva fatto Tran. Tran non l'aveva trattato come una facile scopata o una potenziale vacca da mungere, come faceva gran parte dei ragazzi. Si era comportato come se fosse in presenza di un amico. Jay non aveva mai avuto un amico vivo e vegeto, e aveva dei dubbi su come ci si regolasse in quella situazione. Tutti i compagni d'infanzia, costretti a frequentarlo dalle loro madri solo perché lui veniva da una famiglia bene, erano sempre stati guardinghi con lui, spesso anche crudeli, e si erano dileguati il più presto possibile. I suoi ospiti si trasformavano in amici solo da morti, ma erano del tutto prevedibili: gli sarebbero appartenuti per sempre perché non potevano più andarsene. Una creatura vivente poteva sempre andarsene. Teste mummificate e ossa calcinate non potevano neppure contemplare un simile tradimento. Tutti i ragazzi di Jay diventavano parte di lui. Sarebbero stati con lui per sempre, carne della sua carne, e lo avrebbero amato dal di dentro. Sedette tranquillo, in attesa del ritorno di Tran. Tran si spruzzò acqua fredda sul viso e la lasciò gocciolare mentre si guardava all'enorme specchio sopra il lavabo. Il bagno di Jay era tutto rivestito di piastrelle bianche e nere, piccole alle pareti, grandi sul pavimento. Il ripiano, il lavabo, gli asciugamani, la tenda della doccia e lo spazzolino da denti (infilato in un bicchiere di cristallo) erano neri; water e vasca erano di porcellana bianca, immacolata. Il fondo della vasca era imperlato d'acqua, ma nulla, neppure un capello, sporcava quella superficie brillante. Nel bagno non c'era niente da leggere, nessun articolo da toilette tranne un sapone bianco, un rotolo di carta igienica bianca e un flacone di shampoo nero opaco. Tran ripensò al bagno di casa sua, con il ripiano del mobile da toilette ingombro di tutto un assortimento di prodotti per capelli, per la pelle, qualche matita per occhi e il dentifricio preferito dei gemelli al gusto di gomma da masticare. C'erano asciugamani coloratissimi, magliette e mutande buttate qua e là e, in un angolo, un contenitore di poliestere espanso pieno di giocattolini da bagno appartenenti ai gemelli. Qui, nulla faceva pensare
che un essere umano si servisse del bagno ogni giorno. Nel mobiletto sotto il lavabo c'erano tre cassetti. Tran li aprì uno dopo l'altro. Il primo conteneva un tubo di dentifricio, un rasoio di sicurezza e un tubo di gel per barba dall'aria costosa, spazzola e pettine d'argento, forbicine, deodorante. Quello di mezzo era vuoto. Nell'ultimo c'era un sacchetto di plastica pieno di qualcosa di morbido e multicolore. Prendendolo in mano, Tran si accorse che si trattava di capelli umani di ogni colore e consistenza, alcuni chiaramente tinti. Rimise subito a posto il sacchetto, con l'impressione di essere incappato in un vergognoso segreto. Accanto alla cassettiera c'era anche un armadietto. Tran inserì le dita nella scanalatura in cima allo sportello e lo aprì. All'interno c'era un secchio pieno d'acqua che aveva un vago odore di disinfettante. Immersi nell'acqua vide svariati giocattolini dall'aria perversa, degni di un sex-shop: rosa carne e nero lucente, morbida gomma e plastica sagomata, a doppia punta, a doppia estensione, crestati, bitorzoluti e svasati. Dopo il sacchetto di capelli, questa collezione non lo scioccò più di tanto. Anzi, non poté trattenersi dall'immaginare Jay che usava su di lui uno di quei gingilli, sussurrandogli all'orecchio, carezzandogli il fondo schiena, inserendo una strana forma nelle profondità del suo intestino. Si sciacquò la bocca con il dentifricio di Jay e uscì dal bagno. Al lato opposto del corridoio c'era la camera da letto, nei cui bui recessi brillava qualche lume di candela. Tran vide solo una brillante distesa di parquet e un grande letto. Ripercorrendo il corridoio notò, alla sua sinistra, l'arco attraverso il quale si accedeva alla cucina. Era buia anche quella, ma sembrava impeccabile e lustra come il bagno. Tornò in salotto dove Jay lo attendeva, immobile e rigido come quando l'aveva lasciato. La fiamma della candela proiettava sul suo volto una luce dorata. Il fumo del bastoncino d'incenso gli avvolgeva torso e testa facendolo apparire etereo. Il suo volto, di profilo, aveva la severa serenità di quello di un angelo. Tran avrebbe voluto avvicinarsi a lui, stargli accanto, continuare ciò che Luke aveva interrotto. Ma si trattenne, non sapendo bene come Jay avesse preso la sua scenata, e non avendo la certezza di essere un ospite gradito. Si appoggiò allo stipite della porta. All'improvviso, un grumo di timidezza gli salì in gola, minacciando di soffocarlo. «Vuoi ancora che posi per te?» chiese con voce tanto bassa da fargli dubitare di essere stato udito. Jay si scosse, ma non lo guardò. «No... non ora.» «Vuoi che me ne vada?»
«Sarebbe meglio.» Non per me, pensò Tran. Sentì le palle doloranti e il cuore scendere sino ai tacchi. Il bagno lo aveva un po' sgomentato... non tanto per gli strani oggetti nel cassetto e nell'armadietto, ma più che altro per quel suo aspetto talmente asettico da rendere difficile immaginare che una persona potesse lavarsi, radersi e cagare ogni giorno in un luogo simile. Aveva sentito quello che si diceva in giro su Jay: era un tipo strano, di un gelo polare; era capace di farti un pompino senza mai guardarti negli occhi; la sua casa aveva un odore strano. Veniva ritenuto molto ricco, con tutte le concomitanti eccentricità. Ma a Tran tutto questo importava poco. Le rare volte che aveva parlato con Jay aveva avvertito un'aura di forza sopita, di controllo totale. Quest'uomo avrebbe scoperto i suoi più riposti desideri, e sarebbe stato capace di dirottarli tanto verso il dolore quanto verso il piacere. Aveva avuto un'analoga certezza quando aveva conosciuto Luke, e aveva visto giusto. Ma mentre la forza di Luke era brutale, da maschio dominante, quella di Jay appariva sfumata e raffinatissima. Non voleva andarsene. Non se la sentiva proprio di venir cacciato fuori da una casa per la seconda volta in una giornata. L'immagine di se stesso accoccolato tra le pallide braccia di Jay, appagato e pronto a dormire, lo aveva sorretto così a lungo che ormai non poteva più concepire di passare la notte altrove, in un altro modo. Sentendosi un'intrigante merdaccia — epiteto con cui l'aveva gratificato Luke una volta — Tran si piazzò davanti alla poltrona di Jay, si slacciò la camicia e la fece morbidamente ricadere sul pavimento. Sentì gli occhi dell'altro puntarsi sul suo petto. «Non me ne frega niente di essere fotografato», disse. «Farò qualsiasi cosa tu voglia. Desidero solo conoscerti. Per favore, non mandarmi via.» Jay si alzò in piedi. Era quasi quindici centimetri più alto di Tran, e la sua dinoccolata magrezza nascondeva una struttura vigorosa e scattante. Tran non chiedeva di meglio che abbandonarsi tra le sue braccia, premergli la testa contro il petto e aspettare l'assalto. Ma Jay si limitò ad afferrare Tran per le spalle e a fissarlo con uno sguardo tra l'infuriato e il perplesso. «Ma che ci fai qui? Come sarebbe a dire che vuoi conoscermi? Perché?» «Perché in te c'è qualcosa che mi affascina», gli rispose Tran, con sincerità. Sospirando, Jay abbassò le mani, poi le fece scivolare lungo il torso del ragazzo. A quel tocco, Tran ebbe un brivido. S'impose di restare fermo, di lasciare che, per il momento, fosse Jay a carezzarlo. Perché, come Luke,
era tipo da voler condurre il gioco. Il pollice di Jay sfiorò i capezzoli di Tran e, dopo una pausa, tracciò lenti cerchi intorno a essi. Tran si lasciò sfuggire un piccolo gemito di piacere. Rovesciò il capo all'indietro, offrendo supplichevole la morbida linea della gola. Le labbra di Jay gli s'incollarono alla base del collo, salirono sino al mento e gli sfiorarono la bocca. Poi Jay si scostò, e i suoi occhi erano di un'intensità terrificante, picchiettati dai puntolini luminosi del lume di candela, velati da un desiderio tanto pressante da sconfinare nel dolore. «Spero che tu sia pronto per qualunque cosa possa succedere», disse a Tran. La sua voce era greve di oscure promesse. «Qualunque cosa», sussurrò Tran. *** Alla fioca luce di candela della camera scalciarono via le scarpe, si abbracciarono e si lasciarono cadere sul letto in un susseguirsi di lotta, aggressione, resa. Jay infilò i pollici nella cintola dei fuseaux di Tran e glieli tirò giù sino all'inguine, dove s'impigliarono nel pene eretto prima di venire sfilati del tutto. Jay si slacciò i calzoni, li abbassò e si buttò su Tran, avvolgendo quelle membra lisce e delicate tra le sue, più rudi. «Che bello sentirti vicino», gli mormorò Tran nell'orecchio. Questo lo stupì: i ragazzi, perlopiù, non parlavano a letto, nemmeno quando erano ancora coscienti. Non sapeva se fosse il caso di rispondere o no. Posò le labbra sulla bocca di Tran, evitando così il problema. A Jay piacevano i baci violenti e profondi; le lisce mucose di una giovane bocca lo rendevano frenetico. Succhiò le labbra di Tran sino alla tumefazione, gli invase la bocca con la lingua. Tran lo strinse tra le braccia sottili e gli graffiò delicatamente la schiena con le unghie affilate. Le loro gambe s'intrecciarono e i bacini s'incollarono l'uno all'altro. Il cazzo di Jay era talmente duro da sembrare sul punto di scoppiare. Che ragazzo, che favolosa, squisita creatura, che era venuta di sua spontanea volontà, che si era imposta a lui! Doveva essere il dono di uno di quei sinistri dèi che lui placava con le sue ossessioni, un dolcetto perfetto da mordere a suo piacimento... Jay cercò di imprimere un altro corso ai suoi pensieri. Questo ragazzo non era affatto un regalo. Santiddio, era uno spacciatore, un volto noto nel Quartiere, dove risiedeva anche la sua famiglia. Fargli del male sarebbe stata pura follia.
Bisognava ignorare la fragilità tentatrice delle sue ossa. Bisognava ignorare il ventre liscio e muscoloso sotto la cui superficie le mani di Jay avvertivano il tremito segreto degli organi interni. Tran sollevò le braccia sopra la testa e inarcò la schiena, spingendo il petto contro Jay. Sul suo volto si leggevano paura ed eccitazione. Nella semioscurità si vedeva il brillio degli occhi e della bocca. Per Jay, era come se quel ragazzo recasse l'invito PER FAVORE, SVENTRAMI scritto sul petto con un pennarello. Per distrarsi da queste fantasie, Jay abbassò il capo e succhiò un capezzolo del ragazzo. Era duro e scuro come una caramella alla cannella. La pelle di Tran odorava di sapone e di un tenue sentore muschiato. Le dita del ragazzo si mossero tra i capelli di Jay spingendogli il capo verso il basso. Jay evitò di toccare la parte sottostante la cassa toracica e il ventre. Afferrò invece il bacino e affondò il capo tra le gambe di Tran. E subito si ritrovò immerso in un mondo di sudore fragrante, di morbidi peli neri che gli vellicavano le palpebre, di pelle setosa pulsante contro le sue labbra. Tracciò con la lingua un'umida scia dalla base dei testicoli sino alla punta del cazzo prima d'infilarselo in bocca. La sensazione di quel membro pulsante che scivolava sulla sua lingua arrivandogli alla gola fu veramente troppo. Jay artigliò le natiche e le scarne cosce di Tran. Il ragazzo s'immobilizzò prima che il suo corpo venisse percorso da un lungo brivido. «Jay... oh, Jay, sto per venire... non inghiottire... ah...» Tran cercò di sfilarsi. Jay lo afferrò di nuovo per le ossa sporgenti del bacino e inghiottì il membro ancor più a fondo. S'impose di resistere all'urto di vomito prendendo fiato. Magari non avrebbe mai assaggiato il sangue e la carne di questo ragazzo, ma di certo non voleva perdersi la saporosità salina del suo sperma. Ed eccolo, ruscellante sotto la sua lingua, gocciolante tiepido e lievemente bruciante lungo la gola. Tran emetteva rumori incredibili: ansiti, singhiozzi, strilli. Jay deglutì e deglutì e deglutì. La sborrata di Tran era densa e abbondante e un po' amarognola. Jay la vide fermentare nelle cavità e nei dotti dei testicoli, arricchita da tutte le sostanze chimiche di recente ingerite da Tran, un travolgente concentrato. Spermatozoi, proteine, inebrianti succhi della prostata e della ghiandola di Cowper... Il suo pene eretto protestò, reclamando un po' d'attenzione. Jay levò il capo, si portò accanto a Tran, gli baciò la bocca e le palpebre e gli guidò la mano verso il cazzo. Le dita di Tran lo accolsero grate e si mossero su e
giù, dapprima delicate, poi più decise e strizzanti... poi di nuovo tenere, quasi dolorosamente tali. Qualunque cosa questo tal Luke avesse combinato a Tran, di certo gli aveva insegnato come trattare con cura e abilità un pene altrui. «Non avresti dovuto inghiottire la mia sborrata», mormorò Tran. «Te l'ho detto.» «Ne avevo bisogno.» Qualcosa, nel tono di voce di Jay, fece tacere Tran. Le sue mani continuarono a scivolare, sfregare, carezzare. Tra un minuto o due Jay sarebbe stato sull'orlo dell'orgasmo, e questo lo preoccupava. Gran parte dei ragazzi che erano usciti illesi da casa sua erano stati solo fotografati. Era finito a letto con ben pochi, dando loro ciò che volevano, spompinandoli e lasciandoli andare. Ma quelli che avevano assistito a una sua eiaculazione non erano mai sopravvissuti. Una nebbia sanguinolenta cominciò ad assediargli la vista. Onde di piacere gli ribollirono nel cervello. Un frammento di pelle gli pendeva dalla bocca, frustandogli il mento... no, quello era accaduto ieri notte, era solo un ricordo. «Scopami», ansò Tran. «Ti voglio dentro di me.» Si era messo a sedere sul letto e d'istinto aveva allungato la mano verso il cassetto del comodino dov'era riposta la scatola di preservativi lubrificati (ma non verso l'utensile incrostato di sangue, destinato in origine a togliere il filamento nero dei gamberi, nascosto in fondo). Con gesto esperto, strappò la bustina, estrasse il preservativo e rivestì il pene eretto di Jay con un sottile strato di gomma. Poi si risdraiò sul dorso, piegando le ginocchia in modo da mettere in mostra due conturbanti mezzelune di carne con un occhio rosato al centro. Quel buco ipnotizzò Jay, lo travolse. Nessuno mai gli aveva mostrato il buco del culo volontariamente. Quel gesto gli parve implicare fiducia... un'opzione di fiducia, come era stata la decisione di Tran di rivolgersi a lui. Ma che cosa si era detto lui, Jay, dopo che Tran gli aveva parlato? Imprevedibile. Pericoloso. Off-limits. Se avesse scopato questo ragazzo, di certo l'avrebbe ucciso. E quella sarebbe stata una pessima cosa per un'infinità di motivi. Si ritrovò a cavalcare le anche strette del ragazzo, la punta del cazzo premuta contro la calda strettoia del culo di Tran. «Mettilo dentro, mettilo dentro!» supplicò Tran, dimenandosi sotto di lui. Quanto facile sarebbe stato infilarsi in quello stretto canale di muscoli e membrane, perdersi in quell'accogliente labirinto senza pensare alle conseguenze. Forse si poteva
fare. Forse Tran sarebbe stato il solo ragazzo sopravvissuto al suo orgasmo. Forse sarebbe stato bello condividere il rilassamento postcoitale con qualcuno che respirava ancora. Gli occhi di Jay erano brucianti di lacrime. Voleva che Tran sopravvivesse, lo voleva tanto. Un tempo non desiderava la morte dei suoi amanti. All'inizio aveva solo sperato che restassero con lui, ma nessuno acconsentiva, se quantomeno aveva una scelta. E così, con il passare del tempo, il controllo era diventato un piacere a sé stante. Poi era diventato l'essenza stessa del piacere. Drogava i ragazzi, scattava foto dei loro corpi inerti e inermi e fissava i loro volti ignari mentre li strangolava. Con il tempo, lo strangolamento non era più stato sufficiente. Volendo vederli reagire, aveva cominciato a svegliarli prima che morissero per far loro del male, un male la cui intensità era andata aumentando. S'innamorò dell'interno dei corpi, scoprì che lo preferiva all'involucro esterno. Ma a dispetto del desiderio di adorare quello che c'era dentro a Tran, sentiva una voglia altrettanto forte di non fargli del male, di penetrare in lui, e muoversi con lui e farlo godere, e dopo tenerlo tra le braccia ascoltando il suo respiro, avvertendo il suo calore che non sarebbe svanito. «Jay! Scopami!» Tran fece scivolare le mani sulle chiappe di Jay e cercò di trarlo a sé. Il cazzo di Jay penetrò leggermente più a fondo; Tran emise un gemito rauco, delirantemente erotico, e Jay ebbe la certezza che se fosse entrato così nel corpo di Tran non avrebbe smesso sino a che non l'avesse dilaniato. Decise di smettere, cosa che non aveva mai fatto prima. Gli ci volle ogni briciola di volontà per ritrarsi. Per fortuna, aveva una notevole riserva di volontà. «Non posso assolutamente scoparti», disse a Tran. «Devi andartene, dico sul serio.» Il volto di Tran era l'immagine stessa dello choc. Nei suoi occhi brillavano lacrime di frustrazione. «Come sarebbe a dire che non puoi scoparmi?» chiese. «Non posso. Non sono più in vena. Lascia perdere.» Tirò via il preservativo dal pene che si stava afflosciando, lo posò sul comodino e rimase ad aspettare ulteriori eventi. Se non fosse successo nulla, avrebbe potuto restare li a letto tutta la notte. Un delizioso torpore cominciava a invaderlo. Si sentiva le ossa tenere, la carne imbevuta in oppio liquido. Pensò a Tran con le gambe sollevate, che si offriva a lui. Pensò a Luke (una figura massiccia e senza volto) addosso a Tran, come era stato lui po-
co prima, ma che trattava come si deve il povero ragazzo, chiavandolo con forza, dandogli tutto quello che voleva e forse qualche cosetta in più. Queste immagini non gli fecero alcun effetto. Qualcosa gli sfiorò la mano. Le dita di Tran, sudaticce e timide, stavano inserendosi nella sua mano. «Non fa niente», disse Tran. «Se cambi idea, fammelo sapere. Magari se riuscissimo a conoscerei un po' meglio...» Questa sì che è bella, pensò Jay. Sono sicuro che saresti entusiasta se mi conoscessi davvero, se vedessi come passo le serate, se conoscessi alcuni dei miei amici. Ma si limitò a dire: «Può darsi». Tran emise un sospiro. «Senti, è imbarazzante chiederlo...» «Cosa?» «Posso restare qui lo stesso? Solo per stanotte? Non so proprio dove andare.» «Certo.» «Dormo sul divano, se vuoi.» «Non ti preoccupare.» Jay si accorse di non sentirsi più attratto da Tran, anche se gli piaceva avere accanto a sé quel corpo sottile e caldo. Aveva soffocato i suoi peggiori istinti, e ora il pericolo era passato. A quel punto, le probabilità di fare del male a Tran erano pari a quelle di fare a pezzi un guanciale. Il ragazzo era solo un conforto passeggero che l'indomani sarebbe sparito. Esaurito completamente l'effetto delle droghe, Jay si accorse di essere sfinito. Strinse la mano di Tran, un gesto che gli era estraneo quanto l'amicizia stessa. Poi si girò su un fianco e cadde all'istante in un sonno profondo e senza sogni. Tran rimase a contemplare la schiena liscia di Jay, bruciando di desiderio frustrato e di delusione. Non riusciva a capire che cosa fosse successo. Si era goduto il tocco e il sapore di Jay, anticipando la meravigliosa sensazione del cazzo di Jay che gli riempiva il culo. Erano stati sul punto di perdersi l'uno nell'altro. Poi, questo tracollo. Non era più stato con nessuno dopo la rottura con Luke, risalente a quasi otto mesi prima, e c'erano momenti in cui si chiedeva se il suo antico amante non gli avesse per sempre guastato i piaceri del sesso. Quando Jay lo aveva portato in camera, Tran aveva creduto di poter infine accantonare quel pensiero. Adesso si sentiva ancor peggio. Sapeva che non sarebbe riuscito a prendere sonno facilmente. Si drizzò a sedere, buttò le gambe giù dal letto e, tremante, si mise in piedi. Il sangue
gli andò alla testa dandogli le vertigini e annebbiandogli momentaneamente la vista. A tentoni, raggiunse la porta e imboccò il corridoio. Giunto in cucina, si accorse di avere una fame divorante. Di certo Jay non avrebbe avuto nulla in contrario se lui si fosse fatto un panino. Il pavimento e il piano di lavoro erano di un lindore abbagliante, come pure l'interno del frigo. Tran trovò pane, senape, maionese e un piatto di carne affettata molto sottile e coperta da pellicola trasparente. Si fece un panino e si versò un bicchiere di latte. Sentendo lo stomaco brontolare all'odore del cibo, Tran si ricordò che dal pomeriggio precedente aveva mangiato solo un bignè. Portò il cibo in salotto e sedette a gambe incrociate al centro del tappeto, la scena della sua esplosione. La carne era al sangue e molto tenera, come un particolare taglio di manzo che sua madre talvolta acquistava dal macellaio vietnamita. Il latte era gelato. Finì tutto, riportò piatto e bicchiere in cucina, li sciacquò e li mise sullo scolapiatti. Adesso si sentiva meglio, ma era ancora assurdamente infoiato. Si ritrovò nel bagno senza sapere come ci fosse arrivato. L'armadietto sotto il lavabo era aperto e il secchio con i giochini gli lanciò un tentatore canto di sirena. Tran guardò le sue mani immergersi nell'acqua dal sentore di candeggina, scegliere un «giorgino» lungo, sottile e rosato che, per forma e dimensioni, somigliava molto al cazzo di Jay, e sciacquarlo sotto il rubinetto. Diede un'occhiata alla porta, poi andò a chiuderla. La prostata pulsava, avida di attenzioni. Prima di conoscere Luke, Tran non sapeva neppure dove fosse la prostata. L'idea di prenderlo nel culo gli era sembrata vagamente imbarazzante sino a che non aveva provato. Luke lo aveva sverginato delicatamente, ma non troppo. Nel culo, a una decina di centimetri dall'ano, c'era un punto che, sotto la pressione del cazzo di Luke, gli dava sensazioni paradisiache, e dal momento in cui aveva provato quel primo orgasmo interno che gli aveva percorso la colonna vertebrale per invadergli gradualmente tutto il corpo, Tran aveva capito che non avrebbe più potuto farne a meno. Non trovando alcun lubrificante, entrò nella vasca, insaponò il giorgino e se lo infilò nel culo. Mentre lo cavalcava, si pizzicava e si tirava i capezzoli, pensando alla bocca di Jay su di essi. Ma Jay non aveva voluto fare un gioco duro con lui, quasi avesse avuto paura di fargli male. Sentirsi un po' strapazzare non gli sarebbe per niente dispiaciuto. Quando stava con Luke aveva sempre i capezzoli doloranti. Luke lo aveva scopato così in profondità da farlo urlare, da fargli sentire il cazzo contro la curva superio-
re dell'intestino. Mentre veniva inarcando la schiena, Tran pensò che, per essere uno che non avrebbe voluto rivedere mai più, Luke senza dubbio occupava un grande spazio nei suoi pensieri. La cosa lo infastidiva, ma, a quanto sembrava, non poteva farci nulla. Così si abbandonò alle sue fantasie, e mentre si abbracciava in quella stessa vasca dove poche ore prima un altro ragazzo aveva trovato una morte straziante, s'immaginò tra le braccia di Luke, la guancia contro il suo petto, e tutto il perverso potere di Luke che lo invadeva, facendolo sentire al sicuro, forte, amato. 8 Rientrato al motel, Luke inserì un foglio di carta nella macchina per scrivere, lo fissò per un certo tempo, poi centrò il carrello e cominciò a battere sui tasti. Lavorava a un tavolino su cui a stento trovavano posto una bottiglia, un bicchiere e la Smith Corona elettrica; il secchiello del ghiaccio e i fogli dattiloscritti erano invece sul comò alle sue spalle. Mentre scriveva sbevazzava whisky da quattro soldi, versandosene un dito ogni ora o giù di lì, sentendo sulle labbra il suo bruciore ambrato, cercando un vago intontimento che però non sforava mai nell'ubriachezza. Le pagine si accumulavano con lentezza. Il costante dolore di fondo veniva tenuto sotto controllo. Questo libro, naturalmente, era la storia del tracollo suo e di Tran, alterato e stravolto sino a che solo la pura essenza, il puro tormento fossero riconoscibili. Luke sapeva che di quelle ferite non si poteva ancora scrivere perché erano troppo recenti, ma sapeva altresì che non avrebbe potuto riesaminarle in un momento più tranquillo: per lui non c'era più speranza di pace, in questa vita. Troppo, in quella vicenda, assumeva un tono accusatorio verso il deuteragonista, il peana aveva la meglio sull'intreccio, i personaggi venivano massacrati anziché analizzati. Luke sapeva che quel romanzo faceva schifo e non era neppure certo di riuscire a finirlo. Ma sul comò le pagine si accumulavano. Non poteva rinunciare a quell'autopsia spirituale, come non poteva far tacere Lush Rimbaud. Il suo personaggio radiofonico era stato concepito nei giorni gloriosi in cui aveva cominciato a drogarsi. Lush Rimbaud era il nome che aveva affibbiato all'io che emergeva sotto l'effetto dell'eroina, un cervello totalmente lucido, impastoiato a un corpo ribollente di piacere e percorso dal furo-
re, una personalità composta da liquidi che non potevano combinarsi. All'epoca aveva venticinque anni, e aveva appena pubblicato il suo primo romanzo, Fede nel veleno. Il libro era un distillato della sua adolescenza in un paesotto della Georgia, della sua educazione battista abortita, della sua fuga. Per qualche ragione, la vista del proprio nome in copertina lo aveva spinto a inventarsi uno pseudonimo. Rimbaud era stato scelto in onore del folle poeta fanciullo che nei caffè parigini aveva scritto lettere scatologiche a Verlaine. Sangue e merda erano tra le sue passioni dominanti. A diciannove anni aveva tormentato Verlaine sino a farsi sparare, ma se l'era cavata con una ferita superficiale, aveva speso ogni franco guadagnato in bevute, in seguito era andato in Africa, gli era stata amputata una gamba ed era morto d'infezione a trentasette anni. Il titolo del romanzo di Luke veniva da una delle Illuminazioni di Rimbaud, «Mattinata d'ebbrezza»: «Noi abbiamo fede nel veleno. Noi sappiamo donare ogni giorno la nostra vita intera». Il libro fu totalmente osannato e totalmente stroncato. Le lodi erano rapite e un po' attonite, come se Lucas Ransom avesse cominciato con il carezzare il cervello del lettore e finito con l'assestargli un colpo alla nuca. Le stroncature erano dello stesso tenore, ma con un tono afflitto, come se il romanzo avesse offeso profondamente e personalmente i critici. Luke si compiacque di entrambe le reazioni. Le vie di mezzo non gli andavano a genio. Questo succedeva nel 1986 a San Francisco, e Luke seppe sfruttare l'onda della nefandezza, gestendo al meglio una scimmia non ancora galoppante, supplementata da tutte le altre droghe disponibili sul mercato, scrivendo le migliori opere della sua vita e traendone anche un reddito, e cullandosi nell'idea di aver trovato la formula dell'esistenza perfetta: fama, eroina, sesso sino al limite della sua sopportazione, che era elevatissima. I suoi amanti fissi si tolleravano l'un l'altro a livelli variabili di disagio; talvolta riusciva a portarsene a letto due alla volta. I «contorni» erano assortiti e appetitosi. Nel banchetto non mancava mai una nota orientale. A metà degli anni Ottanta, nell'ambiente gay di San Francisco circolavano ragazzi provenienti da ogni paese asiatico noto a Luke, e da altri sconosciuti. Li aveva provati tutti, un ricco banchetto orientale di dolci cazzi e culi lisci e corpi snelli e volti dalla delicata struttura ossea. A un certo punto aveva cominciato a delineare una carta geografica mentale che rifletteva la sua storia sessuale: Cina, Giappone, Corea, India, Thailandia, Laos, Bali...
