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IL MEGLIO DI IF 2 (The Best From «If» - Volume II, 1974) INDICE La baracca del cantiere di Clifford D. SIMAK La realtà di Susie di Bob STICKGOLD Mnarra mobilis di Sydney VAN SCYOC Westwind di Gene WOLFE Morte e designazione tra gli Asadi di Michael BISHOP Editoriale di Frederik POHL Le ali venute dall'ombra di Fred SABERHAGEN Straniero in paradiso di Isaac ASIMOV LA BARACCA DEL CANTIERE (Clifford D. Simak) Clifford Simak è da tempo famoso per il suo ironico sense of humor e per il suo istinto infallibile per l'assurdo. In questo racconto, breve ma pungente, ci regala una visione della creazione non molto ortodossa. Nello stesso anno in cui i primi uomini scesero su Marte, dalla Luna venne lanciata la sonda verso Plutone. Cinque anni dopo, vennero trasmesse le prime immagini, quando la sonda, dopo essersi inserita in orbita, puntò le telecamere sulla superficie del pianeta. La trasmissione era scadente; ma anche così, certe caratteristiche delle fotografie suscitarono grandi angosce, mentre le vecchie teorie andavano in pezzi e venivano sostituite dalle perplessità, da interrogativi che non trovavano neppure l'ombra d'una risposta. Le immagini sembravano dire che il pianeta aveva una superficie liscia, addirittura quasi levigata, senza un solo fattore geografico che ne interrompesse la regolarità. In certe località, tuttavia, equidistanti una dall'altra lungo l'equatore, c'erano puntini minuscoli, che si sarebbero potuti scambiare per disturbi nella trasmissione, se non fossero stati così regolari. E per giunta, i puntini continuarono a rimanere anche quando i disturbi vennero eliminati. Quindi, a quanto pareva, dovevano essere minuscoli elementi geografici, oppure le loro ombre, anche se la distanza che intercorreva tra Plutone e il Sole portava a escludere l'esistenza di ombre solari.
Gli altri dati non contribuivano certamente ad attenuare l'angoscia. Il pianeta era ancora più piccolo di quanto si era supposto: aveva un diametro inferiore alle mille miglia, e la sua densità era di 3,5 grammi per centimetro cubico, anziché i poco realistici 60 grammi che erano stati calcolati in precedenza. Questo voleva dire parecchie cose. Voleva dire che là fuori, forse a più di sette miliardi di miglia dal sole, doveva esserci in orbita un decimo pianeta del sistema, perché un pianeta della grandezza e della massa di Plutone non bastava a spiegare le eccentricità delle orbite di Urano e di Nettuno. Il calcolo della massa di Plutone, ora risultato inesatto, era stato basato sulle misurazioni di quelle eccentricità, adesso invece bisognava ammettere che doveva esserci qualcosa d'altro, per spiegarle. A parte questo, Plutone era stranissimo... un pianeta tutto liscio, senza nessun elemento di spicco, esclusi i puntini regolarmente spaziati. La levigatezza non poteva venire certamente spiegata da una atmosfera non turbolenta, perché senza dubbio Plutone era troppo piccolo e troppo freddo per avere atmosfera. Una superficie di ghiaccio, allora, si chiedevano gli uomini, i resti gelati di un'atmosfera esistita temporaneamente in passato? Ma per parecchie ragioni, sembrava che non andasse bene neppure questa spiegazione. Forse, metallo: ma se il pianeta era di metallo massiccio, allora la densità sarebbe dovuta essere molto più elevata. Gli uomini, sulla Terra, si consolavano. Tra altri cinque anni la sonda sarebbe ritornata, portando i filmati che aveva girato; e in base a quelli, anziché alle trasmissioni così scadenti, forse molte cose che adesso apparivano indistinte sarebbero diventate comprensibili. La sonda continuava a girare nelle orbite prestabilite, e inviava altre immagini, anche se questo non serviva a molto, perché la qualità era ancora men che mediocre. Poi attivò la sequenza automatica che l'avrebbe fatta ripartire verso la Terra, e i beepbeep che arrivavano dalle lontananze dello spazio dicevano che stava tornando a casa su una rotta precisa e regolare. Poi successe qualche cosa. I beep-beep s'interruppero, e ci fu silenzio. Base Luna attese. Poteva riprendere a funzionare. Il silenzio poteva indicare una semplice disfunzione momentanea, e i segnali potevano ricominciare. Ma non ricominciarono mai. Chissà dove, a circa tre miliardi di miglia dal Sole, era capitato qualcosa alla sonda diretta verso casa. Non si fece risentire, mai più... era perduta per sempre. Non aveva senso inviare un'altra sonda, fino al giorno in cui i progressi tecnologici avessero potuto assicurare immagini molto migliori. I progressi
tecnologici dovevano essere veramente significativi... le migliorie e i perfezionamenti di poco conto non sarebbero serviti a molto. La seconda e la terza spedizione umana raggiunsero Marte e ritornarono a casa, e portarono, tra molte altre cose, le prove che vi esistevano forme di vita primitive; e questo liquidò una volta per tutte il vecchio, sgradevole sospetto che la vita fosse un'aberrazione reperibile solo sulla Terra. Poiché la vita esisteva su due pianeti dello stesso sistema solare, non si poteva più dubitare che rappresentasse un fattore comune nell'universo. La quarta spedizione partì, atterrò e non tornò mai più indietro: e adesso su Marte c'era un pezzetto di suolo che era Terra, per sempre. La quinta spedizione fu lanciata mentre la Terra rendeva ancora omaggio a quei quattro uomini morti tanto lontano da casa. Adesso che s'era scoperta la vita su un altro mondo, adesso che si sapeva che un altro pianeta, anticamente, aveva avuto mari e fiumi, e un'atmosfera approssimativamente simile all'atmosfera terrestre, adesso che sapevamo di non essere più soli nell'universo, rinacquero l'interesse dell'opinione pubblica e il suo appoggio ai voli spaziali. Gli scienziati, ricordando l'enigma della sonda inviata a Plutone (per la verità, non l'avevano mai dimenticato, perché continuava ad assillarli), cominciarono a progettare una spedizione umana su Plutone, poiché non aveva senso mandare un'altra sonda automatica. Quando venne il giorno del decollo da Base Luna, io facevo parte della spedizione. Vi partecipavo come geologo... proprio l'ultima specializzazione di cui aveva bisogno una spedizione su Plutone. Eravamo tre, e qualunque psicologo sarà in grado di dirvi che tre è un numero disgraziato. Finisce sempre che due fanno lega contro il terzo, oppure non gli badano nemmeno, e c'è sempre concorrenza per entrare a far parte di quella lega a due. Nessuno ha voglia di star solo contro gli altri due. Ma con noi le cose non andarono così. Andammo perfettamente d'accordo, anche se qualche volta era piuttosto difficile. I cinque anni impiegati dalla sonda per raggiungere Plutone per noi si erano ridotti a meno della metà, non soltanto grazie all'efficienza maggiore dei razzi, ma perché un'astronave con equipaggio umano poteva raggiungere velocità che non si potevano programmare in una sonda... o, almeno, non si potevano programmare senza pericoli. Ma un po' più di due anni è un tempo molto lungo, per restare rinchiusi dentro un barattolo che sfreccia nel vuoto. Forse non sarebbe stato tanto tremendo, se avessimo avuto la sensazione della velocità, di andare veramente in qualche posto: ma non c'era. Sembrava di stare so-
spesi nello spazio. Chi eravamo, noi tre? Beh, io sono Howard Hunt, e gli altri due erano Orson Gates, chimico, e Tyler Hampton, ingegnere. Come ho detto, andavamo perfettamente d'accordo. Organizzavamo tornei di scacchi... sicuro, tre uomini in un torneo, e andava benissimo così perché nessuno di noi s'intendeva di scacchi. Se fossimo stati esperti, immagino che ci saremmo azzuffati. Inventavamo strofette oscene, ed eravamo così soddisfatti del risultato che. passavamo ore ed ore a cantarle, e nessuno di noi tre sapeva cantare. Facevamo tante altre cose futili... ormai dovreste esservene fatta un'idea. C'erano anche certi esperimenti e osservazioni scientifiche che dovevamo effettuare, ma tutti noi eravamo convinti che il nostro primo compito, il più importante, era riuscire a non perdere la ragione. Quando ci avvicinammo a Plutone la piantammo con le nostre sciocchezze e trascorremmo molto tempo a sbirciare al telescopio, discutendo e facendo ipotesi su quello che vedevamo. Ma non c'era molto da vedere. Il pianeta somigliava, più che altro, a una palla da biliardo. Era liscio. Non c'erano montagne, né valli, né crateri... niente deturpava la levigatezza della superficie. I puntini c'erano, naturalmente. Riuscivamo a distinguerne sette gruppi, tutti situati lungo la fascia equatoriale. E visti da vicino, non erano semplicemente puntini. Erano strutture. Finalmente atterrammo, nei pressi di un gruppo di quelle strutture. L'atterraggio fu un po' più duro di quanto avessimo previsto. La superficie del pianeta era dura... non aveva la minima elasticità. Però restammo con l'astronave in piedi e senza spaccare niente. Talvolta qualcuno mi chiede di descrivere Plutone, ed è molto difficile spiegarlo a parole. Si può dire che è levigato e buio... è buio persino alla luce del giorno. Il sole, da quella distanza, non è molto di più d'una stella un po' più luminosa delle altre. Su Plutone la luce del giorno non c'è: c'è la luce delle stelle, e non fa molta differenza essere rivolti verso il sole oppure no. Il pianeta è privo d'atmosfera, naturalmente, e privo d'acqua, e freddo. Ma il freddo, per quanto riguarda le sensazioni umane, è relativo. Quando la temperatura scende a cento gradi Kelvin, dopo non ha più importanza se diventa ancora più fredda. Soprattutto quando porti addosso un sistema di life support. Senza una tuta dotata di life support, dureresti solo pochi secondi - nella migliore delle ipotesi - in un posto come Plutone. Non sono mai riuscito a capire che cosa ti ammazzerebbe prima... il freddo
o la pressione interna. Creperesti congelato... oppure esploderesti prima di gelare? Dunque Plutone è buio, levigato, senz'aria, e freddo. E questi sono solo i fattori esterni. Te ne stai lì e guardi il sole, e ti rendi conto di quanto sei lontano. Sai di trovarti al limite estremo del sistema solare, sai che appena un po' più in là saresti al di fuori del sistema. Ma naturalmente, non è detto che sia proprio vero. Sai del decimo pianeta. Anche se è una teoria, ci dovrebbe essere, là fuori. Sai dei milioni di comete orbitanti che, tecnicamente, fanno parte del sistema solare, anche se sono così lontane che nessuno ci pensa mai. Potresti dire a te stesso che per la verità questo non è il confine... là fuori ci sono sempre quell'ipotetico decimo pianeta e le comete. Ma questa è un'intellettualizzazione: ripeti a te stesso qualcosa che la tua mente dice che forse è vero, ma che le tue viscere smentiscono. Per centinaia d'anni, Plutone è stato l'ultimo avamposto, e questo, per Dio, è Plutone, e tu sei arrivato più lontano di quanto sia mai arrivato un uomo, e lo senti. Non appartieni più a niente. Sei in un vicoletto buio, e le strade luminose e allegre sono così lontane che sai che non le troverai più. Non è nostalgia, quella che provi. È piuttosto la sensazione di non aver mai avuto una casa, una patria. Di non essere mai appartenuto a niente. Poi finisci per superarla, naturalmente... oppure ti ci rassegni. E così, uscimmo dall'astronave, dopo essere sbarcati, e scendemmo sulla superficie. La prima cosa che ci colpì - oltre al senso di smarrimento che s'impadronì immediatamente di noi - fu che l'orizzonte era troppo vicino, molto più che sulla Luna. Sentimmo subito di trovarci su un piccolo mondo. Notammo la vicinanza dell'orizzonte prima ancora di notare gli edifici, che la sonda aveva fotografato come puntini e che noi eravamo scesi per esaminare. Forse edifici non è la parola esatta... probabilmente è meglio parlare di strutture. Gli edifici sono chiusi, e quelli non erano chiusi. Erano cupole, che qualcuno aveva incominciato a costruire, senza aver avuto il tempo di finirle. La struttura base era stata eretta, ma poi i lavori si erano interrotti. C'erano archi che salivano incurvandosi dalla superficie e si congiungevano in alto. Ponteggi e travature reggevano le intelaiature, ma i lavori di costruzione non erano andati oltre. Erano tre: una delle strutture era più grande delle altre due. Le intelaiature non erano affatto semplici come potrebbe sembrare dalla mia descrizione. Fissate alle centine e ai supporti e alle travature c'erano altre numerose unità strutturali, che sembravano non avere una funzione, e di sicuro non avevano senso. Cercammo di capire qualcosa di quelle unità, e delle depressioni che e-
rano state scavate nella superficie planetaria all'interno dei confini di ogni costruzione... non avevano un pavimento, e sembravano fissate al pianeta. Le cavità erano circolari, e avevano un diametro di meno di due metri, una profondità d'un metro circa, e a me sembravano più che altro intaccature fatte con un cucchiaio nel contenuto di una gelatiera. Fu allora, più o meno, che Tyler cominciò a farsi venire qualche idea a proposito della superficie. Tyler è ingegnere, e perciò avrebbe dovuto farsi venire le idee immediatamente - anche noi, del resto - ma la prima ora che avevamo passato fuori della nave ci aveva confuso parecchio. Avevamo indossato le tute durante l'addestramento, certo, e ci eravamo anche esercitati a camminare portandole addosso, ma sembrava che Plutone avesse una gravità addirittura inferiore a quella che era stata calcolata, e noi dovemmo abituarci, prima di sentirci decentemente a nostro agio. E niente, ma proprio niente, era esattamente come noi l'avevamo previsto. «Questa superficie», mi disse Tyler. «Ha qualche cosa che non va.» «Lo sapevamo già che era liscia», disse Orson. «Lo si vedeva dalle fotografie. E mentre arrivavamo qui, abbiamo potuto constatarlo anche noi.» «Così liscia?» chiese Tyler. «Così regolare?» Si girò verso di me. «È geologicamente impossibile. Non lo diresti anche tu?» «Non mi sembra molto normale», dissi io. «Se ci fosse stato qualche sovvertimento, questa superficie dovrebbe essere accidentata. Non può esserci stata erosione... o qualcosa d'altro che l'abbia spianata. Gli impatti delle micrometeoriti, magari, ma non troppo numerosi. Siamo troppo lontani perché possano esserci meteoriti, di qualunque dimensione. E le micrometeoriti crivellerebbero la superficie, ma non eserciterebbero un'azione di spianamento.» Tyler si inginocchiò, con una certa goffaggine. Passò una mano sulla superficie. La visibilità lasciava a desiderare, ma potevi vedere che c'era polvere, uno strato sottile di polvere, come un'incipriatura. «Fammi un po' di luce» disse Tyler. Orson puntò il raggio della sua lampada su quel tratto. Dove Tyler aveva passato la mano era rimasta ancora un po' di polvere grigia, ma c'erano strisce dove appariva, visibile, la superficie più scura. «Polvere spaziale» disse Tyler. Orson disse: «Dovrebbe essercene maledettamente poca». «È vero» disse Tyler. «Però, in quattro miliardi di anni o anche di più, si è accumulata. Non potrebbe essere il risultato dell'erosione, no?» «Non c'è niente che possa causare erosione» dissi io. «Deve essere
all'incirca il pianeta più morto che si possa trovare. Non c'è abbastanza gravità per trattenere i gas... ammesso che i gas ci siano mai stati. Un tempo dovevano esserci, ma adesso si sono dispersi, tutti... e da un pezzo. Niente atmosfera e niente acqua. Non credo che ci sia mai stata accumulazione. Una molecola non resterebbe per molto.» «Ma la polvere spaziale sì?» «Può darsi. Forse c'è una specie di attrazione elettrostatica.» Tyler strofinò di nuovo quel piccolo tratto di superficie con la mano inguantata, rimuovendo un altro po' di polvere, e apparve un altro po' di superficie più scura. «Abbiamo un trapano?» domandò. «Un trapano per campioni.» «Io ne ho uno, nella mia cassetta degli attrezzi» disse Orson. Lo tirò fuori e lo porse a Tyler. Tyler piazzò la punta contro la superficie e premette il pulsante. Nella luce della lampada, si vedeva la punta che girava e girava. Tyler esercitò sul trapano una maggiore pressione. «È più duro di un accidente» disse. La punta cominciò a mordere. Un mucchietto di frammenti si accumulò intorno al foro. La superficie era dura, su questo non c'era dubbio. La punta non penetrava molto, e il mucchietto di frammenti era modestissimo. Tyler si arrese. Estrasse la punta e spense il motore. «Basta per un'analisi?» chiese. «Dovrebbe bastare», disse Orson. Prese il trapano dalle mani di Tyler e gli porse un sacchetto per campioni. Tyler appoggiò l'imboccatura del sacchetto sulla superficie, e spinse i frammenti all'interno. «Adesso lo sapremo» disse. «Adesso riusciremo a sapere qualcosa.» Un paio d'ore dopo, quando fummo rientrati a bordo, lo sapemmo. «Ho capito» disse Orson. «Ma non riesco a crederci.» «Metallo?» chiese Tyler. «Sicuro, metallo. Ma non è del tipo che hai in mente tu. Questo è acciaio.» «Acciaio?» chiesi io, inorridito. «Non è possibile. L'acciaio non è un metallo naturale. È artificiale.» «Ferro» disse Orson. «Nichelio. Molibdeno, vanadio, cromo. Tutto questo serve a fare l'acciaio. Non m'intendo d'acciaio come dovrei. Ma questo è acciaio di sicuro... e buono. Resistente alla corrosione, duro, fortissimo.» «Forse è soltanto la piattaforma delle strutture» dissi io. «Forse è un basamento di acciaio per sostenerle. Abbiamo prelevato il campione troppo vicino a una di esse.»
«Proviamo a controllare» disse Tyler. Aprimmo la rimessa, facemmo scendere la rampa e tirammo fuori il buggy. Prima di andarcene, spegnemmo la telecamera. Ormai quelli di Base Luna dovevano avere visto tutto quel che dovevano vedere, e se volevano dell'altro potevano anche chiederlo. Noi avevamo inviato un rapporto su tutto quello che avevamo trovato... tutto, tranne la superficie d'acciaio, ed eravamo d'accordo tutti e tre nel ritenere che, fino a quando non ne avessimo saputo qualcosa di più, avremmo fatto meglio a non dire niente. E comunque, sarebbe dovuto passare un po' prima che ricevessimo una risposta, da quelli laggiù. Lo scarto di tempo, rispetto alla Terra, era di circa sessanta ore all'andata e altrettante al ritorno. Viaggiammo per sedici chilometri e prelevammo un altro campione con il trapano, e poi tornammo indietro, seguendo le tracce sottili che il buggy aveva lasciato sulla polvere, e prelevammo altri campioni, uno per miglio. Ottenemmo il risultato che tutti e tre, credo, ci aspettavamo, ma non riuscivamo proprio a parlarne. Tutti i campioni erano acciaio. Non ci sembrava possibile, naturalmente, e ci volle un po' di tempo perché riuscissimo a mandarla giù; ma alla fine ammettemmo che, in base a tutte le prove disponibili, Plutone non era un pianeta, bensì una sfera metallica artificiale, delle dimensioni di un piccolo mondo. Ma maledettamente grande, perché chiunque avesse potuto costruirlo. Chiunque? Era proprio quello, l'interrogativo che adesso ci ossessionava. Chi l'aveva costruito? E cosa forse ancora più importante... perché l'avevano costruito? Per uno scopo, questo era sicuro; ma perché, dopo che lo scopo era stato realizzato (ammettendo che fosse stato realizzato, naturalmente), Plutone era stato lasciato lì, al limite estremo del sistema solare? «Non è stato nessuno del nostro sistema» disse Tyler. «Ci siamo soltanto noi. Marte ospita la vita, ma è molto primitiva. È incominciata, ha tirato avanti, ostinatamente, e questo è tutto. Venere è troppo calda. Mercurio è troppo vicino al sole. I grandi pianeti gassosi? Può darsi, ma non possono ospitare esseri del tipo che costruirebbero una cosa del genere. Deve essere stato qualcosa venuto da fuori.» «E il quinto pianeta?» suggerì Orson. «Il quinto pianeta, probabilmente, non è mai esistito» dissi io. «Forse il materiale c'era, ma il pianeta non si è mai formato. Secondo tutte le leggi della meccanica celeste dovrebbe esserci un pianeta tra Marte e Giove, ma
qualcosa non è andato per il verso giusto.» «Allora il decimo pianeta» disse Orson. «Nessuno è veramente sicuro che ci sia» disse Tyler. «Già, hai ragione» disse Orson. «Anche se ci fosse, non sarebbe molto adatto per ospitare la vita, per non parlare poi dell'intelligenza.» «E quindi non restano altro che gli alieni» disse Tyler. «E molto, molto tempo fa» disse Orson. «Perché dici così?» «La polvere. Non c'è molta polvere, nell'universo.» «E nessuno sa cosa sia. C'è la teoria del ghiaccio sporco.» «Vedo che ci stai arrivando. Ma non è necessario che sia ghiaccio. E neppure grafite, o una delle altre cose di cui...» «Vuoi dire che è quella roba là fuori.» «Potrebbe darsi. Tu che cosa ne pensi, Howard?» «Non posso esserne sicuro» dissi io. «L'unica cosa che so è che non può essere erosiva.» Prima di andarcene a dormire tentammo di combinare un rapporto da trasmettere a Base Luna, ma tutto quello che mettevamo insieme ci sembrava troppo sciocco e incredibile. E perciò rinunciammo. Avremmo dovuto dirglielo, prima o poi, ma potevamo aspettare. Quando ci svegliammo, mangiammo un boccone, poi c'infilammo nelle tute e uscimmo per ispezionare le strutture. Continuavano a non avere molto senso, soprattutto quegli aggeggi pazzeschi fissati alle centine e alle travature e ai supporti. E non avevano senso neppure quelle cavità. «Se fossero montati su gambe» disse Orson, «potrebbero venire adoperati come sedie.» «Ma non molto comode» disse Tyler. «Se li inclinassi un po'» disse Orson. Ma non sarebbe andato bene neppure così. Sarebbero stati egualmente scomodi. Mi domandavo perché a lui facevano venire in mente le sedie. A me non sembrava che lo fossero. Pasticciammo lì in giro per un bel pezzo, senza approdare a niente. Esaminammo le strutture centimetro per centimetro, continuando a chiederci se c'era sfuggito qualcosa. Ma sembrava di no. E adesso viene la parte più strana. Non so perché lo facemmo... forse per pura disperazione. Ma poiché non riuscivamo a trovare nessun indizio utile, ci mettemmo a quattro zampe, spolverando la superficie con la mano. Non so che cosa sperassimo di trovare. Ci muovevamo lentamente, e la polvere tendeva ad appiccicarcisi addosso.
«Se ci fossimo portati dietro qualche scopa» disse Orson. Ma le scope non c'erano. Chi mai avrebbe potuto immaginare che avremmo avuto bisogno di spazzare un pianeta? Dunque, eravamo incastrati. Eravamo alle prese con quello che sembrava un pianeta artificiale, e certe stupide strutture alle quali non riuscivamo ad attribuire una funzione. Eravamo venuti da lontano, e una volta atterrati avremmo dovuto fare qualche scoperta colossale. La scoperta l'avevamo fatta, d'accordo, ma non significava niente. Alla fine, smettemmo di spazzare e restammo lì, a strusciare i piedi e a chiederci che cosa avremmo potuto fare, adesso, quando all'improvviso Tyler lanciò un grido e indicò un punto sulla superficie, dove i suoi stivali avevano rimosso la polvere. Ci chinammo tutti a guardare quello che aveva trovato. Vedemmo tre fori nella superficie: ognuno aveva un diametro d'un paio di centimetri, era profondo sette od otto, ed erano piazzati vicini, a triangolo. Tyler si mise carponi e puntò la luce della sua lampada nei fori, uno dopo l'altro. Alla fine si rialzò. «Non so» disse. «Potrebbero essere una specie di serratura. Ci sono piccole intaccature, ai lati, sul fondo. Se muovessimo le intaccature nel modo giusto, potrebbe succedere qualcosa.» «Magari potremmo esplodere» disse Orson. «Basta che sbagli e bum!» «Non credo» disse Tyler. «Non credo che si tratti d'una cosa del genere. E non dico neppure che sia una serratura. Ma non credo che sia una bomba. Perché avrebbero dovuto minarla?» «Non si può sapere che cosa possono aver fatto» dissi io. «Non sappiamo chi fossero, né perché fossero venuti qui.» Tyler non rispose. Tornò a inginocchiarsi e cominciò a spolverare meticolosamente la superficie, illuminandola con la sua lampada mentre la spolverava. Noi non avevamo nient'altro da fare, perciò lo aiutammo. Fu Orson a fare una nuova scoperta... una fenditura sottile come un capello: bisognava accostare la faccia alla superficie, per vederla. Dopo averla trovata, riprendemmo a rimuovere la polvere, e la mettemmo allo scoperto. La fenditura descriveva un cerchio, e i tre fori erano situati all'interno, vicino all'orlo. Il cerchio aveva un diametro di circa un metro. «Uno di voi è capace di scassinare le serrature?» domandò Tyler. Nessuno di noi due ne era capace. «Deve essere una specie di portello» disse Orson. «La sfera metallica su cui ci troviamo deve essere cava. Se non lo fosse, avrebbe una massa ben diversa.»
«E nessuno» dissi io, «sarebbe così pazzo da costruire una sfera massiccia. Ci vorrebbe troppo metallo, e troppa energia per muoverla.» «Sei sicuro che questa sia stata mossa?» chiese Orson. «Deve essere così» gli dissi. «Non è stata costruita in questo sistema. Nessuno, qui, avrebbe potuto costruirla.» Tyler aveva tirato fuori un cacciavite dalla sua cassetta degli attrezzi e lo stava usando per frugare nel foro. «Aspetta un momento» disse Orson. «Mi è venuta un'idea.» Fece spostare Tyler, si chinò, inserì tre dita nei fori e tirò. La sezione circolare si sollevò docilmente sui cardini. Incuneati nell'area sotto il portello c'erano oggetti che sembravano quei rotoli di carta che si comprano per avvolgere i regali di Natale. Però erano più grossi dei rotoli di carta: avevano un diametro d'una quindicina di centimetri. Ne afferrai uno, ma quel primo rotolo non era tanto facile da stringere, perché erano tutti incastrati molto fitti. Comunque, soffiando e sbuffando, riuscii a tirarlo fuori. Era pesante, e lungo almeno una sessantina di centimetri. Quando avemmo tirato fuori il primo, fu più facile estrarre gli altri. Ne prendemmo altri tre, e poi ritornammo all'astronave. Ma prima di ripartire, spostai gli altri rotoli da una parte, per evitare che si inclinassero, mentre Orson puntava il raggio della sua lampada all'interno del buco. Quasi ci aspettavamo di trovare uno schermo o qualcosa del genere, sotto i rotoli, di vedere il foro che si estendeva in profondità, in una cavità che poteva essere stata utilizzata come alloggio o come stanza da lavoro. Ma il foro finiva in uno strato di metallo lavorato a macchina. Vedevamo benissimo i solchi lasciati dal trapano che aveva scavato il buco. Il ricettacolo aveva un unico scopo, conservare i rotoli che noi avevamo trovato. Quando fummo rientrati a bordo, dovemmo aspettare un po' che i rotoli assorbissero calore, prima che potessimo maneggiarli. Comunque, dovemmo mettere i guanti, quando cominciammo ad aprirli. Adesso che li vedevamo alla luce, ci accorgemmo che erano formati da molti fogli avvolti insieme. I fogli sembravano fatti di un metallo estremamente sottile, o di plastica dura. Erano irrigiditi dal freddo, e li spiegammo sul nostro unico tavolo, li fermammo con pesi ai bordi, per tenerli aperti. Sul primo c'erano diagrammi, disegni e quelle che potevano essere le istruzioni, scritte sui diagrammi stessi e lungo i margini. Le istruzioni, natu-
ralmente, per noi non avevano senso (anche se in seguito alcune vennero decifrate, e i matematici e i chimici riuscirono a interpretare alcune delle formule e delle equazioni). «Progetti» disse Tyler. «Era un lavoro d'ingegneria.» «Se è così» disse Orson, «quegli strani cosi fissati alle intelaiature delle strutture potrebbero essere supporti per reggere strumenti.» «Può darsi» disse Tyler. «Forse gli strumenti sono conservati in qualche altro buco come quello dove abbiamo trovato i progetti» suggerii. «Non credo» disse Tyler. «È più logico che si siano portati via gli strumenti, quando se ne sono andati.» «E perché non hanno portato via anche i progetti?» «Gli strumenti erano utili. Potevano servire per un altro lavoro. Ma i progetti no. E forse c'erano molte serie di disegni e di fogli d'istruzioni. Quella che abbiamo trovato noi può essere solo una delle tante serie di duplicati. Doveva esserci un progetto originale, questo sì, e magari se lo sono portato via.» «Quello che non capisco» dissi io, «è che cosa potevano costruire, proprio qui. Che razza di cantiere era? E perché qui? Immagino che possiamo considerare Plutone una specie di enorme baracca di cantiere: ma perché esattamente qui? Con tutta la galassia a disposizione, perché questo posto particolare?» «Tu fai troppe domande in una volta» mi disse Orson. «Vediamo un po'» disse Tyler. «Magari lo scopriremo.» Tolse il primo foglio e lo lasciò cadere sul pavimento. Il foglio tornò ad arrotolarsi. Il secondo foglio non ci disse niente, e neppure il terzo e il quarto. Poi arrivammo al quinto foglio. «Ecco, qui c'è qualcosa» disse Tyler. Ci chinammo per vedere meglio. «È il sistema solare» disse Orson. Contai, rapidamente. «Nove pianeti.» «Dov'è il decimo?» chiese Orson. «Dovrebbe esserci un decimo pianeta.» «C'è qualcosa che non va» disse Tyler. «Ma non riesco a capire che cosa.» Me ne accorsi io. «C'è un pianeta, fra Marte e Giove.» «Questo significa che Plutone non è raffigurato» disse Orson.
«No, naturalmente» disse Tyler. «Plutone non è mai stato un pianeta.» «Allora vuol dire che una volta c'era veramente un pianeta, tra Marte e Giove» disse Orson. «Non è detto» obiettò Tyler. «Forse significa soltanto che era in programma.» «Cosa vorresti dire?» «Hanno sbagliato il lavoro» disse Tyler. «Hanno combinato una schifata.» «Sei pazzo!» gli gridai. «Questo lo dici tu, Howard. Secondo il nostro modo di pensare, forse è pazzesco. Secondo le teorie elaborate dai nostri fisici. C'è una nube di polvere e di gas, e si è contratta, formando una protostella. I nostri scienziati hanno invocato una bella serie di leggi fisiche per calcolare che cosa succede. Leggi fisiche automatiche... perché nessuno sarebbe stato così squilibrato da postulare un gruppo di ingegneri cosmici che se ne va in giro per l'universo a costruire sistemi solari.» «Ma il decimo pianeta» insistette Orson. «Dovrebbe esserci il decimo pianeta. Grande, massiccio...» «Hanno sbagliato a realizzare il quinto pianeta in programma» disse Tyler. «E Dio sa che altro hanno sbagliato. Venere, forse. Venere non dovrebbe essere il pianeta che è. Dovrebbe essere un'altra Terra, magari. Forse una Terra un po' più calda, ma non quella specie d'inferno che è. E Marte. Hanno sbagliato anche quello. Là la vita è incominciata, ma non ha mai avuto una possibilità di andare avanti. Ha resistito, e nient'altro. E Giove. Giove è una mostruosità...» «Tu credi che l'unica ragione per l'esistenza di un pianeta sia la sua capacità di ospitare la vita?» «Non lo so con certezza, naturalmente. Ma dovrebbe esserci, nelle istruzioni. Tre pianeti che avrebbero potuto ospitare la vita, e uno solo è riuscito come doveva.» «Allora» disse Orson, «potrebbe esserci un decimo pianeta. Uno che non figurava neppure nei progetti.» Tyler appoggiò il pugno sul foglio. «Con un gruppo di buffoni come quelli, può essere capitato di tutto.» Strappò via il foglio e lo buttò sul pavimento. «Ecco!» esclamò. «Guardate qui.» Ci accostammo e guardammo. Era uno spaccato d'un pianeta: o almeno, sembrava uno spaccato.
«Un nucleo centrale» disse Tyler. «Un'atmosfera...» «La Terra?» «Può darsi. Potrebbe essere Marte o Venere.» Il foglio era coperto da quelle che potevano essere istruzioni. «Non mi sembra che vada bene» protestai. «Non può andar bene, se è Venere o Marte. E tu, sei sicuro della Terra?» «Per niente» dissi io. Tyler strappò via quel foglio, scoprendone un altro. Lo studiammo. «Profilo atmosferico» dissi io, controvoglia, tirando un po' a indovinare. «Queste sono soltanto istruzioni generali» disse Tyler. «I dettagli devono essere su qualcuno degli altri rotoli. Ne abbiamo un bel mucchio, là fuori.» Tentai di immaginare quello che era successo. La baracca di un cantiere, piazzata in una nube di polvere e di gas. Ingegneri che forse avevano lavorato per millenni, per mettere insieme stella e pianeti, per introdurre certi fattori che dovevano ancora essere in funzione, dopo miliardi di anni. Tyler diceva che avevano combinato un pasticcio, e forse era proprio vero. Ma forse non l'avevano combinato con Venere. Forse Venere era stata costruita secondo istruzioni diverse. Forse era stata progettata per essere così com'è. Forse, tra un miliardo di anni, quando magari l'umanità non ci sarà più, sulla Terra, su Venere potrebbero nascere una nuova vita e una nuova intelligenza. Forse non avevano sbagliato con Venere, e forse neppure con gli altri. Non potevamo pretendere di saperlo. Tyler continuava ancora a esaminare i fogli. «Guardate qui» stava gridando. «Guardate qui... che pasticcioni...» LA REALTÀ DI SUSIE (Bob Stickgold) Percezione contro realtà: un contrasto antichissimo che, nonostante le continue ricerche di laboratorio e l'impegno di tante grandi menti, è ancora un mistero. Ecco un'ipotesi emozionante di un nuovo autore, Bob Stickgold. I
Steve Spencer cercava di nascondere il suo metro e novanta di statura dietro la roccia coperta di licheni e di comprendere l'enormità della frana che, chissà come, non era riuscita a ucciderlo. Una colossale lastra di granito aveva spaccato a metà il macigno che lo proteggeva, pochi secondi prima, e lui non era ancora convinto che uno spintone non avrebbe trasformato la pietra che gli aveva salvato la vita in una combinazione tra carnefice e pietra tombale. Era intormentito dalla stanchezza. Da un'ora e mezzo non muoveva un muscolo, e i capelli gli facevano solletico al naso. In momenti come quello, si riprometteva di tagliarsi a spazzola i capelli biondi che gli arrivavano fino alle spalle. Queste vecchie montagne non saranno mai più le stesse, pensò. Ma se la mia mira non migliora, non migliorerà mai neppure il resto del mondo... Fissò intontito la carabina che gli stava accanto e cercò di giustificare l'idea di assassinare la povera, impauritissima Susie. Sarebbe stata una conclusione disdicevole per la sua tesi di libera docenza. Quando la commissione per le ricerche di libera docenza aveva approvato la sua proposta, Steve era giubilante. La sua figura scarna si assestò a casaccio sulla vecchia poltrona che ornava il suo soggiorno. Chuck Dorin, compagno di stanza e collaboratore, cercò di non badare a lui. L'imminente esame di psicologia di Chuck gli avrebbe impedito di essere di buonumore per le prossime ventiquattro ore. «Sai» commentò Steve, «forse può essere il primato della facoltà per il progetto di ricerca più ozioso che sia mai stato approvato dalla commissione. Non ho altro da fare che sottrargli i giocattoli mentre loro non guardano. È semplicissimo, come derubare i bambini». Le ampie spalle, sovrastate da un groviglio di neri capelli ricciuti che poteva nascondere una testa, o forse poteva anche non nasconderla affatto, non diedero alcun segno che Chuck stesse ascoltando. «Lo sai?» insistette Steve. Chuck si voltò e scagliò una scatola di fazzolettini di carta a poca distanza dalla spalla sinistra di Steve. «Avanti, sputa l'osso» borbottò. «Sei cinico quanto una coppia di sposini novelli. Non ti ho mai visto tanto emozionato...» Quando ci pensò sopra, Steve dubitò che due sposini novelli potessero essere altrettanto emozionati. L'intero progetto era venuto fuori più o meno per caso e, alla fine, Steve doveva riconoscere a Sue Malor il merito di avergli fatto venire l'idea ini-
ziale. Erano andati a mangiare una pizza, dopo un film eccezionalmente brutto, e Steve aveva cercato di spiegarle lo sviluppo del «concetto degli oggetti» negli infanti. «Fu intorno al lontano millenovecentoventi che Piaget introdusse per primo il "concetto degli oggetti" nei suoi studi sullo sviluppo dell'intelligenza negli infanti» incominciò lui. La figuretta snella di Sue si assestò sulla sedia: una cannuccia collegava le sue labbra a una Coca-Cola. «Secondo la teoria di Piaget, un neonato non sa che gli oggetti che vede sono reali. Per lui fanno soltanto parte di un quadro, e non hanno una realtà propria. Ma quando il bambino cresce, comincia a fare esperienza degli oggetti in altri modi. Apprende che quel che si può vedere si può anche toccare, e qualche volta udire e fiutare. Con il tempo, si rende conto che queste proprietà coesistono. Ma l'oggetto continua a essere reale solo nella sua percezione. Se l'oggetto è coperto - o nascosto - l'infante non dà segno di essere conscio che esista ancora.» Steve si andava accalorando, e parlava gesticolando con le lunghe braccia ossute. «A sei mesi incomincia a comprendere che gli oggetti hanno esistenze indipendenti. Se tu metti un orologio - o un giocattolo - sotto un cuscino, e poi gli mostri dov'è, imparerà a cercarlo. Ma anche così, se poi metti l'oggetto - poniamo - sotto la sua coperta, molto probabilmente continuerà a cercarlo sotto il cuscino. Solo quando raggiunge i diciotto mesi, il bambino si rende conto che gli oggetti hanno veramente un'esistenza indipendente... che non sono presenti esclusivamente in virtù della percezione che ha di loro. Perciò il bambino sviluppa solo lentamente il concetto della realtà inerente degli oggetti... e solo tramite le conferme ricorrenti nella sua vita quotidiana.» Ormai, i commenti di Steve erano rivolti a Sue soltanto in senso vago. Lei si scostò dall'occhio una lunga ciocca di capelli neri e se l'assestò distrattamente dietro l'orecchio. «Nessuno è mai riuscito a convincermi che certe cose esistano in realtà.» Era ancora di pessimo umore, dopo una lezione di chimica in cui s'era appena sentita dire che qualche volta gli elettroni erano onde, e qualche volta erano particelle. «Tutto quello che sapete fare voi scienziati è fabbricare teorie stupide, e poi cacciarci dentro tutto quel che capita. Il tempo è relativo, la quantità di moto è quantizzata, la materia è onde e la luce è particelle. È una fortuna che i bambini decidano che gli oggetti sono reali. Diventerebbero stupidi, se cercassero di farli rientrare in qualche altra teoria.» Soffiò in faccia a Steve, attraverso la cannuccia. «Non che un illustre studente laureato non possa avere i dati per
riuscirci, ma penso che deve essere piuttosto difficile per una creatura di due anni.» Provò a fare una smorfia orrenda, e poi si accontentò di mostrargli la lingua. Il viso di Steve era inespressivo, i suoi occhi erano puntati sull'infinito. «Ti senti bene, Steve?» chiese Sue. «Stai male?» Steve aveva consumato una pizza gigantesca. «No, no» ribatté Steve. «Quello che hai appena detto... cosa intendevi?» Sue ebbe la sensazione che gli occhi di tutti, nel ristorante, puntassero verso quell'idiota del suo Steve. Non sapeva di cosa stesse parlando, ma i sintomi erano evidenti. «È un'idea grandiosa!» continuò lui. Un altro uragano di idee l'aveva colpito alla testa, pensò lei; e tra un istante avrebbe cominciato a sdottoreggiare all'impazzata, scarabocchiando sui tovaglioli e pretendendo da lei comprensione immediata. Tra un paio di giorni, dopo essersi calmato, avrebbe spiegato tutto daccapo in modo più semplice, e lei avrebbe finalmente scoperto di cosa si trattava. Ma detestava quelle scene al ristorante. «Niente sarcasmi, prego» disse lui. «Hai sollevato un interrogativo fantastico. Cosa accadrebbe se il bambino sviluppasse un diverso concetto degli oggetti? Se decidesse che, quando un oggetto scompare dalla sua vista, non esiste più? Non capisci? Possiamo controllare in laboratorio. Con le scimmie. Usando botole, cose del genere. Possiamo convincere una scimmia appena nata che gli oggetti non hanno una realtà indipendente. È un progetto magnifico. Possono apprendere che un oggetto non è reale? E cosa accadrà, se cambiamo le condizioni e lasciamo loro scoprire che gli oggetti sono reali? È magnifico! Assolutamente magnifico!» Smise di parlare, e cominciò a scarabocchiare appunti su un tovagliolo dopo l'altro. Sue era sorpresa. Una volta tanto, aveva capito già la prima volta quello che diceva Steve. Più tardi, quella sera, Steve ricominciò daccapo: questa volta lo spiegò a Chuck. «L'interrogativo fondamentale, dunque, è questo: se le esperienze dell'infante indicano che gli oggetti esistono esclusivamente come estensioni delle sue percezioni, che conclusioni trarrà? Lo sviluppo del concetto che gli oggetti sono reali e hanno esistenze indipendenti... è automatico? Oppure si tratta di qualcosa che i bambini apprendono tramite l'esperienza?» Chuck domandò: «Perché limitarti a stabilire se gli oggetti possono esistere indipendentemente? Perché non esplorare tutti i tipi di "realtà" di cui può convincersi l'infante? E se certi oggetti non potessero mai venire toccati? Potresti usare gli ologrammi. E scimmie al posto dei bambini. In que-
sto modo, potresti prendere qualcosa che piace alle scimmie, per esempio la frutta, e presentarla soltanto come immagine. E piazzare un marchingegno che irradi l'odore contemporaneamente all'immagine. Cosa farebbero le scimmie?» Steve aveva afferrato l'idea. «Fantastico. Potremmo lasciarle giocare con un orologio da taschino, e dopo un po' introdurre il suono, e vedere come reagiscono le scimmie...» Il cielo stava diventando azzurro pallido quando finalmente la smisero e andarono a letto. Avevano ideato una dozzina tonda tonda di esperimenti, ed erano sfiniti tutti e due. Steve si alzò in tempo per mantenere l'appuntamento con Sue: aveva promesso di andare a pranzo con lei. «Metterò per iscritto quello di cui abbiamo parlato ieri» disse, prima ancora che avessero trovato un tavolo libero. «Io e Chuck ne abbiamo discusso tutta la notte e sono sicuro che riuscirò a farlo approvare come tesi per la mia libera docenza. Così avrò tutto il materiale e il denaro che serviranno, più il tempo per lavorarci.» Sue era felice. Qualcosa, in fondo alla sua mente, le diceva che avrebbe tenuto per le scimmie anziché per Steve; ma sembrava che, una volta tanto, sarebbe riuscita a seguire quello che lui stava facendo. «Sai» gli suggerì, «sarà un po' difficile, se le scimmie accettano ogni realtà che viene loro mostrata.» «E perché?» chiese Steve. Sue comprese che lui teneva soprattutto al risultato, e non avrebbe avuto difficoltà ad accettarlo. «Beh, allora dirai che alle scimmie è stato insegnato che era reale qualcosa che non lo era... e che lo hanno accettato, giusto?» «Sicuro.» Steve sembrava capire che lei voleva approfondire, ma non immaginava dove volesse andare a parare. «E allora come farai a sapere di non avere capito le realtà all'incontrano?» Sue attese, ma Steve si limitò a fissarla come se avesse già esaminato il problema e le sue implicazioni molto tempo prima che lei lo sollevasse. Sue decise che avrebbe dovuto attendere per vedere come sarebbero andate le cose. Alla fine di quella settimana una proposta di ricerca, corredata d'una voluminosa documentazione, era nelle mani del presidente della commissione. Dieci giorni dopo, Steve difese la proposta davanti alla commissione, e il progetto fu approvato.
Steve e Chuck impiegarono un'altra settimana per costruire la prima gabbia sperimentale. La mostrarono a Sue con orgoglio paterno. «Ogni parte del pavimento è una botola» spiegò Steve. «Possiamo rimuovere istantaneamente qualunque oggetto da qualunque sezione della gabbia.» Il marchingegno era in un angolo del laboratorio, di fronte alla porta. Era grande: un metro e ottanta per un metro e ottanta, e alto un metro e venti. Il pavimento era una griglia di piastrelle di quindici centimetri di lato. Un immenso numero di fili arrivava a una serie di comandi situati davanti alla gabbia. «Oppure mettere dentro gli oggetti» aggiunse Chuck. «Uno degli stadi dell'apprendimento dell'infante è la scoperta che quando un oggetto scompare alla vista ci si può aspettare di vederlo ricomparire... magari a casaccio, oppure in un posto specifico, ma non necessariamente dove è sparito. Perciò abbiamo montato alcune piattaforme da carico che porteranno gli oggetti nella gabbia, in modo che sembrino materializzarsi.» «Ti ricordi, Sue?» chiese Steve. «Quella sera abbiamo parlato di un orologio messo sotto il cuscino e poi spostato, nei primi esperimenti con gli infanti? Bene, faremo qualcosa del genere. Ogni volta che il nostro orologio da taschino "sparisce" attraverso una botola, ne introdurremo simultaneamente un altro identico in una posizione predeterminata.» «Dietro il surrogato della madre» spiegò Chuck. «Che cosa?» domandò Sue. «Questo non le andrà molto a genio» disse Steve a Chuck. Avrebbe preferito non parlarne. «Nessuno ha intenzione di spiegarmi questo dettaglio?» «Okay, è semplice.» Il tono di Steve era difensivo. «Possiamo tenere una sola scimmia per gabbia... altrimenti non possiamo controllare l'esperimento. Ma ogni gabbia conterrà un surrogato di madre... una madre fasulla, fatta di filo di ferro e di pezza, con capezzoli collegati a poppatoi per nutrire il soggetto dell'esperimento.» «Quelle povere bestiole impazziranno, senza madri vere che diano loro un po' d'affetto.» «No, no» ribatté Chuck. «Negli esperimenti precedenti, le scimmie in gabbia non sono affatto impazzite. Ma alle nostre non mancherà neppure l'affetto. Io e Steve le maneggeremo, e daremo loro affetto: fa parte del programma. Devono potersi fidare completamente di noi, se vogliamo ottenere dati attendibili.» «Se questo può servire a tranquillizzarti» disse Steve a Sue, «puoi colla-
borare anche tu... nutrirle con il poppatoio tutte le volte che vorrai. Sarà anche meglio.» «A cosa servono tutti quegli aggeggi?» chiese lei. Decisamente, non approvava il ricorso ai surrogati di madre, e adesso aveva l'aria sospettosa e preoccupata. «Sono stati la cosa più divertente» rispose Chuck, indicando. «Quelli sono tubicini... collegati a nebulizzatori, in modo che possiamo aggiungere vari odori nella gabbia, senza mostrare gli oggetti cui gli odori appartengono.» Steve additò numerosi pulsanti situati in punti diversi intorno alla gabbia: da ognuno partiva un unico filo. «E questi sono i minialtoparlanti, in modo che possiamo fare la stessa cosa con i suoni... per esempio, suggerire la presenza di un sonaglio o di un tam-tam. Il collegamento a terra è la gabbia stessa, perciò basta un solo filo sottile per ogni altoparlante.» Sue guardò l'enorme apparecchio piazzato su un carrello accanto alla gabbia. «E quello, immagino, serve a sezionare i cervelli delle scimmie, quando avrai finito di servirtene?» Chuck rise. «È un laser. Lo usiamo per produrre ologrammi, immagini tridimensionali di un oggetto che in realtà non c'è. Possiamo proiettare nella gabbia, poniamo, l'immagine di un arancio. Possiamo usare il nebulizzatore per aggiungere l'odore all'immagine. Qualche volta, la scimmia potrà vedere e fiutare l'arancio, ma non riuscirà mai ad afferrarlo.» Sue era molto colpita. Non riusciva a immaginare come avrebbero reagito le scimmie. Steve le consigliò di non tentarlo neppure. «Non dobbiamo presumere o prevedere... Lo scopo dell'esperimento è scoprire quello che accadrà nelle condizioni sperimentali. Non possiamo far altro che attendere. L'officina ci ha fatto sapere che potrà prepararci le altre cinque gabbie fra due settimane. E allora potremo incominciare.» «Non sono proprio sicura che mi entusiasmi, l'idea che abbiate dato il mio nome a una scimmietta» mormorò Sue. Guardava la bestiola chiamata Susie che poppava aggrappata al surrogato di madre. «Non m'interessa quello che dici tu: non è naturale che quella poverina debba prendere il latte da una madre fatta di stoffa e di filo di ferro.» Steve era nervoso. Non gli andava l'isolamento delle scimmie più di quanto andasse a Sue, ma era necessario. Il grande interrogativo era scoprire in che modo le scimmiette avrebbero reagito alla loro «realtà». Sue parve leggergli nella mente. «E ciò che tu indurrai quelle povere creature a scambiare per realtà le farà im-
pazzire. Ne sono sicura.» «Perché?» ribatté Steve. «I cani impazziscono quando si trovano alle prese con radio e televisori? E gli ascensori? Entrano in uno stanzino piccolissimo. Dopo trenta secondi, escono dalla stessa porta, e sono in un posto completamente diverso. E sembra che neppure se ne accorgano.» «Ma questo è diverso» insistette Sue. «I cani, sostanzialmente, sanno che gli oggetti esistono. Le radio e i televisori sono semplicemente cose che non funzionano per loro. Con ogni probabilità, li escludono, come tu escludi quello che non puoi usare.» «Tu non puoi sapere se è così che reagiscono» protestò Steve. «Ma non puoi saperlo neppure tu» insistette lei. «Ma con le scimmie, tu rovescerai tutto, così che quello che era reale comincerà a scomparire, e quello che era intoccabile diventerà concreto. Cosa succederà a quelle poverine?» «Una poverina soltanto» disse Steve. «Soltanto Susie.» «Grazie» ringhiò Sue. L'aggiunta di quella nuova serie di esperimenti era l'ultimo cambiamento introdotto nei piani del progetto... e Steve e Chuck concordavano nel ritenerlo il fattore più importante. Una delle scimmie avrebbe scoperto, dopo dodici mesi, che gli oggetti passavano da una «classe di realtà» all'altra. Le «classi di realtà» si riferivano alle caratteristiche apparenti d'una serie di oggetti... le classificazioni erano state ideate mentre si attendeva che venissero ultimate le gabbie. L'intero programma era diventato finalmente un tutto armonico. Avrebbero usato sei scimmie... tre per gli esperimenti, e tre come controlli. Le scimmie usate come controlli sarebbero vissute semplicemente in gabbie speciali, chiamate «gabbie della realtà» da Sue. Là gli oggetti non sarebbero scomparsi o riapparsi, e non sarebbero stati presentati suoni, odori o immagini al di fuori del contesto normale. Le tre scimmiette sarebbero state allevate nel mondo «reale» generalmente accettato. Solo le tre scimmie sperimentali sarebbero state assoggettate a realtà alterate... una per sei mesi, una per dodici e l'altra per diciotto. Poi sarebbero state trasferite in altre gabbie, dove avrebbero fatto esperienza delle realtà normali. Steve e Chuck si riproponevano di osservare scrupolosamente le reazioni e l'adattamento delle scimmie a quel cambiamento. «Soltanto per Susie gli oggetti passeranno da una classe all'altra» spiegò Steve. «Per i primi sei mesi, a ognuno dei tre animali sperimentali verranno dati dodici oggetti per giocare, e ognuno avrà una realtà diversa o, come diciamo noi, ognuno apparterrà a una diversa "classe di realtà". Una classe
sarà rappresentata dall'arancio. Le scimmie lo vedranno e sentiranno l'odore, ma non potranno mai toccarlo. Un'altra, rappresentata dall'orologio, sparirà sempre quando uscirà dalla visuale della scimmia, ma riapparirà immediatamente in un certo posto, dietro il surrogato della madre. Un'altra classe, che include un sonaglio, sparirà, ma riapparirà in un tempo e in un luogo randomizzati. Le banane saranno qualche volta reali e qualche volta soltanto immagini accompagnate dall'odore. E così via. Verranno usati solo i dodici oggetti. Per Fred, che passerà sei mesi nelle gabbie della realtà, non ci sarà altro.» «Continua» disse Sue. Steve non aveva mai spiegato prima il programma finale, e Sue era convinta che non l'aveva fatto perché immaginava che lei non avrebbe approvato. «Paul continuerà per dodici mesi, e Susie per diciotto. E poi?» «Calmati» disse Steve. «Non posso spiegartelo, se tu sei già convinta che sarà una cosa spaventosa. Credimi, non lo sarà affatto.» Sue si calmò. Smise di far smorfie. «Okay» disse Steve. «Dopo i primi sei mesi, a Paul e Susie verranno dati oggetti nuovi. Ognuno verrà usato in modo da rientrare in una delle dodici classi di realtà identificate dai dodici oggetti originari. Una volta introdotto, ogni oggetto nuovo apparirà sempre nella stessa classe di realtà, e non ci saranno contraddizioni. Il problema è: gli animali impareranno a situare gli oggetti in categorie diverse, secondo la loro classe? Noi speriamo che le scimmie siano in grado di classificare gli oggetti dopo poco tempo. Questo tenderebbe a dimostrare che sono veramente consapevoli delle differenti realtà, e le hanno accettate.» «E Susie?» chiese Sue. «Che trattamento speciale le riservi per gli ultimi sei mesi?» «Esattamente quello che hai suggerito tu» intervenne Chuck. Era entrato qualche minuto prima ed era rimasto ad ascoltare in silenzio. «Prenderemo gli oggetti che sono familiari a Susie, che si sono sempre comportati allo stesso modo, e li trasferiremo in un'altra classe di realtà. La bambola, che si era sempre comportata come una vera bambola, diventerà soltanto un'immagine. L'arancio, che Susie non era mai riuscita ad afferrare, diventerà un oggetto reale. E quando l'orologio verrà nascosto, non ricomparirà dietro il surrogato della madre. Resterà dove è stato messo... E proprio non capisco perché tu sia tanto sconvolta.» Chuck era arrabbiato... e preoccupato. Temeva che Sue convincesse Steve a modificare gli esperimenti. «È contro natura» protestò lei. «Lo è anche portare vestiti addosso... e guidare un'automobile» rimbeccò
Chuck, e uscì a precipizio. «Non si tratta solo di questo, Steve.» Susie era ancora turbata. «Più ci penso, e meno mi va l'idea di quello che dovrà passare Susie.» «Beh, non sarai la prima persona al mondo che empatizza con una scimmia.» «Non è soltanto empatia» rispose Sue. «Quello che dice Chuck è vero. L'uomo vive in un momento completamente innaturale. Da quando è diventato un essere tecnologico, gli scienziati hanno continuato a ripeterci che quanto noi crediamo vero non lo è. Perciò, quando Armstrong sbarcò sulla luna, i giornalisti scoprirono che il venticinque per cento della gente che intervistavano non credeva che fosse veramente lassù. Quelli pensavano che fosse un imbroglio colossale.» Steve incominciò ad arrotolare lunghe ciocche di capelli intorno a una matita. Da quando aveva cominciato a lasciarseli crescere, aveva assunto parecchie delle abitudini nervose di Sue. «E con questo, a cosa vuoi arrivare? Credi che siano stupidi come Susie? O ancora più stupidi?» «No, ma sono altrettanto fortunati.» Sue cercò le parole. «Ma non capisci? La scienza ha distrutto nell'uomo moderno la fiducia nella realtà. Non sa più se deve credere ai suoi sensi, e non si fa nulla per chiarire la contraddizione. È per questo che mi arrabbio tanto, quando qualche cervellone viene in classe e mi dice che la materia è fatta di onde e non è concreta. Se tu vedessi un oggetto che sparisce e poi riappare dall'altra parte della stanza, diresti: "Toh, telecinesi!" Non ci sono alterazioni della realtà che tu non accetteresti. Sicuro, da un certo punto di vista è un bene. Ma è questo che intendevo, quando dicevo che non ero tanto sicura dell'esistenza degli oggetti. Quelli che sostenevano che Armstrong era su un set cinematografico non avrebbero mai difficoltà, con gli oggetti che spariscono. Per loro sarebbe solo un trucco. Per te e per me... Noi induciamo i nostri sensi ad accettare tutto quello che crediamo. Un giorno o l'altro dovremo affrontare tutto quanto... e non mi pare che qualcuno stia cercando di prepararsi...» «Scusami» disse Steve. «Non riesco veramente a capire dove vuoi andare a parare.» «Probabilmente non lo capirai mai» rispose lei. II Lentamente, Steve alzò una mano per tergersi la fronte. Accidenti a lei, pensò. È laggiù, da qualche parte. Era stato uno stupi-
do a sparare da quella distanza, e non gli era mai passato per la mente che una carabina della polizia avrebbe sparato in modo diverso dalla vecchia calibro ventidue cui era abituato. Era riuscito solo a spaventare tanto Susie da indurla alle rappresaglie, e adesso lei non aveva nessuna intenzione di rivelare la sua posizione. Aveva chiesto altri uomini, via radio, e gli avevano promesso una squadra di tiratori scelti dell'esercito, ma gli uomini rifiutavano di avvicinarsi entro la linea della visuale, e la squadra era stata lanciata due miglia più in giù, nella valle. Se non l'avessero avvistata prima del tramonto non ci sarebbe stato niente da fare, e Coleman aveva comunicato via radio che il Pentagono aveva deciso di spianare l'intera zona, se non l'avessero beccata. Susie aveva firmato la propria condanna a morte. Non c'era via di scampo. E lui gliel'aveva insegnato... era giusto? Sì, era stato lui, il buffone più buffone che fosse mai esistito, a insegnarglielo. Era stanco, esausto. Non c'era niente che avesse senso. Spianare duecentosessanta chilometri quadrati di Montagne Rocciose per uccidere una scimmietta era più sensato di tanti altri eventi. Una tesi per oziosi, aveva detto lui. Come avrebbe fatto a giustificare quello che era successo? Con un certo ottimismo, Steve aveva affermato che era un festeggiamento, ma sarebbe stato più esatto dire che si trattava di una tregua nella noia. Quel giorno scadevano i primi sei mesi dell'esperimento e lui, Sue e Chuck avevano ordinato pizza e champagne per festeggiare la fine della Fase Uno. L'indomani, due delle scimmie sarebbero uscite dalle loro gabbie della realtà, e a Paul e a Susie sarebbero stati presentati i primi oggetti nuovi. Nonostante tutto questo, in mezzo anno di noiose ripetizioni Steve aveva perduto ogni entusiasmo. «Quelle stramaledette scimmie accettano tutto» lamentò. «Non c'è assolutamente nessuna differenza tra gli animali sperimentali e i controlli. Eccettuato quello che loro prendono per realtà. Ogni volta che l'orologio sparisce, vanno a cercarlo dietro mammà. Quando scompare il sonaglio non stanno ad aspettare che ricompaia. Quando la banana risulta essere soltanto un'immagine, la ignorano. Sono completamente prevedibili... che gusto c'è? Vorrei dare una botta in testa a una di quelle bestie con un arancio!» Da cinque mesi, nessuno degli animali sperimentali mostrava più interesse per la vista e l'odore di un arancio.
«Dio santo, Steve, ma come puoi lamentarti?» ribatté Sue. «L'esperimento, finora, è riuscito. I tuoi risultati sono chiarissimi... e migliori di quanto avessi il diritto di aspettarti.» «Per non parlare, poi» aggiunse Chuck, «delle tre pubblicazioni in sei mesi. Conosco parecchi che darebbero il braccio destro, per annoiarsi allo stesso modo.» «Non è dei risultati che mi lamento» disse Steve. «Avete ragione, tutti e due... non c'è dubbio che le scimmie accettano la realtà che ricevono. Hanno appreso e accettato tutte le dodici classi di realtà senza batter ciglio. Ma quello che mi esaspera è che, a parte l'ovvio, non c'è stato un solo evento emozionante.» «Beh, la festa è proprio per questo» aggiunse allegramente Sue. «Domani otterrai di sicuro qualche risultato interessante. Fred uscirà dalla gabbia della realtà, e tu potrai dargli una botta in testa con l'arancio. E scommetto che Paul e Susie saranno contenti di vedere i loro primi giocattoli nuovi dopo sei mesi.» Steve si calmò. «Okay. Lo ammetto: mi aspetto qualche piccolo cambiamento per domani. Ma, non so perché, sono convinto che faranno di tutto per renderlo noioso.» Bevve un bicchiere di champagne senza interrompersi. «E tu...» Puntò un indice accusatore verso Sue. «Tu hai tutto il diritto di essere soddisfatta. Finché quei marmocchi tirano avanti senza traumi e confusioni, ti senti la coscienza a posto. Sono quasi convinto che tutto quello che potrebbe rallegrare me ti manderebbe su tutte le furie.» All'improvviso, Sue assunse un'espressione pensierosa. «Aspetta fino a domani...» E non aggiunse altro. «A questo punto» borbottò Steve, «prenderò quello che capita». La mattina dopo erano tutti e tre in laboratorio alle otto e mezzo. C'era anche una certa aria di fiducia. Steve diede una noce a ognuna delle scimmie, come faceva tutte le mattine, poi si rivolse agli altri umani. «Dove proponete d'incominciare?» «Trasferiamo Fred fuori della gabbia della realtà e diamogli un arancio» suggerì Sue. Steve aprì la gabbia e chiamò Fred. Lo scimmiotto corse da lui e gli balzò tra le braccia. «Okay, piccolo, adesso ti divertirai.» Steve lo trasferì in un'altra gabbia, dall'altra parte della stanza. Sue aveva già piazzato un arancio accanto allo sportello. Fred guardò il frutto e passò oltre. «È sicuro che non è reale» mormorò Chuck. «Forse ci vorrà un po' di tempo.»
