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Don Delillo Underworld. Traduzione di Delfina Vezzoli. Copyright 1997 Don Delillo. Copyright 1999 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.
Il 3 ottobre 1951, al Polo Grounds di New York, si gioca una leggendaria partita di baseball tra i Giants e i Dodgers. Della palla con cui viene battuto l'altrettanto leggendario fuoricampo che assicura la vittoria e il campionato ai Giants si impadronisce un ragazzino nero di Harlem. La palla viene via via rubata, venduta, regalata: la ritroveremo anni dopo in possesso di Nick Shay, un waste manager, un dirigente dell'industria del riciclaggio di origine italiana che nel '51 era a sua volta un ragazzino, un passo più in la, nel Bronx. Nel romanzo di Delillo i passaggi di mano della mitica palla sono il filo narrativo per la costruzione di un gigantesco quadro dell'America dall'inizio della guerra fredda fino al crollo dell'Unione Sovietica. Scorie (non solo atomiche) e cimeli (non solo dello sport) sono i “resti” anche metaforici dello scontro tra le forze della storia e gli ideali della nazione americana. La stessa metafora si incarna nel personaggio di Nick, in possesso del cimelio del baseball e incaricato dell'“occultamento” dei residui inesplosi della guerra mai combattuta. Nel grande affresco di un cinquantennio compaiono, insieme ai personaggi inventati (oltre a Nick, Klara Sax, scultrice che trasforma il trash in opera d'arte, e decine di anonimi americani di ogni razza e cultura), i protagonisti della storia politica, sociale e mediatica del dopoguerra, da John Kennedy a Lenny Bruce, da J. Edgar Hoover a Frank Sinatra. La penna di Delillo spazia dalla partita di campionato alla festa di Truman Capote al Plaza di New York, dalle imprese del Texas Highway Killer alla tournée dei Rolling Stones, affondando nella
microstoria e alzandosi sopra la Storia, utilizzando un originale e avvincente montaggio narrativo e i più diversificati linguaggi della nazione multirazziale. Don Delillo è nato nel 1936 nel Bronx, da una famiglia di origine italiana. Vive lontano dalle mondanita della societa letteraria, ma pubblica sulle più importanti riviste degli Stati Uniti, dal “New Yorker” all'“Harper's”, e lavora molto per il teatro. E' considerato, insieme a Pynchon, il grande maestro della narrativa postmoderna americana. Tra i suoi volumi pubblicati in Italia: Rumore bianco (ora negli Einaudi Tascabili), Cane che corre, Libra, I nomi, Giocatori, Mao II, Great Jones Street.
Alla memoria di mia madre e mio padre. Prologo: Il trionfo della morte Parla la tua lingua, l'americano, e c'è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza. E' un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c'è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all'ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto - questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno. Sono i desideri su vasta scala a fare la storia. Lui è solo un ragazzo con una passione precisa, ma fa parte di una folla che si sta radunando, anonime migliaia scese da autobus e treni, gente che in strette colonne attraversa marciando il ponte girevole sul fiume, e sebbene non siano una migrazione o una rivoluzione, un vasto scossone dell'anima, si portano dietro il calore pulsante della grande citta e i loro piccoli sogni e delusioni, quell'invisibile nonsoché che incombe sul giorno - uomini in cappello di feltro e marinai in franchigia, il ruzzolio distratto dei loro pensieri, mentre vanno alla partita. Il cielo è basso e grigio, il grigio torbido della risacca. E' sul bordo del marciapiede insieme agli altri. A quattordici anni è il più giovane, e si capisce che è in bolletta sparata dall'ansiosa inclinazione del suo corpo, come