Era sorpreso dalla «specificità» dei propri gusti e non riusciva a spiegarsela. Semplicemente adorava la plica delle loro palpebre, la scivolosa ruvidezza dei loro capelli, il sapore di legno di sandalo della loro pelle, le fragili ossa d'avorio. Con il tempo la sua propensione divenne nota, ed erano i ragazzi stessi a offrirsi a lui. Per alcuni di loro, il bell'aspetto da americano bene andato in malora di Luke era esotico quanto per lui i capelli d'ebano e la pelle dorata. Allora era troppo giovane e troppo desiderabile per essere definito «checca mangiariso». All'epoca Lush Rimbaud era allo stato embrionale, un semplice seme sibaritico nel fertile terreno dell'io di Luke. Era stato solo un nome usato occasionalmente. Aveva cominciato a maturare come una sorta di personalità alternativa e malefica solo dopo che lui era risultato sieropositivo. Lush Rimbaud era stato concepito dalla droga. Sette anni più tardi, era stato partorito dal virus HIV. Luke aveva lasciato San Francisco subito dopo l'uscita della raccolta di racconti Cavalletto fiabesco (il titolo era stato preso anch'esso da «Mattinata d'ebbrezza» di Rimbaud). I detrattori gli avevano sferrato un assalto alla grande, e lui era stufo degli altri giovani autori gay di successo, i quali erano convinti che non ci fosse spazio per chiunque al di fuori di loro. Era anche stufo delle damazze checche che lo stracciavano perché non voleva scopare con loro, stufo dei finocchioni muscolosi e idioti che lo ritenevano uno di loro solo perché amava tenersi in forma, e stufo persino dei bei f anciulletti asiatici che chiavavano con lui solo perché sapevano che era fattibile. Gli unici di cui non era stufo erano gli altri tossici. Passò tre anni vagabondando per tutto il paese, sentendosi molto beat con la moto, il giubbotto di pelle e gli stivali vissuti e la scimmia ancora sotto controllo. Trovava roba in ogni città in cui si recava, di solito nell'arco di un giorno o giù di lì. L'eroina creava conoscenze istantanee, ma ben poche amicizie. Questo a Luke stava bene: aveva sempre preferito avere pochi amici. Finì un altro romanzo, Altare liquido, e prese appunti per un'opera intitolata Sepolcro nudo. Una delle cose che lo aveva stancato di San Francisco era la coltre di morte che sembrava gravare sulla città. Era il luogo con la più alta concentrazione di gay degli Stati Uniti, e verso la fine degli anni Ottanta sembrava una zona devastata dalla peste. L'AIDS aveva decimato la popolazione gay di una certa età, esigendo uno spaventoso tributo per gli eccessi del decennio precedente. Aveva visto uomini sani, non sieropositivi, sui qua-
ranta, cinquant'anni, suicidarsi solo perché erano demoralizzati. Erano stati la prima generazione a dichiararsi pubblicamente gay, i primi a mandare al diavolo il freddo mondo eterocentrico, i primi a definirsi attraverso il sesso. Luke capiva benissimo la loro amarezza. Avevano cercato di celebrare la nascente libertà lanciandosi in un festival di promiscuità, ma per l'occasione si era presentato un ospite non invitato che, sotto le spoglie di un amante, aveva falciato gli invitati. In un primo momento New Orleans non gli sembrava altrettanto deprimente. Senza dubbio la città era avvolta da un miasma. Ma era un miasma di sinistra decadenza e di sesso convulso, non di morte. Luke era approdato lì nel 1990, senza una ragione particolare, aveva scopazzato parecchio, aveva trovato una libreria che teneva i suoi libri ed era lieta di averlo lì ad autografare i suoi volumi. Aveva preso un appartamento nel Faubourg Marigny, aveva a disposizione l'anticipo per i due prossimi libri e l'intero Quartiere francese pieno di beveraggi a buon mercato e bei fanciulli gay. L'atmosfera della città aveva avuto un effetto così stupefacente su di lui da fargli decidere di mollare l'eroina, cosa che aveva fatto, sopportando i dolori come se si fosse trattato di un'influenza o di una tremenda sindrome postsbronza. Adorava l'eroina, ma l'idea di aver bisogno di una droga gli faceva orrore quasi quanto quella di aver bisogno di un'altra persona. Un anno dopo aveva conosciuto Tran, e tutto era cambiato per sempre. Erano capitati alla stessa festa, un party di lusso con ottime occasioni per rimorchiare, organizzato da amici di un altro scrittore che a Luke non era particolarmente simpatico. Per poco non c'era andato. Alcuni ragazzetti del Quartiere si erano presentati senza invito tanto per scroccare da bere, cosa che era stata tollerata perché perlopiù erano giovani e carini. Avevano portato appresso un ragazzino vietnamita taciturno, dall'aria spaventata e bello da morire che avevano appena raccattato a Jackson Square. Tran sembrava molto giovane per i suoi diciannove anni, un bravo ragazzino orientale con i capelli corti che faceva i primi esitanti tentativi per fare il cattivo. Era ubriaco del rosé dolce che i ragazzi avevano diviso tra di loro, e sedeva in.un angolo con la testa tra le mani, il corpo scosso da qualche raro singulto, con un'aria tanto sofferente che persino i predatori più incalliti gli stavano alla larga. Luke aveva appena compiuto trent'anni, e cominciava a non sentirsi più tanto giovane. Non voleva vedere questo stupendo ragazzino vomitare davanti a tutti, o addormentarsi per poi essere strapazzato da qualche sconosciuto. Ma toccare uno simile poteva essere pericoloso per via dell'età, e
poi Luke non sapeva neppure se fosse gay. Lo aveva fatto alzare e uscire dalla sala, lo aveva fatto camminare intorno all'isolato e aveva aspettato a una certa distanza mentre Tran vomitava rosé ai piedi di un banano. Dopodiché Tran si era buttato tra le braccia di Luke e aveva cercato di baciarlo, il che almeno aveva chiarito un aspetto della situazione. Il bacio era finito sul collo di Luke, e, per quanto sbavante e vinoso, gli aveva fatto indurire capezzoli e cazzo. Si fermarono all'angolo, ai margini del cerchio luminoso del lampione, racchiusi l'uno nelle braccia dell'altro, Luke a reggere il peso di quel corpo fragile e tremante. «Quanti anni hai?» chiese a Tran. «Quanti anni dovrei avere?» farfugliò Tran contro la sua spalla. A Luke quella risposta piacque molto. Persino in una simile situazione, quel ragazzino sembrava piuttosto perverso. Luke lo aiutò a trovare la sua auto, ce lo caricò sopra e guidò sino alla zona est di New Orleans, gli diede un bacio sulla guancia e lo seguì con lo sguardo mentre barcollando entrava in casa. Lasciò l'auto parcheggiata nel vialetto d'accesso e sedette sul bordo del marciapiede sino all'alba, poi tornò sulla tangenziale e prese un autobus per il centro. Di solito, da quelle parti, le persone in attesa di un autobus venivano rapinate a mano armata. Luke non se ne preoccupava. A dargli un senso di conforto e di calore bastava il foglietto con il numero di telefono di Tran che aveva infilato in tasca e che ogni tanto sfiorava con le dita. Quando infine rientrò a casa, sedette alla macchina per scrivere e cominciò a buttare giù una lettera per il ragazzo, la prima di un centinaio o più. «Attraverso le nebbia della tua ebbrezza ho visto un'intelligenza viva e chiara, e nessuna droga potrebbe mai nascondere la tua bellezza...» Non aveva mai pensato di spedirla. E neppure sarebbe stato necessario, visti gli sviluppi successivi. Il giorno seguente formò il numero datogli da Tran, semiconvinto che fosse falso. Tran rispose con tono leggermente imbarazzato, immensamente grato e per niente in preda ai postumi dell'alcol. Decisero di incontrarsi quella sera in un caffè del Quartiere francese. Luke offrì a Tran tre cappuccini freddi e gli diede la lettera, insieme a copie con dedica dei suoi quattro libri. Più tardi, in casa di Luke, passarono un'ora d'incanto baciandosi, strofinandosi, rotolandosi sul letto vestiti di tutto punto, premendo i peni eretti l'uno contro l'altro attraverso frustranti strati di stoffa. Verso la fine di quell'ora di effusioni, Tran ammise di essere vergine. La settimana successiva fu la più lunga della vita di Luke, e la più dol-
cemente tormentosa. Vedeva Tran tutti i giorni ed era certo che ben presto avrebbero scopato, ma non sapeva quando. Era un po' come essere a scuola, dove tutto procedeva per gradi. Quando si metteva a scrivere, i suoi pensieri divagavano — ieri sera ha lasciato che gli baciassi i capezzoli e il ventre, sono arrivato sino alla cintola dei calzoni e ho sentito che aveva una furibonda erezione, chissà se stasera si lascerà toccare, spogliare, succhiare o perlomeno se me lo prenderà in mano. Oh, Dio, quanto vorrei essere dentro a lui... Era costretto a masturbarsi prima di potersi mettere a lavorare. La situazione era insostenibile ma divina. Luke si chiese se non fosse innamorato. Gli era capitato alcune volte, ma mai con uno con cui non avesse già scopato, e mai così disperatamente. Era convinto che avrebbe fatto qualsiasi cosa per Tran, persino aspettare. Non dovette aspettare molto. Una settimana dopo la sera della festa, Tran si presentò a casa sua con un brillio malizioso negli occhi. Aveva detto ai genitori che quella notte avrebbe dormito fuori, e raccomandato loro di non preoccuparsi, anche se lo avrebbero fatto comunque. «Voglio che tu mi mostri tutto», sussurrò Tran mentre si spogliavano e s'infilavano a letto. «Però sta' attento.» In retrospettiva, a Luke pareva che quello fosse stato il leitmotiv di tutto il loro rapporto. «Mostrami le vette più eccelse dell'esperienza e i suoi squallidi abissi. Fammi impazzire di piacere e tormentami di dolore. Portami al limite estremo, dividi con me gioia e furore, impara a conoscere il mio corpo come se fosse il tuo. Ma non dimenticare di proteggere il tutto con una guaina di gomma.» A quei tempi, Luke si sarebbe probabilmente spruzzato il cazzo di lisoformio e infilato due preservativi se quella fosse stata la condizione ineliminabile per violare la santità verginale del perfetto buco del culo di Tran. Nei primi tempi Luke non era riuscito a spiegarsi che cosa ci fosse di diverso in Tran, perché si fosse preso una tale scuffia per quel grazioso ragazzino asiatico, visto che il mondo era pieno di tipi come lui. In parte era dovuto al fatto che Tran non era stato immediatamente disponibile. Aveva rappresentato una sorta di sfida. Ma il brivido del corteggiamento non poteva spiegare le loro conversazioni intime, coinvolgenti, né il rodimento in parte protettivo, in parte vorace, che attanagliava lo stomaco di Luke quando i loro corpi si intrecciavano, né il senso di appagamento che provavano quand'erano insieme. Stare con Tran faceva ricordare a Luke che cosa significasse avere di-
ciannove anni: pronto a spiccare il volo verso la vita, in attesa di conoscere tutto, di provare tutte le sensazioni. Tran era come un nervo scoperto in un mondo di continue sollecitazioni sensoriali. Aveva una sensibilità da scorticato, rideva con facilità e con altrettanta facilità si offendeva. La sua sessualità in boccio lo entusiasmava e lo terrorizzava nello stesso tempo, e Luke trovava esaltante questo contrasto. Tran era anche molto intelligente e pieno di curiosità per tutto. Era bravissimo in passatempi complicati che sconcertavano Luke: la programmazione dei computer, la cucina, la consultazione dell'I Ching. Diceva che avrebbe voluto diventare uno scrittore, cosa che innervosiva un poco Luke, benché per il momento l'amico fosse ancora allo stadio dei quadernetti di annotazioni. A un certo punto gli permise di leggere alcuni di questi quaderni, simili a quelli che Luke aveva usato a diciannove anni, con le copertine consunte, dagli angoli smussati, e il dorso a spirale pieno di residui delle pagine strappate. Si trattava perlopiù di materiale diaristico — Tran era sempre il personaggio principale — ma la scrittura era limpida e coinvolgente, con tracce di originalità stilistiche. Nel complesso, la compagnia di Tran diede a Luke l'impressione di aver vissuto nella pigrizia emotiva e intellettuale prima del loro incontro. Il loro rapporto lo spinse ad assorbire informazioni d'ogni genere, a mettere alla prova la propria intelligenza, a leggere e a scrivere ogniqualvolta non si abbandonava alle beatitudini del sesso con il suo nuovo amante. Sei mesi dopo l'inizio del loro rapporto, superarono senza eccessivi strazi anche l'incidente della festa natalizia. Luke sospettò che Tran, così facendo, avesse voluto metterlo alla prova, avventurandosi in un territorio pericoloso per vedere quanta merda l'amico fosse disposto a inghiottire. Luke non aveva inghiottito niente, però gli era parso molto strano trovarsi sull'altra sponda dell'infedeltà. Avrebbe voluto scusarsi con tutti i ragazzi che si erano dovuti sorbire i suoi discorsi sull'antimonogamia: «Mi rifiuto di porre limiti alla mia gamma di esperienze: o te la fai andar bene o ti togli dai piedi, la scelta sta a te, ma io non intendo cambiare». Adesso quelle dichiarazioni gli davano i brividi perché se qualcuno di quei ragazzi lo avesse amato quanto lui amava Tran quelle parole sarebbero state una vera pugnalata. Era il rapporto monogamico più lungo che Luke avesse mai mantenuto, il solo che Tran avesse mai avuto, ed entrambi erano decisi a esplorarne tutte le ramificazioni. Tran stava per uscire dai confini rassicuranti ma davvero troppo protettivi di una famiglia vietnamita, e Luke trovava affa-
scinante vederlo cercare nuove emozioni. Poiché Tran tendeva a cacciarsi nei guai quando beveva, preferivano fumare erba, inalare gas esilarante, fare qualche viaggio con l'acido. A Luke l'acido non era mai piaciuto granché — era già ipersensibile di suo, e ogni messaggio sensoriale gli risultava doloroso — ma Tran lo adorava, come del resto andava pazzo per altri allucinogeni. Le cose presero una strana piega quando Tran volle provare l'eroina. Luke decise di fargli compagnia. Era sempre riuscito a farne un uso occasionale, senza diventare del tutto dipendente. Bucarsi di nuovo sarebbe stato come rivisitare un vecchio amico che non vedeva da tempo, un amico volatile e capriccioso, certo, ma senz'altro fedele. Così aveva riallacciato un vecchio contatto, comprato una bustina che aveva provato personalmente. La prima roba che si era procurato era di pessima qualità e gli aveva intorpidito le dita, dato un formicolio alla schiena e lasciato un orribile sapore di medicina in bocca. L'aveva buttata via dicendo a Tran che non aveva trovato niente, ma avrebbe continuato a cercare. E finalmente era incappato in roba buona, quella che ti dava uno sballo lento e senza intoppi. Bucando Tran, cercando la vena in quella pelle sana e liscia, Luke si era sentito nervoso come la prima volta che erano stati a letto insieme. Con sollievo di Luke, a Tran l'eroina era piaciuta, pur non sembrando colpito dai suoi più insidiosi incanti. Non ci si assuefaceva con la prima pera, come pensano i profani, ma alcuni soggetti erano talmente presi dagli effetti dell'ero che questa vecchia convinzione avrebbe anche potuto essere vera. Tran disse che sarebbe stato contento di riprovarci la settimana successiva ma che avrebbe anche potuto farne a meno per sempre. Così avevano finito per farsi un buco ogni tanto, ma Luke non ricadde nell'assuefazione e Tran non ci andò neppure vicino. Trovavano la reciproca compagnia più esaltante di qualsiasi droga. Tran continuava ad abitare con i suoi, ma perlopiù passava la notte con Luke, e i genitori tolleravano la sua assenza preferendo non pensare troppo a quello che il figlio avrebbe potuto combinare. Secondo Tran, erano convinti che stesse facendo follie, ma ben presto si sarebbe calmato, avrebbe sposato una brava fanciulla vietnamita e sarebbe divenuto socio del ristorante di famiglia. Avevano in mente una ragazza in particolare, una ex compagna di liceo che Tran eloquentemente definiva «una stronzetta leccaculo». Luke si chiedeva per quanto tempo Tran si sarebbe illuso di poter conti-
nuare quella commedia, vivendo a sbafo dai suoi, facendo quel che gli pareva senza impegnarsi in nulla, facendo la spola tra due mondi. Era una situazione fasulla, che non poteva durare. Luke, invece, aveva lasciato la famiglia a diciassette anni. Non che i suoi genitori fossero cattivi: erano poveri contadini della Georgia che, avendo avuto il figlio in età piuttosto avanzata, gli erano sempre parsi molto vecchi. Quello che Luke non sopportava era il paese, il disprezzo negli occhi dei vicini, la crudeltà dei compagni di scuola, la crassa ignoranza, la continua esortazione ad accoppiarsi e a riprodursi. Ma Tran aveva avuto la fortuna di crescere a New Orleans anziché nelle campagne della Georgia, e Luke capiva la sua speranza di mantenere buoni rapporti con la famiglia. Nell'insieme, tutto filava liscio. Poi fecero il test insieme, e tutto crollò. Luke non aveva mai fatto alcun controllo a San Francisco. Sapeva che se fosse risultato sieropositivo avrebbe avuto voglia di farla finita subito, ma non poteva suicidarsi perché riteneva di avere ancora molto di cui scrivere. Se avesse scoperto di essere malato, avrebbe saputo la causa dell'infezione, ma non la fonte esatta. Era sempre stato attentissimo con gli aghi. Non era mai stato attento nei rapporti sessuali. Usava il preservativo quando glielo chiedevano i partner, e se quelli insistevano, non veniva loro in bocca. Ma con un compagno consenziente c'era ben poco che non avrebbe fatto. Il sesso sicuro gli sembrava una sorta di morte vivente. Come si poteva desiderare qualcuno senza voler assaggiare i suoi succhi? Come si poteva amare qualcuno senza godere a contatto diretto con le più riposte membrane? Quando Luke risultò sieropositivo, Tran cercò di affrontare la cosa al meglio e continuare ad amarlo. Questo Luke lo capiva solo adesso. Ma all'epoca, poco più di un anno prima, gli era parso che Tran volesse solo tagliare la corda. C'era poco da stupirsi: quale ventenne era in grado di contemplare lo spettro della propria morte e la realtà di un amante morente? Tutto era andato male, malissimo. Luke cominciò a vedersi dall'esterno, come se la parte «letteraria» del suo cervello osservasse quella follia e ne facesse tesoro per usi futuri. Forse non avrebbe più avuto un momento di quiete in cui contemplare quest'emozione. Poco importava: gli ingranaggi non stavano mai fermi. Cercarono di separarsi, continuarono a staccarsi e a rincollarsi come i lembi di una ferita che non si rimarginava. A un certo punto Luke scoprì in sé il desiderio di fare del male a Tran, di tagliarsi e contaminare il compa-
gno con il suo sangue, di fare in modo che il preservativo si rompesse o si sfilasse. Si ritrovò a infliggere a Tran piccoli maltrattamenti fisici sbattendolo contro i cuscini, inchiodandolo al letto, stringendogli con troppa forza quelle ossa delicate. Tran sopportava tutto. Non che avesse un'alternativa, dato che Luke pesava venti chili più di lui. Però si chiudeva nel silenzio e negli occhi si accendeva un lampo di risentimento. Cominciò a trovare scuse per stare alla larga da lui. Luke ricordava l'abietta esaltazione che aveva provato quando si era reso conto che Tran aveva paura di lui: aveva avuto un tale spasmo di schifo per se stesso che quasi ne era andato fiero. Di lì a poco, Tran era sparito. Una raffica di interminabili telefonate a qualsiasi ora del giorno e della notte, una pletora di lettere tortuose, revisionate all'infinito, e poi più nulla. Nulla di nulla per molto tempo. Era straziante pensarci adesso, subito dopo aver fatto la trasmissione. Sgusciò fuori dalla scrittura, puntellandosi su ginocchia ossute e gomiti ammaccati. Per ultimo disincagliò il cervello febbricitante. Era quasi buio. Aveva scritto tutto il giorno, non dormiva da trentasei ore. Talvolta pensava che l'eroina fosse l'unica cosa che l'avrebbe fatto dormire. Fuori, la Airline Highway stava schiudendo un occhio appannato e liberandosi dei residui della ciucca della notte precedente. Luke sentiva sfrecciare motori truccati, il ronzio subliminale del neon, qualche sporadico sparo attutito. Avvertiva il brulichio di attività nelle camere attigue, gli andirivieni in veranda. Sesso a buon mercato e traffici di ogni genere. Là fuori c'era della roba, pura e misericordiosa. Non ce la faceva più a stare chiuso in camera. Si gettò il giubbotto sulle spalle, infilò gli stivali, uscì e sedette in macchina con i finestrini chiusi ascoltando a tutto volume l'ultimo album di Bauhaus, Burning from the Inside. Peter Murphy cantava solo metà delle canzoni incise, ufficialmente perché era in ospedale, dove stava rimettendosi dopo una broncopolmonite doppia. Girava voce che quei sintomi di polmonite assomigliassero molto a una disintossicazione da eroina. Una volta quel cantante emaciato e androgino si era vantato di aver avuto una premonizione secondo la quale sarebbe morto di AIDS a Parigi. Adesso aveva un figlio. Da come la vedeva Luke, Murphy avrebbe dovuto essere lì a supplicarlo di cedergli il suo posto. «Ma certo, riproduttore», avrebbe detto slacciandosi i calzoni, «succhiami il cazzo e poi va' a comprarti un biglietto per Parigi.» Si rannicchiò sul sedile e si avvolse nel giubbotto, che frusciò dolcemen-
te, con il suono familiare del respiro di un amante. Un rumore che gli ricordava che cosa si provasse a essere forti. 9 Contemplavo la sporca superficie brunastra del Mississippi. L'acqua aveva l'aspetto lustro e iridescente del petrolio. Si increspava e si levava come mossa dalla peristalsi, un lungo snodarsi di viscere in perenne sommovimento. Nella notte, una fila di chiatte si spostava lenta controcorrente, stagliandosi contro la sponda opposta, carica di una qualche sostanza nera e lucente. Me le immaginai aprirsi un varco nel ponte illuminato a giorno sul quale scorreva il traffico attraverso il fiume, i piloni argentei che s'incurvavano e si spezzavano, la carreggiata che crollava nell'acqua rovesciando auto e minuscoli corpi schiacciati. Purtroppo non avevo alcun potere sulle chiatte. Questo fiume non era per niente come il Tamigi, la fredda vena grigia che serpeggiava attraverso la mia fredda città grigia, lungo le cui sponde avevo trascorso gran parte della vita, nel quale, attraverso il water, avevo buttato una certa quantità di pacchetti ben incartati, leggermente macchiati. Il Tamigi sembrava sterile di fronte a questa ribollente corrente brunastra. Mi chiesi che cosa avrebbe fatto a un cadavere. Magari avrei potuto buttarcene uno legato a una bottiglia di plastica vuota, per poi andare a dare una controllata dopo un paio di settimane. A giudicare dal numero di bottiglie simili che scivolavano via portate dalla corrente, frammenti indigeribili e multicolori, si sarebbe detto che molti altri avessero tentato proprio quell'esperimento. Una volta imbarcatomi sul volo da Londra e ritrovatomi al sicuro tra le nuvole, avevo dato una rapida scorsa ai giornali che avevo comprato, all'improvviso avido di notizie di quel mondo in cui ero rientrato. A parte quello che riguardava me stesso, tutto appariva noioso e ripetitivo come al solito: scandali della famiglia reale, scappatelle sessuali di uomini politici, crudeli opinioni di persone beatamente ignoranti che venivano presentate come fatti e, come tali, accettati in toto da stupidi lettori. A fianco di uno degli articoli sulla sparizione del mio cadavere c'era un box con il titolo: «La pestilenza gay — sono al sicuro i vostri bambini?» Lessi da cima a fondo questi insulsi giornaletti, poi, in mancanza di meglio, presi la rivista fornita dalla compagnia aerea. Spazi pubblicitari desti-
nati a dirigenti cialtroni e leccaculo con portafogli ben forniti mi esortavano a incidere le iniziali sulla ventiquattrore, a comprare un'agenda elettronica più potente, a stampare il mio biglietto da visita sul quadrante di un orologio. Tra tutti questi inviti a spender soldi trovai infine un articolo di viaggio che vantava i torridi piaceri di New Orleans, il jazz, il cibo, le altre prelibatezze. Il mio interesse si risvegliò leggendo la didascalia sotto la foto di un drink rosso sangue in un bicchiere a calice, ornato da una ciliegia, una fetta d'arancia e un ricciolo di carta verde: «New Orleans ha più di 4000 bar e nightclub...» A Londra ce n'erano almeno duemila in più. Ma senza dubbio quella città era minuscola in confronto a Londra... Diedi una letta al resto dell'articolo. La popolazione di New Orleans superava di poco i settecentomila abitanti. A Londra abitavano sette milioni di anime tremebonde. Nel calcolare le debite proporzioni, sentii un sorriso affiorarmi sulla labbra. I londinesi avevano un pub ogni mille abitanti, un rapporto che mi era sempre andato a fagiolo. Ma i residenti di New Orleans ne avevano uno ogni centosettantacinque. Quando l'aereo atterrò ad Atlanta, avevo già scelto la mia destinazione. Dovendo superare il controllo doganale con un passaporto USA, nutrivo qualche timore per il mio accento. Preoccupazione superflua: nessuno mi chiese di alzare gli occhi, e men che meno di parlare. Con il dovuto timbro sul passaporto, mi recai a uno sportello di cambio dove convertii tutte le sterline di Sam in dollari dello zio Sam. A quanto pareva, la sterlina era forte: ricevetti una bella mazzetta di banconote verdine molto vissute. Una metropolitana mi portò dall'aeroporto al terminal dei pullman, dove scoprii di possedere un gruzzolo che era svariate volte il prezzo di un biglietto di sola andata per New Orleans. Lasciai Atlanta all'alba e passai le quindici ore successive dormicchiando e svegliandomi tra verdi campagne, paludi, budelli di maleodoranti fabbriche e raffinerie che sembravano non aver più fine, un incubo di ciminiere sormontate da fiamme arancione sullo sfondo di incredibili cieli violetti. Infine il pullman arrivò a New Orleans, dove chiesi a un tassista di portarmi nell'alberghetto più a buon mercato dei dintorni, che risultò essere l'Hummingbird Bar, Grill e Hotel in St. Charles Avenue. Ordinai un cheesburger e due gelide, divine birre americane alla spina (può il gelo della morte essere più dilettevole di quello di una birra davvero gelata?) poi salii una scaletta angusta per arrivare a una piccola camera quadrata dove dormii per ventiquattr'ore.