«Aspetteremo» decise Steve. «Non ha nient'altro per giocare, nella gabbia, quindi non ci vorrà molto.» Cinque minuti dopo, Fred ritornò accanto all'arancio. Sedette, lo guardò, poi cercò di far passare la mano attraverso l'immagine. L'arancio rotolò nella gabbia. Fred restò immobile, con gli occhi fissi sul frutto. Fece il giro della gabbia, innervosito, per qualche minuto, poi ritornò vicino all'arancio. Lo urtò leggermente. L'arancio rotolò. Lo colpì ancora, più forte, e lo fece volare attraverso la gabbia. Cominciò a saltare di qua e di là, gridando eccitato. Finalmente balzò sul frutto, lo tenne saldamente tra le mani. Lo girò, lo rigirò, lo depose, lo prese e ricominciò l'intera procedura. Era convinto. L'arancio era reale. Pochi minuti dopo, l'aveva divorato. Steve era entusiasta. Sue tirò fuori una bottiglia di vino dalla borsa. «Credo che abbiamo motivo di festeggiare di nuovo» proclamò. «Un brindisi alle scimmie pazze.» Tutti e tre si radunarono intorno alla bottiglia. Quando sulla scena si fu ristabilita una parvenza d'ordine, Chuck disse: «Voglio dare un giocattolo nuovo a Paul o a Susie». «Qualcosa che scompaia e poi riappaia dietro mammà» suggerì Sue. Negli ultimi sei mesi, l'orologio era sempre riapparso dietro mammà, dopo essere sparito. «Diamo a Paul un campanello» disse Steve. Ne prese uno da uno scaffale e si avvicinò alla gabbia. «Paul, ho un giocattolo per te.» Suonò il campanello, poi aprì la porticina e lo posò dentro la gabbia. Paul lo prese, incerto, ma lo lasciò cadere quando lo sentì suonare. Lo riprese, e il campanello suonò di nuovo. Lo lasciò cadere. Dopo aver ripetuto gli stessi gesti per mezza dozzina di volte, cominciò a correre per la gabbia scampanellando a tutta forza. «Adesso nascondiamolo» disse Chuck. Riprese il campanello. «Ecco che se ne va, Paul» annunciò, e lo nascose sotto una grossa ciotola rovesciata. La ciotola veniva usata abitualmente per far «sparire» gli oggetti. Steve fece scendere il campanello attraverso la botola sotto la scodella, e fece salire un'altra botola nella gabbia, dietro mammà. Paul contemplava la ciotola. Chuck la raddrizzò, mostrando il posto vuoto. Paul restò lì seduto per un momento; poi, lentamente, andò da mammà. Quando vide il campanello, gettò un grido e corse intorno alla gabbia, agitandolo allegramente. «Ha guardato subito dietro mammà!» Sue era entusiasta. «Ha guardato dietro mammà!» Prontamente, rimisero il campanello sotto la ciotola.
Questa volta Paul non indugiò neppure, e si diresse subito verso il surrogato di madre. «Questa volta era maledettamente sicuro di sé» disse Sue. «Non ha avuto dubbi. Conosceva la classe di realtà e vi ha collocato subito il campanello.» «Un altro successo sonante» annunciò Chuck. Steve sogghignò. «Un altro saggio.» Stava andando tutto anche meglio di quanto avessero previsto. Provarono a dare a Fred un altro arancio, e lui l'attaccò e lo divorò immediatamente. Diedero un campanello a Susie, e le sue reazioni furono identiche a quelle di Paul. «Proviamo il trucco proposto da Susie» disse Chuck. Il trucco di Susie era stato elaborato congiuntamente da lei e da Steve. Per poter far funzionare le botole in modo efficiente, bisognava che le scimmie guardassero altrove, oppure l'oggetto doveva venire coperto, perché gli animali non vedessero il meccanismo in funzione. Susie, a differenza di Fred e di Paul, l'aveva capito. Dopo un po' aveva cominciato a coprirsi gli occhi per far scomparire gli oggetti. Steve s'era reso subito conto delle intenzioni della scimmietta e aveva sottratto l'orologio mentre lei si copriva gli occhi. Quando li aveva scoperti e non aveva più visto l'orologio, era andata diritta da mammà. In due o tre giorni, lei e Steve avevano perfezionato il sistema. Ora il campanello venne situato su una botola scoperta, in piena vista di Susie. Ma lei, invece di coprirsi gli occhi, l'afferrò e cominciò a giocarci. Steve lo recuperò e ritentò. Al quarto tentativo, Susie collaborò. Sedette a sessanta centimetri dal campanello e si coprì gli occhi. Steve lo fece cadere attraverso la botola e lo trasferì dietro il surrogato di madre. Susie si scoprì gli occhi, guardò il punto dove prima stava il campanello e si diresse verso mammà. «Basta» disse Chuck. «Non ce la faccio più.» Sue e Steve si dichiararono d'accordo e se ne andarono, decisi a far vacanza per quel giorno. La mattina dopo tutti e tre avevano i postumi della sbronza. Ancora una volta, tutto rientrò nel solco di una monotona routine. Dopo un mese, Fred non si distingueva più dal suo controllo. Prendeva per reale tutto quello che vedeva. Non c'era più niente da fare, con lui. Paul e Susie si mostravano felici dei nuovi giocattoli che ricevevano, ma classificavano ogni oggetto non appena avevano avuto il tempo e la possibilità di stabilire a quale classe di realtà apparteneva. La noia ritornò, e i cinque mesi suc-
cessivi trascorsero con insopportabile lentezza. L'interesse di Steve era mantenuto vivo solo dal problema di come avrebbe reagito Susie a un oggetto che passava da una realtà all'altra. Comunque, la festa per lo scadere dell'anno fu considerevolmente più allegra di quella del primo semestre. III Il sole scendeva lentamente verso le vette delle montagne, e il macigno coperto di licheni gettava su Steve un'ombra scura. Per la prima volta dopo due ore osò cambiare posizione. Coleman riferì che i tiratori scelti s'erano piazzati al coperto tra i cespugli che circondavano l'orlo inferiore del ghiaione, ma non riuscivano ad avvistare Susie. Se nessuno fosse riuscito a centrare Susie prima del tramonto, un elicottero sarebbe venuto a portar via tutto il personale, e sarebbero entrati in azione i bombardieri. La valle era già stata evacuata e Steve aveva sentito l'aereo che, passando a bassa quota, trasmetteva avvertimenti ai campeggiatori e agli escursionisti che potevano trovarsi ancora nella zona. Susie non poteva muoversi senza rivelare la sua posizione, ma poteva benissimo starsene buona ad aspettare fino all'imbrunire. Steve si sentì coprire da un sudore freddo, quando la sua mente sfiorò l'idea che Susie causasse un tramonto prematuro. Se continuava così sarebbe impazzito, pensò, e scacciò quell'idea dalla mente. Se avesse avuto un po' di fegato avrebbe corso il rischio con Susie, nella speranza che, se Susie lo avesse sistemato, uno dei tiratori scelti avrebbe potuto colpirla. Dio solo sapeva che cosa poteva fare, se decideva di farlo. Invece restò dov'era, augurandosi di scorgere il minuscolo movimento che avrebbe tradito la posizione della scimmietta. Susie, tanto devi morire comunque. Lascia che lo faccia io... sono stato io a dare l'avvio a tutto... Se almeno avesse interrotto l'esperimento dopo i primi dodici mesi! «Domani incominceremo la Fase Tre» annunciò Steve. «E ancora una volta il nostro ennui lascerà il posto a una successione di avvenimenti sbalorditivi.» Non era esattamente sbronzo, ma il vino, assommandosi all'eccitazione, lo aveva un po' stordito. «Io sono preoccupata per Susie, comunque» disse Sue. «Sembra molto più intelligente degli altri, e ho paura che il cambiamento possa veramente sconvolgerla.» «Oh, piantala, Sue. Mi sembrava fossi tu, quella non troppo sicura che
gli oggetti esistessero. E Susie non crede che esistano, indiscutibilmente. Dovrebbe essere in grado di superare benissimo il cambiamento. Vedrai. Domattina metteremo l'orologio sotto la ciotola di Susie, e lo lasceremo lì. Vuoi fare una scommessa su quello che succederà?» «Non so» mormorò lei. «Mi auguro soltanto che niente vada storto.» Finì il vino, e i tre se ne andarono. Il lunedì fu tutto di Susie. Steve non dava segni di tensione. Adesso si sentiva molto scienziato, e si preoccupava di assicurarsi che Susie non potesse intuire dal suo comportamento i cambiamenti che stavano per avvenire. Eseguì il solito rituale del mattino, offrendo a Susie una noce prelevata dal barattolo sul banco. La scimmietta gliela strappò dalla mano e si precipitò da mammà. Saltellando, la lasciò cadere dietro il surrogato di madre... su un mucchietto d'una dozzina di noci. Il sorriso si dileguò dalla faccia di Steve. «Che cosa diavolo?» Si girò di scatto verso Sue. «È questa la tua idea per farci perdonare da Susie... darle noci in più?» L'espressione di Sue mostrava incomprensione. «Abbiamo parlato parecchie volte della procedura... non dovevano esserci cambiamenti nella routine di oggi, a parte lo spostamento degli oggetti da una classe di realtà all'altra. E tu vai a darle una dozzina di noci proprio la mattina del cambiamento!» «Non le ho dato niente. Non avrei potuto. Chuck è arrivato qui prima di me. Può dirtelo lui che non sono stata io.» «Non capisco proprio come potrebbe averlo fatto, Steve. Deve essere entrato qualcuno prima che arrivassimo noi... oppure ieri sera.» Steve era furibondo. «Beh, se questo è uno scherzo, è uno scherzo di pessimo gusto.» Restarono a scambiarsi occhiate, tutti e tre, turbati e delusi. «Stai a sentire» disse Chuck, «è evidente che per oggi non possiamo cambiare il programma di Susie». La scimmietta era seduta nell'angolo in fondo alla gabbia, e tremava di paura per l'esplosione violenta di Steve. «Per oggi trasferiamo Paul fuori della gabbia della realtà, e mercoledì cominceremo con Susie. Due giorni non avranno un'importanza decisiva, e tra un mese neanche ti ricorderai di quello che è successo.» «Okay» borbottò Steve. «Ma prima voglio mettere un bel cartello con la scritta: VIETATISSIMO DAR DA MANGIARE ALLE SCIMMIE. E dovrò ricordarmi di togliere tutte quelle noci dalla gabbia di Susie. Sono proprio dietro mammà, sulla piattaforma di carico. Chiunque le abbia messe lì, aveva uno strano senso dell'humour.»
Andò tutto liscio fino a quando Steve ritornò da pranzo, il pomeriggio seguente. La collera gli stava passando, e cominciava a emozionarsi di nuovo per il cambiamento in programma per Susie, fissato per l'indomani mattina. Mentre passava davanti alla gabbia della scimmietta, vide un altro mucchio di noci dietro il surrogato di madre. Trascinò Chuck fuori del laboratorio, nel corridoio. «Sei rimasto qui tutto il pomeriggio?» domandò. «Dopo che io sono uscito a pranzo?» Si sentiva nettamente il tono di collera nella sua voce. «In pratica sì. Perché?» «Cosa vuol dire "in pratica"?» «Vuol dire sì... solo, sono sceso a prendere una Coca-Cola verso le dodici e mezzo. Perché? Che cosa è successo?» «Hai dato qualche noce a Susie?» ringhiò Steve, a denti stretti. «No, naturalmente.» Steve era rabbioso. «C'è un altro mucchio di noci sulla botola dietro mammà. E se scopro il buontempone che fa di questi scherzi, lo ammazzo. Stanotte mi porterò a casa le noci, e ogni giorno ne riporterò qui due.» Si girò per andarsene. «Tornerò più tardi. Se cercassi di lavorare mentre sono di questo umore farei diventar matta Susie. Comunque, domattina le cambierò egualmente programma.» Ma quando tornò indietro, quel pomeriggio, non riuscì ancora a concentrarsi in modo costruttivo. La gente non andava in giro a pasticciare con gli esperimenti altrui solo per il gusto di divertirsi. Lui doveva aver offeso qualcuno, per attirarsi sulla testa una vendetta di quel genere. «Steve» lo chiamò Chuck, «stai attento a quello che fai.» Steve si scosse e si accorse che Susie si stava coprendo gli occhi, per cercare di far scomparire il sonaglio. Quando la scimmietta ripeté il gesto, fece cadere il giocattolo attraverso la botola. «Perché non lasci perdere, per oggi?» consigliò Chuck. «Sarebbe un peccato se combinassi un pasticcio, e fossimo costretti a rimandare di nuovo il cambiamento.» Steve annuì. Era stanco e scoraggiato. Uscì a passo pesante dal laboratorio e prese un ascensore per scendere nell'atrio. Stava uscendo quando si accorse di aver dimenticato le noci. Di pessimo umore, risalì e rientrò nel laboratorio sbattendo la porta. Chuck stava richiudendo lo sportello della gabbia di Susie. «Devi essere proprio con la testa nelle nuvole, Steve» lo rimproverò Chuck. «Hai lasciato il sonaglio nella gabbia di Susie. Se non avessi senti-
to che ci stava giocando, l'avrebbe tenuto tutta notte.» La regola stabiliva che i giocattoli «non reali» non dovevano restare nelle gabbie quando gli animali erano soli. «E com'è possibile?» insistette Steve. «L'avevo fatto cadere poco prima di uscire.» «Beh, nessun altro è entrato qui dopo che te ne sei andato, Steve. Se fossi in te, stanotte cercherei di dormire un po' più del solito. Un sonnifero non ti farebbe male. Cominci ad avere l'aria sciupata.» Steve borbottò irritato e si avviò verso la porta. «Non dimenticare le noci!» gridò Chuck. Steve arraffò il barattolo dal banco e si precipitò fuori. La mattina dopo, Steve si alzò alle sei e mezzo. La sua notte era stata popolata di incubi dove apparivano Susie, le noci, gli orologi e i sonagli che apparivano e scomparivano. Alla fine s'era svegliato, madido di sudore freddo, dopo che nell'ultimo sogno era sparito anche lui. Era stanco e intontito, e non avrebbe desiderato altro che lasciar perdere l'intero progetto. Solo la consapevolezza che fra dodici ore il cambiamento sarebbe stato completo gli dava ancora l'energia di andare avanti. E poi, poteva aspettarsi altri sei mesi di noia lussuosa. Alle otto, raggiunse Sue a colazione. Lei era sveglia, eccitata dal programma della giornata. Ma era anche visibilmente scossa dallo stato in cui si trovava Steve. Lui le raccontò delle noci e del sonaglio, e dei suoi sogni di quella notte. Un sorriso malizioso apparve sul viso della ragazza. «Mi dispiace, Steve... ma il cerchio si è chiuso.» Susie non riusciva a cancellarsi il sorriso dal volto. «Tu hai preso l'idea del progetto da me, quando io dubitavo della realtà di certe interpretazioni della materia e dei fenomeni... e adesso io sono quasi convinta che tu non sia tanto sicuro che le cose siano come sembrano... o come vengono rappresentate qualche volta.» «È una sciocchezza» borbottò lui. «Andiamo» disse Sue, alzandosi. «Andiamo al laboratorio. Non vorrai che Chuck incominci senza di noi, vero?» Lo guardò facendo il broncio, e Steve dovette sorridere, controvoglia. Chuck li stava aspettando, quando arrivarono al laboratorio: era impaziente di cominciare. Steve offrì a Susie la noce e per un paio di minuti chiacchierò con lei. Poi le consegnò l'orologio perché ci giocasse. Come sempre, Susie si affrettò ad accettarlo. Saltellò intorno alla gabbia, soffermandosi di tanto in tanto ad ascoltare il ticchettio. Dopo qualche minuto,
Steve glielo sottrasse e l'infilò sotto la ciotola. Questa volta sarebbe rimasto lì. Durante più di mille prove, durante l'anno passato, Susie l'aveva sempre visto scomparire e riapparire dietro mammà. Questa volta non sarebbe accaduto. Come sempre, Susie corse dal surrogato di madre e allungò la mano per prendere l'orologio. Non c'era. Susie restò immobile. Restò seduta, così immota, esattamente per trenta secondi, e poi incominciò a strillare all'impazzata. Steve le mostrò l'orologio sotto la ciotola e poi lo coprì di nuovo. La scimmietta fissò la scodella per lunghi secondi, e poi, lentamente, alzò le mani per coprirsi gli occhi. «Sta cercando di farlo sparire» mormorò Sue. «Vuole che scompaia. Oh, Dio... questa volta impazzirà.» Susie si scoprì gli occhi, si avvicinò cautamente a mammà, e sbirciò dietro il simulacro materno. Immediatamente, cominciò a ciangottare soddisfatta. Allungò la mano dietro mammà. Dopo un istante, aveva tra le dita l'orologio. Per lungo tempo Steve, Sue e Chuck restarono inchiodati a fissare Susie e l'orologio. Nessuno pronunciò una parola. Nessuno si mosse. Cosa si poteva dire? Senza rompere il silenzio, Steve esaminò la gabbia. Tutte le botole erano collegate normalmente ai comandi. Le molle erano a posto. Le piattaforme di carico erano tutte vuote, e il ricettacolo sotto la ciotola era egualmente vuoto. Aprì lo sportello della gabbia e sollevò la scodella. Sotto non c'era niente. Tre facce sbalordite fissarono la ciotola. Steve si rivolse agli altri. «Sono ammattito? Uno di voi l'ha visto? È sparito. No?» La sua voce era sfumata d'isteria. Sue annuì. «Sì... e poi è riapparso dietro mammà. L'abbiamo visto tutti.» «No!» gridò Chuck. «Qualcuno ci sta giocando un brutto scherzo.» Non sembrava del tutto convinto di quella spiegazione. «Che cosa ci ha presi? Evidentemente è uno scherzo. State a vedere.» Passò davanti a Steve ed esaminò i fili che azionavano le botole e le piattaforme di carico. «Mi sembra tutto a posto» borbottò, ma poi disattivò le botole e le piattaforme. «Questa storia della realtà ci sta dando alla testa.» Recuperò l'orologio dalle mani di Susie e lo rimise sotto la ciotola. «E adesso vediamo se così funziona!» Aveva l'impressione di far la figura dello stupido. Chi aveva combinato quello scherzo non avrebbe mai permesso loro di dimenticare come avevano reagito. Tutti e tre erano piazzati in modo da poter vedere dietro mammà, mentre Susie si copriva gli occhi. Immediatamente, l'orologio apparve
dietro il simulacro. «Questo è pazzesco.» Steve si cacciò le mani nelle tasche. «Non può essere reale.» Cominciò a camminare avanti e indietro, cercando di riacquistare l'autocontrollo. «Deve esserci una bella spiegazione razionale. E la troveremo.» Senza una parola, Sue riprese l'orologio a Susie. Gli altri restarono a guardare mentre lei metteva l'orologio sopra la ciotola rovesciata, in piena vista. Immediatamente, Susie alzò le mani e si coprì gli occhi. Dopo un secondo esatto, l'orologio sparì, e ricomparve simultaneamente dietro mammà. «Oh, mio Dio» mormorò Chuck. «Steve... le noci. Erano apparse dietro il surrogato di madre. Come l'orologio.» Steve guardò davanti a sé. «Sì.» Il suo tono era controllato. «E so che non avevo lasciato il sonaglio nella gabbia, ieri sera.» Sue si girò verso Steve. «È stata Susie, non è vero? Ha fatto funzionare la sua realtà.» Steve cominciò a ridere. «Beh, forse non è ancora mattina. Deve essere un altro degli incubi che ho avuto stanotte.» Sue disse: «Lasciamo stare». Si rivolse a Chuck. «Andiamo da qualche parte... facciamo qualcosa d'altro. Non voglio più restare qui. Almeno per adesso.» «No» disse Chuck. «Prima voglio provare un paio di cose. Dammi l'arancio.» Sue lo guardò, con l'aria di non capire. «Voglio vedere se per Susie è reale.» Susie non aveva mai fatto l'esperienza di un arancio reale. Solo un ologramma e un odore. Chuck prese l'arancio e lo mise nella gabbia, attraverso lo sportello. Tutti e tre restarono a guardare in silenzio. All'inizio, Susie si accontentò di ignorarlo. Aveva visto l'ologramma molte volte, e non aveva ragione di sospettare che questa volta fosse diverso. Dopo qualche minuto, Steve infilò la mano nella gabbia e diede una spinta al frutto. Estrasse l'orologio e chiuse lo sportello. Susie studiò attentamente l'arancio. Non aveva mai visto rotolare un ologramma, quindi quella era indiscutibilmente una novità. Si accostò all'arancio, si sedette a una trentina di centimetri, riflettendo sul da farsi. Finalmente allungò un braccio e sferrò un colpo all'arancio. La sua mano passò attraverso il frutto. «Andiamocene» fece Chuck. «Mi pareva che volessi controllare un paio di cose» disse Sue. Fissava la gabbia come fosse ipnotizzata. «Lascia perdere» disse Chuck. «In questo momento voglio solo control-
lare un boccale di birra.» Si avviarono tutti e tre verso la porta. L'orologio era ancora stretto nella mano destra di Steve. Mentre seguiva gli altri, si chiuse la porta alle spalle. E mentre la porta si chiudeva, sentì l'orologio svanire dalla sua mano. Si affrettò ad allontanarsi. Gli altri due lo stavano aspettando agli ascensori. «Voi potete stare qui, se volete» disse, senza rallentare. «Io scendo per le scale.» Gli altri lo seguirono. Si limitarono a parlare del tempo, mentre bevevano il primo boccale di birra. Erano arrivati a metà del secondo, quando Chuck violò il tacito tabù. Aveva la faccia tesa. «Ci credo» disse. E all'improvviso la morsa che li aveva fatti tacere tutti e tre si allentò. «Non ha senso, non è possibile ed è pazzesco... ma ci credo. Qualcosa, in fondo al mio cervello, continua a ripetere: "È stata lei, e allora?" E non trovo una risposta.» «Lo so» disse Steve. «Anch'io penso le stesse cose. "Perché no?" continua a domandare la mia mente. E io non so perché non dovrebbe essere così. Non ho mai potuto credere davvero neppure alla relatività. Voglio dire che Sue potrebbe partire con un'astronave, pranzare, fare la doccia, atterrare, scendere... e io avrei ottant'anni. Ma lo accetto comunque, perché mi è stato detto che è vero. Beh, questo è esattamente il contrario. La mia preparazione, il mio intelletto dicono: "È un'allucinazione, un sogno, ipnosi collettiva...". Cose del genere. Ma stavolta qualcosa continua a chiedere: "Perché no?" E io non so cosa rispondere.» «Vedete» suggerì Sue, «in un certo senso, siamo impazziti. Voglio dire, non credo che siamo impazziti veramente, ma se quello che abbiamo visto è accaduto davvero... allora forse tutti quelli che sono rinchiusi da anni in manicomio come pazzi, in effetti non lo sono... o almeno alcuni. Voglio dire, c'è una realtà che viene accettata... e se ne percepisci un'altra, o credi in un'altra, sei pazzo. E non conta che tu l'abbia visto perché eri pieno di droga o perché è successo davvero. Sei egualmente pazzo, agli occhi del mondo». Guardò prima Steve, poi Chuck, quindi abbassò gli occhi sul bicchiere vuoto. «È più facile» mormorò. «È più facile se non cercate di lottare con il problema della nostra sanità mentale. O siamo pazzi... oppure non sappiamo più cosa significhi questa parola.» Non aggiunse altro. «Okay» ribatté Chuck. «Forse siamo pazzi... e forse Susie ha fatto davvero tutto quello che l'abbiamo vista fare. Non so bene quale delle due possibilità sia giusta. Ma se ha fatto quello che l'abbiamo vista fare... come ha potuto? Voglio dire, tanta gente ha osservato tante scimmie fare tante
cose, e non ho mai sentito parlare di una cosa simile. Se abbiamo visto quel che crediamo d'aver visto, deve esserci comunque una spiegazione logica. Non farà crollare tutto intorno a noi... più di quanto sia accaduto quando hanno scoperto che l'energia può venire trasformata in materia. Quarant'anni fa, nessuno l'avrebbe ritenuto possibile... ma quando ci fu la prova della trasformazione, non distrusse il resto delle nostre strutture. Dovemmo soltanto modificarle un po'.» «Non c'è confronto» obiettò Steve. «Se un fisico avesse tenuto una lezione completamente incomprensibile e poi ci avesse mostrato una macchina capace di fare quello che ha fatto Susie... non avremmo stentato ad accettarlo. Anche se non avessimo potuto capire la spiegazione, sapere che una spiegazione esisteva ci sarebbe bastato. Il problema è che non abbiamo una spiegazione di quello che abbiamo appena visto. Contraddice tutto quello che ci è stato insegnato, e tutto quello che ci hanno sempre detto i nostri sensi. Non riusciremo a inquadrarlo da nessuna parte. Se ci pensate bene, un aborigeno avrebbe più difficoltà ad affrontare New York di quante ne abbiamo avute noi con questa storia.» Il trauma si stava attenuando nella mente di Steve. A poco a poco, stava costruendo una rete di supporto per la sua realtà menomata. «Ma perché è accaduto adesso?» insistette Chuck. «Perché proprio a noi?» «È facile» rispose Sue. Anche nella sua mente aveva incominciato a formarsi un quadro, ma aveva paura del modo in cui avrebbe reagito Steve. A lui non sarebbe piaciuto. «Gliel'abbiamo insegnato noi. Steve, dicevi sempre che non avresti mai incominciato un esperimento rifiutando qualche particolare risultato, ma è esattamente quello che hai fatto. «Che cosa abbiamo fatto, durante quest'ultimo anno? Ci siamo posti questo interrogativo: "Che cosa succede quando insegni a una scimmia, fin dall'infanzia, che la realtà è diversa da quella che conosciamo noi? Che cosa succede, se convinci la scimmia che alcuni oggetti sono privi di sostanza, e che altri possono scomparire arbitrariamente?" Bene, abbiamo formulato l'interrogativo e abbiamo avuto la risposta. La realtà che è stata loro insegnata diventa la loro realtà. Non voglio sostenere che credono a ciò che è falso... voglio dire che quello che è vero per loro è diverso da quel che è vero per noi. A noi tutti è stata insegnata una realtà, perciò tutti noi ci crediamo, e per noi è reale. Il nostro esperimento non è mai stato compiuto, prima d'ora.» «Questo non è esatto» intervenne Chuck. «Nell'antichità, la gente crede-
va alle streghe, ai miracoli e roba del genere... e sembrava che ci fossero parecchi elementi di sostegno per queste convinzioni. Ogni volta che vengono screditate le guarigioni operate da ciarlatani e le storie sulle streghe e sui miracoli, sembra che i cosiddetti misteri smettano di verificarsi. Noi abbiamo presunto che non fossero mai accaduti, ma in realtà non lo sappiamo. Abbiamo semplicemente pensato che quanto ci è risultato vero, dopo la nostra nascita, fosse vero anche prima. Ma se ci pensate bene, è una spiegazione che lascia inspiegate moltissime storie. È che non abbiamo mai avuto niente altro da fare con i dati... e perciò ce la siamo scapolata.» «Ma anche così non quadra» ribatté Steve. «E la nostra realtà? Forse Susie si aspettava che l'orologio scomparisse e che l'arancio fosse immateriale... ma mi venga un accidente se ce l'aspettavamo noi. Noi ci aspettavamo che orologio e arancio fossero quello che per noi sono sempre stati. Come mai la realtà di Susie ha funzionato e la nostra no? Eravamo in tre, sapete.» «Questo non è giusto» rispose Sue. «Noi non abbiamo una presa tanto salda su una particolare realtà. Abbiamo accettato tutti la relatività e la teoria ondulatoria della materia. Steve, qualche minuto fa hai detto che se qualche scienziato avesse affermato che un fatto era ragionevole, non avresti faticato ad accettarlo. Beh, faresti una fatica d'inferno a convincere Susie. La gente rinuncia troppo facilmente alla sua realtà. «Noi tre stiamo già accettando quello che è accaduto. Non abbiamo fede nelle nostre realtà. Ma Susie non ha mai perduto la fede... perciò la sua era molto più forte. Non credo che abbiamo mai avuto molte possibilità contro di lei. È per questo che rinchiudono i pazzi. Lo scopo della terapia consiste nel convincere il paziente che la sua realtà non è reale. Quello che sto dicendo, lo sai, è più o meno esattamente quello che direbbe uno psichiatra. Lui si limiterebbe a insistere che la realtà vista dal pazzo non esisteva. Questa è l'unica differenza.» «Io direi che si tratta d'una differenza di poco conto» borbottò Steve. «Dunque, che cosa facciamo... mettiamo tutto per iscritto e lo presentiamo alla commissione? Quella differenza di poco conto potrebbe essere abbastanza rilevante per farci rinchiudere tutti per un bel pezzo. Noi possiamo essere convinti... ma ci sono alcuni miliardi di persone che non lo sarebbero.» «Non ne sono sicura» protestò Sue. «Credo che troverai appoggi molto più numerosi di quanti tu possa immaginare.» «Bene, io voglio ancora sapere cosa faremo, adesso.» Steve si sentiva un
po' meglio, ma il pensiero di dover tentare di convincere qualcun altro di quello che lui, Sue e Chuck credevano di aver visto accadere risuscitava tutte le sue paure e i suoi dubbi. «Convincere altra gente» disse Chuck. «Il professor Coleman è il preside della facoltà di psicologia. Parliamone con lui. Ma prima faremmo bene a mostrarglielo.» «Sì... senza dirgli quello che succederà» avvertì Sue. «Credo che lui sia sicuro della sua realtà più di tutti noi e Susie messi insieme. Se sapesse quello che noi ci aspettiamo, non sono sicuro che non riuscirebbe a impedirlo.» «E poi» disse Chuck, «mi sentirei meglio, se lo vedesse anche qualcun altro». «Non ho mai visto tre individui più nervosi e misteriosi.» Coleman era irritato e nel contempo incuriosito. «Ma è chiaro che avreste intenzione d'insistere, quindi vediamo di che cosa si tratta.» Steve aveva praticamente trascinato il piccolo e robusto Coleman fuori del suo ufficio, con grande sbalordimento dei collaboratori. Quando arrivarono in laboratorio, trovarono la porta socchiusa: e la gabbia di Susie era vuota. Un'intera sezione delle sbarre non c'era più. Coleman passò davanti a Steve per esaminare la gabbia. «Strano» borbottò. «Non sembra che il metallo sia stato tagliato. Non ci sono segni. Com'è successo?» Si rivolse a Steve. «Immagino non sia questo che intendeva mostrarmi.» Cominciarono a parlare tutti e tre insieme. Pochi minuti dopo, Coleman stava pensando seriamente a richiedere tre camicie di forza. Steve assunse il comando. «Quindi capisce, dottor Coleman? Susie deve aver fatto scomparire anche le sbarre» concluse. «Lo so che sarà difficile crederlo, ma...» La sirena dell'allarme antincendio l'interruppe. «Non ci sono esercitazioni in programma, per oggi» borbottò Coleman. Afferrò un telefono e chiamò il suo ufficio. «Non ne sanno niente» riferì. «Andiamo.» Scesero le scale per arrivare al pianterreno e si diressero verso l'uscita. Mentre passavano davanti a un corridoio, videro una folla raccolta in fondo. Qualcuno scorse il professor Coleman e lo chiamò. Il dottor Lewis Pearson, uno dei membri più giovani del corpo insegnante della facoltà di psicologia, agitò una mano, dal limitare della folla; era
chiaramente molto sconvolto. Coleman si avviò per il corridoio, allungando il passo. Steve, Sue e Chuck lo seguirono. La folla si aprì per lasciarli passare. Si trovarono a fissare il muro esterno dell'edificio. O meglio, attraverso il muro. Vi era stato aperto un cerchio di un metro di diametro, a una quindicina di centimetri dal pavimento. Era un foro perfetto, nettissimo, e ai quattro sembrò che avesse un'aria spiacevolmente familiare. Pearson stava parlando concitato a Coleman: «...e sembra che sia per questo che ha suonato l'allarme. Parla in modo del tutto coerente, ma si attiene alla sua versione. Dice che la scimmia si è coperta gli occhi, ed è apparso il foro. «Ho telefonato all'ospedale perché mandassero un'ambulanza, ma dobbiamo fare i conti con questa breccia pazzesca. La guardi. Gli orli sono netti. Com'è possibile che qualcuno abbia aperto un buco simile senza farsi notare?» Pearson guardò Coleman, in attesa di una risposta. «Dov'è la ragazza?» chiese Coleman. «Credo che farò meglio a parlare con lei.» «È nel suo ufficio... se ne stanno occupando le segretarie.» Senza aggiungere una parola, Coleman si incamminò verso il suo ufficio. Steve, Sue e Chuck continuarono a seguirlo. «Lei sa che quella ragazza ha detto la verità, no, Coleman?» disse Steve. «Dobbiamo riprendere Susie. Dio solo sa quel che può combinare, se si spaventa.» «Quando avrò bisogno del suo consiglio, glielo chiederò.» Coleman girò la testa per rispondere, senza fermarsi. «Se vuole occuparsi dei vigili del fuoco, della polizia e del resto... si accomodi. Ma per quanto riguarda quella povera donna, almeno per il momento, la responsabilità è mia.» Steve lo accompagnò in silenzio. Trovarono la ragazza seduta tra due segretarie che cercavano di confortarla, nell'ufficio di Coleman. Aveva le guance inondate di lacrime e l'aria spaventata. «L'ho visto, giuro che l'ho visto» disse. «Non sono pazza. Una scimmia ha fatto apparire il buco.» Coleman mandò via le altre donne. «Lo sappiamo» disse senza alzare la voce. «La scimmia è scappata da uno dei nostri laboratori, e la stiamo cercando. Sa da che parte è andata, dopo essere uscita?» Coleman aveva l'aria di credere solo parzialmente a quel che stava dicendo.
«Non mi prenda in giro» mormorò la ragazza. «L'ho visto, l'ho visto davvero...» Sue si fece avanti e passò un braccio intorno alle spalle della ragazza. «Il dottor Coleman non la prende in giro» disse. «Solo, stenta a credere a quel che è successo. E anch'io. Lei non è pazza. Per niente. Davvero.» La ragazza incominciò a piagnucolare sommessamente. «Andiamo» disse Coleman. «Possiamo lasciarla con le mie segretarie. Dobbiamo trovare quella vostra maledetta scimmia.» Arrivarono i camion dei vigili del fuoco. Coleman parlò con il comandante e chiese l'autorizzazione a usare la radio della sua macchina. «Voglio parlare con Heninger.» Coleman si stava mettendo in contatto con il capo della polizia. «Heninger? Sono il dottor Coleman, preside della facoltà di psicologia dell'università. Temo che avremo bisogno del suo aiuto.» «Quale sarebbe il problema?» Coleman esitò. Avrebbe dovuto scegliere con cura le parole. «Non posso spiegare tutti i particolari, purtroppo. Il progetto è segreto. Sicurezza governativa. Stiamo svolgendo alcuni esperimenti importantissimi con un gruppo di scimmie, e una è scappata. Abbiamo bisogno della sua collaborazione per trovarla e recuperarla.» «Ha provato con la società protettrice degli animali, dottor Coleman? Loro sono esp...» «Lei non capisce» scattò Coleman. «Stia a sentire, Heninger, la scimmia è pericolosa. Forse, in questo momento, è più pericolosa di qualunque altro essere vivente. Non saprei da che parte incominciare a spiegarle i danni che potrebbe causare, se non venisse ripresa. Questo è un caso d'emergenza, e molto serio. Avverta pure anche la società protettrice degli animali, ma abbiamo bisogno di tutti gli uomini di cui dispone lei.» Coleman fece una pausa di un secondo. «Mi assumerò tutte le responsabilità, se c'è qualche difficoltà a impegnare tanti uomini, ma abbiamo bisogno, letteralmente, di tutto quello che ha. La scimmia potrebbe annientare l'intera città!» Dalla radio giungevano le scariche sommesse dell'energia statica, e in sottofondo si sentiva il respiro di Heninger. «Pericolosa in che senso?» chiese finalmente il capo della polizia. «La scimmia ha qualche malattia contagiosa? Oppure...» Steve tolse il microfono dalle mani di Coleman e fece cenno agli altri di star zitti. Cominciò a parlare con voce profonda, cercando di ricordare le battute di un dramma dilettantistico in cui aveva recitato quando doveva
ancora laurearsi. Era un rischio, lo sapeva, ma era necessario. «Heninger. Stia zitto per un secondo. Sono il maggiore Pomeroy dell'esercito... ufficiale di collegamento della CIA per questa zona.» In parte ricordava le battute, ma per il resto improvvisava a meraviglia. La sua fiducia in se stesso crebbe. «Da questo momento, impongo il segreto più assoluto sull'intera faccenda, per motivi di sicurezza. È ufficiale. Non voglio che lei parli con i giornalisti o con altri di questa storia. Dica loro che sta cercando una scimmia scappata. Non dica una parola di più. Capito?» Heninger sembrava impressionato. «Sì, maggiore. Capisco.» «Bene. Queste linee di comunicazione sono sicure?» «Sicure, signore?» Heninger non aveva le idee molto chiare su quel che stava succedendo. «Sicure. Protette dalle interferenze. Oppure chiunque ha una radio può captare quello che diciamo?» Steve cominciava a divertirsi nel rivivere quella vecchia parte... le ultime battute uscivano di peso dalla commedia. «No, signore, non lo sono. Non siamo preparati per casi del genere.» Steve si rivolse a Coleman e parlò perché Heninger sentisse. «Bene, professore, gli dia tutte le istruzioni che può, ma si ricordi che le comunicazioni non sono sicure.» Restituì il microfono a Coleman e si lasciò sprofondare sul sedile. Era nel contempo euforico e spaventato, ma evidentemente il trucco era servito a qualcosa. Ascoltò Coleman. «Impegni tutti gli uomini che ha a disposizione. Dobbiamo ritrovarla, e in fretta.» Coleman indugiò un istante. «E stia a sentire, Capo, è una scimmia relativamente strana. Quando l'avrà presa, dia ordine ai suoi uomini di legarle le mani dietro la schiena.» Parlava lentamente. «E se sembra che stia per coprirsi gli occhi, le sparino... immediatamente. Sparare per ucciderla.» Distolse lo sguardo da Steve. La decisione spettava a lui, e l'aveva presa. Vi fu un silenzio, prima che Heninger chiedesse: «È tutto, dottor Coleman?». «Sì, è tutto quello che mi viene in mente, per ora.» Coleman sembrava esausto, e Steve si rese conto che era stato costretto a comportarsi in un modo contrario alla sua indole. «Mi terrò in contatto. Se potesse riferirmi dov'è stata eventualmente avvistata la scimmia, gliene sarei grato.» «Sta bene, signore. Darò subito l'allarme.» Dieci minuti dopo, la chiamata arrivò attraverso la radio del comandante dei vigili del fuoco. «Abbiamo appena ricevuto una segnalazione d'una
scimmia avvistata all'incrocio tra Morheim e Blake Street. L'Auto Diciassette si sta recando sul posto. La terremo informata.» «Bene» rispose Steve, per Coleman. «Andiamo anche noi.» Partirono. Sarebbero stati necessari parecchi minuti per arrivare a destinazione. Non erano ancora a metà quando Heninger richiamò. Era sconvolto. «Coleman, che razza di scimmia è?» «Quale sarebbe il problema, Heninger?» chiese Steve. «E come diavolo faccio a saperlo? Ha appena chiamato Nelson, dell'Auto Diciassette, e dà i numeri. Continua a ripetere che il suo collega è sparito mentre cercava di prendere la scimmia. Sto cercando di farmi dire dov'è andato, ma Nelson continua a ripetere che è scomparso e basta. Sembra impazzito, Coleman, e io voglio sapere che cosa sta succedendo.» Steve prese il microfono. «Heninger, qui è Pomeroy. Mi sembrava di averle detto che non si può discuterne su una linea non sicura. Si accontenti di pensare che quel che fa è giusto. Adesso ci stiamo avvicinando all'incrocio fra Morheim e Blake Street. Ha ricevuto altre segnalazioni?» «No» riferì cupamente Heninger. «Ma i miei uomini sono in fase di spiegamento. Se la scimmia continua a procedere nella direzione in cui è stata avvistata la prima volta, molto presto arriverà tra le montagne.» L'auto del comandante dei vigili del fuoco raggiunse l'incrocio fra Morheim e Blake Street mentre Nelson veniva preso a bordo di un'altra volante. Mentre lo portavano via, aveva l'aria completamente intontita. «Si direbbe che Susie abbia fatto la sua prima vittima» commentò Chuck. Nessuno rispose. «Coleman, mi sente?» era Heninger. «Sono qui. Cosa vuole?» «Abbiamo perso contatto con l'Auto Dodici. Abbiamo avvertito tutti i nostri uomini di tenere gli occhi aperti, caso mai la vedessero, e questo vale anche per voi. Quella scimmia potrebbe... Un momento.» Vi fu una pausa, mentre Heninger parlava con qualcun altro. «Coleman, hanno trovato l'auto all'incrocio tra Gasser e Blake Street.» Steve fece un gesto, e la macchina del comandante dei vigili del fuoco invertì la marcia e ridiscese Blake Street: mancavano cinque isolati per arrivare a Gasser Street. Heninger riferiva, a intermittenze. «È in mezzo alla strada... Gli uomini, a bordo, non si muovono... sembrano impietriti. Sto ricevendo queste informazioni dall'Auto Otto; stanno mandando un uomo all'Auto Dodici. Non può darmi un'idea di quello con cui abbiamo a che fare?» C'era una nota implorante,
nella voce di Heninger. Ma avevano raggiunto Gasser Street, e Steve scese dalla macchina, seguito da Chuck. Chuck fu il primo a rendersi conto di quello che era accaduto. «Gli ologrammi» mormorò. Il poliziotto aveva raggiunto in quel momento l'Auto Dodici. «Aspetti!» gridò Steve, ma era troppo tardi. L'uomo aveva allungato la destra verso la maniglia, ed era precipitato attraverso la portiera, i due passeggeri della macchina e il fondo, ed era caduto pesantemente sull'asfalto. Fece per rialzarsi, si accorse di essere inestricabilmente incastrato con il guidatore e svenne. Il suo collega, che aveva assistito alla scena dall'Auto Otto, cominciò a farfugliare con voce isterica nella radio. Steve afferrò il microfono della macchina del comandante dei vigili del fuoco e chiamò Heninger. «Mi ascolti, Heninger» disse. «Temo che la situazione ci stia sfuggendo di mano. Voglio cambiare i piani...» «Ha maledettamente ragione di dire che c'è sfuggita di mano!» urlò Heninger. «Ho appena ricevuto una telefonata dall'ufficio di Coleman. Parker, l'uomo scomparso dell'Auto Diciassette, è ricomparso in una delle gabbie delle scimmie di Coleman. È impazzito. Cosa sta succedendo, in nome di Dio? Ci sono otto chilometri dal punto dov'è scomparso...» «Heninger, stia zitto e ascolti» abbaiò Steve. «Faccia indietreggiare un po' i suoi uomini. Non voglio che cerchino di catturare la scimmia. Deve seguirla da lontano e tenerci informati sulla sua ubicazione. Cercheremo di prenderla noi.» «Per me va benissimo» ribatté Heninger. «Si sta dirigendo verso le montagne.» «Heninger, avremo bisogno di un megafono e di una ricetrasmittente portatile, quando raggiungeremo la scimmia» disse Steve. Esitò per un istante. «E di un fucile.» La macchina del comandante dei vigili del fuoco raggiunse Susie in una radura, poco oltre i confini della città. La scimmietta si stava dirigendo verso le montagne. Quattro auto della polizia erano ferme sul bordo del campo, a circa duecento metri da Susie. Gli agenti avevano captato notizie vaghe e illogiche sulla faccenda dell'Auto Dodici e non volevano aver niente a che fare con la scimmia. La polizia consegnò a Steve il megafono, la radio e la carabina. Lui non sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto, ma adesso la responsabilità era sua. Coleman era un eccellente amministra-
tore, ma Susie faceva parte del progetto di Steve, e avrebbe continuato a farne parte fino a quando la faccenda non si fosse risolta. In un modo o nell'altro, pensò Steve. Si avviò a passo rapido verso Susie. «Steve, aspettami» gridò Sue, rincorrendolo. «Vengo anch'io.» Steve disse: «No, tu non vieni. Innanzi tutto, dovrei preoccuparmi anche per te. E poi... due persone hanno maggiori probabilità di gettare Susie nel panico. Infine... mi costringeresti a rallentare. Non so a che velocità si muova lei.» Si rimise in cammino prima che Sue potesse ribattere, e Chuck la ricondusse alla macchina. Per circa un'ora, Steve si limitò a seguire Susie da una certa distanza. La scimmietta s'era accorta della sua presenza, ma non reagiva. Si muoveva lentamente. Non conosceva il mondo. Fino a quel giorno, aveva trascorso tutta la sua vita in una gabbia e adesso aveva tante cose cui abituarsi. Non avrebbe migliorato la situazione, pensò Steve, se l'avesse spaventata. La scimmietta sarebbe rimasta nervosa e sconvolta fino a quando avesse cominciato ad adattarsi al mondo. Aveva provato due volte a chiamarla con il megafono. Ogni volta, per tutta risposta, Susie aveva accelerato l'andatura. La seguì tra le montagne per un'altra ora, e poi riprovò con il megafono. «Susie, vieni qui, Susie. Sono io, Steve. Ho le noci per te.» Adesso erano sul ghiaione, e le dimensioni ridotte e l'agilità di Susie le davano un vantaggio enorme su Steve. Lui perdeva rapidamente terreno. Fu allora che si rese conto che avrebbe dovuto sparare. Finse di credere che avrebbe sparato per ferirla, ma era tutt'altro che un tiratore esperto, e la scimmietta era a una cinquantina di metri da lui. La carabina era molto più potente di quanto avesse previsto, e il colpo centrò i macigni sei metri al di là di Susie. Susie comprese al volo. Si girò di scatto, stridendo di rabbia, cercando Steve. Ma lui era dietro un grosso macigno coperto di licheni, fuori di vista. Poi si accorse che il pendio della montagna gli franava addosso. Era veramente spaventato, adesso, per la prima volta in vita sua. Non aveva mai pensato seriamente che in quell'avventura fosse in gioco la sua vita. Se avesse perduto, adesso, la conclusione della sua tesi sarebbe stata ancora più catastrofica di quello che era già accaduto. Si stava facendo buio, e né Steve né uno dei tiratori scelti ave-
vano ancora visto traccia di Susie. Il sole scendeva rapidamente. Tra quindici minuti sarebbe calato dietro le montagne, e sarebbe arrivato l'elicottero per evacuare l'area. Attraverso la radio, arrivò la voce di Sue. «Steve, non fare niente prima che io arrivi lì. Mi stanno portando in volo. Io posso fermare Susie. La situazione è cambiata.» Aveva la voce tesa. «Sarò lì tra cinque minuti. Di' a quelli dell'esercito di non sparare fino a che non avrò effettuato un tentativo.» La comunicazione venne interrotta, e Steve sentiva già l'elicottero che si avvicinava. Riferì il messaggio di Sue agli altri cacciatori mentre l'apparecchio compariva sopra il crinale. Dopo un altro minuto, stava librato a tre metri dal suolo: Sue scese la scaletta di corda. L'elicottero ripartì immediatamente, salendo a tutta velocità. Steve indicò l'area dove sapeva che doveva trovarsi Susie. «Sii prudente» mormorò. Sue si avviò verso la scimmietta nascosta. «Susie, Susie... tutto a posto, Susie. Vieni fuori, Susie... sono io.» Tese le mani. «Ho le noci per te.» Vi fu un leggero movimento una quindicina di metri più avanti sul ghiaione, alla sua destra. Sue arrivò a tre metri dal nascondiglio di Susie. Si fermò. «Brava, Susie, andrà tutto a posto, Susie. Ecco le noci.» Buttò le noci vicino al nascondiglio della scimmietta. Dopo un momento, Susie apparve. Cautamente, prese una noce e la mangiò. Sembrò calmarsi un po' quando vide che non c'era nessun altro, e cominciò ad arraffare le altre noci, tenendo d'occhio Sue. Lentamente, Sue alzò le mani dai fianchi alle labbra. «Addio, Susie. Forse c'incontreremo ancora» mormorò. E lentamente si coprì gli occhi. Susie sparì. MNARRA MOBILIS (Sydney J. Van Scyoc) In questa allucinante vicenda delle celebrazioni della vita, Sydney J. Van Scyoc formula difficili interrogativi sull'«ordine naturale». Ambientato su un mondo lontano, questo è un conflitto diverso, con una protagonista molto insolita.
I Quando il calore cominciò a involarsi verso l'alto, attraverso la roccia e il suolo, quando i ciuffi di foglie che aveva generato quella mattina la nutrirono di quantità sempre minori di energia solare, Mnarra comprese che si avvicinava la sera. Rallentando, fermandosi, richiamò a sé le sue braccia di plasma che erano fluite attraverso il suolo, precedendo il suo corpo. Reintegrata, dissolse il cavo teso di radici elastiche che la connettevano ai ciuffi di foglie, ormai situati due miglia a sud della sua posizione. Poi incominciò a generare un nuovo cavo di filamenti, verso l'alto. Quando i filamenti si separarono, vicino alla superficie, lei intessé nuovi ciuffi lucenti di foglie, facendoli torreggiare al di sopra della rada vegetazione primaverile, sul pendio della collina. Le foglie spiegarono le pagine verdecupe verso le lune. Lievi onde di energia solare riflessa raggiunsero Mnarra. Si raccolse in una sacca di calcare, per passare la notte. Era un essere senza tempo, che si muoveva solo, e le rocce, il suolo e l'acqua non l'ostacolavano. Si fermava soltanto la notte, e allora si placava con antiche coniugazioni elettrochimiche, vecchie come il tempo. Vecchie come il tempo di Mnarra. Molte ore dopo, i ciuffi di foglie l'avvertirono. La luce del sole ingrigiva l'oscurità. Tra poco sarebbe venuta l'alba, la celebrazione. Mnarra preparò i fiori scarlatti con cui salutava sempre il nuovo sole. Il sole sorse. Le foglie nuove trasmettevano a grande profondità la sua energia. Mnarra fremette, estatica. I suoi fiori si schiusero splendidamente, uno dal centro di ogni ciuffo, petali vellutati che si snodavano a spirale dai dolci occhi dorati. Mnarra ricominciò a muoversi. Verso nord, sempre verso nord, nei giorni di primavera. Il cavo elastico dei filamenti si allungò dietro di lei. I ciuffi di foglie la nutrivano generosamente. Sull'altro pendio, due miglia più a sud, i ciuffi di foglie che le erano serviti il giorno precedente avvizzirono. I fiori scarlatti che avevano celebrato l'alba precedente si afflosciarono e morirono. Ma non aveva importanza. Mnarra aveva creato. Mnarra aveva trovato nutrimento. Adesso Mnarra continuava il suo viaggio stagionale. Sempre così.
A bordo dell'unico hoverscooter della colonia, Brennan indugiò per qualche istante sulla cresta della collina. Sul versante occidentale, le erbe della Terra crescevano tenere e verdi. Ai piedi del pendio, sul limitare della pianura, New Powell era un insieme di cupole e di dormitori, ognuno con il suo ampio grembiule di prato. Poi, come raggi, i campi si allargavano dal limite della colonia. Il mais si estendeva verso ovest in un'ampia fascia. Fagioli, pomodori, melopoponi, barbabietole crescevano in prosperi filari. E intorno, a legare quei raggi, c'era un profondo arco di frumento. Lo sguardo di Brennan tornava continuamente sulla collina, verso le mucche Jersey che pascolavano. Erano stati dieci mesi operosi, dopo l'atterraggio. C'erano stati i campi da preparare, i rifugi da erigere; e poi c'era stata la mandria da incubare, dagli embrioni piccolissimi fino ai vitelli maturi per la nascita, e da curare scrupolosamente durante l'infanzia senza madre. Ma adesso la prima stagione delle colture era in corso con successo, e Brennan poteva indugiare lì, dimenticando che quello era un mondo alieno. Poteva immaginare, invece, che lui e i suoi compagni erano ritornati indietro nel tempo, in un'era in cui la sua Terra era un pianeta di colline ondulate e d'erbe fruscianti, in un tempo in cui il cielo era azzurro, attraversato da gonfie nubi bianche, come grandi dei smemorati alla deriva. Poteva indugiare lì e fingere che City-America non fosse mai dilagata sul continente nordamericano, che il cielo grigio e congestionato dallo sviluppo urbano totale fosse stato chissà come scacciato, e che i valori pastorali fossero stati conservati e tesaurizzati. E poi, poteva spingersi a nord dalla cresta della collina, e ritrovarsi di nuovo in un mondo alieno. Tese le spalle, quando lo fece. La vegetazione sotto di lui, adesso, non era molto diversa per forma da quella che avrebbe potuto trovare nei territori selvaggi americani qualche secolo prima. Le piante verdi strisciavano, si ergevano, si tendevano, alcune con foglie palmate, altre con foglie a ventaglio, ovali o rotonde. La differenza stava nel modo in cui reagivano alle stagioni. Brennan aveva girato una dozzina di volte sulle colline più vicine, nei mesi trascorsi dall'atterraggio. Nell'estate inoltrata, la vegetazione era verde e lussureggiante. In autunno era rimasta verde. Non era mai diventata bruna, nell'inverno. Poi, all'inizio della primavera, nonostante i frequenti acquazzoni, la vegetazione era intristita. Il verdescuro era divenuto pallido, addirittura giallo. Adesso, due settimane dopo l'ultima esplorazione di Brennan, si scorgevano ampie chiazze di terreno nudo. Brennan portò più in basso lo
scooter. Non aveva mai visto quelle piante mettere fiori e semi. E sembrava che non fossero in corso altri processi di rigenerazione. Riportò in alto lo scooter, sperando che, quando avesse attraversato le colline per dirigersi a nord, avrebbe trovato una scena diversa. Ma trovò lo stesso tappeto verdegiallo, rado e scoraggiante. Restò librato sopra le colline intristite, e provò un senso di turbamento. Forse era normale, in primavera. Forse non lo era. L'autunno precedente avevano sarchiato i campi e i pendii prescelti aspettandosi che la vegetazione indigena ricomparisse e che dovessero sradicarla di nuovo. Ma non era riapparsa. Brennan aggrottò la fronte, pensieroso. Il rapporto dell'esplorazione, certamente, non aveva detto loro molto della flora locale, a parte il fatto che quasi tutte le specie non erano commestibili, e molte erano velenose per gli animali a sangue caldo. La deduzione più logica, tenendo conto dei fenomeni osservati, era che la flora di quel mondo seguiva un ciclo stagionale completamente diverso da quello della vegetazione terrestre, che si riproduceva con metodi radicalmente differenti. Ma Brennan non era uscito con l'hoverscooter per contemplare le colline morenti. Quel giorno avrebbe compiuto la prima visita all'area dei crateri, qualche miglio più a nord della colonia. Riprese quota. In base al rapporto della squadra esplorazione aveva immaginato che vi fossero alcune dozzine di piccoli crateri poco profondi, del diametro di circa un metro e mezzo, sul braccio della pianura che si protendeva intorno alle colline, verso nord. Mezz'ora dopo attraversò l'ultima barricata di alture e trattenne il respiro, sbalordito. Sotto di lui stava un'immensa area di terreno completamente sfigurato da crateri del diametro d'una dozzina di metri e più... e profondi. Si intrecciavano formando un'assurda catena: alcuni avevano bordi netti e relativamente recenti, altri erano erosi, e quasi pieni di terriccio. Incredulo, guidò lo scooter per misurare quell'area. A mezzogiorno si posò su un pendio, smontò dallo scooter. I crateri occupavano una fascia di pianura larga tre miglia e profonda sette. Tutta la zona era crivellata, e i crateri si sovrapponevano ai crateri. Solo alcuni sembravano recenti: quasi tutti erano vecchissimi. Certuni s'erano colmati di terra, e solo leggere depressioni ne segnalavano la presenza. Altri ancora contenevano acqua. Le spalle di Brennan si tesero per la collera. L'Autorità Terrestre aveva permesso ai suoi di costruire le colonie e di dissodare i campi a dieci mi-
glia scarse da quella zona devastata... senza informarli della portata del fenomeno, senza tentare di scoprire le forze che avevano causato quei sommovimenti, senza neppure tracciare carte che mostrassero la distribuzione delle zone dei crateri su quel continente. Era uno dei pochi dati concreti che aveva scoperto nel rapporto: quell'area era una delle tante sparse sulla massa continentale. D'impulso, Brennan risalì a bordo dello scooter e decollò dal pendio. Si avvicinò al cratere più recente e manovrò per scendere all'interno. Cautamente, evitò le pareti ripide. Inclinò il veicolo per scrutare oltre l'orlo, sganciò la lampada a mano e diresse il raggio verso il basso. Sul fondo del cratere non vide altro che fango. Le meteoriti si seppellivano? Brennan aggrottò la fronte. E del resto, le meteoriti cadevano entro fasce geografiche nettamente definite? Risalì con lo scooter. Le meteoriti erano uno dei tanti argomenti che la superficiale istruzione impartita a City-America non affrontava. Ma se quei crateri non erano il risultato di piogge di meteoriti, quale altra spiegazione era plausibile? Depositi esplosivi di gas naturale? Se era così, cosa li aveva fatti esplodere? Ritornò a casa sorvolando la pianura, aggirando la linea dentellata delle colline. Si abbassò, scrutando cupamente il suolo. Non trovò tracce di altri crateri, al di fuori della zona devastata. Quindi, forse, non c'era pericolo per la colonia. Comunque, quella stessa settimana, ritornò sul posto a piedi, con un gruppo d'uomini. Si calarono nei quattro crateri più recenti, per dissotterrare i corpi rocciosi o metallici che potevano essere penetrati nel terreno con tanta forza. Non trovarono niente da disseppellire: riemersero a mani vuote. Mentre preparavano il materiale per tornare indietro, DiChiara, il vice di Brennan, grattò pensieroso il terreno scuro. «Non ci sono segni che questa sia una zona vulcanica.» Lo sguardo di Brennan deviò dalla pianura alle colline, dolci e sensuali nei contorni quasi carnosi. Sapeva fin troppo bene che i suoi occhi non erano esercitati. «Non vedo niente neppure io» disse, non molto convinto. «La settimana prossima prenderò lo scooter e andrò a sud, in ricognizione.» DiChiara lo fissò. «Credi che ci troverai un'altra zona di crateri?» «Non so che cosa troverò.» DiChiara si erse in tutta la sua statura. «Forse potrei venire anch'io.»
Brennan non disse né sì né no. «Può darsi, Dick.» Si issò il badile sulla schiena. La spedizione non aveva dato risultati. La sua inquietudine era ancora più intensa. Ci sarebbe dovuto essere qualcosa, sul fondo dei crateri. Mlondas scendeva a maggiori profondità, quand'era freddo, tendendo il cavo di filamenti di radici che lo collegavano ai suoi ciuffi di foglie. Ma nelle giornate calde si portava vicino alla superficie, in un sottile strato di plasma che ondulava attraverso lo strato superiore di terriccio, non ostacolato da radici e da nodi. Adesso era primavera, e le radici diventavano flaccide. Ma Mlondas non si rammaricava per la coltre di vegetazione che avvizziva lassù. Nei punti dove si diradava, il suolo restava spoglio e il calore del sole si insinuava con dita amiche. Ben presto l'intensità del calore gli disse che il sole era allo zenit. Si soffermò per estendersi, in uno strato dello spessore d'una molecola, nel centimetro superiore del terriccio. L'alba era la celebrazione, l'occasione per creare grandi fiori bianchi e cerei, per annunciare la sua estasi formale. Ma il meriggio gli era ancora più caro. Si crogiolò nel calore, beatamente. Il tempo passò e Mlondas si raccolse, fluì in uno strato più profondo e continuò ad avanzare. Non c'erano molti minuti per indugiare. Mlondas, che era un essere antico, viaggiava lentamente. Viaggiava lentamente, viaggiava verso sud, in primavera. Sempre. Volavano a una trentina di metri dalla pianura, Brennan e DiChiara. Brennan scrutava intento il terreno, cercando di mascherare l'irritazione. Aveva sperato di compiere da solo l'esplorazione. Ma DiChiara aveva insistito per farsi prendere a bordo. Adesso DiChiara chiacchierava, mentre volavano verso sud. «Ti sei mai chiesto perché i latini sono diventati una razza incostante e loquace, mentre i nordeuropei sono tipicamente repressi e distaccati?» «No» ammise Brennan, poco incoraggiante. «Beh, confronta i climi in cui si sono evoluti. I latini non hanno mai dovuto contenersi. Potevano espandersi all'aperto... per tutto l'anno. Ma gli scandinavi dovevano rimanere chiusi, insieme, per mesi interi, circondati dagli elementi ostili. Non avevano altro modo per sottrarsi l'uno all'altro se
non chiudendosi in se stessi. Se si fossero permessi di esprimere ogni emozione, come i latini, se... ecco, prendi quella zuffa al dormitorio tra Swenson e Diaz, l'inverno scorso, durante le piogge. Swen aveva semplicemente reagito...» Le mani di Brennan si contrassero sui comandi. Dunque, ecco che si riparlava di Swenson. «Swenson ha l'autorizzazione a costruirsi un rifugio individuale in qualunque posto, entro i confini della colonia. Gliel'ho data diversi mesi fa.» DiChiara annuì. «Sicuro. Sicuro. Ma Swen vuole piazzarsi dall'altra parte dei campi. È di ceppo svedese. Vuole l'intimità. Pensa che il mese prossimo, quando avrà sposato Tilla...» «No. È una questione di principio, Dick... fino al ritorno della nave, vivremo come un'unità. Ci sono sei casette per le coppie, e Swen e Tilla possono sceglierne una, se non vogliono costruire.» DiChiara si mosse, scontento. «Stai a sentire, Bren, qui non siamo a City-America. Questa gente è venuta qui per essere libera... e tu amministri New Powell come un caseggiato urbano della Terra.» Brennan sbirciò DiChiara. Sorrise, torvo. Ricordava la sua infanzia, ricordava un pallido dito di sole che scendeva sull'area dei giochi in fondo al canyon di lastre di cemento, ricordava di essersi battuto rabbiosamente per conquistarlo. Levò la testa verso il sole fulgido. «Amministro New Powell come un distaccamento su un mondo di cui sappiamo pochissimo. Nei prossimi quattro anni, impareremo. Poi potremo disperderci e godere di tutta la libertà che vorremo.» «Per amor di Dio, Bren! Cosa c'è da imparare? Qui non c'è fauna. Neppure insetti. Questo l'ha accertato la nave che è venuta in ricognizione. Quindi, se Swen e Tilla dissodano un campo e vi piantano erbe della Terra, cintano l'area dopo aver avuto figli, e vengono tutti i giorni nei campi come tutti gli altri...» Brennan scosse la testa. «Non insistere, Dick.» New Powell, come tutte le colonie sponsorizzate dall'Autorità Terrestre, era stata fornita di equipaggiamento, viveri, provviste e semi per assicurare la sopravvivenza durante i primi cinque anni della colonia. Allo scadere del termine, la nave sarebbe ritornata. Se fossero riusciti a far fruttificare il pianeta, sarebbe stato loro. Ma se non ci fossero riusciti, sarebbero stati riportati a CityAmerica, in coda all'elenco degli aspiranti alla colonizzazione planetaria... quelli di loro che avrebbero deciso di ritentare. Brennan si rendeva conto che la sua preparazione come capo della colo-
nia era stata superficiale come la sua precedente istruzione a City-America. Ma aveva afferrato saldamente un principio. Non erano sempre i mondi difficili, i mondi più duri, a sconfiggere i coloni. Qualche volta erano i mondi lussureggianti. I mondi troppo facili. E quello poteva esserlo. I coloni non dovevano affrontare anomalie del terreno o del clima. Non c'erano animali ostili. Il cielo era luminoso, l'aria fragrante. I campi prosperavano, i giovani animali della mandria crescevano bene. Ma Brennan non voleva che la sua gente si rilassasse e si godesse la vita, prima che avessero superato la prova dei primi cinque anni. Proseguirono attraverso la pianura in un silenzio teso. Cinque miglia a sud di New Powell, Brennan cominciò a zigzagare, tagliando ampie fasce attraverso il terreno verdegiallo. Dieci miglia più a sud, DiChiara riprese a parlare. «Hai mai pensato a quello che succederà se tutte queste piante muoiono e il terreno resta nudo quando vengono le piogge?» «Ci ho pensato. Ma le grandi piogge non dovrebbero venire prima della fine dell'autunno. Sono sicuro che prima di allora la coltre della vegetazione si sarà rigenerata.» DiChiara scrollò le spalle. «Nan Perry ha proposto di seminare subito le colline. Per prudenza.» Brennan inarcò le sopracciglia. «Oh?» «Abbiamo abbastanza sementi d'erba da coprire una dozzina delle colline più vicine. Metterebbero radici e tratterrebbero la terra. Fra un mese potrebbe essere troppo tardi.» Brennan scosse il capo. «No, non possiamo seminare tanto lontano, fino a quando non avremo avuto più tempo per valutare il ciclo della vita locale.» «Beh, sarà la fine del nostro ciclo di vita se le colline franeranno e verremo inondati dal fango.» Brennan sospirò. «Stai a sentire, Dick, niente indica che quelle colline siano mai franate. Siamo arrivati alla fine dell'estate e la vegetazione era fitta. Di qui all'estate inoltrata, quest'anno, succederà qualcosa. Il terreno si ricoprirà di vegetazione.» DiChiara scrutò cupamente Brennan. «Forse dovresti mettere in cornice questa convinzione ed esporla alla prossima riunione della comunità. Io ho sentito certe cose che tu non sai.» Brennan aggrottò la fronte. «Davvero?» «Certuni dei nostri pensano che abbiamo ucciso questo mondo.»