se fosse sulle spine. Non l'ha mai fatta prima questa cosa, e non conosce nessuno degli altri, che a loro volta hanno l'aria di non conoscersi, ma questo non è il tipo di impresa in cui possono lanciarsi da soli o a due a due, così si sono trovati a furia di occhiate furtive per individuare il compagno spericolato, ed eccoli qui, ragazzi bianchi e ragazzi neri, sbucati dalla metropolitana o dalle vicine strade di Harlem, ombre smilze, bandidos, quindici in tutto, e secondo la leggenda corrente, per uno che verra beccato forse quattro ce la faranno. Aspettano nervosamente che le persone in possesso del biglietto
passino oltre i tornelli, l'ultimo drappello di tifosi, di tiratardi e bighelloni. Guardano i taxi che stanno arrivando all'ultimo minuto da downtown e gli uomini imbrillantinati che si incamminano svelti verso i botteghini, finanzieri, nottambuli d'alto bordo e celebrità di Broadway, pieni di arie, togliendosi i bioccoli dalle maniche di mohair. Loro stanno sul bordo del marciapiede e osservano senza dare nell'occhio, assumendo l'aria vagamente scocciata dei perdigiorno. Tutta l'agitazione si è placata, il chiacchiericcio e il trambusto prepartita, gli ambulanti che si lavorano i marciapiedi intasati di gente sventolando ruolini segnapunti e bandierine e lanciando richiami come antiche cantilene, uomini sparuti che cercano di smerciare distintivi e berretti, tutti scomparsi ormai, tornati alle loro stanze d'affitto nelle strade desolate. I ragazzi sono sul bordo del marciapiede, in attesa. I loro occhi si stanno incupendo, emanano meno luce. Qualcuno si toglie le mani di tasca. Sono in attesa, poi scattano, uno di loro scatta, un irlandese, al grido di Geronimo. Ci sono quattro tornelli appena oltre i due botteghini. Il ragazzo più giovane è anche il più smilzo, si chiama Cotter Martin, smilzo e allampanato, in maglietta e tuta, e cerca di non sentirsi condannato in partenza - si è piazzato in coda all'assalto, e corre e grida insieme agli altri. Gridano perché così si sentono coraggiosi, o perché vogliono annunciare la loro temerarieta. I volti dei ragazzi sono maschere urlanti, occhi stretti e bocche di gomma, mentre corrono alla disperata, cercando di infilarsi nelle corsie tra i botteghini, urtando fianchi e gomiti senza smettere di urlare. Dietro i vetri, le facce dei cassieri sembrano cipolle appese a un filo. Cotter vede i primi saltatori scavalcare le sbarre. Due di loro si scontrano a mezz'aria e atterrano in un groviglio scomposto. L'uomo che controlla i biglietti ne blocca uno con una presa di testa, e in quella il berretto gli scivola sulla schiena e allora cerca di afferrarlo con un colpo alla cieca e allo stesso tempo - tutto avviene allo stesso tempo - tiene d'occhio gli altri corridori a ostacoli per evitare di essere calpestato. Stanno ancora correndo e saltando, ed è una forma di volo dissennata, la loro, quei corpi ammassati, mentre sfondare i cancelli diventa una realta. Saltano troppo presto o troppo tardi e vanno a sbattere contro i pali e le sbarre radiali, si arrampicano l'uno sulla schiena dell'altro come in un cartone animato, e che razza di imbecilli devono sembrare alla fila di gente davanti al baracchino degli hot dog al di la dei tornelli, che razza di svitati - una fila quasi tutta di uomini che si sono girati a guardare, con le mascelle al lavoro sulla carne sugosa e le bolle di grasso che turbinano sulla lingua, e il venditore in fondo che rimane come pietrificato a eccezione di una mano che si produce in un movimento automatico, continuando a spennellare la senape con una spatola. L'urlo dei ragazzi multicolori rimbalza sonoro sul cemento spesso. A Cotter pare di intravedere un passaggio vicino al tornello sulla destra. Si spoglia di tutto quello che non gli serve per spiccare il salto. Alcuni stanno ancora scavalcando, altri ci stanno pensando su, alcuni hanno bisogno di un buon taglio di capelli, altri hanno la ragazza con il golfino d'angora, e il resto è atterrato tra la folla e sta cercando di rialzarsi e disperdersi. Un paio di guardie dello stadio sta correndo rumorosamente giù per la rampa. Cotter si disfa di questi elementi man mano che gli si presentano, si disfa di mille