Oggi, nel tardo pomeriggio, sono uscito dall'Hummingbird e impavidamente sono andato nel Quartiere francese, come devono aver fatto prima di me milioni di turisti che viaggiavano in economia. («All'altezza di Canal, la St. Charles diventa la Royal», mi disse l'impiegata della reception, e le sue parole mi parvero un'invocazione esotica, carica di mistero e di promesse.) Lì, fermo sul molo, in cuor mio conquistai il Mississippi. Non mi faceva alcuna paura, come non mi spaventava la città entro la quale si snodava. Non era la prima volta che vedevo intestini e sfinteri: sapevo come gestirli. Poi me ne andai a bere qualcosa. Jay se ne stava in salotto sbatacchiato come un ragno in una tela scossa dal vento. Era tardo pomeriggio e Tran se n'era andato un'ora prima. Al risveglio non avevano trovato molto da dirsi: erano entrambi imbarazzati, ed entrambi stravolti dall'ingestione di varie sostanze. Tra di loro non c'erano stati ulteriori contatti fisici. Ma non appena aveva accompagnato Tran attraverso il giardinetto e richiuso il cancello alle sue spalle, Jay si era sentito assalire da tutti i desideri e le pulsioni delle ultime ventiquattr'ore, elevati alla centesima potenza. Stordito, era rientrato in casa, aveva preso dallo scaffale il testo di medicina, lo aveva sfogliato e l'aveva rimesso a posto. Per alcuni minuti era rimasto in poltrona, tremebondo, gli occhi pulsanti, il cuore in tumulto. Voleva un altro ragazzo, e subito. Non aveva mai provato una tale smania a così poca distanza da un omicidio. In qualche modo l'incontro con Tran gli aveva provocato una sorta di corto circuito, imprigionandolo in un circolo vizioso. Si alzò, andò in camera e aprì il cassetto di fondo del comò, dove teneva la raccolta completa delle polaroid dei suoi ragazzi. Erano ottime foto: Jay aveva occhio per la composizione, sapeva scegliere angolazioni e pose. Ecco un ragazzo con il torace e lo stomaco incisi in superficie da un taglio a Y che mostrava il pallido strato adiposo sottocutaneo ma non gli organi. Ecco un primo piano dello stesso ragazzo, un'espressione di radiosa beatitudine. Eccone due nella vasca da bagno, l'uno sull'altro come se si stessero abbracciando, pelle nera contro pelle bianca, simili solo nella decapitazione. Ma quello non gli bastava. In quel momento le foto non gli servivano a niente. Si sbottonò la camicia, se la sfilò lasciandola cadere a terra, si slacciò i calzoni e lasciò cadere anche quelli. Descrivendo lenti cerchi in mezzo alla
camera colse la propria immagine allo specchio. Aveva il volto impassibile e il pene in erezione. Uscì dalla porta di cucina e, a grandi passi, costeggiò il retro dell'edificio per finire nel giardinetto posteriore. Le erbacce morte e le statue muschiose sembravano annuire al suo passaggio. Aveva un bisogno impellente di andare negli alloggi degli schiavi. Nudo e tremante, aprì la porta e schizzò all'interno. L'odore era di dolce putrescenza, vomitevole al massimo e più penetrante del giorno prima per via della recente aggiunta di carne. Era come un dito invisibile, morbido e polposo, che premeva contro la gola di Jay. Lungi dal sentirsi in preda ai conati, inspirò a fondo e si lasciò pervadere dal tanfo. Sentì l'odore di carne marcia penetrare nei polmoni e filtrare nel sangue. Aprì la bocca e lasciò che si depositasse sulla sua lingua come un'ostia consacrata. Tutte le finestre erano verniciate di nero, dentro e fuori. Quando Jay premette l'interruttore accanto alla porta, una lunga fila di lampadine da 120 watt sistemata sul soffitto illuminò la scena con un'impietosa luce bianca. Gli piaceva vederci chiaro, in quel posto. Gli piaceva vedere le cose brillare. La baracca era un locale unico, lungo e stretto. A destra c'era una pila di sacchi di plastica nera per i rifiuti, tutti stranamente bitorzoluti e con bolle dovute ai gas, che arrivava a metà parete. A sinistra, vicino alla porta, c'era un freezer grande abbastanza da contenere un uomo. Contro la parete di fondo c'era una scaffalatura su cui erano sistemati in bell'ordine degli oggetti che venivano regolarmente spolverati. Alcuni crani lustri con le cavità oculari piene di rose. Una cassa toracica mummificata fragile come un aquilone. Un paio di mani dalle dita sottili sul fondo di un grande vaso per sottaceti pieno di alcol puro. (Jay contava di usare quell'alcol per fare un liquore alla ciliegia la cui ricetta veniva tramandata da generazioni nella famiglia materna, ma prima voleva marinare ancora un po' le mani.) A sinistra della scaffalatura c'era un tavolo da sala operatoria completo di cinghie, e nell'angolo in fondo a sinistra un bidone da cinquanta galloni di acido muriatico. Quando il giovane Lysander Byrne telefonava alla direzione commerciale della Byrne Metals and Chemicals e chiedeva che gli venisse consegnato un bidone di quella sostanza al suo indirizzo nel Quartiere francese, nessuno faceva una piega. Il resto della parete sinistra era occupato da un enorme frigorifero che aveva comprato per pochi soldi da
un ristorante sull'orlo del fallimento. La consegna di quest'oggetto aveva presentato qualche difficoltà. Jay lo aveva fatto portare sino al giardinetto posteriore e aveva chiesto che venisse lasciato sul carrello, sostenendo di non aver ancora liberato lo spazio in cui sistemarlo. In seguito lo aveva portato all'interno lui stesso, spezzandosi la schiena. I doppi sportelli del frigo erano opacizzati dalla condensa. Jay passò una mano sul vetro svelando una pallida porzione del contenuto. Si portò le dita alle labbra per inumidirle. Poi afferrò entrambi gli sportelli e li aprì. Il giovane era sui venticinque anni, alto e snello, con lunghe gambe ben fatte e una pelle liscia e glabra che faceva impazzire Jay. In vita, quel corpo era stato color cioccolato spruzzato da una patina giallodorata, il risultato di un'estate passata a dormire nudo sulle spiagge dei Caraibi. Aveva raccontato a Jay di aver girovagato per le isole, scroccando passaggi su qualsiasi barca gli capitasse a tiro, vivendo di pesce, frutta e fumate di hashish. I suoi tessuti avevano assorbito abbastanza calore da mantenere a lungo una sana abbronzatura. Ma era morto da più di una settimana e, decapitato, era stato appeso per i piedi con un gancio infilato attraverso i tendini delle caviglie. Con il defluire del sangue dal collo mozzato in una catinella che Jay aveva sistemato sotto il cadavere, la pelle aveva assunto un pallore cinereo e un aspetto un po' crespato. Sembrava fosse stato troppo a lungo in un bagno molto freddo. Pene e testicoli erano sacchetti di pelle nero-viola che si perdevano nei ciuffi di peli incrostati di sangue rappreso. Le braccia erano sollevate e legate con una corda che era stata infilata nel gancio da macellaio per contribuire a sostenere il peso del corpo. Jay aveva sezionato il ventre e rimosso le viscere subito dopo aver ucciso il ragazzo. Bisognava sventrarli subito per impedire che il corpo si gonfiasse e scoppiasse, spesso nell'arco di poche ore. A questo aveva tolto anche il cuore e i polmoni. Le cavità svuotate erano lisce e prive di sangue perché Jay aveva lavato ben bene il corpo con la pompa prima di appenderlo. Il sangue imputridiva rapidamente e aveva una puzza ricca, gustosa. Questo lo sapeva sin da quando, a sedici anni, si era tagliato un dito e aveva conservato il sangue in un flacone per poter annusare la decomposizione del proprio corpo. Premette le dita sul petto del cadavere lasciando cinque piccoli incavi nella carne fredda. Sfiorò i lembi dell'enorme ferita assaporando le diverse sensazioni tattili della pelle, dei muscoli e delle ossa, poi si toccò di nuovo le labbra leccando il gelido umidore delle dita. Il pene gli pulsava. Nel cra-
nio gli pareva di avere mosconi ronzanti, rotoli di filo spinato, lava ribollente. Jay arrovesciò il capo all'indietro e urlò rivolto al soffitto. L'eco rimbalzò dai muri e dal pavimento di cemento. Se urlasse di gioia o di angoscia non gli era dato sapere, ma il suono lo investì penetrandogli in ogni orifizio, alimentandolo con la sua forza. Poi cadde in ginocchio e spinse il volto contro il ventre del cadavere appeso. Conficcò i denti nella carne che a quel punto aveva la consistenza di un budino piuttosto solido. Morse i lembi della ferita strappando strisce di pelle e muscolo, inghiottendoli interi, umettandosi il viso con la propria saliva e con gli esigui succhi rimasti in quella carne gelata. Fece scorrere le mani lungo la spina dorsale, tra le natiche, infilò un dito nell'ano e lo vide muoversi nella cavità svuotata. A un certo punto ebbe una eiaculazione, e lo sperma, quasi negletto, scivolò lungo la coscia, minuscolo sacrificio per quel meraviglioso altare. Per alcuni minuti Jay rimase in ginocchio sul pavimento, la guancia contro il pettorale sinistro del cadavere, la mano posata sulla curva della spalla. Dal frigo usciva un'aria piacevolmente fresca che lo trascinava in un sogno di morte. Quando infine riuscì a rialzarsi, si sentì come rinato. Lasciò l'alloggio degli schiavi per tornare in casa a fare un bagno e a vestirsi. Insaponandosi, sentì vari residui scivolargli di dosso: tracce di Tran, freddi fluidi del cadavere, il proprio sudore, essiccato e carico di umori di droga. Quando uscì dalla vasca, si sentì nel contempo calmo ed eccitatissimo. Come sempre, a queste emozioni si accompagnava un senso di sgomento, come in un viaggio da acido finito nel panico. L'interludio nella baracca lo aveva calmato, lo aveva aiutato a ritrovare un equilibrio instabile. Tuttavia non poté far a meno di uscire anche quella sera. SE ABITASSI QUI, SARESTI MORTO. Avevo appena visto quella frase scritta su un muro rosa in uno stampatello accurato, tracciato con un pennarello nero. Non riuscivo a capirne il significato, ma lo immaginavo minaccioso. Non ero ancora ciucco tradito, ma ce la stavo mettendo tutta per diventarlo. Il Quartiere francese non mi dava l'impressione di essere quel pozzo di perversione che mi ero aspettato. Mi ero immaginato certe viuzze grigie di Soho, spettacoli porno e sex-shop, clienti furtivi che entravano e uscivano da bui portoni. Ma il sesso, nel Quartiere francese, sembrava gioioso, il-
luminato a festa e del tutto commerciale. Le vetrine di Bourbon Street esibivano peni di plastica colorata, lubrificanti di vari aromi, bambole gonfiabili e strumenti sadomaso. Davanti ai club di strip tease c'erano imbonitori che vantavano la miserevole gamma di vizi offerta dal locale. Il sesso, o quantomeno pallidi succedanei del suddetto, sembrava essere una fondamentale attrazione turistica. A una certa altezza di Bourbon Street le luci diventavano meno scintillanti, la musica era più forte, la folla più rada e in prevalenza maschile. In quei bar le consumazioni erano più costose di quanto non fossero nella zona turistica, ma io ero ormai arrivato al tetto dell'ebbrezza che potevo concedermi. Nelle ore successive avrei centellinato i drink, facendomi cullare dalla corrente dell'ubriachezza senza però farmi trascinare via. La sbronza non era il solo piacere che cercavo quella sera. Passai da un bar all'altro, assimilando birra e atmosfera, valutando la composizione delle folle di avventori. Alcuni locali erano giovani, chiassosi e frenetici. Altri erano pieni di uomini di una certa età che occhieggiavano voraci qualsiasi cosa sotto i trentacinque. Altri ancora avevano una clientela varia e assortita, ed era in questi che mi trattenevo più a lungo. Nessuno mi avrebbe ricordato come un tipo strano: sarei stato solo uno dei tanti dragatori da bar. Nessuno mi avrebbe notato perché ero troppo giovane, o troppo vecchio, o troppo eccentrico, o troppo normale. Diversi uomini attaccarono bottone con me. Chiacchierai con loro, accettai i drink che mi venivano offerti e li lasciai andar via illesi. Di alcuni non gradivo l'aspetto, e l'attrazione fisica era essenziale. Altri sembravano troppo svegli, troppo sobri, troppo padroni delle loro facoltà mentali. Nei potenziali compagni cercavo sempre una certa insicurezza, nulla di eclatante come un vero e proprio desiderio di morte, ma una sorta di passività nei confronti della vita. Negli ultimi anni è stata diffusa una valanga di «profili dell'omicida», elenchi di caratteristiche miranti a delineare il carattere dell'assassino abituale. Ma che dire del profilo della vittima ideale? Di certo esistono anche loro, e, come noi, marciano inesorabilmente verso il destino loro riservato. (Sì, certo, ci sono anche le vittime che semplicemente si trovano nel luogo sbagliato al momento sbagliato. E poi esistono i randagetti che vagano incauti, apparentemente offrendosi a chiunque li voglia.) Sono convinto che le vittime ideali presentino più similitudini tra di loro di quanto non avvenga con la loro controparte assassina. Un omicida abituale deve avere una personalità molto spiccata, anche se tutto quello scin-
tillio spesso nasconde solo un vuoto ululante. Ma la vittima, anche prima di morire, spesso ha ben poca consistenza. Senza sapere quali vie avevo percorso per arrivare sin lì, mi ritrovai in un locale chiamato Hand of Glory. Ricordavo di aver letto da qualche parte che quello era il nome di un talismano fatto con la mano mozzata e mummificata di un assassino. Nello stato d'ebbrezza in cui mi trovavo, interpretai questo come un buon auspicio. Ordinai un Vodka & tonic, un drink che avrei potuto sorbire più lentamente di una birra, e presi posto a un tavolo da cui si vedeva bene tutto il locale. Il bar era affollato ma non brulicante. Evitavo i luoghi con una ressa eccessiva perché ti trovavi sempre qualcuno tra i piedi quando cercavi di andartene senza farti notare. Questo posto aveva un'aria da grotta, misterioso e raccolto. Il soffitto era rivestito da un graticcio cui erano sospesi polverosi grappoli d'uva di plastica. L'illuminazione principale era fornita da una scritta al neon verde chartreuse che pubblicizzava il Mickey's Big Mouth Malt Liquor. Il jukebox era ben fornito di canzoni sentimentali e, a differenza di quasi tutti i bar d'America, non si vedeva il baluginio intermittente di un televisore. In un angolo, a mo' di sentinella, era piazzato uno spettrale nudo in marmo bianco, gli occhi vacui, gli attributi scarsini. Scrutai la folla. Era un misto di ragazzotti vagamente punk, fighetti in nero, eleganti coppie di maschi e single in caccia. Mi chiesi se avessi l'aria di uno di questi ultimi, e stabilii di no. Ero troppo tranquillo, troppo riservato. Non abbordavo mai nessuno. Erano gli altri ad agganciarmi. Vedevano in me qualcosa di cui avevano bisogno e si facevano sotto. Forse assomigliavo di più al genere fighetta-in-nero, sia pure con qualche vacillamento. Mi sentivo a disagio in maglione e calzoni pesanti, essendo stato costretto a togliermi il mio bel giaccone inglese. Certo, l'aria era pungente e carica di umidità. Ma ero appena arrivato da Londra, dove le nebbie di novembre erano come mani malevole che ti si infilavano nel colletto per stringerti il collo picchiettato dalla pelle d'oca, dove i venti di novembre erano più taglienti del mio bisturi rubato. Per la prima volta dalla morte che mi ero autoimposto in prigione, mi sentivo a mio agio, quasi soddisfatto. Qualcuno mi avrebbe abbordato, un ragazzo perfetto, maturo per il macello. Avrei trovato un luogo in cui portarlo e l'avrei posseduto ripetutamente. Ne avevo una tale voglia che non riuscivo neppure a preoccuparmi delle eventuali conseguenze. Se mai mi avessero preso, mi sarei lasciato uccidere. Mai e poi mai sarei tornato in
prigione. Se non mi avessero ucciso, mi sarei di nuovo imposto di morire, e questa volta definitivamente. Chiusi gli occhi e avvertii il gradevole vorticare dell'ambiente che mi circondava. Non appena avessi aperto gli occhi, lo avrei visto. «Permetti?» La voce era bassa ma chiara. Penetrò nei miei pensieri ovattati come un coltello seghettato nella garza. Aprii gli occhi, li richiusi per un istante di fronte al brillio delle luci del bar e al riflesso di un paio di lenti, e contemplai per la prima volta l'amore della mia vita. Naturalmente allora non sapevo che quello sarebbe stato l'amore della mia vita. Vidi solo un tizio alto e biondo in abiti di lusso con in mano due bottiglie di birra gelata. Dixie, la marca che stavo bevendo. «Ti ho visto seduto qui tutto solo. Hai l'aria di non conoscere nessuno. Ho pensato che avresti gradito bere qualcosa di fresco.» Non semplicemente qualcosa da bere, ma qualcosa di fresco. Quell'uomo ci sapeva fare. Quante ore avevo passato in cella, tormentato da una sete che l'acqua tiepida del rubinetto non avrebbe mai potuto soddisfare, sognando qualcosa di veramente fresco? «Ma certo», risposi. «Tante grazie. Vuoi farmi compagnia?» Mi sorrise mentre prendeva posto davanti a me, e notai due caratteristiche del suo volto. Primo: era bellissimo. Un lungo naso sottile ed elegante, mascella asciutta e ben disegnata, labbra sensuali con una piega che poteva essere sardonica o crudele. Secondo: i suoi occhi erano più gelidi di qualsiasi bevanda fredda, un gelo tutto interiore, ed erano di uno straordinario verde menta, simile al ghiaccio polare. Erano inattaccabili dal sorriso. Se non fossi stato ubriaco, penso che avrei capito subito che tipo era. Ma in quel momento mi limitai a ricambiare il sorriso e a pensare che purtroppo prima o poi avrei dovuto congedarmi da questa gelida bellezza perché chiaramente non era una vittima ideale. «Mi piace il tuo accento. Da dove vieni?» «Da Londra», risposi. Mi sembrava di andare sul sicuro: per un americano un inglese di Londra era meno inconsueto di quelli di altra provenienza. «Londra.» Annuì, confermando quanto avevo detto, com'è abitudine degli americani. «Hai nostalgia di casa?» «Per niente.» «Che cosa ti porta da queste parti?» «Il clima.»
«Morale o meteorologico?» «Entrambi.» Tacemmo e ci scambiammo un mezzo sorriso, soppesandoci a vicenda. Non era il tipo che di solito prediligevo, e avevo una mezza idea di non essere il suo. Però non volevo che se ne andasse, e lui non sembrava intenzionato a farlo. Infine mi chiese: «Come ti chiami?» Nella mia vita precedente, avevo sempre detto il mio vero nome ai ragazzi. Non mi era mai parso necessario fare altrimenti. Stasera mi ero presentato come Arthur, dato che non ero stato abbordato da nessun tipo interessante. Ma a quest'uomo dissi: «Andrew». «Io sono Jay.» Mi tese la mano attraverso il tavolo. La sua stretta era languida, per niente sudaticcia. Quando stringevo la mano di un potenziale compagno facevo sempre scivolare il palmo in avanti per afferrare il polso tra le dita, valutando poi la reazione a quel gesto intimo e dominatore. Adesso rimasi scioccato scoprendo che Jay aveva fatto la stessa cosa a me. Entrambi ritirammo subito le mani e ci fissammo. Anche questa volta fu lui a rompere il silenzio. «Vorresti qualcos'altro da bere?» Non mi ero neppure accorto di aver già finito la birra. Levai la bottiglia verso la luce: era vuota. Anche la Vodka & tonic era sparita. «No, grazie», risposi. Avevo voglia di un'altra birra, ma non capendo bene la situazione non volevo ritrovarmi ancor più sbronzo di quanto non fossi. «Be', io sì. Scusami un attimo, Andrew.» Attese persino che gli facessi un cenno di assenso prima di allontanarsi. Lo seguii con lo sguardo mentre s'inoltrava tra la folla, sinuoso come un gatto siamese, e mi chiesi che cosa volesse da me un tipo così elegante, così composto, così stranamente educato. La ressa del bar era aumentata, e ben presto lo persi di vista. Dopo dieci minuti non era ancora tornato. Mi agitai sulla sedia, chiedendomi se mi avesse fatto un bidone. Avevo un disperato bisogno di pisciare. La mia vescica aveva perso elasticità in prigione, dove puntare il cazzo verso il pitale e produrre qualche goccia di pipì era un modo come un altro per combattere la noia. Temevo che Jay tornasse prima di me e pensasse che io me ne fossi andato. Ormai ero affascinato da quel tizio, pur non sapendo bene il perché. Ma la natura ebbe la meglio. Quando infine, incapace di trattenermi, mi alzai dal tavolo, dovetti afferrarmi alla spalliera della sedia per non vacilla-
re. Il bar s'inclinò. Controllati, pensai. Sei un alcolista e un inglese. Devi cavalcare quest'ondata. Più che un'ondata, dovetti affrontare una vera tempesta, ma, bene o male, riuscii a traversare il locale e a raggiungere la toilette. Per fortuna si trattava di uno stanzino singolo, che si chiudeva dall'interno. Dopo Sam, non avevo una gran voglia di vedermi davanti una lunga fila di lavabi e di gabinetti semibui. Pisciai quelli che mi parvero litri e litri, poi, uscendo, mi diedi un'occhiata allo specchio. Capelli spettinati, ritti sulla testa, occhiali di traverso, occhi un po' esaltati: il solito buon turista inglese in una serata di bisboccia. Jay era accanto alla porta, appoggiato al muro. Aveva l'aria ciucca come me. «Dovevo pisciare», mi disse, «ma nel tragitto verso il bagno ho bevuto tre tequila.» «Perché tre?» «Una per ogni volta in cui mi hai fatto irritare.» Mi lanciò una lunga occhiata. «Primo: quando ti ho messo gli occhi addosso. Secondo: quando mi hai stretto la mano. Terzo: quando ho visto che non eri più al tavolo.» Cercai di afferrarlo alla spalla. La mano sembrò fluttuare tra di noi per un istante, poi finì sul suo petto, proprio nella V del colletto sbottonato. Jay tese le lunghe braccia e mi strinse a sé. Inciampai, cadendogli addosso. Essendo Jay più alto di me, il mio volto finì contro il suo collo, le mie labbra contro la sua gola. Poi, chissà come, ci baciammo con un ardore che non avevo mai concesso a nessuno, vivo o morto. Gli infilai le dita tra i capelli tirando tanto forte da fargli male. Lui mi cacciò la lingua in bocca passandola lungo il bordo affilato dei denti e spingendosi a fondo, come se volesse soffocarmi. Il suo bacio sapeva di sangue e di rabbia. E aveva il lento aroma del dolore. Conoscevo quei sapori: erano gli stessi della mia bocca, della mia vita. Non sapevo ancora chi fosse Jay, ma a un qualche livello istintivo, quasi biologico, lo avevo riconosciuto. Avevo capito che quell'uomo era infinitamente pericoloso per me. E sapevo anche che dovevo scavare in lui sino ai limiti da lui concessimi. Quando riuscii a smettere di premermi contro di lui come se volessi incastrarlo nel muro, mi ritrassi e lo guardai in viso. Cercare di leggergli negli occhi era come scandagliare una pozza di acqua fangosa: mi pareva di vedere qualcosa muoversi nel profondo, ma l'unico dato certo era il mio vago riflesso. «In che cosa ci stiamo cacciando?» sussurrai. «Un'avventura», disse Jay, con uno dei suoi sorrisi gelidi e adorabili. In
seguito mi disse che, in quel momento, era ancora deciso a uccidermi. Non c'era dubbio che saremmo andati via di lì insieme. Quando uscimmo dall'Hand of Glory, non sapevo se benedire o maledire quel locale. Imboccammo una via laterale scambiandoci qualche occhiata e sfiorandoci ogni tanto le spalle e le mani. Le vie acciottolate erano strette e tranquille, fiancheggiate da case con ringhiere merlettate, cottage vittoriani e strani edifici dalla facciata disadorna. C'erano misteriosi cancelli e vicoletti bui, oltre i quali ogni tanto s'intravedeva un giardinetto con una scintillante fontana al centro. Jay indicò un alto edificio grigio a un angolo. «Quella casa è infestata dai fantasmi.» «Che fantasmi?» «Quelli degli schiavi torturati.» Tra noi cadde un silenzio greve di attesa, non tanto perché lui volesse sentirsi rivolgere domande sulla storia dei fantasmi, ma probabilmente per sapere se avevo delle opinioni sulle torture agli schiavi. «Affascinante», dissi, non volendo sbilanciarmi per il momento. Mi chiesi di nuovo che cosa volesse quest'uomo da me, e che cosa io mi aspettassi da lui. Avremmo scopato? Era così tanto tempo che non facevo sesso con una creatura vivente che non ero certo di ricordare come si procedeva. Ritenevo di poterlo uccidere nel suo stesso territorio, senza un'arma e nessun mezzo per far sparire il cadavere? L'idea mi solleticava, ma l'attuazione sembrava improbabile, soprattutto dopo aver dato una bell'occhiata al suo profilo. Questo non era un pacifico ragazzo da macello. Era un animale di tutt'altra specie. Jay si fermò e aprì un cancello le cui sbarre erano sormontate da decorazioni a forma di ananas. Traversammo un giardinetto pieno di erbacce per arrivare a una casetta bianca. Dopo l'inserimento di svariate chiavi e la digitazione di una sequenza di numeri sulla tastierina di un sistema di sicurezza, ci ritrovammo all'interno. Con la memoria riandai come un lampo alla complicata serie di serrature e paletti che avevo installato nel mio appartamento di Brixton, l'ultimo luogo in cui avevo abitato prima di finire in prigione. Avevo sempre avuto il terrore che qualcuno entrasse in mia assenza e trovasse cose che avevo dimenticato di occultare o buttare. Non era per paura di essere arrestato o punito: la mia visione s'interrompeva di colpo con la scoperta dell'anonimo intruso. La mia paura era di sentirmi esposto, di vedere scoperchiato il mio mondo segreto con tutti i suoi vulnerabili
meccanismi. Fu proprio così che mi sentii quando vennero ad arrestarmi: un dolore cieco, dolente, bruciante, il tipo di dolore che deve provare una lumaca schiacciata, con il suo rifugio a spirale ridotto in pezzi, e il corpo ridotto a un frammento di carne lasciato a seccare sotto i cocenti raggi del sole. Jay mi guidò dentro la casa. Il salotto era un trionfo di broccati e dorature. Mi piaceva il suo odore: una nota dominante d'incenso con un retrogusto di polvere e di muffa. Entrammo in cucina. Il pavimento e gli armadietti erano immacolati. Appoggiato a una parete c'era un tavolo con una struttura metallica e un ripiano di un qualche materiale bianco e lucente con picchiettature dorate. Su di esso c'erano una saliera, un macinapepe, una bottiglietta di salsa Tabasco e un cavatappi. Mi sedetti su una delle due sedie disponibili. «Vuoi bere qualcosa?» chiese Jay. «Ehm... non ora.» La stanza beccheggiava un po', e io volevo non perdermi nulla di quello che sarebbe successo. Jay si versò una dose di cognac di lusso, ne bevve metà d'un fiato e si avvicinò a me tenendo tra le mani il grande bicchiere panciuto di cristallo sottilissimo. Il cognac sul fondo aveva il colore del rame liquido. Jay me lo agitò sotto il naso. «Neppure un sorso?» «Perché no?» Presi il bicchiere dalle sue mani, sorbii un sorso e lo tenni in bocca prima di deglutirlo. La sua morbidezza fu una benedizione sulla mia lingua. «Delizioso», commentai guardando Jay negli occhi. «Sì, vero?» Posando una mano sullo schienale della sedia, si chinò a baciarmi. Il sapore del cognac passò tra le nostre bocche, riscaldato e arricchito dalla saliva. Jay mi afferrò una mano e sentii qualcosa di freddo attanagliarmi il polso, un cerchio di metallo che si strinse e si chiuse con un clic. Mi sottrassi al bacio e abbassai gli occhi: Jay mi aveva ammanettato alla sedia. Il mio stupore nel vedermi di nuovo intrappolato fu totale e assoluto. Ma altrettanto totale e assoluta fu l'assenza di sorpresa di fronte al gesto di Jay. Alzai lo sguardo su di lui e gli sorrisi. L'ombra del dubbio gli offuscò il volto, e all'istante svanì. Bevve un altro sorso di cognac, si bagnò le dita con la lingua e mi sfiorò la mascella. Si fermò più in basso, nel punto in cui mi pulsava l'arteria del collo. «Sicché ti piace fare qualche giochetto, Jay?» gli chiesi. «E sia. Piaccio-
no anche a me.» Posai la mano sulla sua, gli carezzai il braccio, lo presi per i capelli e gli feci abbassare il capo. Quando lo baciai, le sue labbra si irrigidirono. Sentivo la durezza dei suoi denti lucenti. Mollai la presa ai capelli, lo baciai sotto il mento e scesi sino al morbido incavo alla base del collo. «Gioca con me», gli sussurrai. «Sono tutto tuo.» Allungai la mano libera sul tavolo e raggiunsi il cavatappi. Lo afferrai e sentii la punta mordermi la pelle. Il corpo di Jay si irrigidiva a ogni mio contatto. Alzai le gambe e gli bloccai le braccia contro il torace come meglio potei. Non che fosse proprio intrappolato, ma era troppo stupefatto per liberarsi immediatamente. La sedia s'inclinò all'indietro e urtò il tavolo. Spinsi la punta del cavatappi contro la giugulare di Jay, nello stesso punto in cui lui mi aveva toccato con le dita umide di cognac. «Dai», gli sibilai all'orecchio. «Procediamo. Qual è la tua prossima mossa?» Cercò di liberare il braccio destro dalla presa delle mie gambe, e io aumentai la pressione del cavatappi. Sulla punta apparve un puntolino rosso che mi rimescolò sangue e respiro. La vista del rosso sull'inox aveva sempre quest'effetto su di me. Jay divenne una statua. «Che cosa vuoi?» Che cosa volevo io? Vi invito a ricordare che quell'uomo aveva un oggetto appuntito contro la gola; il mio modo d'amare non contemplava una serie di domande stupide. «Che diavolo credi che voglia? Riprenditi i gioiellini... non è roba che fa per me!» «Gioiellini?» Emisi un gemito di frustrazione e battei le manette contro l'intelaiatura metallica della sedia. «Ah... quelle.» Lo tenevo ancora inchiodato tra le gambe e gli puntavo l'arma contro il collo, ma giuro che lui, nonostante tutto, ritenne opportuno elucubrare sulla situazione. «Be', scommetto che riuscirei a mettermi fuori della tua portata prima che tu m'infliggessi una ferita fatale. E a quel punto che faresti?» «Mi trascinerei con la sedia, ti bloccherei in un angolo e ti farei fuori.» «E se ti dicessi che in quel cassetto laggiù ho una pistola?» Me lo indicò con il mento. Seguii la sua mossa con il cavatappi, che a quel punto mi parve un'arma piuttosto ridicola. Quella posizione scomoda cominciava a fiaccarmi le gambe, e la sbronza era più acuta che mai. «Direi che menti, Jay. Non sei tipo da pistola.»
«Ci scommetteresti la vita su questa tua ipotesi?» «L'ho scommessa su cose più balzane.» Ci fissammo, entrambi ribollenti di adrenalina e di desiderio, entrambi incapaci di muoverci. Capii che anche lui, in questa situazione, provava il mio stesso perverso piacere. «Bene», disse infine Jay, «lasciami andare. Prendo le chiavi.» Abbassai le gambe e lentamente scostai il cavatappi. Non avevo scelta: non sarei riuscito a mantenere quella posizione precaria per un altro istante. La sedia si raddrizzò, e io mi accorsi di avere un tremito alle gambe. Jay arretrò lentamente, non verso il cassetto che aveva indicato, bensì verso il frigo. Si fermò per un istante accanto al lucido elettrodomestico e mi trapassò con un'occhiata calma e limpida. Nell'attenzione per i minuscoli particolari che caratterizza determinati momenti, notai che lo sportello del frigo non era ornato da piccole calamite, fogliettini d'appunti, foto e robette simili. Come gran parte delle superfici della cucina, sembrava essere stato ripulito di recente con un potente disinfettante. Jay aprì lo sportello del freezer e tirò fuori un pacchetto avvolto in robusta plastica nera. Lo posò sul tavolo e cominciò ad aprirlo, senza più fingere di temere il cavatappi che tenevo ancora nella mano libera. Sapeva di avere di nuovo catturato la mia attenzione. Prima ancora che avesse scartato completamente il pacchetto, avevo già indovinato quale fosse il contenuto. Io stesso avevo conservato e buttato molti pacchetti simili. Riconoscevo la forma e il peso di una testa umana, le sue dimensioni, la sagoma ovoidale che assumeva quand'era avvolta in plastica, stoffa o carta di giornale. I volti, una volta surgelati, perdono molto del loro carattere. Le fattezze s'irrigidiscono e assumono un aspetto raggrinzito. Talvolta diventa difficile distinguere un uomo da un altro, una volta tolto l'involucro. Questo, in particolare, aveva capelli scuri e radi, e occhi come biglie grigie e appannate. Il naso e la guancia destra si erano leggermente appiattiti, forse a contatto con il fondo del freezer. La bocca era semiaperta, i denti dischiusi. All'interno regnava l'oscurità. Jay trasse di tasca una piccola chiave e me la mostrò prima di buttarla in quella gelida bocca nera. Soffocai a stento una ghignata. E questa, secondo lui, doveva essere una gran prova? Afferrai i capelli brinati e trassi a me la testa. Infilai indice e pollice nella piccola fessura tra i denti e tastai alla ricerca della chiave. Le unghie rasparono spiacevolmente contro la superficie scabra della lingua. Era come
artigliare una mattonella di gelato. Qualcosa mi si attaccò alle dita: saliva, sangue, cellule epiteliali cristallizzate. Non gradivo per niente la sensazione di quei denti gelidi che mi grattavano le nocche. Avevo maneggiato molti resti freschi, e alcuni un po' più frollati, ma avevo sempre cercato di evitare questo tipo di conservazione. Mi piace il fresco pallore della morte a temperatura ambiente, non la rigida morsa del congelamento. Tuttavia, in quel momento, non sarebbe stato prudente esibire la mia avversione. La chiave era scivolata in fondo alla lingua. Tentai di raggiungerla e la sentii cadere in gola. Cominciavo a scocciarmi di tutta questa faccenda. Ero quasi sicuro che avrei potuto uccidere Jay pur essendo ammanettato, e quindi perché prendersi la briga di mostrarsi all'altezza di chissà cosa? Però non volevo uccidere Jay. Sollevai la testa afferrandola per i capelli, la scossi ben bene e battei il fondo del collo sul piano del tavolo. Una testa privata del corpo è più pesante di quanto ci si aspetti, ma se riesci ad agguantarla per i capelli, la puoi sollevare benissimo anche con una mano. La chiave cadde dal bordo frastagliato dell'esofago. Sbattei giù la testa, presi la chiave con due dita (le stesse che avevo infilato in quella bocca surgelata) e aprii le stupide manette. Quando mi alzai e mi girai verso di lui, Jay mi guardò con una sorta di stupore. «Che cosa sei?» mi chiese. Posai le dita sulla stilla di sangue della sua gola, me le portai alle labbra e, per la prima volta, assaggiai il suo sangue. «Sono il tuo incubo. Credevi che, essendo a tua volta un incubo, avessi chiuso con gli incubi?» Scosse il capo: no. «Non mollare mai i tuoi terrori», gli consigliai. «È proprio a quel punto che ti saltano addosso. Qual è la tua paura più grande, Jay?» Nessuna esitazione. Una voce sorda, decisa. «La solitudine.» «Adesso ti ritieni solo?» Altra scossa del capo. «Allora prova a immaginare le quattro pareti di una cella. Il soffitto è la carta di un terribile paese che conosci a memoria. I muri possono restringersi e richiudersi intorno a te se li fissi troppo a lungo. Niente sangue, niente compagnia, nulla fuorché il sibilo del tuo respiro e il tanfo del pitale.» Cominciava a tremarmi la voce. «Non entra nessuno, e a te sembra di non uscirne mai, e non hai nulla da guardare, mentre tutti possono guardare te. Ti sembra terrificante?» «Sì.»
«E allora non accantonare mai quel terrore. Non distrarti mai. Potrebbe esserti fatale, Jay. Qui nel tuo paese ammazzano gli omicidi, no? Forse è più umano. Anzi, lo è senz'altro. Che paese misericordioso. Se mi beccano di nuovo, Jay, fa' in modo che mi uccidano prima di rimettermi nella bara!» «Andrew.» Aveva posato le mani sulle mie spalle e con i pollici mi carezzava i lati della gola. Quel tocco, chissà come, mi placò. «Non conosco la tua storia, ma al momento non sei in prigione. Nessuno ti ucciderà. Resta con me.» I suoi occhi brillarono. «Gioca con me.» «Sì.» Gli cinsi la vita con le braccia e mi appoggiai a lui. «Credo di poterlo fare.» Restammo abbracciati nella vivida luce della cucina. Quando ci baciammo, non fu una delle bavose linguate che ci eravamo scambiati nel bar, ma qualcosa di più esitante, quasi delicato, una reciproca riscoperta. Poi Jay si sciolse dall'abbraccio e mi tirò verso la porta. «Vieni sul retro. Voglio farti vedere l'alloggio degli schiavi.» Non avevo mai assaporato la decomposizione. La conoscevo, certo, e non mi faceva schifo. Però non ne avevo mai tratto piacere. Mai, sino a quel momento. Sotto gli occhi divertiti di Jay, infierii sul corpo decapitato che mi era stato messo a disposizione. Lo afferrai per le spalle irrigidite mentre lo scopavo. Aggredii quella carne dissanguata con coltelli, forbici, cacciaviti... tutto quel che Jay mi porgeva. Quando l'ebbi ridotto a poco più di una chiazza sugli antichi mattoni, mi rivoltolai tra i resti. Poi Jay si uni a me e mi ripulì con la lingua. Avvertii un residuo di disgusto mentre la sua lingua leccava via frammenti di tessuto dai peli del mio inguine. Ma fu una sensazione fuggevole, del tutto diversa da quella che ci si aspetterebbe da una persona sana. L'orrore è il distintivo dell'umanità, esibito con orgoglio, ipocrisia e talvolta con falsità. Quanti di voi si sono soffermati sulle descrizioni delle mie imprese o di esibizioni analoghe, ricche di gustosi particolari, celandosi dietro un velo sottile di indignazione morale? Quanti di voi hanno resistito alla tentazione di lanciare un'occhiata a qualche disgraziata creatura morente sul ciglio di un'autostrada? Quanti di voi hanno rallentato per vedere meglio? Si dice che i pluriomicidi debbano avere un qualche trauma affondato nel loro passato, una qualche patetica concatenazione di maltrattamenti, stupri, cedimento dell'anima. Nel mio caso, a quanto mi risulta, questo non
è vero. Nessuno mi ha molestato né picchiato, e il solo cadavere che vidi durante l'infanzia fu quello, banalissimo, di una prozia. Sono emerso dal grembo materno senza alcuna morale, e nessuno è stato capace di instillarmene una. La prigionia è stato un lungo sogno, un limbo, non una punizione, poiché non avevo fatto nulla di male. Per tutta la vita mi sono ritenuto una specie unica al mondo. Mostro, mutante, superuomo nietzschiano... non ci vedevo alcuna differenza. Non avevo elementi per fare un confronto. Adesso avevo trovato un altro della mia stessa pasta, e volevo sapere tutto di lui. Ma Jay stava frugando in un armadietto e tirando fuori una bottiglia di vodka da cui bevve a garganella prima di passarmela. Il vetro e l'etichetta erano coperti di ditate sanguinolente. Il collo della bottiglia tintinnò contro i denti mentre bevevo. Non avevo avuto paura di Jay quando lui aveva pensato di uccidermi. Adesso che mi voleva vivo, trovavo terrificante la nostra nuova intimità. Bevemmo sino a crollare tra i resti sbrindellati del ragazzo. Svegliati dalla luce del mattino, ci alzammo doloranti e puzzolenti, rientrammo in casa e ci buttammo insieme sotto il tiepido spruzzo della doccia. Puliti come neonati, c'infilammo a letto e dormimmo per il resto della giornata, a metà turbati e a metà consolati dalla vicinanza dei rispettivi corpi viventi. 10 Luke lo stava stringendo forte, fissandolo in volto e penetrandolo a fondo. Tran era supino, le gambe strette intomo alla vita di Luke. Avevano la pelle iridescente di sudore, i muscoli tesi come corde di violino, i corpi in perfetta sincronia. «Ti piace così, piccolo?» mormorava ogni tanto Luke mentre si spingeva sempre più a fondo, e Tran riusciva solo a esprimere un roco assenso mentre l'amante lo impalava gloriosamente, ancora e ancora e ancora. «Ehi, Tran! Tran! Stai male?» Tran si girò su un fianco per ripararsi dalla luce e affondò il capo in qualcosa di morbido. Voleva continuare a sognare. Sapeva di avere molte ragioni per non volersi destare, ma la sensazione del corpo di Luke sul suo lo aveva aiutato a dimenticarle quasi tutte. «Su, svegliati. Non dovresti dormire qui. Qualche lercio barbone potrebbe derubarti.»