Le sopracciglia di Brennan s'inarcarono, sottolineando la sua aperta incredulità. «Bene, guardati intorno. È primavera... e tutto sta morendo. Tutto, tranne le nostre colture. Twan Yano dice che abbiamo trafitto la carne, e la bestia perisce. Nan Perry dice che abbiamo già distrutto l'ecologia del pianeta piantando sementi aliene. Nick Sorenson ritiene che abbiamo introdotto un elemento nuovo, un elemento che prima qui non esisteva e che adesso ha avvelenato tutta la flora. Kerri Rice dice...» S'interruppe. Brennan fece virare bruscamente lo scooter, fissando attento il suolo. Descrivendo un ampio arco, fece scendere il veicolo. «Bene, guarda là!» DiChiara guardò, aggrappandosi alla sbarra di sostegno per il passeggero. La sua voce si spense in un silenzio assai poco latino. Brennan smontò. Ai suoi piedi, dal suolo spuntava un ampio tratto di fogliame verdescuro. Le foglie crescevano a ciuffi, dozzine di ciuffi, giovani e aggressive. Ogni ciuffo era coronato da un fiore scarlatto: i petali delicati si snodavano elegantemente a cavatappi da un centro dorato. Di colpo, DiChiara diventò raggiante: il suo viso scuro si trasfigurò. «Ehi! È primavera, Brennie! Ci sono i fiori!» Rise. «Ehi, credi che...» «Credo che faremmo bene a lasciare i fiori dove sono.» «E a portare qui la gente, invece. Portarli qui a due a due. Prima Yano e Nan Perry. Poi Sorenson e Rice. Schroeder e la Vincinzi. Poi...» Brennan scosse la testa. «No. Anche a due per volta, sarebbero settantacinque viaggi. Credo che potremo dare vacanza a tutti quelli che se la sentono di venire fin qui a piedi.» «Uhm.» DiChiara considerò la proposta, e annuì energicamente. «Sicuro. Basterà portare qui lo scooter con le provviste per il picnic. Facciamo un giorno di festa, una festa come si deve. La festa di primavera.» Brennan era meno entusiasta delle feste che della realtà. Si chinò, toccò una foglia lucida, la girò, la esaminò. «Non avevo mai visto questa pianta» disse, serio in volto. «Davvero? Beh, tante piante spuntano soltanto in certe stagioni, non è vero?» «Molte piante, piante terrestri, fioriscono solo in certe stagioni. Di solito, il fogliame è ben visibile per periodi più lunghi.» Brennan si fermò, scrutando la pianura con occhi aggrondati. Risalì sullo scooter. «Vediamo se ne troviamo altri.» A bordo dell'hoverscooter, descrissero una serie di semicerchi sempre
più ampi. Alcuni minuti dopo, scorsero la seconda chiazza. Si avvicinarono. Atterrarono. E rimasero lì, senza dir nulla. La seconda area di fogliame si trovava due miglia più a sud della prima. E stava morendo. DiChiara si volse, inquieto, a guardare nella direzione della prima macchia di fogliame. «Beh, non possiamo sapere da quanto tempo fossero spuntate queste piante» disse. «Chissà? Potrebbe essere una specie che vive solo una settimana o due.» «Può darsi.» DiChiara girò intorno alla vegetazione morente. «O forse c'è scarsità d'acqua? Ci sono stati acquazzoni, da noi, ma forse qui...» Scrollò le spalle, offrendo quella teoria con riluttanza. Brennan la respinse. «L'altra vegetazione è a sole due miglia da qui. Non sembrava disidratata.» «Uhm.» DiChiara si rianimò. «Beh, forse se facciamo un altro salto ne troveremo ancora. In condizioni migliori.» Brennan si mordicchiò le labbra. «Buona idea.» Partirono. La terza macchia di ciuffi di foglie era circa tre miglia più a sud. Non stava morendo. Era morta. «Credo che faremmo bene a portare qui la squadra agraria prima di informare gli altri dell'esistenza di queste piante» disse Brennan, dopo che ebbero girato intorno alla vegetazione brunita e toccato i fiori caduti. DiChiara annuì. «Rovineremmo il morale di tutti, se lo sapessero. L'unica cosa che cresce... e muore non appena spunta.» «Non è detto che sia un fatto significativo, Dick. Non possiamo pretendere che la flora segua lo stesso ritmo stagionale che ci aspetteremmo sul nostro mondo.» Belle parole. Parole ragionevoli. Ma i sentimenti di Brennan, mentre guidava l'hoverscooter verso New Powell, non erano dello stesso ordine. «Almeno non abbiamo avvistato un'altra zona di crateri proprio dietro casa nostra» commentò DiChiara. II I sentimenti di Brennan diventarono ancora più confusi due giorni dopo, quando lui e DiChiara condussero a piedi la squadra agraria attraverso la
pianura, aspettandosi di trovare i fiori dieci miglia a sud di New Powell. Li trovarono sei miglia a sud, invece, freschi e vigorosi, schiusi nel sole di metà mattina. DiChiara consultò il suo pedometro ed effettuò rilevamenti a vista. Poi borbottò: «Non è qui che avevamo lasciato i nostri amici fronzuti. Vero, Bren?». Brennan stava girando intorno ai ciuffi di foglie, misurando le dimensioni della vegetazione. «Non è la stessa macchia. È più rettangolare. E un po' più piccola.» DiChiara si accovacciò, toccò la punta di una foglia. Si rivolse a Schroeder, capo agrotecnico di New Powell. «Bene, tu che cosa ne pensi, Schroeder?» Le labbra storte di Schroeder si aggricciarono. «Che cosa ne penso?» Esaminò superficialmente i ciuffi di foglie. «È una macchia di qualcosa. Cresce dal terreno. Penso che viva qui.» DiChiara restò immobile, imbarazzato. Brennan sorrise a denti stretti. Dato che le loro colture prosperavano, Schroeder e la Vincinzi erano baldanzosi. La camminata attraverso la pianura s'era trasformata in una gara: la squadra degli agrotecnici cercava di battere la squadra del comando. «Mi pare, Dick, che la cosa più opportuna sarebbe confrontare una macchia sana con una malsana... e decidere che cosa ha causato la differenza.» DiChiara si passò la mano tra i capelli scuri. «Ma la macchia sana che avevamo in mente noi è quattro miglia più avanti. E quella malsana è due miglia oltre quella.» «E voi non ce la fate ad arrivarci, ragazzi?» insinuò Schroeder. La squadra del comando poteva farcela. O avrebbe potuto farcela. Ma a meno di due miglia dalla nuova macchia di ciuffi di foglie, ne incontrarono una seconda, morente. E dopo altre due miglia, raggiunsero una macchia già morta. «È quella che abbiamo osservato l'altro giorno» disse DiChiara, scuotendo la testa. «Era nelle stesse condizioni in cui adesso è la prima. E quella dopo, due miglia più oltre, era nelle stesse condizioni di quella che abbiamo trovato oggi, due miglia più avanti. E dopo altre due miglia...» Schroeder gemette. «Dopo altre due miglia», insistette cocciuto DiChiara, «c'era una macchia morta. Morta come questa». La Vincinzi estrasse dalla tasca un taccuino. «Dick, te la senti di descri-
vere tutto daccapo e di lasciare che io faccia uno schizzo?» «Non credo proprio che sia in grado di ripetere tutto quanto» disse Schroeder. Ma DiChiara ce la fece. E poi si radunarono intorno alla Vincinzi, e studiarono il diagramma. «Potrebbe essere significativo il fatto che tutte queste chiazze di vegetazione siano allineate da nord a sud» disse quella, in tono pensieroso, mordicchiando l'estremità della matita. «E c'è una sequenza nord-sud anche negli stadi vitali.» DiChiara annuì. «La macchia più fresca è sempre più a nord, quella che avvizzisce è in mezzo, quella morta è a sud.» «E questo che cosa prova?» domandò Schroeder. La Vincinzi stava scrupolosamente aggiungendo dettagli al suo schizzo per indicare gli stadi di vita progressivi. «Pensi che possiamo dissotterrare qualcuno dei ciuffi avvizziti?» chiese a Brennan. Brennan scrollò le spalle. «Non credo che causeremo danni. E tu potresti scoprire qualcosa dalle radici.» Scoprirono che i ciuffi non avevano radici. Gli steli penetravano nel suolo per diversi centimetri. Poi non c'era più niente. Deposero i ciuffi sul terreno e li fissarono, sconcertati. «Cos'è che fa vivere queste maledette piante?» ringhiò Schroeder, finalmente interessato. DiChiara sogghignò: «Non c'è niente che le faccia vivere. Sono morte.» Schroeder si oscurò, e sferrò un calcio al mucchio. «D'accordo, torniamo verso nord e preleviamo campioni dalle altre due macchie.» La macchia di mezzo, morente, era priva di radici come l'altra. Il ciuffo prescelto della macchia più a nord, invece, resistette ai loro tentativi di svellerlo dal suolo. Quando ebbero scavato a una profondità di sessanta centimetri, spalarono via la terra dall'area sotto la base dello stelo della pianta. Dallo stelo partiva un unico filamento, sottile e robusto. La Vincinzi scostò il terriccio dal filamento e lo toccò, impacciata, con l'indice. Poi alzò gli occhi verso i tre uomini. «È duro. E cresce verso la parte centrale. Non riusciremo a seguirlo senza sradicare altre piante.» «Come si può sradicare una pianta che non ha radici?» chiese incupito Schroeder. «Forse c'è una grande radice comune» osservò la Vincinzi, rialzandosi. «Verso il centro del ciuffo.» Brennan si accosciò, esaminò il robusto filamento. Scosse la testa. «Non vorremo certo scavare più all'interno della macchia. Però potremmo guar-
dare ancora un po' intorno ai bordi.» E lo fecero. Tutti i filamenti crescevano in direzione del centro della macchia. «E va bene» disse Schroeder in tono vendicativo, quando finalmente si scostarono dalla chiazza verde. «Marciamo di nuovo verso sud per due miglia, figlioli, e dissotterriamo l'intera macchia. Scaveremo fino a una profondità d'un metro e mezzo, di tre metri, se è necessario, per trovare la radice centrale. Perché ci tengo a vederla.» Si caricò il badile sulla spalla. «Obiezioni, Brennan?» Brennan scrutò verso sud e socchiuse le palpebre, pensieroso. La macchia, là, era indiscutibilmente moribonda. «Nessuna obiezione.» Questa volta la marcia verso sud venne compiuta in silenzio. Quando raggiunsero la macchia di vegetazione morente, si misero al lavoro con ostinazione, scavando, ammucchiando da una parte i ciuffi di foglie avvizziti sugli steli flaccidi. Scavarono fino a una profondità di un metro e mezzo. Intorno a loro scese il crepuscolo. Scavarono per un'altra trentina di centimetri. Poi mangiarono, depressi. «Beh, non saprei» disse alla fine Schroeder. «Dovrebbe esserci qualche cosa là sotto... da qualche parte.» «Forse, se continuiamo a scavare» propose DiChiara, incerto. «Sicuro, sicuro» disse disgustato Schroeder. «Perché non chiamiamo qui tutti i coloni e non facciamo scavare l'intera pianura? Se non troveremo niente... almeno potremo piantumare l'area prima dell'autunno.» Era buio quando incominciarono il viaggio di ritorno attraverso la pianura. Le due lune, lassù, erano oro e grigio contro il cielo scuro. In lontananza, si scorgeva la luce fragile di New Powell. Ben presto scorsero anche qualcosa d'altro. A quattro miglia da New Powell cresceva una macchia di ciuffi di foglie completamente nuova: sorgeva dal suolo verde e vigorosa. La Vincinzi la prese con calma, Schroeder diventò d'umor nero, Brennan non disse nulla. DiChiara si lasciò prendere dall'isteria. Quando si fu calmato, la Vincinzi disse: «Sapete, credo che queste piante vadano a nord per l'estate. Credo che stiano migrando». Brennan annuì, riconoscendo l'inevitabilità della conclusione. «Penso che abbia ragione tu, Vin.» «Io penso che nessuno ci crederà, se racconteremo come abbiamo passato la giornata» gemette Schroeder. DiChiara si rialzò in piedi. «Beh, io so come passerò il resto della notte.
Vado a letto.» Si avviò, barcollando un poco, verso New Powell. La notte era inquieta. Lassù accadevano strane cose. Il suolo era scosso in modo sconvolgente. Mnarra rabbrividì e si rintanò a profondità maggiore, tendendo i nuovi filamenti delle radici. Si raggomitolò, incerta. Più tardi, rifluì cautamente verso gli strati superiori del suolo. La perturbazione era passata. Per un po' rimase vigile, pronta a ritirarsi. Finalmente si rilassò e si cullò con le coniugazioni della notte. I suoi nuovi ciuffi di foglie captarono i dolci raggi lunari, argentei e aurei, e le trasmisero quel nutrimento luminoso, mentre lei sognava. Era metà mattina quando la Vincinzi entrò nella cupola del capocolonia. Esitò, incerta, sulla soglia dell'ufficio di Brennan. «Sono piuttosto inquieta, Bren. C'è qualcosa che avremmo dovuto capire ieri sera, quando abbiamo pensato che quelle piante migrano.» Brennan annuì, indicando le carte che stavano sulla sua scrivania. «Ci stavo appunto arrivando.» «Oh?» Sorpresa, lei si chinò, studiò la mappa rudimentale che Brennan aveva disegnato. «Devono spuntare all'estremità meridionale del pascolo delle mucche domani notte, se continuano nella stessa direzione e con lo stesso ritmo» disse lui. «Che poi spuntino appena all'interno o appena all'esterno della recinzione dipende dalla precisione con cui si conformano alla distanza media di due miglia al giorno.» «Sì, anch'io avevo fatto lo stesso calcolo.» «Ne hai parlato con qualcuno?» La Vincinzi scosse la testa. «Neppure con Schroeder. Non possiamo permettere che il bestiame si avvicini a quelle foglie. Ti pare?» «Non possiamo.» Brennan batté l'indice sul microvisore. «Ho ricontrollato le schede della flora, questa notte. La squadra d'esplorazione aveva analizzato soltanto le specie più comuni. E questa non figura. Ma le specie locali sono quasi sempre velenose.» «Se appare soltanto in questa stagione e solo in macchie isolate, può darsi che la squadra d'esplorazione non l'avesse neppure vista.» La Vincinzi aggrottò la fronte, pensierosa. «Non abbiamo neppure un posto dove sistemare temporaneamente il bestiame, vero?» «Oggi inscatoliamo i fagioli nella stalla delle mucche.» Le strutture chiuse che avevano ospitato il bestiame durante l'inverno precedente erano
state smontate, e gli elementi erano stati riutilizzati per costruire un riparo aperto nel pascolo e capannoni per la lavorazione dei prodotti agricoli vicino ai campi. Brennan richiamò di nuovo l'attenzione della Vincinzi sulla mappa. «Il pascolo è lungo cinque miglia, tra le parti collinose e la parte in pianura che si estende dietro New Powell. Le piante, qualunque cosa siano, dovrebbero spuntare due volte entro l'area recintata.» «Non abbiamo materiale per erigere una staccionata intorno al fogliame, appena comparirà?» chiese la Vincinzi. «Sì, lo abbiamo. Ma noi stiamo bonificando questa terra, Vin. Solo questa piccola zona, per ora. Abbiamo un mezzo continente a est e un mezzo continente a ovest. Voglio che quell'aiuola impari a girarci intorno.» La Vincinzi sorrise fiaccamente a quell'immagine. «Non credo che nessuno dei nostri abbia mai addestrato un'aiuola, Bren.» «È una capacità che molti abitanti di City-America hanno trascurato di sviluppare» riconobbe seccamente Brennan. «Ecco la mia idea. Domani smonteremo il riparo delle mucche, nel pascolo. Verso mezzogiorno, organizzeremo turni di guardia nell'area dove prevediamo che spuntino le piante. Non appena compariranno, le copriremo con le lamiere del tetto dei ripari. È materiale solido. Dovrebbe bastare a tenerle. Poi monteremo una recinzione intorno alla macchia, per qualche giorno. Dopodomani metteremo guardie in tutto il pascolo, perché dopo che avremo alterato il ritmo, non potremo sapere quando o dove riapparirà altro fogliame. Quando si riaffaccerà, seguiremo la stessa procedura.» «In altre parole, soffocheremo le piante?» «Mi auguro che non succeda proprio questo. Secondo la mia mappa, passeranno attraverso la metà occidentale del pascolo. Mi riterrò soddisfatto se riusciremo a farle deviare verso l'altra parte della recinzione e a tenerle là.» La Vincinzi era preoccupata. «Può darsi che questa specie non abbia mobilità laterale, vedi. Ho pensato che forse c'è una radice profondissima, che si estende per miglia e miglia, e il fogliame e i fiori spuntano a intervalli. E immagino che sia a una profondità molto maggiore di quella che abbiamo scavato ieri sera.» «Bene, se è così, forse potremo insegnarle a non spuntare lungo l'intervallo che include le nostre terre.» «Può darsi. Ma non mi sembra coerente con il modo con cui abbiamo trattato la pianta, ieri. Allora ci siamo preoccupati di non interferire.» «Ma è stato prima che ci accorgessimo che stava per attraversare il pa-
scolo delle nostre mucche. Non sarei tanto gentile con nessun'altra specie indigena che comparisse entro il nostro territorio.» La Vincinzi non era del tutto soddisfatta di quel piano. Ma non era in grado di proporre un'alternativa. «Dovremo parlare agli altri della pianta, no?» «Indirò una riunione della comunità per questa sera.» Non era mai accaduto, prima. Al cader della notte Mnarra si fermò, si raccolse e generò il nuovo cavo di filamenti. I filamenti si separarono e raggiunsero il giusto livello. Poi lei cominciò a far spuntare nuovi ciuffi di foglie. Si accorse che non salivano come dovevano. Si accorse che erano bloccati, in qualche modo. E mentre avrebbero dovuto esserci ondate di luce lunare che affluivano fino a lei attraverso i filamenti delle radici, non c'erano. Neppure una. Non era mai accaduto, prima. Turbata, cercò di seguire lo schema notturno che aveva stabilito nel corso dei secoli. Ma le sognanti coniugazioni elettrochimiche non l'acquietarono, non la calmarono. C'era qualcosa che non andava, lassù: qualcosa di grave. Finalmente, raggiunse uno stato di semicoscienza. Riposò. Con spaventosa subitaneità si accorse che il suolo intorno a lei era caldo, quasi come al meriggio. Prontamente rabbrividì, ritrovò la coscienza totale e si stese, espandendosi in uno strato sottile. Era vero. Il sole era sorto da molto tempo. Ma le sue foglie non le avevano trasmesso il messaggio della luce dell'alba. E lei non aveva creato fiori per la celebrazione. Non era mai accaduto, prima. Salì attraverso il terreno, fino a librarsi entro il centimetro dello strato superiore. Poteva sentire gli steli dei suoi ciuffi di foglie. Non erano come dovevano essere. Erano premuti dall'alto in basso, attraverso il suolo, schiacciati molto più giù del normale. Ed erano flaccidi. Non osò penetrare nell'aria, lassù, per scoprire le cause. Sarebbe stato assurdo. Invece, tornò a sprofondare, si raccolse in una formazione globulare e rifletté. Non sentiva dolorosamente la mancanza dell'energia solare che i ciuffi di foglie avrebbero dovuto inviarle. Almeno per quel giorno. Nel suo plasma c'erano elementi che potevano venire ritrasformati in energia senza
particolari difficoltà. Ma Mnarra non era un essere formato di materia illimitata. Certi limiti li aveva. Poteva soltanto avanzare e sperare che la macchia di fogliame dell'indomani non avrebbe incontrato ostacoli. Non sarebbe andata molto avanti, innanzi tutto perché metà della giornata era già trascorsa, in secondo luogo perché non voleva sprecare l'energia. Sarebbe avanzata per un breve tratto e poi si sarebbe riposata. E avrebbe creato nuovi filamenti di radici, nuove foglie. Lo fece. E non servì a nulla. Non servì a nulla neppure il giorno dopo. Finalmente, comprese che avrebbe dovuto compiere un passo decisivo. Avrebbe dovuto deviare. Avrebbe dovuto abbandonare il suo meridiano e stabilire una rotta aliena. Era primavera, ma Mnarra avrebbe viaggiato per un giorno, due se necessario, verso ovest. Perché stava scoprendo qualcosa che non aveva mai sospettato. I ciuffi di foglie le avevano dato più dell'energia. Le avevano dato lo stimolo che era necessario al suo benessere, alla sua volontà di vivere. Adesso sapeva qualcosa che nessun essere della sua razza aveva mai saputo. «Bene, c'è voluto un po', ma eccola là» disse trionfante DiChiara, la sera in cui i ciuffi di foglie finirono di crescere precipitosamente al limitare del prato comune di New Powell. Brennan annuì. La sua strategia era risultata efficace, anche se lui aveva avuto molti dubbi. Studiò le strane piante ai suoi piedi. La macchia era più piccola di quelle che aveva visto sulla pianura. Ma il fogliame sembrava sano. Girò lo sguardo sui membri della comunità raccolti intorno a lui. Tutti mostravano un interesse avido. «E adesso, dove fiorirà?» «Non ne ho idea» ammise Brennan. «Forse qualcuno resterà a vegliare stanotte, per scoprirlo.» «Ah! So che trentadue di noi hanno intenzione di aspettare tutta la notte.» «Bene, buona veglia floreale. Io ho intenzione di andare a letto. Domani dovremo ricominciare a pensare alla pianta.» «Davvero?» DiChiara era sorpreso.
«Davvero. Oggi si è spostata quasi esattamente verso ovest» osservò Brennan. «Se domani torna a dirigersi verso nord, potremo lasciarla fare. Ma se si sposta verso est, affiorerà in mezzo ai campi.» «Uh, oh.» DiChiara lanciò un'occhiata ai campi. «Ma non può causare danni gravi al granturco o al frumento, Bren. Voglio dire, la macchia ha un diametro che non arriva ai quattro metri.» «Le macchie sulla pianura avevano un diametro superiore ai sette. Potrebbe darsi che domani e dopodomani si estenda su un'area più vasta, per compensare gli ultimi giorni.» «Oh? Allora credi alla teoria di Schroeder? Credi che la radice a crescita laterale scenda a una profondità di sei metri?» Brennan scosse la testa. «Non ho ancora una teoria accettabile. Ma mi sembra che questa specie presenti interessanti qualità di adattamento. Forse una parte dell'adattamento alle condizioni insolite che le abbiamo imposte frenerà la crescita per qualche giorno... e poi la amplierà.» «Uhm. E allora cosa faremo, se cercherà di invadere il frumento?» Brennan scosse la testa, stancamente. «Non lo so. Vorrei dormire sopra al problema.» Ci dormì sopra. Ma si svegliò poco dopo l'alba, solleticato dalla curiosità. Un quarto d'ora dopo si avviò verso il sito della pianta. Dopo un'altra mezz'ora lo raggiunse. La voce della Vincinzi era sommessa. «È fiorita al levar del sole, Bren. È stata l'esperienza più commovente che abbia mai fatta. I fiori sono spuntati sugli steli e si sono schiusi mentre il sole sorgeva dalla collina. Era come un saluto. Un saluto all'aurora.» Brennan girò lo sguardo sul cerchio di facce. La Vincinzi non era la sola ad essere impressionata. I suoi - erano più di trentadue - stavano seduti o in piedi, con l'attenzione concentrata, quasi con reverenza, le espressioni stordite. I petali dei fiori erano spirali scarlatte, eleganti, che salivano dai centri d'oro intenso. La rugiada spiccava limpida sulle foglie scure. «Forse domani riuscirò a vederlo anch'io» disse Brennan. III Mlondas raggiunse l'area stabilita al momento stabilito. Fluì morbidamente in posizione. Attese. Attese durante la lunga giornata, prendendo il sole nello strato superficiale del terreno. Mnarra non venne.
Accadeva, talvolta. C'era una leggera discrepanza nei loro ritmi di viaggio. Uno arrivava prima dell'altro. Mlondas attese un altro giorno, volgendo avidamente al sole i ciuffi di foglie. Si saturò. Espanse la sua materia. Poi Mlondas attese un altro giorno. L'intervallo tra i loro arrivi non si era mai protratto tanto. Non era mai accaduto. Il quarto giorno, Mlondas fece qualcosa che prima non aveva mai fatto. Si spostò a sud dell'area dell'accoppiamento primaverile. Mnarra era stata trattenuta. Doveva raggiungerla, perché presto lui doveva ricominciare il viaggio verso nord, durante l'estate. Il suo arrivo all'area dell'accoppiamento autunnale doveva coincidere con quello di Mrruka. Si mosse svelto, senza perdere tempo a scaldarsi al sole negli strati superiori del terreno. Dietro di lui, i cerei fiori bianchi avvizzirono. «Ne sta arrivando un'altra.» Brennan alzò la testa dalle sue carte, sbalordito. Schroeder stava sulla soglia, indignato. «Sta arrivando dal nord, ed è bianca.» Brennan fissò il capo agrotecnico. Si alzò in piedi, lentamente. «Dov'è?» «A quattro miglia da qui. Swen e Tilla erano andati a dare un'occhiata all'area dei crateri. Swen aveva il pedometro. Questa qui viaggia svelta, Bren. Molto più in fretta dell'altra. La macchia avvizzita è quasi quattro miglia a nord di quella nuova.» «E la terza?» «Non l'hanno trovata. Sono arrivati prima alla zona dei crateri.» Brennan prese una decisione fulminea. «Sarà meglio che prenda lo scooter. Vuoi venire con me?» Schroeder annuì. Volando nel pomeriggio inoltrato, trovarono ben presto la conferma della segnalazione di Swen. La prima macchia, con le foglie e i fiori bianchi freschi e lucenti, era quattro miglia a nord di New Powell. La seconda macchia, avvizzita, era quattro miglia a nord della prima, e la terza, raggrinzita e bruna, era vicina al centro dell'area dei crateri. Era difficile distinguerla dalla vegetazione circostante, che adesso aveva lo stesso colore bruno ed era egualmente avvizzita. «Quella maledetta è svelta, qualunque cosa sia.» Brennan annuì. «Va tanto veloce che emergerà all'interno della zona del pascolo tra un paio d'ore, Guy.» Prontamente, girò l'hoverscooter e si diresse a sud, verso New Powell. Fortunatamente, il riparo delle mucche non
era stato ancora rimontato. «Dobbiamo mandare una squadra al pascolo nord, subito.» In meno di un'ora, la squadra era di guardia. La nuova pianta arrivò subito dopo il crepuscolo, facendo affiorare aggressivamente dal suolo le numerose teste verdi. Muovendosi rapidamente, la coprirono, la cintarono. Poi la circondarono. «Nessuna notizia dell'altra?» chiese Schroeder. Masters era appena arrivato da New Powell. «È affiorata mezzo miglio più in su della posizione precedente, nel prato.» «All'aperto?» chiese Brennan. Due notti prima, la pianta aveva tentato di emergere sotto il pavimento d'una delle cupole-magazzino. Il risultato era stato una cupola cinta da un'aiuola alta trenta centimetri. La sera dopo, il fogliame non era riapparso in New Powell e neppure nei dintorni. «Sì. È esattamente al centro del prato delle casette. È di nuovo piccola. Ha un diametro di quattro metri e mezzo.» Brennan annuì, poi rivolse di nuovo la sua attenzione alla squadra. «Voglio che restiate qui di guardia per tutta la notte. A turno, fate il giro di tutto il pascolo, con le lampade a mano. Questa macchia non si comporta come l'altra. C'è sempre la possibilità che affiori di nuovo prima di domattina.» Ritornò a New Powell assieme a Schroeder per esaminare l'altra macchia di vegetazione. «Almeno, questa faccenda impedisce di pensare a quello che succede là fuori» disse sottovoce Schroeder, indicando alle sue spalle. Brennan si trattenne dal guardare in direzione della pianura oscurata dalla notte. Una settimana prima la vegetazione, là, stava morendo. Adesso era morta. La sua convinzione che la terra sarebbe tornata a coprirsi verso la fine dell'estate vacillava penosamente. «Ci troveremo in un bagno di fango, se la vegetazione non ricrescerà prima delle piogge» continuò Schroeder a voce bassa. «Ho preso le unità del controllo dell'erosione. Ma sarà impossibile controllare questo posto. Neppure le nostre colline e i pascoli, se il resto si trasforma in pillacchera.» «Lo so» disse Brennan, in tono inespressivo. «Non possiamo far altro che attendere.» «E sperare?» Schroeder era tetro. «Fai la veglia ai fiori, stanotte?» «Forse sì» disse Brennan. Lo scoraggiamento gli pesava addosso. I loro campi prosperavano, ma sembrava che il resto del mondo stesse morendo. Irrazionalmente, non poteva fare a meno di sentirsi responsabile per la morte che aleggiava su quella terra.
Mlondas reagì con pronta indignazione quando i suoi ciuffi di foglie vennero schiacciati mentre li schiudeva attraverso il suolo. Aveva viaggiato verso sud per parecchi giorni, dall'area stabilita, e non intendeva lasciarsi frustrare. In nessun modo. I giorni durante i quali aveva atteso e s'era saturato gli avevano fornito materia in più. Era inutile conservarla aspettando lì, dove la sua attesa era inutile. Avanzò, spezzando i collegamenti con le foglie maltrattate. Si mosse rapido estendendosi al massimo, penetrando negli strati superiori del suolo e poi immergendosi profondamente. Cercando. Trascorsero ore prima che trovasse il primo indizio che Mnarra era stata nelle vicinanze. La sua carica era ancora presente nel terreno. Si decise, rapidamente. Prima non aveva mai deviato. Non era mai stato necessario, come non era mai stato necessario avventurarsi a sud del terreno dell'accoppiamento. Questa volta era diverso. Seguì la traccia di Mnarra. Gli abitanti di New Powell stavano intimoriti intorno alla gigantesca macchia di fogliame. Dilagava su tutto l'ampio prato a nord dei dormitori, e frusciava nella brezza serotina. Brennan, DiChiara, Schroeder e la Vincinzi girarono intorno alla macchia. «È almeno il doppio delle precedenti» borbottò Schroeder, quando ne ebbero misurato la circonferenza. «E guardate: è parecchie spanne più alta di prima.» Brennan guardò. Annuì. Poteva solo convenirne. Quella nuova macchia era situata appena mezzo miglio a nord del punto dove i fiori rossi avevano salutato il sole quel mattino, a più di tre miglia dal pascolo dove avevano soffocato l'altra macchia di fogliame, la sera prima. «Bren, credi che le macchie si siano unite e combinate?» suggerì la Vincinzi. «Questo spiegherebbe l'area più ampia.» «Non lo so.» Brennan si guardò intorno. «Ma credo che tutti, a New Powell, veglino i fiori, questa notte.» La sera innanzi, per la prima volta, aveva steso sull'erba la sua coperta. Aveva dormito un sonno irrequieto, svegliandosi spesso per assicurarsi che i fiori non fossero spuntati a sua insaputa. Poi il cielo ingrigì, all'appressarsi dell'alba, e lui si levò a sedere. Dozzine di facce spiccavano in silenzio, nella luce fioca. «Non perderti lo spettacolo, Bren» disse sottovoce la Vincinzi, quando
lui girò la testa per scrutare il cielo a oriente. Non lo perse. Per prima cosa, scorse l'orlo scarlatto del sole sopra la collina. Poi girò la testa per vedere i fiori scarlatti ergersi maestosamente dai loro troni di foglie. Salirono lentamente nell'aria frizzante del mattino e immediatamente si schiusero, alti e orgogliosi. Era un saluto cerimoniale. Lo sentiva. Un saluto al nuovo giorno. Lo invase un timore reverenziale, che scacciò dubbi e preoccupazioni. Trascorsero parecchi minuti, prima che distogliesse gli occhi dai fiori scarlatti, prima che si muovesse. Per quella breve visione della maestà del creato, dell'unità della natura, aveva sopportato gli anni vuoti, gli anni di dolore e di ansia. «Cosa ne diresti di mettere una pattuglia nel pascolo, questa notte?» domandò DiChiara. «Questa notte?» Brennan rifletté, riluttante. Desiderava soltanto stendere la coperta e sedersi. «Credo che dovremmo farlo, per ogni eventualità. Tu sei stato qui parecchie volte per il levar del sole. Ti spiacerebbe occuparti del servizio di pattuglia?» «Lo farò, se non c'è nessun altro.» «Forse potrai convincere Harder a occuparsene.» Brennan scrollò le spalle. «Tu resti, Vin?» Lei annuì. «Voglio vedere se le due macchie si sono unite. Però, ho promesso a me stessa di tornare a dormire nel mio letto dopo un'altra sera.» Le prime ore della sera trascorsero in un'atmosfera conviviale. Si formarono gruppi che conversavano, si mescolavano, si riformavano. Vennero distribuiti i rinfreschi. Furono cantate canzoni, sopravvissute nonostante gli anni d'asfalto di City-America. Nelle prime ore del mattino, i coloni si stesero sulle coperte o tornarono ai vicini dormitori. Sul prato scese il silenzio. Le voci erano sommesse, le conversazioni frammentarie. Brennan giaceva supino a un metro dal perimetro del fogliame. «Dovremmo farlo più spesso.» La Vincinzi si girò. «Vegliare un'aiuola?» «No, tenere riunioni spontanee. All'aperto. Senza un piano preciso, senza accordi prestabiliti. Stare tutti insieme, la sera.» La Vincinzi sorrise. «Sarebbe piacevole. Non credo che ci siamo liberati a sufficienza delle nostre abitudini sociali di City-America.» «Siamo qui da meno di un anno.» Alcuni coloni si erano aperti facilmente, abbandonando in fretta le facciate spersonalizzate necessarie per so-
pravvivere nella sovrappopolazione della vita urbana. Altri, incluso Brennan, erano emersi più lentamente. «Sai, mi ero iscritto alle liste della colonizzazione planetaria perché volevo vedere le stelle. Ed eccole là.» Il suo sguardo vagò nell'oscurità indiamantata. La Vincinzi rise. «Credo che siano state lassù ogni notte, da quando siamo sbarcati.» «Beh, questa è la prima volta - ieri notte e stanotte - che sono uscito all'aperto abbastanza a lungo per godermele.» Gran parte della sua attività intensa, lo sospettava, era stata progettata per proteggerlo dal trauma della scoperta che tutti i termini di riferimento della sua precedente esistenza erano cambiati all'improvviso, totalmente e definitivamente. Ben presto si assopirono. Poi il cielo, a oriente, diventò grigio, e gli abitanti di New Powell si svegliarono. Brennan si levò a sedere, scosse per la spalla la Vincinzi. «È ora.» La Vincinzi si mise a sedere a sua volta e si guardò intorno. «Ci sono tutti.» «Non proprio.» Brennan scrutò i presenti. Quasi tutti stavano seduti più lontano. Dietro di loro ce n'erano altri, in piedi, in pigiama. Vicino ai dormitori, c'erano altre dozzine di persone raccolte nella mezza luce. «Vuoi spostarti più indietro? Probabilmente vedremo meglio.» «E tu?» Brennan scrollò le spalle. «Sto bene qui.» «D'accordo. Li vedrò da vicino. Ma mi riservo il diritto di spostarmi più indietro, dopo.» Tese adagio la mano. Nella mano di lui. La spalla di Brennan si mosse. Contro la spalla di lei. Il sole sorse. La mano della Vincinzi strinse più forte la mano di Brennan. «Si sono unite.» I fiori sorsero lentamente, orgogliosamente, con i petali striati, scarlatto su bianco, bianco su scarlatto. Si levarono verso il sole in un omaggio silenzioso. Dai coloni salì un'esclamazione collettiva di reverenza. Brennan si sentì stringere il cuore. Era ritornato il momento, il momento verso il quale si erano orientati tutti i suoi giorni. Il momento dell'unità, il sole che era un cerchietto scarlatto in cima alla collina, i fiori che si ergevano alti... ...e la terra che fioriva davanti a lui.
La terra fiorì in una grande fontana scura, dal centro dei fiori. Fiorì in uno zampillo esplosivo, uno zampillo che prima scagliò Brennan all'indietro e poi lo trascinò con sé. Udì un grido. Non seppe mai se era suo o della Vincinzi. Erano una cosa sola, l'uno con l'altra, con i fiori smaglianti, con il suolo, in quel loro ultimo istante. Trascorsero molti giorni prima che i frammenti del plasma inesausto di Mnarra, dispersi dall'esplosione, si incanalassero attraverso la roccia, il suolo e l'acqua per riunirsi nella sacca di granito, molte miglia più a sud del nuovo cratere. Poi Mnarra si reintegrò, dopo il compimento della semina di primavera, dell'antico rituale. I giovani che aveva creato unendosi a Mlondas crescevano verdi e fitti sulla terra, in un raggio di centinaia di miglia. Proliferavano e le loro radici, insinuandosi, smuovevano il suolo. Non aveva avuto importanza, dunque, che quell'anno vi fossero state perturbazioni e deviazioni. Anche la notte prima della celebrazione formale dell'accoppiamento, prima dell'esplosiva distribuzione dei loro semi, all'alba, nei venti di lassù, aveva recepito una perturbazione, aveva sentito il suolo dissestato e compatto. Forse non sarebbe accaduto mai più. Ma adesso non poteva indugiare. Lontano, lontano, a sud, Mtunnas aveva sicuramente completato la semina primaverile assieme a Mpurta. Adesso stava viaggiando verso nord, verso l'area dell'accoppiamento dove avrebbe incontrato Mnarra alla fine dell'autunno, per seminare quella metà delle sue terre. Mnarra aveva una responsabilità. Se non fosse riuscita a incontrare Mtunnas, se non fossero riusciti ad accoppiarsi e a lanciare i semi, la terra sarebbe rimasta esposta al vento e alla pioggia. Rapidamente, Mnarra estroflesse un cavo di filamenti di radici. I filamenti si separarono. Fece spuntare grandi, fameliche foglie verdi. Le foglie la nutrirono. Mnarra si diresse verso sud. Una settimana dopo l'esplosione, DiChiara era nell'ufficio del capocolonia. Era stanco e aveva gli occhi cerchiati. Fissava lo schizzo che Brennan aveva tracciato del percorso del fiore mortale attraverso il villaggio. La sua X rossosangue segnava il punto del disastro... venti persone uccise sul colpo, il capocolonia Brennan e l'agrotecnica Vincinzi, tra gli altri: dozzine di feriti, alcuni in modo grave; due dormitori seriamente danneggiati. DiChiara aveva visto dal pascolo l'alba che fioriva di strane corolle, il
fiorire successivo della terra. Aveva udito il tuono, le grida. Ma per molte ore, non era stato capace di crederlo. Qualche volta non lo credeva neppure adesso. Aveva tenuto lo schizzo di Brennan fissato con le puntine vicino alla scrivania, per avere davanti agli occhi quella realtà. Schroeder comparve sulla soglia dell'ufficio, scuro in volto. «Nessun segno. Questa mattina ho mandato Swen quindici miglia a nord, e Harder quindici miglia a sud questo pomeriggio. Non credo che riusciremo a raggiungere quei fiori, Dick. Ormai.» DiChiara batté un pugno sulla scrivania, esasperato. «Hai mandato i ragazzi a cercare?» «Come al solito.» DiChiara rimase seduto, a occhi sbarrati. Aveva sentito dozzine di teorie, a proposito dell'esplosione. Ma a lui le teorie non interessavano. «Le altre specie sono ricomparse, nel pascolo?» «No.» Quattro giorni dopo l'esplosione, era venuta la seconda crisi. Erano spuntate migliaia di germogli indigeni, verdi e teneri, ed erano cresciute in fretta... erano cresciute dovunque, nei campi, nel pascolo. I coloni avevano perduto metà della loro mandria a causa dei germogli velenosi, prima che le loro menti stordite si rendessero conto della causa della crisi. «Credo che li abbiamo eliminati, Dick. Parnell ha proposto una teoria interessante...» DiChiara scrollò la testa. «No. Io voglio fatti, Guy. Chissà come, la vegetazione si è disseminata sotto i nostri occhi. Deve essere accaduto prima che le piante della pianura avvizzissero. Adesso, invece di lasciare che i nostri se ne stiano seduti sul prato a inventare teorie, voglio mandare osservatori sulla pianura. Ogni giorno, Guy. Voglio osservazioni dettagliate, giorno per giorno, sul ciclo vitale della vegetazione indigena. L'anno prossimo voglio sapere in anticipo quando prevedi che il manto erboso si rigenererà, così potrò mandare squadre ad aspettarlo nel pascolo. Non voglio perdere altro bestiame, Guy.» Schroeder annuì. «Ti capisco. Vuoi che continui anche a cercare i fiori?» DiChiara rifletté. «No. Accetto la tua conclusione: se ne sono andati. Ma torneranno, Guy. La prossima primavera torneranno a dirigersi verso la zona dei crateri... su questo son pronto a scommettere. E all'inizio della primavera manderemo squadre perché li segnalino.» La prossima volta, i coloni sarebbero stati pronti a ricevere quei fiori infidi. Quando fosse apparso il fogliame, avrebbero scavato, l'avrebbero bruciato e soffocato, l'avrebbero sterminato. Non ci sarebbero state altre esplosioni, né dentro
New Powell, né vicino a New Powell... a meno che fossero gli stessi coloni a provocarle, bombardando i fiori per eliminarli. Ma DiChiara non aveva bisogno di spiegare i suoi piani. Schroeder capiva. Tutta New Powell capiva. Quando i fiori bianchi e scarlatti sarebbero ritornati attraverso la pianura, sarebbero morti. WESTWIND (Gene Wolfe) Gene Wolfe possiede l'inestimabile e incomunicabile dono di intessere storie popolate di personaggi veri. Westwind parla della solitudine e della tirannia più grande... la tirannia dell'io «...a tutti voi, miei amatissimi compatrioti. E soprattutto, come sempre, ai miei occhi, Westwind.» Una parete della stanza fumante e puzzolente cominciò a tremolare, e la porta magica che s'era schiusa su un giardino dalla bellezza quasi inconcepibile prese ad annebbiarsi e a mutare. Le fontane di marmo ondeggiarono come erba, e i rosai, dai rami fioriti carichi di fili di perle e di diamanti, sbiadirono, divennero dolci, vecchie cartoline da innamorati. Il trono del sovrano diventò bronzeo, poi color terra d'ombra, e lo stesso sovrano, paterno e astuto, saggio e inconoscibile, subì tutta una serie di trasformazioni, diventando dapprima una fotografia, poi un manifesto e infine un francobollo. La vecchia zoppa che gestiva l'esercizio spense la parete e parecchi protestarono. «Avete sentito quel che ha detto lui» ribatté la vecchia. «Conoscete il vostro dovere. Perché dovete ascoltare qualche stupido del Dipartimento della Verità ripetere le stesse cose con frasi più lunghe, sputacchiandoci sopra?» Quelli che protestavano, dopo aver registrato le loro pose, tacquero. La vecchia guardò l'orologio dietro il piccolo banco del bar dove stava servendo. «La partita è fra venti minuti» disse. «Allora arriverà gente, pioggia o non pioggia, e vorrà bere. Se volete bere anche voi, farete bene a ordinare subito.» Lo fecero soltanto in due: uomini grandi e grossi e sporchi che potevano
appartenere alla malavita. Alcuni stavano già discutendo la partita imminente. Altri parlavano del discorso che avevano appena ascoltato... non del contenuto, che non poteva significare molto per parecchi di loro, ma del sovrano e del suo giardino, scambiandosi di centesima mano vecchissimi pettegolezzi di palazzo. La porta si aprì ed entrò il temporale, e con il temporale entrò un giovane. Era alto e magro. Indossava un impermeabile bagnato fradicio e un vecchio cappello di feltro coperto da una protezione di plastica trasparente, il cui elastico aveva deformato la tesa del feltro in una specie di campana, intorno alla testa. Una metà del volto del giovane era coperta da una cicatrice bluastra... La vecchia gli chiese cosa voleva. «Avete stanze?» disse lui. «Sì, le abbiamo. E anche a buonissimo prezzo. Dovrebbe portare qualcosa per nasconderla.» «Se le dà fastidio» disse lui, «non la guardi.» «Crede che sia obbligata a darle una stanza?» La vecchia girò lo sguardo sugli avventori, per accertarsi dell'appoggio che avrebbe potuto assicurarsi, se il giovane sfregiato avesse deciso di offendersi per le sue parole. «Se si lamenta, basterà che io dica che è tutto esaurito. Poi potrà andare alla stazione di polizia... è a venti isolati da qui. E magari la lasceranno dormire in una cella.» «Vorrei una stanza e qualcosa da mangiare. Che cosa c'è?» «Sandwich al prosciutto» disse la vecchia. Annunciò un prezzo. «La stanza...» Ne annunciò un altro. «Sta bene» disse lui. «Vorrei due sandwich. E caffè.» «La stanza viene solo la metà, se la divide con qualcuno... Se vuole posso chiedere se c'è qualcuno disposto a dividerla.» «No.» La vecchia strappò il coperchio a una lattina di caffè. Il manico schizzò fuori, e il contenuto cominciò a fumare. La porse al giovane e disse: «Immagino che non avranno voluto accettarla negli altri posti, eh? Con quella faccia». Il giovane girò la testa dall'altra parte, sorseggiando il caffè, scrutando il locale. La porta da cui era appena entrato (l'acqua continuava a ruscellargli dall'impermeabile, e la sentiva gorgogliare nelle scarpe a ogni minimo movimento) si aprì di nuovo ed entrò una ragazza cieca. Il giovane vide che era cieca prima di vedere il resto. Portava un paio di occhiali neri che in quella notte piovosa e impenetrabile sarebbero stati un
indizio più che sufficiente, e quando entrò guardò nel Nulla, nel senso più terribile e più vero della parola. La vecchia chiese: «E lei da dove viene?». «Dal terminal» disse la ragazza. «Sono venuta a piedi.» Aveva un bastone bianco, e lo muoveva davanti a sé, mentre si dirigeva verso la voce della vecchia. «Ho bisogno di un posto per dormire» disse la ragazza. La voce era chiara e dolce, e il giovane pensò che, anche prima che l'acquazzone le lavasse la faccia, non doveva aver portato un filo di trucco. Il giovane disse: «Non vorrà fermarsi qui. Le chiamerò un tassì». «Voglio restare qui» disse la ragazza con quella sua voce chiara. «Devo pur stare in qualche posto.» «Ho un comunicatore» disse il giovane. Aprì l'impermeabile per mostrarglielo - una scatoletta nera con un microfono, i tasti e un minuscolo schermo - e poi si rese conto di aver fatto la figura dello stupido. Qualcuno rise. «Non ci sono.» La vecchia chiese: «Non ci sono, che cosa?». «I tassì. E gli autobus. C'è l'acqua alta in molti posti, in città, e sono cortocircuitati. Anch'io ho un comunicatore...» La ragazza cieca si toccò la cintura. «E il sovrano ha tenuto un discorso pochi minuti fa: l'ho ascoltato mentre camminavo, e dopo c'è stato un notiziario. Ma io lo sapevo già perché un tale ha cercato di chiamarmi un tassì dal terminal, ma non sono voluti venire.» «Non dovrebbe restare qui» disse il giovane. La vecchia disse: «Ho una stanza, se la vuole... è l'unica rimasta». «La voglio» rispose la ragazza. «Benissimo. Adesso aspetti un momento. Devo preparare i sandwich per questo signore.» Qualcuno imprecò contro la vecchia e disse che la partita stava per incominciare. «Mancano ancora cinque minuti.» La vecchia prese sotto il banco una fetta di prosciutto cotto, la mise tra due fette di pane e ripeté il procedimento. Il giovane disse: «Sembrano mangiabili. Niente di lussuoso, ma mangiabili. Ne vuole uno?». «Ho un po' di denaro» disse la ragazza cieca. «Posso pagarlo.» E alla vecchia: «Vorrei un po' di caffè».
«E un sandwich?» «Sono troppo stanca per mangiare.» Ormai la porta si apriva quasi di continuo, via via che la gente dei caseggiati vicini sfidava il temporale per venire a vedere la partita. La vecchia accese la parete, e tutti si affollarono vicino, osservando gli esercizi di riscaldamento pre-partita, perfezionando l'attenzione che avrebbero dedicato all'incontro. Il giovane sfregiato e la ragazza cieca vennero sospinti più lontano e si trovarono accanto alla porta, in un locale che era divenuto silenzioso, se si escludeva il suono proveniente dalla parete. Il giovane disse: «È veramente un posto orribile... lei non dovrebbe star qui». «E lei, allora, cosa ci fa?» «Non ho molto denaro» disse lui. «Qui costa poco.» «Non ha un lavoro?» «Sono stato ferito in un incidente. Adesso sto bene, ma non hanno voluto tenermi... dicono che avrei spaventato gli altri. £ vero, credo.» «E non c'è l'assicurazione?» «Non ci avevo lavorato abbastanza a lungo.» «Capisco» disse lei. Alzò cautamente il caffè, reggendolo con tutte e due le mani. Il giovane avrebbe voluto dirle che stava per rovesciarlo - non lo teneva ben diritto - ma non osò farlo. Nel momento in cui stava per traboccare, il liquido incontrò le labbra della ragazza. «Ha ascoltato il sovrano» disse lui, «mentre camminava sotto il temporale. Mi piace.» «Qui hanno ascoltato?» chiese lei. «Non lo so. Non c'ero. Quando sono entrato, la parete era spenta.» «Tutti dovrebbero ascoltarlo» disse lei. «Fa del suo meglio per noi.» Il giovane sfregiato annuì. «La gente non vuole collaborare» disse lei. «Non collabora. Pensi al problema della delinquenza... tutti si lamentano, ma è la gente che commette i reati. Lui cerca di purificare l'aria e l'acqua per tutti noi...» «E invece bruciano la roba all'aperto, quando pensano di non venire scoperti» finì il giovane. «E buttano l'immondizia nei fiumi. I pezzi grossi vivono nel lusso grazie a lui, ma imbrogliano appena possono. Lui dovrebbe eliminarli.» «Li ama» disse la ragazza, semplicemente. «Ama tutti. Quando diciamo così, sembra che stiamo dicendo che non ama nessuno, ma non è vero. Lui ama ognuno di noi.»
«Sì» disse dopo un momento il giovane sfregiato. «Ma ama soprattutto Westwind. Amare tutti non include amare qualcuno più degli altri. Stasera ha chiamato Westwind "miei occhi".» «Westwind osserva per lui» disse sottovoce la ragazza. «E riferisce. Pensa che Westwind sia qualcuno molto importante?» «È importante» disse il giovane, «perché il sovrano l'ascolta... e dopotutto, è quasi impossibile per chiunque altro ottenere un'udienza. Ma forse lei voleva chiedere: "Sembra importante a noi?" Non credo... probabilmente è un individuo oscuro che non abbiamo mai sentito nominare». «Credo che abbia ragione» disse lei. Il giovane, che stava finendo il secondo sandwich, annuì, poi si ricordò che lei non poteva vederlo. Era graziosa, pensò: snella, non troppo alta, e non portava anelli. Aveva le unghie prive di smalto, e le sue mani sembravano quelle d'una scolaretta. Ricordava di aver guardato le ragazze che giocavano a pallavolo, quando andava a scuola... le aveva desiderate tanto. Disse: «Avrebbe fatto meglio a rimanere al terminal, stanotte. Non credo che questo sia un posto sicuro, per lei». «Le stanze si possono chiudere a chiave?» «Non lo so. Non le ho viste.» «Se no, metterò una sedia sotto la maniglia, o qualcosa. Sposterò i mobili. Al terminal, ho provato a dormire su una panchina... non volevo venire fin qui a piedi, sotto la pioggia, mi creda. Ma ogni volta che mi addormentavo sentivo che qualcuno mi metteva le mani addosso... una volta l'ho afferrato, ma lui si è svincolato. Non sono molto forte.» «Non c'era nessun altro?» «Alcuni uomini, ma anche loro cercavano di dormire... Naturalmente, quello era uno di loro, o forse lo facevano tutti quanti. Uno ha detto agli altri che se non mi avessero lasciata in pace avrebbe ammazzato qualcuno... e allora me ne sono andata. Avevo paura... che qualcuno finisse ammazzato, o almeno che ci fosse una rissa. È stato lui che mi ha cercato un tassì. Ha detto che avrebbe pagato la corsa.» «Allora non credo che fosse lui.» «Neppure io.» La ragazza restò in silenzio per un momento, poi disse: «Non mi sarebbe dispiaciuto tanto, se non fossi stata così stanca». «Capisco.» «Vuole cercare la padrona e chiederle di mostrarmi la mia stanza?» «Magari potremmo incontrarci domattina a colazione.» La ragazza cieca sorrise: era la prima volta che il giovane sfregiato la
vedeva sorridere. «Con piacere» disse lei. Il giovane andò dietro il banco e toccò il braccio della vecchia. «Mi dispiace disturbarla» disse, «ma la signorina vorrebbe andare nella sua stanza». «La partita non m'interessa» disse la vecchia. «La guardo solo perché lo fanno tutti. Chiamerò Obie perché prenda il mio posto.» «Sta arrivando» disse il giovane sfregiato alla ragazza cieca. «Salirò con lei. Vorrei andare a dormire anch'io.» La vecchia li stava già chiamando a cenni; la seguirono su per una scala stretta, invasa da cattivi odori. «Ci pisciano, qui» disse. «Le toelette sono in fondo al corridoio, ma non si prendono il disturbo di andarci.» «È orribile» disse la ragazza. «Sì. Ma se la cavano sempre... ce l'hanno con me perché sanno che se li scoprissi li butterei fuori. Io cerco di sorprenderli, ma nello stesso tempo mi fanno pena... È molto triste, quando non ti resta altra soddisfazione che guardare le partite e fare dispetti a una vecchia sporcandole le scale.» Si soffermò per riprendere fiato. «Voi due sarete vicini. Vi dispiace?» La ragazza disse: «No». Il giovane sfregiato scrollò la testa. «Pensavo che non vi sarebbe dispiaciuto; e del resto, solo le ultime stanze sono libere.» Il giovane sfregiato stava guardando lo stretto corridoio. C'erano molte porte, quasi tutte chiuse. «La metterò più vicina al bagno» stava dicendo la vecchia alla ragazza. «Nella porta del bagno c'è un gancio, quindi non deve preoccuparsi. Ma se ci resta troppo, qualcuno comincerà a bussare.» «Andrà benissimo così» disse la ragazza. «Sicuro. Ecco la sua stanza.» Le stanze avevano fatto parte, un tempo, di camere molto più grandi. Adesso erano suddivise da pareti divisorie dipinte di verde, che sembravano di cartone pesante. La vecchia entrò nella stanza della ragazza e accese la luce. «Qui c'è il letto, là il comò» disse. «Il lavabo è nell'angolo, ma dovrà portare l'acqua dal bagno. Non ci sono insetti... facciamo le fumigazioni due volte all'anno. Le lenzuola sono pulite.» La ragazza stava tastando la porta. Quando le sue dita incontrarono una catenella, sorrise. «C'è anche un catenaccio» disse il giovane sfregiato. La vecchia disse: «La sua stanza è qui accanto. Venga». La stanza era molto simile a quella della ragazza, a parte il fatto che la
parete divisoria (abbondantemente graffita a parole e immagini oscene) era sulla sinistra anziché sulla destra. Si accorse che la sentiva muoversi, dietro quello schermo; c'era il ticchettio del bastone mentre accertava la posizione del letto, del comò, del lavabo. Chiuse la porta, si tolse l'impermeabile fradicio e l'appese a un gancio, poi si sfilò le scarpe e le calze. Non gli andava di camminare sul pavimento sabbioso con i piedi bagnati, ma non c'erano alternative, a meno che rimettesse le scarpe fradice. Sedette sul letto, sollevando le gambe, poi si sganciò il comunicatore dalla cintura e formò il 123-333-4477, il numero del sovrano. «Qui Westwind» mormorò il giovane sfregiato. La faccia del sovrano apparve sullo schermo, minuscola e perfetta. Come tante altre volte, il giovane ebbe la sensazione che quella fosse la sua grandezza naturale, quella minuscola figura luminosa... Sapeva che non era vero. «Qui è Westwind e ho trovato un posto per dormire, stanotte. Non ho ancora trovato un altro lavoro, ma ho conosciuto una ragazza, e credo che mi giudichi simpatico.» «Notizie emozionanti» disse il sovrano. E sorrise. Anche il giovane sfregiato sorrise, con la metà faccia senza cicatrici. «Qui piove molto forte» disse. «Penso che questa ragazza sia molto devota a lei, signore. Gli altri, qui... beh, non saprei. La ragazza mi ha parlato di un uomo, al terminal, che ha cercato di molestarla, e di un altro che voleva difenderla. Intendevo chiederle di ricompensarlo e di punire l'altro, ma temo che fossero lo stesso uomo... che volesse attaccar discorso con la ragazza e che abbia approfittato dell'occasione.» «Spesso si tratta dello stesso uomo» disse il sovrano. Fece una pausa, come se stesse riflettendo. «E lei? Tutto a posto?» «Se non trovo qualcosa domani non potrò permettermi di pagarmi una stanza, ma sì, per stanotte è tutto a posto.» «Lei è molto sereno, Westwind. Io amo la serenità.» La metà indenne del viso del giovane sfregiato arrossì. «Per me è facile» disse. «Ho sempre saputo, per tutta la mia vita, di essere la sua spia, il suo confidente... è come sapere dov'è nascosto un tesoro. Spesso gli altri mi fanno pena. Spero che non sarà troppo severo con loro.» «Non voglio aiutarla apertamente, a meno che sia necessario» disse il sovrano. «Ma troverò qualche sistema segreto. Non si preoccupi.» Strizzò l'occhio. «So che lo farà, signore.»
«Basta che non impegni il comunicatore.» L'immagine sparì, lasciando lo schermo vuoto. Il giovane spense la luce e continuò a svestirsi, tenendo solo le mutande. Si stava sdraiando sul letto quando sentì un tonfo dall'altra parte del divisorio di cartone. La ragazza cieca, muovendosi a tentoni per la stanza, doveva averlo urtato. Il giovane stava per chiedere: «Si è fatta male?» quando vide che uno dei pannelli, una sezione di un metro per uno e venti, stava vacillando nell'intelaiatura. L'afferrò mentre stava per cadere e lo depose sul pavimento. La luce accesa dalla vecchia brillava ancora nella stanza della ragazza e il giovane vide che lei aveva appeso il cappotto e s'era avvolta i capelli in uno degli asciugamani di carta del lavabo. Mentre lui stava a guardare, la ragazza si tolse gli occhiali neri, li depose sul comò e si massaggiò il naso. Uno degli occhi era tutto bianco: l'iride dell'altro aveva il colore avvelenato, azzurrino del latte annacquato, ed era rivolta verso l'interno. Il viso era delizioso. Il giovane continuò a guardarla mentre lei si sbottonava la camicetta e l'appendeva. Poi si sganciò il comunicatore dalla cintura, passò le dita sui tasti e fece un numero. «Qui Westwind» disse la ragazza. Il giovane non poteva sentire la voce che le rispose, ma la faccia sullo schermo, piccola e luminosa, era la faccia del sovrano. «È tutto a posto» disse lei. «Dapprima non credevo che sarei riuscita a trovare una stanza per passare la notte, ma l'ho trovata. E ho incontrato qualcuno.» Il giovane sfregiato rimise a posto il pannello, più delicatamente che poté, e si sdraiò sul letto. Quando sentì il ticchettio del bastone sul pavimento bussò sul divisorio e chiamò: «Domani a colazione. Non lo dimentichi». «Non lo dimenticherò. Buonanotte.» «Buonanotte» disse lui. Nella stanza sotto di loro, la vecchia si stava assestando con una mano i capelli scarmigliati, mentre con l'altra formava un numero. «Pronto» disse. «Qui è Westwind. L'ho vista, questa sera.» MORTE E DESIGNAZIONE TRA GLI ASADI (Michael Bishop) Gli antropologi dovrebbero parlarci di noi, usando l'uomo primitivo come campione da laboratorio. La specie qui in discussione vive su un lontano pianeta, ma il racconto fa pensare a casa nostra... nel caso che ve lo domandaste.