ondate d'informazione che lo stanno colpendo a fior di pelle. Ha lo sguardo fisso sulle sbarre di ferro che si irradiano dal palo. Acquista velocita e sembra perdere la sua goffaggine da spilungone, la sbracata svogliatezza da ormoni ed estraneita e tutte le incertezze che contrassegnano la sua adolescenza. E' solo un ragazzo che corre, una figura indistinta di ragazzo di strada, ma come la corsa svela alcune chiavi dell'esistenza, come il corridore si spoglia alla coscienza, così il ragazzo dalla pelle scura sembra aprirsi al mondo, così la scarica di adrenalina di una dozzina di falcate lo rende eloquente. Poi alza i piedi ed è in aria, e si sente elegante, impeccabile, efficiente persino, come un uomo d'affari in volo da Kansas City con una ventiquattrore piena di assegni circolari. Ha la testa incassata, la gamba sinistra sta scavalcando le sbarre. E in un attimo interminabile, distaccato, discontinuo, vede esattamente dove atterrera e da che parte scappera, e sebbene sappia che li avra alle costole nel preciso istante in cui tocchera terra, e che a partire da quel momento sara in pericolo per parecchie ore - costretto a guardarsi continuamente le spalle - adesso ha meno paura. Atterra lieve e supera con passo sciolto il controllore che sta cercando a tastoni il berretto caduto a terra, e capisce senza ombra di dubbio - lo capisce fino in fondo, fin nei recessi della coscienza, la sente nel suo cuore di corridore, la martellante certezza - di essere imprendibile. Ecco che arriva un poliziotto in tenuta municipale con tanto di pistola, manette, torcia e manganello che gli ballonzolano alla cintura e il blocchetto delle multe pigiato in tasca. Cotter gli fa uno sgambetto che per poco non lo mette in ginocchio e i mangiatori di hot dog si piegano in due per guardare il ragazzo che sterza e si allontana accelerando con scioltezza, salutando lo sbirro con un'alzatina di dito. Ogni tanto gli capita di sorprendersi così, a fare gesti azzardati che saltano fuori allegramente da un capriccio insospettato. Corre su per una rampa buia e sbuca in un intrico di travi e piloni, sotto una cascata di luce. Sente il crescendo degli ultimi accordi dell'inno nazionale e vede il grande ferro di cavallo delle tribune e quella distesa d'erba che gli da sempre la sensazione di essere uscito dalla propria vita - lo splendore strigliato che ondeggia e si inchina dalla zona di terra rastrellata del diamante fino alle alte recinzioni verdi. E' emozionante come una rivelazione. Corre rallentando la velocita e allunga il collo per controllare le file di posti e trovare un angolino poco in vista dove incunearsi, magari dietro un pilone. Imbocca una corsia nella sezione 35 e si cala nel caldo olezzante della massa di tifosi, si immerge nel fumo che ristagna sotto la pensilina della seconda gradinata, sente il chiacchiericcio, entra nel fitto del brusio, sente i lanci di riscaldamento schioccare nel guantone del ricevitore, una serie di scoppi che si portano dietro uno strascico di rumori di fondo. Poi si perde tra la folla. Nella cabina radio stanno parlando del numero degli spettatori. Sembra si aggiri sui trentacinquemila, e come si spiega? Se si pensa alle storie intricate delle squadre, alla fede e alla passione dei tifosi e a come queste forze siano attive in ogni angolo della citta, se si pensa alla partita in sé, una questione di vita o di morte, la