Tran ricordò vagamente i cinquecento dollari infilati nelle scarpe da tennis. Sentì il prurito del rotolo di banconote sotto il calzino, ancora al sicuro, ma non voleva neppure pensarci. Quei soldi gli ricordavano la scenata con il padre, il disastro con Jay, l'auto con tutti i suoi averi parcheggiata dietro la Jax Brewery, il fatto di essere senza tetto. Tutte cose che lo strapparono all'illusorio nirvana del cazzo di Luke dentro di lui. Aprì gli occhi e si vide davanti Soren Carruthers, un ragazzo in cui si era spesso imbattuto nei club, nei caffè e alle feste. Alle spalle di Soren si profilavano le guglie bianche della cattedrale di St. Louis. A quanto sembrava, si era addormentato su una panchina di Jackson Square. Visto lo stato pietoso in cui versava quand'era uscito dalla casa di Jay, Tran si ritenne addirittura fortunato di essere arrivato sino a una panchina. Riuscì a posare il capo sul grembo di Soren, il quale lo carezzò, scostandogli delicatamente dal volto i capelli. Quel tocco tenero e asessuato era così piacevole da fargli affiorare le lacrime agli occhi. Ricordò la tempesta di emozioni che aveva provato ieri da Jay. Un senso di vergogna gli impose di non piangere. Ancorando un braccio alla spalliera della panchina, si drizzò a sedere, si passò le mani sugli occhi e tra i capelli e lanciò una timida occhiata a Soren. «Non è proprio il caso che tu ti senta imbarazzato», gli disse il ragazzo. «Una volta ho passato tre notti qui.» «Davvero?» Tran non se lo vedeva proprio uno così a vivere da barbone, senza specchi, senza lozioni, senza shampoo profumato. Soren sembrava il tipo per il quale il lusso era un ingrediente essenziale della vita. Ma, a quanto pareva, qualcos'altro si annidava sotto quella superficie levigata. Tran si rese conto di sapere ben poco di quel ragazzo taciturno, di non essersi mai preso la briga di conoscerlo meglio. Era stato così tanto con Luke che gran parte delle sue amicizie precedenti erano franate o stavano morendo di superficialità terminale. «Dico sul serio», rispose Soren. «È più o meno dall'età di sedici anni che vivo per conto mio. La famiglia mi foraggia generosamente purché stia alla larga da loro. L'anno scorso mio nonno mi ha offerto duecentocinquantamila dollari perché me ne andassi via da New Orleans per sempre. Ma ho rifiutato. Ho delle cose da fare in questa città.» E quali, per esempio? avrebbe voluto chiedere Tran. «Insomma, che cosa fai qui? La famiglia ti ha sbattuto fuori?» «Sì, tanto per cominciare. Come hai fatto a indovinare?»
Soren alzò gli occhi al cielo. «Cavolo, conosco almeno una ventina di gay cui è capitata la stessa cosa. Non prendertela. Se disprezzano la tua identità orno al punto da cacciarti via, la convivenza con loro era, comunque negativa per te.» «Sono vietnamiti. Non capiscono l'omosessualità.» «Non dire cazzate! I gay esistono in tutte le culture del mondo. Solo che alcune cercano di spazzare il problema sotto il tappeto. Sono sicuro che esistono vietnamiti gay. Tu, per esempio.» «Sono americano.» «Ce ne sono anche in Vietnam. Il governo può anche essere disposto a ucciderli pur di occultarli, ma questo non significa che non esistano.» «Non credo che il governo vietnamita mostri alcun accanimento contro i gay», dichiarò Tran, sperando di chiudere con quell'argomento. Si chiese come e perché Soren avesse acquisito questa coscienza sociopsicopolitica. «Be', hai voglia di prendere un caffè e fare due chiacchiere?» Bastò la parola caffè per fargli intorcinare lo stomaco. Aveva fatto il pieno di stimolanti, e non era proprio in vena. «Qualsiasi cosa, tranne un caffè.» «Che cosa ti piacerebbe?» Tran riflette e si ricordò di non aver più mangiato nulla dopo il panino in casa di Jay. «Mi andrebbe del cibo vietnamita.» «Benone. Andiamo.» Soren lo fece alzare dalla panchina. Tran aveva ancora tracce dell'erezione provocata dal sogno, ma per fortuna la camicia era lunga e larga abbastanza da nasconderle. Non voleva tornare a Versailles, nei cui ristoranti avrebbe di certo incontrato qualche conoscente il quale avrebbe riportato la cosa ai suoi famigliari. Da quando si era presentato in casa di Jay non aveva pensato granché alla famiglia. Adesso, i suoi sentimenti verso di loro avevano cominciato a cristallizzarsi in una sorta di rabbia ostinata. Se il padre era stato capace di cacciarlo senza rimpianti, se la madre e i fratelli si erano lasciati plagiare al punto da disprezzarlo, allora tanto valeva che Tran, a sua volta, li considerasse morti. In auto, imboccarono il ponte chiamato Crescent City Connection per via dell'ansa con cui il Mississippi si snoda a mezzaluna intorno alla città. Oltre alla cospicua maggioranza nordvietnamita, a Versailles c'era anche una numerosa comunità sudvietnamita. I due ragazzi finirono in un localinò incastrato tra una squallida sala da bowling e un motel a buon mercato. Sotto la cassa, fumi d'incenso si levavano verso un altarino buddista. Soren
prese un curry verde aromatizzato con basilico e latte di cocco. Era un piatto del Sud, che risentiva dell'influenza indiana, e benché Tran gradisse quei saporiti pezzi di pollo e di patate dolci cotti in una ricca salsa color smeraldo, trovava strana quella combinazione. Ordinò qualcosa che gli era più familiare: pho ho ha noi, una grande ciotola di brodo limpido e piccante, pieno di tenere striscioline di carne, di trippa e di spaghetti di riso. Quella zuppa era accompagnata da un piatto di verdure fresche, fette di limetta e peperoncini rossi, piccantissimi. Tran era rimasto sorpreso nel vedere questo piatto elencato nel menù, poiché era tipico di Hanoi, la capitale del Nord. Ma probabilmente veniva consumato da tutti i vietnamiti, ovunque. Questa scoperta portò Tran a riflettere su quanto isolata fosse la sua comunità. Era cresciuto senza sapere niente di questi altri vietnamiti, e ben poco degli americani, tranne quel che aveva intravisto a scuola. Gli abitanti di Versailles conducevano la stessa vita che avrebbero fatto in un villaggio di medie dimensioni del Vietnam; si avventuravano in città solo quand'era necessario, ma, perlopiù, mangiavano, lavoravano e si amavano tra di loro. E punivano i figli che volevano spingersi oltre quei confini. Tran e Soren parlarono di che cosa volesse dire andar fuori casa, di come talvolta si riusciva a farlo solo quando ci si era costretti, pur sapendo che era una mossa indispensabile, di come non si volesse mai più farvi ritorno sino a quando, a sorpresa, non ti si affacciava alla mente una qualche piccola immagine. La brocca d'acqua nel frigo con limoni gialli dipinti sul vetro verdolino, il vecchio tavolo da toilette della mamma, l'insidiosa archeologia del tuo armadio. Per Tran, quest'immagine nostalgica era il disordine del bagno di casa, quell'arruffio casalingo che gli era balenato alla mente entrando nell'asettico bagno di Jay. Memore di essersi masturbato in quel luogo, e memore del sacchetto pieno di capelli multicolori, si sentì pervadere da un piccolo brivido. Soren sembrava capire la gamma e la profondità delle emozioni che si potevano provare verso una famiglia che, in pratica, non ti considerava più tra gli «iscritti». Nel tempo che impiegarono a mangiare la portata principale, Tran maturò l'impressione di aver stabilito un tenue legame d'amicizia. Da tanto non aveva più un amico che non volesse scoparlo o comprare acido da lui; anzi, non era sicuro di aver mai trovato un bianco che non volesse l'una o l'altra cosa, o entrambe. Solo al dessert — caffè con latte condensato per Soren, un frullato di frutto dell'albero del pane per lui — Tran trovò l'ardire di chiedere: «Hai visto Luke Ransom di recente?»
Gli occhi grigi di Soren si velarono. Forse era pietà, forse diffidenza. Tran non riuscì a individuarne la motivazione. Ai tempi della sua storia con Luke, Soren conosceva appena il suo amico, e per giunta era il tipo di ragazzo che Luke non gradiva per niente. «No. Non di recente.» Soren parve sul punto di aggiungere qualcos'altro, ma non lo fece. Tran si agitò sulla sedia, giocherellò con il contenitore dei tovaglioli di carta, le bottiglie di salsa di pesce, di aceto e di sriracha, la salsa al peperoncino che non mancava mai nei ristoranti vietnamiti. Soren sapeva qualcosa di Luke. Forse solo che era sieropositivo, forse qualcosa di più. Infine Tran non resse più. «Che cosa c'è?» «Niente. Solo che l'ultima volta che l'ho visto mi è parso davvero devastato per quello che è successo tra voi.» Tran alzò le spalle. «Se telefonare alle tre del mattino per un mese, scrivermi sproloqui deliranti e minacciare di uccidermi significa essere devastato, allora suppongo che lo sia.» Soren inarcò un sopracciglio. «Ha minacciato di ucciderti?» «Una volta ha detto che mi avrebbe rapito e violentato. Ha detto che mi avrebbe imprigionato da qualche parte, scopato senza preservativo e costretto a inghiottire il suo sperma e il suo sangue.» Ha detto anche che avrebbe finito col piacermi... ma non penso di poterlo dire ad alta voce. «Poi mi avrebbe lasciato andare e a quel punto avrei anche potuto denunciarlo, ma lui sarebbe morto felice, sapendo di aver contagiato anche me.» «Luke non potrà mai morire felice», mormorò Soren. Tran fissò le proprie mani che stringevano il bicchiere del frullato, notando le nocche sporche e le pellicine intorno alle unghie. «Non so neppure se eri al corrente della malattia di Luke», disse. «Sì, lo sapevo. Sono sieropositivo anch'io.» A Tran per poco non andarono di traverso le ultime gocce di frullato che salivano dalla cannuccia. Quella non l'avrebbe mai e poi mai immaginata. Non c'era da stupirsi nel caso di Luke, distratto com'era, sempre incazzato, sempre in caccia, con il cervello in fiamme e il corpo e il cuore aperti a qualsiasi veleno. Tutto sommato, l'AIDS non era peggio di tutto ciò che Luke si era comunque aspettato dal mondo. E, naturalmente, tra Luke e Tran c'erano dieci anni di differenza. Erano a stadi molto diversi delle rispettive vite. A Tran piaceva stare con una persona che, pur essendo molto più grande di lui, non era per niente fossile. Luke aveva scritto, scopato, viaggiato. Sapeva delle cose, e non erano solo
nozioni e fatti, ma cose vere, sostanziali, di cui era capace di parlare per ore. Davanti a lui, spesso Tran si sentiva un insipiente, incapace di aprir bocca. Luke però riusciva a stimolare la sua mente, e trovava le persone della sua età amorali ma divertenti, e poi adorava il suo corpo, così giovane e tenero. Ma quando Luke era risultato sieropositivo, era stata proprio la differenza d'età a spingere Tran a razionalizzare fin troppe cose. Immaginava che Luke avesse avuto centinaia di amanti a San Francisco e nel corso dei suoi viaggi. Sapeva che gli uomini dell'età di Luke spesso si ammalavano: erano stati l'ultima generazione che aveva fatto sesso senza paura. L'AIDS era relativamente raro nei maschi della fascia d'età quindici-venticinque. E poi lui e Luke erano stati attenti. Si chiese se anche Soren avesse preso le debite precauzioni. A occhio e croce, Soren doveva avere un anno o due meno di lui. Il suo choc dovette essere tanto evidente da giustificare la risata di Soren. «Ma come, credi che noi non lo becchiamo perché siamo giovani e carini? Spero che tu abbia fatto gli esami.» Tran annuì a fatica. «Ancora negativi?» Tran annuì di nuovo, ma distolse lo sguardo. Soren si protese in avanti e posò la mano sul polso di Tran. «Scusa. Siamo così abituati a discutere del nostro stato che sembra roba d'ordinaria amministrazione. Non avrei dovuto farti quella domanda.» Allarmato dal contatto con Soren, Tran sfilò il polso dalla presa dell'altro. Ogni volta che entrava in un ristorante vietnamita, Tran aveva l'impressione di avere addosso gli occhi di tutti i presenti, intenti a individuare in lui un qualche segno di devianza. Di solito, questa piccola paranoia non era poi così lontana dal vero, considerata la reputazione di cui godeva a Versailles. Ma si era rivelata un problema le poche volte in cui era stato a cena con Luke in un locale vietnamita. Luke non era così sprovveduto da toccarlo, come invece avrebbe fatto in un qualsiasi locale del Quartiere francese; tuttavia Tran, d'istinto, tendeva a ritrarsi di scatto se le loro mani s'incontravano per attingere allo stesso piatto di portata o se le ginocchia si urtavano per caso sotto il tavolo. E queste reazioni gli provocavano un imbarazzo peggiore di qualsiasi contatto più esplicito. Luke si era sempre sentito ferito da quell'atteggiamento, e anche Soren, adesso, parve leggermente offeso, ma fece finta di nulla. Gli infetti, come li chiamava Luke, con il tempo si abituavano a quel tipo di reazione.
Tran avrebbe voluto ricreare l'atmosfera piacevole di pochi minuti prima. Ma che cosa gli era venuto in mente di accennare a Luke? Luke aveva già condizionato tutto ciò che lui faceva, che lui voleva. Non era il caso che evocasse lui stesso quel fantasma. Decise di raccontare a Soren l'esperienza della notte precedente. «Conosci Jay Byrne?» chiese. Gli occhi di Soren ebbero un lampo. «Quello stronzo! Una volta ha cercato di abbordarmi all'Hand of Glory... mi ha addirittura offerto dei soldi per posare per foto porno, come se io avessi bisogno di denaro! Per un istante ho persinò pensato di accettarli, perché sapevo che quella era una cosa che avrebbe fatto rivoltare i miei antenati nella tomba, e mi piace che si rigirino il più possibile.» «Come sarebbe a dire?» «Be', vedi, i Byrne sono, da un lato, un vecchia famiglia danarosa e, dall'altro, dei nuovi ricchi, cosa che in certi giri significa la morte sociale. E si dice anche che il denaro dei loro avi sia maledetto. Sua madre è una Devore, ma tra i suoi antenati figurano anche dei 'pezzenti delle paludi', come li chiamerebbe la mia famiglia. Jonathan Daigrepoint era suo prozio.» «Chi è Jonathan De...» «Daigrepoint. Credevo che tutti i ragazzini cresciuti a New Orleans avessero sentito nominare Jonathan Daigrepoint.» «Versailles non è proprio New Orleans.» «Be', neppure questa vicenda si è svolta a New Orleans. Jonathan Daigrepoint viveva a Point Grosse Tete, nella zona paludosa a sud di qui. Veniva da una famiglia cajun di pescatori e cacciatori. Jonathan non se ne andava in giro a ballare e a bere come i suoi fratelli e le sue sorelle. Era un tipo di poche parole, non si era mai sposato né aveva mai avuto una ragazza, e nessuno gli aveva mai badato granché sino a che non venne scoperto il capannone abbandonato in cui aveva ucciso quindici ragazzini. Gran parte di loro era ancora lì... fatta a pezzi con un coltello da caccia, a quanto pareva, benché i resti fossero troppo decomposti per poterlo stabilire con certezza. Alcuni erano bambini neri del paese vicino, e forse nessuno avrebbe badato più di tanto alla loro scomparsa, ma altri erano cajun, e uno era scappato di casa e veniva da New Orleans. Jonathan venne portato in città per il processo. Il tribunale dovette prendere un interprete perché i Daigrepoint parlavano solo francese, e per giunta il francese delle paludi. Questo è successo nel 1875.» «Accidenti!» Tran si ripropose di raccontare a Soren la decapitazione di
Jayne Mansfield sull'autostrada Chef Menteur. Ma per il momento voleva sentire il resto della storia. «E allora da dove viene il denaro dei Devore?» «All'epoca del processo Louis Devore aveva ventun anni. Venne chiamato a far parte della giuria. Tutto il clan dei Daigrepoint calò dalle paludi per veder crocifiggere il loro figlio. Durante il lungo procedimento penale, Louis si prese una specie di cotta per la sorella di Jonathan, Eulalie, che allora aveva solo quindici anni. Alla fine del processo, emise un verdetto di colpevolezza come tutti gli altri giurati, ma l'amore per la ragazza perdurò. La sua famiglia minacciò di diseredarlo se avesse sposato un avanzo di palude con sangue assassino nelle vene. Però non lo fece. Perlomeno Eulalie era del sesso giusto, immagino. «Louis ed Eulalie si sposarono quindici giorni dopo l'impiccagione di Jonathan, e cominciarono a produrre piccoli Devore, e un bel giorno una di loro sposò un certo Byrne, un arricchito del Texas. Ed ecco l'albero genealogico di Jay.» Tran scosse il capo. Per la seconda volta in dieci minuti, Soren lo aveva lasciato di stucco. «Come fai a sapere tutte queste cose?» Soren alzò le spalle. «Nelle vecchie famiglie di New Orleans la gente ha la lingua lunga. Comunque senti: spero che tu non abbia niente a che fare con quel pezzo di merda.» Di colpo Tran assunse un atteggiamento protettivo. Jay era, sì, un tipo strano, ma con lui non si era comportato da stronzo. Anzi, era stato piuttosto gentile. «D'accordo: viene da una famiglia strana e una volta ti ha proposto di posare per lui. Ma perché mai dovresti odiarlo?» «Oh, Tran, mica lo odio. Odio Pat Buchanan, Bob Dole, mio nonno... ma non il povero Jay Byrne. Non è altro che un'innocua checca con il pallino della fotografia, direi. Però ha un'aria... non saprei... viscida. Visto da fuori, non ha nulla di strano, però non mi piacerebbe toccarlo.» «Be', a me sì.» Al diavolo l'imbarazzo. «Per dirla tutta, ieri notte sono stato con lui.» Fu divertente vedere Soren che sgranava gli occhi e restava a bocca aperta. «Non mi dire», mormorò Soren. «Davvero? E che cosa ha... insomma... com'è andata?» Tran aveva avuto intenzione di riferire tutta la sua strana esperienza: il rifiuto di Jay di scoparlo proprio all'ultimo momento, l'insolita asetticità del bagno e il sacchetto di capelli umani. Ma adesso preferì tacere. Chiaramente Soren amava i pettegolezzi, e Tran non voleva fornirgli armi da usare contro Jay. E cosi si limitò a fare un vago sorriso. «Be'... sai.»
«Ti ha scattato delle foto?» «Non ne abbiamo avuto il tempo.» «Santo cielo.» Soren si stringeva la testa tra le mani come se volesse farci entrare a forza quella notizia. «Ti piace sul serio?» «Per quanto strano ti sembri, sì.» «Gesù. Luke...» «Che cosa c'entra Luke?» «Niente. Se lo sapesse andrebbe fuori di testa, ecco tutto.» L'ombra di sospetto riemerse. «Come fai a sapere tutto quello che pensa Luke? Non credevo che foste tanto amici.» «Be'... a dire la verità, dopo la vostra rottura, siamo arrivati a conoscerei meglio.» La cosa non gli faceva né caldo né freddo, ma era impensabile che Luke e Soren potessero mettersi insieme, si disse Tran. Luke gradiva i ragazzi bianchi solo se erano sottili, con occhi e capelli neri e tratti minuti: in altre parole, solo se avevano un'aria orientale. Soren era snello e aveva tratti ben cesellati, ma più nordico di così si moriva. Ed era una creatura che allignava nei club e nel cyberspazio, ambienti che Luke non trovava affatto interessanti. Tran ricordò che la conversazione più lunga che avesse mai fatto con Soren prima d'oggi aveva riguardato l'informatica e la telefonia. Più specificamente l'accesso abusivo alle reti di computer e alle linee telefoniche. E allora, di colpo, capì. «Tu hai a che fare con la stazione radio, vero?» Soren gli rispose con una limpida occhiata disarmante. «Di che stazione parli?» Tran non gli badò neppure. «Ma certo. E l'unico modo in cui voi due potreste sopportarvi a vicenda. Hai visto Luke proprio ieri sera, no? Oppure lo chiami Lush?» «Non so di che cosa tu stia parlando.» «Soren, credi che ti tradirei? So che state facendo una cosa illegale. Pensi che vi farei finire tutti al fresco solo per far del male a Luke?» Dopo aver fissato a lungo Tran, Soren prese una decisione. «Non ti conosco granché, Tran. Prima di oggi ci saremo parlati sì e no una ventina di volte. Non ero disposto a mettere quel che resta delle nostre vite nelle tue mani.» «E ora ti fidi di me?» «In qualche modo, sono costretto a farlo. Sei gay e potresti essere sieropositivo. Rappresenti il pubblico cui ci rivolgiamo. Ma ho a cuore Luke, e
so che tu hai molte ragioni per odiarlo.» «Non lo odio. Non più.» «Lui è ancora innamorato di te.» «Questa è una malattia.» «Lui è malato.» Rimasero in silenzio per qualche minuto. Il ristorantino era fresco e vuoto, e le ombre del tardo pomeriggio cominciavano ad allungarsi negli angoli. La cameriera portò il conto, che ammontava a poco più di dieci dollari, e rivolse un sorriso a Tran. Aveva più o meno la sua età, ed era il tipo di ragazza che sarebbe piaciuta ai suoi genitori. Tran la notò appena. Si stava chiedendo come osasse Luke dire di amarlo dopo averlo ferito, insultato e avergli augurato la morte. «Senti», disse Soren mentre ripercorrevano il ponte, «hai bisogno di un posto in cui stare? A me non piace avere gente tra i piedi, ma piuttosto che vederti dormire per strada...» «Non ti preoccupare. Ho dei soldi e troverò qualcosa. Ma grazie lo stesso.» Soren gli lanciò un'occhiata e si strinse nelle spalle. Erano a metà della Crescent City Connection, e da quel punto si godeva una nitida vista della città, di un grande complesso di case popolari e di una vellutata distesa paludosa tagliata da una lunga ferita di fabbriche. Più oltre, il Mississippi si snodava in un lungo arco. «Hai paura che dica a Luke dove sei stato?» «Be'...» Tran si agitò sul sedile, a disagio. «È sempre più fuori di testa, vero?» «Certo. Ascolti spesso la sua trasmissione?» «Tempo fa, sì», ammise Tran. «È iniziata nella primavera di quest'anno, vero?» «In maggio.» «Non molto dopo la nostra rottura. Vivevo ancora nell'incubo di Luke. Quando una sera ho acceso la radio e ho sentito la sua voce, ho pensato di aver perso del tutto la testa. Quando infine ho capito che era proprio lui, non ho avuto la forza di spegnere.» «Uso sempre un distorsore per la voce di Luke.» «Non importa. Siamo stati insieme per due anni e m'incantavo a sentirlo parlare. Conosco le inflessioni della sua voce, i suoi giri di frase, persino il modo in cui si schiarisce la gola. Tu non sei mai stato innamorato?» «No.» Tran si girò verso Soren. «Prego?»
«No. Ho avuto molte avventure, due relazioni più stabili. Ma, onestamente, non sono mai stato innamorato. E tutto fa pensare che non mi capiterà mai. Benché il vostro rapporto sia andato a puttane, io non posso fare a meno di invidiarvi.» Lasciarono il ponte allo svincolo di Camp Street e attraversarono il centro della città, diretti verso il Quartiere francese. Ai bordi della bretella sorgeva un enorme edificio abbandonato, un ex magazzino con centinaia di finestre rotte. La luce radente del tardo pomeriggio illuminava le schegge di vetro che ancora restavano sulle intelaiature e metteva in risalto i coni di polvere che scendevano dai soffitti. Tran guardò l'edificio rimpiangendo di non poter vivere in un luogo simile. Nessuno sarebbe mai riuscito a trovarlo. Avrebbe steso una coperta sui frammenti di vetro, avrebbe fatto un bagno di polvere e, la sera, arrostito pipistrelli e locuste su un fornelletto improvvisato. E anche in quel caso, qualcuno avrebbe trovato una ragione per invidiarlo. 11 Jay stava affettando un salamino per preparare il riso alla creola. Usava lo stesso coltello che aveva adoperato per fare a pezzi Fido, un coltello ben affilato e rassicurante. Tutto il resto, nella sua vita, era in tumulto. E la cosa, stranamente, gli piaceva. L'incontro con Andrew gli aveva in qualche modo spalancato le porte del mondo. Era come scoprire che tutti i tuoi più riposti fuochi e terrori, le cose che, secondo te, nessuno avrebbe potuto immaginare, erano in realtà la base di una filosofia riconosciuta. Una parte di te si sentiva violata, minacciata, e un'altra parte era in ginocchio e piangeva, grata di non essere più sola. Avevano passato la prima giornata a letto, ma i loro contatti erano stati solo in minima parte sessuali. Andrew affermava che la sieropositività lo rendeva pericoloso. A Jay non importava. Ricordava il sapore dello sperma di Tran che gli scivolava bruciante lungo la gola, la stretta del culo di Tran intorno al pene protetto dal preservativo. Non che in vita sua non avesse mai corso rischi. Ma fare sesso con Andrew sembrava quasi un di più, qualcosa che poteva essere contemplato in seguito, quando il torrente di parole si fosse placato. Parlavano ossessivamente, compenetrati nella conversazione, condivi-
dendo quanto entrambi sapevano. Nessuno dei due aveva mai potuto discutere le proprie passioni. Andrew aveva tenuto un diario, che Jay rimpiangeva di non poter leggere. Jay non aveva mai avuto nulla. Adesso non la finivano più di fare confronti, di esultare, di stupirsi. «Ma perché li mangi?» aveva chiesto Andrew. «Che cosa ne trai?» «Hai mai assaggiato la carne umana?» «Solo il sangue. E mi piace più l'aspetto che il sapore.» «Sangue...» Jay alzò le spalle. «Il sangue è il combustibile. Non è male, ma non è quello di cui sono fatti.» «Vuoi che diventino parte di te? È così?» «In un certo senso», ammise Jay. «Mi ci è voluto molto tempo per avere l'impressione che restassero con me. Mangiavo la loro carne, che diventava la mia carne, e poi mi sentivo di nuovo solo. Ma dopo un po' ho cominciato ad avvertire la loro presenza.» Andrew annuì. Sembrava che avesse capito, benché nei suoi occhi aleggiasse un'ombra di dubbio. Infine chiese: «C'è un'altra ragione?» «Perché hanno un sapore meraviglioso», gli rispose Jay. Nei giorni languorosi che seguirono, tornarono spesso su quest'argomento. Andrew passava ore e ore a girare per la casa, incantato da tutte quelle comodità che Jay dava per scontate. Jay lo sorprendeva nello studio intento a sfogliare grossi libri d'arte e di fotografia, leggendo brani di romanzi come un affamato; oppure in salotto a frugare all'infinito tra i CD; o in camera, pigramente sdraiato sulle lenzuola satinate e i morbidi guanciali. Era un uomo di gusti e cultura sublimi che aveva subito incredibili privazioni, e questa sua rinascita faceva sentire Jay stranamente vivo. La sera cenavano fuori. Jay stava riscoprendo con lui i grandi ristoranti della città, gustando ricchi piatti che non toccava più da anni. Era imbarazzante cenare da Broussard's o da Nola con qualche zoticone, vittima designata e rivestita a nuovo per l'occasione, che invariabilmente si stravaccava sulla sedia e guardava con sospetto il cibo sul piatto, chiedendo: «Che roba è questa?» Andrew sapeva quel che mangiava e assaporava ogni boccone. Ma ogni tanto incrociava lo sguardo di Jay intento a gustare una leccia en papillote, o un altro pesce grigliato su legno di cedro, o un pezzetto di daube glacé, e, lanciandogli uno dei suoi inquietanti sorrisi, gli chiedeva che sapore avesse la carne dei ragazzi. Il riso, saltato con cipolle, aglio, pomodori e sedano, era quasi cotto. Jay aggiunse le fette di salammo, una ciotola di gamberetti sgusciati e qualche spruzzo di salsa Crystal e lasciò sobbollire il tutto mentre caricava la lava-
stoviglie. Quando i gamberetti furono cotti, Jay assaggiò una forchettata di riso. Era quasi perfetto: piccante, saporito, un giusto amalgama di crostacei e carne di maiale. Ma forse mancava di corposità. Ci voleva più carne. Aprì il frigo e tirò fuori un piatto coperto di pellicola trasparente. Il rivestimento sembrava essere stato sollevato e rimesso malamente a posto. Che Andrew avesse esaminato il contenuto del piatto, chiedendosi che cosa fosse, ma non osando assaggiarlo? Jay cominciò a strappare la carne con le dita. Esitò, annusò il ricco aroma che si levava dal piatto e se ne mise un pezzo in bocca. Il sapore selvatico-dolciastro della carne tradiva . un'eccessiva frollatura. Era ancora mangiabile, ma non era fresca abbastanza per propinarla ad Andrew. Servì il riso alla creola così com'era. Andrew lo divorò con le sue consuete maniere impeccabili e il solito appetito vorace. Jay mangiò poco, preso com'era dalle descrizioni di buie viuzze e localacci di Soho fattegli da Andrew. Quando questi s'interruppe per bere un sorso di Dixie, Jay gli chiese: «Ma perché non rompi gli indugi e non l'assaggi?» Andrew inarcò le sopracciglia. «Assaggio che cosa?...» «So che sei curioso. Ho visto che ti leccavi le labbra la prima volta che ti ho portato nell'alloggio degli schiavi. Quel giorno hai inghiottito delle molecole di un corpo umano. Perché non mangiarne quel tanto che basta da sentire il sapore?» «Ma certo. Perché no?» Andrew versò il resto della birra nel bicchiere e rimise la bottiglia nel cerchio di umidità che aveva formato sul tavolo. «Ci ho pensato tutti i giorni, da quando ci siamo conosciuti. Ci avevo pensato anche prima. A Londra, mentre tagliavo i corpi per buttarli via, ogni tanto riflettevo su quest'ultimo tabù. Mi dicevo: Andrew Compton, hai succhiato bocche e cazzi gelidi; hai leccato litri di sangue ripulendoti le dita; hai fatto bollire crani per staccarne la carne e hai usato la stessa pentola per fare il curry. Perché non friggere qualche fettina tenera e sottile, tanto per sentire com'è... magari accompagnata da un bell'ovetto?» «E che cosa te l'ha impedito?» «La paura, immagino. Tenermeli a letto per qualche notte era una cosa, ma il pensiero di svegliarmi la notte e di sentirmeli dentro, nelle mie stesse viscere, mi turbava. A te non fa paura?» Jay sorrise. «Andrew, prima di conoscerti, quella era la mia unica consolazione.» Dopo la squisita cena preparata da Jay, girovagammo nelle vie residen-
ziali del Quartiere francese, evitando i luoghi affollati, assaporando il silenzio e le ombre. Dopo l'accogliente luce dorata della sala da pranzo di Jay, le vie buie erano piacevolmente sinistre. Una brezza fresca spirava nei giardini fronzuti, un solitario sassofono gemeva in lontananza. Per la prima volta da quando avevo lasciato l'Inghilterra, mi ricordai che era novembre. Ci fermammo a prendere un nostalgico bicchiere della staffa all'Hand of Glory. Il locale, quella sera, era pieno zeppo di giovani «goti», splendenti nelle loro tenute monocrome, in un tripudio di chiome cotonate, pizzi laceri, calze a rete e velluti. Ricordai un «goto» che mi ero portato a casa. Mi aveva offerto la gola spontaneamente, come se avesse incontrato un amante atteso da anni. Quando raccontai a Jay l'episodio, lui parve perplesso. «Ma non ti è venuta voglia di prolungare il suo dolore? Non sarebbe stato interessante vedere se il suo gesto era stato davvero spontaneo?» «Probabilmente sì. Ma perché sciupargli l'esperienza della morte? Sembrava averla aspettata per tutta la vita.» «Dapprima hanno sempre paura. Quelli che non hanno mai provato dolori terribili sono i più calmi, all'inizio, perché non hanno idea di quanto possa essere tremendo. Quando scoprono quanto sconfinato possa essere il dolore fisico, sono stupefatti. Quando si rendono conto che la fine non sarà rapida, crollano sotto il peso della loro stessa paura. Quelli che hanno già la cognizione del dolore, sono terrorizzati sin dal principio. Ma in un modo o nell'altro...» Jay cercò le parole per esprimere qualcosa che chiaramente lo aveva sempre incuriosito. «A un certo punto, dopo che ti hanno supplicato, e hanno urlato e vomitato e infine capito che tutto è inutile, raggiungono una sorta di estasi. La loro carne diventa come argilla. E come se si aprissero a te. Diventa una collaborazione.» «Non è che cerchino solo di farla finita il più in fretta possibile?» «Non so.» Jay aveva gli occhi sognanti. «Credo che quando un corpo ha capito che morirà irrevocabilmente per mano tua, comincia a collaborare con te. Magari stai strozzando un ragazzo, o tagliandolo o bruciandolo, o gli hai cacciato le dita nelle viscere, ma a un certo punto il corpo non solo smette di resisterti, ma si adegua addirittura al tuo ritmo.» Jay allungò la mano sul tavolo per stringere la mia; era il genere di locale in cui era consentito farlo. Le sue dita erano umide per aver stretto la bottiglia, ossute, molto forti. «Insomma, sei coinvolto in questa intesa a livello profondo», continuò. «Il ragazzo ti ha dato tutto: la sua paura, il suo tormento, la sua vita. A
questo punto che fai?» Mi abbandonai al piacere dei ricordi. «Lavo il corpo, eliminando i fluidi della morte: il sangue, l'urina, la saliva. Lo immergo in un bagno freddo sino a far coagulare le ferite. Poi lo cospargo di talco, che aumenta il suo pallore sino a dargli una sfumatura azzurrognola. Lo porto a letto con me. Mi addormento tenendolo tra le braccia, carezzandolo.» «E il giorno seguente?» «Non mi piace la rigidezza che subentra con il rigor mortis. Talvolta aspettavo che passasse, tenendomi il corpo un giorno o due. Di solito, cominciavano a puzzare e a sporcarmi il letto, e allora dovevo liberarmene.» «Avventure di una notte o due», commentò Jay con aria un po' sprezzante. «Si può posporre il momento della separazione e rallentare l'imputridimento. Ma alla fine, fatalmente, succede. Perché non gustarseli in tutti i modi possibili? Mentre tu ti perdi a ripulirli e a incipriarli, io mi godo il primo di una serie di eccellenti pasti.» «Dimmi come li prepari.» «Per sommi capi, o passo per passo?» «Passo per passo, con tutti i dettagli.» Jay mi lanciò un sorriso vagamente beffardo: la mia ambivalenza ossessiva sull'argomento lo divertiva. Poi cominciò a parlare, e, mentre descriveva la propria abilità culinaria, i suoi occhi si incupirono di piacere. «Li taglio in pezzi di dimensioni maneggevoli e li disosso. All'inizio facevo dei grandi pasticci, ma con il tempo sono diventato più abile. Adesso i miei tagli di carne sono degni di un macellaio fuoriclasse. Li avvolgo nella plastica. Metto da parte alcuni organi: il fegato, se non l'ho lacerato, e il cuore, che è duro ma ha un sapore amarognolo, molto intenso. Una volta ho provato a fare il brodo con le ossa, ma è risultato pessimo. Il grasso umano sa troppo di rancido e non è mangiabile. Di solito cerco di rendere più tenera la carne battendola o marinandola, poi la faccio arrosto o fritta, condendola pochissimo. Ogni parte del corpo ha un gusto tutto suo, e ogni corpo presenta sottili differenze di sapore.» «Naturalmente. Le vite umane sono molto più varie di quelle dei maiali o dei manzi.» Jay sorrise. «Appunto. Sei dotato, in questo campo.» «Ciao, Jay.» Alzammo gli occhi, strappati alle nostre divagazioni. Sullo sfondo della pallida e opaca folla si stagliava una forma dalla pelle color miele e dai capelli lucenti. Più snello di gran parte dei suoi compagni in nero, aveva anche lui orecchini d'argento e tratti di matita nera intorno agli occhi - occhi
orientali simili a schegge di ossidiana, troppo stanchi per i suoi anni. Il resto del volto era molto, molto giovane. Vidi balenare nella mente di Jay le potenzialità di quella situazione. Il suo sguardo era impassibile, ma non abbastanza da ingannare uno come me. Era chiaro che questo ragazzetto, chiunque egli fosse, conosceva Jay e aveva un debole per lui. Questo metteva Jay nella scomoda posizione di doversi chiedere: (a) se sarei stato geloso qualora mi avesse presentato all'amico; (b) se anche l'amico sarebbe stato geloso e avrebbe detto qualcosa per farmi ingelosire ulteriormente; (c) se avrebbe messo in pericolo la mia anonimità presentandomi al ragazzo. L'imbarazzo di Jay quasi mi piacque, ma solo perché, non avendolo mai visto a disagio, avevo modo di conoscere un altro risvolto del suo carattere. Non potevo però lasciarlo soffrire troppo a lungo. «Buonasera», dissi con il mio tono più mielato, dando una pedata a Jay sotto il tavolo. «Sono Arthur, il cugino di Jay. Sono qui in vacanza.» «Salve. Io sono Tran.» Mentre mi stringeva la mano, un lampo di sorpresa gli affiorò al volto sentendo le mie dita stringergli il polso. «Vieni da Londra?» chiese, riprendendosi. «Esatto.» «Abiti dalle parti di Whitechapel?» «No, a Kensington.» (Era una menzogna: non avevo mai vissuto in un quartiere di lusso. Nei posti chic la gente bada troppo ai vicini di casa. Naturalmente, anche i miei vicini a Brixton avevano finito per protestare.) «Perché me lo chiedi?» «Oh, niente...» Si strinse nelle spalle, un movimento reso delizioso dalla fragilità della sua struttura ossea. «Ho letto la storia di Jack lo Squartatore.» «Davvero? Sapevi che sceglieva le scene dei suoi delitti in modo da formare una croce?» Poiché Tran scosse il capo, proseguii. «Se indichi i luoghi su una cartina di Londra, ottieni la sagoma di una croce, con l'eccezione dell'ultimo omicidio. Le probabilità che questo possa essere stato del tutto casuale sono ridottissime.» «Com'è andata nell'ultimo delitto?» chiese Jay. «Quella è stata la volta in cui è andato del tutto fuori di testa», spiegò Tran. «Ha fatto a brandelli la ragazza e le ha strappato gli organi interni. Doveva essere tutto coperto di sangue, ma nessuno lo ha visto uscire dall'edificio.»