APPUNTI DIVERSI PER UNA MANCATA ETNOGRAFIA DEGLI ASADI BOSKVELD, QUARTO PIANETA DEL SISTEMA DI DENEBOLA, COMPILATI DAI DIARI (PERSONALI E PROFESSIONALI), RAPPORTI UFFICIALI, CORRISPONDENZE PRIVATE E REGISTRAZIONI SU NASTRO DI EGAN CHANEY, XENOLOGO CULTURALE, DAL SUO AMICO E COLLABORATORE THOMAS BENEDICT. Preliminari: fantasticheria e partenza Dai diari personali di Egan Chaney: Non ci sono più pigmei. Pigmei intellettuali, forse, ma non quei piccoli, svegli, energici individui neri dal carattere inevitabilmente docile che vivevano nelle scomparse foreste pluviali dell'Ituri... un popolo, a proposito, sul quale non voglio diffondermi in sentimentalismi (anche se forse lo faccio). I pigmei non esistono più... sono estinti da secoli. Ma la sera prima che Benedict mi lanciasse tra le fronde canore del Synesthesia Wild, sotto tre lune rabbiose, per me rivissero. Trascorsi l'ultima sera al campo base rileggendo Il popolo della foresta di Turnbull. Sognando, vissi con il popolo dell'Ituri. Subii il nkumbi, la prova della circoncisione. Mi avventai sotto il ventre di un elefante e trafissi la carne di quell'essere mostruoso con la mia lancia. Finalmente presi parte alla festa del molimo, con gli antichi e ingegnosi BaMbuti. Nel complesso, immagino, la lettura fu un esercizio sentimentale. Il libro di Turnbull era stato il primo e più vivido testo di etnografia che avessi incontrato nella mia carriera di studente... e persino quell'ultima notte, al campo base, sul mondo ostile di BoskVeld, un pianeta orbitante intorno alla stella Denebola, il suo libro mi cantava nella testa come le liriche proibite del molimo dei pigmei, come le melodie sconvolgenti delle lune di BoskVeld. Un esercizio sentimentale. Non avevo idea di quanto mi sarebbe servita quella lettura tra gli abitanti del Synesthesia Wild. Probabilmente a nulla. Ma stavo per andare là, e la sera prima della partenza, un giorno prima della sommersione, mi smarrii nelle foreste di un'altra epoca... sapendo che per parecchi mesi sarei stato l'occhiuto e vigile prigioniero degli ominoidi che erano i miei soggetti di studio. Avevamo sterminato tutti i popoli primitivi della Terra, ma sul paradossale BoskVeld io avevo ancora una funzione. E quando Benedict fece girare l'elicottero sotto quelle tre lune d'oro antico e lo ricondusse al campo base come una libellula crepitante, compresi che dovevo portare a termine
quel compito. La giungla, però, era squallida, e strana... una realtà d'incubo; e io non riuscivo a pensare altro che Non ci sono più pigmei, non ci sono più pigmei, non ci sono Metodi: un dialogo Da un taccuino professionale di Egan Chaney: Non ero il primo terrestre che andava tra gli asadi, ma ero il primo andato a vivere con loro per un lungo periodo di tempo. Il primo di noi che incontrò gli asadi fu Oliver Bow Aurm Frasier, l'uomo che diede agli ominoidi il loro nome... forse per analogia con la parola ashanti, il nome di un popolo africano che esiste tuttora, ma più probabilmente dalla vecchia parola araba asad, che significa leone. Oliver Bow Aurm Frasier aveva riferito che gli asadi di BoskVeld non avevano un linguaggio, così come noi intendevamo questo concetto, ma che in un certo tempo avevano posseduto un «linguaggio scritto». Usava entrambe le parole con molta disinvoltura, ne sono sicuro, e l'anomalia della scrittura senza linguaggio parlato era una di quelle che speravo di spiegare. Frasier aveva detto che un etnografo intrepido poteva sperare di venire accettato tra gli asadi ricorrendo a uno stratagemma straordinariamente poco ortodosso. Descriverò lo stratagemma riferendo una conversazione immaginaria che avrei potuto avere con Benedict (ma che non ci fu). BENEDICT: Senti, Chaney (a proposito, io sono Egan Chaney), cos'hai intenzione di fare, dopo che ti avrò deposto tutto solo nel Synesthesia Wild? Non penserai di usare il solito trucco antropologico, vero! Sai bene, arrivare tranquillamente nel villaggio degli asadi ed esclamare: «Io sono il Grande Dio Bianco preannunciato dalle vostre leggende». CHANEY: Non esattamente. Per la verità, non entrerò nella radura degli asadi fino al mattino. BENEDICT: E allora perché diavolo devo portarti con l'elicottero nel Wild nel bel mezzo della notte? CHANEY: Per accontentare un simpatico eccentrico. No, no, Benedict, non prendertela con me. È una faccenda molto semplice. Frasier ha detto che la radura della comunità degli asadi è assolutamente vuota durante la notte: non ci resta un'anima, fra il crepuscolo e il levar del sole. I membri della comunità tornano alla radura solo quando Denebola brilla grande e color rame sull'orizzonte orientale. BENEDICT: E vuoi che ti ci porti di notte? CHANEY: Sì, in modo che il rumore dell'elicottero svanisca e venga
dimenticato, e che io abbia la possibilità di entrare nella radura degli asadi con i primi arrivi del mattino. Proprio come se quella fosse casa mia. BENEDICT: Oh, davvero... sì. Passerai inosservato, Chaney. Sarai accettato immediatamente... anche se gli asadi vanno in giro nudi, hanno occhi che sembrano vecchi fondi di bottiglia e ostentano grandi gorgiere naturali di pelo argenteo o lionato. Oh, davvero... sì. CHANEY: Bene, Frasier ha chiamato lo stratagemma che io spero di usare «accettazione tramite l'invisibilità sociale». Il principio è molto semplice. Devo fingermi un paria asadi. Questa tattica mi assicurerà una sorta di accettazione, perché i costumi degli asadi impongono di ignorare totalmente la presenza di un paria. È un reietto, non in senso fisico, ma in senso psicologico. Di conseguenza, la mia presenza nella radura sarà negativa, un'ammissione che io farò prontamente... ma in un certo senso, questa esistenza negativa mi permetterà una maggiore ampiezza di movimenti e di osservazione che se fossi un asadi di elevata posizione sociale. BENEDICT: È complicato, Chaney, molto complicato. Mi vengono in mente due interrogativi scottanti: come fa, uno, a diventare paria, e cosa ne è del ruolo cruciale dell'antropologo quale raccoglitore di materiale popolare... canti, cosmologie, incantesimi rituali? Voglio dire, la tua «invisibilità» ti priva del tuo prediletto rapporto da pari a pari con quei membri della comunità asadi che potrebbero fornirti il maggior numero d'informazioni. CHANEY: Risponderò per prima cosa alla tua seconda domanda. Frasier ci ha detto che gli asadi non comunicano mediante il linguaggio parlato. E già questo costituisce un serio limite per le mie osservazioni. Non devo preoccuparmi dei canti e degli incantesimi. Le cosmologie dovrò dedurle da quel che vedrò. In quanto ai loro metodi di comunicazione interpersonale... anche se scoprissi quali sono, forse non sarei fisicamente equipaggiato per usarli. Gli asadi non sono umani, Ben. BENEDICT: Lo so benissimo. Spesso, quando ti ascolto, comincio a pensare che l'assenza di un linguaggio parlato potrebbe essere una caratteristica genetica desiderabile. Sta bene. Basta. Come si fa a diventare paria? CHANEY: Non sappiamo ancora molto bene quali siano le colpe che meritano tale punizione estrema. Comunque, sappiamo in che modo gli asadi distinguono il reietto dagli altri membri della comunità. BENEDICT: Come? CHANEY: Radono la gorgiera di pelo del colpevole. Poiché tutti gli asadi possiedono quelle criniere, indipendentemente dal sesso e dall'età, questo metodo per distinguere il paria è universale e infallibile.
BENEDICT: Allora tu sei già un paria? CHANEY: Lo spero. Dovrò semplicemente ricordarmi di radermi tutti i giorni. Frasier pensava che proprio grazie alla sua assenza di pelo - era quasi calvo - gli fu permesso di fare quelle poche scoperte sugli asadi di cui disponiamo oggi. Comunque, arrivò tra loro durante un periodo di strana inattività e dovette accontentarsi di studiare i manufatti di una cultura asadi più antica, i resti di un'enorme pagoda alata nel Synesthesia Wild. E poi, ho sentito dire che Frasier non aveva la pazienza necessaria per le ricerche sul campo. BENEDICT: Un momento. Facciamo un passo indietro. Non può capitare che un asadi perda accidentalmente la criniera? Sarebbe un reietto, senza avere nessuna colpa, no? Un paria artificiale. CHANEY: Non è molto probabile. Frasier riferì che gli asadi non hanno nemici naturali... che anzi il Synesthesia Wild sembra completamente privo di esseri viventi, esclusi gli stessi asadi. Comunque, la perdita della gorgiera, per un qualunque motivo avvenga, è considerata motivo di punizione. È l'unica colpa che Frasier ha confermato. Quali siano le altre, come ho detto, non lo sappiamo. BENEDICT: Se le giungle non ospitano altre forme di vita, a parte i vegetali non commestibili... Chaney, ma di cosa vivono quei poveri asadi? CHANEY: Non sappiamo neppure questo. BENEDICT: Bene, stai a sentire, Chaney... tu di cosa hai intenzione di campare? Voglio dire, persino Malinowski si degnava di mangiare, di tanto in tanto. Almeno, è quel che ho sentito dire. CHANEY: È qui che entri in scena tu, Ben. Porterò con me razioni sufficienti per tirare avanti una settimana. Ma ogni settimana, durante i prossimi mesi, dovrai fare un lancio di viveri e provviste nel posto dove mi lascerai. L'ho già scelto... conosco la distanza e la direzione rispetto alla radura degli asadi. Costerà parecchio, ma quelli del campo base, in particolare Eisen, hanno riconosciuto che la mia ricerca è necessaria. Non sarai costretto a batterti per effettuare i lanci. BENEDICT: Ma perché così spesso? Perché una volta la settimana? CHANEY: Questa è un'idea di Eisen, non mia. Da quando gli ho detto che avrei rifiutato ogni sorta di contatto durante il mio soggiorno presso gli asadi - ogni contatto con voi, cioè - ha deciso che il lancio settimanale sarà il sistema migliore per accertarsi, di tanto in tanto, che io sono ancora vivo. BENEDICT: Un'arma, Chaney? CHANEY: No, niente armi. Oltre ai viveri non porterò altro che i miei
taccuini, un registratore, qualcosa da leggere e magari qualcosa che mi aiuti a superare gli inevitabili periodi di depressione. BENEDICT: Una radio? Caso mai avessi bisogno d'aiuto immediato? CHANEY: No. Può darsi che mi ammali, una volta o due, ma se le cose si mettessero male, avrò sempre i bengala. E Placenol e bourbon. Tuttavia, intendo restare completamente tagliato fuori dal campo base fino al termine del mio soggiorno presso gli asadi. BENEDICT: Ma perché lo fai? Non voglio dire perché Eisen ha deciso che dobbiamo studiare minuziosamente gli asadi. Voglio dire, perché tu, Egan Chaney, ti impegni a questo soggiorno rituale presso un popolo alieno? Al campo base ci sono altri, uno o due, che avrebbero potuto andare, se ne avessero avuto la possibilità. CHANEY: Perché, Ben, non ci sono più pigmei... Termine del dialogo simulato sui metodi iniziali. Immagino di aver fatto apparire Benedict un individuo molto più inquisitivo di quanto sia in realtà. Tutte quelle domande così informate! In verità, Ben è nello stesso tempo taciturno e ironico. Ma quando leggerai gli appunti per questa etnografia, Ben, ricordati che ti ho lasciato passare due o tre frecciate nei miei confronti, senza reagire. L'amicizia può spingersi oltre? Nella mia qualità di uomo il cui lavoro impone di accettare una moltitudine di prospettive, credo di averti trattato onestamente, Ben. Perdonami l'indiscrezione. Contatto e assimilazione Dai diari personali di Egan Chaney: Pensando: Non ci sono più pigmei non ci sono più pigmei non ci sono... mi sono sdraiato ai piedi di una pianta che sembrava un enorme albero della gomma e mi sono addormentato. Ho dormito senza sognare... o forse ho avuto incubi grotteschi che ho dimenticato al risveglio. Mi ha destato la sveglia da polso. La luce di Denebola aveva incominciato a tingere di rame gli orli delle foglie nel Synesthesia Wild. L'alba, però, non era ancora venuta. Il mondo era silenzioso. Ho rifiutato di lasciare che il Wild alterasse i miei sensi. Non avevo nessuna voglia di tagliarmi sui cremisi e sui gialli e sugli azzurri-orchidea. E non avevo nessun desiderio di assaporare la prima, lieve brezza traditrice né di udire l'alba esplodere dietro le mie retine. Perciò mi sono svegliato e mi sono messo in cammino. Non badavo a quello che mi circondava, a parte la necessità brutale di non perdere l'orientamento. La radura dove presto si sarebbero radunati gli asadi mi attirava. Quel luogo fatidico mi
chiamava. Tutto il resto scivolava via dalla mia coscienza... cielo sfolgorante, terra umida, fronde canore. Gli asadi mi avrebbero accettato tra loro - in base ai soli segni esteriori - come accettano negativamente i loro reietti? Su quella speranza avevo fondato quasi sei mesi di attività futura... non avevo basato neppure una briciola della mia strategia di base sulla sostanza autentica di quella condizione. Eternità contro sostanza. Era troppo tardi per invertire i miei scopi o la direzione dei miei passi. Lascia che i dubbi si spengano. Modella il suono dei tuoi passi sul suono di altri passi... quei passi che convergono insieme a te verso la radura dove il fogliame e gli asadi, ignudi, si radunano come a un congresso di muti imperterriti. Perciò ho modellato il suono dei miei passi. Intravisto, attraverso gli squarci nella filigrana delle foglie, il movimento del braccio di un asadi. Vista come un'ombra tra le altre ombre sul terreno, l'immagine in movimento della testa crinita di un asadi. Il Wild tremolava del movimento mattutino. Ero circondato da comunicanti invisibili o appena intravisti, e tutti noi continuavamo a convergere. Poi il fogliame si è aperto e ci siamo trovati insieme sul fondo scoperto della giungla... la radura degli asadi, forse il terreno sacro, il territorio privo d'ornamenti dello spirito gregario e della comunione, il punto focale della vita degli asadi. L'odore spaventoso di quella vita quella vita brulicante - mi ha assalito. Non aveva importanza. Mi sono adattato. Grandi esseri dalla carne grigia, dalle teste appesantite da violenti drappeggi di pelo, mi mulinavano intorno, giravano l'uno intorno all'altro, ritornando da me, cercando conferma della mia realtà essenziale. Non potevo far altro che attendere. Ho atteso. Mi pulsavano le tempie. Denebola scagliava pugnali di luce tra gli alberi. Indugiando, e poi allontanandosi, distogliendo gli occhi color fango, gli asadi - individuo per individuo, ho notato - hanno preso la loro decisione, e io ho stretto in pugno quella prima, indispensabile vittoria: Mi ignoravano! Xenologia: rapporto sul campo Dalle registrazioni professionali della biblioteca della Terza Spedizione a Denebola: Sono qui da due settimane. La scorsa notte ho raccolto il secondo lancio di viveri effettuato da Benedict. È una fortuna che arrivino in perfetto orario, che arrivino sulle esatte coordinate dove mi ha deposto Benedict. Gli asadi non mangiano come noi, e il Synesthesia Wild non mi fornisce viveri, né sotto forma di vegetazione commestibile né di selvaggina minuta. Non riesco a tollerare le piante. Come avevano predetto i bio-
chimici del campo base, causano quasi immediatamente il vomito, oppure il loro sapore amaro mi dissuade dall'inghiottirle. Non ci sono animali. La giungla è viva, ma per il fremito delle fronde, il caldo, il vapore, la vibrazione infrasonica della fotosintesi continua. Posso bere l'acqua piovana, e ne ringrazio Dio, anche se la faccio bollire, prima di considerarla veramente potabile. Sono pervenuto ad alcune conclusioni puramente ipotetiche sul conto degli asadi. Con loro non c'è niente di certo, niente di fisso. Il loro comportamento, anche se deve avere una funzione sociale profondamente radicata, per me non ha senso. In questo stadio, continuo a ripetermelo, non posso aspettarmi altro. Bisogna insistere, rifiutarsi di lasciarsi scoraggiare. Perciò, ho estrapolato dalla mia condizione alla loro. Mi sono chiesto: Se tu non puoi campare di quello che ti offre BoskVeld... come fanno gli asadi? Le mie osservazioni in quest'area (e per paura delle bonarie canzonature di Benedict esito a esprimermi così) hanno dato frutti, mi hanno dato il nutrimento intellettuale per combattere la disperazione. Niente altro, su BoskVeld, mi ha offerto qualche consolazione. In risposta alla domanda: Cosa mangiano gli asadi?, posso dire, senza tema di contraddizioni: Tutto quello che non mangio io. Sembrano erbivori. Anzi, si spingono oltre il normale consumo delle piante: mangiano il legno. Sì, il legno. Li ho visti strappare la corteccia dagli alberi della gomma e ingerirla senza esitazioni. Li ho visti mangiare pezzi del cuore di giovani alberelli, il cui legno sarebbe di una durezza proibitiva per noi... e anche per esseri capaci di digerirlo. Tre giorni fa ho fatto bollire parecchi pezzi di corteccia, il tipo di corteccia che ho visto consumare da molti giovani asadi. L'ho fatta bollire fino a quando i pezzi sono diventati pieghevoli. Sono riuscito a masticarla per parecchi minuti e, finalmente, a trangugiarla. Controllando le mie feci, circa un giorno più tardi, ho scoperto che il pasto mi aveva attraversato così com'era. Dopotutto, di cosa consiste la corteccia? Di cellulosa. Cellulosa non digeribile. Eppure gli asadi, che possiedono denti non molto diversi dai nostri, mangiano il legno, e per giunta lo digeriscono. Come? Anche qui, devo formulare ipotesi. Sono ostacolato dalla mancanza di conoscenze dettagliate riguardanti esseri che non siano umani. Tuttavia, mentre me ne sto rannicchiato sul limitare della radura degli asadi, e il crepuscolo diventa sempre più minaccioso, mentre sto qui rannicchiato e parlo in un microfono (Prova, uno... due... tre, prova, prova) offrirò un'analo-
gia a tutti voi, individui ipercritici ed esigenti delle scienze ortodosse. Magari è un'analogia ridicola. Se non vi piace, accetterò il vostro giudizio e farò marcia indietro. Ma come gli sciamani primitivi devono tentare di spiegare il mondo nei loro termini, io, Egan Chaney, isolato dai miei simili, devo inventare spiegazioni tutte mie. Eccone una: credo che gli asadi digeriscano il legno nella stessa maniera delle termiti terrestri... cioè mediante l'aiuto di batteri nei loro intestini, protozoi che disgregano la cellulosa. Una simbiosi, direbbe Eisen. E che sia una lezione per tutti noi. Sarebbe ora che la gente imparasse a andare d'accordo con gli altri. Batteri e cinesi, legumi e pigmei... Più tardi. Questa notte ho bisogno di parlare, anche se con un microfono. Con l'avvento dell'oscurità gli asadi sono spariti di nuovo nella giungla, e io sono solo. Per le prime tre notti del mio soggiorno qui, anch'io sono ritornato nel Wild dopo il tramonto di Denebola. Sono tornato nel posto dove mi ha lasciato Benedict, mi sono raggomitolato sotto le foglie di palme, ho dormito tutta la notte e poi ho partecipato all'inevitabile pellegrinaggio dell'alba verso questa radura. Adesso resto qui durante tutta la notte. Dormo al limitare della radura, tra il fogliame, per ripararmi. Torno nella giungla solo per ritirare i viveri che mi vengono lanciati. Sebbene gli asadi disapprovino il mio comportamento, io sono un reietto, e non possono far nulla per distogliermi dalla mia condotta inaccettabile senza violare la legge che impedisce loro di riconoscere l'esistenza di un paria. Quando se ne vanno, ogni sera, alcuni degli asadi più vecchi, che hanno striature bianche nelle gorgiere spelacchiate, si soffermano per qualche istante accanto a me e respirano con pesantezza esagerata. Non mi guardano, perché è tabù. Ma io, a mia volta, non li guardo: li ignoro come se fossero loro, i paria. Di conseguenza, posso risparmiarmi quelle assurde e massacranti camminate avanti e indietro dalla radura, che all'inizio mi avevano sfinito. I miei studi comportamentali durante il giorno, comunque, procedono senza sosta. Per discolparmi da quella che potrebbe apparire come scarsa meticolosità dovrei ricordare, immagino, che durante la quarta e la quinta notte ho tentato di seguire due diversi asadi nella giungla, per accertare dove dormivano, e cosa facevano quando erano svegli e lontano dalla radura. I tentativi sono falliti. Quando viene la sera, gli asadi si disperdono. La dispersione è completa.
Non restano insieme neppure due individui, neppure i piccoli con i genitori. Ogni asadi si trova un posto tutto suo, lontano da tutti gli altri membri della sua specie. (Questa consuetudine, tra l'altro, contrasta con la mia esperienza di tutti gli altri gruppi sociali da me studiati.) La quarta e la quinta notte, dunque, sono stato vergognosamente distanziato dagli oggetti del mio pedinamento. E non posso neppure supporre che avrei ottenuto maggior successo con altri esemplari, perché avevo deciso di seguire un asadi vecchio e decrepito, la prima sera, e una piccola creatura prepubere, la seconda. Tutti e due correvano con parecchia energia: si sono lanciati tra gli alberi, come se avessero ancora natura arborea, e poi sono spariti alla mia vista. Tutte e tre le lune sono alte nel cielo, irreali, d'oro bruciato, e io sono prigioniero d'una rete di ombre e della mia crescente solitudine. Le condizioni sul campo, per essere sincero, per me non erano mai state tanto austere, e ho cominciato a domandarmi se gli asadi sono mai stati esseri intelligenti. Forse sto studiando una varietà di babbuini denebolani. Ma Oliver Bow Aurm Frasier sosteneva che un tempo gli asadi avevano un «linguaggio» scritto, e un tipico sistema architettonico. Non si è mai degnato di dirci come fosse arrivato a queste conclusioni... ma il Synesthesia Wild, ne sono sicuro, nasconde molti segreti. Più tardi mi darò alle esplorazioni avventurose. Ma per ora devo cercare di comprendere gli asadi che vivono oggi. Sono la chiave del loro passato. Un paio di cose ancora, prima di cercare di dormire. Primo: gli occhi degli asadi. Sono piuttosto simili a come li ha descritti concisamente Benedict nel dialogo immaginario che ho composto una settimana fa. Cioè, sembrano fondi di bottiglia. Ma ho notato che in realtà consistono di due parti: una sottile copertura trasparente, che apparentemente è dura come plastica, e l'organo membranoso della vista, che è protetto dalla copertura. È come se gli asadi nascessero con un paio di lenti di sicurezza incorporate. L'impressione di Frasier, che i loro occhi fossero «torbidi», non è confermata dall'osservazione continuata. Quella che lui vide come «torbidezza» è dovuta probabilmente al fatto che gli occhi degli asadi, dietro quella specie di lente, cambiano continuamente colore. Talvolta la rapidità con cui un color terra di Siena sostituisce l'indaco, e poi un verde sostituisce il terra di Siena, e così via, rende difficile per un essere umano distinguere un colore particolare... forse è questa la spiegazione della designazione di «torbidi» data da Frasier ai loro occhi. Non saprei. Sono sicuro, comunque, che questa caratteristica camaleontica degli occhi
degli asadi ha un significato sociale. Seconda cosa: nonostante l'assenza completa di un ordine sociale rilevabile tra gli asadi, forse oggi ho assistito a un evento d'importanza primaria per i miei tentativi, finora riusciti, di individuare le loro relazioni di gruppo. Forse. Forse no. Prima, non esisteva nessun ordine. Dispersione al cader della notte, poi raduno al mattino... se per voi questo è ordine. Ma nient'altro. Durante il giorno non c'è altro che un mulinare a casaccio, senza orari fissi per il cibo, il sesso e le abituali faide incruente; durante la notte, fuga a casaccio nella giungla. Al tramonto di Denebola, nessuno di quegli esseri si avvia mai per la seconda volta nella stessa direzione. Che cosa può dedurne un umile terrestre? Una società tenuta insieme dall'asocialità istituzionalizzata? Quanto è avvenuto oggi mi conduce irrevocabilmente lontano da questa possibilità. Forse. Questo pomeriggio, un vecchio asadi che prima non avevo mai visto è entrato barcollando nella radura. Aveva la criniera brizzolata, la faccia avvizzita, le mani incartapecorite, il corpo grigio sbiadito in un color panna sporco. Ma era così agile, nel Synesthesia Wild, che nessuno si è accorto della sua presenza fino al suo ingresso incongruamente goffo nella radura. Allora tutti sono fuggiti lontano da lui. Imperterrito, si è seduto al centro del luogo di raduno degli asadi, incrociando le lunghe gambe nude. Ormai, tutti i suoi simili erano nella giungla, e lo guardavano dal limitare della radura. Prima, avevo visto gli asadi disertarla in massa soltanto al tramonto. Ecco perché sono certo che quanto è accaduto oggi ha un'importanza primaria per la mia missione. Ma non ho ancora finito di descrivere la stranezza della visita del vecchio. Vedi, Moses, è arrivato in compagnia. E non di un altro asadi. È arrivato con un esserino neroviolaceo appollaiato sulla spalla. Sembrava contemporaneamente un corvo, un pipistrello e un homunculus deforme. Ma mentre il vecchio aveva grandi occhi rotondi che cambiavano colore con estrema lentezza, ammesso che lo cambiassero, l'essere sulla sua spalla non aveva neppure due occhiaie vuote... era cieco. Era privo degli organi della vista. Stava sulla spalla del vecchio asadi e muoveva ossessivamente le mani minuscole, tirando la criniera del vecchio, aprendole e chiudendole nell'aria vuota, e poi tirando di nuovo la criniera del suo protettore. Tanto il vecchio quanto quel suo familiare bestiale-umano avevano una furiosa irrealtà. Esistevano a una distanza che era spirituale e non soltanto
fisica, e io ho notato che gli altri asadi - quelli che mi circondavano e mi ignoravano, al limitare del terreno della «comunione» - non si comportavano come se temessero quei visitatori inattesi, ma piuttosto come se sentissero di avere nei loro confronti una affinità detestata. È molto difficile da spiegare. Abbi pazienza, Eisen. Forse un'altra analogia potrà essere d'aiuto. Lasciatemi dire che gli asadi si comportavano nei confronti dei visitatori come potrebbe comportarsi un figlio schizzinoso con un padre che ha contratto una malattia venerea. In casi del genere, l'ambivalenza è tutto. Vergogna e rispetto, distanza e intimità, amore e odio. Ma l'episodio si è concluso bruscamente quando il vecchio si è alzato da terra, ignaro del lento gonfiarsi e dello svolazzare della sua auria (è una parola composita, da arpia e furia, che ho appena coniato) ed è ritornato nel Wild, disperdendo nella sua scia un buon numero di asadi. Poi tutto è ritornato alla normalità. La radura si è riempita di nuovo, ed è ripreso quell'incessante, insensato mulinare. Dio, è incredibile quanto ci si può sentire soli quando il cielo racchiude tre lune simili a pepite, e l'essere umano che hai dentro ha abdicato involontariamente e si è arreso all'essenza di quello che dovrebbe condizionare soltanto la tua vita esteriore. È altisonante, no? Voglio dire che è in corso una piccola lotta tra Egan Chaney, lo xenologo culturale, ed Egan Chaney, l'uomo quintessenziale. Senza dubbio, è il risultato della pressione ambientale più che della mia eredità genetica. Ecco una piccola allusione antropologica, Benedict. Non preoccuparti. Non sei tenuto a capirla. Adesso basta. L'avvenimento atipico di oggi ha aguzzato il mio appetito per l'osservazione... ha calmato temporaneamente il mio dissidio interiore. Sono disposto a restar qui per un anno, se sarà necessario, anche se il piano originale prevedeva sei mesi soltanto... perché un io diviso non può trarre conclusioni. No, non può. Almeno, non senza paura di contraddizioni. Ninna nanna e nanna ninna, adesso vado a letto. Forse non toccherò il mio buon vecchio microfono Yamaga per un'altra settimana. Dio santo, guarda quelle lune! La radura degli asadi: un chiarimento Dai diari professionali di Egan Chaney: Il mio insuccesso più grande, all'università, era l'incapacità di organizzarmi. Ancora oggi sono perseguitato da quello spettro. Di conseguenza, ecco una sorta di digressione. Nel
riesaminare questi appunti convulsi per la mia etnografia, mi rendo conto di aver forse dato allo studente l'impressione che la radura degli asadi sia un'area piccola, diciamo quindici metri per quindici. Ma non è così. A quanto ho potuto calcolare, ogni giorno ci sono approssimativamente mille individui asadi... questo numero include gli adulti maturi, i piccoli, e quelli di mezzo tra la giovinezza e la maturità. Naturalmente, in tutto il tempo che ho trascorso nel Synesthesia Wild non sono mai stato completamente sicuro che ogni mattina lo stesso individuo ritorni alla radura. Può darsi che nella giungla avvenga una specie di scambio monumentale, e che ogni giorno un gruppo di asadi ne rimpiazzi un altro. Ma ne dubito. Il Wild abbraccia un'area finita, dopotutto, e ho imparato a riconoscere alcuni degli asadi più vistosi (tornerò più oltre sull'argomento, gentile lettore). Mi sembra che mille vada bene: mille esseri dalla pelle grigia che camminano, si fermano, si piegano e si fissano l'un l'altro, mangiano, partecipano ad atti sessuali a casaccio, si azzuffano come lottatori, senza obbedire a un orario, a una sequenza, o a uno schema razionale comprensibile. Questa attività richiede un certo spazio. Perciò il lettore non può allegramente immaginare che il terreno comunitario degli asadi sia una piccola distesa fangosa tra un cipresso di BoskVeld e una pozzanghera maleodorante. Per niente. Il terreno comunitario ha ampiezza e simmetria, e gli asadi lo mantengono separato dalla giungla con la loro ininterrotta attività quotidiana. Non citerò le dimensioni, comunque. Dirò soltanto che la radura ha forma rettangolare, la caratteristica pendenza e la pratica spaziosità di un campo di calcio del ventesimo secolo. Pura coincidenza, ne sono sicuro. L'erba e i tracciati in gesso della linea mediana e dell'area di rigore brillano per la loro assenza. Dialogo tra l'io e l'anima Dalla corrispondenza privata di Egan Chaney. Il titolo di questa esercitazione è tratto da Yeats, caro Ben. La sostanza del dialogo, però, non ha quasi niente in comune con la poesia che ha lo stesso titolo. Ho scritto questo dialogo immaginario su uno dei miei taccuini mentre attendevo che passasse una notte particolarmente lunga, al limitare della radura degli asadi (a poca distanza dall'immaginaria linea dell'area di rigore all'estremità sud del campo, bordo ovest) e non voglio che lo legga nessun altro, Ben, te escluso. La mancanza di obiettività e le conclusioni tratte dagli interlocutori lo rendono inadatto all'inserimento nella etnografia formale che io devo ancora scrivere. [Sebbene, al campo base, vivessimo in
due edifici vicini, Chaney mi «spedì» questa lettera e io la ricevetti nella casella postale dei dispacci inviati per nave-sonda. Non abbiamo mai discusso tra noi il contenuto della «lettera». Thomas Benedict.] Ma tu, Ben, capirai che uno scienziato è anche un uomo, e forse mi perdonerai. Poiché persino i fanatici del football del ventesimo secolo avevano bisogno di annunciatori che descrivessero l'azione, o di binocoli per vederla, fornisco un programma. Non puoi riconoscere i giocatori senza un programma. I numeri sulla schiena delle maglie metafisiche dei giocatori sono Io e Anima. PROGRAMMA IO = Lo Xenologo Culturale ANIMA = L'Uomo Quintessenziale ALLENATORE (i): Egan Chaney IO: Questa è la mia diciottesima notte nel Synesthesia Wild. ANIMA: Io sono qui da sempre. Ma lasciamo stare. Che cosa hai appreso? IO: Quasi tutte le mie osservazioni mi portano ad affermare enfaticamente che gli asadi non sono soggetti adatti per uno studio antropologico. Non manifestano attività sociali finalizzate. Non adoperano utensili. Hanno un'organizzazione sociale inferiore a quella che avevano quasi tutti i primati estinti della Terra. Solo la visita compiuta quattro giorni fa dal vecchio «uomo» e dal suo spaventoso compagno indica una remota possibilità che io abbia a che fare con esseri intelligenti. Come posso continuare? ANIMA: Continuerai per il disprezzo verso la ripugnanza che cresce di giorno in giorno dentro di te. Perché gli asadi sono in effetti intelligenti... come diceva Oliver Bow Aurm Frasier. IO: Ma come faccio a saperlo, accidenti, come faccio a sapere che quanto affermi è vero? Devo accettare alla cieca la parola di Frasier? ANIMA: Ci sono i segni, dottor Chaney. Gli occhi, per esempio. Ma anche se i segni non ci fossero, tu sapresti che a modo loro gli asadi sono intelligenti quanto te e me. No, Egan? IO: Lo ammetto. La loro intelligenza sfuggente mi ossessiona. ANIMA: No, adesso hai esposto i fatti in modo inesatto. Hai alterato or-
ribilmente la verità. IO: Come? Cosa vorresti dire? ANIMA: Non sei tu, a essere ossessionato, Egan Chaney, perché sei una creatura troppo razionale per essere preda di un poltergeist. Sono io a essere ossessionato, invasato, posseduto da tutti gli spiriti insidiosi del dubbio e della ripugnanza. IO: Ripugnanza? È la seconda volta che adoperi questa parola. Perché insisti? Che cosa significa? ANIMA: Che io odio gli asadi. Disprezzo ogni loro atto culturalmente significativo... o insignificante. Mi fanno agghiacciare l'essenza con la loro alienità. E poiché mi fanno questo effetto, anche tu, dottor Chaney, li odii... perché tu sei semplicemente la vernice civilizzata delle mie reazioni primordiali al mondo. Tu non sei ossessionato dagli asadi, amico mio, bensì da me. IO: Mentre tu, a tua volta, sei ossessionato da loro? È così che la pensi? ANIMA: È così. Ma sebbene tu sia conscio del mio odio per gli asadi, fingi che quella parte del mio odio che filtra in te sia solo una specie di risentimento professionale. Tu credi d'essere risentito nei confronti degli asadi perché distruggono la tua obiettività, il tuo distacco scientifico. In verità, questo distacco non esiste. Tu provi la stessa possente ripugnanza che opera in me come una malattia, lo stesso odio persistente e profondo. Sono io che ti ossessiono. IO: Con l'odio per gli asadi? ANIMA: Sì. Ammettilo, Egan. Ammetti che li odii anche come scienziato. IO: No, accidenti a te, non lo ammetto. Perché noi abbiamo ucciso i pigmei, tutti quanti. Come posso dire: Io odio gli asadi, io odio gli asadi... quando abbiamo sterminato i pigmei? Anche se, mio Dio, li odio davvero. Vita quotidiana: rapporto sul campo Dalle registrazioni professionali della biblioteca della Terza Spedizione a Denebola: È di nuovo sera. Adesso ho una specie di riparo. Mi protegge dalla pioggia molto meglio del tetto poroso della foresta. Sono qui da ventidue giorni. Ho la carne ammuffita. Sotto la carne ammuffita, i miei muscoli si contorcono come i serpenti velenosi che BoskVeld non possiede. Sono saturo della luce sgargiante di Denebola. Sono Gulliver tra gli Yahoos e persino la mia voce che parla in questo piccolo registratore non basta a confortarmi.
Comunque, non è questo che volete sentire. Voi volete i fatti. Volete le mie conclusioni circa il comportamento degli asadi. Volete avere la prova che stiamo studiando una forma di vita che ha almeno una misura fondamentale della capacità di raziocinare. Gli asadi questa capacità ce l'hanno. Lo giuro. Lo so. Ma durante le prime due settimane del mio soggiorno qui, la mia conoscenza derivava quasi esclusivamente da un'intuizione, da una convinzione priva di base empirica. Ma poco a poco, le prove dell'intelligenza hanno incominciato ad accumularsi. Benissimo. Allora lasciatemi fare il mio rapporto sul campo da scienziato obiettivo, e dimenticate le intuizioni del mio io mortale. Lo diceva sempre qualcuno alle elementari, ne sono sicuro. Comunque, il resto di questa registrazione tratterà la vita quotidiana degli asadi. Un giorno della vita degli asadi. Un tipico giorno della loro vita. Tuttavia coronerò il mio rapporto di tali eventi terreni con il resoconto di un evento straordinario accaduto proprio questo pomeriggio. Come Thoreau, comprimerò il tempo per i miei fini artistico-scientifici. Quindi ascoltate, gente. All'alba gli asadi ritornano al loro campo di calcio. Per circa dodici ore, approssimativamente, continuano a mulinare nella radura, facendo tutto quello che gli va. L'attività sessuale e lo scambio di occhiatacce sono le uniche varietà di comportamento che possono venire chiamate «sociali»... a meno che pensiate che possa venir definito tale anche l'aggirarsi in folla. Ho battezzato questo loro modo di vita diurno Insiemità Indifferente. Ma quando gli asadi praticano il coito, la loro indifferenza sparisce e lascia il posto a una brutale ostilità... i due interessati si comportano come se ognuno intendesse uccidere l'altro, e spesso il risultato ci va molto vicino. (Non ho ancora assistito alla nascita di un asadi, nel caso che ve lo stiate domandando. Forse il parto avviene solo nel Synesthesia Wild, con la femmina autoesiliata e priva di assistenza. Ma non posso ancora affermarlo con certezza.) In quanto agli scambi di occhiatacce, sono di breve durata, e comprendono gesticolazioni furibonde e scrollate della criniera. In quei confronti testa-a-testa gli occhi cambiano colore con sorprendente rapidità, passando fulmineamente attraverso l'intera gamma visibile - e forse oltre in pochi secondi. Non sono disposto ad affermare che questi istantanei cambiamenti del colore degli occhi siano l'equivalente del linguaggio, tra gli asadi. Sono sicuro che tu, Eisen, avresti avanzato questa teoria molto prima di me, se
fossi qui... ma io mi preoccupo degli aspetti biologici di ogni studio culturale e devo procedere con i piedi di piombo. Tre settimane di osservazione mi hanno finalmente convinto che gli avversari, in questi scontri a occhiate, controllano i mutamenti chimici interni che causano i cambiamenti delle tinte degli occhi. In altre parole, esistono schemi. E le menti che controllano i mutamenti chimici non possono essere primitive. E non posso neppure credere che i cambiamenti dei colori degli occhi derivino da riflessi involontari. Sono alterazioni volute. Sono infinitamente complicate. Il vecchio Oliver Bow Aurm aveva ragione. Gli asadi hanno un «linguaggio». Tuttavia, per quel che serve a me, tanto varrebbe che non l'avessero. Ogni giorno continuo a comportarmi come se fossi un naturalista dilettante che annota le attività delle abitanti del suo formicaio, e non come uno xenologo culturale che tenta di trovare un alleato contro la monumentale desolazione dello spazio. Ogni giorno è tormentosamente eguale all'altro. E non posso darne la colpa alla mia condizione di paria, perché le uniche attività cui può partecipare anche un asadi ben adattato sono il sesso e gli scontri a occhiate. Non mi addolora molto esserne escluso. In un certo senso, non sono molto più paria di tutti gli altri. Siamo tutti esclusi dal banchetto della vita, per così dire, senza circoli del bridge, balli del sabato sera e gruppi di studio che conferiscano vivacità alle nostre esistenze. A differenza di ogni altra società che ho visto o conosciuto attraverso i libri, gli asadi non hanno neppure raduni comunitari significativi, feste di solidarietà, rituali di coscienza di gruppo. Non hanno neppure famiglie. L'individuo è l'unità base della loro «società». In pratica, hanno istituzionalizzato i processi dell'alienazione. La dispersione al crepuscolo traduce semplicemente in distanza fisica l'assenza di coesione con cui vivono durante il giorno. E non abbiamo forse imparato, nel corso di lunghi secoli, che tale alienazione annienta l'anima? Com'è possibile che gli asadi continuino a vivere come popolo? E del resto, perché fanno così? Ma adesso basta con le domande. Come ho detto in precedenza, oggi è accaduto qualcosa fuori dell'ordinario. È avvenuto questo pomeriggio. (E sta accadendo tuttora, credo.) E sebbene questo avvenimento ponga un numero d'interrogativi più grande di quelli cui dà risposta, mi ha sottratto alla monotonia della vita quotidiana degli asadi. Come l'altra volta, questo strano evento riguarda il vecchio apparso nella radura più di una settimana fa. Lui e con lui, naturalmente, quella specie di rettile cieco appollaiato sulla sua spalla come una maledizione... l'auria.
Fino a oggi non avevo mai visto due asadi mangiare insieme. Nella mia qualità di terrestre con un background occidentale, trovo fastidiosa l'abitudine di mangiare da solo. Fastidiosa e deprimente. Dopotutto, da più di tre settimane mangio solo, e sogno di sedermi alla mensa comune con Benedict ed Eisen, Morrell e Jonathan, e tutti gli altri del campo base. I miei studi sulle consuetudini di strani popoli e sui modelli culturali alieni non mi hanno tolto questa aspirazione. Di conseguenza ho osservato con interesse e con totale incomprensione gli asadi sedersi in disparte dai loro simili e mangiare... succhiando radici, masticando foglie e, come ho riferito una settimana fa, consumando la corteccia e il legno degli alberi. Ma ognuno di loro lo fa da solo, in disparte, come se fosse un necessario esercizio d'isolamento. Oggi questo è cambiato. All'inizio dell'ora che precede la discesa dell'oscurità, il vecchio è entrato barcollando nella radura, sotto il carico di un fardello maledettamente pesante. Subito ho notato il trambusto. Come l'ultima volta, tutti gli asadi sono fuggiti dal terreno comunitario al bordo della giungla. Io ho osservato dal mio riparo. Il mio cuore, caro Ben, saltava come un rospo in un barattolo. Mi ero chiesto se quel vecchio enigmatico sarebbe mai ricomparso, e adesso era tornato. L'auria sulla sua spalla quasi non si muoveva... sembrava gonfia, insensibile, un pupazzo di gomma senza traccia di vita. Durante l'intera visita del vecchio è rimasta in quello stato virtualmente comatoso, eretta ma immobile. Il vecchio asadi (che ho incominciato a considerare come una specie di capotribù, altero e misterioso) si è soffermato al centro della radura, si è guardato intorno, e poi si è mosso per togliersi il fardello dalla schiena. Lo portava appeso alle scapole per mezzo di due cinghie sottili. Cinghie, Eisen: C-I-N-G-H-I-E. Riesci a capire quello che ho provato io? E del resto, la natura del fardello non ha attenuato il mio stupore. Perché, vedi, quello che il vecchio stava deponendo al suolo era la carcassa brunorossiccia di un animale. La carne scintillava nella luce morente di Denebola e di una sua vibrazione interna. La carne era stata scuoiata, Eisen; era stata scuoiata e il vecchio l'aveva portata nella radura come offerta al suo popolo. Ha deposto la carcassa sul suolo polveroso e ha estratto le cinghie dalle incisioni nella carne. Poi è indietreggiato di cinque o sei passi. Lentamente, alcuni maschi adulti hanno cominciato a ritornare nella radura. Si sono avvicinati all'offerta del vecchio con passi diffidenti, come ladri in una
stanza buia. Ho notato che i loro occhi cambiavano furiosamente colore... si parlavano l'un l'altro con la fretta convulsa di cento caleidoscopi elettrici. Tutti, tranne il vecchio che aveva portato l'offerta. Lo vedevo, fermo lontano dalla carne: e i suoi occhi, che sembravano piattini di porcellana non dipinta, erano del colore dell'argilla. I suoi occhi non sono cambiati neppure quando parecchi maschi asadi si sono buttati sulla carne e hanno cominciato a strapparne brandelli splendidamente venati, spintonandosi e sgomitandosi e graffiandosi l'un l'altro in silenzio. Poi, sempre più numerosi, i maschi asadi si sono avvicinati alla carcassa, e intorno ai bordi della radura le femmine e i giovani compivano movimenti incerti per uscire dalle ombre. Ho dovuto lasciare il mio riparo per vedere cosa stava succedendo. E alla fine non ho visto nient'altro che corpi e criniere, e animazione e discordia. Prima che la maggioranza degli asadi se ne accorgesse, Denebola è tramontata. Poi hanno incominciato ad accorgersene, a partire dalle femmine e dai giovani sui bordi della radura, e quella consapevolezza si è diffusa fulmineamente, come un incendio. I primi individui che se ne sono accorti si sono precipitati nel Wild. Altri li hanno seguiti. Alla fine, in pochi secondi, anche i maschi più forti hanno alzato i musi insanguinati verso il cielo e hanno fiutato la situazione. Allora si sono lanciati a balzi verso gli alberi, e sono scomparsi in innumerevoli direzioni... come la luce morente. Ma adesso viene il fatto più strano. Il vecchio non ha seguito la sua gente nel Synesthesia Wild. Anche adesso è là seduto nella radura. Quando tutti gli asadi sono fuggiti, lui ha trovato il posto esatto dove aveva posato la sua offerta, si è chinato, ha abbassato le natiche e incrociato le gambe, e ha assunto la proprietà esclusiva di quel sacro pezzo di terreno insanguinato. In questo momento lo vedo là fuori, accidenti. Le lune di BoskVeld gettano la sua ombra in tre direzioni diverse, e l'auria sulla sua spalla ha incominciato a muoversi un po', facendo frusciare le ali e dondolando la testa cieca. È la prima volta, da quando sono arrivato qui, che non sono solo e... non mi piace. No davvero, amici, non mi piace affatto. Coinvolgimento personale: lo Scapolo Dai taccuini personali di Egan Chaney: Il mio incontro con lo Scapolo,
come l'ho chiamato fin dall'inizio, ha rappresentato un progresso senza precedenti. È avvenuto il ventinovesimo giorno dal mio arrivo sul campo... anche se, per la verità, l'avevo notato per la prima volta tre giorni prima che mi si avvicinasse risolutamente e mi toccasse timidamente la faccia. Quel contatto, che io ho permesso solo per rispetto alla Madre Scienza, mi ha spaventato più di tutto quello che mi era capitato nel Wild. Lontano da ogni minaccia quanto un bacio di donna, quel contatto mi ha spaventato più della prima apparizione del vecchio capo, più della figura d'incubo dell'auria, più del caos dilaniante del pasto seguito al dono della carcassa color fiamma da parte del vecchio. Ero rimasto solo per settimane. E adesso, senza preamboli, uno degli asadi aveva deciso di riconoscere la mia presenza toccandomi. Toccandomi! Devo fare un passo indietro. Devo tornare alla notte in cui il capo asadi, contro ogni consuetudine, è rimasto nella radura. Quando mi sono accorto che aveva intenzione di restare, ho provato un altro momento di terrore, ma le implicazioni della sua permanenza hanno sconfitto la paura. Vigile e attento, mi sono accinto a studiare ogni suo movimento e a registrare tutto ciò che poteva sembrare significativo. Il vecchio non si è mosso. L'auria è diventata irrequieta, via via che il tempo passava; ma non lasciava la spalla dell'asadi. Sono rimasti nella radura per tutta la notte e per tutto il giorno seguente. Stavano sul terreno insanguinato. Quando è venuto il crepuscolo del secondo giorno, se ne sono andati con tutti gli altri. Ero disperato. Per quanti giorni avrei dovuto soffrire, prima che accadesse qualche altro evento insolito? Avrei trascorso i prossimi cinque mesi osservando gli asadi che si impegnavano in accoppiamenti brutali e in insensati scontri a occhiate? Ma il ventiseiesimo giorno al limitare della radura nel Synesthesia Wild, ho visto lo Scapolo. A quanto ne so, l'ho visto per la prima volta. Certamente, se anche l'avevo visto prima, non gli avevo badato. Quell'evento anomalo ha infranto di nuovo il tedio... anche se allora non mi rendevo ben conto di quel che stava succedendo. Sapevo soltanto che l'interminabile andirivieni degli asadi aveva lasciato temporaneamente il posto a un istante di comunione quasi pura. Lo Scapolo era un esemplare tutt'altro che sensazionale. Mi sembrava che avesse superato da tre o quattro anni l'adolescenza degli asadi. Magro, con la pelle grigia, aveva una criniera screziata azzurroargento, così corta che gli altri lo consideravano sicuramente un virtuale
reietto. In effetti, da quando l'ho conosciuto, non l'ho mai visto partecipare ad accoppiamenti, né agli scambi ritualizzati di sguardi degli asadi con criniera normale. La prima volta che ho sentito il suo sguardo su di me, lo Scapolo si trovava sulla mia immaginaria linea del rigore, e guardava in direzione del mio riparo, da uno spazio libero in mezzo ai suoi confratelli in movimento incessante. Aveva scelto di fissare proprio me. Il fatto che non ricevesse un sacco di botte per aver violato l'unico tabù precedentemente inviolabile degli asadi mi ha confermato che la sua posizione tribale era trascurabile. La fratellanza esisteva tra me e lui, non tra lui e gli esseri cui somigliava geneticamente. Ma c'era un particolare saliente, in cui non somigliava alla stragrande maggioranza degli asadi. I suoi occhi: i suoi occhi duri, che nascondevano le emozioni. Erano esattamente come quelli del vecchio capo... traslucidi ma vuoti, smaltati ma incolori, cotti nel forno del grembo materno, ma fragili come argilla cotta al sole. Gli occhi dello Scapolo non passavano mai attraverso la gamma dell'iride, come gli occhi prismatici dei suoi compagni. Restavano di fredda argilla, d'una sfumatura un po' più chiara della sua pelle. Ed è stato con quegli occhi, il ventiseiesimo giorno della mia permanenza sul campo, che lo Scapolo mi ha misurato. Il calore meridiano ci avvolgeva come un miraggio tremulo, gli occhi negli occhi. «Beh» ho gridato, «non startene lì a far smorfie. Vieni qui, così potremo parlare». La mia voce non ha avuto il minimo effetto sui brulicanti asadi... non ha avuto effetto neppure sullo Scapolo. Senza mutare postura, mi ha guardato con lo stesso interesse di prima, né più, né meno. Naturalmente, lui non poteva «parlare» con me. I miei occhi umani non possiedono il virtuosismo dei semafori, e poiché quelli dello Scapolo non cambiavano mai colore, lui non poteva comunicare neppure con i suoi simili. A tutti gli effetti pratici, era muto. Ma quando l'ho chiamato, mi è parso che i suoi occhi spenti indicassero una completa assenza d'intelligenza. Sul momento, non mi è venuto in mente che potevano essere il segno esteriore di una menomazione fisica, come negli esseri umani il mutismo può essere il risultato di una malattia o di una paralisi delle corde vocali. Ho ritenuto invece che lo Scapolo fosse stupido. Ancora adesso, non sono assolutamente certo che quel giudizio iniziale fosse errato. «Vieni qui» ho ripetuto. «Non mi dà nessun fastidio che tu sia deficien-
te.» Lo Scapolo ha continuato a fissarmi. Non si è avvicinato. Tra noi c'era una distanza di trenta metri circa, e di tanto in tanto un asadi vagante si metteva in mezzo, ostacolando la visibilità. «Anche se avessi un cervello di gallina» ho borbottato, «non sarebbe un grande svantaggio in mezzo a questa gente, vecchio mio. Ho visto solo il vecchio capo che ha cercato di mettere alla prova la loro intelligenza. E l'intelligenza non provata, come la virtù chiusa in un chiostro, non vale un...». Ho usato un'antica e venerata oscenità. Le fronde canore del Synesthesia Wild non mi hanno censurato per averla detta. Quaranta anni-luce e una mezza dozzina di secoli avevano dato a quella parola una rispettabilità mistica, e io ero troppo stanco per dire qualcosa di peggio. Lo Scapolo non ha reagito al mio scetticismo inudibile. Mi ha fissato per tutto il resto del pomeriggio. Io ho tentato di tenermi occupato prendendo appunti, poi consumando un pranzo formato da parte delle razioni che mi aveva lanciato Benedict, e infine osservando gli altri asadi. Qualunque cosa, pur di evitare quello sguardo implacabile. È stato quasi un sollievo, quando è venuto l'imbrunire. Ma quella sera la mia eccitazione è cresciuta, e mi sono reso conto che era accaduto qualcosa di monumentale... la mia presenza era stata riconosciuta. Il giorno seguente, lo Scapolo mi ha prestato scarsa attenzione. Vagava depresso avanti e indietro tra le lente file indifferenti dei suoi simili, come un grigio pagliaccio dinoccolato cui nessuno badava, tranne me. Ero deluso perché lo Scapolo non mi dedicava lo stesso interesse che aveva mostrato il giorno prima. Il ventottesimo giorno ha ripreso a fissarmi sfrontatamente, e io mi sono sentito gratificato. È seguita una procedura diversa dalla strategia stazionaria del primo giorno... ha cominciato a muoversi instancabile nella radura, passando avanti e indietro fra i gruppi di asadi, ma restando sempre abbastanza vicino alla linea del fallo laterale ovest per potermi vedere. I suoi occhi restavano spenti come l'interno di due gusci d'ostrica. Mi sono sentito meglio il mattino seguente, il mattino del ventinovesimo giorno... stava succedendo qualcosa. La luce della cruda Denebola sembrava più dolce, il calore tropicale meno debilitante. Ho lasciato il mio riparo e sono avanzato sul terreno comunitario. Immerso nel vuoto pastello dell'alba, sono rimasto lì mentre gli asadi arrivavano volando fra i tralci e le fronde di Synesthesia Wild per incominciare un'altra giornata di Indifferente Insiemità. Le loro figure erompevano
attraverso i veli verdi sul bordo della radura come mille nuotatori che si tuffassero in una sorgente, e ben presto mi sono trovato circondato. Circondato ma ignorato. Grosse teste sgraziate dalle criniere argentee o azzurre o bianche come l'argilla o lionate ondeggiavano intorno a me, in un movimento goffo, senza sincronia. E sopra di noi il cielo di BoskVeld si estendeva nell'immensità attenuata di un universo ancora più noncurante di quelle teste. Il sole ha consumato il mattino, e finalmente io ho trovato lo Scapolo. Senza dubbio mi aveva tenuto d'occhio tutta la mattina... ma, muovendosi con circospezione tra i suoi simili, non mi aveva permesso di vederlo. Mi ero un po' allarmato per la sua apparente assenza. Poi Denebola è arrivata direttamente a perpendicolo, e lo Scapolo è avanzato attraverso un gruppo in dispersione e si è fermato a meno di cinque metri da me, tremando del proprio ardire. Tremavo anch'io. Temevo che da un momento all'altro lo Scapolo si buttasse su di me e mi divorasse... invece si è fatto forza, deciso a portare a termine il compito che si era prefisso, e ha incominciato ad avvicinarsi. Io sono rimasto ad attenderlo. La testa grigia, la criniera screziata, i gusci gemelli degli occhi... tutto si muoveva verso di me. Poi il lungo braccio grigio si è levato verso la mia faccia, e la mano umanoide ha toccato la depressione sotto il mio labbro inferiore, ha toccato il più recente dei tagli che mi ero fatto radendomi, mi ha toccato senza impaccio e senza malignità. E io sono stato scosso da un brivido. Cronologia: trascorrono le settimane 29° giorno: Dopo aver stabilito questo insolito contatto personale con l'indigeno asadi (d'ora innanzi chiamato «lo Scapolo») ho fatto del mio meglio per scoprire qualche metodo di comunicazione. Non è andato bene niente. Non le parole, naturalmente. Non i segnali con le mani. Non gli schizzi tracciati per terra. Neppure una goffa mimica. Tuttavia, non sono riuscito a dissuadere lo Scapolo dal seguirmi. Una volta, quando ho lasciato la radura per andare a pranzo, poco è mancato che mi seguisse nel mio riparo. Quasi mi sono meravigliato quando, all'imbrunire, se ne è andato assieme a tutti gli altri... mi è stato dietro come un cane per tutto il pomeriggio. Nonostante questa diserzione, il mio lavoro mi emoziona nuovamente. Domani mi sembra lontano mille anni, e non riesco a credere di aver pensato seriamente a gettar via i primi risultati della mia presenza.
35° giorno: Niente. Niente del tutto. Lo Scapolo continua a seguirmi, senza lasciarsi mai distanziare più di otto o nove passi... la sua devozione è tale che non posso urinare senza che lui monti la guardia alle mie spalle. Deve essersi convinto di aver trovato un alleato contro l'indifferenza degli altri, ma non saprei che cosa faccia guadagnare, a me o a lui, questa sua apatica devozione. So soltanto che ho incominciato a stancarmi delle sue attenzioni, così come lui sembra essersi stancato della routine monotona che non vuol saperne di abbandonare... La vita nella radura prosegue come sempre. Gli altri ci ignorano. 40° giorno: Sto male. La medicina che Benedict mi ha lanciato durante un precedente attacco di diarrea è quasi finita. Piove. Mentre scrivo questo, sono sdraiato sul giaciglio nel mio riparo e guardo gli asadi che vanno avanti e indietro sul loro terreno di riunione. L'odore della loro umidità grigia e imbronciata mi aggredisce come un veleno, intensifica la mia nausea. Gli asadi vanno avanti e indietro, sempre avanti e indietro... Ho formulato l'interessante nozione che tutto il loro modo di vita, in cui ho dovuto lottare per vedere un paio di modelli significativi, sia in se stesso l'unico rituale significativo e continuato della loro specie. In precedenza, cercavo numerosi rituali minori che mi aiutassero a spiegare la loro società... ma può darsi anche che il rituale siano loro. Come dice il poeta: «Chi può distinguere il danzatore dalla danza?». Ma adesso che ho formulato questa nuova e brillante ipotesi sugli asadi, mi ritrovo ancora alle prese con l'interrogativo: Qual è il significato del rituale che sono gli stessi asadi? Un interrogativo esistenziale, naturalmente. Forse è la malattia che mi spinge a pensare così. Forse sto diventando melodrammaticamente pazzo. Lo Scapolo sta seduto a gambe incrociate, tra il fogliame sgocciolante e inargentato dai vapori, a circa cinque metri dal mio riparo. La criniera gli aderisce al cranio e alle spalle, come se fosse formata da ciuffi di muffa sporca. Sebbene mi abbia seguito passo passo per undici giorni, ormai, non sono riuscito a indurlo a entrare in questo rifugio raffazzonato. Si siede sempre all'esterno e mi fissa, stando sotto un'ombrella di fronde lucide... anche quando piove. Come adesso. La sua riluttanza a venire sotto un tetto artificiale può essere significativa. Se almeno riuscissi a ottenere con altri due o tre lo stesso progresso che ho ottenuto con lo Scapolo! 46° giorno: Le conseguenze della mia malattia rimangono. E anche lo
Scapolo. Le une e l'altro hanno incominciato a confondersi nella mia mente... non c'è altro da segnalare. Dentro e fuori, dentro e fuori. Alba e tramonto, tramonto e alba. Il Grande Andirivieni continua. 50° giorno: Dopo che gli asadi sono fuggiti nella giungla, la notte scorsa, mi sono messo in marcia verso il punto ove Benedict lascia ogni settimana le mie razioni di viveri e di medicinali. Le dosi di Placenol che prendo da un po' di tempo, imbottendomi di quella roba come un drogato (figurativamente parlando, naturalmente), sono diventate più consistenti... ma Eisen, all'inizio di questa ridicola spedizione, mi aveva assicurato che il Pnol, in qualunque quantità, non dà assolutamente assuefazione. Ciò che mi sorprende, a parte questo attributo piuttosto sorprendente della droga, tuttavia, è il fatto che Benedict ha continuato a lanciarne sempre di più ogni settimana, fornendomi una scorta quasi esattamente proporzionata al mio crescente consumo. O forse io ne uso di più perché me ne viene lanciata di più? No, no, naturalmente. Tutto viene passato a un computer, al campo base. Un programma che hanno analizzato qualche settimana fa, probabilmente, aveva predetto questo aumento completamente prevedibile della mia dipendenza «emotiva» dal P-nol. Comunque, mi sento meglio. Ho ricominciato a funzionare. Mentre marciavo pesantemente, dalle ombre fluide degli alberi della gomma è filtrata in me un'inquietudine ossessiva. Sentivo rumori, che sono continuati fino al punto del lancio... fiochi, in identificabili, spaventosi. Consentitemi di registrare questo: io credo che lo Scapolo fosse nascosto da qualche parte, al di là delle grandi foglie e delle liane penzolanti da cui provenivano quei rumori. A un certo momento, anzi, mi sembra di aver visto i suoi occhi opachi riflettere in parte la lucentezza della prima luna della sera. Ma non si è mai rivelato completamente... ammesso che ci fosse davvero. Un biglietto dattiloscritto sul pacco dei rifornimenti: «Senti, Chaney, non sei tenuto a mantenere al cento per cento la non-associazione con noi. Te ne sei andato da quasi due mesi. Qualche conversazione con autentici esseri umani non rovinerà la tua preziosa etnografia. Lascia che ti lanciamo una radio. Puoi usarla la sera. Se la vuoi, spara un bengala domani notte, prima che siano sorte tutte e tre le lune, e io te la porterò con l'elicottero il giorno dopo, al punto dei lanci. Cosa ne dici, Egan? Il tuo amico Ben il Benefico». Ma naturalmente non voglio una radio. Parte di questa faccen-
da è proprio la sofferenza. Lo sapevo prima di venir qui. Non mi arrenderò fino a che le cose non avranno finalmente cominciato ad acquistare un po' di senso. 57° giorno (prima dell'alba): Non ho dormito tutta la notte. Ieri sera, appena sette od otto ore fa, sono andato nella giungla a recuperare l'ottavo lancio di rifornimenti di Benedict. Sul pacco, un altro biglietto dattiloscritto: «Chaney, sei un testardo. Non sai neppure declinare il tuo nome: dovrebbe essere Ego, anziché Egan. Spero che tu abbia imparato a parlare l'asadi. Se non l'hai imparato, sono sicuro che ormai sei impazzito e hai incominciato a predicare sermoni pentecostali agli alberi. Che scena. Lancia un bengala se hai bisogno di qualcosa, Ben». Non avrei immaginato che Ben fosse così letterato e così sardonico. Mentre ritornavo alla radura ho sentito di nuovo rumori. Il Synesthesia Wild echeggiava del grigiore in movimento d'una figura indistinta. Sono certo (credo) che fosse lo Scapolo che mi spiava, e che si ritirava goffamente davanti a me. Sì, anche se ero appesantito dallo zaino dei rifornimenti ho deciso di seguire quei rumori, quei fruscii sospetti di foglie e rametti. E anche se non ho raggiunto la mia preda, sono riuscito a non farmi distanziare! Doveva essere lo Scapolo, quel grigiore appena intravisto che fuggiva davanti a me... nessuno dei suoi simili mi avrebbe permesso di scorgere neppure il fogliame agitato nella scia della sua scomparsa. Mi sono addentrato sempre più nel Wild, lontano dalla radura. Chiazze di chiaro di luna correvano con noi attraverso la giungla. Quando, ansimando, sono passato attraverso una breccia tra gli alberi, all'improvviso mi sono accorto che i rumori che mi attiravano avanti erano cessati. Ero solo. Forse sperduto. Ma nella radura, levata verso il cielo come una pagoda orientale, incombeva davanti a me la massa vasta e impervia di qualcosa di artificiale. Le risonanze del Tempo mi hanno fatto sentire uno gnomo. Sbalordito, ho sentito il panico inerpicarsi per la scala membranosa della mia gola. La mia esclamazione sbigottita mi ha sbigottito ancora di più... È difficile accettare il fatto che ho visto quel che ho visto. Ma quella pagoda, o quel tempio, o quel che è, esiste davvero. Il vecchio Oliver Bow Aurm studiò le rovine di una di quelle strutture... e scoprì solo che forse gli asadi, un tempo, avevano avuto una civiltà importante. Da questa pagoda intatta, invece, io apprenderò senza dubbio cose che eclisseranno persino le scoperte di Frasier. Ma Dio sa quando tornerò ancora qui... Ho alzato gli oc-
chi verso le ali maestose di quella costruzione artificiale, e poi mi sono girato, mi sono precipitato nella giungla e sono corso via all'impazzata, con lo zaino che mi batteva sulla schiena. Dove stavo andando? Tornavo alla radura degli asadi? Da che parte dovevo correre? Non conoscevo la risposta a questa domanda. Alla cieca, mi sono mosso nella direzione dei fruscii sospetti delle foglie e dei ramoscelli, che erano ripresi non appena ero fuggito dalla pagoda. Ancora lo Scapolo? Non so. Non ho visto niente. Ma in meno di due ore ero ritornato al sicuro nel mio rifugio... Adesso sto aspettando l'alba, e l'arrivo della marea degli asadi. Sono euforico, e non ho neppure toccato la mia nuova scorta di Placenol. 57° giorno (sera): Se ne sono andati di nuovo. Ma ho assistito a qualcosa d'importante e sconvolgente. Questa mattina lo Scapolo non è arrivato assieme agli altri. O almeno, non si è piazzato come d'abitudine otto o nove passi dietro di me. Una simile vigilanza peripatetica non passa inosservata, e questa mattina ne ho sentito la mancanza. Totalmente ignorato, mi sono aggirato tra gli asadi, cercando lo Scapolo. Non c'era. Possibile che si fosse fatto male, durante la nostra caccia di mezzanotte attraverso il Wild? A mezzogiorno ero esausto e perplesso: esausto dalla ricerca e dalla mancanza di sonno, sconcertato dall'apparente defezione dello Scapolo. Sono arrivato al mio riparo e mi sono sdraiato. Dopo un poco mi sono addormentato, ma non era un sonno profondo. Un fruscio di foglie e ramoscelli mi ha fatto aprire gli occhi. Mi è parso che una figura grigia si avvicinasse e si accovacciasse al limitare della radura, a cinque metri dal punto dove stavo. Come un familiare muto, la figura mi vegliava... Kyur-AAAAACCCCCK! Gemiti e trambusto. Trambusto e colpi violenti. Il sottobosco, vicino al mio riparo, scricchiolava per l'invasione di piedi pesanti. Strappato al sogno da quei rumori, mi sono sollevato a sedere e ho cercato di orientarmi nuovamente nel mondo. Ho visto lo Scapolo. Ho visto tre dei maschi più grossi e agili buttarlo a terra e tenerlo inchiodato. Sembrava che collaborassero, per bloccarlo! Ho osservato attentamente le loro azioni. Quello che hanno fatto poi ha confermato la mia valutazione immediata. Si trattava veramente di cooperazione. I tre maschi, ignorandomi con tutto il loro slancio sprezzante di aristocratici, hanno sollevato lo Scapolo e l'hanno portato al centro della radura. Li ho seguiti. Come avevano fatto durante le due visite inaspettate
del vecchio capo, gli asadi si sono affollati lungo le linee laterali del campo... ma non sono scomparsi nella giungla. Sono rimasti nella radura, scambiandosi sberle come gli spettatori rabbiosi di una partita semileggendaria. Io ero l'unico individuo, oltre ai quattro maschi in lotta, sul terreno della radura. Ho guardato lo Scapolo. I suoi occhi sembravano quasi cambiare colore: passavano dal solito biancore d'argilla a un giallo molto diluito. Ma non potevo intervenire. Gli hanno rasato la criniera. Una femmina che portava due pietre piatte e affilate è uscita dalla folla, sul lato est del campo... e ha consegnato le pietre ai maschi. Con quelle, i tre hanno raschiato via gli ultimi ciuffi spelati della gorgiera azzurro-argento dello Scapolo. Proprio quando stavano per finire, lui ha sferrato un calcio che per un momento ha sbilanciato uno dei suoi aguzzini, e poi si è arreso, ed è rimasto riverso a fissare Denebola. L'intera operazione aveva richiesto solo una decina di minuti. I tre maschi si sono allontanati dalla vittima... e gli spettatori soddisfatti, accorgendosi che la rasatura era finita, sono rientrati tranquillamente nella radura, muovendosi a casaccio come al solito. Adesso, naturalmente, ignoravano lo Scapolo con la freddezza che una volta avevano riservato a me. Io stavo al centro della radura, in attesa che lo Scapolo si rialzasse in piedi: noi due eravamo un confuso punto focale sulla ruota in lenta rivoluzione della Danza dell'Indifferenza degli asadi. Ma per molto tempo lui non si è mosso. La testa scarna, completamente rasata, scalfita dalle pietre da barbiere (i primi utensili che avessi visto usare da uno di loro, escludendo le cinghie del capotribù), sembrava innaturalmente fragile. Mi sono chinato e gli ho teso la mano. Un asadi di passaggio mi ha urtato. Accidentalmente, credo. Lo Scapolo si è rotolato sullo stomaco, si è rotolato di nuovo per non farsi calpestare, si è raggomitolato in posizione fetale e poi, inaspettatamente, è balzato dalla polvere e si è lanciato attraverso una fila spezzata dei suoi simili noncuranti. Voleva arrivare al Wild? Le figure degli altri me lo hanno nascosto, ma immagino che sia scomparso tra gli alberi e abbia continuato a correre. È tutto estremamente interessante, certo. Che cosa significa? La mia ipotesi, questa sera, è che gli asadi abbiano punito lo Scapolo perché la scorsa notte, inavvertitamente o di proposito, mi ha condotto all'antica pagoda nel Synesthesia Wild. Il suo arrivo in ritardo alla radura può essere stato un tentativo ingenuo di procrastinare la punizione. Non so immaginare altre ragioni per cui gli asadi avrebbero dovuto far di lui un reietto più di quanto già fosse.