gara decisiva di uno spareggio al meglio di tre partite, con nomi come i Giants e i Dodgers, e si calcola quanto i giocatori si odino apertamente, e si ricorda che razza di annata è saltata fuori questa volta, con il campionato che ha portato la citta a un'estasi da infarto, a un brivido letale che richiederebbe un parolone preso a prestito dal tedesco per spiegare il misto di piacere, timore e suspense che ha provocato, e se si pensa alla fedelta di sangue, è questo che stanno dicendo in cabina - all'amore-per-la-squadra che corre da un quartiere all'altro e attraversa le periferie sonnolente per allargarsi fino alle contee delle mele e al nord selvaggio, se si pensa a tutto questo, be', come si spiegano ventimila posti vuoti? Il tecnico del suono dice: - E' tutto il giorno che tira a piovere. Sai com'è, va a finire che la gente dice chi se ne frega della partita. Il produttore sta appendendo una coperta in cabina a mo' di divisorio per separare la troupe da quelli della Kmox appena arrivati da Saint Louis. Devono stringersi perché non si sa dove altro sistemarli. - Tieni conto che non c'è stata nessuna prevendita, - ricorda il produttore al tecnico del suono. E il tecnico dice: - In più i Giants ieri hanno perso alla grande, e questo è un brutto affare, perché una sconfitta schiacciante semina malumore in tutti i quartieri della citta. Credimi, io ne so qualcosa. La gente si perde d'animo. E' come se morissero in massa. Russ Hodges, che commenta le partite per la Wmca, è la voce dei Giants - Russ ha la laringe stremata e tutti i sintomi di un brutto raffreddore e non dovrebbe accendersi una sigaretta e invece eccolo lì che fuma, dicendo: - Bah, sara anche vero, ma non sono sicuro che ci sia una spiegazione logica. Le masse non sono mai prevedibili. Russ ha la mascella un po' ispessita, ma ci sono ancora tracce del ragazzotto semplice nei suoi occhi e nel suo sorriso, nei capelli che sembrano tagliati con la scodella e nel vestito informe che potrebbe appartenere praticamente a chiunque. E' possibile commentare partite, seguirle fase per fase quasi ogni giorno per tutta l'estate e non cristallizzarsi in qualche versione del passato? Ora guarda il campo da gioco la fuori, con le gradinate sovraffollate e gli spazi in compenso troppo ampi dei corridoi e il centro vuoto. Il grande Longines quadrato che spunta sopra la clubhouse. Tutt'intorno pennellate di colore, un affresco di cappelli e di facce, il verde delle tribune e il bruno fulvo delle corsie di base. Russ si sente davvero fortunato a essere lì. E' il gran giorno, e sara lui a commentare la partita, proprio lì, al Polo Grounds - un nome che ama, una preziosa eco di cose e di tempi andati, prima che la guerra stravolgesse il secolo. Russ pensa che tutti gli astanti dovrebbero sentirsi fortunati perché sta per succedere qualcosa di grosso, qualcosa sta montando nell'aria. Magari solo la sua febbre. Però si scopre a pensare a quella volta che suo padre l'aveva portato a vedere l'incontro tra Dempsey e Willard a Toledo, quella sì che era stata una cosa grandiosa, impressionante, il Quattro Luglio, quarantuno gradi e una folla di uomini in maniche di camicia e paglietta, molti con un fazzoletto sotto il cappello fin giù sulle spalle, come arabi da barzelletta, e l'enormita dei colpi incassati dal grosso Jess su quel ring incandescente, con il sudore e il sangue che gli velavano il viso ogni volta che Dempsey lo colpiva. Quando si vede una cosa del genere, una cosa che diventa un