«È stata l'unica uccisione compiuta all'interno di una casa», precisai. Jay mi lanciò un'occhiataccia. «Scusatemi. Abitando a Londra, queste cose uno le assimila senza volerlo.» «Io le trovo interessanti.» Tran si sedette sulla panchetta accanto a Jay, il quale sembrava più a disagio che mai. «Mi piace informarmi sugli assassini. Mi piace pensare a come funziona la loro testa.» Gli sorrisi. «Hai già formulato qualche teoria?» Jay sbatté il bicchiere sul ripiano del tavolo. «Sentite, mi piacerebbe molto star qui tutta la sera a parlare di pervertiti, ma purtroppo dobbiamo andare. Credo di aver lasciato la caffettiera sul fornello, dopo cena.» Non è vero, pensai. Se Jay voleva strapparmi alla compagnia di un ragazzo così bellino e disponibile, doveva avere delle buone ragioni. Ma l'ultima cosa che avevo voglia di fare era alzarmi e andarmene. Mi ero già fatto l'idea che quel ragazzo avrebbe gradito le nostre attenzioni. «Oh, non voglio trattenervi. Sono qui in cerca di clienti. Dopo suonano i Midnight Sun, e questa folla... sapete...» Tran si toccò la lingua con l'indice. «Hai bisogno di niente, Jay?» «No.» «Be'... ci vediamo. Peccato che non possiate fermarvi a sentire la band.» «Sono bravi?» chiesi. «Io li adoro. Me ne starò qui a sbronzarmi e a ballare e all'alba mi trascinerò sino all'Hummingbird Hotel.» «È una bella camminata solitària, no?» Tran alzò le spalle. «E un albergo che costa poco. Non chiedono documenti. Io ho dato un nome falso: Frank Booth. E poi chissà? Magari la camminata non sarà tanto solitària. Magari stanotte incontrerò un misterioso straniero.» Scoccò a Jay un'ultima occhiata vogliosa. «Sta' attento», gli dissi. «Non si sa mai che razza di gente si trova in giro. Dico bene, Jay?» Jay si limitò a scrollare il capo. «Cercherò di stare attento. E stato un piacere conoscerti, Arthur. Ci vediamo nel Quartiere, eh?» «Lo spero proprio», gli risposi. Prima di rientrare a casa, traversammo Jackson Square per fare un salto al supermercato. La luna perlacea era alta nel cielo viola. La guglia della cattedrale, traforata come un sepolcro di New Orleans, svettava verso il cielo, pugnalando vene di nubi. In basso, sull'acciottolato della piazza, il
solito assortimento di padroni della notte beveva, cantava, blaterava o semplicemente dormiva. «Dobbiamo averlo», dissi, deciso, «e lo avremo.» Jay scosse il capo con forza. «Ti ho già detto che è impossibile. Tran è un ragazzo del posto.» «Irrilevante. Lo voglio. Voglio mangiarlo, Jay.» «Andrew...» «È la vittima ideale.» «Per niente. È la peggiore vittima possibile.» «Da un punto di vista pratico, forse. Ma badando ai particolari pratici, perdi di vista il Destino. Quel ragazzo è fatto apposta per noi, Jay, e lo avremo.» «Assolutamente no.» Traversammo il vicoletto puzzolente di urina a fianco della cattedrale e sbucammo in Royal Street, vicino all'A&P. Tenni aperta la porta per far passare Jay, che prese un cestino di plastica e s'inoltrò tra gli scaffali prendendo senape, capperi, e una salsa piccante che non avevo mai assaggiato. Lo seguii in silenzio, sorridendo tra me, aspettando il momento opportuno. Jay non stava comprando cibo vero e proprio, ma solo dei condimenti. Sapevo che sarei riuscito a fargli vedere le cose a modo mio. La cassiera prese un vasetto pieno di una sostanza densa, rossastra e viscosa. «Che cos'è questa roba?» «Chutney», le rispose Jay. «Come si mangia?» La bocca di Jay si stiracchiò in un mezzo sorriso. «Come accompagnamento alla carne.» Quanto totale fu il mio amore per lui in quel momento! Gli amorali abissi dei suoi occhi, le ciocche di capelli biondi sul collo, lo sterminio di segreti racchiusi nella nobile cupola del suo cranio. Sapevo di essere più intelligente di Jay, il quale, pur non mancando di cervello, aveva una visione della vita di spaventosa ristrettezza. Era talmente preso dal suo mondo di torture e di prelibatezze che trovava difficile concentrarsi su qualsiasi cosa esulasse da quella sfera. Questo lo faceva sembrare piuttosto effimero, come uno spirito impantanato nella terra, che ossessivamente ripeteva la stessa azione, cercando di farla a dovere. Nella mia vita precedente, ero sempre riuscito a mantenermi lavorando, anche se talvolta con fatica. Non me lo vedevo proprio Jay che lavorava per vivere. Sì, io la sapevo più lunga sul mondo, su come si viveva durante il giorno. Ma in quel momento
capii che Jay era un eccelso animale notturno. Usciti dal supermercato, Jay si fermò a comprare un giornale da un venditore storpio. L'incrocio tra St. Peter e Royal Street era un ribollente campionario di tutte le varietà della fauna notturna del Quartiere francese. Un gruppo di cantori religiosi afroamericani si esibiva all'altro lato della strada, nere voci improvvisanti all'unisono. Un uomo con una giacca militare logora e lercia e una barba bavosa rampognava l'aria davanti a sé. Passò un poliziotto dall'espressione annoiata, a bordo di uno scooter. Jay e io imboccammo Royal Street. Avevamo percorso meno di un isolato quando da una pozza d'ombra all'imbocco di un vicoletto sbucò una mano sottile, con le unghie sporche. «Avete qualche spicciolo, amici?» Ci voltammo a guardare il ragazzo accovacciato contro la cancellata che separava il vicoletto dalla strada. Ciocche arruffate di lunghi capelli rossi pendevano su un volto che forse un tempo aveva avuto lineamenti robusti, ma ora appariva svuotato, affamato. La caratteristica più saliente erano gli occhi: iridi azzurro ghiaccio bordate da un cerchio nero. Benché la serata fosse umida e fresca, il ragazzo era senza giacca, e mi accorsi che la parte interna degli avambracci era percorsa da segni di tagli di lametta e buchi di iniezioni, alcuni quasi cicatrizzati, altri recenti e stillanti. «Certo, credo di avere qualche spicciolo.» Jay infilò la mano in tasca e ne trasse una banconota da cinque dollari. A quella vista, il ragazzo dilatò le pupille, ma non prese il denaro sino a che Jay non glielo porse. Una mano lercia si levò a scostare i capelli dal volto mentre l'altra riponeva i soldi nella scarpa. Il ragazzo non sorrise, ma ci ringraziò con un lungo sguardo grave. Jay e io ci scambiammo un'occhiata e arrivammo a una decisione. «Ti piacerebbe beccare altri soldi?» chiese Jay. «Che cos'hai in mente?» «Abitiamo proprio in fondo alla strada. Se vuoi passare con noi il resto della serata, potresti farti una doccia, mangiare qualcosa...» «Quanto mi date?» Dalla sua voce rapida, inespressiva, capii che era la droga a parlare in sua vece. Sapevo due o tre cosette sui giovani drogati di strada: avrebbero fatto qualsiasi cosa per il denaro, ma volevano sempre sapere quanto avrebbero ricavato. «Be'...» Jay finse di pensarci su. «Potrei darti cento per la serata.» Lessi l'esultanza negli occhi del ragazzo, che però si limitò a dire: «Mi sta bene. Ma prima vorrei vedere un amico». Jay aggrottò la fronte, seccato. «Non abbiamo voglia di aspettare che tu vada a procurarti la roba. Senti, a casa ho della morfina che mi è stata pre-
scritta qualche mese fa per un dolore alla schiena. Ti può andar bene?» «Morfina?» Il ragazzo drizzò la schiena. «Che tipo di morfina?» Jay alzò le spalle. «Compresse da mezzo milligrammo. Non ne ho usate molte. Devono essermene rimaste dieci o dodici.» «Sì, me le farò bastare.» Si alzò buttandosi sulla spalla un lurido zainetto. Era più alto di quanto avessi immaginato, ma spaventosamente magro, e mi chiesi quanta carne potesse esserci su quelle misere ossa. «Come ti chiami?» chiesi. «Birdy.» «Chi ti chiama così?» «Quei poveri stronzi che hanno qualche motivo per parlarmi.» Non era precisamente un commento lusinghiero, da baldracca per intenderci, ma ero certo che Jay aveva apprezzato l'ironia sottile di quella risposta. E anche a me non era sfuggita. Davanti a casa, Jay digitò una serie di numeri sulla tastierina del sistema antifurto, poi aprì il cancello. Al nostro ingresso, i sensori invasero di morbida luce il giardino. Birdy, entrando, ebbe un attimo di esitazione, come se sapesse che stava andando incontro alla morte, ma non gliene importasse granché. I capelli rossi, arruffati e spenti, gli arrivavano a metà schiena. Pensai a quanto avrebbe potuto essere bello in un qualche universo parallelo. Poi tornai a contemplare la sua bellezza in questo universo. Mezz'ora più tardi, ero sdraiato sul letto e fissavo Birdy, ormai privo di conoscenza. Jay aveva davvero della morfina prescrittagli per un dolore alla schiena che, a sua detta, gli era venuto spostando il grande frigo nell'alloggio degli schiavi. Avevamo guardato il ragazzo che la preparava e se la iniettava in vena con la sua siringa, ed entrambi avevamo ansato alla vista del sangue che tingeva la soluzione. Non appena gli occhi gelidi e assenti di Birdy si erano chiusi, Jay lo aveva ammanettato alla testiera del letto. Il ragazzo aveva borbottato qualche fievole e incoerente parola di protesta. Io gli abbassai la lampo dei calzoni e glieli calai sino alle ginocchia. Lo spogliammo del tutto e gli bloccammo le caviglie con cinghie foderate di vello di pecora, particolare che mi parve biecamente comico. Gli baciai i capezzoli, le costole, lo stomaco incavato. Quando cominciai a succhiargli il cazzo, vidi un'erezione istantanea e duratura, particolare che avevo sempre gradito nei giovani tossici che mi era capitato d'incontrare. Aveva un sapore sudaticcio e pungente, non pulito, ma intensamente umano.
«Adoro gli eroinomani», sussurrò Jay. «Se sono abbastanza giovani e non del tutto sfatti, la loro carne ha un vago sentore di zenzero.» «Ma non sono soggetti a rischio?» «La sieropositività? Se mi casca addosso, la accolgo senza fare una piega. Magari mi ha già beccato. E se è così, ben venga.» Jay si protese oltre il corpo del ragazzo e mi baciò, prendendomi la nuca tra le mani e infilandomi la lingua in bocca. Il suo atteggiamento mi lasciava perplesso, ma non avevo alcuna voglia di contestarlo. Dopotutto, non mi ero mai sentito meglio in vita mia. Birdy emise un gemito. Lo guardammo. Le palpebre ebbero un fremito, la lingua guizzò sulle labbra secche. Quando gli accostai alla bocca la bottiglietta di rum che era sul comodino, lui succhiò avidamente il liquore. «Cacciagliela in gola», suggerì Jay. «Poi la rompiamo.» Ignorando l'invito, cinsi le spalle ossute con il braccio, cullando quello scheletrino. Sentii le labbra di Jay sfiorarmi la sommità del capo in un breve bacio affettuoso, poi il letto si alleggerì del suo peso. Non ci feci caso, immerso com'ero nelle sensazioni olfattive e tattili del corpo del ragazzo, ormai interamente alla mia mercé. Benché attribuibile più alla droga che al desiderio sessuale, lo stato di passività di Birdy mi riempì di nostalgia. Vi invito a ricordare che le mie due ultime vittime, il giovane dottor Waring e il povero Sam, sanguinanti e trafitti dal dolore, avevano lottato e si erano difesi. (Non voglio neppure includere il caso del dottor Drummond: non era il tipo d'uomo che avrei scelto di uccidere, e la sua morte era stata facile, per niente memorabile.) Invece qui avevo un bel ragazzo conciato da buttar via e immobilizzato in attesa della mia lama. E questo davvero mi riportava indietro nel tempo. Alla mia prima volta. Pur essendo un diciassettenne timido e foruncoloso, ero riuscito a inserirmi ai margini di un gruppo di punk, ribollente di testosterone e ribellione. In compagnia di un ragazzo, ero riuscito a entrare nella fatiscente sede di alcuni uffici — non ricordo più con quale pretesto, o alla ricerca di che cosa. Lui mi aveva detto che avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avessi chiesto, e io gli avevo ordinato di inginocchiarsi davanti a me. Quando mi aveva obbedito, l'avevo colpito alla testa con un mattone e l'avevo deposto su una scrivania. Più tardi, quando aveva vomitato sul ripiano polveroso, la cosa non mi aveva fatto né caldo né freddo. Gli avevo già spremuto un bel po' di sperma e di sangue, che si erano miscelati sul vetro del ripiano. Avevo passato le mani su quei fluidi e me li ero spalmati sul petto e sulla umida fessura tra le natiche. Benché lo avessi praticamente
ucciso, non avevo neppure pensato che lui avrebbe a sua volta potuto uccidere me, nei mesi o negli anni a venire, in un decennio assai più irto di pericoli. Era il 1976, Sid Vicious era ancora vivo, e nessuno aveva paura dei fluidi corporei. Il vomito era una delle emissioni meno preziose, ma dopo aver visto i nostri sventurati eroi tagliarsi le vene, soffiare moccoli dal naso e vuotare lo stomaco sulla scena, non potevamo certo preoccuparci di un innocuo filo di saliva che colava dalla bocca di un amante. Dopotutto, i musicisti vomitavano sul palcoscenico per mostrare quanto disprezzassero il loro pubblico. E il disprezzo era indubbiamente una manifestazione d'amore. Jay era tornato accanto al letto e mi carezzava la schiena porgendomi qualcosa di liscio e fresco. Levai il capo dal torso del ragazzo. Jay mi aveva dato un coltello da caccia, un arnese con un'impugnatura di corno e una lama seghettata lunga almeno venti centimetri. «Era del mio prozio», disse. «Ti amo, Jay.» «Io non posso dire altrettanto. Se ti amassi, non credo che saremmo vivi tutti e due. Però ti conosco, e questa è una cosa che non ho mai detto a nessuno.» «Anch'io ti conosco.» Lo sentii rabbrividire. «Procedi. Fa' quello che vuoi, ma fallo subito. Voglio vederlo morire.» Posai la punta del coltello alla base del collo del ragazzo. Era talmente affilato da forare la pelle alla minima pressione. Sgorgò una goccia di sangue, scura contro il candore della pelle, che scivolò lungo la clavicola per finire sul pettorale sinistro. Mi hanno sempre fatto ridere gli scrittori che, come preludio alla violenza, dichiarano: «E a quel punto qualcosa scattò dentro di lui». La sola volta in cui ho sentito scattare qualcosa in me, è stato nel momento in cui ho deciso di uscire di prigione, un sollievo istantaneo e immediato come se fosse saltato un elastico che da anni mi avviluppava il cuore. Ma sempre, alla vista della prima goccia di sangue, qualcosa si scioglieva in me. Come un cumulo di terra che cede e si spande sotto la pioggia battente, come una lastra di ghiaccio che s'infrange liberando la corrente impetuosa del fiume. Il coltello incise pelle e muscoli e scivolò sullo sterno. Giunto all'incavo sotto le costole, s'immerse a fondo nel corpo. Non incontrò alcuna resistenza, nessun segno di tormento: Birdy, immobilizzato, si lasciò aprire come un pacco regalo. Scostando il pene eretto, sentii la lama raspare con-
tro l'osso pelvico. Per un lungo istante il suo torso rimase intatto, percorso dalla gola all'inguine da una sottile linea rossa. Poi la ferita si schiuse come un fiore sbocciante, e l'interno venne alla luce, una cornucopia di fluidi rari e di maleodoranti tesori... Uno scrigno di malattie. Il tempo parve fermarsi mentre contemplavamo le viscere del ragazzo. Non avevo il coraggio di toccarle. Infine Jay infilò le mani nell'incisione e la divaricò, mettendo meglio in mostra i noduli e i grumi di tessuto che spuntavano dagli organi del ragazzo, dalla sua stessa carne. Erano ovunque, sinistri come funghi, oscenamente bianchi contro i fluidi scarlatti e rosati. «Che cos'è?» chiesi infine. «Una sorta di tumore?» «Qualcosa di tossico... derivante dalla droga... dall'aria... o dall'acqua.» Jay sfiorò un nodulo, poi si annusò le dita che erano coperte di sangue e di una sostanza grassa. «Questo non lo possiamo mangiare.» Inspirai a fondo, cercando di ricompormi. Avevo attinto alla mia vena assassina, ed ero riuscito a uccidere. Adesso avevo paura di toccare la vittima. Mi sentivo come un affamato condotto davanti a un tavolo lussuosamente apparecchiato, solleticato da squisiti aromi provenienti dalla cucina, e poi informato (nell'istante stesso in cui il primo delizioso piatto veniva servito) che il cuoco aveva avvelenato le portate con insetticida. Jay era in ginocchio sopra di me, le mani, il petto nudo e i capelli biondi macchiati di sangue. Era molto appetitoso. Lo trassi su di me e ci avvinghiammo nell'umidore del sangue versato. Lui mi graffiò le natiche e la schiena tracciando su di me disegni di sua creazione. I graffi erano brucianti come se fossero stati cosparsi di acido. Lo sollevai e lo feci girare, puntellandogli le braccia, poi gli affondai i denti nei bicipiti. La sua pelle sapeva di sudore e di sangue del ragazzo. Divincolandosi sotto il mio peso, riuscì ad afferrarmi una ciocca di capelli e a tirare sino allo spasimo. Quasi d'istinto — avevo domato più d'un ragazzo allo stesso modo — gli diedi una botta alla mascella. Jay, lasciando ricadere il capo di lato, si abbandonò sul letto, gli occhi socchiusi. Vidi un rivolo di sangue scorrere sulle labbra e sui denti, ma non sapevo se fosse il suo o quello del ragazzo. Gli sollevai le palpebre, mi assicurai che le pupille fossero della stessa dimensione, gli controllai il polso e il respiro. Era solo svenuto. Mi affrettai a rimuovere le manette dai polsi di Birdy per inchiodare Jay. Lasciai perdere le cinghie alle caviglie. Qualche scalciamento non mi avrebbe dato fastidio.
Lo rigirai e carezzai la peluria dorata sul dietro delle cosce. Quando gli divaricai le natiche e passai un dito nella fessura, lui emise un roco lamento. Dopo un istante di esitazione, mi protesi a prendere il preservativo e il tubetto di . lubrificante che, come sapevo, erano riposti nel cassetto del comodino. In pochi secondi indossai il preservativo e lo unsi per bene. Afferrai Jay alle anche, lo sollevai e m'infilai nella calda stretta del tratto terminale del suo intestino. Lo choc dell'intrusione lo fece irrigidire, comunicando lo stesso irrigidimento alla muscolatura intestinale. Lanciò un gemito impotente e furioso, soffocato dal cuscino. Gli morsi la nuca, una delle mie mosse preferite da quando l'avevo visto fare da una leonessa in un documentario sulla natura. Nel contempo premetti la punta del cazzo contro la sua prostata, con movimento lievemente ondulatorio. Suo malgrado, Jay cominciò a sciogliersi. «Non ti preoccupare», gli sussurrai all'orecchio. «Sono Andrew, e sono dentro di te. Sono quello che è rimasto illeso, hai presente? Bisogna che tu mi prenda dentro di te. In tal modo sarò con te per sempre.» Jay borbottò qualcosa contro il guanciale. «Come?» Levò il capo e parlò con voce chiara. «Allora togliti il preservativo.» Smisi di scoparlo. Quando si girò, vidi che aveva il volto rigato di lacrime. «Dico sul serio. Se vuoi stuprarmi, fallo come si deve. Fa' che ogni cellula del mio corpo ti appartenga.» Nell'occhiata che ci scambiammo ci fu qualcosa che trasformò uno stupro in un atto d'amore, qualcosa che era ancora più intimo di quanto non fosse stata la condivisione dell'omicidio del ragazzo. Mi ritrassi, tolsi il preservativo e unsi il cazzo. Quando rientrai, nudo come quand'ero nato, il culo di Jay si aprì a me senza opporre resistenza. Ci muovemmo insieme come se l'avessimo fatto migliaia di volte, venimmo insieme come se i ritmi dei nostri corpi fossero in sincronia perfetta. Mentre schizzavo veleno perlaceo nelle viscere di Jay, lui mi morse le dita sino a farmi quasi sanguinare. «Hai fame?» chiesi. «E adesso chi decide chi mangiamo per primo?» «Sta a te», sussurrò nel palmo della mia mano. Lo strinsi tra le braccia, lo coccolai. Era ancora vivo, e aveva tutto il mio rispetto, perché adesso aveva riconosciuto quella che entrambi sapevamo essere la verità. Jay era davvero uno splendido e giovane animale notturno.