Tutta questa ambivalenza mi sconcerta. Inoltre, mi convince che non posso permettere alla monotonia dei nove decimi della loro «vita quotidiana» di impedirmi di scorgere il significato fondamentale di tutto. La pazienza, buon Dio, costituisce i nove decimi della xenologia culturale. E la punizione della noia (dato che sto parlando di punizioni, più o meno crudeli) coincide con la durata della pazienza dello xenologo. Di conseguenza, vado a letto. 61° giorno: Lo Scapolo non è ritornato. Sapendo d'essere ufficialmente una paria, preferisce esserlo a modo suo. Durante la sua assenza, ho pensato a due cose: 1) Se gli asadi hanno effettivamente punito lo Scapolo perché mi ha condotto alla pagoda, allora si rendono conto che io non sono semplicemente un reietto senza criniera. Sanno che sono geneticamente diverso, un essere venuto da qualche altro luogo, e desiderano consciamente che io continui a ignorare il loro passato. 2) Mi piacerebbe fare una spedizione alla pagoda. Con un po' di perseveranza, non dovrebbe essere troppo difficile trovarla. Nella radura degli asadi succedono tanto di rado eventi insoliti che potrei permettermi di allontanarmene per un po'. Un'assenza di un giorno non dovrebbe lasciare lacune irreparabili nella mia etnografia. Se la spedizione andrà bene, quell'assenza potrà fornire intuizioni importanti sul rituale della vita degli asadi. Vorrei soltanto che ritornasse lo Scapolo. 63° giorno: Poiché oggi era il giorno del nono lancio di Benedict, ho deciso di compiere la spedizione nel Wild questa mattina presto. Avrei «preso due piccioni con una fava», come direbbe Ben. Primo: avrei cercato la pagoda perduta. Secondo: se non fossi riuscito a trovarla, avrei rimediato parte della giornata ritirando i nuovi rifornimenti. Perciò me ne sono andato prima dell'alba. Gli istinti d'orientamento degli esseri umani si devono essere estinti da millenni... mi sono perduto. Il Wild fremeva di una calma inumana e gotica che mandava in brandelli il sottile tessuto delle mie risorse. Nel tardo pomeriggio, l'elicottero di Benedict mi ha salvato. Ha descritto una serie di cerchi balbettanti sopra il tetto della giungla... a un certo momento ho alzato la testa e ho visto i pattini così vicini alle cime degli alberi che una scimmia-spia avrebbe potuto balzare a bordo. Ho seguito il rumore dell'elicottero fino al punto del lancio. Da lì, non ho avuto difficoltà a ritornare alla radura.
Oggi, dunque, è il primo giorno, da quando sono nel Wild, che non ho visto neppure un asadi. Sento la mancanza dello Scapolo come sentirei la mancanza di un figliol prodigo. A ogni alba, attendo con rinnovata speranza. Ma mi sta davanti tutta la notte, e l'unico modo per farla passare è dormire. 68° giorno: Anche se non potevo giustificare un'escursione con un altro lancio (al prossimo mancano ancora due giorni) sono andato di nuovo in cerca della pagoda. Gli ultimi quattro giorni hanno fruttato uno zero dal punto di vista informativo. Dovevo allontanarmi dalla radura, dovevo prendere un'iniziativa, anche se poteva sembrare un'azione sciocca. Ed è stata terribilmente sciocca... mi sono perso di nuovo, in modo terrificante. I rampicanti verdi si sono ammucchiati intorno a me... il cielo è scomparso. E questa volta sapevo che l'elicottero di Benedict non mi avrebbe sorvolato... a meno che potessi aspettarlo per altri due giorni. E allora, caro diario, com'è tornato a casa il nostro eroe? Ancora una volta, ho sentito i fruscii sospetti di foglie e ramoscelli. Mi sono limitato a seguirli. Adesso sono di nuovo nel mio riparo, sicuro che lo Scapolo è ancora là fuori, e ben deciso a non tentare altre spedizioni prima di poter contare su un aiuto. 71 ° giorno: Lo Scapolo è tornato! 72° giorno: Ieri non ho potuto registrare altro che il fatto puro e semplice della ricomparsa dello Scapolo nella radura. Questa sera annoterò solo tre o quattro fatti concomitanti. Lo Scapolo ha ancora una criniera ridottissima e gli asadi lo trattano come un reietto totale. In questi ultimi due giorni, lui ha mostrato un considerevole grado d'indipendenza nei suoi rapporti con me. Continua a seguirmi, ma meno vistosamente, e con varie deviazioni che lo sottraggono completamente alla mia vista. Non sta più accovacciato vicino al mio riparo. Forse una dimora artificiale gli ricorda fastidiosamente la pagoda alla quale mi ha condotto, e per la cui rivelazione a un estraneo è stato umiliato pubblicamente. Tuttavia, questa nuova soluzione mi sembra soddisfacente. Un po' d'intimità fa bene all'anima. 85° giorno: Il biglietto nel pacco dei rifornimenti di ieri: «Lancia un bengala, domani sera, se vuoi restare nel Wild. Eisen sta cominciando a pensare seriamente di trascinarti fuori. Soltanto un bengala ti salverà. Il bengala significherà: "Sto imparando qualcosa. Non toglietemi al mio la-
voro". Se non lo lancerai, vorrà dire che il tuo soggiorno non è più utile, oppure che sei arrivato al limite. Il mio consiglio personale, Egan, è che tu non faccia niente, e che te ne stia buono ad aspettarci. Okay? Il tuo amico Ben». Ho appena lanciato due maledetti bengala. L'85° giorno passerà alla storia xenologico-culturale come il personale Quattro Luglio di Egan Chaney. 98° giorno: Rieccomi. Trenta giorni fa ho compiuto la mia seconda escursione nel Wild per trovare la pagoda sfuggente. Sono sopravvissuto quasi per un mese intero senza avventurarmi lontano dalla radura della comunità. Quasi tutto il mio tempo è stato dedicato ad annotare le differenze individuali tra gli asadi. Poiché il loro comportamento, per la maggior parte, manifesta un'uniformità sconcertante, mi sono necessariamente occupato dell'osservazione delle loro caratteristiche fisiche. Anche in questo campo, però, molte differenze sono più apparenti che reali... ho trovato pochi fattori discriminanti veramente utili. Le dimensioni hanno una certa importanza. Un altro fattore discriminante è rappresentato dalla capacità degli occhi di passare attraverso l'intera gamma dell'iride. Ma gli unici asadi che non possiedono questa facoltà in misura completa sono il vecchio capo e lo Scapolo. Adesso, comunque, so riconoscere a vista parecchi asadi, oltre a quei due. Ho cercato di assegnare nomi descrittivi a questi individui riconoscibili. Chiamo Turnbull il maschio adulto più piccolo della radura, perché la sua statura mi ricorda la descrizione dei pigmei dell'Ituri fatta da Colin Turnbull. C'è un individuo nervoso, dalle mani sempre in movimento, che io chiamo Benjy, in onore di Benedict. Il vecchio capo continua a esercitare un'influenza poderosa sui miei pensieri. Ho derivato il suo nome con una semplice analogia. Lo chiamo Eisen Zwei. Adesso, lo Scapolo sembra deciso a conservare l'anonimato... la criniera gli è ricresciuta di pochissimo, dopo la rasatura. Sarei quasi disposto a giurare che la notte, nel Wild, se la strappa, tenendola corta di proposito. Chi può dirlo? In questi ultimi giorni, ha evitato persino me: cioè, dopo aver accertato la mia ubicazione al mattino, e poi di nuovo a sera, come se questa certezza bastasse per farlo stare sicuro tutto il giorno e poi tutta la notte nell'incertezza di BoskVeld. Immagino che il nostro romanzetto abbia perduto il suo fascino. Bene. Adesso ci sentiamo più a nostro agio tutti e due.
Oggi c'è stato un altro lancio. Non sono andato a ritirare i miei pacchi. Sono troppo stanco, troppo dissanguato. Ma ho rinunciato al Placenol e alla sua euforia psicologica che ha reso sopportabile la debolezza fisica. I miei pacchi resteranno là fino a domani. Questa notte leggerò il rapporto ufficiale di Odegaard sugli Shamblers di Misery. E poi a dormire. Dormire dormire dormire. 106° giorno: Eisen Zwei, il vecchio capo, oggi è ritornato! Sfogliando questo taccuino mi accorgo di averlo visto entrare nella radura per la prima volta novanta giorni fa. Incomincia a emergere uno schema? Se è così, non riesco a interpretarne la periodicità. Non so neppure, ora che ci penso, quale sia la durata media della vita degli asadi. Può darsi che un uomo debba restare qui per secoli, per sbrogliare solo una minima parte della loro esistenza. Dio non voglia. La visita di Eisen Zwei - per tornare in argomento - è stata identica alla prima. È entrato nella radura con l'auria sulla spalla, si è seduto, è rimasto circa un'ora, poi è ritornato nel Wild. Gli asadi, naturalmente, sono scappati via... mossi, forse, più dalla ripugnanza che dalla paura. Per quanto tempo dovrò attendere prima che ritorni il vecchio E. Z.? 110° giorno: Il comportamento degli asadi - tutti gli asadi - ha subito un'alterazione molto sottile, che non riesco a spiegarmi. Niente, nella mia precedente associazione con loro, mi offre una base per valutarne il significato e la portata. Anche dopo 110 giorni sul campo sono schiavo dei concetti puramente umani di causa ed effetto... il comportamento cambia per certe ragioni, non per puro e semplice capriccio. Ma qui le ragioni mi sfuggono allo stesso modo in cui una volta mi è sfuggita la pagoda degli asadi, che adesso mi limito a sognare. Mi sia consentito esporre quello che ho osservato. Negli ultimi due giorni ogni membro di questa specie pazza si è guardato bene dall'entrare in un'area abbastanza ampia al centro della radura. Perciò gli asadi si sono affollati in due gruppi arbitrari alle estremità opposte del campo. Queste «squadre» non si comportano esattamente allo stesso modo di prima, quando formavano un gruppo. Gli individui ai due lati della Terra di Nessuno tacitamente riconosciuta irradiano un'atmosfera di accresciuto nervosismo. Girano la testa, incrociano le braccia sul petto, barcollano, subiscono parossismi quasi epilettici mentre camminano avanti e indietro, avanti e indietro tra i loro simili. Quando li osservo, qualche volta ho l'impressione
che si contorcano al ritmo della musica di uno strano flauto, che suona nei recessi più profondi della giungla. Qualche volta gli scontri a occhiate avvengono tra individui situati sulle sponde opposte dell'abisso immaginario. Gli occhi cambiano colore, i corpi si piegano, le membra si agitano. Ma nessuno dei due partecipanti mette piede all'interno della zona di separazione che è lunga una trentina di metri e larga quasi quanto l'ampiezza della radura, ma non esattamente. Non esattamente perché, badate bene, c'è una stretta fascia di terreno lungo ognuna delle linee laterali, e attraverso quelle fasce le due «squadre» possono scambiarsi i componenti, uno alla volta. Questi scambi avvengono di rado: un asadi esce sfrecciando nervosamente dal suo gruppo, corre lungo uno di quei corridoi ed entra nel campo «nemico». Perché evitano il centro della radura? L'unica spiegazione, per la mia mentalità di terrestre, è che il centro della radura corrisponde a quell'area temibile dove un colpevole è stato umiliato, è stato sparso sangue ed è stata consumata la carne. Ma tutte queste cose sono accadute molto tempo fa. Perché sono diventati così schizzinosi tutto di un colpo? Perché c'è questa separazione? Lo Scapolo ha reagito a tutto questo arrampicandosi sui rami di un grosso albero a dieci metri dal mio riparo. Dall'alba al tramonto sta seduto lassù, al di sopra dei suoi imperscrutabili simili, e li osserva, dorme, e forse cerca di valutare l'atmosfera generale. Qualche volta guarda nella mia direzione, per vedere come giudico questi nuovi sviluppi. Io non so cosa pensarne. 112° giorno: Lo strano valzer bipartito continua. I danzatori sono diventati ancora più frenetici nei loro movimenti. L'ansia freme nell'aria come una carica elettrica. Lo Scapolo si arrampica sempre più in alto sul suo albero, e sale sui rami alla sommità, dove è difficile tenersi aggrappato... si incastra nelle biforcazioni. Negli ultimi tre giorni, non ricordo di aver visto i danzatori mangiare... e nessuno si è dato ad attività sessuali. Persino i loro scontri a occhiate sono virtualmente cessati, anche se quei pochi che ancora avvengono sono intensi e prolungati. Il flauto inesistente che suona nella mia testa è diventato più acuto e pungente, e io non riesco a immaginare quale sarà la fine di questa pazzia. 114° giorno: Oggi gli eventi sono culminati in una serie di sviluppi bizzarri che mi hanno gettato in uno sconcerto di primissimo ordine. Che cosa accadrà domani? Non riesco a immaginare un seguito a ciò che oggi ho os-
servato, estatico. È incominciato presto. Eisen Zwei è venuto nella radura un'ora dopo l'arrivo degli asadi. Come nella seconda visita, portava sulla schiena la carcassa scuoiata di un animale. La sua auria, sebbene stesse di nuovo eretta sulla spalla del vecchio, sembrava l'opera di un imbalsamatore piuttosto incapace... sghemba, goffa e inanimata. Gli asadi presenti nella radura hanno abbandonato i loro due gruppi egualmente irrequieti, fuggendo nella giungla circostante. Non potevo fare a meno di pensare: Che stranezza, che ironia: la forza che unifica temporaneamente gli asadi è una comune ripugnanza. Lo Scapolo, seminascosto dalle grandi foglie laccate e un po' instabile tra i fragili rami superiori, si è sporto verso il bordo della radura e ha guardato giù, con quei vuoti occhi bianchi come l'argilla. Mi sono aggrappato al tronco del suo albero, che adesso era circondato dagli asadi, curiosi e pieni di ribrezzo, affollati nella giungla. Mi ignoravano. E ignoravano anche lo Scapolo, non s'erano accorti della sua presenza... ma tutti insieme abbiamo seguito lo spettacolo che si svolgeva nell'Area Centrale. Eisen Zwei si è scaricato il fardello dalla schiena. Ha slacciato le cinghie che trattenevano la carcassa. Ma adesso, invece di scostarsi e di lasciare che alcuni dei maschi più ardimentosi si facessero avanti, si è tolto dalla spalla l'auria semincosciente e l'ha posata su quella massa di carne sanguinolenta. La testa cieca dell'amia non si è mossa; ma anche dal punto dove mi trovavo ho visto le sue dita minuscole fremere di lenta, ben orchestrata malizia. Poi quel fremito ipnotico è cessato, e l'auria è rimasta lì, gonfia e morta, come un giocattolo per figli di streghe. Senza un gesto di commiato, Eisen Zwei si è girato ed è ritornato nel Synesthesia Wild. Nel punto dove ha lasciato la radura, il fogliame frusciava, perché numerosi asadi si sono affrettati a scostarsi del suo percorso. È ritornato il silenzio. Nessuno ha abbandonato la sicurezza del bordo della radura per disputare all'auria il possesso di quella nuova carcassa tentatrice... Nonostante il fatto che non avevo visto un solo asadi prendere cibo, in quegli ultimi giorni. Denebola, grassa e sarcastica, ha descritto un piccolo arco nel cielo, e ha fatto danzare gli aloni in cento grotte inaccessibili del Wild. È passata un'ora, ed Eisen Zwei è ritornato! Aveva semplicemente lasciato l'auria a guardia della sua prima offerta. Sì, la prima. Perché il vec-
chio capo era tornato con un'altra carcassa appesa alle spalle ossute, un'altra carcassa scuoiata e legata. L'ha deposta accanto all'altra. L'auria si è animata giusto il tempo necessario per spostarsi, piazzandosi a cavalcioni sui due pezzi di carne contigui. Poi il vecchio asadi se ne è andato di nuovo. Dopo un'ora è ritornato con un terzo pezzo di carne... ma questa volta è entrato nella radura da ovest, a una ventina di metri dal mio riparo. Ho notato che la prima volta era entrato da est, la seconda da sud. Si sta sviluppando uno schema, ho pensato. Adesso se ne andrà di nuovo e rientrerà da nord. Dopotutto, anche i popoli più primitivi della Terra hanno attribuito caratteri mistici ai quattro punti cardinali, e io ero emozionato all'idea di poter tracciare un'analogia significativa. Naturalmente, Eisen Zwei ha pensato bene di infrangere le mie speranze restando nella radura... e non se ne è andato. (Anzi, come durante la mia ventiduesima notte nel Wild, è ancora là. Sotto un triangolo di lune verderame il vecchio capo e la sua auria stanno acquattati sul suolo nudo e bagnato di sangue, in attesa dei primi fili di luce di Denebola.) Ha fatto un giro completo della radura, in senso antiorario, dal punto dov'era entrato. L'auria non si è mossa. Poi, Eisen Zwei ha raggiunto al centro del campo il suo ripugnante familiare. A questo punto è incominciata la seconda fase di questo nuovo, sconcertante rituale. Senza togliersi dalla schiena la terza carcassa, E.Z. si è chinato, ha raccolto l'auria e se l'è rimessa sulla spalla, al solito posto. Si è inginocchiato, e ha legato le cinghie attraverso i pezzi di carne che l'auria aveva custodito. Poi ha incominciato a trascinare per terra quei grossi brani marroni e rossi. Ha trascinato il primo nella metà meridionale della radura e ha di nuovo piazzato l'auria perché facesse la guardia. Quindi ha ripetuto la procedura nella metà settentrionale, ma lì si è piazzato personalmente di guardia accanto alla seconda offerta. La terza carcassa la teneva ancora sulla schiena. Nella polvere spiccavano due scie molto nitide, cerchi rivolti verso l'interno, che delineavano l'avanzata del capo dal punto dove aveva deposto inizialmente la carne. La spirale nella polvere della metà settentrionale del campo era singola: quella nella metà meridionale era doppia. Gli asadi sono diventati più tesi. Eisen Zwei si è scostato dalla seconda offerta. Ha emesso dal profondo della gola un suono simile a quello di un essere umano, un uomo adulto,
che cercasse di reprimere un singhiozzo. Quel suono, ritengo di dover aggiungere, è stato il primo e finora l'unico esempio di comunicazione vocale - escludendo i gemiti involontari e alcuni borbottii gutturali, simili a ringhi - che io abbia mai sentito tra gli asadi. L'auria ha reagito ai «singhiozzi» lamentosi di Eisen Zwei - senza dubbio un segnale - balzando giù dall'oggetto della sua vigilanza e poi trascinandosi miseramente nella polvere verso il suo padrone. Le ali membranose si abbassavano, si torcevano, si piegavano. (Mi sono già convinto che l'auria non possa volare, e che le sue ali rappresentino un residuo anatomico di una fase precedente della sua evoluzione.) Quando Eisen Zwei e la sua squallida auria hanno raggiunto il tratto sacro del terreno, a metà campo, il vecchio asadi ha raccolto la bestia e ha lasciato che stringesse le mani minuscole sulla sua criniera scolorita. L'attenzione di tutti era puntata su quei due. Poi il vecchio capo ha teso le braccia, ha inclinato all'indietro la testa e, fissando direttamente il sole, ha aspirato l'aria così profondamente che ho temuto che gli sarebbero scoppiati i polmoni, oppure il cuore. La radura echeggiava del suo singulto. Subito gli asadi sono usciti dai nascondigli e si sono avventurati sul terreno... non solo i maschi adulti, ma gli individui di ogni sesso ed età. Tuttavia, anche in questo tumulto precipitoso, la popolazione della radura si è divisa in due gruppi; e ognuno si è buttato furiosamente nella mischia, sulla sua area limitata. I denti balenavano, le criniere si agitavano, i corpi si accasciavano, gli occhi lanciavano faville di colori inarticolati. La fame degli asadi, come il tuono di mezzo agosto, era una musica cupa e triste nel Wild. A quella fame non abbiamo partecipato né io né lo Scapolo. Siamo rimasti a osservare, lui dall'alto, io dalle ombre tremule. Non è occorso molto tempo perché gli asadi, scambiandosi morsi e unghiate e qualche volta conciandosi male, divorassero le due carcasse. Forse cinque minuti. Come i piranhas, ho pensato. Svelti, voraci, brutali. Poi Eisen Zwei ha esalato il suo gemito straziato, e la confusione è cessata. Tutti gli scarni musi grigi si sono rivolti verso di lui. I moribondi se ne sono andati a morire da soli, ammesso che veramente qualcuno fosse in punto di morte. Non ho visto nessuno morire, ma non ho visto neppure qualcuno prostrato per terra... anche se può sembrare inverosimile. (Evidentemente gli asadi preferiscono fare l'esperienza della morte, come della nascita, nell'intimità della giungla e della notte... in tutti i mesi che ho trascorso qui non ho visto un solo membro della tribù morire nella radura. A
quanto sembra, le malattie, gli incidenti e la vecchiaia non hanno effetto, qui. E credetelo o no, me ne sono reso conto solo adesso. Significa qualcosa? Sicuro. Ma che cosa?) Con tutti gli sguardi addosso, mentre il silenzio sembrava salire dalla terra come un vapore, Eisen Zwei ha compiuto i preparativi per il terzo atto, l'atto finale, dell'imprevisto rituale di oggi, così inaspettatamente barocco. Ha scaricato il fardello che portava sulla schiena, gli si è seduto accanto e - sotto gli occhi dei membri della sua tribù - ha mangiato. L'essere sulla sua spalla si è appoggiato alla sua criniera, e io ho pensato che il vecchio capo avrebbe nutrito l'auria, le avrebbe dato qualcosa in cambio della partecipazione ai festeggiamenti. Ma non le ha dato nulla. Inerte, ma tenendosi aggrappata, l'auria non ha protestato per la dimenticanza. È trascorsa un'ora. Poi due. Poi tre. Intanto, io mi ero ritirato all'ombra del mio riparo, uscendone a intervalli frequenti per controllare quello che succedeva nella radura. Alla seconda ora, gli asadi avevano incominciato ad aggirarsi all'interno dei rispettivi territori. Alla terza, i territori si erano fusi, così che non ho più potuto scorgere le «squadre» ben distinte nei giorni precedenti. Si era riaffermato lo schema della Vita Quotidiana dei miei primi 109 giorni di permanenza nella radura... ma adesso gli asadi si muovevano con un torpore incredibile, guardando con fare sospettoso il capo e rifiutandosi di entrare nel cerchio piuttosto ampio, delimitato da confini invisibili, dove stava lui. Ho pensato che il rituale stava per concludersi. Quando mi sono avventurato in mezzo agli asadi, cercando di percepire con i pori l'atmosfera prevalente, ho notato che lo Scapolo era sceso dall'albero. Ma non l'ho visto nella radura. Ho visto solo il vecchio E. Z., isolato da una barricata semovente di gambe e intento a masticare con un'espressione di stupida pensosità. L'auria ha sbattuto le ali un paio di volte, durante il pomeriggio, ma il vecchio capo non le ha dato nulla da mangiare. Finalmente, il tramonto. Gli asadi sono fuggiti, disperdendosi come sempre... ma Eisen Zwei, senza dubbio sazio come un pitone che si è appena scardinato la mandibola inferiore per ingoiare un cerbiatto, si è accosciato al suo posto e non si è mosso. Adesso tre lune aliene danzano nel cielo, e adesso io sono alle prese con un interrogativo, una domanda che ho paura di formulare, perché la risposta è troppo evidente: Da quale specie di essere il vecchio capo ha ricavato le sue offerte rituali? Già una volta, non mi sono posto questa domanda:
non potevo farlo. Ma adesso, rannicchiato sotto il tetto più inconsistente, non riesco a scacciare le terribili ramificazioni del modo di morire degli asadi. Ipotesi sul cannibalismo: saggio estemporaneo Dalle registrazioni sul campo inedite di Egan Chaney: È una bellissima giornata. Ascoltate. Lasciate che regga il microfono per voi... sentite? Non sono altro che mille paia di piedi (meno sei od otto piedi, suppongo) che vanno avanti e indietro, su meno d'un centimetro di polvere calda. Non c'è altro che questo, e la respirazione degli asadi e - al di là di questi suoni appena percettibili - il silenzio di tutto BoskVeld. Una bellissima giornata, proprio bellissima. Ed ecco qui il vostro cronista vagabondo, Egan Chaney, proprio qui nel cuore dell'azione, pronto a descrivervi con abbondanza di particolari ogni nuovo sviluppo nella radura. Purtroppo, Eisen, le lunghe attese superano ancora i riassunti alimentati dall'adrenalina degli avvenimenti in corso. Sono passati quattro giorni da quando il tuo omonimo, Eisen Zwei, ha smosso le acque con il suo disordinato banchetto di tre portate. Da allora, niente. Di conseguenza, adesso mi toglierò il berretto da inviato speciale per mettere la dignitosa visiera da redattore capo. Sto camminando in mezzo agli asadi. Loro non mi vedono, anche se sono concreto e reale quanto loro. Persino quelli cui ho dato un nome rifiutano di riconoscere la mia esistenza. Sono appena passato accanto a Werner. La configurazione dei suoi lineamenti gli dà un aspetto mite, come quello di un quacchero con un parka addosso. La sua apparente mitezza mi porta all'argomento di questo commento... Come potrebbe un essere dall'aspetto e dall'indole di Werner mangiare la carne di un suo simile? Dio mi aiuti, se questi alieni sono senzienti, miei cari amici rimasti al campo base, perché mi sto aggirando tra cannibali! Mi accerchiano. Mi affascinano. Mi colmano di una paura improvvisa, un timore reverenziale come quello che il bambino prova nei confronti dei genitori, quando ha appena scoperto il segreto della sua concezione e della sua nascita. È esattamente eguale, il mio timore degli asadi, il mio timore reverenziale delle loro vite intime... Turnbull non c'è. Vi ricordate di lui? L'ho chiamato Turnbull perché era piccolo, come i pigmei descritti dal primo Turnbull. Non riesco a trovarlo.
Dopo il rituale del 114° giorno, ho attraversato la radura cento volte, da una linea laterale all'altra, da un'area di rigore all'altra... cercandolo con la dedizione d'un padre. Il piccolo Turnbull, tozzo e sfuggente, non c'è tra questi esseri indifferenti e sciamannati. A quest'ora l'avrei trovato, lo so. Era il mio pigmeo, il mio piccolo pigmeo, e adesso questi alteri bastardi questi asadi più alti di Turnbull - l'hanno divorato! L'hanno mangiato come se fosse una creatura inferiore... uno zero in una catena di zeri lunga quanto il diametro del tempo! Che Dio li maledica! (Una pausa piuttosto lunga, in cui si sente solo lo scalpiccio degli asadi.) ...Credo che il mio grido abbia scosso alcuni asadi. Certuni hanno sussultato. Ma non mi guardano, questi cannibali, perché un cannibale non può permettersi di riconoscere l'esistenza di un suo simile, dato che ha un'opinione molto incerta di se stesso. Un cannibale ha sempre paura di attribuirsi un'importanza maggiore di quella che merita. Così facendo scopre - in un istante d'atroce rivelazione - da dove arriverà il suo prossimo pasto. Sa sempre da dove proviene, e perciò, quasi sempre, ha paura. Sì, sì, stavo filosofeggiando, ma un momento fa vi ho detto che questo è un editoriale, non una cronaca. Dovete aspettarvi profondità superficiali, in queste cose. Profondità superficiali e circonlocuzioni dirette. D'accordo? Non voglio deludere nessuno. Di conseguenza (se posso continuare) i cannibali sono gli schizofrenici dilaniati dai peggiori contrasti interiori di tutta la Natura. La dicotomia fra le due personalità brilla netta, color rame, come Denebola all'alba. Lo schema dell'associazione indifferente durante il giorno e della dispersione ossessiva durante la notte - come se fuggissero da se stessi - rende ancora più credibile, penso, la mia interpretazione della loro dicotomia spirituale. Dopotutto, chi si illude più del cannibale? Ogni suo tentativo di conseguire l'unità con la sua specie porta a una più accentuata alienazione nei confronti di se stesso. È così anche con gli asadi. È così con... Maledizione, sono d'accordo! Sto dicendo cose sensate e scemenze nello stesso tempo... ma qui fa caldo, e loro mi ignorano. Mi passano accanto, mi passano accanto, girandomi intorno come tante sagome di cartone motorizzate... E Turnbull non è tra loro, non gira più; è stato macellato e consumato. Macellato e consumato, sentite? Con la stessa indifferenza con cui noi avvelenavamo l'Ituri e stanavamo il popolo che vi abitava. Turnbull è morto, cari amici che non lasciate il campo base, e Non ci sono più pigmei
non ci sono più pigmei non ci sono Il Rituale della Morte e della Designazione Dalla stesura definitiva dell'unica sezione completa dell'etnografia incompiuta di Egan Chaney: PARTE PRIMA: MORTE. Il 120° giorno il vecchio capo, che ho chiamato Eisen Zwei, si ammalò. Poiché erano trascorsi parecchi giorni da quando si era ingozzato durante il «banchetto», pensai che la sua infermità non fosse causata dalla precedente intemperanza. Sono ancora di questa opinione. Per cinque giorni non aveva mangiato nulla, sebbene gli altri asadi rifiutassero di associarsi al suo digiuno e cominciassero a mangiare le erbe, le radici, i fiori, la corteccia e il legno che trovavano... così come avevano fatto prima del festino rituale. Ignoravano il vecchio capo e la sua auria, allo stesso modo in cui ignoravano lo Scapolo e me. [Al frammento pubblicato vennero allegate parecchie note esplicative. Io scrissi l'introduzione al frammento, e le note che seguono questo sono tutte di mio pugno. Thomas Benedict.] La malattia di Eisen Zwei alterò lo schema; l'alterò in modo più violento di quanto l'avessero fatto le sue varie apparizioni nella radura. Il pomeriggio del primo giorno di malattia si alzò all'improvviso dalla sua area riservata centrale ed emise quei terribili suoni gutturali e risucchiami che aveva usato sei giorni prima per invitare i suoi a mangiare la carne. Io uscii di corsa dal mio riparo. Gli asadi si allontanarono dal vecchio capo, smisero di ciabattare e lo fissarono con i grandi occhi simili a piatti, le cui lenti s'erano bloccate tutte su uno stesso colore. Quella stasi delicata durò solo un momento. Poi i suoni succhiami vennero sostituiti da un rombo spastico. Mentre io facevo irruzione nella radura, vidi il vecchio piegarsi dalla cintola, con le mani sopra la testa, squassato da una convulsione, come se stesse per vomitare le budella nella polvere. Distolsi gli occhi, sgomento; ma poiché gli asadi continuavano a guardare affascinati, mi voltai per osservare la loro cultura in azione. Fu in quel momento, credo, che meritai la Corona Oliver Bow Aurm Frasier, assegnatami in seguito dall'Accademia. [Questa frase non figurava nel frammento pubblicato. Egan Chaney non ricevette mai questo premio, sebbene io sia convinto che lo meritasse. Secondo il Presidente dell'Accademia, Isaac Wells, non è mai stato preso in considerazione per l'assegnazione del premio, e non lo è neppure ora.]
L'auria del capo si levò dalla sua spalla e svolazzò nell'aria sonnolenta come un piccolo ombrello afflosciato. Non l'avevo mai vista volare, e mi sorpresi che fosse capace di farlo. I suoi svolazzi sgraziati eccitarono ancora di più la già emozionata popolazione della radura: insieme, vedemmo l'auria sollevarsi sopra le cime degli alberi, volteggiare sopra la radura, e tuffarsi minacciosamente verso i rami al limitare occidentale dello spiazzo. Tutti sembravano aver dimenticato il vecchio capo e le veementi convulsioni che lo squassavano. Ogni paio d'occhi, a colori bloccati, seguiva l'incerta avanzata volante dell'auria. Si tuffò, svolazzando rumorosamente, verso quella biforcazione dove qualche volta si appollaiava lo Scapolo. Ma lo Scapolo non c'era. Non sapevo dove fosse. L'auria precipitò fra i rami, si afferrò, e dibattendosi uscì svolazzando dalla giungla, ritornò con cieca devozione allo spazio aereo sopra il suo padrone. Pensai che finalmente avrebbe mangiato, e che la sua unica dieta consistesse del vomito di Eisen Zwei. Mi aspettavo che quell'essere affamato vi si buttasse sopra... ma non lo fece. Restò in volo, sbattendo e sbattendo le ali... in attesa che il vecchio finisse. E quando il vecchio capo si fu svuotato completamente e cadde esausto sulle ginocchia, non fu l'auria a sguazzare in quella lurida pozzanghera di vomito, bensì gli svergognati compatrioti del vecchio. Ormai non pensavo neppure a ritornare al mio riparo. La curiosità ebbe la meglio sullo schifo, e restai a osservare mentre gli asadi portavano via la massa semidigerita come se ogni pezzo semisolido fosse una reliquia di valore inestimabile. Non ci furono zuffe né gomitate, né insulti oculari. Ogni individuo raccolse semplicemente la sua reliquia, la portò nella giungla, a breve distanza e la depositò in un angoletto nascosto per conservarla. Durante questa scena solenne, l'auria smosse l'aria con le ali pesanti, e un asadi anonimo sostenne Eisen Zwei stringendogli teneramente la criniera. Quando ognuno ebbe portato via un pezzetto di carne rigurgitata, l'attendente del capo lo adagiò fuori della cerchia del sacro vomito, e l'auria scese ad appollaiarsi sulla testa del padrone. Quel nuovo rituale era concluso, finito. Dovrei ricordare, tuttavia, che lo Scapolo apparve tra la folla dei dolenti per scegliere un ricordino dell'infermità di Eisen Zwei e portarselo via, come avevano fatto tutti gli altri. Venne per ultimo, prese solo un boccone grosso come un palmo e si ritirò al limitare della radura. Si arrampicò sull'albero su cui l'auria aveva compiuto la missione quasi catastrofica di pochi minuti prima. Fino al tramonto, lo Scapolo restò lì, osservando e at-
tendendo... come dovevo fare io, nella mia qualità di xenologo culturale. Durante il 121°, il 122° e il 123° giorno Eisen Zwei continuò a star male, e gli asadi gli prestarono scarsa attenzione: tutte le loro cure consistevano nel portargli acqua due volte al giorno e nell'astenersi dal calpestarlo. L'auria stava appollaiata accanto alla testa del vecchio capo. Spostava il suo peso da una zampa all'altra e attendeva - soddisfatta, mi sembrava che il suo padrone morisse. Non mangiava mai. La notte, gli asadi abbandonavano il capo morente senza degnarlo di un'occhiata, senza un fremito di dubbio, e io temevo che sarebbe morto durante la loro assenza. Molte volte, guardando la sua figura inerte nella luce delle lune che filtrava tra le fronde, pensai che fosse morto, e mi sentii prendere da un certo panico. Avevo io la responsabilità del cadavere? Avevo solo, decisi, quella di lasciarlo lì e di osservare le reazioni degli asadi, quando sarebbero ritornati all'alba. Ma il vecchio capo non morì durante una di quelle notti, e il 124° giorno avvenne un altro cambiamento. Eisen Zwei si sollevò a sedere e fissò Denebola che transitava in cielo... ma fissò il sole furioso attraverso le dita aperte delle mani, contratte e frementi contro la chiazza di luce che Denebola doveva apparire ai suoi occhi. L'auria non si mosse. Come sempre, stava lì, orgogliosa, cieca, consapevole. Ma gli asadi notarono il cambiamento avvenuto nel loro capo e reagirono. Come se la fremente insoddisfazione nei confronti del sole fosse stata un segnale, si divisero di nuovo in due gruppi e si disposero in semicerchi, attenti, a nord e a sud di Eisen Zwei. Assistettero alla sua sfida al sole, alla sua lotta con la livida corona, ai gesti convulsi con cui sembrava voler strappare gli indistinti getti di gas con le mani nodose. A mezzogiorno, il vecchio capo si alzò in piedi. Tese le braccia. Singhiozzando, graffiò il cielo, poi all'improvviso desistette e si lasciò ricadere sulle ginocchia. Senza che vi fosse stato un richiamo visibile, due asadi di ogni gruppo andarono ad aiutarlo. Lo sollevarono da terra. Altri, sul bordo della radura, scelsero grandi foglie laccate dagli alberi della gomma e le fecero passare, sopra le teste dei loro compagni, verso il luogo dov'era caduto il loro capo. I maschi che sostenevano Eisen Zwei presero le fronde, le disposero in un regale giaciglio e poi vi adagiarono quel corpo fragile. Era la seconda volta, a quanto ricordavo io, che gli asadi collaboravano per realizzare uno scopo comune. (L'altra occasione, naturalmente, era stata la tonsura della criniera dello Scapolo.) Ma, come un antico papiro e-
sposto all'aria, la loro cooperazione di disintegrò non appena Eisen Zwei fu disteso sul giaciglio. Ognuno dei gruppi conservò una parvenza della precedente integrità, ma le passeggiate senza meta sostituirono l'occupazione di osservare il capo, quale attività primaria di ogni gruppo. Denebola, finalmente liberata dallo sguardo del vecchio, scese verso l'orizzonte. Attraversai la radura senza che nessuno mi ostacolasse, e mi chinai sul capo moribondo, stando ben attento ad evitare l'auria che mi scrutava con quella strana faccia senza occhi. Mi scrollai di dosso con una spallata lo sguardo cieco di quell'essere, e guardai gli occhi del suo padrone. Provai una scossa, una scossa fisica. Gli occhi del vecchio erano bruciati, fori anneriti in una maschera umanoide. Adesso poco contava che anche prima dello scontro a occhiate con il sole i suoi occhi non avessero posseduto la tipica capacità di mutare colore... perché adesso, bruciati, anneriti, erano completamente morti, due lenti affumicate in attesa che il corpo del vecchio perdesse a sua volta la vita. E poi la luce rossa e diffusa che segnalava il tramonto in quella regione forestata di BoskVeld si riversò sul Wild. La radura si vuotò. Quando rimasi solo con Eisen Zwei e la sua auria, compresi che il vecchio sarebbe morto quella notte. Cercai di trovare una scintilla di vita negli occhi anneriti, non la vidi e mi ritirai tra gli alberi del Wild, nella sicurezza del mio riparo. Non dormii. Ma le mie premonizioni mi avevano ingannato e al mattino dopo, quando mi affacciai, vidi Eisen Zwei seduto a gambe incrociate sul giaciglio, con l'auria nuovamente appollaiata sulla spalla. E poi filtrò nella giungla la tenue luce gialla che segnalava il levar del sole e il ringiovanimento di BoskVeld. Gli asadi ritornarono, riempirono la radura con le loro figure dinoccolate e ancora una volta si piazzarono a nord e a sud del capo moribondo. Era incominciato il 125° giorno. E finalmente, il rituale che secondo me erano gli stessi asadi si risolse in un rituale minore cui essi si limitavano a prendere parte... la cerimonia più grandiosa, più strana e più ordinata della loro cultura. Nel loro complesso, chiamerò gli eventi del 125° giorno «Rituale della Morte e della Designazione». Credo che non comprenderemo mai pienamente la vita «politica» degli asadi fino a quando non riusciremo a interpretare con precisione ogni aspetto di questo rituale. Nel contesto degli eventi del 125° giorno sta il si-
gnificato di tutto. Ed è terribile trovarsi alle prese con una verità sfuggente. Il colore degli occhi di tutti gli asadi presenti nella radura (eccettuati quelli dello Scapolo) declinarono in un indaco profondo e malinconico. E si bloccarono su quel colore. Quell'effetto di uniformità solenne mi colpì non appena misi piede nella radura... sebbene intendessi andare a vedere Eisen Zwei prima dei suoi dolenti. Indaco profondo e silenzio assoluto. Gli occhi degli asadi assorbivano la luce a tal punto che Denebola, al suo sorgere, non riusciva a gettare un solo bagliore, un solo raggio di luce danzante e inafferrabile. Almeno, così mi sembrava. E il giorno era un quadro impressionista reso a piatti colori pastello e primari opachi... un paradosso. Poi le teste dagli inquietanti occhi d'indaco cominciarono a ondeggiare da una parte e dall'altra, e il mento di ogni asadi tracciò nell'aria un piccolo otto. Le teste si muovevano all'unisono. Continuò così per un'ora o più, mentre il vecchio capo, cieco quanto la sua compagna, stava seduto a gambe incrociate sul giaciglio, dondolando la testa nel silenzio monumentale del mattino. Poi, come se avessero tracciato gli otto nell'aria per il periodo prestabilito, gli asadi lasciarono i gruppi separati e formarono parecchi cerchi concentrici intorno al vecchio. Lo fecero con lo stesso ritmo lugubre che avevano creato con il mento; si trascinarono ai rispettivi posti. I membri di ogni cerchio continuarono a dondolare. Il flauto inudibile che una volta avevo immaginato esistesse nel Wild adesso era stato certamente sostituito da un inudibile fagotto. Ponderosamente, gli asadi ondeggiavano. Ponderosamente, le loro grandi criniere ondulavano in un'angoscia lenta, magnificamente orchestrata. E lo Scapolo (tutto solo, al di là del cerchio più esterno) ondeggiava anche lui, in cadenza con gli altri. Adesso ero io, l'unico reietto tra quella gente, perché ero il solo che osservava senza partecipare. L'ondeggiamento ritmico durò per le rimanenti ore del mattino, e poi continuò, fino all'avvicinarsi della sera. Mi ritirai nel mio riparo, ma pensai che non era il caso di mettermi lì seduto, e mi arrampicai sull'albero dove usava appollaiarsi lo Scapolo. Dimenticai tutto, tranne la strana cerimonia in corso nella radura. Non mangiai. Non abbandonai la mia postazione. E non mi preoccupai neppure del mio isolamento dai membri della Terza Spedizione a Denebola, nel campo base... era in vista di quel momento, lo sentivo istintivamente, che avevo rifiutato ogni contatto non strettamente essenziale con gli altri esseri umani. Sporgendomi sulla radura, mi abbandonai completamente ai movimenti
ipnotici di quegli esseri criniti, che un universo generoso mi aveva permesso di studiare. No, grazie a Dio misericordioso, Egan Chaney non era nato troppo tardi. Più volte fui sul punto di assopirmi, ma non mi addormentai. All'improvviso, Eisen Zwei emise un ultimo singhiozzo, maniaco e straziante, e afferrò la bestia che gli stava aggrappata alla criniera con maligna tenacia. L'afferrò con entrambe le mani tremanti. (Il giorno stava per finire... sentivo gli ultimi raggi fiochi di Denebola accarezzarmi la schiena, e avvolgermi come una coperta lisa, irregolarmente calda.) Eisen Zwei sembrò attingere alla sua ultima riserva d'energia e, strangolando l'auria, balzò in piedi. L'auria sbatté le ali, si contorse, ne liberò una e la sbatté più forte. Il vecchio contrasse le mani e cercò di strappare la vita a quell'essere. Non ci riuscì. L'auria batté l'aria con le ali, le batté sulla faccia del capo e finalmente usò le mani minuscole per aprire minuscole ferite cremisi sulle guance avvizzite e sulla fronte rugosa di Eisen Zwei. Durante la lotta gli asadi smisero di ondeggiare, e continuarono a guardare con occhi che gradualmente sbiadirono dall'indaco in un azzurro più chiaro. Eisen Zwei trasse un profondo respiro, scrollò avanti e indietro l'auria bellicosa, e in su e in giù, come un barista che prepara un cocktail. Ma l'auria, svolazzando, si sottrasse alla sua stretta e si sollevò all'altezza delle chiome degli alberi. Temetti che si sarebbe avventata su di me, appollaiato nella biforcazione; ma sfiorò il perimetro interno della radura... scendendo in picchiata, inclinandosi in virata, gracchiando silenziosamente. Le sue strida immaginarie sostituirono nella mia coscienza il fagotto lontano ma altrettanto immaginario. Intanto Eisen Zwei, ritrovandosi a mani vuote, si lasciò andare e ricadde sul giaciglio. Il suo corpo piombò di traverso e i suoi occhi bruciati si fissarono - per pura coincidenza, ne sono sicuro - sopra di me. Il capo asadi era morto. Era morto esattamente al tramonto. Attesi che i suoi fuggissero nel Wild, lasciando il fragile cadavere nella radura, alla sbalordita attenzione di un terrestre. Ma non fuggirono. Sebbene il crepuscolo letale scendesse intorno a loro, rimasero. L'attrazione della morte del vecchio controbilanciava la loro paura di esporsi in un luogo scoperto ai misteri delle tenebre. Dal mio posto di vedetta arboreo mi resi conto di aver assistito a due cose che non avevo mai visto tra gli asadi: la morte, e una incapacità universale di riparare. Che cosa avrebbe portato la notte? La notte cieca e imprevedibile?
PARTE SECONDA: DESIGNAZIONE. Il Rituale della Morte e della Designazione era passato al secondo stadio fondamentale prima che io mi rendessi conto dell'esistenza di stadi diversi. Dimenticai la fame. Scacciai l'idea di dormire. In quel momento, gli asadi presero a convergere verso il cadavere del vecchio, e ai più piccoli fu consentito di affollarsi al centro della radura e di sollevare il capo morto sopra le loro teste. I giovani, i deformi, i deboli e gli individui congenitamente piccoli di statura formarono una doppia colonna sotto il corpo steso del vecchio, e cominciarono ad avviarsi, trasportandolo, verso l'estremità settentrionale della radura. Schierati in quel modo, mi diedero una rivelazione sconvolgente: erano gli asadi che avevano criniere di colore e di consistenza assai simili, un beige da schiuma detergente. Ma portavano il cadavere di Eisen Zwei con acquiescenza, senza protestare. Gli esemplari più grandi e lucidi degli asadi (quelli dalle lussureggianti criniere argentee, azzurre o dorate) si disposero in colonne ai lati dei loro compagni opachi: e insieme, le due unità, come acqua all'interno di un tubo mobile, si avviarono verso nord... ...l'unica direzione da cui Eisen Zwei non era entrato, il giorno in cui aveva portato nella radura le tre carcasse scuoiate e allettanti. Ricordai che in Africa le formiche d'una certa specie avevano adottato quel tipo di allineamento tubolare quando volevano trasferirsi in gruppo a grande distanza, con le operaie all'interno della colonna, e le guerriere all'esterno. E in quell'immenso continente nero non c'era nulla che fosse più temuto delle formiche in marcia... naturalmente, a eccezione dell'uomo. Quasi troppo tardi, mi resi conto che gli asadi sarebbero usciti dalla radura, sottraendosi alla mia portata prima che io scendessi dall'albero dello Scapolo. Scesi in fretta e furia, e per poco non caddi. Il crepuscolo scintillava della polvere delle colonne in marcia, e il fogliame attraverso cui transitava il corteo funebre irradiava un chiarore velato, come visto attraverso un filtro fotografico. Mi misi a correre. Notai che potevo seguirli senza eccessivo sforzo, perché l'andatura della processione era cadenzata e funerea. Rallentai, procedendo al passo. Nella scia dei dolenti, aggrappato irrimediabilmente alla sua condizione di paria, c'era lo Scapolo. Mentre l'immane processione grigia si snodava nel Synesthesia Wild, notai che in quella marcia i nostri ruoli si erano invertiti: adesso ero io che seguivo lui. Tre o quattro passi dietro tutti, Egan
Chaney... l'estraneo consumato che sperava ridicolmente di scoprire gli arcani rivelatori d'un gruppo che l'aveva escluso. E intanto il crepuscolo scintillava, si addensava, riverberava dei passi e dei fruscii delle fronde scostate da mille comunicanti, uniti da un unico scopo. Prima che fossimo usciti completamente dalla radura, mi voltai indietro a cercare l'auria. La vidi sorvolare quella parte della processione che portava il suo padrone, sulle spalle degli asadi più piccoli. Evitando i rami, l'auria compì una capriola in volo, si raddrizzò e atterrò sul petto ossuto di Eisen Zwei. E lì, ben visibile al di sopra delle teste dei seguaci del suo padrone, eseguì una specie di danza per riassettarsi. Sembrava un gallo spalmato d'olio che corteggiasse una gallina. Poi la colonna serpeggiò sulla sinistra. Il Wild escluse dalla mia vista i marciatori e l'oscurità incominciò a scendere, a manciate di coriandoli neri. Seguii lo Scapolo e attesi una nuova rivelazione. Non so per quanto tempo continuammo a procedere fra le fronde canore, i rampicanti profumati e le lame d'aria azzurra. E non tenterò di calcolarlo. Là nella radura, levata contro il cielo come una pagoda orientale, incombeva la massa ampia e impervia di qualcosa di artificiale, qualcosa di costruito. Ormai erano sorte tutte e tre le lune, e la compatta massa nera della struttura era chiazzata dalla luce d'oro antico irradiata dai tre satelliti. Prima ancora che la testa del corteo uscisse dalla giungla, potemmo vedere le maestose ali gemmate di quella costruzione artificiale... e forse io non fui il solo a provare l'impulso di fuggire, di precipitarmi di nuovo in quella foresta d'incubo. Quando ci avvicinammo, i membri delle colonne interne ed esterne incominciarono a dondolarsi, marciando e oscillando contemporaneamente. La testa dello Scapolo si muoveva in ampi archi, e il suo corpo tremava, come nel parossismo della malaria. Se era stato punito perché mi aveva condotto in quel luogo, forse adesso tremava di paura. D'altra parte, se gli asadi volevano che il tempio restasse inviolato, non avrebbero punito anche me, quando avessero scoperto la mia presenza? Ebbi il buon senso di togliermi di torno. Mi arrampicai su un albero al ciglio della radura che fronteggiava la pagoda. E dall'alto assistetti alla scena, in relativa sicurezza. Figure grigie si muovevano nell'ombra cupa gettata dal tempio degli asadi. All'improvviso, due fiamme d'un verde violento si accesero sulle fiaccole di pietra ai lati del gradino più alto dell'immensa scalinata di pietra
che conduceva alla porta ornata del tempio. I due tedofori - le forme grigie che avevo visto muoversi prima - ridiscesero la scalinata. Non avevo mai visto gli asadi usare il fuoco... e quell'uso sofisticato delle torciere e di un sistema d'accensione che non riuscivo neppure a immaginare distrusse una quantità di precedenti conclusioni sul loro conto. Nel frattempo, le quattro colonne di asadi s'erano schierate in file parallele davanti alla gradinata dell'antica pagoda e sei portatori dalle criniere beige portarono il cadavere di Eisen Zwei, che adesso appariva incongruamente verde-mela nella luce delle torce, su per i grandi scalini di pietra, vero il catafalco di pietra davanti alla porta. Deposero il corpo e si schierarono dietro, guardando al di sopra delle teste dei loro simili verso la crudele ambivalenza del Wild; stavano tre per lato, ai fianchi del vecchio. Io non ero abituato a uno spettacolo del genere, a una simile grandiosità, e cominciai a pensare che forse mi scorreva nelle vene il Placenol... il Placenol o qualcosa di più sinistro. Le lune gridavano con le loro bocche silenziose. Le torciere lanciavano rapidi urli di luce incostante. Ma il rituale non si concluse. La notte passava... le lune si muovevano nel cielo e le quattro file di asadi scalpicciavano ai loro posti. Si tiravano le criniere. Alzavano gli occhi verso il cielo frangiato di foglie. Li abbassavano ai loro piedi. Alcuni tendevano le mani e lottavano con le lune veloci come Eisen Zwei aveva lottato con Denebola, il sole. Ma nessuno lasciava la radura, anche se avevo l'impressione che molti avrebbero preferito farlo. Invece, lottando con le loro paure, attesero. La pagoda e il cadavere del loro capo li tenevano incatenati... mentre io, incuneato sul mio albero, ero incatenato dalla loro terribile pazienza. Poi l'ultima delle tre lune calò nella giungla più lontana di BoskVeld. Le due torce di ferro vacillarono come candele esauste. Lo Scapolo si agitò, inquieto. C'erano due vuoti. Uno, il vuoto nella natura tra la fine della notte e l'inizio del giorno. L'altro, il vuoto nella bizzarra gerarchia della struttura tribale degli asadi, il vuoto tanto stranamente riempito da Eisen Zwei... fino alla lotta con il sole e alla morte. Notte e morte. Due vuoti alla ricerca di una sostanza compensatrice. Lassù, in aria, aggrappato a due rami d'albero flessibili come salici, presi mentalmente appunti su quel parallelismo indubbiamente significativo. Quando sarebbe spuntata l'alba? In che modo gli asadi avrebbero designato il successore del capo morto? Un movimento nella radura interruppe le mie speculazioni trascendentali. Guardai giù e vidi che le quattro file ordinate degli asadi s'erano dissolte
in un'unica massa disorganizzata di corpi brulicanti... come nel campo del raduno. Un caos. Un'anarchia. Un tumulto d'irrazionalità scatenata. Come poteva esistere un vuoto di «potere» in una simile mescolanza arbitraria di parti irrelate? Soltanto la pagoda era solida: solo la pagoda non si muoveva. Poi, alzando gli occhi vidi l'auria del vecchio volare alta su quel disordine: planava, più che volare, come un girifalco più che come un pellicano. Veleggiava sulle brezze prismatiche che precedevano l'alba con eleganza straordinaria, e volteggiava con tanta agilità che in un momento rimpicciolì, divenne un frammento di luce, rispecchiando un riflesso dell'alba, lontano, al di là della guglia centrale del tempio. Mentre la guardavo, mi sentii prendere dalle vertigini. Poi l'auria ripiegò le ali all'indietro e si avventò in picchiata, vertiginosamente, attraverso il cielo roseo. Per poco non caddi. I miei piedi scivolarono dalla biforcazione che mi aveva sostenuto, e restai appeso, con le braccia in alto, sopra un angolo del cortile anteriore della pagoda. I comunicanti in preda all'ansia erano troppo presi dal loro panico per accorgersi di me. E intanto l'auria scendeva a precipizio verso terra. Si tuffò sulla folla degli asadi, sfiorò le teste e le spalle con le crudeli ali seghettate. Scendendo, risalendo, svolazzava di nuovo come una persiana rotta... tutta la sua grazia effimera era scomparsa, s'era mutata in un crasso esibizionismo (non saprei come chiamarlo, altrimenti) e in uno svolazzare rigido. Ma l'essere fece quello che cercava di fare, perché nella semioscurità che precedeva l'alba vidi che aveva graffiato le facce di molti asadi. Tuttavia, alcuni membri della tribù tentarono di catturare l'auria... mentre altri, più sensatamente, si chinavano per schivarla, si buttavano al suolo, si stringevano le ginocchia, si trascinavano fra le gambe altrui, oppure alzavano le braccia per allontanarla. L'auria non faceva discriminazioni. Graffiò tutti quelli che si trovavano sul percorso delle sue ali taglienti, sia che cercassero di catturarla, sia che tentassero di fuggire. E gli occhi degli asadi sconvolti passavano attraverso tutta la gamma dei colori. Il calore di tutti quei cambiamenti rendeva fosforescente la radura, per l'energia spesa. Intravidi lo Scapolo e notai che i suoi occhi non erano cambiati. Erano ancora muti, privi d'intelligenza e di passione. Stava in disparte dai suoi compagni in preda al panico e osservava, senza cercare di afferrare l'auria, senza cercare di sfuggirle. La bestiaccia saliva e scendeva in volo, virava e sferrava colpi con le ali terribili a tutto ciò che c'era di vivente. Finalmente,
s'innalzò attraverso l'ombra della pagoda, svolazzando all'impazzata, poi si tuffò a precipizio verso lo Scapolo. Gli volò in faccia. Lo fece cadere al suolo e l'aggredì con innumerevoli colpi maligni. Tutti gli asadi si calmarono, si misero in fila a casaccio e assistettero a quello sviluppo imprevedibile, il penultimo atto del loro rituale di quel giorno. Impiegai un momento per comprendere. E poi capii. Lo Scapolo era il designato, il prescelto, il capo eletto. Chissà perché, la scelta sembrava inevitabile. Con le braccia doloranti, mi lasciai cadere dall'albero sul fondo della radura. Davanti a me c'erano le schiene di venti o trenta asadi. Non riuscivo a scorgere lo Scapolo, sebbene udissi ancora lo sbattere delle ali dell'auria e il respiro modulato dei membri della tribù. Poi una figura che si agitava all'impazzata, sbattendo le braccia, eruppe dalla folla e sfrecciò attraverso un varco subito richiuso, alla mia destra. Capii che lo Scapolo s'era rimesso in piedi e stava cercando di scacciare l'auria. Lottando, tutti e due salirono la scalinata del tempio, e ben presto arrivarono accanto al catafalco su cui riposava ancora Eisen Zwei. Adesso potevo vedere bene come tutti gli altri: e lassù, in quel luogo sacro, lo Scapolo s'arrese all'inevitabile. Si lasciò cadere sulle ginocchia, abbassò la testa e smise di resistere. L'auria, sentendo di aver vinto, girò sferzando l'aria intorno al cadavere. Scalfì diabolicamente le facce dei sei portatori, ondulando come un foglio di carta scura. Quindi si posò sulla testa dello Scapolo. Sbattendo le ali per tenersi in equilibrio, fronteggiò la moltitudine degli asadi - e me - in un cieco trionfo. Nessuno si mosse, nessuno respirò, nessuno accolse l'alba che rivelava il caustico rivestimento di verderame che copriva la pagoda come una brina malefica... come il gelo sulla fronte dell'antichità. Lentamente, dopo un momento due volte più pesante dell'antichità della pagoda, lo Scapolo si alzò in piedi. Era drappeggiato nella rassegnazione e nel manto invisibile di un isolamento ancora più spiccato di quello che aveva subito come paria. Era il designato, il prescelto, il capo eletto. L'auria si lasciò cadere dalla testa alla spalla dello Scapolo e intrecciò le dita minuscole nei ciuffi della criniera massacrata. Restò lì appesa, ridiventando inanimata e scabrosa. Ormai il Rituale della Morte e della Designazione era quasi concluso, e due dei portatori del cadavere, lassù sul gradino più alto, si mossero per
completarlo. Accostarono alla testa e ai piedi di Eisen Zwei le grandi fiaccole, e immediatamente il cadavere del vecchio divampò di fuoco verde. La fiamma furiosa salì verso la facciata nel tempio, come per precedere il verderame nei suoi sforzi pazienti di divorare l'edificio. Lo Scapolo stava quasi tra le vampe, e temetti che finisse consumato anche lui. Invece no. Né lui né l'auria. Il fuoco si spense; Eisen Zwei era completamente scomparso, e i portatori ridiscesero la gradinata e si unirono all'anonimato della loro gente rivitalizzata. Il Rituale della Morte e della Designazione era terminato. Ai fini dell'etnografia, minimizzerò il significato di quello che accadde poi, e lo riferirò il più brevemente possibile. Parecchi asadi si voltarono e mi scorsero nella radura della pagoda. Mi guardarono. Dopo essere stato ignorato per più di sei mesi, adesso non sapevo come reagire all'onore di quell'improvvisa visibilità. Per l'immensa sorpresa, ricambiai i loro sguardi. Cominciarono ad avanzare verso di me, con un'ostilità che risultava evidente dal rapido alternarsi dei colori nei loro occhi. Dietro di me c'era il Synesthesia Wild. Mi voltai per rifugiarmi tra la vegetazione. Un altro piccolo gruppo di asadi si era insinuato sulla via della fuga... e mi bloccava la strada. In quel gruppo riconobbi l'individuo cui avevo dato il nome di Benjy. Poiché per lui non provavo altro che un vago sentimento paterno, cercai di tendergli la mano. La sua mano scattò, nervosa, e mi colpì all'orecchio. Caddi. Con la bocca piena di terriccio, mentre le facce grigie si abbassavano verso di me, compresi che avrei dovuto essere terrorizzato. Ma sputai il terriccio... le facce e le criniere arretrarono con la stessa rapidità con cui s'erano avvicinate, e il mio terrore incipiente evaporò come l'alcol in un piatto poco profondo. Lassù, uno sbattere d'ali. Alzai gli occhi e vidi l'auria che ritornava verso il braccio teso dello Scapolo. Lui aveva lanciato l'essere contro i suoi simili, per salvarmi. Quella semplice azione, tuttavia, illustra la sconvolgente complessità dei rapporti tra il capo asadi e la sua auria. Quale dei due comanda? Quale si sottomette? In quel momento non m'importava molto saperlo. Denebola era sorta e gli asadi s'erano dispersi nel Wild, lasciandomi piccolo e umile alla presenza della loro pagoda vecchissima e del riluttante capotribù che mi guardava dal gradino più alto. Sebbene restasse altero e distaccato, prima di sera lo Scapolo mi aveva ricondotto alla prima radura... perché da solo non
sarei mai riuscito ad arrivarci. La lezione che appresi da quell'esperienza (una lezione banale, lo ammetto) è questa, membri dell'Accademia: anche per uno xenologo culturale - forse soprattutto per uno xenologo culturale - è utile farsi qualche amico. Parla Thomas Benedict: breve nota interpolata Ho messo insieme questo documento per puro e semplice senso del dovere. Poiché ero una delle poche persone da cui Egan Chaney si lasciava avvicinare, sono forse l'unico uomo che poteva intraprendere questo compito. La sezione che avete appena letto - Il Rituale della Morte e della Designazione - Chaney la scrisse nell'infermeria del nostro campo base, mentre era convalescente e stentava ancora a ritrovare l'orientamento in una società di esseri umani. Nel corso d'uno dei nostri colloqui, si paragonò a Gulliver dopo il suo ritorno dalla terra dei Houyhnhnm. Comunque, dopo Morte e Designazione, Chaney non scrisse più nulla sugli asadi con l'intento di pubblicare, anche se subito dopo essere stato dimesso dall'infermeria pensava, credo, di scrivere un libro su di loro. Come ho già detto, dunque, intrapresi la compilazione di questi appunti disparati per un senso del dovere, un dovere duplice: il primo verso Egan Chaney, che era mio amico... il secondo verso il gran numero di esseri umani che desiderano comprendere il nostro prossimo di altri mondi per comprendere meglio se stessi. L'insuccesso di Chaney non deve necessariamente ricadere su tutti noi. Al ritorno alla prima radura degli asadi, dopo il Rituale della Morte e della Designazione, Chaney rimase altre due settimane nel Synesthesia Wild. Il 126° e il 133° giorno effettuai lanci di rifornimenti; ma come aveva chiesto Chaney, non sorvolai la radura nella vana speranza di scorgerlo e di osservare il suo stato di salute. Per dimostrare le sue buone condizioni, mi disse, bastava il fatto che ogni settimana, quando portavo i rifornimenti con l'elicottero, potevo vedere che sul luogo del lancio non c'era neppure un pezzo di carta del precedente invio. Quando gli dissi che non era l'unico essere del Wild in grado di trascinare via tutta la roba destinata a lui, Chaney non si lasciò impressionare. «Non posso essere che io» scrisse in uno dei rari biglietti lasciati in una tanica, al punto del lancio. «Gli asadi hanno lo stesso spirito d'iniziativa delle vittime della malaria. È molto più orribile, amico Ben, l'agghiacciante verità che non c'è nessun altro nel Wild... assolutamente nessuno!» Ora sono l'unico proprietario degli effetti personali di Egan Chaney: tra
questi sono compresi i due diari, quello personale e quello professionale, un buon numero di rapporti «ufficiali» non schedati, una serie di registrazioni sul campo e qualche lettera (cui mi riferivo in una nota precedente). Ai documenti relativi agli asadi che non si trovano in mio possesso, io posso accedere perché facevo parte della Terza Spedizione a Denebola. Preciso tutto questo solo perché so incontrovertibilmente che, durante gli ultimi quattordici giorni trascorsi nel Wild, Chaney non aggiunse assolutamente nulla ai suoi diari e ai suoi taccuini, oppure espunse tutte queste annotazioni dubbie in modo così totale che è come se non fossero mai esistite. Abbiamo solo un rapporto completo relativo a quelle due ultime settimane. Si tratta di un nastro, un nastro straordinario, e credo che Chaney avrebbe distrutto anche quello, se non gli avessimo tolto il registratore nel momento stesso in cui lo prelevammo nella giungla. Ho ascoltato molte volte questo nastro... nella sua interezza, devo aggiungere, perché si tratta di un'impresa che pochi altri uomini avrebbero avuto la pazienza di compiere. Una volta cercai di discutere il nastro con Chaney (avvenne diversi giorni dopo che era stato dimesso dall'infermeria, quando ero convinto che avrebbe saputo affrontare il terrore di quell'esperienza con una certa misura di obiettività), ma lui sostenne che il contenuto l'avevo immaginato io. Disse che non aveva registrato neppure una parola del resoconto della... «metamorfosi» dello Scapolo. «È questa la parola che hai usato?» Mi affrettai a fargli sentire il nastro. Lui lo ascoltò per dieci minuti, poi si alzò e spense il registratore. Il suo viso era divenuto inspiegabilmente scavato e frastornato. Gli tremavano le mani. «Oh, quello» disse, senza guardarmi. «Era tutto uno scherzo. L'ho inventato perché non avevo niente di meglio da fare.» «Anche gli effetti sonori?» chiesi, incredulo. Lui annuì, senza guardarmi... anche se la registrazione smentiva quella goffa spiegazione, anzi la mandava in frantumi. Chaney continuò a tacere, a questo proposito. In tutti i suoi scritti e le sue conversazioni, durante gli ultimi tre mesi che trascorse con noi, non descrisse e non fece mai allusioni alla sordida avventura delle ultime due notti. Presento qui una trascrizione, riveduta e corretta, del nastro in questione, questa virtuosistica sezione finale della nostra collaborazione, la nostra etnografia rappezzata che io chiamo...