Ma io lo avevo domato quel tanto che bastava a mostrargli chi era il padrone. 12 «Ecco una gustosa notizia apparsa sul giornale di ieri. Shandra McNeil, di Gertrude, Louisiana, ha avuto una condanna per tentato omicidio di tre persone, e rischia una sentenza di omicidio volontario se una delle vittime dovesse morire prima di lei. La McNeil, affetta da AIDS, ha avuto rapporti sessuali senza prendere le debite precauzioni con svariati uomini incontrati in bar per single. Tre di loro, che in seguito sono risultati sieropositivi, hanno sporto denuncia contro di lei. La McNeil si è dichiarata colpevole e ha affermato di aver esposto al contagio almeno dieci uomini senza avvertirli del rischio che correvano. La ragione del suo gesto: la donna voleva disperatamente un figlio prima di morire. Shandra McNeil è adesso incinta di cinque mesi. «Be', se non ci fosse di mezzo quel feto, proporrei di darle una medaglia. Ha tolto di mezzo almeno tre coglioni da riproduzione, e forse molti di più, e questo soltanto perché il suo orologio biologico non ha smesso di funzionare quando nelle sue cellule si è attivata una bomba a orologeria. Shandra, stupida troia, grazie per il tuo splendido contributo alla razza umana. Il mondo ha davvero bisogno di un'altra bocca da sfamare. Speriamo che il povero piccolo venga contagiato mentre scende lungo la tua figa malata, in modo che il tuo ricco patrimonio genetico di stupidità muoia il più presto possibile. «E adesso passiamo a fonti più affidabili, che ne dite? Ecco una notizia uscita fresca fresca dal Weekly World News. Titolo: 'Pluriomicida malato di AIDS risorge dalla tomba!' La vicenda: 'Andrew Compton, serial killer gay, è morto di AIDS il 4 novembre... e il 5 novembre è fuggito dalla prigione! Gli amministratori della prigione Villaggio del Dolore di Birmingham, Inghilterra, respingono ogni responsabilità'... ehm... qui viene il bello... 'dato che il pluriomicida è sparito dall'obitorio di un ospedale vicino, dove era stato condotto per l'autopsia. «'Compton era stato arrestato nel 1988 dopo un'esplosione di sesso-etortura di cui sono stati vittime ventitré giovani, uccisi e fatti a pezzi. Poco prima della sua morte, era risultato positivo al test anti-HIV. Si ritiene che l'HIV, il virus responsabile dell'AIDS'... grazie per la precisazione, Weekly World News... 'difficilmente sopravviva in organismi deceduti da più di
ventiquattro ore. Ma Andrew Compton è davvero morto? A quanto risulta, Scotland Yard ritiene che si tratti di un trafugamento di salma, ma non ha fatto alcuna dichiarazione su chi avrebbe potuto avere interesse a procurarsi il corpo infetto di uno psicopatico'.» Luke fece una pausa per dare maggior risalto alla battuta con cui intendeva concludere la storia. «Ma che cazzo... E chi vorrebbe privarsi di un simile piacere?» Incrociò lo sguardo di Soren oltre il pannello di controllo. Il ragazzo chiuse gli occhi e scosse lentamente il capo, indicando una muta sofferenza. D'accordo, l'articolo della rivista era davvero di pessimo gusto. La trasmissione aveva bisogno di qualche punta di comicità, di tanto in tanto. «E tempo di rispondere a qualche telefonata», disse Luke. Soren annuì, prese il cellulare e rimase in ascolto prima di porgere l'apparecchio a Luke, il quale lo appoggiò sulla consolle e premette il pulsante voce. «Sei in linea con la WHIV. Dimmi tutto.» La voce di una ragazza, tutta perbenino e compiaciuta. «Volevo solo dirle che lei è una persona molto malata.» «Ben detto, tesoro. Prendo dieci tipi di medicine, tutte tossiche, e che per giunta non sono alla portata delle mie tasche. Ho il buco del culo circondato da piaghe dopo settimane di diarrea e uso costante di pessima carta igienica. Mi sembra di avere la gola piena di vetro triturato e quando mi alzo in piedi vedo macchie nere davanti agli occhi. Grazie per la diagnosi.» «Non è quello che intendevo dire e lei lo sa. L'AIDS è un veleno che create nel vostro stesso sangue. Lei dice di odiare quelli che si riproducono, ma la capacità di dare la vita è un sacro dono della Dea. Che le piaccia o no, anche lei ha succhiato al Suo seno.» «Be', il suo latte rancido non mi è servito molto per quel che riguarda il numero dei linfociti T. Svelerò una cosa, a tutte voi Nuove Streghe, che amate tanto i segreti: non avete più ragione di esistere. Adorate un imperativo biologico obsoleto. Una pessima giornata a te, cara.» Clic. Segnale di libero. «Martyr, tu sei uno addentro a tutte queste fesserie esoteriche. Per caso adori una qualche Dea? Se è così, ti prego di non dirmelo. Io le odio tutte, quelle stronze, tranne Kalì, che almeno, quando si riproduce, divora i propri figli.» Soren aveva alterato il chip del suo cellulare in modo che a ogni chiamata generasse un nuovo codice di identificazione e non fosse quindi rintracciabile. Di conseguenza avevano un nuovo numero di telefono a ogni tra-
smissione. Spesso la ricezione era pessima lì nelle paludi, ma Johnnie si teneva abbastanza vicino a New Orleans da poter captare le telefonate. Oggi erano ormeggiati a uno dei tanti pontili abbandonati di cui si servivano, il che facilitava le comunicazioni telefoniche. Luke mise la ballata «Queen Elvis» di Robyn Hitchcock, dall'album Eye. Guardando il lettore CD, gli tornò alla mente un'altra canzone della raccolta, il lamento per un perduto amore. «Even talking is out of reach...» Esprimeva il bruciante tormento di una storia troncata con rabbia, il vuoto silente lasciato dall'assenza della persona con la quale avevi fatto le conversazioni più intense e passionali della tua vita. Scorse i ritagli di giornale e fissò la foto sgranata comparsa nel servizio del Weekly World News. Compton era un bel tipetto, con un ciuffo di capelli scuri e un sorrisetto sfuggente. Luke cercò di immaginarsi a uccidere ventitré ragazzi e, con un certo sgomento, gli parve piuttosto facile. Si chiese quanto grande, in realtà, fosse la distanza che lo separava da un predatore come Compton. Luke riteneva che un sacco di gente meritasse di morire, ma quelle erano persone che odiava, individualmente o collettivamente. Compton doveva invece aver provato una qualche sorta d'amore per questi ventitré ragazzi, tuttavia li aveva uccisi tutti quanti. Difficile da capire. Mentre finiva la canzone, arrivò un'altra chiamata. Ottimo, si ritrovò a pensare Luke, qualcun altro da insultare. Un uomo di una certa età, a giudicare dal tono di voce un po' arrochito ma ancora vispo. «Il signor Rimbaud, suppongo.» «In persona.» «Buonasera a lei e ai suoi collaboratori.» «La serata non si prospetta buona, ma grazie comunque. Vuol parlare di qualcosa in particolare, o è solo una chiamata di convenevoli?» «Mi scusi, non intendevo farle perdere tempo. Le piccole formalità mi aiutano a mantenere l'equilibrio mentale. Sono un gay cinquantenne e chiamo da Metairie. Vivo con il mio compagno da quindici anni. Abbiamo due figli e una figlia.» «Bel colpo! Come avete fatto?» «Una coppia di amici etero ci ha scelto come padrini per i loro figli e ci ha chiesto di fungere da tutori qualora fossero morti. Sono periti in un incidente in mare quando i bambini erano ancora piccoli. Dato che non c'erano parenti in grado di contestare questa decisione, i bambini sono stati affidati a noi. Per allevare quei bimbi come se fossero nostri, abbiamo su-
bito tutte le pene dell'inferno, signor Rimbaud. Ogni trimestre, dalla prima elementare alla fine del liceo, le varie scuole ci hanno inflitto le visite degli assistenti sociali. I genitori degli amici dei nostri figli proibivano ai loro rampolli di venire a casa nostra. I compagni di scuola li tormentavano a tal punto che siamo stati costretti a far prendere lezioni di karaté a tutti e tre sin da bambini. «Abbiamo allevato tre ragazzi etero che capiscono cosa significhi essere gay, e che contestano puntualmente l'atteggiamento omofobico del mondo etero. E, tra parentesi, sono dei draghi nelle arti marziali. Nella sua trasmissione le sento dire che questi ragazzi non dovrebbero esistere perché sono un prodotto degli 'animali da riproduzione'. Secondo questo metro, né lei né io dovremmo esistere. La sua posizione è illogica, impossibile... tuttavia lei la esprime con fervore, e spesso con grande eloquenza. «Se lei non ritiene che i bambini siano la nostra speranza, quale alternativa ci offre? Come ridisegnerebbe il mondo, il signor Lush Rimbaud?» Luke prese fiato, si protese verso il microfono e attese che Lush avviasse un discorso. Gli ci volle quasi un minuto per capire che Lush non aveva risposte. «Signor Rimbaud? È ancora in linea?» «Sì. Lei come si chiama?» «Alex.» «E sieroposivo, Alex?» «Fortunatamente no.» «Ma scommetto che nei suoi furori giovanili ha fatto cose che in seguito le hanno destato delle preoccupazioni. Cose che l'hanno tenuta con il fiato sospeso sino a che non ha avuto i primi risultati del test.» «Ma certo. Non è capitato a tutti noi?» «Sì, è vero. E alcuni di noi che non hanno superato l'esame non hanno imparato a prendere la vita giorno per giorno, né a considerare l'AIDS una sorta di guida spirituale o altre stronzate del genere. Alcuni di noi si guardano allo specchio e vedono solo un fottuto virus che ci ucciderà senza pietà né dignità. Diventiamo dei paria del sesso, e viviamo in attesa di morire. Ogni minuto di vita in più è sottratto a quella morte che un miliardo di fondamentalisti di destra ritiene che ci siamo meritati. Il mondo si scansa davanti a noi, inorridito, disgustato, terrorizzato, e non ha torto... siamo vittime di una pestilenza e possiamo contagiare gli altri. «Non so, Alex, solo che... a volte mi sento molto giù. Mi ha chiesto come ristrutturerei il mondo. Facile: ci rimarrei più o meno per un altro mez-
zo secolo. Non chiederei altro. «Il mio stupendo e idiota ex compagno, con i suoi straccetti neri e i suoi quaderni di appunti, pensava che la morte fosse una nozione romantica. Bruciava incenso e ascoltava i CD firmati Bauhaus e si portava l'esile manina alla fronte esangue. Très gothique, vero? Si è anche bucato con me, perché voleva provare tutto, spingersi ai limiti estremi dell'esistenza... ma più che altro gli piaceva perché gli dava un'erezione di tre ore. «Ma, guarda caso, quando ha scoperto che il suo amante era sieropositivo, la morte non gli è più parsa così... carina. Il suo amore per la morte era una bufala. So che ne avrò al massimo per un paio d'anni. Tutti quei tizi che mai e poi mai sarebbero morti di AIDS — Michael Callen, David Feinberg, Lake Sphinx — se ne sono tutti andati. E così sarà di me. Perché non uccidermi subito e risparmiare ai contribuenti quelle poche migliaia di dollari che sarò costato loro di medicine, anziché tener duro e infierire contro i milioni di dollari spazzolati via dai riproduttori?» Luke aveva quasi dimenticato che era in comunicazione con un ascoltatore sino a che la sua voce pimpante non lo interruppe. «Perché ha qualcosa da dire, ovviamente.» «Davvero, Alex? Ho qualcosa da dire? Perché non ne sono più tanto sicuro. Non voglio finire il libro che sto scrivendo perché non è buono abbastanza da essere la mia ultima opera. La cosa più bella ch'io possa immaginare è svegliarmi ancora una volta accanto al mio compagno, e questo non succederà perché probabilmente non lo vedrò mai più. Talvolta sono in trasmissione e il cervello mi si spegne di colpo. Già m'immagino quello che succederà tra qualche mese: 'WHIV, la stazione radio dei blackout da demenza da AIDS! Venti minuti di silenzio ogni ora, garantiti!' «Ma sono Lush Rimbaud, e per me tacere sarebbe come morire. E sprecherò quel poco fiato che mi resta dicendo stronzate sulla gente come lei, che davvero ha lasciato un segno nel mondo. Io non l'ho fatto e non lo farò mai. Cazzo, è probabile che la gente, grazie a me, abbia maturato ancor più odio per le checche. Proceda, amico. Tiri su gli altri esseri umani. Qualcuno che li farà ci sarà sempre, e gran parte di loro alleveranno dei coglioni, degli idioti, dei pazzi. Se lei può fare altrimenti, la sua vita sarà stata più fruttuosa della mia. «Al diavolo. Al diavolo tutto. Mi ritiro.» Interruppe la comunicazione, si tolse le cuffie e staccò il microfono. Soren lo fissava sbalordito. A Luke non importava un cazzo. Aveva la sensazione di aver passato gli ultimi anni della sua vita coltivando due persona-
lità diverse che, di colpo, si erano fuse. Questa constatazione gli faceva un effetto non dissimile da quello di essere inculato senza vaselina. Si coprì il volto con le mani e chiuse gli occhi. «Luke?» La voce di Soren era bassa, cauta. «Che cosa ti succede?» «Non so.» Fu un gracidio, secco e gutturale. «Non ce la faccio più. Quel tizio aveva ragione. Non voglio ristrutturare il mondo, voglio solo trascinarlo via con me.» «Quel tizio non ha mai detto...» «Sono io che lo dico.» Luke si alzò. Gli tremarono le ginocchia e gli girò la testa. Soren era lì a sorreggerlo, cingendolo con le braccia nerborute e tenendolo stretto. «Ma che cosa dici? Davvero non t'interessa più la WHIV?» «Non ce la faccio più.» Luke abbandonò il capo contro il petto di Soren, il quale lo aiutò a rimettersi seduto, senza però lasciarlo andare. «Sono così stanco... e so che non finirò mai il mio libro... e l'unica cosa che voglio è stare con Tran.» «Sai che non è possibile.» «Ma se muoio senza provarci, sono un vigliacco. Non mi pento di ciò che ho fatto. Rimpiango solo ciò che non ho fatto.» «Capisco. Ma hai cercato di rimetterti con Tran, e ti è andata buca. Hai cose importanti da fare, Luke. O preferisci passare il resto della vita a inseguire un sogno?» «Sì.» «Quindi non vuoi più occuparti della trasmissione?» «Soren...» Dall'incurvarsi delle spalle del ragazzo, Luke capì quanto si sentisse sconfitto. La WHIV era decisamente la cosa più importante della vita di Soren. «Ma nel gruppo di sostegno che frequenti non parlano mai dell'importanza delle emozioni nel decorso delle malattie?» «Ma certo.» «Negli ultimi sei mesi, ho visto montare in me incazzatura e malattia. Adesso ho l'impressione che dentro di me ci siano solo vetri rotti e chiodi arrugginiti. Non voglio più diffondere queste schifezze. Adesso c'è una sola cosa che mi farebbe felice, se riuscissi a ottenerla, e voglio provarci. Oppure preferiresti vedermi distrutto dal vetriolo di mia fabbricazione, solo perché nella tua stazione radio pirata suona bene?» «Credevo che tu ti sentissi impegnato quanto me nella WHIV. Pensavo che ti nutrissi di rabbia in un modo che io non potevo capire. L'unico responsabile delle tue emozioni sei tu, Lucas.»
Una parte di lui sapeva che questo rispondeva a verità. Un'altra parte avrebbe voluto ribellarsi, affermare che quelle emozioni gli erano state imposte dalla malattia e dalle circostanze, ma questo era in netto contrasto con la sua fede nel libero arbitrio che lo aiutava a conservare un barlume di speranza. Si chiese come mai fosse diventato un povero catorcio pieno di autocommiserazione. «Hai ragione su tutta la linea», disse a Soren. «E mi spiace piantarti in asso. Ma è quello che devo fare.» Soren annuì e cominciò a riporre parte dell'attrezzatura in uno scatolone di cartone. Luke non riusciva a capire quanto fosse furioso. Forse sentirsi dar ragione e ricevere scuse da Lucas Ransom lo aveva colpito a tal punto da impedirgli di reagire. Johnnie Boudreax aveva ascoltato la conversazione dal ponte. S'infilò nella cabina e avvicinò una cassetta di legno accanto alla sedia pieghevole di Luke. Lentamente fece una canna con dell'appiccicosa erba verde coltivata da uno dei suoi ultimi amici della palude. Quando l'accese, alla luce ondulante del fiammifero, Luke notò che aveva una nuova piaga all'angolo della bocca, provocata dal sarcoma di Kaposi. Johnnie esalò una boccata di fumo azzurrognolo e chiese: «Avete davvero intenzione di piantar lì tutto?» «Io non vorrei», rispose Soren. «Ma senza Luke non ce la facciamo. Nessuno potrebbe rimpiazzarlo.» «Però qualcuno potrà senz'altro sostituire me.» «Come sarebbe a dire?» «Mi spiace dirtelo, ma me ne vado anch'io. E non mi limito a lasciare il battello, ma...» Si puntò l'indice contro la tempia, simulando uno sparo. «Perché proprio adesso?» chiese Luke. «Be'...» Johnnie si sfregò le mani, bianche e forti, con un'orlatura indelebile di grasso lubrificante sotto le unghie. «Mio fratello è morto due giorni fa.» «Fratello?...» Soren diede un'occhiata a Luke, che era altrettanto stupito. «Non sapevamo che tu...» «Avessi un fratello. Già. Etienne era parecchio più grande di me. Viveva in casa quando c'ero anch'io, però faceva molti viaggi a New Orleans.» Johnnie fece una risatina. «Nel Quartiere francese.» «Era gay?» chiese Soren. «Secondo te, perché i nostri genitori ci avrebbero cacciato via tutti e due insieme?»
Soren rimase senza fiato e Luke disse: «E lui che ti ha contagiato?» «E la sola persona con cui sia stato.» «Abusava di te?» chiese Soren. Johnnie alzò le spalle. «Si può chiamare molestia una cosa che mi è sempre piaciuta? In ogni modo, ora è morto. Ha preso di nuovo la polmonite e non c'è stato niente da fare.» A Luke venne in mente una cosa. «Chi si occupava di lui mentre tu eri sul battello?» «Nostra sorella. Ha ventidue anni. Lasciava i figli con il marito e veniva a casa nostra. Gli diceva che andava a trovare i genitori. Se per caso i nostri genitori fossero passati da loro mentre lei non c'era, probabilmente si sarebbe beccata delle gran botte da Jo-Jo e da nostro padre.» «Jo-Jo?» «Il suo adorabile marito. Quello che ha minacciato di spezzarmi le braccia e di spaccare le gambe a Etienne se mai ci fossimo presentati a casa sua.» Luke immaginò la vita di questa ventiduenne con figli (al plurale) e un marito che doveva essere cretino almeno quanto il suo nomignolo, la quale vedeva i fratelli morire di una strana e disgustosa malattia su cui doveva aver sentito solo raccontare orrori, e di cui non poteva far parola con nessuno. Forse c'erano inferni peggiori del suo, pensò Luke. «Le ho detto che avrei informato voi due, poi mi sarei ucciso qui nelle paludi, così lei non avrebbe dovuto occuparsi di un altro cadavere.» Johnnie fece una smorfia. «E toccato a noi due seppellire Etienne. E stato brutto. «Così ho pensato che se volevate continuare le trasmissioni, potevate lasciare la chiatta ormeggiata qui. Sapete remare tutti e due, e di qui non è difficile raggiungere l'auto. Oppure potreste imparare a manovrare il battello: è facile.» Soren scosse il capo. «Chiudo la baracca. L'attrezzatura posso portarla via con due viaggi in piroga. La WHIV è morta.» «Vuoi che ce ne andiamo?» chiese Luke a Johnnie. Lui li guardò con un'espressione quasi timida. «Rimarreste con me? So che è una grossa richiesta. Ma ho paura di fare uno sbaglio. Non voglio restare qui ferito... e... be'... ho visto morire Etienne. Voglio che qualcuno veda me.» Luke e Soren si scambiarono un'occhiata, poi accettarono, cercando di nascondere la loro riluttanza. Era una cosa che non avresti mai voluto fare
per un amico. Ma se ti veniva richiesto, non c'era scampo. Johnnie li abbracciò. Poi trasse di tasca il revolver con l'impugnatura di madreperla e uscì sul ponte. Luke e Soren lo seguirono. «Johnnie?» disse Soren. «Che cosa dobbiamo... fare di te?» «Buttatemi in acqua e dite una preghiera per la mia anima.» «Ma...» Soren fece un gesto di frustrazione, e l'odore? E che cosa succede quando il tuo cadavere rigonfio torna in superficie tra una settimana... tutte le spaventose domande che non poteva rivolgergli. «Stai pensando a come ci si sbarazza di un cadavere, Soren?» Johnnie arrovesciò indietro il capo e rise. Era la prima volta che Luke lo vedeva in preda all'ilarità. «Come si vede che sei di città! Non sai che in questa palude ci sono degli alligatori enormi?» Soren parve sul punto di vomitare. «Spero che quegli stronzi si becchino l'AIDS. Una volta mi hanno ucciso il cane.» Per un momento Johnnie apparve sconsolato, poi il suo volto si schiarì. «Ciao, Luke. Ciao, Soren.» Si avvicinò al parapetto, inclinò il capo all'indietro e s'infilò la canna del revolver in bocca. Luke aveva sentito appena il colpo soffocato quando il sangue sprizzò dalla sommità del cranio di Johnnie, ruscello fuori dalla bocca e dal naso colorando la pelle piagata del collo e gocciolando nell'acqua. D'istinto, Luke e Soren si erano tenuti per mano. Adesso le loro dita erano strette in una presa dolorosa. Gli occhi del morto erano semiaperti, fissi, spenti. I tratti del volto erano rilassati, la bocca allentata intorno alla canna come se tra le labbra ci fosse il cazzo inflaccidito di un amante. Johnnie aveva chiesto loro di dire una preghiera, ma Luke non ne aveva nessuna nel suo repertorio. Piazzò la suola dello stivale contro il fianco di Johnnie e lo fece cadere in acqua. Il corpo sollevò un piccolo spruzzo, intorno al quale si diffuse una serie di cerchi concentrici. Il sangue tracciò filamenti rossi nell'acqua scura e oleosa. Soren distolse il capo. «Possiamo andare?» «Aspetta.» Schermandosi gli occhi con la mano, Luke guardò verso la riva opposta del bayou. Era forse una qualche forma preistorica quella che si staccava dal folto delle canne e dalle radici di cipresso per avanzare nell'ombroso confine tra l'acquitrino e la terra? Era proprio un paio di dorati occhi da rettile quello che scivolava sull'acqua, in direzione del battello? «Luke. Non vogliamo assistere a questo.» «Io sì.»
Un paio di lunghe mascelle dentute si aprirono come assi incernierate trafitte da centinaia di chiodi di varia lunghezza, piantati a caso, con angolazioni mortali, e si richiusero su Johnnie con un rumore secco come una detonazione. Luke sentì lo scricchiolio delle ossa. Il corpo di Johnnie venne risucchiato in acqua con tanta velocità da lasciare una piccola spirale di sangue sulla superficie. L'alligatore si allontanò seguito da una traccia sinuosa. Luke aveva sentito dire che tenevano i cadaveri per giorni nelle cavità tra le radici degli alberi, lasciando che la carne si ammorbidisse e marcisse nella fanghiglia stagnante. «Andiamo», disse. Ma Soren era già in cabina, intento a smontare l'attrezzatura, evitando di guardare l'acqua e addirittura gli occhi di Luke, quando questi lo raggiunse. Soren aveva sottovalutato il peso dell'attrezzatura, e gli ci vollero tre viaggi in piroga per portare il tutto sul pontile in cui era ferma l'auto. Luke si fece dare un passaggio da Soren: non se la sentiva proprio di affrontare i cinquanta chilometri che lo separavano da New Orleans. Al terzo viaggio della piroga sovraccarica, lo choc della morte di Johnnie si era in qualche modo dissipato. Erano accaldati e sudati, e cominciavano a darsi fastidio a vicenda. Soren continuava a fare battutine acide per nascondere il dispiacere di dover chiudere la stazione radio. Luke, più calmo di quanto non fosse da settimane, cercava di ignorare le frecciate. Ma quando salirono in auto, sporchi e sfiniti, Soren chiese: «Che cosa farai quando Tran rifiuterà di rimettersi con te?» Luke sentì riaffiorare la rabbia, un lampo lontano. «Non sai se mi dirà sì o no.» «Ti ha detto di no prima. Non ti dirà certo di sì adesso.» Qualcosa nell'enfasi con cui aveva pronunciato l'ultima parola insospettì Luke. «Come sarebbe a dire 'adesso'?» «Be'... e se frequentasse qualcun altro?» Soren infilò la chiave nell'accensione. Luke gli afferrò la mano impedendogli di mettere in moto. «Tu sai qualcosa.» «Non dire sciocchezze. Come potrei? Tran e io ci conosciamo appena.» «Prima mi stuzzichi, poi mi dai spiegazioni fasulle. Piantala con queste frescacce. Hai visto Tran. Sai qualcosa. Dimmelo.» «Lasciami andare, Luke.» Luke rafforzò la stretta, godendosi la sensazione delle fragili ossa che si spostavano nella sua morsa.
«Mi fai male, stronzo. Tran aveva ragione.» «Ah sì? Ragione su che cosa?» «Che sei un fottuto sadico fuori di testa.» «E probabile. E quando hai avuto il bene di sentire questa perla di saggezza dalla bocca di Tran?» «La settimana scorsa. Lo stesso giorno in cui mi ha detto del suo nuovo compagno.» «Chi sarebbe?» Soren non rispose. Luke strinse ancora più forte, poi gli torse la mano. «Cristo, Luke... mi fai male...» «Dimmi il nome.» «Jay Byrne.» Luke mollò la presa. Soren gli diede una botta alla spalla. Protetto dal giubbotto di pelle, Luke se ne accorse appena. Stava cercando di mettere a fuoco quel nome, che gli sembrava familiare, con connotazioni vagamente sgradevoli. «Jay Byrne? Chi diavolo è? Non è una sorta di falchetto del Quartiere francese?» Soren annuì. «Credo sia una carogna. Pare che a Tran non dispiaccia.» «Che cos'altro sai?» Niente scioglie la lingua di un gay passivo come un piccolo sfoggio di maniere forti al momento opportuno. Soren vuotò il sacco da cima a fondo: dall'incontro con Tran su una panchina di Jackson Square al momento in cui gli aveva dato un passaggio sino all'Hummingbird Hotel. Se non soggiornava ancora lì, ipotizzò Soren, Tran doveva essere in casa di Jay. No, non conosceva l'indirizzo di Jay, ma sapeva che abitava in una casa sciccosa e ben protetta in fondo a Royal Street, dove aveva avuto modo di notare che c'era un cancello in ferro battuto sormontato da ornamenti a forma di ananas. «Okay.» Luke cercò di riacquistare la calma. «Grazie per l'informazione.» «Oh, di nulla. Insomma, non è mica che tu mi abbia costretto a parlare, per carità!» «Scusami per averti fatto male. Ma sai benissimo che avevi voglia di dirmelo.» «Sono così trasparente?» «Sì.» «E allora come mai non riesci a capire che...»
«Che cosa?» «Vuoi farmi un favore? Visto che ti ho dato le informazioni.» «Che cosa vuoi?» La voce di Soren era quasi un sussurro. «Vieni a casa con me.» Luke non credeva alle sue orecchie. Non aveva idea che Soren lo concupisse. Anzi, era convinto che nessuno potesse concupirlo nello stato in cui si trovava: si sentiva distrutto, cadente, bruttissimo. «So di non essere il tuo tipo», continuò Soren, di fronte al silenzio di Luke. «Insomma... i miei capelli sono castani, ma li porto ossigenati da così tanto tempo che potresti benissimo definirmi un tipo nordico. Poi, diamine, non possiedo neppure un wok!» Luke non poté impedirsi di sorridere. Soren lo ricambiò, esitante, prima di prendergli la mano. Luke vide che il polso recava i segni della sua stretta. Li sfiorò delicatamente, si portò la mano dell'amico alle labbra, baciò le nocche e le punte delle dita. «Andiamo», disse. La mano di Soren tremava nel girare la chiave dell'accensione. Luke capì che quella doveva essere stata proprio una giornataccia per quel povero ragazzo. Per chiunque, a dire il vero. Non parlarono molto durante il tragitto verso New Orleans, ma il viaggio fu piacevole, immerso nella calda luce del tramonto sulle paludi. Luke si appisolò e si risvegliò con un'erezione, pensando a Tran. Poi si ricordò che accanto a lui c'era Soren. Drizzò la schiena e guardò fuori del finestrino. Erano appena arrivati a casa di Soren, a Bywater, un fatiscente quartiere da bohémien, tra Faubourg Marigny e l'Industrial Canal. Soren gli saltò addosso non appena furono entrati. «E così tanto che nessuno mi tocca», spiegò, ansante, «e tu sei stato spesso presente nelle mie fantasticherie, e non ho mai pensato che ti potesse interessare, e, oh Dio, Luke, quanto mi piaci...» Era straordinario, l'andazzo di certe cose. Ma nel momento stesso in cui si stupiva della triste ironia della sorte, Luke si ritrovò a esplorare con la lingua la bocca di Soren e a palpargli le natiche. La camera da letto era una riposante distesa di bianco ed écru. Si buttarono su un enorme letto di piume e fecero l'amore per tre ore... dapprima con curiosità, poi con tenerezza e infine con passione. Luke aveva creduto che il pensiero di Tran e Jay gli avrebbe impedito di concentrarsi e di godere di quell'incontro. Fu lieto di essersi sbagliato. Soren era un maestro di passività calcolata, e si lasciava possedere in mille modi aggraziati, espri-
mendo il proprio piacere con frasi oscenamente eleganti e lunghi gridi rochi. Fu un bel divertimento, e, su insistenza di Soren, tutto venne fatto con le debite precauzioni poiché nessuno sapeva quali potessero essere gli effetti di un'infezione incrociata. Pian piano il respiro di Soren si placò e il suo corpo si rilassò nel sonno. Luke sgusciò via dal letto e, senza far rumore, andò nel soggiorno, dove, in mezzo a un impeccabile tavolino, c'era un telefono cordless. Chiamò il servizio informazioni elenco abbonati, scribacchiò il numero fornitogli sul dorso della mano e lo digitò. Rispose una scorbutica voce maschile. Sullo sfondo si levava il clamore di un festino da ubriachi. Nessuno di nome Tran alloggiava all'Hummingbird. Luke non era sorpreso che i genitori di Tran avessero cacciato di casa il loro primogenito. Sembrava la naturale conseguenza di tre anni di scrocco e di menzogne. Come molti altri orientali che Luke aveva conosciuto, Tran voleva la botte piena e la moglie ubriaca, cercando di mantenere una facciata rispettabile con i suoi pur menando una vita smodata e checcaiola. Non era la prima volta che Luke vedeva esplodere situazioni di questo genere, e non era la prima volta che lui stesso contribuiva all'esplosione. O Tran aveva dato un nome falso all'hotel, o era con il suo nuovo compagno. Non appena la seconda eventualità ebbe preso piede nella sua mente, Luke non tenne più in considerazione la prima. Si vestì e uscì dalla casa di Soren. Erano le ventidue passate, un'ora non proprio ideale per aggirarsi soli a Bywater. Ma Luke aveva il giubbotto di pelle, un rasoio nello stivale, e uno sguardo bieco, bruciante. Nessuno gli diede fastidio. Ed era a soli tre chilometri dal Quartiere francese, dove Tran e Jay attendevano ignari il suo arrivo. 13 Non appena Andrew gli permise di alzarsi dal letto, Jay si dispose a impacchettare il corpo di Birdy per la rimozione. Non voleva quell'ammasso di carne contaminata in casa o nell'alloggio degli schiavi. Era un presagio della peggior specie, un telegramma dall'universo, un ammonimento che le cose non erano come lui aveva creduto, e forse neppure come lui poteva immaginare. Per fortuna, qualora avesse incontrato difficoltà a leggere le viscere dell'universo, c'era lì Andrew ad aiutarlo. Birdy sembrava deceduto per choc o per dissanguamento. Aveva il volto sbiancato e inerte, svuotato di quella già scarsa animazione che aveva avu-
to in vita. Jay rimosse il cadavere dal letto e lo posò su alcuni sacchetti per rifiuti, lo avvolse e fissò il tutto con nastro adesivo telato. Alla fine, Birdy, ripiegato e racchiuso in svariati strati di spessa plastica nera, era ridotto a un ammasso informe che sembrava troppo piccolo per essere stato un ragazzo. Jay lo infilò in una sacca militare che aveva comprato in un negozio di surplus proprio per eventualità di questo genere. La sacca era grande abbastanza da contenere due Birdy. Andrew se ne stava sdraiato sulle lenzuola intrise di sangue e lo guardava con aria condiscendente. «Hai voglia di andare a fare un giretto nelle paludi?» gli chiese Jay. «Non sapevo che avessi un'auto.» «Non ce l'ho. Non guido quasi mai. Ma posso disporre di una vettura quando ne ho bisogno.» «Bella, questa vita da ricchi.» Jay alzò le spalle. «Mi consente di dedicarmi ai miei hobby: ecco tutto.» «Direi proprio di sì!» Jay andò a prelevare l'auto in un garage nelle vicinanze, ripassò da casa a prendere Andrew e Birdy, poi puntò in direzione ovest, sulla 61, la Airline Highway. Gli squallidi negozi con prezzi scontati e i motel d'infimo ordine lasciarono il posto a punti vendita di auto usate, baracche abbandonate, e alla dilagante oscurità della palude. L'autostrada 61 attraversava una zona fangosa tra il lago Pontchartrain e il Mississippi. Lì il terreno era umido, con folta vegetazione e scarsamente abitato. Attraversarono il comune di St. Charles per inoltrarsi in quello di St. John the Baptist, una località rurale, spruzzata di venefiche sacche industriali. Il buio era rotto solo dal divampare di qualche fiammata delle raffinerie. A una sessantina di chilometri da New Orleans, Jay uscì dall'autostrada, imboccò una statale asfaltata, poi svoltò in una strada sterrata e, sobbalzando, giunse a un cancello chiuso lungo una recinzione che proseguiva nei boschi. Fissato alla rete, un cartello arancione ammoniva: PROPRIETÀ PRIVATA — VIETATO L'ACCESSO. Jay scese dall'auto e aprì il cancello. Lo varcò in auto e ridiscese per chiuderlo. Il viottolo portava in un bosco oltre il quale sorgeva un capannone di metallo ondulato. «Un rifugio segreto per i weekend?» chiese Andrew. «In certo qual modo, sì.» Trassero l'ingombrante carico dal baule dell'auto e lo portarono all'interno del capannone, di cui Jay aveva la chiave. Entrando, premette un inter-
ruttore. Si udì il breve ronzio di un generatore prima che le luci al neon del soffitto si accendessero. Il capannone era pieno di pile di bidoni di metallo e di plastica, colmi di residui chimici accumulati per più di un decennio. Per anni i capireparto della Byrne Metals and Chemicals avevano pagato varie équipe di «esperti nell'eliminazione di rifiuti tossici» affinchè portassero via i bidoni, affidandoli alle ditte che praticavano i prezzi più bassi, e tirando un sospiro di sollievo quando vedevano i camion sparire lungo la strada nella palude. Dopodiché nessuno sapeva dove finissero quei bidoni, e nessuno era tenuto a saperlo. Ma quelli erano i bei tempi andati. Adesso non valeva neanche più la pena di pagare gli «esperti»: era più conveniente accumulare i bidoni in remoti magazzini come questo. E quando il capannone era pieno, c'era sempre la palude. Andrew, che era venuto a sapere tutto questo durante il tragitto, adesso taceva, forse zittito dal miasma venefico del luogo. Jay capovolse la sacca e lasciò scivolare fuori il pacco, poi trasse una taglierina di tasca e incise la plastica. Da uno scaffale prese un cacciavite, un piede di porco e un paio di guantoni lunghi sino al gomito, e tolse il coperchio di un bidone blu da due ettolitri. Un odore tremendo si diffuse nell'aria. Infilando a sua volta un paio di guanti, Andrew aiutò il compagno a immergere il cadavere nudo di Birdy nel bidone, infilandolo dalla parte del sedere in modo che finì in una posizione fetale. «Che cos'è questa roba?» «Acido muriatico.» «Dissolve anche le ossa, vero?» «Altroché.» Coprirono il bidone, rimisero tutto a posto, ripresero la loro roba e lasciarono quell'archivio di veleni così come l'avevano trovato. Nel tragitto di ritorno, Jay si fermò a buttare i sacchi di plastica insanguinati in un cassonetto per la spazzatura dietro a un ristorante della catena Popeye. Tornarono nel Quartiere francese che li accolse come un grembo, prima dell'alba s'infilarono nel letto appena rifatto e sonnecchiarono per gran parte della giornata. Jay si alzò una volta, verso mezzogiorno. Chiamò l'Hummingbird Hotel, chiese di un certo Frank Booth e gli venne passato Tran, che, dalla voce, sembrava molto insonnolito. «Hai incontrato un misterioso straniero?»
«Chi è... un momento... sei Jay?» «Quanti altri hanno il tuo numero?» Tran rise. «Hai voglia di scherzare. Ieri notte nessuno mi ha rivolto la parola. Credo che annusino la mia disperazione.» «Mi sento in parte responsabile di questa disperazione.» Tran non rispose: una tacita condanna. Jay pensò ad Andrew che dormiva, immerso nei sogni e nei desideri. Chiuse gli occhi e si lanciò in una mossa irreversibile. «Mi dispiace. Da tanto tempo non provavo sensazioni così intense con qualcuno.» (E lo lasciavo in vita, precisò tra sé.) «Mio cugino è stato molto lieto di averti conosciuto, e io vorrei rivederti. Perché non vieni a cena da noi stasera?» «Be'...» Jay se lo vedeva tutto insonnolito che cercava di valutare questa situazione inattesa. «Io... sì, mi farebbe molto piacere.» «D'accordo. Verso le otto?» «Ah... certo.» «A più tardi, allora.» Jay riattaccò, in preda a una strana combinazione di terrore ed esultanza. Stava perdendo il controllo del suo mondo, ma anziché cedere al panico come avrebbe fatto in passato, era incantato da quella rotta perigliosa. S'infilò di nuovo a letto, si rannicchiò accanto ad Andrew e si riaddormentò. Di lì a qualche ora, avrebbe dovuto allestire una cena, qualcosa di semplice ma prelibato. Qualcosa all'altezza dell'ultima cena di un bellissimo ragazzo. *** Al risveglio, Jay preparò del caffè e lo sorbì seduto al tavolo di cucina, sfogliando con occhio appannato la copia del Times-Picayune che aveva acquistato la sera precedente. Nella sezione dedicata alle cibarie in previsione del Giorno del Ringraziamento trovò la descrizione di una specialità di recente invenzione: una composizione gastronomica fatta di tacchino, pollo e anatra, tutti disossati e con ripieni diversi. Attratto dall'idea, Jay chiamò la rosticceria che offriva quel piatto. Sentendosi dire che di norma non facevano consegne a domicilio e in ogni caso era impensabile effettuarla quella sera stessa, Jay accennò a una discreta sommetta. Dopo una rapida consultazione all'altro capo della linea, gli venne comunicato che la cena sarebbe arrivata alla sua porta entro le sette; dopodiché bastava riscaldare il tutto per un'ora.
Svegliò Andrew portandogli una tazza di caffè nero, dolce e fumante, e sedette sulla sponda del letto a guardarlo mentre lo beveva. Il viso di Andrew aveva qualcosa di severo, nonostante i capelli ritti e puntuti, gli occhi azzurri limpidi e ipnotici, la gradevole regolarità dei suoi tratti. Forse era il naso un po' lungo o la piega beffarda della bocca l'elemento che faceva del suo volto la quintessenza della britannicità. O forse era la crudeltà. Andrew lo graziò con uno dei suoi inquietanti sorrisi. Jay si chiese che cosa sarebbe cambiato tra di loro quando quella notte fosse finita. Jay dovette farmi presente due volte che il mio nome era Arthur, benché a quel punto non avesse più molta importanza. Quando Tran si presentò al cancello, avevamo già bevuto abbastanza cognac da essere alticci. Questo può essere stato il nostro primo errore. Per conservare un minimo di lucidità, avremmo dovuto restare sobri sino a fine cena. Ma eravamo in preda a una strana euforia, forse dovuta alla definitività di quello che stavamo per fare. Ed entrambi sapevamo che a cena non avremmo avuto fame. Tran arrivò alle otto in punto portando una bottiglia di champagne freddo. Mi chiesi dove fossero i fiori e i cioccolatini, ma non dissi nulla. Tra Jay e Tran era in atto un piccolo corteggiamento, nel quale non dovevo interferire. Anzi, lo trovavo piuttosto tenero. E non vedevo l'ora di guardare Jay uccidere qualcosa che, sia pur superficialmente, gli era stato a cuore. Ben presto versammo lo champagne e portammo in tavola l'assortimento di pollame. Jay e io avevamo preso in considerazione la possibilità di aggiungere un sedativo al cibo di Tran, ma temevamo che se ne accorgesse a causa della sua dimestichezza con la droga. Inoltre Jay supponeva che sarebbe stato più facile far prendere una pillola a Tran semplicemente offrendogliela. Il ragazzo mangiava mentre Jay e io tracannavamo champagne, spilluzzicavamo e lo fissavamo. Un tenero arrosto di controfiletto penzolante in una tana di leopardi non avrebbe potuto essere più ignaro, né apparire più appetitoso. Benché non fossi abituato a vedere nei ragazzi una potenziale fonte alimentare, avevo una conoscenza tutt'altro che superficiale della sindrome da vittima, e Tran era talmente perfetto in quel ruolo che si sarebbe detto lo facesse apposta. Era carino — molto carino — ma di ragazzi bellini ce n'erano tanti. Questo aveva qualcosa in più. Come poteva una sola persona riunire in sé tutti i tipici atteggiamenti da vittima, distillare quella mistura vitale di insicurezza e di noncuranza, secernere ferormoni che con assoluta chiarezza mi supplicavano: «Tagliami, chiavami, fammi sec-
co e usami come vuoi»? Era come se tutti i miei ragazzi del passato fossero stati frullati in un cocktail esotico e pericoloso, che Jay (non senza riluttanza) mi aveva servito con i dovuti accompagnamenti. Finito lo champagne e sparecchiata la tavola, passammo in salotto. Sembrava solo una tappa nel tragitto verso la camera, dettata dal bon ton. Tutti e tre sprizzavamo energia e pulsioni erotiche: le si poteva annusare nell'aria polverosa inspirando abbastanza a fondo. Jay offrì a Tran un cognac. Il ragazzo accettò, e vidi che, nel prendere il bicchiere, le punte delle loro dita si toccarono, e l'indice di Jay si protese sulle nocche di Tran. Il ragazzo lo guardò, poi guardò me e bevette metà del liquore. «Devi sorseggiarlo lentamente», gli dissi. «Non sono ubriaco quanto vorrei.» Jay mi lanciò un'occhiata e alzò le spalle. Forse non sarebbe stato necessario somministrargli dei sedativi. Dopo il secondo cognac, Tran era stravaccato sul tappeto orientale con il capo all'indietro, poggiato sul mio ginocchio. Io mi ero seduto sul divanetto a due posti foderato di satin rosa, Jay era accanto a me. All'improvviso, si protese in avanti e mi piazzò un umido bacio sulla bocca. Le sue labbra sapevano di cognac. Con la coda dell'occhio vidi Tran che ci guardava, i tratti minuti alterati da un sorriso ebbro e sexy. Mentre Jay mi divorava la bocca, Tran si girò e mi passò la mano sulla gamba prima di trafficare con la lampo dei miei calzoni. Quando l'ebbe infine abbassata, io ce l'avevo duro e dolorosamente pulsante. Il ragazzo mi passò la lingua sul glande, scendendo in una lenta spirale sino alle palle, mi afferrò le cosce e lo prese in bocca. Mi sentivo di un bene da impazzire. Ansai contro la bocca di Jay, gli afferrai le spalle, inarcai la schiena. Tran continuava a inghiottirmi, la testa immersa tra le mie gambe. Jay posò la mano sul capo del ragazzo e spinse. Il glande del mio pene superò le sue tonsille e gli finì in gola, che parve pulsare intorno al mio membro inturgidito. Sentii l'orgasmo in arrivo, poi lo avvertii mordermi il collo proprio come avevo fatto io a lui la notte prima. Solo quando mi ebbe travolto, massacrato e risputato mezzo morto, mi resi contro che le mie mani avevano stretto la gola di Tran, soffocandolo, mentre Jay gli aveva spinto la testa sul mio cazzo. Mi abbandonai contro la spalliera del divanetto. Tran si staccò da me. Dalla bocca aperta gli colavano lunghi rivoli di saliva e di sperma. Stava dritto solo perché Jay lo aveva afferrato per i lunghi capelli. Prese una gran
boccata d'aria, e un'altra ancora. Aveva gli occhi stralunati, ma non capivo se fosse ancora cosciente. Jay si alzò, sollevando anche Tran. Il ragazzo ondeggiò ma non cadde. «Avanti», disse Jay. «Portiamolo in camera.» Non appena fu sistemato sul letto, Tran cominciò a farfugliare. Gli sfilai il maglione. La coda di cavallo si sciolse e i capelli si sparsero sulle spalle nude in una lucente cascata nera. Jay abbassò la lampo dei jeans del ragazzo e glieli sfilò lungo le gambe magre. Era nudo sotto, il corpo meravigliosamente liscio, il cazzo semieretto. Jay e io ci guardammo. I suoi occhi mi interrogarono. «È tuo», risposi. Il gelido sguardo di Jay si posò sul ragazzo. Si svestì pian piano, toccandosi ogni tanto quasi volesse assicurarsi di essere fatto di carne. Solo dal lieve tremore delle sue mani si capiva quanto fosse sbronzo. S'inginocchiò accanto a Tran e gli carezzò il ventre piatto con gesto reverenziale, poi si chinò a baciargli un capezzolo. Tran ebbe un lieve movimento, ma non aprì gli occhi. Jay si protese per prendere un oggetto dal cassetto del comodino. Per un istante pensai che fosse un qualche misterioso aggeggio per giochini erotici. Poi vidi che si trattava di un grosso cacciavite. Mise in bocca lo stelo e lo bagnò di saliva. Poi sollevò le gambe di Tran esponendo la tenera fessura tra le natiche setose, e piantò il cacciavite proprio al centro. Nel contempo si chinò e morse il capezzolo sinistro del ragazzo. Il corpo di Tran ebbe un lungo sussulto di dolore. Jay diede una spinta finale al cacciavite, lo rigirò e lo estrasse per tenerlo, gocciolante di sangue e di merda, davanti agli occhi terrorizzati del ragazzo. Con uno scatto, Tran glielo fece cadere di mano. E, prima che Jay potesse reagire, era balzato dal letto e si era lanciato verso la porta. Allungai la mano, gli afferrai una ciocca di capelli svolazzanti e gli sbattei la testa contro lo stipite della porta. Lasciò una strisciata di sangue sulla vernice bianca. Ma la forza del colpo non era stata tale da stenderlo. Rianimato dal terrore, Tran mi sfuggì e corse lungo il corridoio. Quasi lo prendemmo in salotto. Ero un metro dietro di lui, e Jay mi stava alle calcagna. Tran imperversò nella stanza, lanciando contro di noi lampade, vasi e qualsiasi oggetto gli capitasse sottomano. Jay afferrò un fermacarte di vetro e lo scagliò contro Tran. Gli sfiorò la testa, facendogliela inclinare in avanti. Ma il maledetto ragazzo, nonostante tutto, era ancora in piedi. Corse nell'ingresso, aprì la porta e, barcollando, uscì nel giardinetto.
Lo traversò con tre grandi balzi. Batté contro il cancello, che era invalicabile dall'esterno, ma dall'interno si apriva semplicemente premendo un pulsante. Una grave pecca del sistema di sicurezza della casa, come avevo fatto notare a Jay solo due giorni prima. Il cancello si aprì senza far rumore e il nostro Tran schizzò fuori in un baleno, nudo e sanguinante, ma libero. Seguii Jay dentro casa. «Vado a prenderlo», stava dicendo, più a se stesso che a me. «Mi vesto e prendo qualcosa per ungere gli sbirri. Sì, lo riprenderò.» A passi rapidi andò in camera, s'infilò camicia e calzoni, infilò i piedi nudi in un paio di splendidi mocassini italiani di pelle nera, prese il portafogli dal ripiano del comò e diede una controllata all'interno. Come sempre, conteneva una bella mazzetta di banconote. Per ungere gli sbirri. «Be', riportalo indietro vivo», gli dissi mentre usciva. «Non ti preoccupare», mi rispose Jay. «Con lui non abbiamo ancora finito.» 14 Il suo primo pensiero fu che il Quartiere francese non gli era mai parso tanto buio. Qua e là intravedeva confusi rettangoli di luce che potevano essere finestre. Una fila di lucine natalizie un po' premature era intrecciata nella ringhiera di un balcone e lampeggiava rossa e dorata; un'oscillante lampione a gas si stagliava spettrale nella notte deserta. Ma per ogni punto luminoso c'erano dieci impassibili facciate di mattoni, dieci cancelli rugginosi dischiusi nell'oscurità. Ogni nervo, ogni muscolo nel corpo di Tran lanciava messaggi di terrore, e il suo cervello riusciva a stento a ricordarne la ragione. Aveva freddo. Perché era nudo, pensò vagamente, anche se non gli pareva che la cosa avesse molta importanza. Questo era il Quartiere francese: l'ultimo Martedì Grasso aveva girato per quelle stesse strade al fianco di Luke in una tenuta quasi altrettanto adamitica. Si sentiva male, e quello sì che aveva importanza. La testa gli pulsava come un cuore gigantesco, il capezzolo morsicato, sfiorato dall'aria fresca, gli dava un dolore lancinante. Ma tutto questo non era nulla in confronto alla morsa che gli attanagliava le viscere, come se una mano d'acciaio gli avesse afferrato e rigirato l'intestino... Non ricordava esattamente che cosa fosse successo. Aveva pensato che
Jay fosse interessato di nuovo a lui, e questo lo aveva infoiato abbastanza da spingerlo a ubriacarsi e a dimenticare la paura di bruciarsi una seconda volta. Ricordava di aver visto i cugini baciarsi, poi di aver succhiato il cazzo non circonciso di Arthur, incuriosito dalla scivolosità della pelle del prepuzio. E poi più nulla, sino all'atroce dolore nel culo e al capezzolo. D'istinto, era scappato via dal letto e aveva solo un vago ricordo del volto di Arthur, distorto dalla rabbia, mentre gli sbatteva la testa contro lo stipite della porta. Adesso era qui fuori. Non aveva senso. Fece qualche passo prima di piegarsi in due per il dolore. Si appoggiò a un muro in preda a conati, senza però riuscire a vomitare nulla. Sentì un sudore freddo e malsano diffondersi sul volto, lungo la schiena, sotto le palle. Per un momento il dolore alla testa parve offuscare tutto il resto, e Tran lo accolse con gratitudine: era più sopportabile della fiammata di dolore nelle viscere. Poi, all'improvviso, sentì delle mani posarsi sulle sue spalle nude. Jay, Arthur. Tran si ritrasse di scatto, si chinò, cadde sul marciapiede. «Ehi, amico...ehi, che cos'hai...» Alzò gli occhi su un indistinto viso nero. Mani dal palmo chiaro si protesero verso di lui, una lunga sagoma pendente dalle spalle — un fucile? no, l'astuccio di uno strumento musicale. Un musicista di strada che rientrava a casa. Questo tizio doveva conoscere bene le vie del Quartiere e poteva aiutarlo a raggiungere un luogo sicuro. Tran cercò di muoversi, di afferrare la mano del tizio per rimettersi in piedi, ma tutto era talmente pesante, persino la propria mano all'estremità del braccio. Sentì il ronzio di motori in avvicinamento, un rumore di passi. Poi il suonatore venne afferrato alle spalle. «Sbatti il culo contro quel muro...» «Fottuto pervertito d'un negro...» La prima frase venne pronunciata da un grasso poliziotto bianco, la seconda da uno nero e magro. Due scooter assurdamente minuscoli del dipartimento di polizia di New Orleans erano fermi accanto al marciapiedi, ancora in moto. Le loro mani si abbatterono sul suonatore afferrandogli la nuca con tanta forza da lasciare il segno, prendendogli la testa per spingerla contro il muro, per tirargli le braccia sulla schiena, manette in agguato. Tran cercò di dire qualcosa, uno di quei meravigliosi cliché da libro giallo tipo «Ehi, quello è l'uomo sbagliato», ma non riuscì a spiccicar parola. Deglutì cercando di inumidire la gola secca. La sua saliva sapeva di sangue e di sborrata. Alcuni denti erano dondolanti. E, cosa ancor peggiore, era
ubriaco. Non riuscendo a trovare una buona ragione per assistere al resto di quella scena, chiuse gli occhi e invitò l'oblio a scendere in lui. L'oblio accettò l'invito. Quando Jay svoltò l'angolo di Barracks Street, intorno al ragazzo sanguinante sul marciapiede c'era già un capannello di gente. Gli agenti avevano mollato il musicista, il quale si sfregava il collo fissandoli incazzato. Un paio di turisti dell'Alabama, smarritisi in cerca di Bourbon Street, si fermarono a guardare la scena. «Be', qualcuno dovrebbe chiamare un'ambulanza», osservò uno di loro. «Non è necessario», disse Jay avvicinandosi in fretta e mettendosi fra Tran e gli agenti, ma a debita distanza da questi ultimi. «Abita con me. Lo porto a casa.» Jay si inginocchiò accanto a Tran e lo mise seduto contro il muro. Tran aprì gli occhi. Fissò Jay per un lungo momento. Se si mette a gridare, ho chiuso, pensò Jay. Ma gli occhi di Tran, annebbiati dal dolore, non mostrarono di riconoscerlo. Un istante dopo si richiusero. «Abita con lei, eh?» chiese lo sbirro bianco. «E che ci fa in giro nudo come un verme?» Jay sostenne lo sguardo cisposo del poliziotto con granitica onestà. «Temo che abbia bevuto troppo. Non è abituato, e poi abbiamo litigato. È scappato via prima che potessi fermarlo.» «Come si chiama?» «John Lam.» «È lei?» «Lysander Byrne. Abito in Royal Street.» «Faccia vedere un documento.» Jay tese allo sbirro la patente sotto la quale erano state ripiegate due banconote. Alla vista del verde, l'altro agente agitò la mano verso i curiosi con fare imperioso. «Su, adesso andate. Qui non c'è niente da vedere.» «Quel ragazzo è ferito», protestò il suonatore. «Guardate, è solo un ragazzino...» «Ha ventun anni», interruppe Jay. «A me sembra sui quindici», osservò uno dei turisti. «È coperto di sangue», fece notare l'altro. Tutti guardarono Tran. Era vero: benché non facilmente visibili nella semioscurità, molte macchie di sangue chiazzavano la pelle chiara del vol-
to, del petto e delle gambe di Tran. «Signor...» L'agente bianco diede un'occhiata alla patente di Jay. «Signor Byrne? Sa perché perde sangue?» «L'ho visto cadere mentre scappava. Probabilmente ha preso una botta.» L'agente nero si chinò a esaminare Tran più da vicino, poi si raddrizzò e indicò il morso al capezzolo. «Anche quello se l'è fatto da solo?» Jay alzò le spalle. «Sono stato io. Non sono responsabile dei suoi gusti in fatto di sesso, però cerco di adeguarmici.» Gli agenti si scambiarono un'occhiata. Ai poli opposti sotto ogni altro aspetto, i due assunsero identiche espressioni di disgusto. Il bianco restituì la patente a Jay facendola scivolare tra indice e pollice. A quanto sembrava, aveva incamerato i soldi. «Signor Byrne, le suggerisco di riportare il... ehm... suo amico a casa e di tenercelo sino a che non gli passa la sbornia. Se lo ribecco in strada in questo stato, lo arresto.» Jay annuì e sorrise. Un'altra persona avrebbe trovato questa sceneggiata umiliante. Lui invece si godeva la cecità degli sbirri, la loro totale fiducia nella sua esibizione. «Grazie, agente.» «Un momento!» Il suonatore levò la mano verso gli agenti e verso Jay. «Questo ragazzo a me sembra ferito di brutto. Io dico che occorre un'ambulanza.» «Tu dici, negro?» L'agente nero fece due passi verso il suonatore e avvicinò il volto a quello rugoso del vecchio. «Be', io dico di no. E dico anche che fai bene a portare il tuo muso nero lontano di qui mentre sei ancora in tempo.» Il suonatore guardò l'altro agente, il corpo inerte di Tran, e Jay, che ricambiò l'occhiata senza simpatia né rancore. Il vecchio si girò per appellarsi ai due turisti, i quali si erano eclissati in un baleno. Infine si rimise a tracolla l'astuccio e s'incamminò verso Decatur Street, scuotendo il capo, disgustato. «Lo riporto subito a casa», disse Jay. Luke saettò per le vie di Bywater e Marigny, superando casette d'ogni stile, perlopiù vecchie e fatiscenti, ma dipinte di colori vivaci. Qua e là ce n'era qualcuna con porte e finestre chiuse da assi e devastata da graffiti. Ma a mano a mano che si avvicinava al Quartiere francese, le vie assunsero un'aria più «omo-signorile», con bandiere ad arcobaleno e maniche a vento fluttuanti alle finestre, sticker triangolari rosa o con la scritta SILENZIO = MORTE applicati ai paraurti delle auto. In queste case amore-
volmente ristrutturate e arredate con gusto, la gente stava preparando la cena, scopando, vestendosi per andare a fare il giro dei bar, morendo di sarcoma di Kaposi e di polmonite Pneumocystis carinii e di linfoma e di toxoplasmosi e di cento altri incomprensibili orrori che il resto del mondo chiamava semplicemente AIDS. Oppure conviveva con questi orrori. Soren amava sottolineare quella distinzione: Stai morendo di AIDS, Luke, oppure stai convivendo con esso? Luke aveva sempre risposto con qualche battuta sarcastica. Stanotte avrebbe risposto con sincerità, in un modo o nell'altro. Non aveva idea di che cosa intendesse fare. Se fosse riuscito a trovare la casa di Jay, come avrebbe fatto a entrare... suonando il campanello? Ehm, buonasera, signor Byme, scusi se la disturbo a quest'ora, ma dopo tutte le storie tremende che il mio ex deve averle raccontato, sono certo che non vede l'ora di farmi entrare così le potrò tagliare la sua fottuta gola... No. E allora che cos'altro? Effrazione? Che diavolo pensava di fare, comunque? Rimpianse di non aver tenuto il revolver di Johnnie. Rimpianse di non avere una siringa e una vena pronta. Per un momento Luke pensò di lasciar perdere Royal Street per fare un salto in un paio di bar, cercare qualche vecchio conoscente, quel tipo di conoscente che gira nei bar da tossici asciugando le lacrime degli angeli caduti. Aveva del denaro in tasca e poteva procurarsi abbastanza eroina da sballare per giorni, da bloccarsi il cuore. Lascia perdere, gli sussurrò qualcosa dentro di lui. Lascia che Tran vada dove vuole. Lascialo in pace. Sii buono con te stesso. Ma la parte più forte di lui — la parte che da più di un anno imperversava in lui — non glielo permetteva. La roba era troppo facile. Tran era l'amante che gli apparteneva, l'unico al mondo. Luke aveva rinunciato al precario equilibrio che gli dava la WHIV, e ormai non gli importava più di finire il romanzo. Questa era una storia vera, l'unica di cui gli interessasse il finale. Traversò l'Esplanade e arrivò nel Quartiere francese. Questo capo di Royal Street era buio e deserto. L'aria odorava di fumo di legna, un solitario odore autunnale. Camminando, Luke guardò le sommità di tutti i cancelli alla ricerca di ornamenti a forma di ananas. Fu così che si accorse del trambusto in Barracks Street. Gli scooter della polizia fermi accanto al marciapiede, con i lampeggianti davano alla scena un morboso effetto stroboscopico. Due schiene in blu,
una larga e l'altra stretta, sormontate da testine tonde che si ergevano dalle spalle senza l'interruzione del collo. Un uomo alto e biondo, di elegante bellezza, che afferrava il braccio di un ragazzo nudo con il volto coperto da lunghi capelli. Quando il biondo lo fece alzare, la cascata corvina si scostò, e Luke vide che il ragazzo era Tran. Il che voleva dire che il biondo era Jay. Ebbe una stretta al cuore. Il dolore gli trivellò il petto per scendere al ventre. Non mangiava da due giorni, ed era quindi probabile che l'intestino non lo tradisse in quel momento, ma avvertì lo stesso i crampi beri noti. Già prima non aveva idea di che cosa avrebbe fatto; e che cosa diavolo avrebbe fatto adesso? Gli agenti stavano avviandosi verso gli scooter. Lasciavano che Jay si prendesse Tran. Questo gli si impresse nella mente con maggiore chiarezza delle macchie di sangue sul corpo di Tran, con maggior impatto della vista di Tran nudo e inerme in mezzo alla strada: lasciavano che Jay si prendesse Tran. E Jay non poteva prenderselo. Luke si appoggiò a un muro per raccogliere le forze. Era sveglio dall'alba; aveva visto un amico farsi saltare il cervello e aveva vigorosamente scopato con un altro; aveva percorso tre chilometri a piedi in preda a un'incazzatura tremenda; aveva saltato tre dosi di varie medicine. Era stanco. Lo sarebbe stato chiunque. Tuttavia, si staccò dal muro e si avviò con la massima velocità possibile verso Barracks. Jay vide Luke e lo riconobbe all'istante. Non lo aveva mai visto prima, ma il giubbotto di pelle e gli stivali scalcagnati, l'andatura arrogante, il viso orrido-bello non gli lasciavano dubbi circa la sua identità. «Luke tiene sempre un rasoio nello stivale», gli aveva detto Tran. «Dopo che si è ammalato, ha detto che se qualcuno gli avesse rotto le palle, lui si sarebbe tagliato i polsi per schizzargli sangue negli occhi...» Jay non aveva paura di qualche goccia di sangue. Né temeva i rasoi. Ma se Luke si fosse ripreso Tran? Andrew sarebbe stato deluso, magari anche arrabbiato. Arrabbiato abbastanza da andarsene. E Tran si sarebbe ricordato di quello che aveva subito, e forse le sue ferite richiedevano cure mediche. I dottori avrebbero fatto delle domande, parlato alla polizia, e quei due agenti si sarebbero ricordati di lui e avrebbero scoperto che aveva mentito... Mentalmente, calcolò quanto gli restava nel portafogli. Aveva dato agli agenti cinquanta dollari a cranio. Altri cinquanta li avrebbero resi sordi a
quanto Luke avrebbe potuto dire? Jay pensava di sì, ma non ne era certo. Meglio salire a cento ciascuno. Posò la mano sulla tasca posteriore dei calzoni senza estrarre il portafogli, ma solo indicando agli sbirri che avrebbe potuto farlo. «Conosco quel ragazzo», disse Luke. Era senza fiato e aveva uno sguardo da invasato. «Che cosa gli hai fatto? Che cos'ha? Tran?» Fece un passo avanti allungando la mano verso il ragazzo. L'agente bianco tese un braccio prosciuttoso e lo bloccò. «Conosce questo tizio?» chiese l'agente nero a Jay. «Non lo conosco ma ho sentito parlare di lui. Lui e John sono... ehm», Jay tossicchiò coprendosi la bocca con la mano libera, «...acqua passata.» I due agenti si scambiarono un'altra occhiata schifata. Di' loro qualcosa che non vogliono sentire, pensò Jay, e non ti ascoltano più con la debita attenzione. «Non si chiama John!» gridò Luke. «È Vincent Tran! Cazzo, lo conosco!» «Ah si?» chiese l'agente bianco. «E come mai lui non si comporta come se la conoscesse?» «Ma non vede che sta male? Tran, sono Luke, piccolo, su, Tran, guardami...» Jay aveva sorretto il peso di Tran con un solo braccio, ma adesso gli cinse il petto anche con l'altro, con l'atteggiamento del nuovo compagno protettivo che affrontava un ex amante impazzito. «Sta bene, Luke. Mi occupo io di lui. Perché non cerchi di darti una calmata?» Vide un lampo assassino negli occhi di Luke. Quest'uomo non era da sottovalutare. In lui c'era una follia evidente e rampante. Jay si girò verso gli agenti e tirò fuori il portafogli. «Volete controllare i documenti?» «Abbiamo g...» Le parole si spensero sulla bocca dell'agente bianco. «D'accordo. Mi faccia vedere la patente.» Benché la destrezza manuale non fosse il suo forte, Jay cercò di ripiegare i due biglietti da cento sotto la patente con un minimo di discrezione. A Luke, naturalmente, la mossa non sfuggì. «Luridi bastardi corrotti. Per altri cento, lecchereste il culo di questo pedofilo.» Cercò di spingerli da parte allungando le mani verso Tran. Gli agenti si mossero simultaneamente, rapidi come serpenti, e bloccarono Luke rigirandogli le braccia sulla schiena e spingendolo contro il muro. Doveva far male, ma la sua espressione furibonda non mutò e il suo sguardo non si staccò da Jay. Il poliziotto bianco si chinò per parlare all'orecchio di Luke, pur non ab-
bassando la voce. «Hai altre stronzate da dire, coglione? Se è così, ti farai un giretto in macchina con qualche nostro collega. Adesso noi accompagnamo a casa questi signori, e tu fai dietro front, e vai nella direzione opposta. Capito?» Luke non disse nulla. Lo sbirro nero gli diede una strattonata ai polsi. «Capito?» «No, non ho capito.» Luke premette il viso contro il muro. Era sull'orlo dei singhiozzi. «Non capisco come possiate trovare un ragazzino nudo e sanguinante per la strada e riconsegnarlo al tizio che probabilmente lo ha conciato così. Non capisco come possiate prendere una bustarella da quello stronzo senza curarvi dell'incolumità di un ragazzino. Non capisco neppure che cosa ci faccia con Jay invece di essere con me.» L'agente bianco diede una ginocchiata alla schiena di Luke. «Culattone, se dici un'altra parola...» «È solo sconvolto», disse Jay. «La prego, lo lasci andare.» Gli agenti, memori della provenienza dei verdoni, mollarono le braccia di Luke e si scostarono. Luke rimase contro il muro, il volto premuto sui mattoni freddi. Jay voleva riportare Tran in casa prima che il ragazzo uscisse dall'intontimento. «Andiamo?» chiese. Gli agenti salirono sugli scooter e si avviarono con tale lentezza che, pur sorreggendo Tran, Jay riuscì a procedere qualche passo davanti a loro. Mentre questo strano corteo svoltava l'angolo di Royal Street, Jay si guardò alle spalle. Luke era appiattito contro il muro, e si era afferrato alle fessure tra i mattoni. Aveva le spalle sussultanti. Jay sentì persino i suoi singhiozzi. Provò quasi compassione per quell'uomo. Tran si svegliò in un mondo di piacere e di dolore. L'ultima cosa che ricordava era di essersi ritrovato in strada, nudo e infreddolito. Lo tormentava una nebulosa immagine del volto di Luke. L'aveva davvero visto? Era convinto di sì, ma tutta la scena sembrava così irreale, un incubo lontano che venne ben presto eclissato da quello attuale. Era legato alle caviglie e ai polsi, e una cinghia gli assicurava il petto. I lacci davano la sensazione di essere di cuoio lubrificato. La superficie sotto di lui era di metallo, liscia e fredda. A ogni respiro sentiva i polmoni riempirsi di un tanfo atroce, qualcosa di rancido e dolciastro, molto peggio delle interiora di pesce che marcivano dietro un negozio di alimentari di
Versailles. Aveva uno spaventoso mal di testa. I tubi al neon sul soffitto gli bucavano gli occhi. Aveva il pene in erezione, infilato nella gola di Arthur, così come prima quello di Arthur era stato nella sua. Jay lo fissava in volto, i capelli biondi ricadenti in ciocche sudaticce. Tran cercò di parlare, ma aveva le labbra aride e gonfie. Jay gli offrì un sorso d'acqua da una tazza presa nelle vicinanze. Quando levò il capo per bere, Tran sentì il cervello pulsare, quasi gli stesse scoppiando. L'acqua scivolò nella gola, piacevolmente fredda. Quando arrivò nello stomaco, scatenò un'esplosione di dolore. Tran bevve un altro sorso e riuscì a parlare in un roco sussurro. «Jay... che cosa fai?» «Ti sto uccidendo.» L'ombra di un sorriso sfiorò le labbra di Jay ma non arrivò agli occhi. «Perché?» «Perché è quello che facciamo. E perché tu sei molto bello.» «L'hai sempre fatto?» «Sin da quando ero più giovane di te.» «Quan... quan...» «Quanti? Ho perso il conto. Come lo faccio? In molti modi. Hai delle richieste particolari?» Sfiorò la guancia di Tran con il dito ossuto, e il ragazzo capì che diceva sul serio. «Non voglio morire.» Arthur smise di succhiargli il cazzo, alzò il capo e lo guardò negli occhi. «Stai mentendo.» «Urlerò.» «Lo sappiamo.» Jay posò delicatamente la punta delle dita sulle tempie di Tran e si chinò a baciarlo sulla fronte. «Quando farai troppo rumore, ti imbavaglieremo.» Un'ondata di terrore percorse il ragazzo, minacciando di travolgerlo nei suoi abissi. Quei due non scherzavano. Avevano intenzione di farlo a brandelli da vivo, e lui era intrappolato. Non c'era scampo. L'unica volta che aveva provato qualcosa di remotamente simile a questo era stata quando Luke era risultato sieropositivo. Era stata la prima volta in cui aveva davvero creduto che sarebbe morto. Adesso capiva che non temeva tanto la morte quanto il dolore che la precedeva. Un filo di vomito gli salì alla gola, caldo e amaro. Jay si accorse che stava soffocando e gli girò la testa di lato. Il vomito gocciolò sul tavolo da un angolo della bocca. Jay lo ripulì con un panno umido, poi ne prese un altro per tergere il sudore dal volto di Tran.