Monologo di Chaney: due notti nel Synesthesia Wild Ciao a tutti! Che giorno è? Un giorno come tutti gli altri, a parte il fatto che VOI SIETE QUI! Qui con me, voglio dire. Vi sto conducendo in una spedizione... Ma perdonate la mia menzogna iniziale... non è un giorno come tutti gli altri. Quante volte vi ho guidati in una spedizione? È il 138° giorno, mi pare, e ieri lo Scapolo è tornato alla radura... è tornato per la prima volta dal giorno in cui l'auria l'ha consacrato, ungendolo, per così dire, con il balsamo fecale della dignità di capo. L'avevo quasi dato per perso. Ma ieri pomeriggio è tornato nella radura, con l'auria sulla spalla, e si è accovacciato al centro del campo, come faceva il vecchio Eisen Zwei. La reazione dei suoi confratelli asadi è stata identica a quella che avevano sempre riservato a E.Z. Tutti FUORI della radura! Tutti FUORI! Sembrava di essere tornati ai vecchi tempi, amici, ma adesso l'attore che occupava la scena era un mio amico personale... il quale, tra parentesi, mi aveva salvato la vita diverse volte. Sissignori. Dopo il caldo, la noia e otto o cento acquazzoni viscidi - il mio riparo sembrava un colabrodo - non avrei potuto sentirmi più soddisfatto. Seguendo lo schema che il vecchio E.Z. aveva stabilito in una delle sue visite, lo Scapolo ha trascorso l'intero pomeriggio nella radura, e poi tutta la notte, e circa un'ora di questa mattina. Poi si è alzato per andarsene. Da quel momento, io l'ho seguito. A giudicare dal sole, è quasi mezzogiorno. Sì, lo Scapolo mi permette di seguirlo. E poi, è facile. Come potete sentire, non sto ansimando. Registro mentre camminiamo. Se questo fosse un bosco terrestre, potreste udire il canto degli uccelli e il frinire degli insetti. Invece dovrete accontentarvi del suono dei miei passi e del fruscio delle foglie e dei ramoscelli... Ecco qualche fruscio per voi. (Suono di un rametto o d'una foglia che si riassesta. Rumori generali in sottofondo: vento e, molto meno udibile, acqua corrente in lontananza.) Lo Scapolo mi precede di parecchi metri, ma forse non lo sentirete... cammina come un animale furtivo. Pad pad pad. Così, ma più silenziosamente. Non ci terrei a stargli più vicino perché c'è l'auria sulla spalla dello Scapolo, aggrappata alla sua criniera. Non è una bestiola adorabile, cari amici del campo base... no davvero. Poiché non ha occhi, non si riesce mai a capire se dorme... o se è sveglia e medita mille cattiverie.
Ecco perché sto meglio a una certa distanza. Permettetemi di farvi notare quanto sono astuto e ingegnoso. (Un tonfo pesante.) Questo è il mio zaino. Ho portato provviste per tre o quattro giorni. Vedete, non so dove stiamo andando, né per quanto tempo staremo là. Ma mi fido dello Scapolo. Fino a un certo punto, almeno. La mia astuzia, comunque, non consiste soltanto nel portarmi dietro le provviste. Nello zaino c'è anche il mio registratore, il modello miniaturizzato di Morrell, che può registrare per 240 ore, oppure, come direbbe Benedict, per dieci giorni interi di chiacchiere ininterrotte di Chaney. L'ho arrangiato in modo che la mia voce fa scattare il meccanismo di registrazione ogni volta che io parlo, e che l'assenza della mia voce per un periodo di dieci minuti lo spegne automaticamente. Così conservo tempo per la registrazione - anche se non ho intenzione di parlare per dieci giorni filati - e per evitare di giocherellare con i pulsanti quando potrei avere altre cose da fare. Naturalmente, posso sempre azionarlo a mano, se è necessario, annullando il blocco esclusivo sulla mia voce, ma fino a ora nessuno degli asadi è stato particolarmente loquace. Solo Eisen Zwei. E la sua voce non sarebbe stata adatta a far la corte alle signore. Ergo, ecco qui di nuovo il vostro cronista sul campo, il vostro osservatore obiettivo, i vostri occhi attenti e scrupolosi. Ho riflettuto. Sì, anch'io. E cosa non darei per una di quelle opere antiche che nessuno legge più... I fratelli Karamazov. Sicuramente, lo Scapolo non è altro che l'equivalente asadi di Pavel Smerdjakov, il figlio illegittimo che si distrugge per l'innata incapacità di riconciliare la parte spirituale e quella intellettuale della sua natura. Quale tristezza appassionata! Non può rifiutare né accettare l'affermazione che l'individuo è responsabile dei peccati di tutti... [Segue un'analisi per nulla pertinente dei modi in cui lo Scapolo somiglia al personaggio di Smerdjakov nel romanzo di Dostoevskij. L'ho omessa per non annoiare il lettore. Ritengo che il brano seguente sia stato registrato approssimativamente sei ore più tardi.] 1 CHANEY (mormorando): C'è silenzio, qui, silenzio come nel vuoto. E anche se probabilmente non riuscirete a crederlo, sono stato zitto per tutto un pomeriggio. Forse ho detto «Accidenti!» due o tre volte, dopo essermi sbucciato uno stinco o avere inciampato su una radice scoperta... ma è tutto. Sento che qui è meglio non parlare, non alzare la voce: già questo mormorio è fin troppo.
(Chaney si schiarisce la gola. C'è un'eco, un suono cavo che svanisce.) Noi tre siamo all'interno della pagoda, davanti alla quale lo Scapolo è stato designato «capo» della sua gente. Sento di poter parlare solo perché lui e l'auria hanno salito una stretta scala di ferro all'interno di questa struttura piramidale, verso la volta... verso la piccola cupola aperta da cui si erge la guglia esterna. Li vedo, da qui. La scala sale a spirale e lo Scapolo la percorre. L'auria - non sto affatto scherzando - vola al centro della spirale, restando all'altezza della testa dello Scapolo, ma io non sento assolutamente il suono delle sue ali che battono. In un posto come questo è strano. Ma qui c'è un freddo preternaturale, e forse il freddo c'entra per qualcosa... è freddo e morto, a differenza di qualunque altro edificio che sia mai stato eretto in una foresta pluviale ai tropici. No, accidenti, persino i miei mormorii hanno un'eco. Fuori è quasi buio. O almeno, era quasi buio venti minuti fa, quando siamo entrati dalla pesante porta che gli asadi, due settimane addietro, non avevano neppure aperto. Adesso devono essere sorte le lune. Forse un po' di luce scende dalla cupola lassù... No, no, Chaney: la luce, qui dentro, proviene da quei tre globi massicci inseriti nel cerchio metallico appeso a un paio di metri dalla cupola. Lo Scapolo sta salendo verso quell'anello enorme, la scala s'innalza in quella direzione: sembra un lampadario spartano, e i globi sembrano lampade bianche... Ascoltate. Ascoltate la luce che scende... (Non ci sono suoni per diversi minuti, forse un leggero intensificarsi del respiro di Chaney. Poi la sua voce si abbassa, assume un tono da cospiratore.) Eisen, Eisen, un altro paradosso per voi fisici. Credo... non ne sono certo, bada bene, ma credo che tanto il freddo quanto la luminosità, qui dentro, abbiano origine - promanino, per così dire - da quei globi lassù. È solo una sensazione. La luce d'un sole invernale. La consistenza della luminosità, qui dentro, mi ricorda la luce intorno alle scritte ALLARME ed EVACUARE delle navi-sonda, una luce morta, lambente. Ascoltate. Udite quel
chiarore livido, quella lucentezza infernale? Bene, andiamo dove potremo vedere qualcosa. (Silenzio. Respiro ritmico. Passi che echeggiano cavernosamente sulla pietra levigata.) Sto guardando verso l'alto, nella tromba della scala. (Un'eco: Ala ala ala ala...) Avanti, Egan, abbassa la voce, abbassala... così va meglio, molto meglio. Vedo l'auria che sale svolazzando, senza far rumore... le gambe dello Scapolo che ascendono la spirale. La scala sembra terminare a una piattaforma di vetro, a lato, un po' sotto il cerchio sospeso del «lampadario». Lo Scapolo sta salendo verso la piattaforma... non può andare da nessun'altra parte. Sto guardando verso l'alto attraverso l'asse della cupola, attraverso il cerchio del lampadario. Fuori, sopra la cupola, c'è una guglia protesa verso il cielo di BoskVeld. Dentro la cupola, appeso al vertice, c'è una specie di filo a piombo, che sembra d'oro intrecciato... scende attraverso il pozzo centrale della pagoda fino a un certo punto... una trentina di centimetri al di sopra dell'anello sospeso. Una trentina di centimetri, credo. Non posso dirlo con certezza. Sono rimasto così a lungo nella giungla che il mio senso della profondità è partito... così come i pigmei dell'Ituri faticavano ad adattare la loro vista nella savana. Chiedo scusa per la descrizione complicata dei recessi superiori del tempio, ma la sistemazione è complessa, ed è là che sta andando lo Scapolo. Non riesco a capir niente né dell'architettura né delle intenzioni dello Scapolo... e mi duole maledettamente il collo, a tenerlo così inclinato all'indietro... 2 CHANEY (in tono discorsivo, ma ancora sottovoce): Sono ancora io. Lo Scapolo ha raggiunto la piattaforma di vetro sotto l'anello del lampadario circa un'ora fa. Da allora è lassù in piedi come un tuffatore panolimpico, ma a quanto ho capito sta guardando il filo a piombo d'oro intrecciato che pende un po' al di sopra di lui dalla cupola del tempio. Non lo può raggiungere, dalla piattaforma su cui si trova. Che cosa vorrebbe fare? Non lo so... No, non può raggiungerlo. Senza un trapezio e una buona dose d'ardimento, non può raggiungere quel pendolo aureo. E poi, che cosa farebbe? Come direbbero gli annunciatori degli sceneggiati televisivi: «Lasciamo
Billy Bachelor lassù, in cima al Centro Medico di Callisto, a piangere per la perdita di Lenore, e seguiamo E.G. Chanwick mentre esplora le misteriose grotte d'acciaio del satellite, proseguendo la sua impresa bisettimanale di svelare il Segreto dell'Universo». (Risatine malamente represse. Echi risultanti. Passi.) Vi farò da cicerone, amici del campo base. Seguitemi. Questa pagoda sembra un museo. O magari un mausoleo. Comunque, un monumento a una cultura estinta. I muri, su tre lati, in fondo a questo posto, sono rivestiti di alte vetrine, bacheche d'un modello assurdo e inverosimile. Ognuna consiste di ripiani a ventaglio che si spiegano da un asse centrale e si fissano su livelli diversi uno dall'altro. (Chaney soffia.) Polvere. Polvere dappertutto. Ma non è particolarmente alta. Sui ripiani (che hanno il colore fragile della madreperla) vi sono esemplari di utensili e di opere d'arte. (Un tintinnio, come di pietra su pietra. Il respiro di Chaney.) Ho in mano una statuetta alta circa quarantacinque centimetri. Rappresenta un maschio asadi, con grande criniera e attributi virili. Ma è raffigurato con una specie di mantello sulle spalle e un paio di zanne acuminate che gli asadi quelli odierni, almeno - non possiedono. (Ripetizione del suono precedente, seguito da un suono metallico.) Ecco un coltello di ferro, con un manico di legno intagliato, che rappresenta un teschio animale. Tutti gli altri oggetti, in questa bacheca, sembrano armi o utensili pesanti, e la statua, qui, è decisamente un'anomalia. Sto attraversando la camera... verso il muro dove non ci sono bacheche. (Passi. Echi.) I Fratelli Asadi Volanti sono ancora lassù, più rigidi della statua che ho appena maneggiato. Adesso sto passando direttamente sotto di loro, sotto la cupola, l'anello di ferro, i globi a energia, il cordone dorato che scende dalla cupola... Vertigine. La semioscurità e la distanza mi danno le vertigini. Allora non guardarli, Chaney. Continua a muoverti... a muoverti verso il muro di fronte. Attraverso un'apertura nella parte inferiore della scala elicoidale. Verso la parete color corno dove non ci sono vetrine, amici, solo file e file di... accidenti a questa luce, lasciatemi avvicinare... sembrano sottili ostie di plastica... file di ostie appese a duemila aste argentee che sporgono per dodici o quindici centimetri dal muro. La parete sembra un grande, elegante attaccapanni luminoso, come un'unghia dietro la quale arde un fiammifero. Le file di quelle ostie - cassette, pacchetti di sigarette,
scatole di cerini, quel che volete - incominciano più o meno all'altezza della cintura e salgono fino a un metro circa più in alto di dove io posso arrivare. L'altezza è adatta agli asadi, credo. (Cinque o sei minuti di pausa, durante i quali si sente solo il respiro di Chaney.) Interessante. Credo di aver capito, Eisen: voglio che presti attenzione. Ho appena svitato il galletto scolpito dall'estremità di una delle asticciole argentee e ho rimosso la prima delle numerose, minuscole cassette che vi sono appese. «Ostia» è stata una scelta fortunata; queste cassette sono sottili come due o tre lamine di transitori saldate insieme, e hanno superfici di circa due centimetri e mezzo per due e mezzo. Ne ho contate cinquanta, appese a questa asticciola di quindici centimetri, e ci sono probabilmente tremila asticciole su questa parete. In tutto sono circa 150.000 cassette, e questa sezione della pagoda, molto probabilmente, funge solo da vetrina. Ma adesso voglio descrivere quella che ho in mano. Voglio dirvi come funziona e forse - se riuscirò a frenarmi - lascerò che traiate da soli le conclusioni. Al centro di questa ostia - che sembra fatta d'una specie di plastica, a proposito - è inserito un dischetto di vetro del diametro di un centimetro circa. Una lampadina o un occhio, direi. Sotto l'occhio c'è una targhetta rettangolare, al livello della superficie della cassetta. Sopra l'occhio, direttamente sotto il foro in cui s'infila l'asticella, c'è una banda con una serie di punti di colori diversi; alcuni dei punti si toccano, altri no. La spaziatura, probabilmente, ha un significato... almeno credo. (Una risata sommessa.) Ed ecco come funziona la nostra cassetta... oh, Eisen, non vorresti essere qui al mio posto? Anch'io lo vorrei. Dico sul serio... Credo che sia semplificata di proposito. Basta appoggiare il pollice sulla metà destra della targhetta in basso. E allora incominciano i fuochi d'artificio. (Una risata soddisfatta; eco successiva.) In questo momento l'occhio al centro dell'ostia lampeggia, passando attraverso un indecifrabile programma di colori. Rossi, violetti, verdi. Verdi, zaffiri, rosa. Tutti volutamente intrecciati, con pause... pause significative, senza dubbio... In questa semioscurità, le mie mani vengono alternativamente illuminate e oscurate dall'avvicendarsi dei colori. Bellissimo, bellissimo. È così, infatti. L'intero sistema probabilmente sacrifica una certa misura di praticità sull'altare della bellezza. Ecco... l'ho spenta. Basta coprire con il pollice la metà sinistra del rettangolo di comando. Forse è possibile invertire il programma... farlo torna-
re indietro fino al punto desiderato, per così dire... ma non ho ancora scoperto il metodo. Almeno, non credo. Mi è impossibile ricordare la sequenza dei colori... anche se probabilmente non era affatto difficile per gli asadi che componevano, fabbricavano e usavano questi oggetti, anche se questo doveva avvenire molto tempo fa. (Rumori, come tonfi leggeri.) Sto mettendo cinque cassette nel mio zaino. A maggior gloria della scienza. Per far scoppiare d'invidia lo spettro del vecchio Oliver Bow Aurm. Così Eisen e Morrell avranno qualcosa da aggredire con i loro cacciavite. (In tono pensieroso) Guardate quella parete. Riuscite a immaginare le informazioni che vi sono disponibili? Il livello tecnologico necessario per ideare un sistema d'immagazzinaggio e recupero per una «lingua» che consiste di complicati schemi dell'iride? A proposito, cosa pensate che io stessi «leggendo»? Immagino che la fascia di punti colorati sopra l'occhio sia la descrizione del contenuto. Il titolo, per così dire. Forse stavo vedendo Fornicazioni e deflorazioni del Marchese de Asadi. (Risata sommessa.) Ho notato che le mie mani hanno incominciato a sudare, mentre si svolgeva il programma. (Di nuovo in tono serio) No, l'occhio-libro - lasciatemeli chiamare occhi-libri - era il primo, su quella particolare asticciola. Forse è il loro Guerra e pace, o I fratelli Karamazov, o l'Origine della specie, o Il ramo d'oro. E che cosa diavolo ne hanno fatto? L'hanno cacciato in un tempio semidiroccato dimenticato da Dio, in mezzo al Synesthesia Wild, e se ne sono dimenticati! Che spreco colossale... che colossale arroganza! (Gridando) COSA DIAVOLO AVETE OTTENUTO DISTRUGGENDO LO SCIBILE ACCUMULATO NEL CORSO DEI MILLENNI? LASCIANDOLO QUI INUSATO A MARCIRE? (Una cacofonia di echi, una risonanza dolorosa.) (Un mormorio, appena udibile.) Avete ragione, voi due trapezisti, Fratelli Pasticcioni, fate pur finta che io non esista. Fate finta di non udirmi. Ignorate i millenni. Ignorate i vostri antenati che vi parlano dalla morte. (In tono velenoso.) E andate all'inferno tutti e due! 3 CHANEY (con voce monotona, apatica): Credo di aver dormito un po'. Mi sono addormentato sotto le file degli occhi-libri. Forse per un'ora. Non di più. Mi rendo conto del tempo trascorso con le piante dei piedi... dal calore della depressione nello zaino, dove avevo appoggiato la testa. Mi ha svegliato un rumore, un clangore di ferro. Adesso sono sulla scala
a spirale, piuttosto in alto, rispetto al pavimento del museo. Mi trovo in una curva della scala, un po' al di sotto e di fronte alla piattaforma di vetro dove stava lo Scapolo. Adesso lui non c'è più. Un momento fa si è issato sul freddo cerchio del lampadario, è montato e si è messo in equilibrio sull'anello, e poi ha teso la mano e ha afferrato il filo a piombo che scende dalla cupola. L'auria? L'auria stava accovacciata sul globo, nel triangolo dei globi, rivolta verso la facciata del tempio... ha abbandonato da un po' la spalla dello Scapolo. Dopo aver afferrato la treccia d'oro, lo Scapolo ha fatto un nodo scorsoio, e se l'è passato intorno al collo. Poi si è lanciato nel vuoto, così che i suoi piedi - proprio adesso, in questo momento - penzolano un po' più in basso del cerchio del lampadario. Lo sto guardando mentre è appeso lassù, con i piedi che girano, e descrive un cerchio invisibile all'interno dell'anello dei globi. Ma non è morto. No, non è affatto morto. Il nodo scorsoio è inclinato, in modo da tenerlo sotto la gola, nel vello della criniera. Nelle due settimane trascorse dalla sua designazione, la criniera è diventata considerevolmente più folta, soprattutto sulla mascella e sotto la gola, e quel pelame nuovo attenua la stretta del cappio. Perciò adesso se ne sta là a penzolare. L'impiccato. (Apaticamente) Uno sviluppo molto interessante, immagino. Almeno, l'auria si comporta come se fosse interessante. L'auria sta osservando la scena in preda all'eccitazione, batte di tanto in tanto le ali e si assesta sul globo dove sta appollaiata. (Un tonfo, borbottii inintelligibili.) Vedete un po' se riuscite a sentirla. Tenderò il microfono per voi. (Silenzio, scariche.) Ecco, sono gli artigli dell'auria che scivolano sul globo... il suono dei piedi dello Scapolo che girano verso nord, nord-est, est, sud-est, sud, sud-sudovest... (Dopo circa dieci minuti di quasi-silenzio) Poco fa ho visto che lo Scapolo incominciava a sbavare. Un filo sottile di liquido lattiginoso gli scintillava sul labbro inferiore mentre girava, con i piedi che ruotavano prima verso destra e poi di nuovo verso sinistra. Ho visto che muoveva la bocca... quasi come un insetto. Il filo di saliva si è allungato: non è caduto nell'abisso della tromba della scala; continuava a crescere, allungandosi come un'estensione lattiginosa del filo a piombo dorato. Adesso il filo è caduto lungo il centro della spirale, ed è poco più in basso del punto dove sto seduto. Vedo benissimo che non è un liquido, non è
saliva né vomito. È una fibra, tessuta dalle viscere dello Scapolo ed estromessa attraverso la bocca. (Tranquillamente) Bello e grottesco, nel contempo... e scommetto che mi crederete ubriaco o drogato. Sto trasformando in seta le paure di una sbronza, per così dire. Ma non ho bevuto bourbon, ragazzi, non mi sono sollazzato con il Placenol... e vorrei che ci foste voi, seduti su questa stretta scala di ferro, a guardare questo spettacolo disgustoso, questo sdipanarsi rituale delle viscere dello Scapolo. Fili di viscere. Bellissimi, grotteschi fili di viscere. (Senza emozione) Dio, anche la mia pazienza ha un limite... (Trascorrono parecchi minuti. Incomincia un lieve svolazzare, continua per un po', poi cessa.) Lo Scapolo ha continuato a sfornare seta come se fosse fatto interamente di quella sostanza. L'unico filamento di cui vi ho parlato poco fa, bene, è quasi arrivato al pavimento. Allora lui ha incominciato a lavorare con le mani, ritirandolo e facendo girare più in fretta il suo corpo nel cappio inclinato. Si sta avvolgendo in quella roba, come un re egizio che abbia deciso di diventare una mummia prima di morire. E intanto continua a emettere quel filo nebuloso. Avete indovinato chi è entrato in scena, amici? L'avete azzeccata ancora. L'auria si è involata dal suo globo quando lo Scapolo ha incominciato ad avvolgersi nel filo, e ne ha afferrato una sezione con gli artigli. Poi, con le zampe e con le mani, svolazzando in cerchio, ha coperto i piedi dello Scapolo, le caviglie, gli stinchi. Quindi si è posata sui piedi avviluppati del caro ragazzo. Adesso, con le ali spiegate, gli artigli probabilmente piantati nella carne dello Scapolo, l'auria sta appesa lassù come un pipistrello e continua ad avvolgere il padrone nel filamento estratto dalle sue viscere. E quella maledetta bestiaccia è cieca, badate bene, cieca come... uno xenologo sbronzo. Bravo, Chaney. Non so quanto tempo ci vorrà, ma tra un po' lo Scapolo sarà avviluppato - completamente racchiuso, sembra - in una crisalide opaca. L'auria sembra decisa a finire il lavoro al più presto. Sta già legando le mani dell'asadi, gli tira il filo intorno alle cosce, e si arrampica su per il suo lungo corpo, centimetro per centimetro, come una trapezista da circo. Poi lo Scapolo non sarà altro che una pupa sghemba penzolante da un cordone d'oro, nel soffitto del granaio diroccato dei suoi avi... credo.
(Chaney borbotta. Scalpiccii; forse lo spostamento di un fardello pesante.) Credo. Non chiedetelo a me. Non sto più a guardare questa assurdità. Ho le vertigini. Sono stufo di questa pazzia. Se riuscirò a scendere i gradini in questa luce infernale, mi sdraierò accanto alla parete degli occhi-libri e dormirò. Mi addormenterò subito. (Passi sui gradini di ferro. Borbottii incomprensibili.) Interludio: primo pomeriggio del 139° giorno [Dalla fine della sezione precedente all'inizio di questa Chaney si dedicò a molte «chiacchiere non pertinenti». Le ho espunte. Nel complesso, passarono circa dodici o quattordici ore di tempo reale, durante le quali Chaney, inoltre, mangiò e dormì. In questo «Interludio» mi sono preso la libertà di usare brevi sezioni dei passi espunti per creare una continuità che altrimenti non esisterebbe. Per non complicare le cose, gli inserti non vengono indicati come tali.] CHANEY (parlando in tono discorsivo): Salve. Sto parlando al solo Benedict, adesso. Ben? Ben, domani devi effettuare un lancio. Il ventesimo. Riesci a crederci? Neppure io. Mi sembra di essere qui da non più di dieci o dodici anni. Venti lanci. Bene, non potrò venire a ritirarlo. Almeno per un po'. Dio sa quando lo Scapolo vorrà condurmi fuori e riportarmi alla radura. Per il momento è occupato. Lascia che ti descriva come. Innanzi tutto, permettimi di dirti quel che succede. Sono qui, accanto a una delle vetrine polverose. Tutti i ripiani sono ripiegati contro l'asse centrale, come i petali di un fiore durante la notte. Ma è primo pomeriggio, Ben... la luce fioca filtra dalla cupola. Comunque, ogni vetrina è chiusa come una rosa in boccio. Tutte quante. È successo, credo, mentre io stavo dormendo. I globi, lassù, i tre globi del lampadario... i fuochi si sono spenti, sono morti e chiazzati come uova di dinosauro. Non so di preciso quando sia accaduto. Un'altra cosa... oggi gli occhi-libri non funzionano. Ho pasticciato con venti o trenta, posando il pollice sulla targhetta rettangolare sotto l'occhio... ma niente, neppure due colori in fila, neppure un barlume. Oggi la pagoda è morta. Ecco tutto: la pagoda è morta. E ho la sensazione che non riprenderà vita fino a quando Denebola non sarà tramontata e l'oscurità non sarà discesa su BoskVeld come l'ombra, l'ombra gualcita delle ali dell'auria.
Ma lo Scapolo... il bozzolo... vorrai sapere che ne è stato di lui. Non so di preciso neppure questo. Durante la notte il filo a piombo con il quale ha confezionato il nodo scorsoio, il filo cui è rimasto appeso nel vuoto mentre l'auria lo avviluppava nella falsa seta delle sue budella... il cordone d'oro, ti dico, si è allungato ed è sceso attraverso il cerchio del lampadario, così che adesso arriva a poco più di un metro dal pavimento. È sceso da solo, immagino. (Una risata repressa.) Direi che tra il pavimento e la parte inferiore della crisalide dello Scapolo adesso c'è solo lo spazio per infilarci uno sgabello. Un piccolo sgabello... e adesso quella pupa sgraziata pende nella semioscurità di questa camera e gira lentamente, lentamente, prima verso destra, poi verso sinistra, come un pendolo impazzito. È così, Ben, Big Ben, tutto questo edificio non è altro che un gigantesco orologio. Puoi sentire BoskVeld ticchettare nella sua orbita... Ascolta... In quanto all'auria, sta accovacciata sul nodo più alto della pupa, il punto da cui fuoriesce la treccia dorata... ed è insediata sulla testa mummificata dello Scapolo come di solito gli stava sulla spalla. Ogni volta che il corpo avviluppato si gira da questa parte sento che l'auria mi fissa, mi studia. Se avessi una pistola, sparerei a quella bestiaccia... lo giuro. Anche se lo sparo schianterebbe le saldature del tempio e me lo farebbe crollare addosso... e ogni fragile vetrina andrebbe in frantumi, ogni occhio-libro scoppierebbe. Che Dio mi aiuti, sparerei... e probabilmente è proprio per questo che non ho portato una pistola, un laser a mano o un'arma fotonica. Ma adesso la bestiaccia sta graffiando nervosamente la membrana serica, scardinandosi le ali e scuotendone un po' le punte protese... credo che stiamo per assistere a una scena movimentata. Dammi qualche minuto... (Più tardi) Ecco l'azione. L'auria si sta muovendo in quella sua maniera tipo «aggrappati come puoi» e discende lungo il bozzolo oscillante che racchiude lo Scapolo. Mentre si muove stacca pezzi di membrana, li recide con le zampe, trasferisce i pezzi alle mani avide e li divora. Esatto, li mangia. Mi ero chiesto di cosa si nutrisse la bestiaccia, e questa, apparentemente, è la spiegazione... si nutre dell'involucro della metamorfosi del capo asadi, si nutre della buccia del cambiamento involontario del suo padrone. Sarà un modo d'esprimersi un po' filosofico, credo, ma non posso fare a meno di pensare che l'auria stia divorando il vecchio io dello Scapolo. Scende di traverso come un gambero, a spirale, lungo il bozzolo - una spirale che rispecchia il grande cavatappi della scala della pagoda - e ingurgita furiosamente la membrana che strappa via. La bestia è arrivata all'incavo del petto dello Scapolo e io posso vedere
la testa del mio vecchio amico. Voglio dire che posso vedere il contorno della testa... perché sebbene il rivestimento serico sia stato divorato, rimane una pellicola azzurrina, lattiginosa. Aderisce alla testa come un sottile cappuccio. È bagnata e tremula, e lascia trasparire la maschera di morte della faccia. Ben, Ben, non puoi pretendere che io stia qui a guardare. Di' agli altri che non possono aspettarsi una cosa simile da me. La dea della xenologia mi ha già fatto troppi brutti scherzi, e sono nauseato e sfinito. E schifato. È peggio che la notte scorsa. C'è un odore, nel tempio, un fetore di escrementi e di putredine e di essudato ghiandolare... non so che cosa... (Suono di conati di vomito. Poi una successione di passi rapidi, come di corsa.) 4 CHANEY (con voce sottile, ma gioviale): Siamo di nuovo nel Wild. All'aperto. Tra le foglie canore, le lune danzanti, i venti scintillanti, e l'umidità è orribile. Mi fa colare il naso. Ma dopo aver trascorso una notte con il torcicollo nella cripta refrigerata di quel magazzino asadi... e un giorno da voltastomaco, quando si è trasformato da magazzino in carnaio... beh, l'umidità è un sollievo gradito. Sì, davvero. Il mio naso può colare come vuole, dove vuole... anche se non so dove sta correndo la faccia su cui cola. Per la verità, non stiamo affatto correndo. Ci stiamo muovendo a passo molto tranquillo, lo Scapolo, io e l'auria... senza nessuna fretta. (In tono clinico) Adesso mi sento bene. L'orrore di questo pomeriggio è passato. Non so perché mi abbia fatto star male. Non è stato poi tanto tremendo; avrei dovuto rimanere a osservare tutto. È per questo che sono venuto qui. Ma quando l'odore là dentro è diventato così atroce... il mio organismo era sotto tensione. Ho dovuto andarmene. Mi sono precipitato verso l'ingresso della pagoda, ho spinto i pesanti battenti, sono sceso correndo per la gradinata. La luce del sole ha intensificato la nausea... ma non potevo tornare là dentro, Ben, quindi non conosco esattamente i dettagli dell'uscita dello Scapolo dal bozzolo. Come un bambino che aspetta l'apertura della biblioteca, mi sono seduto sull'ultimo gradino della pagoda, stringendomi la testa fra le mani. Stavo male. Malissimo. Non era solo una faccenda emotiva. Ma adesso mi sento molto meglio e la notte - con le stelle che ammiccano lassù, come schegge di ghiaccio - mi sembra amica. (In tono malinconico) Mi piacerebbe essere in grado di orientarmi con
quelle stelle... ma non ci riesco. Non conosco ancora bene le costellazioni. Forse stiamo ritornando alla radura. Forse potrò ritirare il lancio di domani, dopotutto. So che adesso mi sento abbastanza bene per tentare. Lo Scapolo procede davanti a me; ha l'auria sulla spalla. So... (Il suono del vento e delle foglie corrobora la testimonianza: sono all'aperto, fuori del tempio.) ... Lo so, ti stai chiedendo che aspetto ha, come lo ha mutato la metamorfosi. Beh, ecco, non ne sono sicuro. Sembra più o meno lo stesso. Come ho detto, non sono rientrato nel museo. Ho atteso fuori fino a quando è tramontato il sole, continuando a ripetermi che avrei risalito la scalinata quando fosse venuto il buio completo. Sapevo che i miei incantevoli amici non potevano uscire da nessun'altra parte, che non sarei rimasto lì abbandonato. Almeno, non avevo visto altre porte, dall'interno. Gli antichi asadi, evidentemente, non ritenevano di aver bisogno di una quantità di uscite. La fine che hanno fatto suffraga l'ipotesi. Ma prima che riuscissi a trovare il coraggio di rientrare nella pagoda - proprio quando il crepuscolo aveva incominciato a perdere la lucentezza - lo Scapolo è apparso sul gradino più alto. E ha sceso la scalinata. E mi è passato accanto. Non mi ha guardato. L'auria, aggrappata alla sua criniera, aveva l'aspetto comatoso che ricordavo di aver osservato quando Eisen Zwei era entrato per la seconda volta nella radura degli asadi. Adesso so perché appariva così gonfia, incapace di muoversi... aveva ingoiato la crisalide del vecchio, ammesso che Eisen Zwei fosse stato capace di farsi un bozzolo. Dio mi aiuti, non l'ho ancora capito, e forse non lo capirò mai. Comunque, ho notato due piccoli cambiamenti nello Scapolo, mentre mi passava davanti nella giungla. Innanzi tutto, adesso la sua criniera è un gran collare di pelo... ancora un po' umido a causa della pellicola viscosa della crisalide. In secondo luogo, un sottile mantello, formato dalla stessa pellicola, si estende tra le scapole nude dell'asadi e gli ricade a pieghe sulle reni. Probabilmente, non si è ancora staccato. E questo è tutto. I suoi occhi sono ancora bianchi e muti e incapaci di comunicare. Adesso siamo in una sorta di galleria. Stiamo camminando, insinuandoci sotto le liane, da trenta o quaranta minuti. Poco fa abbiamo incontrato una specie di sentiero, una pista battuta che ci permette di procedere eretti...
come se fossimo in un parco. È l'unico sentiero che abbia visto nel Synesthesia Wild. Lo Scapolo si muove agilmente, e ancora una volta non ho nessuna difficoltà a seguirlo. Ma sono sperduto. (Una pausa considerevole, durante la quale si affermano i suoni del Wild: il vento tra le fronde, acqua in lontananza, lo scalpiccio sommesso dei piedi sul terriccio.) (In tono pensieroso) Tutto il tempo che ho trascorso nella radura degli asadi, tutto quel tempo a guardarli aggirarsi e consumarsi i calcagni, senza uno scopo... mi sembra che siano passati secoli. Non sto scherzando, Ben, Eisen. Il tempo trascorso nella radura adesso non esiste più. Anche se sono sperduto, sento che sarei capace di seguire in eterno lo Scapolo lungo questo stretto sentiero. Ma la sua metamorfosi - o l'assenza della metamorfosi - mi turba. Ci ho pensato. La mia opinione riverita, ma non necessariamente esatta, è che il capo sia esattamente quello che era prima. Da un punto di vista anatomico, voglio dire. Forse il breve tempo che ha trascorso ibernato in quel sacco a pelo fatto in casa lo ha modificato psicologicamente, anziché fisicamente. (Dieci minuti di vento, acqua e scalpiccii.) 5 CHANEY (sottovoce): C'è qualcosa tra gli alberi, più avanti. Una figura rannicchiata, scura. Lo Scapolo se l'è appena presa con me... non vuole che mi avvicini a lui. Se non gli resto vicino, mi perderò. Accidenti a te, simpaticone, non ti permetterò di abbandonarmi. Siamo fuori strada. Siamo fuori strada da un pezzo e gli alberi, le liane, le radici contorte... sembra tutto eguale: un posto è identico all'altro. Non ubbidisco a quel bastardo. Gli resto abbastanza vicino per non perderlo di vista neppure per un secondo. È là, in quel corridoio di foglie sfrangiate, e avanza verso la cosa sull'albero. So che c'è perché lui sa che c'è. È come un'escrescenza tra i rami, un gonfiore al quale la luce delle lune conferisce un aspetto lanuginoso. Dovreste vedere il modo in cui si avvicina lui. Ha spalancato le braccia e sta facendo un lungo passo alla volta. Come una SS al rallentatore. La membrana tra le scapole si è aperta, e forma una specie di drappeggio a ventaglio sulla sua schiena. Le ombre vi guizzano, le ombre e la luce delle lune... Che strano tipo. Dovreste vederlo. È una specie di versione
mobile e ingrandita dell'auria ubriaca che gli sta aggrappata alla criniera. Adesso siamo più vicini. Quella cosa lassù, quale che sia, è morta o inanimata o ipnotizzata... ipnotizzata, credo. Sono sicuro che sia uno degli asadi. Una figura grigia. Normalmente, non ci si avvicina tanto, di notte. Lo Scapolo l'ha ipnotizzata con il passo dell'oca al rallentatore, l'ondulazione della membrana sulla schiena e sulle braccia... forse anche con gli occhi vacui... adesso stiamo aspettando, aspettando. Sono vicino per quanto posso esserlo senza contaminare la purezza di questo confronto. Vedo due occhi, lassù. Occhi di asadi, bloccati su un rosa malsano. (A voce alta, mentre si ode un movimento brusco.) La cosa è saltata giù dai rami. È davvero un asadi, una femmina grigia e snella. Lo Scapolo la sta rovesciando al suolo, l'auria gli è caduta di dosso, e sta svolazzando nel cespuglio sotto l'albero! (Un tonfo pesante; continui movimenti bruschi.) (La voce di Chaney sale in un falsetto incontrollato) LO SAPEVO, LO SAPEVO CHE COSA ERAVATE! BUON DIO, NON LO PERMETTO, DAVANTI A ME! NON PERMETTERÒ ALLA VOSTRA MALVAGITÀ DI PROSPERARE! (Rumori di zuffa. Poi, debolmente) Lasciami in pace, lasciami. (Rumori violenti; poi una scarica ronzante e un respiro sommesso.) 6 CHANEY (ansimando) Mi duole la testa... sono stato male di nuovo. Ma qui si sta bene; sono inginocchiato sull'erba, sotto gli alberi, al limitare della radura della pagoda... Sono stato male di nuovo, sì, ma ho compiuto azioni eroiche, e sto compiendo un'azione eroica proprio adesso. Mi sentite, no? Sto parlando a voce alta... A VOCE ALTA, MALEDIZIONE! E lui non mi fermerà... se ne starà seduto di fronte a me, con le lunghe gambe piegate, e subirà... No, simpaticone? No? Bene, bravo simpaticone... Non riesce a credere a quello che ho fatto, Ben. Non riesce a credere che l'ho liberato da quel rognoso galletto da combattimento. C'è sangue sull'erba. Sangue scuro e dolce. Troppo dolce, Ben. Devo alzarmi... (Chaney geme. Un fruscio d'indumenti... poi la sua voce forzata) Bene. Benissimo. Un po' di corteccia per appoggiarmi, un albero spinoso. (Un suono secco.) Bene, bene, rifiuto di lasciarmi disorientare, Ben. Siamo arrivati marciando - camminando adagio, per l'esattezza - attraverso quell'apertura, quell'arcata di felci e di fiori viola... oh, diavolo, non puoi vedere
dove sto indicando, vero? E non lo vedresti, probabilmente, neppure se fossi qui. Ma siamo arrivati qui dalla direzione che sto indicando, e io non ho perso la testa. La testa, a proposito, mi duole perché lui mi ha steso... mi ha dato una gomitata nell'occhio. Gli asadi usano sempre le gomitate... credono che i gomiti servano a colpire gli altri nelle costole o in faccia: persino lo Scapolo. Mi ha steso, mi ha ferito, accidenti a lui, quando ho cercato d'impedirgli di massacrare quella povera donna, che adesso giace macellata sull'erba. Mi ha steso, e non ho potuto fermarlo. Poi se l'è caricata sulla spalla, ha tirato l'auria fuori dal cespuglio, per le zampe. Si è avviato attraverso la giungla, mentre il Wild tintinnava come mille sonagli per via della mia testa, dell'occhio dolorante. Per non perdermi, ho dovuto seguirlo. Buon Dio, ho dovuto seguire quella coppia pazzesca... Poi, quando abbiamo raggiunto un piccolo tratto erboso fra gli alberi - la pagoda è proprio là - lui ha gettato per terra la donna morta e l'ha sbudellata. L'ho visto quando sono arrivato dietro di lui, attraverso la giungla... vedete, ci sono arrivato tre o quattro minuti dopo che l'aveva fatto. Sono crollato. Sono crollato e sono stato a vedere. Mi coprivo l'occhio dolorante e guardavo con l'altro... dopo dieci o dodici minuti ho dimenticato che cosa significava, e la donna non sembrava più un'asadi. Adesso è sparsa sull'erba... e lo Scapolo non ha bisogno di percuotermi per impedirmi d'intervenire. Ma, Ben, non ho potuto farci niente: era a causa della mia testa e della stanchezza... non pensavo in modo lucido. Non ho capito che stava macellando quella creatura. Appena ho potuto, ho rimediato alla situazione. Ecco perché sto ancora un po' male. E quel simpaticone non mi picchierà più. Vero, simpaticone? Può solo starsene seduto a fissarmi. L'ho intimidito a dovere. Lui credeva che fossi una specie di paria asadi privo di criniera, e non riesce a riconciliarsi con questa mia nuova immagine. Povero bastardo muto. La mia azione eroica lo ha colpito come un calcio nel suo plesso solare psicologico. (Quasi pomposamente) Che le lune mi siano testimoni, ho ucciso l'auria. Ho ucciso l'auria! No, no, neppure il simpaticone riesce a crederlo, ma giuro per il paradiso che è vero. Guardatelo, guardatelo mentre traccia lentamente gli otto con il mento. Dio, che batosta gli ho dato! Credeva che io fossi un altro asadi, un asadi di bassa casta... e quando ha finito di fare a pezzi quella povera donna indifesa, quella dolce creatura dalle gambe lunghe, ha piazzato l'auria sulla carcassa... e allora, ho dovuto fare qualcosa. Mi sono alzato. Ma l'auria stava appollaiata sul corpo macellato, e mi fissava con quella faccia cieca.
Il simpaticone l'aveva messa lì a guardia del cadavere, come aveva fatto Eisen Zwei nella radura il giorno che ha portato tre suoi simili macellati come offerta per il banchetto. L'auria significava che io non dovevo muovermi, che dovevo fare il bravo cannibale e aspettare che il pranzo venisse servito a dovere. Io non sono un asadi... mi venga un accidente se sono un asadi e non ho fatto caso... no, per Dio, non ho fatto caso alla stupida sentinella dello Scapolo. L'ho ammazzata. Sono partito di corsa e ho sferrato un calcio all'auria con la punta dello stivale. È svolazzata all'indietro, e io l'ho schiacciata con il tacco, stritolando sull'erba la sua piccola, lurida nonfaccia. Il corpo si è spaccato. Il pus è uscito come stucco da un tubo di plastica, e il fetore è salito al cielo... è questo che mi ha fatto star male, la vista e il fetore delle viscere dell'auria. Mi sono allontanato barcollando, sono caduto in ginocchio... Lo Scapolo non riusciva a muoversi. L'uccisione dell'auria mi aveva dato un potere su di lui. È rimasto lì seduto, come è ancora adesso, e mi ha guardato. L'odore dell'erba mi ha rianimato, mi ha convinto del mio eroismo, il mio eroismo sanguinario... e quando ho capito che dovevo dirvelo, ho cominciato a parlare, tra la nausea e l'odore troppo dolce dell'erba. (Sarcasticamente) Hai paura, simpaticone? È questo che ti preoccupa? Potrei venire lì e prenderti a calci in faccia se volessi? Sì, oh, sì. Accidenti, Ben, ho la situazione in pugno, sono io che comando! (Risata: una risata prolungata; poi, virtualmente, silenzio.) Il potere è una cosa evanescente, Ben. (Pensieroso) Lui si è appena alzato, lo Scapolo, e mi ha fronteggiato come un nemico. Ho creduto di essere spacciato, davvero. So che è un voltafaccia... non devi pretendere che sia coerente, quando sto male. Ma lui si è limitato a fissarmi per un minuto, poi si è voltato e ha attraversato la radura, dirigendosi verso il tempio. Adesso sta salendo la scalinata, molto lentamente: una forma grigia come la forma grigia che ha ucciso. Tutte le lune sono alte nel cielo. Fanno ondeggiare la sua ombra sui gradini, dietro di lui. Non entrerò più là dentro, amici: non c'è bisogno che lui mi aspetti... e non mi aspetta. Benissimo. Magnifico. Resterò qui sull'erba, sotto le liane e i fiori di fuoco, fino a quando verrà mattina. Che vada, che vada... Ma, accidenti a lui, non può lasciarmi in questa radura cosparsa di budella! Puzza; l'erba è annerita dal sangue. E qui... guardate questo. Cosa diavolo è? Bisogna chinarsi (con un gemito) per vedere: una piccola sacca di trippa globulare, sull'erba, dove cade la
luce delle lune. Sono tre, annidati sull'erba, tre piccoli globi palpitanti... credo siano ovuli, Ben, e tutti hanno le dimensioni dell'unghia del mio pollice. Molto più grosse delle minuscole cellule riproduttive degli umani. Ma sono ovuli. Ovaie. Almeno credo. Luccicano e sembrano vivi, così luminescenti... Lo Scapolo li ha deposti qui mentre macellava quella povera donna. È stato attento a non schiacciarli... li ha disposti in modo che formassero un triangolo equilatero in questo nido d'erba. È come... ecco, è come la disposizione dei globi sul cerchio del lampadario all'interno della pagoda... Ma lì dentro non ci torno, simpaticone... NON CI TORNO! HAI CAPITO? NON CI TORNO... 7 CHANEY (sconvolto): Dov'è? Eisen, tu dicevi che potevamo vederlo dal nostro emisfero... dicevi che era visibile. Ma adesso sono qui, qui fuori davanti al tempio degli asadi, dove non ci sono rami che ostruiscano la vista e, accidenti a te, Eisen, non lo vedo! Non lo vedo! Vedo solo quelle lune accecanti che danzano in su e in giù e un cielo pieno di ragnatele scintillanti. Dov'è Sol? Dov'è il nostro sole? Eisen, tu dicevi che potevamo vederlo a occhio nudo, sono sicuro che dicevi così... ma non lo vedo! È perduto in quella ragnatela di stelle... perduto! (In tono improvvisamente risoluto) Ritornerò nel tempio. Sì, per Dio. Allo Scapolo non interessa, anche se resto qui fuori a marcire con quella povera donna macellata che ha abbandonato qui. Ha abbandonato anche me. Da venti minuti sono qui, da solo, da venti minuti fisso l'erba scura, l'erba scura e dolce. Lui vuole che muoia per il fetore soffocante: ecco quello che vuole. Ho ucciso la sua auria. Ma un uomo che uccide un'auria non è un uomo che subisce una morte passiva. Lui l'ha dimenticato. Se devo morire, Ben, morirò eroicamente, e non come vuole lui. Ho trascorso troppo tempo seduto a gambe incrociate sotto gli alberi ad attendere la mia morte o la fame corrotta che mi terrebbe in vita. Non mangerò questa offerta, questa povera donna assassinata, e non resterò neppure qui! C'è una bella corda dorata nella pagoda, una bella corda dorata. Dovrebbe andar bene. Se il simpaticone è ancora troppo sconvolto per la perdita subita e non intende condurmi alla radura - la radura degli asadi - quel filo a piombo dovrebbe servire. So lavorare con le mani: posso fare un nodo scorsoio, come il simpaticone. E poi andare fino in fondo, anche se lui non ne è stato capace. Venitemi dietro, amici, e vedrete se non ci riuscirò. (Lo scalpiccio di piedi sul terriccio, l'ansito di Chaney mentre sale la
scalinata del tempio, lo scricchiolio di una porta pesante.) (A partire da questo punto, ogni parola di Chaney ha la breve eco indicativa del volume vuoto dell'interno di un grande edificio.) [È una delle molte condizioni, apparentemente non simulabili, che mi convincono dell'autenticità delle registrazioni. Tuttavia non saprei congetturare quanto di ciò che Chaney riferisce sia dovuto all'allucinazione anziché alla realtà.] È freddo. Tu non crederesti mai quanto è freddo qui dentro, Ben. Freddo e buio. Dalla cupola non filtra luce e il lampadario... il lampadario è spento. I miei occhi non sono abituati... (Un tonfo) Ecco una vetrina. Mi sono sbucciato il gomito. I ripiani sono abbassati, e mi sono scalfito il gomito. Resterò qui un minuto. Le vetrine irradiano la loro luce fioca, una luce fioca molto calda, e io riuscirò a vedere molto meglio se resterò qui e lascerò che le mie pupille si adattino. È la stessa vetrina che ho descritto la scorsa notte! Oppure una molto simile, credo. La statua, il coltello, gli utensili e le armi... non c'è niente di diverso! (Un suono stridente, quasi di vetro.) Bene, aspettate un momento. Una differenza c'è. I petali inferiori di questa vetrina sono stati strappati via. Sono fermo sulle schegge. E il vandalo non sono io, Ben... le schegge c'erano già. Io le ho solo calpestate, ecco tutto. Non può essere successo quando ho urtato la vetrina... qualcuno ha lavorato energicamente sui ripiani per staccarli. Lo Scapolo, magari? Lo Scapolo è l'unico, qui, oltre a me. Cercava un'ascia per aggredirmi? Aveva bisogno di uno dei coltelli ornamentali dei suoi antenati, prima di sentirsi in grado di affrontare il paria asadi dalla pelle rosa che ha ucciso quel povero galletto di gomma? Povero, povero galletto di gomma... È COSÌ, SIMPATICONE? HAI PAURA DI ME, ADESSO? (Echi di crolli. La voce di Chaney diventa rauca, confidenziale.) Credo che sia così, Ben. Credo sia per questo che le lampade a globo sono spente, che questo posto è così buio e la vetrina è rotta. Il simpaticone mi vuole uccidere... sta in agguato nell'oscurità. Beh, va benissimo. È molto più eroico della corda, una morte magnifica... lotterò con lui un po', anzi. Beowulf e Grendel. Non ci vorrà molto. La donna che ha ucciso non ha sentito quasi niente... ne sono sicuro. DA QUESTA PARTE, SIMPATICONE! TU SAI DOVE SONO! FATTI AVANTI, ALLORA! FATTI AVANTI! NON MI MUOVERÒ! (Una confusione di echi, dissonanti e riverberanti. Completo silenzio, rotto solo dall'ansimare di Chaney. Continua così per quattro o cinque minuti di tensione. Poi uno schianto tremendo, seguito da uno
spicinio enormemente ingigantito... come una cassa di porcellane che s'infrange. Chaney lancia un grido di stupore.) (Mormorando) Buon Dio... adesso la pagoda è inondata di luce... la luce dei tre globi del grande lampadario di ferro che ieri pendeva sotto la cupola. Adesso è diverso... il cerchio di ferro è a un metro e mezzo dal pavimento. Lo Scapolo è dentro all'anello, e sferra colpi a uno dei globi con un piccone. Ha già staccato un grande pezzo chiazzato del rivestimento. Il pezzo si è infranto sul pavimento. L'avete sentito rompersi. (A voce alta) E i tre globi pulsano d'energia, energia rabbiosa. Riempiono il tempio di elettricità... un gelo mortale... la loro ira. Sono sicuro che sono stati loro a generare il campo che fa fluttuare il cerchio, come una prigione circolare intorno alle spalle dello Scapolo. Il filo a piombo ondeggia sferzante avanti e indietro, mentre lui sferra colpi... quasi lo ha avviluppato. E lui è dentro al cerchio... e continua a colpire il globo con il piccone. (I colpi punteggiano la descrizione affannosa di Chaney... apparentemente, un altro pezzo del rivestimento del globo cade sul pavimento e s'infrange.) Perché diavolo non ne viene fuori? È imprigionato nel campo? Vedo che è troppo indaffarato per curarsi di me, per desiderare di uccidermi. D'accordo. Mi sta bene. Lo incoraggerò, gli darò il mio appoggio morale... PICCHIA FORTE, SIMPATICONE! Tutte le vetrine sono aperte. Tutti i ripiani sono abbassati. Adesso posso vederli. La pagoda è di nuovo viva. È bastata l'oscurità... e un po' di violenza. Il primo globo si è spaccato... lui ha staccato la parte superiore. Ascolta, Ben, ascolta. All'interno qualcosa si muove, dentro la metà inferiore intatta. Il cerchio si sta inclinando da una parte, e qui dentro è un po' più buio. All'improvviso. Se quello continua a spicconare i globi, qui la luce se ne andrà... i ripiani si chiuderanno e si bloccheranno per sempre? Senti il graffiare dentro al globo rotto? Lo senti, Ben? Sai già che cos'è? Io lo vedo e lo sento. In questa semioscurità c'è un guizzo, in quel guscio, un guizzo simile ai brandelli sibilanti di una fiamma nera... Gesù, Ben, è un'auria che si dibatte là dentro, un'auria nera-nera, cieca-cieca! Graffia il guscio e si rizza, mentre il cerchio si inclina verso il pavimento.
(Uno svolazzare nettamente udibile al di sopra della voce di Chaney e dei colpi di piccone dello Scapolo.) È in volo... una bestiaccia goffa, un po' più grossa di quella che io ho uccisa. E qui dentro c'è un odore, come quando ho schiacciato l'altra auria. Maledizione! Gli asadi sono idioti! Lo Scapolo sta spicconando un altro globo... vuol farne uscire un'altra. Vuol farle uscire tutte e tre, in modo che piombiamo nell'oscurità, fra le ali svolazzanti... e magari la cupola ci crollerà addosso. Per quanto riguarda lui, può anche farlo... ma a me, nossignore! Me ne vado, Ben, mi precipiterò giù per la scalinata finché c'è ancora luce sufficiente per vedere qualcosa. Il vecchio Oliver Bow Aurm dovrebbe baciare il verme più vicino per avergli risparmiato tutto questo... un verme figurativo, cioè. BoskVeld brulica di vermi figurativi... e io torno a casa. Torno a casa da voi. Da voi, miei simili... (Passi, un pesante scricchiolio di legno, e poi il silenzio senza echi della notte, mentre Chaney esce nel Wild.) 8 CHANEY (euforico): Dio, guardali! Sto scaricando il mio zaino. Li sto lanciando verso il vecchio Sol, dovunque sia. Un'altra Festa dell'Indipendenza! La seconda, per me. (Quattro o cinque sibili in successione.) Torno a casa, torno a casa. Da te, Ben. Da Eisen, da Morrell e da Jonathan. Non potrete dire che non so cavarmela con i bengala. (Risata.) Dio, guarda come colorano il cielo! Guarda come fumano! Guarda come bruciano il fetore dell'illusione degli asadi! No, per Dio, non distruggeremo tutte le razze che incontriamo. Forse i pigmei, forse l'abbiamo fatto con i pigmei... ma gli asadi, benedetti, lo fanno da soli... lo fanno da soli, da millenni. E Dio, guarda quel cielo pulito, fosforescente! Vorrei soltanto sapere in che direzione è il Sol... mi piacerebbe vederlo. Mi piacerebbe vederlo, come una scheggia di ghiaccio, al centro di quelle ragnatele fiammeggianti. Parla Thomas Benedict: ultimi commenti Vedemmo i bengala e andammo a prendere Chaney. Moses Eisen era con me sull'elicottero. Eravamo usciti molto presto, la mattina del 140° giorno per compiere il solito lancio dei rifornimenti per Chaney e poi per sorvolare la radura degli asadi con l'idea di dare un'occhiata a occhio
nudo al nostro xenologo culturale. Il comandante Eisen aveva ordinato di farlo quando era apparso chiaro che Chaney non intendeva comunicare spontaneamente con noi. Il comandante voleva assicurarsi delle condizioni di Chaney, magari atterrando e parlando con lui. Voleva che tornasse al campo base. Se non fosse stato per queste circostanze eccezionali, i bengala di Chaney non avrebbero avuto altro spettatore che il cielo vuoto. Invece, vedemmo gli ultimi due o tre bengala che aveva lanciato, e tornammo indietro con l'elicottero per andare da lui. Quando lo raggiungemmo, Chaney non era più l'avventuriero euforico che appare dall'ultima sezione del suo monologo... era un uomo stanco e sofferente che non mostrò di riconoscerci quando ci posammo, e che salì a bordo dell'elicottero, con gli occhi stralunati e la barba lunga, stringendosi le spalle con le mani. Togliendogli lo zaino, entrammo in possesso del registratore che aveva usato durante gli ultimi due giorni, e degli «occhi-libri» che diceva di aver prelevato dal tempio degli asadi. E quella notte tornai da solo alla radura degli asadi per recuperare il resto dei suoi effetti personali. Appena tornati al campo base, comunque, affidammo Chaney alle cure dei dottori Williams e Tsyuki, e gli facemmo assegnare una stanza privata nell'infermeria. In quel periodo, come ho già detto in precedenza, scrisse Il Rituale della Morte e della Designazione. Sostenne, in più d'uno dei nostri colloqui, che lo avevamo raccolto a non più di quattro o cinquecento metri dalla pagoda da lui descritta. Continuò a sostenerlo anche se, nei numerosi viaggi su quell'area, non riuscimmo a scoprire una radura abbastanza ampia per ospitare una struttura del genere. Neppure una volta, in tutte le nostre conversazioni, comunque, Chaney affermò di essere entrato nella pagoda. Solo nella registrazione si incontra questa strana nozione: avete appena letto la trascrizione riveduta e corretta del nastro, e potete decidere voi fino a che punto si possa credere ai vari rapporti. Una cosa è certa... gli «occhi-libri» che Chaney portò fuori dal Synesthesia Wild esistono. E da qualche parte dovevano pure venire. Gli «occhi-libri» sono un enigma totale. Hanno esattamente l'aspetto descritto da Chaney nella registrazione, ma non ne funziona nessuno. Le cassette sono di plastica, senza giunture, e l'unico modo veramente efficiente per vedere quel che c'è dentro consiste nel rompere la lampadina, il piccolo occhio di vetro, e sondare attraverso l'apertura con antiquati strumenti da orologiaio. Se i «libri» erano veramente programmati come riferisce Chaney nel nastro, all'interno delle cassette non abbiamo trovato nulla su cui potessero essere incisi i programmi, né fonti d'energia che po-
tessero alimentare una rapida successione di schemi colorati. Morrell ha formulato l'ipotesi che i programmi esistano nella struttura molecolare degli stessi involucri di plastica, ma non c'è modo di confermarlo. Gli «occhi-libri» rimangono un enigma. In quanto a Chaney, sembrò riprendersi bene. Non volle saperne di parlare del nastro, quando affrontai l'argomento - una sola volta - ma espresse l'intenzione di scrivere un libro sulle sue scoperte. «È necessario descrivere gli asadi» mi disse una volta. «È necessario descriverli dettagliatamente. È essenziale che mettiamo sulla carta, su nastro, su cubi olografici tutte le culture che scopriamo. La penna è più potente della spada, e la carta dura più della carne.» Ma Chaney non scrisse il suo libro. Rimase con noi tre mesi, copiando i suoi appunti, lavorando nella biblioteca del campo base, e unendosi a noi solo ogni sei o sette pasti, alla mensa comune. Stava molto sulle sue, isolato in mezzo a noi come lo era stato nella radura degli asadi. E continuò a pensare moltissimo, malinconicamente, fatalisticamente. Fece qualcosa d'altro, cui pochi di noi prestarono attenzione. Si fece crescere la barba e rifiutò di farsi tagliare i capelli. Più tardi capimmo perché. Una mattina non riuscimmo a trovare Egan Chaney nel campo base. A sera non era ancora tornato. Eisen mi mandò alla baracca di Chaney e mi disse di passare là la notte. Mi disse di esaminare la roba di Chaney, per vedere se riuscivo a scoprire dov'era andato, da un biglietto esplicito o da un appunto scarabocchiato. «Non credo che tornerà» disse il comandante... e aveva ragione. Sbagliava a proposito del biglietto, però. Non trovai altro che taccuini malconci, nella stanzetta piena di libri. E sebbene li leggessi tutti, quella notte, non trovai un biglietto d'addio. Solo quando controllai la mia casella postale, il giorno dopo, trovai quello che Eisen mi aveva detto di cercare. Controllai per pura abitudine... sapevo che non c'erano state consegne per nave-sonda. Forse cercavo un memorandum di qualcuno del campo base. E trovai il biglietto di Chaney. L'unico conforto che mi diede fu la certezza che il mio amico non aveva deciso di suicidarsi, e che aveva sconfitto una follia sottile ma persistente. (Eisen lesse quest'ultima frase, nella prima stesura, e obiettò: «Adesso ti sbagli, Ben. Non solo Chaney ha ceduto alla pazzia, ma si è anche suicidato... un suicidio lento, ma sempre suicidio».) Il biglietto esprimeva un biz-
zarro ottimismo, e se non ve ne rendete conto alla prima lettura, ricominciate a rileggerlo daccapo. Perché, anche se Chaney si è suicidato, è morto per qualcosa in cui credeva. Torno alla radura degli asadi, Ben. Ma non seguirmi... non ti permetterò di riportarmi indietro. Ho raggiunto un accordo perfetto con me stesso. Probabilmente morirò. Morirò di sicuro, senza i lanci dei rifornimenti. Ma il mio posto è tra gli asadi... non come un paria, non come un capo: come un membro della folla brulicante. Quello è il mio posto, anche se quella folla è stupida, anche se si ostina nella sua voluta immunità all'istruzione. Io sono uno di loro. Come lo Scapolo, sono una grande falena lenta. Una falenatigre. E la fiamma che voglio seguire e in cui voglio morire è la stessa fiamma che consuma lentamente ogni asadi. Stammi bene, Egan Nota di Moses Eisen: In seguito alla defezione di Egan Chaney nel Synesthesia Wild e alla lucida compilazione degli appunti di Chaney realizzata da Thomas Benedict, l'Accademia degli Xenologi Culturali ha concesso a Benedict anziché a Chaney la Corona Oliver Bow Aurm Frasier. Anche se non dimentichiamo i morti, li seppelliamo. Gli onori sono fatti per i vivi. EDITORIALE (Fred Pohl) Fred Pohl non ha bisogno di presentazione per i lettori di Worlds of If. Poiché i racconti di questo secondo volume di The Best From If appartengono al regno di due direttori, riteniamo opportuno contrassegnare questo cambiamento con la presentazione di un illustre ex direttore. Dunque If ha un direttore nuovo... Non è la prima volta. If non ha ancora un quarto di secolo, ma nella sua esistenza, credo, ha avuto più direttori di qualunque altra rivista di fantascienza del mondo: Ejler Jakobsson, e Horace Gold, e Damon Knight e al-
tri cinque o sei. Io stesso l'ho diretta, vediamo, per circa nove anni, che forse rappresentano il primato insuperabile di durata per questa rivista divoratrice di direttori. Un direttore è un mediatore. Sta fra l'editore e l'autore; tra l'autore e il lettore; tra il disegnatore e il tipografo: dedica la sua vita al compito di cercare di far andare d'accordo queste coppie inconciliabili. Ogni giorno deve combattere ancora una volta la stessa battaglia, per convincere l'editore che gli autori hanno bisogno di denaro sufficiente per vivere, e gli autori che gli editori hanno il diritto di guadagnare. Tre quarti del suo tempo vengono spesi per placare le divergenze, o per spianare piccoli dettagli pestiferi (diffusione; promozione; pubblicità; mettere insieme i vari numeri; assegnare i lavori d'illustrazione; controllare i cliché, eccetera eccetera) di cui la maggioranza dei lettori non ha mai sentito parlare. Nel tempo che gli resta, cerca di trovare e di pubblicare capolavori. E come si fa? Ci sono tanti sistemi quanti sono i direttori, credo. L'idealista. Ha in mente una visione perfetta della rivista fantascientifica ottimale, e si sforza di trovare autori che producano racconti in grado di realizzarla. John Campbell era un direttore di questo genere. Non badava a quel che facevano gli altri, non si curava dei «grossi nomi»; decideva che genere di vicende di science fiction dovevano venire scritte perché piacessero ai lettori, e così piegò alla sua volontà un'intera generazione di nuovi autori... e nel contempo li trasformò nei maggiori professionisti del campo. È un lavoro duro, e naturalmente riesce solo se la visione perfetta del direttore corrisponde a quello che vuole il pubblico. Quando l'ideale del direttore piace soltanto a lui, anche un successo di questo genere è un fallimento. L'imitatore. Studia quello che fanno tutti gli altri e realizza meticolosamente una confezione che non si distingue da quella di tutti gli altri. In fantascienza ci sono stati parecchi direttori di questo genere. Nei periodi di boom (la fine degli Anni Trenta, per esempio, o la metà degli Anni Cinquanta), quando sembrava che quanti avevano il denaro per stampare buttassero nelle edicole un paio di testate di science fiction, ci furono dozzine di copie delle copie, sintetizzate con gli stessi ingredienti di Astounding e di If. Non andò molto bene: quasi tutte le riviste chiusero alla prima corrente fredda della resistenza dei lettori. L'eclettico. Prende tutto quello che può dovunque trova qualcosa di utile. Fa del suo meglio. Ci sono stati buoni direttori appartenenti a tutte queste categorie. I diret-
tori migliori erano un po' l'uno e un po' l'altro, secondo la necessità. I direttori migliori, in effetti, cambiano spesso l'immagine di quello che vogliono, perché la fantascienza cambia. Cresce e si evolve: apre territori nuovi e li esplora. I racconti che vengono pubblicati questo mese, nel 1974, non avrebbero potuto venir pubblicati nel 1964 o nel 1954... probabilmente, allora, non sarebbe stato neppure possibile scriverli. Gli autori imparano l'uno dall'altro. Ogni volta che un autore nuovo si affaccia con qualche nuova idea, un modo diverso di guardare il mondo, un modo precedentemente trascurato di abbordare il potenziale del futuro, arricchisce le risorse di tutti noi. Da molto tempo mi piace leggere fantascienza. Mi sono piaciuti innumerevoli racconti. E soprattutto, mi ha fatto piacere vedere il genere svilupparsi. E il posto migliore per assistere a tutto questo è in una rivista. Lo dico senza un interesse personale. Adesso non dirigo più riviste, e non vedo perché dovrei farlo ancora. Ma se mai non dovessero più venire pubblicate - anche se il loro posto venisse preso da innumerevoli libri, film e programmi televisivi - mi dispiacerebbe moltissimo. Innanzi tutto, i libri impiegano troppo tempo a comparire. Se un autore pensa a una bella idea oggi - diciamo, nel giugno 1974 - e decide di ricavarne un romanzo, arriva il giugno 1975 prima che lo finisca, e il giugno 1976 prima che venga pubblicato... e il 1977 prima che incominci a far sbocciare idee nuove in altri autori, arricchendo il campo. Le riviste hanno cicli più brevi: il racconto corto o lungo viene scritto in poche settimane, viene stampato prima della fine dell'anno, ed entra a far parte del patrimonio comune prima che siano trascorsi dodici mesi. E c'è un'altra ragione per cui mi dispiacerebbe vedere il giorno in cui non vi fossero più riviste di science fiction; perché erano, sono e saranno, per il prevedibile futuro, il posto più indicato dove i nuovi autori possono esporre le loro mercanzie. Per più di sei anni, quando dirigevo If, mi sono fatto vanto di pubblicare in ogni numero almeno un racconto di un autore che non aveva mai venduto prima una vicenda di science fiction. Altre riviste erano meno ufficialmente impegnate alla scoperta di talenti nuovi, ma tutte, tutte quelle che avevano importanza nella storia della fantascienza, in un modo o nell'altro cercavano continuamente autori nuovi che avevano cose nuove da dire. Come si scopre un nuovo talento? C'è un solo modo. Ogni settimana, una rivista come If riceve qualcosa come cento manoscritti di autori sconosciuti, da tutto il paese, anzi, da tut-
to il mondo. Sono «il mucchio di poltiglia», un nome poco attraente, anche se spesso è ben meritato. Ma tra la poltiglia, di tanto in tanto, si trova una pepita d'oro; qualcuno, a Baton Rouge o a Buffalo o a Berkeley, ha letto parecchia science fiction e ha deciso che sa scrivere bene quanto quello che ha visto stampato. Una volta su mille, ha ragione... e nasce un nuovo autore professionista. Ma senza le riviste di science fiction, dove approderebbe il novizio? Probabilmente non approderebbe a niente. I racconti resterebbero nel cassetto, ammettendo che li scrivesse. La voglia gli passerebbe. Si arrenderebbe a una carriera in un'agenzia immobiliare o in una ditta di assistenza per lavatrici... e tutti noi perderemmo, forse, un altro Heinlein o un altro E.E. Smith. Devo ammettere che provo un po' di gelosia, mentre scrivo questo. Dirigere una rivista di science fiction non è soltanto un lavoro, ma è anche un gran divertimento... in un certo senso lo è più che dirigere una collana di libri, l'attività che ora sto svolgendo presso la Bantam. Anche alla Bantam è divertente, ma in modo diverso. Molti degli autori che sto pubblicando sono gli stessi che ero ben lieto di pubblicare su Galaxy e su If. Mack Reynolds era un ospite abituale delle riviste, e io l'ho impegnato a scrivere un paio di libri all'anno per la Bantam. So che se la caverà benissimo: un anno facemmo un referendum tra i lettori, e con grande sorpresa di tutti, Mack incluso, l'autore più popolare era proprio Mack Reynolds. Doris Piserchia (Star Rider), Frank Herbert (Helstrom's Hive), John Brunner (The Web of Everything), James Blish (gli adattamenti di Star Trek)... erano tutti collaboratori delle riviste. E anche Samuel R. Delany, di cui pubblicherò tra qualche mese lo sterminato romanzo Dhalgren, destinato a lasciare un segno nella storia delle science fiction. Non credo che Dhalgren avrebbe potuto venire pubblicato su una rivista, se non altro a causa della sua mole... è lungo almeno cinque volte di più di un normale numero di rivista. E non vorrei aver mancato l'esperienza di lavorare assieme a Delany su questa sua opera, la più massiccia e innovatrice della sua carriera. Però... Un po' di gelosia c'è ancora. Penso con una certa nostalgia a quei 4000 manoscritti del «mucchio di poltiglia» arrivati ogni anno, e ai bei racconti che saltavano fuori di tanto in tanto... ... al lavoro con gli autori, nel tentativo di convincerli a scrivere il genere
di racconti che piace al pubblico... ...alla posta dei lettori, che permette di vedere che cosa ha avuto successo e cosa ha fatto fiasco; di trovarvi elementi illuminanti, suggerimenti utili... e di tanto in tanto l'esplosione di una penna avvelenata... ... ai crampi alle dita quando si corregge l'ortografia e la punteggiatura di certi ottimi scrittori... e alla forza di volontà cui bisogna far ricorso per non operare cambiamenti negli scritti di certi altri... ...alle scadenze di pubblicazione che ricorrono di continuo (tre per ogni numero) mentre le settimane passano inesorabili... ...alle partecipazioni alle convenzioni, agli incontri con i fan, per ascoltare quello che dicono, accettando un elogio o un premio quando arrivano, inalberando un sorriso corazzato quando vanno a qualcun altro... ...alla lettura delle fanzine, dove si svolgono i dialoghi meno censurati del mondo, a esclusione degli studi degli psicanalisti... qualche volta rabbrividendo, qualche volta approvando, talvolta rallegrandosi... ...alle attese accanto all'edicola dell'angolo, per studiare i clienti mentre esaminano facendo smorfie l'ultimo numero per decidere se comprarlo o no... ...alle riviste della concorrenza... sorridendo quando vedi la boiata che hai rifiutato sei mesi prima sbandierata in copertina, provando una stretta al cuore quando vedi quel che sembra, maledizione, un racconto di prim'ordine di un autore che credevi di esserti assicurato... ...alle cifre delle vendite, quando cerchi di intuire le soluzioni degli eterni interrogativi: questa caduta delle vendite era dovuta alla copertina? alla stagione? a qualche altro avvenimento, come il Watergate o una guerra che ha distolto dalla rivista l'attenzione dei lettori? E questo salto di 8000 copie, è stato per la copertina? La conseguenza di un racconto eccezionalmente bello nel numero precedente? Un nome celebre nel sommario? Oppure niente di tutto questo... ...alle battaglie con quelli della produzione perché la rivista abbia l'aspetto che deve avere, con quelli della contabilità perché paghino con sollecitudine gli autori, con quelli della distribuzione perché piazzino le copie dove la gente le comprerà... ... a tutte queste cose. E a tante altre. Quanto lavoro! Chi se la sente di affrontarlo? ... Beh, c'è tanta gente cui piace. Quindi ti saluto, Jim Baen, nuovo direttore. L'If che pubblichi tu non sarà la stessa rivista che era quando la dirigevamo Damon, Horace, Jake o io.
Sarà qualcosa di nuovo e di diverso, e avrà successo, non perché sarà un'imitazione di un altro tempo, ma per meriti propri. Non vedo l'ora di leggere i numeri di If dei mesi prossimi... e auguro alla rivista e al suo nuovo direttore, un mondo di bene. LE ALI VENUTE DALL'OMBRA (Fred Saberhagen) Le vicende della serie dei «berserker» di questo autore rappresentano una cronaca continuata del trionfo dello spirito umano. Contro le fredde, meticolose macchine sterminatrici, l'uomo deve attingere alle sue risorse supreme, come fanno i valorosi guerrieri di questo racconto. Nella prima e unica missione di combattimento di Malori, il berserker venne a lui nell'immagine di un sacerdote della setta in cui Malori era nato, sul pianeta Yaty. In una visione onirica, che era l'analogo di un combattimento molto autentico, vide la figura togata su un pulpito deforme, con gli occhi che fiammeggiavano di malevolenza e le braccia tese come ali nelle lunghe maniche. Quando le braccia si abbassarono, le luci dell'universo si affievolirono al di là delle finestre di vetro istoriato, e Malori venne dannato. Sebbene il cuore gli battesse all'impazzata per il terrore della dannazione, Malori conservò la coscienza quanto bastava per ricordare la vera natura sua e del suo avversario, per ricordare che non era importante contro di lui. Nel sogno, i suoi piedi lo portarono, fuori del tempo, verso il pulpito e il sacerdote-demone, mentre tutto intorno le finestre istoriate esplodevano, facendogli piovere addosso frammenti di paura malsana. Lui seguiva un percorso tortuoso, evitando i tratti del pavimento lucido come, con rapidi gesti, il sacerdote creava ringhiami, avide fauci di pietra piene di denti. Sembrava che Malori avesse a disposizione un tempo illimitato per decidere dove mettere i piedi. Arma, pensò, come un chirurgo che si rivolgesse a un assistente invisibile. Qui... nella mia mano destra. Da quelli che erano sopravvissuti a simili battaglie, aveva saputo che il nemico inumano appariva a ognuno in forma diversa, che ogni umano doveva vivere il combattimento in un incubo esclusivo. Per certuni, il berserker si presentava come una belva famelica, per altri come un diavolo o un dio o un uomo. Per altri ancora, era un'essenza di terrore che non poteva
mai venire affrontata e neppure vista. Il combattimento era un incubo vissuto mentre predominava il subcosciente, mentre la mente sveglia era soppressa da meticolose pressioni elettriche nel cervello. Gli occhi e gli orecchi erano chiusi da tamponi, in modo che fosse più facile sopprimere la mente conscia, la bocca era bloccata perché i denti non tranciassero la lingua, il corpo nudo era mantenuto immobile dai campi difensivi che lo mantenevano integro contro le migliaia di gravità che si producevano a ogni movimento della nave monoposto durante il combattimento. Era un incubo dal quale il terrore puro e semplice non avrebbe mai potuto destare: il risveglio avveniva solo quando il combattimento era terminato, avveniva solo con la morte o la vittoria o il disimpegno. Nella mano di Malori, nel sogno, si posò una mannaia affilata come un rasoio, massiccia come una lama da ghigliottina. Era così enorme che, se fosse stata quel che sembrava, sarebbe stata troppo ingombrante perché fosse possibile sollevarla. La macelleria di suo zio, su Yaty, non c'era più, come tutte le altre opere umane di quel pianeta. Ma la mannaia adesso era tornata da lui, ingigantita, perfezionata in modo da adeguarsi alle sue necessità. La strinse energicamente con entrambe le mani e avanzò. Quando si avvicinò, il pulpito torreggiò più alto. Il drago scolpito sulla parte anteriore, che avrebbe dovuto essere un angelo, prese vita, investendolo con vampe rosate. Con uno scudo apparso dal nulla, Malori parò la pioggia di fiamme. Oltre gli infranti vetri istoriati delle finestre, le luci dell'universo erano ormai quasi morte. Alla base del pulpito, Malori alzò la mannaia come per scagliarla contro il sacerdote che giganteggiava al di fuori della sua portata. Poi, senza riflettere, cambiò mira, al culmine dello slancio, e sferrò il colpo, con uno schianto, contro il sostegno del pulpito. Il pulpito tremò, ma resse. Venne la dannazione. Prima che i diavoli lo raggiungessero, però, l'energia cominciò a defluire dal sogno. In meno d'un secondo di tempo reale, non fu altro che un'immagine visuale semisvanita, e dopo qualche altro secondo fu solo un ricordo quasi estinto. Malori, riprendendo conoscenza con gli occhi e gli orecchi ancora sigillati, galleggiava in un limbo rasserenante. Prima che la stanchezza del combattimento e la privazione sensoriale si alleassero per gettarlo nella psicosi, i fili collegati al suo cuoio capelluto cominciarono ad alimentargli il cervello con scoppi di rumore pungente. Era il segnale più sicuro da comunicare a un cervello che poteva essere sull'orlo di uno tra dodici diversi tipi di follia. Il rumore creò una dispersione bianchiccia e
ruggente di luce e di suono che parve saturargli la testa, e nello stesso tempo gli delineò la posizione delle sue membra. Il suo primo pensiero completamente conscio: aveva appena combattuto contro un berserker ed era sopravvissuto. Aveva vinto... o almeno aveva ottenuto un risultato... altrimenti non sarebbe stato lì. Non era una cosa da poco. I berserker erano diversi da tutti gli altri nemici che gli umani di discendenza terrestre avevano affrontato. Erano astuti e intelligenti, eppure non erano vivi. Reliquie di qualche guerra interstellare finita da lunghe ere, macchine automatiche, quasi tutte astronavi corazzate, avevano come programma fondamentale l'ordine di distruggere la vita dovunque la scoprissero. Yaty era stato l'ultimo dei tanti pianeti colonizzati dalla Terra a subire un attacco dei berserker, ed era tra i più fortunati: quasi tutti i suoi abitanti erano stati evacuati. Malori e gli altri, adesso, combattevano nello spazio aperto per proteggere la Speranza, una delle enormi navi dell'evacuazione. La Speranza era una sfera del diametro di diversi chilometri, abbastanza grande per contenere una buona percentuale della popolazione planetaria nei campi di stasi difensiva. Una leggera attenuazione dei campi permetteva ai passeggeri di respirare e di vivere con il metabolismo rallentato. Il viaggio verso un settore sicuro della galassia avrebbe richiesto parecchi mesi perché quasi tutto, in termini di tempo, si sarebbe compiuto attraversando un braccio della grande nebulosa Taynarus. Lì il gas e la polvere erano troppo fitti perché una nave potesse abbandonare lo spazio normale e viaggiare a velocità superiori a quella della luce. Lì persino le velocità raggiungibili nello spazio normale erano fortemente limitate. A migliaia di chilometri al secondo, una nave guidata dagli uomini o una macchina berserker avrebbe potuto schiacciarsi contro una spira di gas assai più tenue del respiro umano. Taynarus era un deserto inesplorato di pennacchi e di tentacoli di materia dispersa, tramato da corridoi di spazio relativamente vuoto. Quasi tutto quel deserto era completamente schermato, a causa della polvere interstellare, dalla luce di tutti i soli esterni. Fra scogliere buie e paludi e maree della nebulosa, fuggivano la Speranza e la sua scorta, la Judith, inseguite da una muta di berserker. Alcuni berserker erano addirittura più grandi della Speranza; ma quelli che avevano intrapreso l'inseguimento erano molto più piccoli. Nelle regioni dello spazio tanto fitte di materia, le dimensioni
ridotte erano importanti quanto la velocità: quando la sezione d'urto di una nave aumentava, la sua massima velocità pratica si riduceva inesorabilmente. La Speranza, poco adatta per quella caccia (nell'ansia precipitosa dell'evacuazione, era sembrata quanto c'era di meglio a disposizione), non poteva sperare di distanziare i nemici, più piccoli e maneggevoli. Quindi aveva come scorta la Judith, che cercava di tenersi sempre tra la Speranza e la muta degli inseguitori. La Judith era l'astronave-madre delle piccole navi da combattimento, e le lanciava ogni volta che il nemico si avvicinava, e poi riaccoglieva le superstiti quando la minaccia era stata sventata ancora una volta. All'inizio dell'inseguimento, le navi monoposto erano state quindici. Adesso erano nove. Le iniezioni di rumore dell'apparecchio di sostentamento della vita rallentarono, poi cessarono. La mente conscia di Malori era di nuovo ben salda sul suo trono. L'allentamento graduale dei suoi campi difensivi era il segnale sicuro che presto lui sarebbe ritornato nel mondo degli uomini allo stato di veglia. Non appena il suo caccia, il Numero Quattro, ebbe attraccato all'interno della Judith, Malori si affrettò a distaccarsi dai sistemi nella minuscola nave. Indossò una tuta sciolta e uscì da quello spazio ristretto. Era un uomo magro, dalle giunture nodose e dal passo impacciato. Si avviò in fretta lungo una passerella sospesa, nell'immensa rimessa echeggiante, e notò che tre o quattro caccia erano già ritornati, oltre al suo, e adesso riposavano sui loro supporti. La gravità artificiale era costante, ma Malori barcollò e per poco non cadde, per la fretta di scendere la scaletta che portava al ponte delle operazioni. Petrovich, il comandante della Judith, un uomo massiccio di media statura, dal volto ferrigno, era sul ponte e sembrava che lo stesse aspettando. «Ce... ce l'ho fatta?» balbettò impaziente Malori, avvicinandosi a passo svelto. Le formalità militari non venivano osservate a bordo della Judith, di solito, e del resto Malori era un civile. Il fatto che fosse stato autorizzato a partire con un caccia stava a dimostrare che il comandante era alla disperazione. Con una smorfia, Petrovich rispose bruscamente: «Malori, lei è un disastro, con una di queste navi. Non ha la mente adatta». Il mondo divenne grigio, agli occhi di Malori. Fino a quel momento non aveva capito quanto fossero importanti per lui certi sogni di gloria. Riuscì a trovare soltanto parole fiacche e impacciate. «Ma... mi pareva di esser-
mela cavata bene.» Cercò di ricordare il suo incubo. C'era una chiesa... «Due piloti hanno dovuto dirottare dagli obiettivi prestabiliti, per salvarla. Ho già visto le loro registrazioni. Lei continuava le schermaglie con quel berserker come se non avesse nessuna intenzione di causargli danni.» Petrovich lo scrutò più attentamente, alzò le spalle e addolcì un po' il tono. «Non voglio rimproverarla, perché non sapeva neppure cosa stesse succedendo. Mi limito a esporre i fatti. Grazie alla probabilità, la Speranza è a venti UA più avanti, in una nube di aldeide formica. Se fosse stata in posizione esposta, a quest'ora l'avrebbero beccata.» «Ma...» Malori tentò di discutere, ma il comandante se ne andò. Stavano arrivando altri caccia. I portelloni scricchiolavano, i supporti sferragliavano, e Petrovich aveva molte cose più importanti da fare che restare là a discutere con lui. Malori restò immobile, solo, per qualche istante: si sentiva depresso, sconfitto, sminuito. Involontariamente, lanciò un'occhiata di nostalgia al Numero Quattro. Era un corto cilindro privo di finestrini, con un diametro non molto superiore alla statura di un uomo, posato sul supporto metallico, mentre i tecnici gli lavoravano intorno. La tozza canna del laser, ancora arroventata, lasciava salire un filo di fumo, adesso che era di nuovo nell'atmosfera. Era quella, la sua mannaia a due mani. Nessun uomo poteva guidare una nave o un'arma con la competenza di una macchina efficiente. La lentezza degli impulsi nervosi e del pensiero cosciente impediva agli umani di mantenere un comando diretto delle loro navi nei combattimenti spaziali contro i berserker. Ma il subcosciente umano non aveva gli stessi limiti. Alcuni dei suoi processi non potevano venire correlati a una specifica attività sinaptica del cervello, e certi teorici sostenevano che tali processi si compivano al di fuori del tempo. Molti fisici inorridivano al pensiero... ma per i combattimenti spaziali, era un'utile ipotesi di lavoro. In combattimento, i computer dei berserker erano collegati con sofisticati complessi randomizzanti, per fornire l'imprevedibilità capace di assicurare un vantaggio su un avversario che preferiva, continuamente, la manovra statisticamente più favorevole al successo. Anche gli uomini usavano i computer per guidare le loro navi, ma adesso avevano acquisito un margine di vantaggio sui migliori randomizzanti affidandosi di nuovo ai loro cervelli, che almeno in parte erano evidentemente immuni alla fretta e stavano al di fuori del tempo, là dove persino la luce doveva apparire immobile come ghiaccio scolpito. C'erano difficoltà. Certuni (incluso Malori, a quanto pareva) non erano
adatti al compito: le loro menti subconscie sembravano disinteressate a problemi temporali come la vita e la morte. E anche nelle menti più adatte, il subcosciente veniva assoggettato a gravi tensioni. Il collegamento con i computer caricava la mente in un modo che non era stato ancora compreso. Uno dopo l'altro, i piloti umani che ritornavano dal combattimento venivano estratti dalle navi in stato di catatonia o d'eccitazione isterica. Potevano recuperare la ragione: ma quell'uomo o quella donna, dopo, non poteva più partecipare alle battaglie. Il sistema era così nuovo che l'importanza di quelle difficoltà cominciava appena ad apparire evidente a bordo della Judith. Gli operatori addestrati dei caccia erano stati tutti usati... e anche i loro sostituti. Era per questo che lo storico Ian Malori e altri venivano mandati a combattere senza addestramento. Ma il ricorso alle loro menti era servito a guadagnare un po' di tempo. Dal ponte delle operazioni, Malori andò nella sua piccola cabina. Non aveva mangiato da diverso tempo, ma non aveva fame. Si cambiò e sedette su una sedia, guardando la cuccetta, guardando i suoi libri, i nastri e il violino, ma non cercò di riposare, né di darsi da fare. Prevedeva di ricevere ben presto una convocazione da Petrovich. Perché Petrovich non sapeva a chi altro rivolgersi. Quasi sorrise, quando il comunicatore squillò, annunciandogli che doveva incontrarsi subito con il comandante e altri ufficiali. Malori rispose e uscì, portando con sé un astuccio di finto cuoio marrone, della grandezza di una cartella, ma di forma diversa, scelto tra parecchie centinaia di astucci simili in una stanzetta adiacente alla sua cabina. L'astuccio portava un'etichetta: CAVALLO PAZZO. Petrovich alzò la testa quando Malori entrò nella piccola sala piani, dove gli ufficiali dell'astronave erano già raccolti intorno a un tavolo. Il comandante diede un'occhiata all'astuccio di Malori e annuì. «Sembra che non abbiamo altra scelta, storico. Siamo a corto di personale, e dovremo usare le pseudopersonalità. Per fortuna, adesso abbiamo gli adattatori necessari installati in tutte le navi da guerra.» «Io credo che le probabilità di riuscita siano eccellenti» disse in tono mite Malori, mentre prendeva posto sulla sedia lasciata libera e deponeva l'astuccio sul tavolo. «Naturalmente, queste non hanno vere menti subconscie, ma come abbiamo convenuto nelle discussioni precedenti, offriranno strumenti randomizzanti più sofisticati di quelli disponibili altrove. Ognuna ha una personalità unica, anche se artificiale.»
Uno degli altri ufficiali si sporse in avanti. «Molti di noi non hanno partecipato alle discussioni precedenti di cui sta parlando. Potrebbe fornirci qualche spiegazione?» «Certo.» Malori si schiarì la gola. «Queste personae, come le chiamiamo abitualmente, vengono usate nelle simulazioni dei problemi storici, realizzate dai computer. Ho potuto portarne via diverse centinaia, da Yaty. Molti sono modelli di militari.» Posò la mano sull'astuccio. «Questa è una ricostruzione della personalità di uno dei più esperti comandanti di cavalleria dell'antica Terra. Non appartiene al gruppo che abbiamo selezionato per provarlo per primo in combattimento: l'ho portato solo per mostrare la struttura interiore e il modello a quelli di voi che sono interessati. Ogni persona contiene circa quattro milioni di fogli di materia bidimensionale.» Un altro ufficiale alzò una mano. «Come può ricostruire esattamente la personalità di qualcuno che è morto prima che venissero ideate le tecniche di registrazione diretta?» «Non possiamo essere certi dell'esattezza, naturalmente. Abbiamo solo i documenti storici su cui basarci, e ciò che deduciamo dalle simulazioni dell'epoca realizzate dai computer. Sono soltanto modelli. Ma dovrebbero comportarsi in combattimento come negli studi storici per cui sono stati creati. Le loro scelte dovrebbero rispecchiare aggressività, decisione...» Il rombo completamente inatteso di un'esplosione fece balzare in piedi tutti gli ufficiali. Petrovich, con una reazione fulminea, ebbe comunque appena il tempo di alzarsi dalla sedia prima che un secondo scoppio, molto più forte, risuonasse nella nave. Malori era quasi arrivato alla porta, per raggiungere il suo posto di combattimento, quando venne la terza esplosione. Sembrò la fine della galassia, e lui si accorse che i mobili volavano, che le paratie della sala riunione si stavano piegando. Malori ebbe un pensiero nitido e calmo sull'iniquità della sua morte imminente, e poi, per qualche tempo, non pensò più. Rinvenire fu un processo lento e sgradevole. Sapeva che la Judith non era completamente devastata, perché respirava ancora, e la gravità artificiale lo tratteneva ancora lungo disteso sul ponte. Forse sarebbe stato piacevole scoprire che la gravità non c'era più, perché il suo corpo era tutto una sofferenza immensa, pulsante, uno schema di dolore che si irradiava da un centro all'interno del suo cranio. Non voleva individuarne l'origine in modo più preciso, perché già soltanto immaginare di toccarsi la testa era un tormento. Finalmente, la necessità di scoprire cosa stava succedendo vinse la paura
della sofferenza; alzò la testa e se la tastò. C'era un grosso bernoccolo sopra la fronte, e ferite più piccole, sul volto, dove il sangue s'era coagulato. Doveva essere rimasto privo di sensi per diverso tempo. La sala riunioni era una rovina, schiantata e piena di detriti. C'era un corpo accasciato, che doveva essere morto, e poi un altro, e un altro ancora, mescolati ai mobili. Era l'unico superstite? Una paratia era squarciata, il tavolo dei piani era demolito. E cos'era quel grosso macchinario sconosciuto all'altra estremità della stanza? Era grosso come uno schedario, ma molto più complicato. Le gambe erano strane, come fossero mobili... Malori restò immobile, impietrito dal terrore, perché la cosa si muoveva, puntava su di lui un complesso di torrette e di lenti: e lui comprese che aveva di fronte una macchina berserker funzionante. Era una di quelle più piccole, che venivano usate per abbordare e far funzionare le astronavi umane catturate. «Vieni qui» disse la macchina. La sua voce era stridula, una ridicola parodia della voce umana; le sillabe registrate delle voci dei prigionieri erano montate insieme elettronicamente. «Il malavita si è svegliato.» Nella sua paura, Malori pensò che quelle parole erano dirette a lui; ma non poteva muoversi. Poi, passando attraverso la breccia nella paratia, entrò un uomo che Malori non aveva mai visto prima... un uomo sporco e irsuto, con una tuta sudicia che forse un tempo aveva fatto parte di una divisa militare. «Lo vedo, signore» disse l'uomo alla macchina. Parlava la lingua interstellare comune, con una voce spezzata che recava ancora le tracce di un accento colto. Si avvicinò a Malori di un passo. «Riesci a capirmi, tu?» Malori grugnì, cercò di annuire, e lentamente, goffamente si sollevò a sedere. «La domanda è» continuò l'uomo, avvicinandosi ancora un po', «come ti va, più tardi? Facile o difficile? Quando verrà il momento di finirti, voglio dire. Molto tempo fa, ho deciso che voglio la mia fine rapida e facile, e non troppo presto. E poi, voglio ancora divertirmi un po' qua e là, lungo la strada.» Nonostante il feroce dolore alla testa, ora Malori stava riflettendo, e incominciava a capire. C'era un nome per indicare gli uomini come quello che aveva davanti e che andavano d'accordo più o meno volontariamente con le macchine berserker. Una parola coniata dalle stesse macchine. Ma in quel momento, Malori non avrebbe pronunciato quel nome. «La voglio facile» disse soltanto; sbatté gli occhi e cercò di massaggiarsi
il collo per scacciare il dolore. L'uomo lo squadrò in silenzio per qualche altro istante. «Sta bene» disse poi. Si rivolse alla macchina e aggiunse con un tono diverso, umile: «Posso dominare facilmente questo malavita ferito. Non ci saranno problemi, se ci lascerai qui soli.» La macchina girò una lente cerchiata di metallo verso il suo servitore. «Ricorda» disse, «bisogna preparare gli ausiliari. Il tempo fugge. L'insuccesso porterà stimoli spiacevoli.» «Lo ricorderò, signore.» L'uomo era umile e sincero. La macchina li guardò entrambi per qualche altro momento, e poi se ne andò: le gambe metalliche fluirono improvvisamente in un passo preciso e quasi elegante. Poco dopo, Malori udì il suono abituale di un portello stagno che si apriva e si chiudeva. «Adesso siamo soli» disse l'uomo, guardando dall'alto. «Se vuoi sapere il mio nome, puoi chiamarmi Greenleaf. Vuoi provare a batterti con me? In questo caso, facciamola subito finita.» Non era molto più robusto di Malori, ma aveva mani enormi, e aveva l'aria di essere duro ed efficiente, nonostante gli stracci e il sudiciume. «Sta bene, è una scelta intelligente. Sai, sei davvero fortunato, anche se per ora non te ne rendi conto. I berserker non sono come gli altri padroni degli uomini... non sono come i governi e i partiti e le grandi aziende e le cause, che ti sfruttano e poi ti abbandonano. No, quando le macchine non sanno più come usarti, ti finiscono in fretta, in modo pulito... se le hai servite bene. Lo so: le ho viste comportarsi così con altri umani. Non c'è ragione perché non lo facciano. Vogliono solo che moriamo, non che soffriamo.» Malori non disse nulla. Pensava che forse, tra un po', sarebbe stato in grado di alzarsi. Greenleaf (il nome sembrava così poco appropriato che Malori pensò che probabilmente era vero) regolò un piccolo aggeggio che si era tolto da una tasca, e che teneva seminascosto in una grossa mano. Chiese: «Quante navi scorta, oltre a questa, cercano di proteggere la Speranza?». «Non lo so» mentì Malori. C'era soltanto la Judith. «Qual è il tuo nome?» L'uomo continuava a guardare l'aggeggio che teneva in mano. «Ian Malori.» Greenleaf annuì, e senza mostrare un'espressione particolare avanzò di due passi e sferrò un calcio nel ventre di Malori, con forza brutale. «Questo per aver tentato di mentirmi, Ian Malori» disse la voce che pro-
veniva da un punto impreciso, in alto, mentre Malori si contorceva sul ponte, tentando di riprendere a respirare. «Devi capire che io sono in grado di capire sempre, quando menti. Dunque, quante navi scorta ci sono?» Dopo un po', Malori riuscì di nuovo a mettersi a sedere e a parlare con voce soffocata. «Soltanto questa.» Sia che Greenleaf avesse una vera macchina della verità, o che cercasse di farlo credere formulando domande di cui conosceva già le risposte, Malori decise che da quel momento avrebbe detto la verità letterale con il massimo impegno. Qualche altro calcio come quello, e lui sarebbe diventato inservibile e le macchine l'avrebbero ucciso. Si accorse che non era ancora pronto ad abbandonare la vita. «Che posizione avevi nell'equipaggio, Malori?» «Sono un civile.» «Di che genere?» «Storico.» «E perché sei qui?» Malori provò ad alzarsi in piedi, poi decise che era meglio rinunciare e rimase seduto. Se avesse riflettuto per un momento sulla situazione, si sarebbe spaventato troppo per pensare in modo coerente. «C'era un progetto... vedi, ho portato con me da Yaty un certo numero di quelli che noi chiamiamo modelli storici... blocchi di reazioni programmate che usiamo nelle ricerche storiche.» «Ricordo di aver sentito parlare di qualcosa del genere. Qual era il progetto di cui parlavi?» «Cercare di usare le personae di militari come randomizzatori per i computer da combattimento delle astronavi monoposto.» «Ahah.» Greenleaf si accostò, agile e vigile, nonostante il suo aspetto sciamannato. «Come funzionano in combattimento? Meglio della mente subconscia di un pilota vivo? Le macchine sanno tutto, di questo.» «Non abbiamo avuto la possibilità di provare. Gli altri membri dell'equipaggio, qui, sono tutti morti?» Greenleaf annuì, distrattamente. «Non è stato un abbordaggio difficile. Doveva esserci un difetto nelle vostre difese automatiche. Mi fa piacere aver trovato un uomo vivo e abbastanza furbo per collaborare. Mi aiuterà nella mia carriera.» Diede un'occhiata a un costoso cronometro che portava al polso sudicio. «Alzati, Ian Malori. C'è un lavoro da fare.» Malori si alzò e seguì l'altro verso il ponte delle operazioni. «Io e le macchine abbiamo dato un'occhiata in giro, Malori. Quelle nove monoposto da combattimento che ci sono ancora a bordo sono troppo effi-
cienti per sprecarle. Le macchine sono sicure di raggiungere la Speranza, ormai, ma quella avrà difese automatiche, probabilmente molto più efficienti di questa bagnarola. Le macchine hanno subito molte perdite, in questo inseguimento, perché hanno intenzione di usare quelle nove monoposto come truppe ausiliarie... senza dubbio tu conosci la storia militare.» «Un po'.» La risposta era forse un po' inferiore alla verità, ma venne accettata. L'aggeggio, ammesso che fosse davvero una macchina della verità, era già stato riposto. Malori, però, non voleva correre più rischi del necessario. «Allora probabilmente sai in che modo certi generali della vecchia Terra usavano le loro truppe ausiliarie. Le mandavano davanti al grosso delle truppe fidate, in modo che queste potessero ucciderle se avessero tentato di ritirarsi; ed erano anche le prime che venivano usate contro il nemico.» Quando arrivò sul ponte delle operazioni, Malori vide pochi danni. Le nove piccole navi solidissime attendevano sui supporti di lancio, riarmate, rifornite di combustibile per il combattimento. Doveva essere stato provveduto a tutto pochi minuti dopo il loro rientro dall'ultima missione. «Malori, dall'occhiata che ho dato ai comandi di quelle navi mentre tu eri privo di sensi, ho dedotto che non possono venire azionate in modo completamente automatico.» «Giusto. Deve esserci una mente che le comanda, oppure un randomizzatore.» «Io e te le porteremo fuori come ausiliari dei berserker, Ian Malori.» Greenleaf consultò di nuovo il cronometro. «Abbiamo meno di un'ora per escogitare un sistema efficiente, e solo qualche ora in più per completare il lavoro. Tanto prima, tanto meglio. Se indugiamo, dovremo soffrire.» Sembrava quasi che quel pensiero lo allietasse. «Cosa proponi di fare?» Malori aprì la bocca, come per parlare, e poi non disse nulla. Greenleaf disse: «Naturalmente, è esclusa l'idea di installare una delle tue personae militari, perché forse non si adatterebbero bene a venir lanciate come carne da cannone. Immagino che siano comandanti. Ma forse hai certe personae di campi diversi, di carattere più docile?». Malori, che s'era appoggiato barcollando alla sedia vuota dell'ufficiale delle operazioni, si sforzò di pensare molto attentamente, prima di parlare. «Si dà il caso che vi siano a bordo alcune personae per le quali ho un interesse personale. Vieni.» Seguito dall'altro, Malori si avviò verso la sua piccola cabina singola. Era sorprendente che all'interno nulla fosse cambiato. Sulla cuccetta c'era
il suo violino, e sul tavolo c'erano le sue musicassette e alcuni libri. E lì, ammucchiate meticolosamente negli astucci curvi di similpelle, c'erano alcune delle personae che lui amava studiare. Malori prese dal mucchio il primo astuccio. «Quest'uomo era un violinista, come vorrei essere io. Probabilmente il suo nome non ti direbbe niente.» «La musicologia non è mai stata il mio campo. Ma dimmi qualcosa di più.» «Era un terrestre, vissuto nel ventesimo secolo E.C... un uomo molto religioso, anche, a quanto ne so. Posso innestare la persona e chiedere cosa pensa della guerra, se sei sospettoso.» «Sarà meglio farlo.» Quando Malori gli ebbe mostrato il ricettacolo nella piccola console del computer della cabina, Greenleaf stabilì personalmente il collegamento. «Come si fa a comunicare?» «Basta che parli.» Greenleaf parlò in tono brusco, rivolgendosi all'astuccio di similpelle. «Il tuo nome?» «Albert Ball.» La voce che rispose dall'altoparlante della console sembrava di gran lunga più umana di quella del berserker. «Come ti sembra l'idea di partecipare a una battaglia, Albert?» «Odiosa.» «Vuoi suonare il violino per noi?» «Con piacere.» Ma quelle parole non furono seguite dalla musica. Malori intervenne: «Sono necessari altri collegamenti, se vuoi davvero la musica». «Non credo che ne avremo bisogno.» Greenleaf staccò l'unità Albert Ball e incominciò a esaminare le altre, aggrottando la fronte dinanzi ai nomi che non riconosceva. C'erano in tutto dodici o quindici astucci. «Questi chi sono?» «Contemporanei di Albert Ball. Musicisti, che avevano la sua stessa professione.» Malori si lasciò cadere sulla cuccetta per riposare qualche istante. Si sentiva svenire. Poi andò accanto a Greenleaf, davanti al mucchio di personae. «Questo è un modello di Edward Mannock, che era cieco d'un occhio e che non avrebbe mai superato le visite mediche necessarie per prestare servizio nelle forze armate del suo tempo.» Ne indicò un altro. «Quest'uomo prestò servizio per breve tempo nella cavalleria, a quanto ricordo; ma continuava a farsi disarcionare, e ben presto fu incaricato di occuparsi della sussistenza. E questo era un giovane fragile, tubercoloso, che
morì a ventitré anni-standard.» Greenleaf smise di esaminare gli astucci e si girò, squadrò di nuovo Malori. Malori sentiva che i muscoli intormentiti del suo stomaco cercavano di contrarsi, anticipando un altro colpo violento. Sarebbe stato troppo, lo avrebbe ucciso se si fosse ripetuto... «Va bene.» Greenleaf aveva aggrottato la fronte e osservava di nuovo il cronometro. Poi alzò la testa con un sorrisetto. Stranamente, quel sorriso gli diede l'aria del brav'uomo. «Va bene! I musicisti, immagino, sono l'antitesi dei militari. Se le macchine approvano, li installeremo e lanceremo le navi. Ian Malori, può darsi che ti aumenti la paga.» Il sorriso simpatico divenne più ampio. «Forse ci siamo guadagnati un altro anno-standard di vita, se questo funzionerà come credo.» Quando la macchina ritornò a bordo, dopo pochi minuti, Greenleaf, inchinandosi, spiegò concisamente il piano, mentre Malori, che stava indietro, in preda al terrore, si sorprese a inchinarsi a sua volta. «Allora procedi» approvò la macchina. «Se no, la nave infetta di vita potrebbe nascondersi nelle tempeste che si scatenano davanti a noi.» Poi se ne andò in tutta fretta. Probabilmente doveva provvedere a riparazioni sulla sua nave robotica. Poiché erano in due a lavorare, l'installazione procedette molto rapidamente. Si trattava solo di aprire la cabina di una nave da combattimento, inserire una persona nell'adattatore installato, collegare gli attacchi e i morsetti, e richiudere il portello. Poiché la fretta aveva un'importanza vitale nel piano dei berserker, i collaudi furono limitati all'ascolto di una reazione dal vivo di ciascuna persona, via via che veniva attivata a bordo della nave. Quasi tutte le risposte furono banalità che riguardavano il tempo, o cibi e bevande dell'antichità, oppure frasi bizzarre che Malori conosceva come convenevoli. Sembrava che tutto andasse bene, ma Greenleaf ebbe qualche patema d'animo all'ultimo momento. «Mi auguro che questi sensibilissimi signori reggano alla tensione della scoperta della verità. Riusciranno ad afferrare la situazione, no? Le macchine non pretendono che si battano bene, ma non vogliamo neppure che diventino catatonici.» Malori, sull'orlo dello sfinimento, stava tirando il portello del Numero Otto; per poco non cadde dallo scafo ricurvo, quando si aprì all'improvviso. «Si renderanno conto della situazione un minuto dopo il lancio, direi. Almeno in generale. Non credo capiranno di trovarsi nello spazio interstellare. Immagino che tu fossi un militare. Se fossero riluttanti a battersi... la-
scio a te il problema di trattare con gli ausiliari recalcitranti.» Quando innestarono la persona nella nave Numero Otto, la sua risposta al collaudo fu: «Vorrei che il mio apparecchio fosse dipinto di rosso». «Subito, signore» disse pronto Malori; chiuse di scatto il portello e si avviò in fretta verso il Numero Nove. «Cos'era quella storia?» Greenleaf aggrottò la fronte, ma diede un'occhiata al cronometro e passò oltre. «Immagino che il maestro sia già consapevole che sta per imbarcarsi su una specie di veicolo. Perché poi debba piacergli il rosso...» Malori borbottò, cercando di aprire il Numero Nove, senza terminare la risposta. Finalmente tutte le navi furono pronte. Con l'indice sull'interruttore di lancio, Greenleaf indugiò. Per l'ultima volta, i suoi occhi sondarono quelli di Malori. «Abbiamo lavorato bene, in termini di tempo. Avremo una ricompensa, purché quest'idea funzioni almeno in parte.» Adesso parlava in tono solenne, quasi sussurrando. «Speriamo che funzioni. Hai mai visto scuoiare vivo un uomo?» Malori si aggrappò a un sostegno, per reggersi in piedi. «Io ho fatto tutto quel che ho potuto.» Greenleaf azionò l'interruttore del lancio. Vi fu un brusio polifonico di portelli stagni. I nove caccia partirono, e simultaneamente uno schermo olografico si accese sopra la console dell'ufficiale addetto alle operazioni. Al centro, la Judith sembrava un grosso simbolo verde, con cinque punti verdi, più piccoli, che si muovevano lenti e incerti nei pressi. Più lontano, una formazione regolare di punti rossi rappresentava quanto rimaneva del branco dei berserker che fino ad allora aveva inseguito implacabile la Speranza e la sua scorta. C'erano almeno quindici punti rossi, notò avvilito Malori. «Tutto sta» disse Greenleaf, come parlasse a se stesso, «nel fare in modo che abbiano paura dei loro capi più che dei nemici». Regolò gli interruttori del quadro che avrebbero trasmesso la sua voce alle navi. «Attenzione, unità da Uno a Nove!» latrò. «Siete sotto la mira dei cannoni di un contingente immensamente superiore, e ogni tentativo di disobbedienza verrà punito severamente...» Continuò a minacciare per un minuto, mentre Malori osservava sullo schermo che stava arrivando la tempesta preannunciata dal berserker. Un nevischio di particelle atomiche imperversava in quella sezione della nebulosa, sul percorso della Judith e della bizzarra flotta ibrida che l'accompagnava. La Speranza, che non era visibile su quella scala, poteva essere in
grado di approfittare della tempesta per allontanarsi, a meno che l'inseguimento dei berserker fosse molto rapido. La visibilità, sullo schermo delle operazioni, peggiorava in fretta, e Greenleaf tacque quando si rese conto di aver perso il contatto. Gli ordini, nelle voci innaturali dei berserker, rivolti alle navi ausiliarie da Uno a Nove, giunsero frammentari, prima che la cortina di rumori divenisse uno schermo impenetrabile. L'inseguimento della Speranza non era ancora ricominciato. Per qualche tempo ci fu silenzio, sulla console delle operazioni, interrotto solo da qualche crepitio proveniente dallo schermo. Tutto intorno, i supporti di lancio vuoti attendevano. «Ecco fatto» disse finalmente Greenleaf. «Non ci resta altro da fare, ormai, che preoccuparci.» Sfoggiò di nuovo quel sorrisetto che lo trasformava; sembrava quasi che la situazione lo divertisse. Malori l'osservava incuriosito. «Come fai... ad adattarti così bene?» «Perché no?» Greenleaf si stirò e si alzò dalla console ormai inutile. «Vedi, quando un uomo rinuncia alle sue abitudini di malavita, ammette di essere veramente morto nei loro confronti, il nuovo modo di vivere non è poi tanto male. Ci sono persino donne disponibili, di tanto in tanto, quando le macchine prendono prigionieri.» «Buonavita» disse Malori. Aveva pronunciato l'epiteto osceno, provocatorio. Ma in quel momento non aveva paura. «Buonavita anche tu, ometto.» Greenleaf continuava a sorridere. «Sai, credo che tu mi guardi ancora dall'alto in basso. Ma sei nella mia stessa barca, adesso: ricordi?» «Credo di avere pietà di te.» Greenleaf proruppe in una breve risata sbuffante, e scosse la testa con fare di commiserazione. «Sai, ho davanti a me una vita più lunga e più libera dalle sofferenze di quella che la stragrande maggioranza abbia mai goduto... tu hai detto che uno dei modelli delle personae morì a ventitré anni. Era un'età comune per morire, a quell'epoca?» Malori, che stava ancora aggrappato al sostegno, cominciò a sfoggiare uno strano sorriso tetro. «Beh, nella sua generazione, nel continente europeo, lo era. A quell'epoca imperversava la Prima Guerra Mondiale.» «Ma tu hai detto che morì di malattia.» «No. Ho detto che era malato di tubercolosi. Senza dubbio l'avrebbe ucciso. Ma morì in combattimento, nel 1917 E.C., in un posto chiamato Bel-
gio. Il suo cadavere non venne mai ritrovato, a quanto ricordo: l'artiglieria aveva annientato completamente lui e il suo aereo.» Greenleaf era immobile. «L'aereo! Che cosa stai dicendo?» Malori si mise eretto, faticosamente, e abbandonò il sostegno. «E adesso ti dico che Georges Guynemer - si chiamava così - abbatté cinquantatré aerei nemici, prima di venire ucciso. Aspetta!» La voce di Malori divenne improvvisamente sonora e salda, e Greenleaf, sbalordito, interruppe la sua avanzata minacciosa. «Prima che tu ti abbandoni a gesti violenti, dovresti chiedere se saranno i tuoi o i miei a vincere la battaglia, là fuori.» «La battaglia...» «Saranno nove astronavi contro quindici macchine o più, ma non sono troppo pessimista. Le personae che abbiamo lanciate non si lasceranno macellare docilmente.» Greenleaf lo fissò ancora per un momento, poi si girò di scatto e si precipitò verso la console delle operazioni. Lo schermo era ancora sbiancato dal rumore, e non si poteva far nulla. Lentamente, si lasciò cadere sul sedile imbottito. «Che cosa mi hai fatto?» mormorò. «Quell'accozzaglia di musicisti invalidi... non potevi mentire su tutti quanti.» «Oh, ogni parola che ho pronunciata era vera. Non tutti i piloti da caccia della Prima Guerra Mondiale erano invalidi, naturalmente. Alcuni erano in perfetta salute, e ben decisi a restarci. E non ho detto che fossero tutti musicisti, anche se certamente volevo indurii a crederlo. Ball aveva le doti musicali più spiccate, tra tutti gli assi, ma era pur sempre un dilettante. Diceva sempre di odiare la sua vera professione.» Greenleaf, accasciato sul sedile, sembrava invecchiare a vista d'occhio. «Ma uno era cieco... non è possibile.» «Così credevano i suoi nemici, quando lo liberarono da un campo d'internamento all'inizio della guerra. Edward Mannock, cieco d'un occhio. Dovette barare con un esaminatore per entrare nell'esercito. Naturalmente, la tragedia, per quegli uomini superbi, fu che si uccisero a vicenda. A quei tempi non c'erano berserker da combattere, o almeno nessuno che potesse venire attaccato arditamente, con un aereo e una mitragliatrice. Immagino che gli uomini abbiano sempre dovuto affrontare berserker di un tipo o dell'altro.» «Voglio essere sicuro di aver capito.» La voce di Greenleaf era quasi implorante. «Abbiamo lanciato le personae di nove piloti da caccia?» «Nove dei migliori. Immagino che il totale delle vittorie aeree da loro rivendicate superi le cinquecento. Di solito queste attribuzioni erano un po'
esagerate, ma...» Di nuovo silenzio. Lentamente, Greenleaf girò il sedile per osservare lo schermo delle operazioni. Dopo qualche tempo, la tempesta del rumore atomico cominciò a placarsi. Malori, che s'era seduto sul pavimento per riposare, si alzò di nuovo, questa volta più in fretta. Nell'ologramma, un solo simbolo luminoso emergeva dal rumore, avvicinandosi rapidamente alla posizione della Judith. E il punto in avvicinamento era rosso vivo. «Ci siamo» disse Greenleaf, alzandosi. Estrasse da una tasca una piccola, tozza pistola. Dapprima la puntò verso Malori, ma poi sorrise con quel suo sorriso simpatico e scosse il capo. «No, ti lascerò alle macchine. Sarà molto peggio.» Quando udirono la camera di compensazione che incominciava il ciclo, Greenleaf alzò l'arma verso la propria tempia. Malori non riuscì a distogliere gli occhi. Il portello interno scattò, e Greenleaf sparò. Malori spiccò un balzo e strappò la pistola dalla mano morta di Greenleaf prima ancora che il corpo fosse caduto. Si girò di scatto per mirare al portello che si apriva con un fruscio. Il berserker era quello che aveva già visto, o almeno uno dello stesso tipo. Ma aveva subito alterazioni violente. Un braccio metallico era tranciato in una lucente cicatrice da cui penzolavano le estremità dei cavi spezzati. Il corpo metallico era crivellato da minuscoli fori, e intorno alla parte superiore brillava un'aureola di scariche elettriche. Malori sparò, ma la macchina non fece caso alla violenza della carica d'energia. Non avrebbero mai lasciato a Greenleaf un'arma che potesse danneggiarle. Il berserker malconcio ignorò anche Malori, per il momento, e avanzò, piegandosi sul corpo quasi decapitato di Greenleaf. «Tra-tra-tra-tradimento» squittì il berserker. «Sti-sti-stimoli supremamente spiacevoli supremamente spiacevoli. Malavita malavita mala...» Intanto, Malori s'era avvicinato, a tergo della macchina: infilò la canna dell'arma in uno dei fori ancora caldi, dove Albert Ball o forse Frank Luke o Werner Voss o uno degli altri aveva già usato un laser con buoni risultati. Due cariche d'energia sotto la corazza, e il berserker crollò, immobile come l'uomo che gli giaceva sotto. L'aureola d'elettricità si spense. Malori indietreggiò, guardandoli entrambi, poi si girò per guardare ancora lo schermo delle operazioni. Il punto rosso si stava allontanando dalla Judith: il veicolo che rappresentava, adesso, non era altro che un macchinario inerte.