Quel gesto non diede alcun sollievo al ragazzo. Con il capo girato, riusciva a vedere gli scaffali lungo la parete di fondo, e il relativo contenuto. Benché gli oggetti fossero distorti dalla prospettiva e dalla paura, riuscì a individuare ossa, fiori e candele, vasi contenenti strani oggetti fluttuanti. Si concentrò su un singolo vaso e riuscì a stento ad afferrare il significato di ciò che vide: occhi in un liquido sanguinolento, una ventina di paia, grandi e velati come uova sode marinate. Capì che cos'era quell'odore spaventoso. In quel momento seppe che sarebbe morto, qui e subito, anche se non accettava l'idea, come invece avrebbe fatto in seguito. Jay lasciò andare la testa di Tran e si spostò al fondo del tavolo, accanto ad Arthur. Rimasero lì qualche istante, fissando il ragazzo. Tran li guardò con qualcosa di simile a un timore reverenziale. Dopotutto, questi due erano il suo destino. Luke aveva cercato di arrogarsi quel ruolo, senza però riuscirci. Jay e Arthur lo avevano assunto con la forza, solo perché così avevano deciso. Al di là del suo terrore, questa era una cosa che gli piaceva. Ma il male sarebbe stato spaventoso. Tran sapeva che probabilmente non poteva neppure concepire, per il momento, il dolore che gli avrebbero inflitto prima della morte. Non aveva alcun punto di riferimento: sino ad allora il male peggiore era stato quello provocatogli da una frattura alla caviglia nella palestra del liceo, gentilmente offertagli da un burinazzo bianco che amava chiamarlo «comunista giallo». Il pensiero della scuola gli ricordò la famiglia. Immaginò come si sarebbe sentito il padre venendo a sapere della sua fine: in colpa e afflitto, certo, ma anche rinsaldato nelle sue convinzioni. Era il genere di morte che suo padre prevedeva per lui, una morte dolorosa, orrida... ma, per la famiglia, molto più rapida della lenta distruzione dell'AIDS. Magari suo padre avrebbe visto l'intervento di Jay e Arthur come un tocco di misericordia divina, il braccio biforcuto di Dio che cala la scimitarra per tagliare un ramo degenere. Tran si chiese se fosse pazzo a contemplare simili pensieri, si augurò di essere pazzo, cercò di diventarlo senza riuscirci. Calde lacrime colarono dai suoi occhi per finire tra i capelli. Non si era mai sentito così impotente. Cercò di tendersi contro i lacci, che cedettero solo di un centimetro. Jay Byrne sapeva come legare un ragazzo in modo che non potesse sfuggirgli. Jay, dopotutto, era all'altezza della sua reputazione, e forse anche qualche spanna più in alto. Tran non era veramente sorpreso. Ma d'altra parte non l'avrebbe sorpreso venire a sapere che anche Luke aveva ucciso qualcuno. Adesso Jay si stava dirigendo verso una scaffalatura all'altro capo della
stanza, una robusta struttura di metallo munita di ganci, morsetti e scomparti per utensili. Tran vide un trapano elettrico, un punteruolo, un martello, svariati cacciavite, una sega a mano, pinze, strumenti chirurgici, un assortimento di coltelli. La luce cruda faceva brillare gli oggetti di inox come diamanti. Mentre Jay sceglieva alcuni strumenti, Arthur diede una rassicurante strizzata di mano a Tran. Jay tornò con gli strumenti e li posò da qualche parte, fuori del campo visivo di Tran. Nella mano destra teneva solo una pinza emostatica, cori una minuta seghettatura, grande abbastanza da chiudere un'arteria. Prese il capezzolo intatto di Tran tra indice e pollice e lo rigirò delicatamente. Perfino in quel momento Tran non poté impedirsi di rispondere al tocco di Jay. Gli venne la pelle d'oca e il capezzolo si inturgidì. Jay sollevò la punta e la strinse nella pinza. Il nuovo dolore fu immediato, intenso, schiacciante. Gli tolse il fiato. Non poteva sopportarlo. Ma non aveva scelta. E il peggio doveva ancora venire. Mentre formulava questo pensiero, Jay gli applicò una seconda pinza al capezzolo sinistro, quello che era stato quasi staccato con un morso. Tran ritrovò il fiato e lanciò un urlo, un suono disperato che echeggiò tra le lunghe pareti basse. «Meglio imbavagliarlo», disse Arthur. «Può solo peggiorare.» «Hai ragione.» Jay gli cacciò qualcosa di rotondo e liscio in bocca, gli scostò i capelli e gli legò qualcosa dietro la testa. Tran sentì un sapore di gomma, sentì la lingua ricacciata in gola e per poco non ebbe un conato. Si chiese se sarebbe soffocato, e si rese conto che quella sarebbe stata una benedizione. Ma non soffocò: non ebbe la fortuna di asfissiare o precipitare in uno stato catatonico. Rimase straziantemente cosciente di tutto. Arthur lo afferrò ai fianchi e con il cazzo in erezione perlustrò la fessura tra le natiche. «Jay, ti spiace se...» «Vuoi incularlo? Certo, fa' pure.» «Non è che interferisca con quello che vuoi fare tu?» Jay ridacchiò. «Il tuo cazzo non è poi così lungo.» «Oh, come siamo spiritosi!» Il volto ridente di Arthur aleggiò su di lui, gli occhi azzurri lampeggianti. Arthur lo lubrificò e gli allargò le chiappe. Poi s'infilò nel retto già lacerato, un mondo tutto nuovo di piacere/dolore, diverso da tutto quello che Tran aveva mai immaginato: bruciante, delirante, vomitevole, lacerante. Mentre Arthur lo scopava, Tran si accorse che Jay stava slacciando la cinghia che gli teneva fermo il torace, consentendogli così di respirare un
po' meglio. Inspirò con il naso e girò la testa a destra e a sinistra. In quel crescendo di dolore forse i picchi di intensità erano infiniti. Jay fece scivolare le dita lungo il petto di Tran, delineando le costole. Gli posò la mano sul ventre e lo palpò con delicatezza, come se controllasse lo stato di maturazione di un frutto. Tran sentì i propri organi stringersi e contorcersi sotto il palmo di Jay. Quando vide lo strumento che Jay intendeva usare, chiuse gli occhi. Sentì il coltello penetrare alla base del collo. Poi la lunga lama gli incise la carne, una gelida sensazione rabbrividente simile al dolore di un taglietto da carta alla millesima potenza. In quel momento, Arthur penetrò più a fondo e venne. Lo sperma era bruciante come candeggina e sale sulle lacerazioni interne. Tran sollevò il capo. Jay aveva praticato una lunga incisione superficiale dalla clavicola al pube, staccando la pelle. Tran riuscì a vedere gli strati adiposi e i muscoli sottostanti. Arthur si raddrizzò, il pene e le cosce striate di sangue, e i peli pubici incatramati. Jay reinserì il coltello nell'incisione e la testa di Tran ricadde all'indietro. La fredda lama frugò dentro di lui, tagliò qualche membrana più resistente con un atroce scricchiolio e affondò nei morbidi tessuti vitali. Tran sentì il gocciolio del sangue sul tavolo, e la tiepida pozza che si formava sotto la schiena e le natiche. Il sangue gli riempì la gola, zampillò oltre il bavaglio e stillò agli angoli della bocca. Jay gli tolse il bavaglio. Con esso fuoriuscì un fiotto di vomito e sangue. Tran, in preda ai conati, cercò di gridare. Era l'urlo di chi cerca di fare un gargarismo con acqua bollente. Jay posò il coltello, si chinò, gli prese la testa fra le mani, gli leccò la bocca, il collo, i capezzoli, i lembi dell'incisione. Tran si sentì scivolare in una misericordiosa oscurità, che infine gli stava offuscando il cervello. Venne riportato alla coscienza dal calor bianco del morso di Jay sul ventre. Un morso che andava oltre la pelle e i muscoli per affondare nelle viscere e strappargli qualcosa. Il dolore fu un cavo di lunghezza infinita che vibrava a una velocità inimmaginabile. Fauci avide che attanagliavano tubi scivolosi. Puzzolenti acidi dello stomaco. Carne penzolante e grondante dalla bocca di Jay. Labbra che si congiungono, scure di sangue, mascelle che masticano carne tigliosa in sincronia. Mangiano la sua carne, morta. Tran li intravide attraverso un velo rossastro. Il dolore cominciò a placarsi, per trasformarsi in uno stato sognante, gelido, remoto. Il pensiero che tutto stesse per finire fu come il tocco confortante di un amante. Tran
chiuse gli occhi per mai più riaprirli. Dopo un po', il muro cominciò a grattargli il volto, ma Luke non se la sentiva ancora di scostarsi. La corrotta malafede degli agenti, l'indifferenza di Tran e il controllo che Jay aveva esercitato sulla situazione lo avevano paralizzato. Infine si sentì in condizione di staccarsi dal muro senza crollare a terra. Si tolse i frammenti di mattone dalle guance umide, ma non poté cancellare l'ultima immagine di Tran, con il volto insanguinato e disorientato, gli occhi spenti e smarriti. Tran lo aveva guardato senza riconoscerlo. Com'era possibile? Da quanto gli risultava, Tran aveva paura di lui. Qualcosa non quadrava. Chissà che cosa gli aveva fatto Jay per ridurlo in quello stato. Forse Jay amava il gioco pesante. Tran non era mai stato contrario a un pizzico di violenza. Ma forse questa volta avevano esagerato. Luke sapeva due cose: avrebbe trovato la casa di Jay e, in qualche modo, avrebbe ripescato Tran, se non altro per sapere se stava bene. Ma non poteva ancora andare da Jay. Se quello aveva dato una bustarella abbastanza consistente, era possibile che gli agenti stessero ancora nei pressi della casa per assicurarsi che non arrivasse Luke. E se lo avessero beccato, non ci avrebbero messo niente ad arrestarlo. S'incamminò nella direzione opposta sino a che non vide l'insegna al neon di un bar. Era un locale piuttosto buio e sordido, popolato da androgini ingrigiti, e alcune creature vistose che potevano essere battoni o checcone travestite non proprio di prima scelta. Lì dentro il volto escoriato e rigato di lacrime di Luke non suscitò alcun commento. Ordinò un whisky doppio. La marca servita nel locale era uno sgorgalavandini. Ma era il tipo di superalcolico cui era abituato, e gli andò giù bene nello stomaco vuoto, entrando subito in circolo. Ripulendosi nella toilette, si accorse di avere gli occhi arrossati e le gengive grigio-rosate. Soren doveva essere stato proprio affamato di sesso per andare con lui. Era pazzo a pensare che Tran potesse rimettersi con lui? Probabilmente sì, ma adesso non aveva più importanza. Ora doveva fare i conti con Jay per aver fatto del male a Tran, per averlo umiliato di fronte al ragazzo, per esserselo trascinato via nudo, tra le sue braccia. Luke uscì dal bar e ritornò verso l'imbocco di Royal Street, controllando le rifiniture di ogni cancello. Quando vide gli ananas di ferro battuto, traversò la strada e si appiattì contro un portoncino per dare un'occhiata alla
casa. Costruita su un terreno rettangolare, fiancheggiata da edifici a tre piani, era in gran parte nascosta dietro un muro di mattoni sormontato da punte di ferro e spirali di filo tagliente. Attraverso le sbarre del cancello si vedeva un angolo della casa, una costruzione vagamente neoclassica in pietra intonacata di bianco, con il porticato ad archi, tipo mausoleo. Il vialetto che si snodava parallelo alla casa e portava . sul retro era un rettangolo nero illuminato solo da due lampade a gas. Dietro queste fiamme guizzanti non si riusciva a vedere niente. Luke si avvicinò guardingo alle sbarre e spiò all'interno. Il praticello era invaso da felci, rampicanti aggrovigliati e una grande quercia. Alcuni rami pendevano tentatori verso il marciapiede, a portata di mano. Ma non era possibile entrare dal lato della strada. Luke aveva già notato la videocamera sopra il muretto. I fianchi apparivano altrettanto impenetrabili: anche se fosse riuscito a salire su uno degli edifici circostanti, il salto nel giardino di Jay l'avrebbe ucciso. Si afferrò con le mani alle sbarre e fissò il giardino buio. Gli era difficile andarsene sapendo che Tran era lì dentro. Infine si staccò dal cancello, svoltò intorno all'isolato per raggiungere Bourbon Street, una parallela di Royal. Lungi dall'essere una volgare attrazione turistica, questa parte di Bourbon era fiancheggiata dalle case ben tenute di gay sui quarantacinquant'anni. Luke trovò quel che cercava proprio nella villetta dietro la casa di Jay. Data la fitta struttura architettonica del Quartiere francese, era possibile che tra le due proprietà vi fossero altri due o tre piccoli edifici. Ma, con un po' di fortuna, le due case sarebbero potute essere confinanti sul retro. La villa di Bourbon Street era grande e bianca, e a fianco c'era una viuzza che portava sul cortile nel retro. Il cancello che immetteva nel vicoletto era alto due metri e mezzo, fatto di aste di ferro battuto a distanza di una spanna l'una dall'altra, e sormontato da punte ritorte che non sembravano molto temibili. Magari sarebbe riuscito a scavalcarlo. Magari, se non avevano un sensore che individuava i movimenti, o un cane, o... I possibili ostacoli erano un milione. Luke doveva dimenticarli tutti. Si accinse a scalare il cancello. Si tolse il giubbotto di pelle e lo lanciò, cercando di farlo impigliare sulle punte di ferro. Dovette provare diverse volte, fermandosi al passaggio delle auto. Infine il giubbotto s'impigliò e resse. Luke lo tirò appendendosi alle maniche.
Si issò con la massima rapidità possibile, afferrandosi alle sbarre, scavalcando la sommità e proteggendosi le mani e l'inguine con il giubbotto. Quando fu dall'altra parte, si attaccò a una sbarra e, con la mano libera, disincagliò il giubbotto. Poi si lasciò cadere nel vialetto in attesa che laceranti zanne canine gli addentassero il culo. Niente. Nessun cane, nessun segno di antifurto. Sgusciò lungo il vialetto e si fermò nel cortile acciottolato. Era fiocamente illuminato solo dalle luci alla base di una fontana gorgogliante. Non c'erano altri edifici nello spazio tra le due proprietà. Luke si avvicinò al muro sul retro. Era alto circa tre metri, fatto di scivoloso cemento e sormontato da punte e da filo tagliente. Sarebbe stato più difficile da scalare del cancello. Tuttavia doveva farlo, e senza indugi. Luke chiuse gli occhi, levò una preghiera a chiunque fosse in ascolto, corse verso il muro e lanciò il giubbotto più in alto che poteva. Per un terribile momento si sentì cadere all'indietro e si aspettò di spezzarsi la schiena sull'acciottolato. Invece il giubbotto s'impigliò anche questa volta. Luke per poco non lasciò andare la manica. Appellandosi solo alla forza di volontà, si issò in cima al muro. Per qualche istante rimase lì, ansante e sfinito, sull'orlo dello svenimento. La notte vorticava con disegni psichedelici. Luke si chiese se il cuore lo avrebbe tradito proprio in quel momento. No, accidenti no. S'impose di muovere la testa e guardarsi intorno. Poche spanne sotto di lui c'era un tetto inclinato, una specie di baracca o di alloggio degli schiavi. In lontananza, tra le fronde e l'oscurità, s'intravedeva appena la sagoma spettrale della casa di Jay. Le punte cominciavano a penetrare attraverso la pelle del giubbotto. Ben presto avrebbero bucato anche lui. Con un ultimo sforzo convulso, scavalcò il muro, disincagliò il giubbotto e si lasciò cadere sul tetto. Si riposò con la guancia posata sulle fredde tegole di pietra. Poi udì un tenue rumore provenire dall'interno dell'edificio. Un grido basso, gorgogliante, disperato. Come se qualcuno stesse cercando di fare gargarismi con acqua bollente. Riconobbe la voce. Strisciò sino al bordo del tetto e saltò nel cortile. Statue muffose parvero balzargli addosso mentre il giardino s'illuminava. Cazzo! I sensori! Il rumore tornò a levarsi, ancora più fievole. Luke si fasciò testa e spalle nel giubbotto e si scaraventò contro una delle finestre verniciate di nero. Sentì vetro e vecchio legno spezzarsi, e quand'ebbe scalciato via l'intelaia-
tura, scavalcato il davanzale e scostato il giubbotto si trovò di fronte a una scena impossibile. Jay Byrne e uno sconosciuto dai capelli scuri, i corpi nudi e chiari imbrattati da più sangue di quanto Luke immaginava potesse scorrere nelle vene dell'esile corpo di Tran. Eppure, eccolo lì, su un tavolo operatorio, il corpo sventrato da un'enorme ferita stillante, il capo arrovesciato all'indietro in un'agonia da martire, le membra agitate dagli spasmi della morte. Il ripiano del tavolo e il pavimento sottostante erano laghi di sangue. Quando Luke sfondò la finestra, Jay levò il capo. Dalla bocca aperta gli pendevano lunghe strisce di carne rossa e lucente, gocciolanti sul mento. Anche lo sconosciuto stava masticando qualcosa. Luke vide tutto questo nella frazione di secondo che gli ci volle per riprendere l'equilibrio e infilare le dita nello stivale destro. Si lanciò contro Jay aprendo la V argentea del rasoio. Lo sconosciuto venne verso di lui. Jay si rifugiò dietro il tavolo. Luke strinse il rasoio tra i denti, ancorò le dita sotto il ripiano e lo sollevò con tutte le sue forze. Le rotelle del tavolo slittarono di lato. Appesantito dal peso di Tran, il tavolo cominciò a inclinarsi. Jay cercò di fuggire, ma la pesante lastra di metallo e il corpo a essa legato gli caddero sulla caviglia, inchiodandolo. Luke si buttò oltre il tavolo. Adesso stringeva il rasoio in mano. Fu addosso a Jay come un amante. Jay gli artigliò gli occhi. Luke scostò il capo, afferrò il dito dell'altro tra i denti e morse con forza. Jay sottrasse la mano, ma non prima che Luke avesse assaggiato il sangue di Tran su quelle dita ossute. Con l'avambraccio sinistro spinse indietro la testa di Jay, il quale, soffocando, sputò frammenti di carne semimasticata. Un pezzo finì sul labbro superiore di Luke che, senza pensarci, lo cacciò in bocca con la lingua. Jay gli sorrise, gli occhi divorati dalla follia. In quel sorriso c'era una sorta di mostruosa intimità. «Io non ti conosco», singhiozzò Luke infilando la lama dietro l'orecchio sinistro di Jay per farla scendere lungo il percorso della giugulare. Sulla scia del rasoio apparve una sottile riga rossa. Non ho tagliato abbastanza a fondo, pensò assurdamente Luke. Ho fatto fiasco e adesso, da un momento all'altro, il suo amico mi spacca la testa con un'ascia. Poi la riga si allargò e un caldo geyser di sangue sprizzò sul volto di Luke, facendogli bruciare gli occhi e accecandolo.
15 Così, in quello che doveva essere il massimo momento di comunione, Jay e io venimmo separati per sempre. Non ci fu neanche il tempo per un formale addio; arrivai al suo fianco quando la vita era ormai defluita dal suo corpo. Ebbe un grande sussulto e gli occhi cominciarono ad annebbiarsi. Rimasi a cullare il più inutile e straziante dei rimpianti: se il mio amante doveva morire, perché non poter essere io a ucciderlo? Luke si era scostato quando il sangue di Jay gli aveva spruzzato il volto. (Naturalmente, in quel momento non sapevo che si chiamasse Luke: lo appresi solo in seguito.) Per molto tempo non riuscii a staccare gli occhi da Jay. Temevo di perdere qualcosa, un qualche messaggio subliminale lanciatomi dagli occhi, dai nervi e dalla pelle di Jay durante il trapasso. Luke avrebbe potuto facilmente assalirmi e colpirmi con il rasoio, visto che mi rendevo appena conto di un'altra presenza viva in quel locale. Jay non aveva alcun messaggio per me, al di fuori del ghigno folle incollato sul viso, e lo squisito pallore marmoreo provocato dalla rapida perdita di sangue. Lo presi tra le braccia e lo strinsi a me. La sua testa ricadde all'indietro; i lembi della grande ferita alla gola si aprirono; le punte dei suoi capelli strisciarono su una pozza del suo stesso sangue. A quanto sembrava, non potevo far altro per lui, né potevo imparare altro da lui. Piano piano avvertii l'altra presenza nella stanza: il suo odore vivo e respirante, la rabbia profonda e costante che lo percorreva come una corrente elettrica. Mi girai verso di lui. Era accovacciato contro il muro, le braccia intorno alle ginocchia, gli occhi infossati fissi su di me. «Sei Andrew Compton», disse. Di tutto mi ero aspettato, tranne quello. «Come fai a saperlo?» «Perché ho visto una tua foto sul giornale, cretino. Non riesco a credere che il Weekly World News ne abbia detta una giusta.» Riflettei su questa frase. Senza dubbio la mia foto era apparsa in molti giornali, ma nessuno aveva mai dato la minima prova di riconoscermi da quando avevo lasciato l'obitorio. Come ricorderete, in precedenza ho affermato che gli assassini hanno la fortuna di avere facce malleabili. Tuttavia c'è sempre quella persona su un milione capace di riconoscermi, non per i miei lineamenti, ma perché legge nei miei occhi un'affinità predatoria. Non dubito che Jay l'avesse intuita quella sera all'Hand of Glory, anche se sul momento non ne aveva capito il significato. Adesso anche questo intruso l'aveva vista.
Mi chiesi se sarei arrivato a ucciderlo. «Uccidimi, Andrew. Ti ho riconosciuto. Ti posso denunciare.» Capii che non sarebbe stato necessario ammazzarlo. Quest'uomo non si sarebbe mai rivolto alla polizia. Voleva perire di una morte rapida e violenta, non essere trattenuto in una cella, coinvolto in un sordido omicidio, costretto ad attaccarsi al misero filo che lo legava alla vita. E comunque stava morendo. Lo si capiva dal suo pallore, dagli occhi infossati e brucianti. Ma lentamente, fibra dopo fibra, entrando in una notte che non si prospettava buona per lui. Ricordandomi che la separazione era solo temporanea, deposi il corpo di Jay. Rimasi in piedi accanto a Luke e gli sorrisi. Benché fossi nudo e lui fosse vestito, benché lui fosse armato e io non avessi che me stesso, sentii le fondamenta del suo mondo tremare quando capì di essere in presenza di una creatura peggiore di lui. Camminai davanti a lui, sempre sorridendo. Raccolsi il coltello che avevamo usato per incidere Tran, passai il pollice sulla lama e gli cacciai sotto il naso la ferita sanguinante. Rimase immobile, e allora capii di che cosa stava morendo. «Hai paura di morire?» gli chiesi. «Tu no?» «Certo. L'ho fatto ed è terrificante.» Mi fissò con occhi iniettati di sangue e odio. «Tuttavia» (misi in mostra i denti in quello che speravo fosse un sorriso accattivante) «ci si può anche prendere gusto.» Il suo sussurro mi rattristò, tanto era fuori luogo: «'Fanculo». Sarà anche stato un fratello predatore, ma, a differenza di Jay, era un tipo puerile. Non voleva imparare niente da me, e sospettavo che avesse ben poco da insegnarmi. Gli offrii il coltello. Gli indicai l'assortimento di strumenti sulla scaffalatura. Lo invitai a entrare nel freezer e a chiudere il coperchio su di sé, promettendogli che non lo avrei aperto. Di fronte a questa consolante proposta, si limitò a rabbrividire e a coprirsi il viso con le mani. Mi stancai di stuzzicarlo e lo lasciai al suo dolore. Sulla pelle di Jay il sangue era diventato appiccicoso. Mi chinai di nuovo su di lui, gli leccai la spalla e risalii lungo la gola ai bordi della ferita mortale. Vi infilai la lingua e conobbi un sapore che non avevo mai gustato prima. E allo stesso tempo era come tornare a casa. Decisi che Luke poteva anche impiccarsi; anzi, magari lo avrebbe fatto
davvero, anche se speravo di no, perché mi piaceva l'idea della sua lunga sofferenza. Presi Jay in braccio. Sembrava molto leggero, come se avesse perso qualcosa di più sostanziale dello spirito. Lo portai attraverso il giardino illuminato e oltre la soglia di casa. Lo immersi nella vasca, gli ripulii il sangue dai capelli e dalla pelle bianchissima, lo asciugai e lo deposi delicatamente sul letto. E mi scatenai su di lui, su questo nuovo Jay che non poteva opporre resistenza, che non protestò quando praticai nuovi fori in lui, che non se la prese quando inghiottii uno dei suoi testicoli come se fosse un'ostrica cruda e salmastra. Ma fu tutto molto bello, meglio di quanto mai fosse stato con i miei ragazzi. Tagliai una striscia di carne dal fianco destro, rimuovendo accuratamente la pelle. Ebbi un sussulto di dolore nel tagliarlo così a fondo, ora che non stavo facendo l'amore con lui, ma quel pezzo di carne era essenziale per entrambi. Lo feci saltare in padella con un po' di burro, lo misi tra due fette di pane e lo incartai per il viaggio. Prima di lasciare la casa, volli darmi un'occhiata allo specchio. Avevo un corpo forte e sottile e un colorito sano. Mi sentivo diverso, adesso che ero stato riconosciuto, come se mi restasse qualcos'altro da fare. Ma con quel luogo mi pareva di aver chiuso. Quando riportai Jay nell'alloggio degli schiavi, Luke era sparito. Deposi Jay accanto a Tran e gli misi le braccia attorno al corpo dilaniato e puzzolente del ragazzo. Poi mi sedetti a lungo accanto a loro, incapace di congedarmi. Infine, quando sentii i crampi alle gambe, mi alzai e tornai in casa. Indossai uno dei maglioni di Jay e i calzoni che avevo comprato a Soho il giorno della festa di Guy Fawkes. Sulla strada, fermai un taxi e procedetti a passo d'uomo dietro una carrozzella tirata da un mulo, anonimo come qualsiasi turista, tornando al punto da cui ero partito. Al mio arrivo con un pullman della Greyhound, avevo notato che in quel terminal c'era anche la stazione ferroviaria. Lì potevi comprare biglietti per luoghi i cui nomi bastavano a evocare magici viaggi: Southern Crescent, Sunset Limited, City of New Orleans. Pagando con i contanti di Jay, prenotai uno scompartimento con cuccetta su un treno diretto verso il deserto americano, una terra che immaginavo arida e spietata come il mio cuore. Mancavano ore alla partenza. Le passai guardando la porta della sala d'aspetto, protetto dal mio anonimato, per nulla intimorito dal raro passaggio di qualche poliziotto. Infine il mio treno arrivò, una lunga fila di
proiettili d'argento con la loro funzione scritta sul fianco: VAGONE RISTORANTE, VAGONE PANORAMICO, CUCCETTE. Io ero Sul CUCCETTE. Il mio scompartimento era minuscolo e ordinato, proprio il genere di guscio di cui avevo bisogno. Non appena il treno uscì dalla stazione, mi spogliai, abbassai la cuccetta e m'infilai tra le lenzuola. Scartai il panino e lo mangiai. La carne era piuttosto dura, con un sapore a mezzo tra il dolciastro e il piccante, la somma di tutti i ragazzi di Jay. Abbandonandomi al buio silenzio ondeggiante, ascoltai le funzioni del mio corpo. I polmoni inspiravano aria ed emettevano veleno; stomaco e intestini riducevano Jay all'essenziale; il mio cuore segnava il tempo. Per trentatré anni avevo vissuto solo in questa prigione. Di nuovo, m'imposi di rallentare al massimo le pulsazioni, il respiro, le funzioni involontarie. Non sapevo se ci sarei riuscito una seconda volta. Quando m'inabissai, provai un gran sollievo. Il deserto era a giorni di distanza. Questa volta non avevo bisogno né volevo passare per morto. Volevo solo tenere la carne di Jay con me il più a lungo possibile, per assimilarlo al massimo. Quando mi fossi svegliato, lui sarebbe stato con me per sempre, e avremmo avuto a nostra disposizione tutti i piaceri del mondo. Questa volta non ero un cadavere, ma una larva. Epilogo Negli ultimi mesi dell'anno, a New Orleans ci sono ancora giornate calde. Nell'alloggio degli schiavi, Jay e Tran sbocciarono come le enormi infiorescenze dal puzzo di carogna che crescono nella giungla. I loro addomi dilaniati si gonfiarono e scoppiarono come petali rosso-neri, un tripudio di decomposizione. I fluidi putrescenti dei loro corpi si raccolsero sul pavimento di cemento e nelle cavità dei corpi in disintegrazione. Luke spinse lo stantuffo della siringa e inviò un ricco flusso di eroina messicana brown nelle vene. Si lasciò ricadere sulle lerce lenzuola del motel, l'ago ancora penzolante dal braccio, il cuore sull'orlo di una lenta picchiata. I ricordi si appannarono in un incubo nebuloso. Era ancora incrostato di sangue e di sozzura del Quartiere francese, ma non appena la droga lo pervase, si sentì pulito e puro. I volti, i cazzi e le palle divennero masse informi di carne nerastra. Lin-
gue enfiate come palle fecero spalancare le mascelle. Organi rotolarono via dai corpi come fiasche di cuoio dilatate. Dalla loro decomposizione si levarono fili di vapore e piccoli scoppiettii gassosi. Luke si svegliò con una polverosa luce solare negli occhi: aveva dimenticato di fermare con uno spillo lo spazio tra le tende. Gli doleva la gola. La sua mente era totalmente lucida, senza postumi da droga, e questo era insopportabile. Riusci ad afferrare la bottiglia di whisky dal tavolo senza alzarsi del tutto dal letto. Si appoggiò ai guanciali e tracannò lo sturalavandini, cercando di mettere a fuoco tutto quello che aveva visto e fatto nel Quartiere. Si sentiva addosso l'odore della morte. Aveva fili di sangue marcescente sotto le unghie. Ciononostante voleva fare un estremo sforzo propagandistico: avrebbe capito come tutto era successo, e cercato di far luce sul perché; si sarebbe convinto di avere un libro da finire e un altro anno da vivere. Puntò gli occhi al soffitto e cominciò a parlare. Tran, libero dai lacci, si sciolse lentamente nella cassa toracica di Jay. Una macchia grande, viscosa, vagamente iridescente nascose il pavimento di cemento intomo al tavolo. I loro occhi erano buie caverne. Partorirono vermi, generazione dopo generazione, sino a che i loro corpi ebbero addosso una coltre vivente. Ben presto vennero spolpati, le loro ossa trasformate in una scultura-puzzle d'avorio baluginante nel buio, in attesa di raccontare la loro muta storia d'amore. FINE