Dalla tempesta atomica che si allontanava stava emergendo un punto verde. Un minuto più tardi, il Numero Otto rientrò, solo, arrestandosi con un urto delicato sul supporto. La canna del laser incominciò subito a fumare pesantemente nell'atmosfera. Il veicolo era sfregiato in più punti dal fuoco nemico. «Rivendico altre quattro vittorie» disse la persona, non appena Malori aprì il portello. «Oggi ho avuto un magnifico appoggio da parte dei miei compagni di squadriglia, che hanno compiuto grandi sacrifici per la Patria. Sebbene i nemici fossero due volte più numerosi di noi, credo che non ne sia scampato neppure uno. Ma devo protestare energicamente perché il mio apparecchio non è stato ancora dipinto di rosso.» «Provvederò subito, meinherr» mormorò Malori, mentre incominciava a distaccare la persona dal caccia. Si sentiva un po' stupido, all'idea di rassicurare un pezzo di hardware. Tuttavia, maneggiò la persona con grande delicatezza, mentre la portava verso gli astucci vuoti che attendevano sul ponte delle operazioni, con le etichette in bella vista: ALBERT BALL; WILLIAM AVERY BISHOP; RENÉ PAUL FONCK; GEORGES MARIE GUYNEMER; FRANK LUKE; EDWARD MANNOCK; CHARLES NUNGESSER; MANFRED VON RICHTHOFEN; WERNER VOSS. Erano inglesi, americani, francesi, tedeschi. Erano un ebreo, un violinista, un invalido, un prussiano, un ribelle, un individuo pieno d'odio, un bon vivant, un cristiano. E tra tutti erano anche molte altre cose. Forse c'era una sola parola - uomo - che poteva includerli tutti. In quel momento, gli esseri umani viventi più vicini erano a molti milioni di chilometri di distanza, tuttavia Malori non si sentiva solo. Rimise delicatamente la persona nel suo astuccio, pur sapendo che non sarebbe stata danneggiata neppure da diecimila gravità in più di quelle che potevano produrre le sue mani. Forse sarebbe entrata nella cabina del Numero Otto assieme a lui, quando avrebbe cercato di raggiungere la Speranza. «A quanto pare, siamo rimasti soltanto io e te, Barone Rosso.» L'essere umano su cui era stata modellata la persona non aveva ancora ventisei anni quando era stato ucciso nei cieli della Francia, dopo meno di diciotto mesi
di successi e di gloria. Prima, in cavalleria, il suo cavallo l'aveva disarcionato tante volte. STRANIERO IN PARADISO (Isaac Asimov) La gente litiga, la gente si batte. I fratelli sono sempre rivali (sembra). Se mai vi siete lamentati di questo fatto, ecco una piccola consolazione: il Buon Dottor Asimov al culmine della forma, con un paio di personaggi che ci farebbe piacere rivedere. I Erano fratelli. Non solo nel senso che erano entrambi esseri umani, o che erano compagni dello stesso nido. Niente affatto! Erano fratelli, fratelli... parenti, per usare un termine che era diventato un po' arcaico già da secoli, prima della Catastrofe, quando il concetto di famiglia aveva ancora una certa validità. Quant'era imbarazzante! Con il passare degli anni, Anthony aveva quasi dimenticato la vergogna della sua infanzia. C'erano periodi in cui non ci pensava neppure, per mesi e mesi. Ma da quando lui e William erano stati nuovamente uniti inestricabilmente, s'era trovato a vivere giorni di tormento. Forse non sarebbe stato tanto atroce se la situazione fosse sempre stata evidente... se, come nei tempi pre-Catastrofe (Anthony, per un certo tempo, era stato un accanito lettore di opere storiche), avessero avuto lo stesso cognome e in quel modo avessero ostentato la parentela. Adesso, naturalmente, ognuno si sceglieva il cognome che gli pareva... e lo cambiava tutte le volte che voleva. Dopo tutto, la catena dei simboli era quel che contava davvero: quella era impressa, ed era tua, esclusivamente tua, fin dalla nascita. William si chiamava Anti-Aut. Vi insisteva, con una sorta di sobrio professionalismo. Era affar suo, naturalmente: ma era anche una pubblicità di cattivo gusto. Anthony, invece, aveva optato per Smith quando aveva compiuto i tredici anni, e non l'aveva mai cambiato. Era semplice, facile da pronunciare e da scrivere, e riconoscibilissimo, perché lui non aveva mai incontrato qualcun altro che avesse scelto quel cognome. Un tempo era stato molto comune... tra i pre-Cat, e questo forse spiegava perché adesso
era tanto raro. Ma la differenza dei cognomi non significava più niente, quando i due erano insieme. Si vedeva che si somigliavano. Non erano gemelli... ma del resto, solo uno d'un paio di ovuli gemelli fecondati era autorizzato a maturare. Si trattava di quella rassomiglianza fisica che qualche volta appariva tra i non-gemelli... soprattutto quando la parentela esisteva da entrambe le parti. Anthony aveva cinque anni meno del fratello, ma entrambi avevano il naso adunco, le palpebre pesanti, la fossetta appena accennata sul mento. Ma era quel che poteva capitare quando, per chissà quale amore della monotonia, i genitori si ripetevano. All'inizio, adesso che erano insieme, il loro aspetto attirava occhiate di stupore, seguite da un silenzio ostentato. Anthony cercava di non farci caso, ma per pura e semplice perversità - o perversione - di solito William se ne veniva fuori affermando: «Siamo fratelli». «Oh?» faceva l'altro, esitando per un momento come se volesse domandare se erano fratelli di sangue pieni. Ma poi l'educazione prendeva il sopravvento, e l'interlocutore se ne andava, come se la cosa fosse priva d'interesse. Succedeva solo raramente, certo. Quasi tutti quelli del Progetto sapevano - come lo si poteva impedire? - ed evitavano la situazione. Non che William fosse un cattivo diavolo. Per niente. Se non fossero stati fratelli (oppure, se lo fossero stati, ma fossero stati abbastanza differenti per nasconderlo), magari sarebbero andati meravigliosamente d'accordo. Ma così... A migliorare le cose non contribuiva certo il fatto che avessero giocato insieme, da ragazzi, e che avessero avuto in comune i primi stadi dell'educazione, nello stesso nido, grazie a una manovra riuscita della loro madre. Poiché erano figli dello stesso padre e quindi avevano saturato il suo limite (lei non era mai riuscita a qualificarsi per un terzo figlio), s'era messa in mente di poter far visita a entrambi con un unico viaggio. Era una donna strana. Poiché era il maggiore, William aveva lasciato il nido per primo. Aveva studiato scienza... ingegneria genetica. Anthony lo aveva saputo, quand'era ancora al nido, da una lettera di sua madre. Quando fu abbastanza grande per parlare con fermezza alla direttrice, quelle lettere smisero di arrivare. Ma lui ricordava sempre l'ultima, e la vergogna tormentosa che gli aveva causato. Poiché era dotato, anche Anthony aveva finito per dedicarsi alla scienza.
Ricordava di avere avuto la folle paura - una paura profetica, adesso se ne rendeva conto - di incontrare suo fratello, e perciò aveva scelto telemetria, che era la cosa più lontana dall'ingegneria genetica. Almeno, così si poteva pensare. Ma le circostanze stavano in agguato durante i complessi sviluppi del Progetto Mercurio. Venne il momento in cui il Progetto Mercurio sembrò cacciarsi in un vicolo cieco. Ma fu avanzata una proposta che poteva salvare la situazione... e che nel contempo trascinò Anthony nel dilemma preparatogli dai suoi genitori. La parte più divertente e sardonica dell'intera faccenda fu che proprio Anthony, del tutto ignaro, fece quella proposta. II William Anti-Aut, il disinibito fratello maggiore di Anthony, sapeva del Progetto Mercurio, ma solo come sapeva della Sonda Stellare che era partita prima della sua nascita, e che sarebbe stata ancora in viaggio dopo la sua morte; come sapeva della colonia marziana e degli incessanti tentativi di fondare colonie del genere anche sugli asteroidi. Erano cose presenti alla periferia lontana della sua mente, e non avevano una vera importanza. Nessun aspetto della corsa allo spazio s'era mai avvicinato al centro dei suoi interessi, a quanto poteva ricordare... fino al giorno in cui il printout incluse le fotografie di alcuni degli uomini impegnati nel Progetto Mercurio. L'attenzione di William venne attratta dapprima dal fatto che uno di loro si chiamava Anthony Smith. Ricordava lo strano cognome scelto da suo fratello, e ricordava anche «Anthony». Senza dubbio, non potevano esserci due Anthony Smith. Allora aveva guardato la foto... impossibile sbagliare. Si guardò nello specchio. Impossibile sbagliare. Si sentì divertito, ma anche a disagio: si rendeva conto del potenziale imbarazzo che quello poteva causare a tutti gli interessati. Fratelli di sangue pieni, per usare quella frase disgustosa. Ma cosa poteva fare? Come poteva rimediare al fatto che suo padre e sua madre erano stati del tutto privi d'immaginazione? Dovette cacciarsi distrattamente il printout in tasca, mentre si preparava per andare al lavoro, perché lo ritrovò durante l'intervallo del pranzo. Lo fissò di nuovo. Anthony aveva l'aria sveglia. Era un'ottima riproduzione... i printouts erano di qualità eccellente, a quei tempi.
Il suo commensale, Marco Comediavolosichiamavaquellasettimana, disse incuriosito: «Cosa stai guardando, William?». D'impulso, William gli passò il printout e disse: «Questo è mio fratello». Era meglio decidersi e prendere il toro per le corna. Marco studiò la foto e aggrottò la fronte. «Chi? L'uomo vicino a te?» «No, io... voglio dire, l'uomo che sembra me. È mio fratello.» Questa volta la pausa fu più lunga. Marco rese il printout e disse, in tono scrupolosamente impersonale: «Fratello degli stessi genitori?». «Sì.» «Tutti e due? Padre e madre?» «Sì.» «Ridicolo!» «Immagino.» William sospirò. «Beh, secondo quel che dice qui, lui sta lavorando in telemetria, nel Texas, e io sto lavorando qui, in autistica. Quindi, che differenza fa?» William non ci pensò più e più tardi, quel giorno stesso, buttò via il printout. Non voleva che la sua attuale compagna di letto lo trovasse. Lei aveva un senso dell'umorismo piuttosto maligno, che William trovava sempre più fastidioso. Era piuttosto soddisfatto perché a lei non interessava avere un figlio da lui. Ne aveva avuto uno qualche anno prima, comunque. Aveva collaborato quella piccola bruna, Laura o Linda, chissà come si chiamava. Qualche tempo dopo, almeno un anno, saltò fuori la faccenda di Randall. Se William non aveva più pensato a suo fratello - e non ci aveva pensato - certamente adesso non aveva il tempo di farlo. Randall aveva sedici anni, la prima volta che William sentì parlare di lui. Aveva vissuto un'esistenza sempre più isolata e il nido del Kentucky dove veniva allevato decise di cancellarlo... e naturalmente fu solo otto o dieci giorni prima della cancellazione che a qualcuno venne in mente di segnalarlo a New York, all'Istituto per le Scienze dell'Uomo. (Il nome con cui era conosciuto comunemente era Istituto Omologico.) William ricevette la relazione assieme a molte altre, e nella descrizione di Randall non c'era niente che attirasse particolarmente la sua attenzione. Comunque, era ora di fare uno di quei noiosi viaggi ai nidi, e c'era forse qualcosa nel West Virginia. Ci andò... e rimase tanto deluso da ripromettersi (per la cinquantesima volta) che in avvenire quelle visite le avrebbe compiute solo per immagine televisiva. Ma dato che era nella zona, pensò
che tanto valeva andare a dare un'occhiata al nido del Kentucky, prima di tornare a casa. Non si aspettava niente. Aveva studiato lo schema genetico di Randall per non più di dieci minuti, quando chiamò l'Istituto per chiedere un calcolo con il computer. Poi si mise tranquillo, sudando leggermente all'idea che solo un impulso all'ultimo momento lo aveva portato lì, e che senza quell'impulso Randall sarebbe stato silenziosamente cancellato. Una droga indolore sarebbe penetrata attraverso i pori della pelle, nell'apparato circolatorio, e lui sarebbe sprofondato in un sonno sereno, che gradualmente sarebbe declinato nella morte. La droga aveva un nome ufficiale di ventitré sillabe, ma William, come tutti gli altri, la chiamava «nirvanamina». William chiese: «Qual è il suo nome completo, direttrice?». La direttrice del nido disse: «Randall Nowan, scienziato». «Nowan... No one... Nessuno!» sbottò William. «Nowan.» La direttrice lo pronunciò lettera per lettera. «L'ha scelto lui l'anno scorso.» «E per lei non significava nulla? Si pronuncia No one, Nessuno! Non ha pensato di segnalare questo ragazzo, l'anno scorso?» «Non mi sembrava...» esordì la direttrice, agitata. William le fece cenno di tacere. A che serviva? Come poteva saperlo? Non c'era niente, nello schema genetico, che potesse metterla sull'avviso. I soliti criteri dei libri di testo erano inutili, in un caso come quello. Era una combinazione sottile, che William e i suoi collaboratori avevano elaborato in un periodo di vent'anni, mediante esperimenti sui bambini autistici... e una combinazione che non avevano mai visto in carne e ossa. E così vicino alla cancellazione! Marco, l'intransigente del gruppo, si lamentava perché i nidi erano sempre troppo disposti agli aborti e alle cancellazioni. Sosteneva che tutti gli schemi genetici dovevano avere la possibilità di svilupparsi fino alla selezione iniziale, e che non dovevano esserci cancellazioni senza aver prima consultato un omologista. «Non ci sono abbastanza omologisti» gli aveva risposto William. «Beh, almeno possiamo esaminare tutti gli schemi genetici con il computer» aveva ribattuto Marco. «Per salvare tutto quello che potrebbe esserci utile?» «Per tutti gli usi omologici, qui o altrove. Dobbiamo studiare gli schemi genetici in azione, se vogliamo comprendere bene noi stessi... e sono gli
schemi anormali o mostruosi che ci forniscono la maggiore quantità di informazioni. I nostri esperimenti sull'autismo ci hanno insegnato sull'omologia molto più del totale dello scibile esistente il giorno in cui abbiamo incominciato.» William, che preferiva ancora la perifrasi «fisiologia genetica dell'uomo» a «omologia», aveva scrollato la testa. «£ lo stesso: dobbiamo stare attenti. Anche se possiamo sostenere che i nostri esperimenti sono utili, esistiamo grazie a uno stentato consenso sociale, accordato di malavoglia. Stiamo giocando con vite umane.» «Vite inutili. Adatte solo alla cancellazione.» «Una cancellazione rapida e piacevole è una cosa. I nostri esperimenti, che spesso sono lunghi e talvolta sono estremamente spiacevoli, sono un'altra cosa.» «Qualche volta li aiutiamo» aveva risposto Marco. «E qualche volta non li aiutiamo affatto.» Era una discussione inutile, in verità, perché non c'era modo di risolverla. In pratica, c'erano troppo poche anomalie interessanti, e non era possibile indurre l'umanità a intensificare la produzione. Il trauma della Catastrofe non sarebbe mai sparito, almeno in una dozzina di modi, quello incluso. Lo slancio frenetico verso l'esplorazione dello spazio si poteva far risalire (e alcuni sociologi lo facevano) alla conoscenza della fragilità della vita sul pianeta, grazie alla Catastrofe. Beh, non importa... quella è un'altra faccenda. Non c'era mai stato nessuno come Randall Nowan, almeno per William. Il lento affermarsi dell'autismo, caratteristico solo di quel rarissimo schema genetico, significava che sul conto di Randall se ne sapeva assai più di qualunque altro paziente autistico venuto prima di lui. Avevano addirittura captato qualche ultimo, fievole barlume dei suoi processi di pensiero, in laboratorio... prima che lui si chiudesse definitivamente in se stesso e si isolasse completamente entro il muro della sua pelle, apatico e irraggiungibile. Allora incominciarono il lento processo mediante il quale Randall, sottoposto per periodi di tempo sempre più lunghi a stimoli artificiali, rivelò il funzionamento interiore del suo cervello, e fornì in tal modo indizi sul funzionamento interiore di tutti i cervelli, quelli chiamati normali e quelli simili al suo. I dati che stavano raccogliendo erano così vasti che William incomin-
ciava a pensare che il suo sogno di invertire l'autismo forse poteva essere qualcosa di più di un sogno. Provava un caldo senso di letizia quando ricordava di aver scelto Anti-Aut come cognome. Era quasi al culmine dell'euforia indotta dal suo lavoro su Randall quando ricevette la chiamata da Dallas, e cominciarono le pressioni... proprio adesso, perché abbandonasse il suo lavoro e affrontasse un nuovo problema. Ripensandoci in seguito, non riuscì mai a capire che cosa l'avesse indotto ad accettare di recarsi a Dallas. Alla fine, naturalmente, poté rendersi conto che era stata una fortuna... ma che cosa l'aveva convinto? Possibile che, fin dall'inizio, avesse avuto una nozione vaga, inconsapevole dell'esito potenziale? Impossibile, senza dubbio. Era il ricordo inconsapevole della fotografia di suo fratello sul printout? Impossibile anche questo. Ma si lasciò convincere a visitare il Progetto, e solo quando l'unità energetica della micropila cambiò il tono del ronzio sommesso e l'unità agravitazionale entrò in funzione per la discesa, ricordò quella fotografia... almeno consciamente. Anthony lavorava a Dallas e, adesso William lo ricordava, proprio al Progetto Mercurio. Così aveva detto quella didascalia. Deglutì, mentre il leggero tonfo gli diceva che il viaggio era finito. Non sarebbe stato piacevole. III Anthony stava aspettando sul tetto per salutare l'esperto venuto in visita. Non era solo, naturalmente. Faceva parte di una delegazione piuttosto numerosa... e la sua consistenza bastava già a indicare la disperazione cui erano ridotti. Inoltre, Anthony non era tra i pezzi grossi: quindi era lì solo perché era stato lui a formulare il suggerimento iniziale. Provava un senso di disagio, lieve ma incessante, a quel pensiero. Si era messo sulla linea di tiro. Aveva ricevuto considerevoli consensi, ma tutti avevano insistito nel fargli capire che la proposta era sua: se fosse stato un fiasco, tutti si sarebbero scostati dalla linea di tiro, e nel mirino sarebbe rimasto lui soltanto. Certe volte, in seguito, si chiese se il vago ricordo di avere un fratello nel campo dell'omologia gli aveva suggerito quell'idea. Forse era stato così, ma non era detto. Il suggerimento era così sensato, così inevitabile, che
sicuramente avrebbe avuto lo stesso pensiero anche se suo fratello fosse stato innocuo quanto uno scrittore di fantasy... o se non avesse avuto un fratello, in quanto a questo. Il problema era rappresentato dai pianeti interni... La Luna e Marte erano stati colonizzati. Gli asteroidi più grandi e i satelliti di Giove erano stati raggiunti, ed erano in fase di realizzazione i piani per una spedizione umana su Titano, il più grande tra i satelliti di Saturno. Eppure, anche se erano in corso piani per inviare uomini sui mondi più esterni del sistema solare, non c'era ancora nessuna possibilità di una spedizione umana ai pianeti interni, per paura del Sole. Venere era il meno attraente dei due mondi all'interno dell'orbita terrestre. Mercurio, d'altra parte... Anthony non era ancora entrato a far parte del team quando Dmitri Large (che in verità era piccolo e minuto) aveva tenuto il discorso che aveva scosso il Congresso Mondiale quanto bastava per votare gli stanziamenti per la realizzazione del Progetto Mercurio. Anthony aveva ascoltato le registrazioni, e aveva udito l'esposizione di Dmitri. La tradizione affermava che il discorso era stato estemporaneo, e forse era vero; ma era stato costruito perfettamente, e racchiudeva, in sostanza, tutte le direttive seguite successivamente dal Progetto Mercurio. Il punto principale era che sarebbe stato un errore attendere d'incominciare le ricerche sui pianeti interni fino a che la tecnologia fosse avanzata tanto da rendere possibile una spedizione umana attraverso i rigori della radiazione solare. Mercurio era un ambiente unico, che poteva insegnare molte cose, e dalla superficie di Mercurio sarebbe stato possibile effettuare osservazioni continuative del Sole, che non si potevano realizzare in nessun altro modo. Purché si potesse mandare sul pianeta un adeguato surrogato dell'uomo... insomma, un robot. Un robot con le caratteristiche fisiche necessarie poteva venire costruito. Gli atterraggi morbidi erano facilissimi. Eppure, dopo che il robot fosse atterrato... cosa sarebbe accaduto? Poteva compiere osservazioni e orientare le sue azioni in base alle osservazioni esatte: ma il Progetto richiedeva che quelle azioni fossero complesse e sottili, almeno potenzialmente, e non si sapeva bene quali osservazioni avrebbe potuto fare. Per prepararlo a tutte le possibilità ragionevoli e per fornire tutta la complessità desiderabile, il robot avrebbe dovuto includere un computer suffi-
cientemente complesso e versatile per rientrare nella stessa categoria del cervello d'un mammifero. Eppure non era possibile miniaturizzare qualcosa del genere, per usarlo nel tipo di robot che avevano in mente loro. Forse, un giorno, i congegni positronici con cui si stavano baloccando i roboticisti l'avrebbero reso possibile, ma quel giorno non era ancora venuto. L'alternativa consisteva nel far sì che il robot inviasse alla Terra ogni osservazione, via via che la effettuava. Allora un computer, dalla Terra, avrebbe potuto guidare ogni sua azione, sulla base di quelle osservazioni. Insomma, il corpo del robot doveva essere là, e il cervello qua. Una volta presa questa decisione, i telemetristi assunsero il ruolo di tenici-chiave. Fu allora che Anthony entrò a far parte del Progetto, tra coloro che sfacchinavano per ideare i metodi per ricevere e rinviare impulsi su distanze variabili tra i 50 e i 140 milioni di miglia, verso e talvolta oltre un disco solare che poteva interferire con quegli impulsi in modo spietato. Anthony si dedicò al suo lavoro con passione e (lui ne era convinto) con abilità e successo. Era stato lui, più di ogni altro, a progettare i tre ripetitori che erano stati lanciati in orbite permanenti intorno a Mercurio. Ognuno aveva il compito di trasmettere e ricevere gli impulsi da Mercurio alla Terra e dalla Terra a Mercurio. Ognuno era in grado di resistere, più o meno indefinitamente, alle radiazioni del Sole; e soprattutto, ognuno poteva filtrare ed escludere l'interferenza solare. Tre Orbiter equivalenti vennero piazzati a una distanza di poco più d'un milione di miglia dalla Terra: raggiungevano il nord e il sud del piano dell'eclittica, in modo da poter ricevere gli impulsi da Mercurio e trasmetterli alla Terra - o viceversa - anche quando Mercurio era dietro il Sole, e inaccessibile alla ricezione diretta da parte di ogni stazione esistente sulla superficie terrestre. Restava così il robot: un meraviglioso esempio delle arti dei roboticisti e dei telemetristi. Era il più complesso d'una serie di modelli successivi, e sebbene avesse un volume poco più che doppio e una massa poco più che quintupla, rispetto a un uomo, era capace di fare parecchio più di un uomo... se era possibile guidarlo. Risultò tuttavia evidente che un computer doveva essere molto complesso per guidare il robot, perché ogni fase di reazione doveva venire modificata per permettere possibili variazioni nella percezione. E via via che ogni fase di reazione dava la certezza della maggiore complessità delle possibili variazioni di percezione, le prime fasi dovevano essere rafforzate. Il com-
puter continuava a sviluppare se stesso all'infinito, come una partita a scacchi, e i telemetristi incominciarono a usare un computer per programmare il computer che progettava il programma per il computer che programmava il computer destinato a controllare il robot. La confusione regnava sovrana. Il robot si trovava in una base del deserto dell'Arizona, e funzionava benissimo. Ma il computer, che era a Dallas, non riusciva a maneggiarlo a dovere, neppure nelle condizioni terrestri, che erano note perfettamente. E allora... Anthony ricordava il giorno in cui aveva avanzato il suo suggerimento. Era stato il 4.7.553. Lo ricordava, anche, perché rammentava di aver pensato che quel giorno, il 4.7, era stato una festa importante nella regione del mondo dov'era situata Dallas, tra i pre-Cat, mezzo millennio prima... 553 anni prima, per essere esatti. Era successo a pranzo. (E un ottimo pranzo, per giunta. C'era stato un meticoloso adattamento dell'ecologia della regione e il personale del Progetto aveva un'elevata precedenza nei confronti dei rifornimenti viveri che si rendevano disponibili... quindi c'era un'ampia scelta nel menù, e Anthony aveva provato l'anatra arrosto.) L'anatra arrosto lo aveva reso un po' più espansivo del solito. Per la verità, erano tutti piuttosto comunicativi, e Ricardo disse: «Non ce la faremo mai. Ammettiamolo. Non ce la faremo mai». Era impossibile dire quanti avessero pensato la stessa cosa, in passato, ma di regola nessuno lo dichiarava apertamente. Il pessimismo scoperto poteva rappresentare la spinta decisiva per l'interruzione degli stanziamenti (ormai da cinque anni, ogni anno arrivavano con difficoltà sempre crescente) e se c'era una speranza, anche quella sarebbe svanita. Anthony, che di solito non si abbandonava all'ottimismo, ma che adesso s'ingozzava d'anatra arrosto, disse: «Perché non possiamo farcela? Dimmi il perché, e io lo confuterò.» A quella sfida, gli occhi scuri di Ricardo si socchiusero. «Vuoi che ti dica il perché?» «Sicuro.» Ricardo girò la sedia verso Anthony. Disse: «Non è un mistero. Dmitri Large non lo dice apertamente nei suoi rapporti, ma io lo so e tu lo sai benissimo che per realizzare adeguatamente il Progetto Mercurio avremo bisogno d'un computer complesso quanto un cervello umano, su Mercurio o
qui, e non possiamo costruirlo. E allora, cosa possiamo fare, se non combinare giochetti con il Congresso Mondiale e farci assegnare quattrini per i nostri tentativi e le possibili derivazioni utili?». Anthony, con un sorriso compiaciuto, disse: «È facile confutarlo. La risposta l'hai data tu stesso.» (Stava giocando? Era la sensazione piacevole che gli dava l'anatra arrosto? Il desiderio di punzecchiare Ricardo? Oppure venne sfiorato da un pensiero inconscio di suo fratello? Più tardi, Anthony non fu mai in grado di spiegarlo.) «Quale risposta?» Ricardo si alzò. Era molto alto, eccezionalmente magro, e portava sempre il camice bianco slacciato. Incrociò le braccia, e fece del suo meglio per torreggiare al di sopra di Anthony, che era rimasto seduto. «Quale risposta?» «Hai detto che abbiamo bisogno di un computer complesso come un cervello umano. Benissimo: allora lo costruiremo.» «Il fatto è, idiota, che non possiamo...» «Noi non possiamo. Ma ci sono gli altri.» «Quali altri?» «Quelli che lavorano sui cervelli, naturalmente. Noi siamo solo meccanici dello stato solido. Non sappiamo in che modo, o dove, o in che misura sia complesso un cervello umano. Perché non chiamiamo un omologo e non incarichiamo lui di progettare un computer?» A questo punto, Anthony si servì un enorme pezzo di farcia, l'assaporò soddisfatto. Ricordava ancora, dopo tanto tempo, il sapore della farcia, sebbene non riuscisse a rammentare dettagliatamente quel che era accaduto dopo. Gli pareva che nessuno l'avesse preso sul serio. C'erano state risate, e la convinzione generale che Anthony se la fosse cavata con un ingegnoso sofisma, e quindi fu Ricardo a far le spese dell'ilarità. (Dopo, naturalmente, tutti affermarono di aver preso sul serio il suggerimento.) Ricardo prese fuoco, puntò l'indice contro Anthony e disse: «Mettilo per iscritto. Ti sfido a mettere per iscritto il tuo suggerimento». (Almeno, così ricordava Anthony. In seguito, Ricardo aveva sostenuto che il suo commento era stato entusiastico: «Ottima idea! Perché non la presenti ufficialmente, Anthony?») Anthony mise il suggerimento per iscritto. Dmitri Large l'aveva preso sul serio. In un colloquio privato, aveva battuto la mano sulla spalla di Anthony e aveva detto che lui stesso aveva formulato ipotesi in quella direzione... anche se non si era offerto di arrogarsene ufficialmente il merito. (Nell'eventualità che risultasse un fiasco,
pensava Anthony.) Dmitri Large cominciò a cercare l'omologista più adatto. Anthony non pensò neppure che la cosa potesse riguardarlo. Non sapeva niente dell'omologia e degli omologisti... a parte suo fratello, naturalmente, e non aveva pensato a lui. Almeno, non consciamente. E così, adesso Anthony era lassù ad attendere sul tetto, in un ruolo di secondo piano, quando il portello dell'aereo si aprì e ne uscirono parecchi uomini. Durante gli scambi di strette di mano, si trovò a guardare in faccia se stesso. Gli avvamparono le guance: e con tutte le sue forze si augurò di essere lontano mille miglia. IV Adesso più che mai, William si augurava di essersi ricordato prima di suo fratello. Avrebbe dovuto essere così... sicuramente. Ma s'era sentito lusingato dall'invito, ed emozionato. Forse aveva volutamente evitato di ricordare. Innanzi tutto, c'era stata l'emozione della visita di Dmitri Large... e in persona. Era venuto da Dallas a New York in aereo, e questo era stato molto emozionante per William, che aveva il vizio segreto di leggere libri gialli. Nei gialli, gli uomini e le donne viaggiavano sempre di persona, quand'era necessario il segreto. Dopotutto, il viaggio elettronico era di dominio pubblico... almeno nei gialli, dove tutti i raggi che trasmettevano informazioni erano soggetti invariabilmente a intercettazioni. William l'aveva detto, in una sorta di morboso tentativo di fare dello spirito, ma Dmitri non l'aveva ascoltato. Stava fissando William, e sembrava pensare ad altro. «Mi scusi» disse, alla fine. «Lei mi ricorda qualcuno.» (Neppure questo aveva rivelato la verità a William. Com'era possibile?) Dmitri Large era un ometto grassoccio che sembrava raggiare perpetuamente, persino quando si dichiarava preoccupato o irritato. Aveva il naso tondo, guance pronunciate ed era tutto morbido. Si presentò accentuando il suo cognome e disse, con una prontezza che indusse William a supporre che lo ripetesse spesso: «La grandezza non sta solo nelle dimensioni, amico mio». Nel colloquio che seguì, William protestò parecchio. Non sapeva niente dei computer. Niente! Non aveva la più vaga idea di come funzionassero né di come venissero programmati.
«Non importa, non importa» disse Dmitri, accantonando l'obiezione con un gesto espressivo. «Noi conosciamo i computer; noi possiamo preparare i programmi. Basta che lei ci dica come deve essere fatto un computer perché funzioni come un cervello e non come un computer.» «Non sono sicuro di conoscere abbastanza il funzionamento dei cervelli per poterglielo dire, Dmitri» obiettò William. «Lei è il maggiore omologista del mondo» disse Dmitri. «Ce ne siamo assicurati.» Obiezione respinta. William ascoltò, sempre più tetro. Pensò che era inevitabile. Bastava buttare un individuo in una particolare specializzazione e lasciarcelo abbastanza a lungo perché quello incominciasse automaticamente a presumere che gli specialisti di tutti gli altri campi erano maghi, calcolando la profondità della loro conoscenza in base all'ampiezza della propria ignoranza... e con il passare del tempo, William venne a sapere, a proposito del Progetto Mercurio, molte più cose di quante, a quel tempo, pensava che potessero interessargli. Finalmente disse: «E allora perché usare un computer? Perché non si serve di uno dei suoi uomini, oppure di un gruppo, in modo che riceva il materiale trasmesso dal robot e gli invii istruzioni?». «Oh, oh, oh» disse Dmitri, sobbalzando sulla poltrona per l'eccitazione. «Ecco, non può rendersene conto. Gli uomini sono troppo lenti per analizzare rapidamente tutto il materiale che trasmetterà il robot... temperature e pressioni dei gas e flussi di raggi cosmici e intensità del vento solare e composizioni chimiche e consistenza del suolo e almeno altre tre dozzine di dettagli... e per cercare di decidere la fase successiva. Un essere umano si limiterebbe a guidare il robot, e in modo inefficiente: un computer sarebbe il robot.» «E poi» proseguì, «gli uomini sono anche troppo svelti, da un altro punto di vista. Una qualunque radiazione impiega da dieci a ventidue minuti per compiere il tragitto di andata e ritorno fra Mercurio e la Terra, a seconda delle rispettive posizioni in orbita. Non c'è modo di rimediare. Lei riceve un'osservazione e impartisce un ordine: ma sono accadute molte cose tra il momento in cui è stata effettuata l'osservazione e quello in cui ritorna la reazione. Gli uomini non possono adattarsi alla lentezza della velocità della luce, ma un computer può tenerne conto. Venga ad aiutarci, William». William disse, cupamente: «Lei è naturalmente libero di consultarmi, per quel che può servirle. Il mio raggio televisivo privato è a sua disposizio-
ne». «Ma io non voglio una consultazione. Lei deve venire con me.» «Di persona?» chiese William, sconvolto. «Sì, certo. Un progetto come questo non si può realizzare standosene seduti alle due estremità opposte di un raggio laser, con un satellite da comunicazioni in mezzo. A lungo andare, è troppo costoso, troppo scomodo, e naturalmente non garantisce la riservatezza.» Era proprio come un giallo, pensò William. «Venga a Dallas» disse Dmitri, «e mi permetta di mostrarle quello che abbiamo realizzato. Lasci che le mostri i nostri impianti. Parli con qualcuno dei nostri specialisti dei computer. Assicuri loro il beneficio del suo modo di pensare.» Era venuto il momento di mostrarsi deciso, pensò William. «Dmitri» disse, «ho un lavoro da svolgere, qui. Un lavoro importante che non desidero abbandonare. Se facessi quel che lei mi chiede, dovrei restare lontano dal mio laboratorio per molti mesi». «Mesi!» esclamò Dmitri, sconcertato. «Mio caro William, può darsi che si tratti di anni. Ma sarà senza dubbio il suo lavoro.» «No, non lo sarà. Io so qual è il mio lavoro: non è certo guidare un robot su Mercurio.» «Perché no? Se lo farà bene, potrà imparare più cose sul cervello umano, cercando di fare funzionare un computer in modo analogo, e alla fine, quando tornerà qui, sarà in grado di svolgere anche meglio quello che considera il suo lavoro. E durante la sua assenza, non ha collaboratori fidati che possano continuare? E non può restare in comunicazione continua con loro, per raggio laser e per televisione? E non può recarsi a New York di tanto in tanto? Per qualche breve visita?» William si lasciò convincere. Il pensiero di lavorare sul cervello umano partendo da una direzione diversa arrivò a segno. Da quel momento si sorprese a cercare buone ragioni per andare... almeno in visita... almeno per vedere come stavano le cose. Poteva sempre tornare indietro. Poi ci fu la visita di Dmitri alle rovine della Vecchia New York, che quello si godette con sincera emozione (del resto, non c'erano spettacoli dell'inutile gigantismo del pre-Cat più grandiosi della Vecchia New York). William cominciò a chiedersi se quel viaggio non avrebbe potuto offrirgli l'occasione di vedere qualcosa del genere. Cominciò addirittura a pensare che da un po' di tempo stava considerando l'eventualità di trovarsi una nuova compagna di letto, e sarebbe stato
più pratico trovarla in un'altra area geografica, dove non sarebbe rimasto in permanenza. ... O forse già allora, quando non conosceva altro che i rudimenti di quel che era necessario, nella sua mente era balenata una soluzione, come il fulgore di un lampo lontano? Perciò alla fine andò a Dallas, e scese sul tetto, e si trovò di nuovo davanti il raggiante Dmitri. Poi, socchiudendo gli occhi, l'ometto si voltò e disse: «Lo sapevo... che somiglianza straordinaria!» William spalancò gii occhi e là, visibilmente turbata, c'era una faccia che somigliava abbastanza alla sua per dargli la certezza di avere di fronte Anthony. Lesse chiaro, sul volto di Anthony, il desiderio di seppellire la loro parentela. Bastava che William dicesse: «Straordinario!» e lasciasse perdere. Gli schemi genetici dell'umanità, dopotutto, erano abbastanza complessi per permettere notevoli somiglianze, anche senza bisogno di parentele. Ma naturalmente William era un omologista, e nessuno può lavorare con le complessità del cervello umano senza diventare insensibile ai suoi dettagli; e perciò disse: «Sono sicuro che questo è Anthony, mio fratello». Dmitri chiese: «Suo fratello?». «Mio padre» disse William, «ebbe due figli maschi dalla stessa donna... mia madre. Erano tipi eccentrici.» Poi si fece avanti tendendo la mano, e Anthony non poté far altro che stringergliela. Per parecchi giorni, quell'episodio fu l'unico argomento delle conversazioni. V Per Anthony fu una ben misera soddisfazione il fatto che William si pentisse, quando si rese conto di ciò che aveva fatto. Quella sera rimasero insieme a chiacchierare, dopo cena, e William disse: «Scusami. Pensavo che affrontando subito il peggio l'avremmo fatta finita. Ma sembra che non sia così. Non ho firmato un contratto, non ho concluso accordi ufficiali. Me ne andrò». «A che servirebbe?» ribatté sgarbatamente Anthony. «Ormai lo sanno tutti. Due corpi e una faccia. Ce n'è abbastanza per far venire il vomito.» «Se me ne vado...» «Non puoi andartene. Questa faccenda è stata un'idea mia.» «Farmi venire qui?» Le palpebre pesanti di William si sollevarono al
massimo e le sopracciglia si corrugarono. «No, naturalmente. Far venire qui un omologista. Come potevo sapere che avrebbero mandato te?» «Ma se me ne vado...» «No. L'unica cosa che possiamo fare, ormai, è risolvere il problema, se è possibile. Allora non avrà più importanza.» (Tutto è perdonato a quelli che riescono, pensò.) «Non so se ci riusciremo.» «Dovremo tentare. Dmitri lo scaricherà su di noi. È un'occasione troppo bella. Voi due siete fratelli» disse Anthony, imitando la voce tenorile di Dmitri, «e vi capite al volo. Perché non lavorate insieme?». Poi, con la sua voce normale, rabbiosamente: «E quindi dobbiamo farlo. Tanto per cominciare, tu che cosa fai, William? Voglio dire, in modo più preciso di quanto possa spiegarlo il termine omologia». William sospirò. «Lavoro con i bambini autistici.» «Purtroppo non so cosa voglia dire.» «Senza buttarmi in una lunga spiegazione, lavoro con bambini che non comunicano con il mondo, non comunicano con gli altri, ma si chiudono in se stessi ed esistono dietro un muro di pelle... finora sono sempre stati irraggiungibili. Io spero di riuscire a trovare un rimedio, un giorno o l'altro.» «È per questo che hai deciso di chiamarti Anti-Aut?» «Sì, per la verità» rispose William. Anthony rise, brevemente: ma non era divertito. I modi di William si raffreddarono. «È un cognome onesto.» «Ne sono sicuro» si affrettò a mormorare Anthony, ma non fu capace di scusarsi. Con uno sforzo, ritornò in argomento. «Stai facendo qualche progresso?» «Verso il rimedio? No, finora. Verso la comprensione, sì. E più capisco...» La voce di William divenne più calda, i suoi occhi più distanti. Anthony riconobbe in lui il piacere di parlare di ciò che riempie il cuore e la mente, quasi a esclusione di tutto il resto. Anche lui provava quel sentimento piuttosto spesso. Ascoltò con tutta l'attenzione che era capace di dedicare a qualcosa che non comprendeva perfettamente, perché era necessario che lo facesse; si aspettava che, poi, William ascoltasse lui. Lo ricordava chiaramente. A quel tempo non aveva pensato che l'avrebbe rammentato; ma a quel tempo, certo, non si rendeva conto di quel che stava succedendo. Ripensandoci, con il senno del poi, scopriva di ricordare
intere frasi, virtualmente parola per parola. «Perciò abbiamo avuto l'impressione» disse William, «che il bambino autistico non sia incapace di ricevere le impressioni, e neppure di interpretarle in modo sofisticato. Piuttosto, le disapprova o le respinge... senza che si perda il potenziale della comunicazione piena, nell'eventualità che si trovi un'impressione che lui approverebbe». «Ah» disse Anthony, tanto per indicare che stava ascoltando. «E non puoi indurlo a uscire dal suo autismo con mezzi normali, perché lui disapprova te quanto disapprova il resto del mondo. Ma se lo poni in arresto conscio...» «Che cosa?» «È una tecnica in cui, in pratica, il cervello viene separato dal corpo e può svolgere le sue funzioni senza riferimenti ad esso. È una tecnica molto sofisticata, ideata nel nostro laboratorio; anzi...» «Da te?» l'interruppe gentilmente Anthony. «Beh... sì» disse William, arrossendo un po' ma evidentemente compiaciuto. «Nell'arresto conscio» proseguì, «possiamo offrire al corpo fantasie progettate apposta e osservare il cervello mediante l'elettroencefalografia differenziale. Possiamo così scoprire qualcosa di più sul conto dell'individuo autistico; quale tipo di impressioni sensorie desidera maggiormente; e impariamo di più sul conto del cervello in generale.» «Ah» disse Anthony. Questa volta era un vero «ah». «E tutte le cose che hai imparato sui cervelli... non puoi adattarle al funzionamento di un computer?» «No» disse William. «Niente da fare. L'ho detto a Dmitri. Non so niente dei computer, e non so abbastanza del cervello umano.» «Se io ti spiegassi i computer e ti dicessi dettagliatamente che cosa ci occorre?» «È inutile. È...» «Fratello» disse Anthony, tentando di farla suonare come una parola capace di destare soggezione. «Tu hai un debito con me. Ti prego, cerca onestamente di pensare al nostro problema. Quello che sai del cervello... adattalo ai nostri computer.» William si agitò, inquieto, e disse: «Capisco la tua situazione. Tenterò. Tenterò, sinceramente.» VI
William aveva tentato; e come aveva predetto Anthony, li avevano lasciati a lavorare insieme. All'inizio, s'incontrarono con altri, di tanto in tanto, e William cercò di sfruttare il valore traumatizzante della rivelazione che erano fratelli, dato che negarlo era inutile. Alla fine, tutto cessò e si arrivò a una voluta non-interferenza. Quando William si avvicinava ad Anthony, o Anthony si avvicinava a William, i presenti si dileguavano silenziosamente nei muri. In un certo senso, si abituarono l'uno all'altro; qualche volta si parlavano, quasi non vi fosse nessuna rassomiglianza tra loro, come se non esistessero i comuni ricordi dell'infanzia. Anthony espose i requisiti del computer in un linguaggio ragionevolmente poco tecnico; e William, dopo lunghe riflessioni, spiegò come gli sembrava che un computer potesse svolgere, più o meno, il lavoro di un cervello. Anthony chiese: «È possibile?». «Non lo so» rispose William. «Non tengo molto a provare. Potrebbe non funzionare. Ma potrebbe anche funzionare.» «Dovremmo parlarne con Dmitri Large.» «Prima parliamone tra noi e vediamo. Possiamo andare da lui a presentargli la proposta più ragionevole che avremo escogitato. Oppure, non ci andremo.» Anthony esitò. «Andremo da lui tutti e due?» William disse, con molto tatto: «Tu sarai il mio portavoce. Non c'è motivo di farci vedere insieme». «Grazie, William. Se ne verrà fuori qualcosa, ne avrai tutto il merito.» William disse: «Non è questo che mi preoccupa. Se c'è qualcosa di buono, io sono l'unico che possa farlo funzionare, credo». Ne discussero quattro o cinque volte, e se Anthony non fosse stato un parente e se tra loro non ci fosse stata quella difficile situazione emotiva, William sarebbe stato soddisfatto, senza tante complicazioni, di quel... fratello minore che dimostrava una comprensione tanto pronta di un campo completamente estraneo. Poi vi furono lunghe conferenze con Dmitri Large. Anzi, conferenze con tutti. Anthony si incontrò con loro per giornate interminabili, e poi quelli vennero a parlare con William. Alla fine, dopo una tormentosa gravidanza, nacque quello che in seguito fu chiamato il Computer Mercurio. Poi William ritornò a New York, con un certo sollievo. Non aveva intenzione di restarci (l'avrebbe creduto possibile, due mesi prima?), ma c'era
molto da fare all'Istituto Omologico. Furono necessarie altre conferenze, naturalmente, per spiegare al suo gruppo di laboratorio quello che succedeva e perché lui doveva prendersi un congedo, e come dovevano mandare avanti i loro progetti senza di lui. Poi ci fu un arrivo a Dallas, molto più complicato della prima volta, con l'attrezzatura essenziale e due giovani assistenti, per quello che sarebbe stato un soggiorno a tempo indeterminato. William non si guardava mai indietro, in senso figurato. Il suo laboratorio e le relative esigenze svanirono dal suo pensiero. Era completamente votato a quel nuovo compito. VII Per Anthony, quello fu il periodo peggiore. Il sollievo provato durante l'assenza di William non era penetrato in profondità, e incominciò il tormento nervoso... chiedersi se magari William non sarebbe tornato. Non poteva decidere di mandare un altro... chiunque altro? Qualcuno con una faccia diversa, in modo che Anthony non dovesse avere la sensazione di essere la metà di un mostro con due corpi? E invece, William tornò. Anthony aveva guardato l'aereo avvicinarsi silenzioso, l'aveva guardato scaricare, da lontano. Ma anche da quella distanza aveva riconosciuto William. Bastò. Anthony se ne andò. Quel pomeriggio andò da Dmitri. «Sicuramente, Dmitri, non è necessario che io rimanga. Abbiamo già chiarito i dettagli, e può sostituirmi qualcun altro.» «No. No» disse Dmitri. «L'idea è stata sua. Deve andare fino in fondo. È assurdo dividere i meriti, quando non è necessario.» Anthony pensò: Nessun altro vuole addossarsi il rischio. C'è ancora la possibilità di un fiasco. Avrei dovuto capirlo. L'aveva capito, infatti, ma disse, impassibile: «Lei si rende conto che non posso lavorare con William». «Perché no?» Dmitri si finse stupito. «Ve la siete cavata così bene, insieme.» «È stato uno sforzo immane, Dmitri, e non ce la faccio più. Non crede che io lo sappia?» «Mio caro amico! Lei dà troppo peso alla cosa. Certo, gli uomini vi guardano con tanto d'occhi. Sono umani, dopotutto. Ma si abitueranno. Io
mi sono abituato.» Non è vero, bugiardo, pensò Anthony. Disse: «Io non mi sono abituato affatto». «Lei non vede la cosa nella giusta prospettiva. I suoi genitori erano strani... ma dopotutto, quello che hanno fatto non era illecito, era solo strano, solo strano. Comunque, non è colpa sua, e neppure di William. Non siete da biasimare... nessuno dei due.» «Portiamo addosso il marchio» disse Anthony, indicandosi il volto con un rapido gesto della mano. «Non è il marchio che crede lei. Io vedo le differenze. Lei è chiaramente più giovane. Ha i capelli più ondulati. Solo a prima vista c'è una... una similarità. Suvvia, Anthony, avrà tutto il tempo che vuole, tutta l'assistenza che le occorre, tutta l'attrezzatura che può servirle. Sono sicuro che andrà tutto meravigliosamente. Pensi alla soddisfazione!» Anthony cedette, naturalmente, e accettò almeno di aiutare William a sistemare l'attrezzatura. Anche William sembrava sicuro che tutto sarebbe andato meravigliosamente: non con la frenesia di Dmitri, ma con una tranquilla certezza. «Si tratta solo di stabilire le connessioni giuste» disse. «Anche se devo ammettere che il problema è enorme. Il tuo compito consisterà nel disporre le impressioni sensorie su uno schermo indipendente, in modo che possiamo esercitare... beh, non posso dire un controllo manuale, vero? In modo che possiamo esercitare un controllo intellettuale per assumere il comando della situazione, se è necessario.» «Questo si può fare» disse Anthony. «E allora muoviamoci. Avrò bisogno d'una settimana almeno per disporre le connessioni e per accertarmi delle istruzioni...» «Programmazione» disse Anthony. «Beh, questa è casa tua, quindi userò la tua terminologia. Io e i miei assistenti programmeremo il Computer Mercurio, ma non a modo tuo.» «Spero di no. Ci vorrebbe un omologista per preparare un programma molto più sottile di quello che potrebbe fare un semplice telemetrista.» Non cercò di nascondere l'autoironia della sua risposta. William finse di non aver notato il tono, e accettò le parole. Disse: «Cominceremo in modo semplice. Faremo camminare il robot». VIII
Una settimana dopo, il robot camminava nell'Arizona, a mille miglia di distanza. Camminava rigido, e qualche volta cadeva. Qualche volta urtava con la caviglia contro un ostacolo, ruotava su un piede, e ripartiva in una direzione sorprendentemente diversa. «È come un bambino piccolo che impara a camminare» diceva William. Di tanto in tanto, Dmitri veniva a vedere i progressi. «È straordinario» diceva. Anthony non la pensava come lui. Trascorsero settimane, poi mesi. Il robot faceva progressivamente di più, via via che al Computer Mercurio veniva progressivamente imposta una programmazione più complessa. (William tendeva a chiamare «cervello» il Computer Mercurio, ma Anthony non voleva permetterglielo.) E tutti quei progressi non erano sufficienti. «Non basta, William» disse, alla fine. La notte prima non aveva dormito. «Non è strano?» chiese serenamente William. «Stavo per dire che credevo che stessimo per spuntarla.» Anthony si dominò a stento. La tensione di lavorare con William e di osservare il robot che pasticciava era insopportabile. «Ho intenzione di dimettermi, William. Dall'intera baracca. Mi dispiace. Non è per te...» «Ma è per me, Anthony.» «Non si tratta interamente di te, William. È un fiasco. Non ce la faremo. Guarda con che goffaggine si comporta il robot, sebbene sia sulla Terra, a sole mille miglia da qui, con il tempo di andata-e-ritorno del segnale limitato a una frazione di secondo. Su Mercurio ci sarà un divario di minuti, minuti di cui il computer dovrà tener conto. È una pazzia pensare che funzionerà.» William disse: «Non dimetterti, Anthony. Non puoi dimetterti proprio adesso. Propongo di mandare il robot su Mercurio. Io sono convinto che sia pronto». Anthony proruppe in una risata rumorosa, insultante. «Sei pazzo, William.» «No. Tu sembri convinto che su Mercurio sarà più difficile, ma non sarà così. È più difficile sulla Terra. Questo robot è progettato per una gravità pari a un terzo di quella terrestre, e lavora in Arizona, in condizioni di gravità piena: È progettato per funzionare a una temperatura di 400° gradi centigradi, e là ce ne sono 30. È progettato per funzionare nel vuoto, e lavora in un brodo d'atmosfera.» «Quel robot può reggere la differenza.»
«La struttura metallica la può reggere, credo: ma il Computer, qui? Non lavora bene, con un robot che non si trova nell'ambiente per il quale è stato realizzato. Senti, Anthony, se vuoi un computer complesso come un cervello, devi concedergli qualche idiosincrasia. Avanti, mettiamoci d'accordo. Se tu mi aiuterai a ottenere l'invio del robot su Mercurio, resterà in viaggio per sei mesi; e io mi prenderò un periodo corrispondente di vacanza. Ti libererai di me.» «E chi si prenderà cura del Computer Mercurio?» «Ormai tu hai capito abbastanza bene come funziona, e avrai qui i miei due collaboratori che ti aiuteranno.» Anthony scrollò la testa con aria di sfida. «Non posso assumermi la responsabilità del Computer, e non mi assumerò quella di proporre che il robot venga inviato su Mercurio. Non funzionerà.» «Io sono sicuro che funzionerà.» «Non puoi esserne sicuro. E la responsabilità è mia. Daranno la colpa a me. Tu ne resterai fuori.» Più tardi, Anthony lo ricordò come un momento cruciale. William avrebbe potuto cedere. Anthony avrebbe potuto dimettersi. E tutto sarebbe stato perduto. Ma William disse: «Io ne resterò fuori? Stai a sentire: papà aveva quell'attaccamento per mamma. D'accordo. Dispiace anche a me. Mi dispiace più che a chiunque altro... ma ormai è fatta, e ne è risultato qualcosa di strano. Quando parlo di papà, mi riferisco anche a tuo padre, e sono tanti che possono dirlo: due fratelli, due sorelle, un fratello e una sorella. E poi, quando parlo della mamma, mi riferisco a tua madre, e sono tanti quelli che possono dirlo. Ma non conosco altri due individui, non ho mai sentito parlare di altri due individui che abbiano in comune il padre e la madre». «Lo so» disse torvo Anthony. «Sì, ma guarda la cosa dal mio punto di vista» si affrettò a proseguire William. «Io sono un omologista. Lavoro sugli schemi genetici. Hai mai pensato ai nostri schemi genetici? Abbiamo gli stessi genitori, il che significa che i nostri due schemi genetici sono più simili di qualunque altra coppia di schemi dell'intero pianeta. Le nostre facce lo dimostrano.» «So anche questo.» «Quindi, se il progetto dovesse funzionare, e se tu ci guadagnassi la gloria, sarebbe il tuo schema genetico a rivelarsi estremamente utile per l'umanità... e questo vorrebbe dire altrettanto per il mio schema genetico.
Non capisci, Anthony? Ho in comune con te i genitori, la faccia, lo schema genetico, e perciò anche la gloria o l'insuccesso. È una cosa mia quanto tua, e se comporta merito o demerito, lo comporta per tutti e due. Io devo essere interessato al tuo successo. Ho una motivazione che non ha nessun altro, sulla Terra... una motivazione puramente egoistica, così egoistica che puoi avere la certezza che esiste. Sono dalla tua parte, Anthony, perché tu sei quasi me stesso!» Si guardarono a lungo. Per la prima volta, Anthony lo fece senza notare la faccia che avevano in comune. William disse: «Quindi, chiediamo che il robot venga inviato su Mercurio». E Anthony si arrese. Quando Dmitri ebbe approvato la richiesta - se l'aspettava, dopotutto - Anthony trascorse quasi tutta la giornata immerso in profonda meditazione. Poi andò in cerca di William e disse: «Ascolta!». Vi fu una lunga pausa, che William non interruppe. Anthony ripeté: «Ascolta!». William attese, paziente. Anthony disse: «Non c'è affatto bisogno che tu te ne vada. Sono sicuro che non ti andrebbe, l'idea di lasciare a qualcun altro il compito di curarsi del Computer Mercurio». William disse: «Vuoi dire che hai intenzione di andartene tu?». Anthony disse: «No, resterò anch'io». William disse: «Non sarà necessario che ci vediamo spesso». Per Anthony, era stato come parlare mentre due mani gli stringevano la trachea. La pressione parve accentuarsi, ma riuscì a formulare l'affermazione più difficile. «Non è necessario che ci evitiamo. Non è necessario.» William sorrise, piuttosto incerto. Anthony non sorrise: se ne andò in fretta. IX William alzò gli occhi dal libro. Era passato un mese, almeno, da quando aveva smesso di stupirsi nel vedere entrare Anthony. Chiese: «C'è qualcosa che non va?». «E chi può dirlo? Stanno per effettuare l'atterraggio morbido. Il Computer Mercurio è attivato?»
William sapeva che suo fratello sapeva perfettamente come stavano le cose con il Computer, ma disse: «Per domattina, Anthony». «E non ci sono problemi.» «Nessun problema.» «Allora basta che attendiamo l'atterraggio morbido.» «Sì.» Anthony disse: «Qualcosa andrà male». «Non andrà male niente.» «Tanta fatica sprecata.» «Non è ancora sprecata. Non lo sarà.» Anthony disse: «Forse hai ragione tu». Con le mani in tasca si allontanò, si fermò sulla porta. «Grazie!» «Di che, Anthony?» «Del... del conforto.» William sorrise ironicamente: era un sollievo che le sue emozioni non trasparissero. X Al momento cruciale era presente, in pratica, l'intero staff del Progetto Mercurio. Anthony, che non aveva niente di speciale da fare, stava indietro, con gli occhi fissi sui monitor. Il robot era stato attivato, e arrivavano i messaggi visuali. Almeno, arrivavano in forma equivalente al visuale. Per ora non mostravano altro che un fioco barlume luminoso, che era presumibilmente la superficie di Mercurio . Sullo schermo fluttuavano ombre, probabilmente irregolarità della superficie. Anthony non poteva capirlo a occhio, ma quelli che stavano analizzando i dati mediante metodi più sottili di quelli di cui poteva disporre l'occhio nudo sembravano calmi. Non s'era accesa nessuna delle piccole spie rosse che avrebbero segnalato un'emergenza. Anthony fissava gli osservatori, più che lo schermo. Avrebbe dovuto essere giù, al Computer, assieme a William e agli altri. Il Computer sarebbe entrato in azione solo dopo l'atterraggio morbido. Avrebbe dovuto essere laggiù. Ma non poteva. Le ombre fluttuarono più rapide sullo schermo. Il robot stava scendendo... troppo velocemente? Certo, troppo velocemente! Vi fu un'ultima confusione e poi un cambiamento di fuoco, e la chiazza
indistinta diventò più scura, poi più fioca. Si sentì un suono, e poi trascorsero parecchi secondi, prima che Anthony si rendesse conto che quanto aveva udito significava: «Atterraggio morbido! Atterraggio morbido effettuato!». Il mormorio che si levò divenne un emozionato brusio di soddisfazione, fino a quando sullo schermo si operò un altro cambiamento, e il suono delle parole e delle risate umane s'interruppe, come se fosse andato a urtare contro un muro di silenzio. Perché lo schermo cambiò: cambiò, diventò nitido. Nella fulgida, fulgidissima luce solare, sfolgorante attraverso i filtri, adesso potevano vedere un macigno... nitido, di un bianco abbacinante da una parte, inchiostro su inchiostro dall'altra. Si spostò sulla destra, poi di nuovo sulla sinistra, come se due occhi avessero guardato verso sinistra e poi verso destra. Una mano metallica apparve sullo schermo, come se il robot stesse guardando una parte di se stesso. Fu la voce di Anthony a gridare, alla fine: «Il Computer è inserito!». Udì le parole come se fosse stato un altro a pronunciarle; corse fuori, si precipitò giù per la scala, lungo un corridoio, lasciandosi alle spalle il brusio di voci. «William» gridò, irrompendo nella sala del Computer, «è perfetto, è...». Ma William aveva alzato la mano. «Stt. Per favore. Non voglio che entrino altre sensazioni, oltre a quelle del robot.» «Vuoi dire che può sentirci?» mormorò Anthony. «Forse no, ma non ne sono sicuro.» C'era un altro schermo, più piccolo, nella sala del Computer Mercurio. La scena, lì, era diversa, e cambiava: il robot si stava muovendo. William disse: «Il robot si muove a tentoni. È inevitabile che i suoi passi siano impacciati. C'è un divario di sette minuti tra stimolo e reazione, e bisogna tenerne conto». «Ma cammina già con maggiore sicurezza di quanto abbia mai fatto nell'Arizona. Non ti sembra, William? Non ti sembra?» Anthony stringeva la spalla di William, la scuoteva, senza distogliere gli occhi dallo schermo. William disse: «Ne sono sicuro, Anthony». Il sole bruciava in un caldo mondo di contrasti, bianco e nero, il Sole bianco contro il cielo nero, e il bianco terreno ondulato, screziato d'ombra nera. Il fulgido, dolce profumo del Sole su ogni centimetro quadrato di metallo irraggiato contrastava con l'insinuante morte dell'aroma sull'altra par-
te. Alzò la mano e la fissò, contando le dita. Caldo-caldo-caldo... si voltò, immerse ogni dito, a uno a uno, nell'ombra delle altre dita, e il caldo morì lentamente in un cambiamento del tatto che gli permetteva di sentire il vuoto, pulito e gradevole. Eppure non era un vuoto assoluto. Si raddrizzò e alzò le braccia sopra la testa, tendendole, e i punti sensibili dei polsi sentirono i vapori... il sottile, lieve contatto dello stagno e del piombo che ondeggiavano attraverso il mercurio. Il sapore più intenso gli saliva dai piedi: i silicati di ogni varietà, distinti dal chiaro contatto e dal sapore, separato-e-unito, di ogni ione metallico. Mosse lentamente un piede sulla polvere incrostata, sentì i cambiamenti come una sinfonia sommessa, non interamente casuale. E soprattutto il Sole. Alzò gli occhi per guardarlo, grande e fulgido e caldo, e udì la sua gioia. Osservò il lento ascendere delle protuberanze intorno all'orlo, ascoltò il loro suono crepitante e gli altri suoni lieti su quella grande faccia. Quando affievolì la luce di sfondo, il rosso dei vapori ascendenti d'idrogeno, apparvero come trilli d'un dolce contralto, e il basso profondo delle macchie tra i fischi smorzati delle esili faculae in movimento, e l'occasionale, sottile gemito di un'eruzione, il ticchettio dei raggi gamma e delle particelle cosmiche, e soprattutto, in ogni direzione, il lieve, morente e sempre rinnovato sospiro della sostanza del Sole che saliva e si abbassava eternamente in un vento cosmico che spirava e lo inondava di splendore. Spiccò un balzo, si sollevò lentamente nell'aria, con una libertà che non aveva mai conosciuto, e spiccò un altro balzo quando atterrò, e corse, e saltò, e corse ancora, con un corpo che reagiva perfettamente a quel mondo fulgido, a quel paradiso in cui si trovava. Era stato per tanto tempo uno straniero sperduto... e adesso era finalmente in paradiso. William disse: «Va tutto bene». «Ma cosa sta facendo?» gridò Anthony. «Va tutto bene. La programmazione funziona. Ha collaudato i suoi sensi. Ha effettuato le varie osservazioni visuali. Ha schermato il Sole e l'ha studiato. Ha controllato l'atmosfera e la natura chimica del suolo. Tutto va per il meglio.» «Ma perché corre?»
«Credo che questa sia un'idea tutta sua. Se vuoi programmare un computer complicato come un cervello, devi aspettarti che abbia anche idee sue.» «Ma correre? Saltare?» Anthony girò la faccia ansiosa verso William. «Si farà male. Tu puoi dirigere il Computer. Escludilo. Prendi la situazione in pugno. Fallo fermare.» E William disse, bruscamente: «No. Correrò il rischio che si faccia male. Non capisci? È felice. Era sulla Terra, un mondo che non era in grado di affrontare. Adesso è su Mercurio, con un corpo perfettamente adattato all'ambiente, per quanto lo potevano adattare cento scienziati specialisti. Per lui è il paradiso. Perciò, lascia che se lo goda». «Che se lo goda? Ma è un robot!» «Non sto parlando del robot. Sto parlando del cervello... il cervello... qui.» Tese la mano. Il Computer Mercurio, racchiuso nel vetro, collegato meticolosamente e delicatamente dai cavi, respirava e viveva nella sua integrità preservata con estrema sottigliezza. «È Randall, in paradiso» disse William. «Ha trovato il mondo per il quale fuggiva autisticamente il nostro. Ha un mondo in cui il suo nuovo corpo si integra perfettamente, in cambio del mondo al quale il suo vecchio corpo non si adattava.» Anthony fissò lo schermo, sbalordito. «Sembra che si stia calmando.» «Naturalmente» disse William. «E svolgerà anche meglio il suo lavoro, perché è felice.» Anthony sorrise e disse: «Allora ce l'abbiamo fatta, tu e io? Andiamo a raggiungere gli altri e a lasciare che ci adorino, William?». William chiese: «Insieme?». Anthony lo prese a braccetto. «Insieme, fratello!» RACCONTI PUBBLICATI NEL PRESENTE VOLUME LA BARACCA DEL CANTIERE, di Clifford D. Simak. Titolo originale: Construction Shack. Pubblicato per la prima volta in «If», gennaio-febbraio 1973. © Copyright 1973 Clifford D. Simak. Ristampato per concessione dell'autore e dell'agente dell'autore, Robert P. Mills Ltd, 156 East 52 Street, New York, N. Y. 10022. LA REALTÀ DI SUSIE, di Bob Stickgold. Titolo originale: Susie's Reality. Pubblicato per la prima volta in «If»,
maggio-giugno 1973. © Copyright 1973 Bob Stickgold. Ristampato per concessione dell'autore. MNARRA MOBILIS, di Sydney J. Van Scyoc. Titolo originale: Mnarra Mobilis. Pubblicato per la prima volta in «If», maggio-giugno 1973. © Copyright 1973 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. WESTWIND, di Gene Wolfe. Titolo originale: Westwind. Pubblicato per la prima volta in «If», luglioagosto 1973. © Copyright 1973 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore e dell'agente dell'autore, Virginia Kidd. MORTE E DESIGNAZIONE TRA GLI ASADI, di Michael Bishop. Titolo originale: Death and Designation Among The Asadi. Pubblicato per la prima volta in «If», gennaio-febbraio 1973. © Copyright 1973 UPD Publishing Corporation. Ristampato per conto dell'autore e dell'agente dell'autore, Virginia Kidd. EDITORIALE, di Fred Pohl. Titolo originale: Guest Editorial. Pubblicato per la prima volta in «If», maggio-giugno 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. LE ALI VENUTE DALL'OMBRA, di Fred Saberhagen. Titolo originale: Wings Out Of Shadow. Pubblicato per la prima volta in «If», marzo-aprile 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. STRANIERO IN PARADISO, di Isaac Asimov. Titolo originale: Stranger In Paradise. Pubblicato per la prima volta in «If», maggio-giugno 1974. © Copyright 1974 UPD Publishing Corporation. Ristampato per concessione dell'autore. FINE