servizio del cinegiornale, ci si incomincia a sentire portatori di un solenne brandello di storia. Nel secondo inning Thomson batte uno slider e spedisce la palla dritta oltre la terza base. Lockman allarga la curva mentre corre verso la seconda base, guardando verso l'esterno sinistro. Pafko si sposta verso il muro per giocare il rimbalzo. La gente è in piedi su entrambe le tribune di sinistra, si sporge dalle prime file, e alcuni tirano pezzi di carta oltre il bordo, ruolini segnapunti stracciati, bustine di fiammiferi fatte a pezzi, ci sono bicchieri di carta appallottolati, tovagliolini oleati di hot dog, ci sono fazzoletti di carta germinosi schiacciati da giorni nelle profondita di tasche capaci, e il tutto piove intorno a Pafko. Frattanto Thomson avanza con scioltezza, gira elegante intorno alla prima base, si inclina nella corsa. Pafko fa un bel lancio a Cox. Thomson procede a testa bassa verso la seconda, senza forzare l'andatura, poi vede Lockman sul sacchetto della base che lo guarda semimbambolato, con l'ombra di una domanda sulle labbra. Giorni di cieli plumbei e tutte le ore al microfono della settimana prima, il mal di gola, la tosse, Russ è febbricitante e stazzonato viaggi in treno, nervosismo, notti in bianco, eppure commenta il gioco con le solite divagazioni senza pretese, solo che oggi la sua voce nasale e strascicata da uomo del Midwest è un po' rasposa. Cox sbircia da sotto il berretto e fa un tiro di tre quarti a Robinson. Guardate Mays che intanto trotterella verso il piatto trascinando la mazza per terra. Robinson prende il lancio e fa una giravolta verso Thomson, timidamente fermo a circa un metro e mezzo dalla seconda. Alla gente piace vedere la carta cadere ai piedi di Pafko, o magari svolazzargli sulle spalle, o atterrargli sul berretto. La recinzione è alta quasi sei metri e lui è irraggiungibile anche dal più lungo degli sforzi per toccarlo, quindi devono accontentarsi di tempestarlo con le cartacce. Guardate Durocher sugli scalini davanti alla panchina, il manager dei Giants, Leo la roccia, il più grintoso della gang del gasometro, una faccia uscita dritta dalle guerre galliche, che dice col pugno davanti alla bocca: - Oh cazzo di un merdosissimo stronzo. Vicino alla panchina dei Giants, nel box personale di Leo, quattro uomini guardano Robinson che elimina Thomson per toccata. Sono per tre quarti gente di spettacolo, Frank Sinatra, Jackie Gleason e Toots Shor, vecchi compagni di sbronze, e con loro c'è un uomo elegante con la faccia da bulldog, un certo J' Edgar Hoover. Cosa ci fa il federale numero uno con questi damerini? Be', Edgar, seduto nel posto d'angolo, ha l'aria di passarsela benone, e sorride delle grossolane facezie che rimbalzano nonstop dal cantante melodico al comico, al gestore di nightclub. Certo, preferirebbe essere all'ippodromo, ma questo tipo di compagnia lo tiene allegro in qualsiasi circostanza. Gli piace circondarsi di stelle del cinema e celebrita dello sport, di maestri del pettegolezzo quali Walter Winchell, anche lui alla partita oggi, seduto con i dirigenti dei Dodgers. Fama e segretezza sono i due estremi della stessa fascinazione, il crepitio elettrostatico di una certa libidine nel mondo, ed Edgar è attratto dalla gente che ha accesso a questa energia. E' disposto a fare il
caro amico devoto a patto che la loro vita segreta sia nei suoi schedari personali, con tanto di dicerie raccolte e catalogate, e fatti aleatori trasformati in comprovate realta. Gleason dice: - Ve l'ho detto, testoni, che oggi è il giorno dei Dodgers. Me lo dicono le mie vecchie ossa di Brooklyn. - Quali ossa? - gli fa Frank, - se te le sei marinate nell'alcol? Il corpo di Thomson si affloscia, perde vigore e resistenza, e Robinson chiede tempo, portando la palla verso il monte con quell'andatura a piedi in dentro che fa sembrare contorto il suo percorso. - I Giants dovranno ingaggiare quel nano se vogliono vincere, quel come-si-chiama, perché la loro unica speranza è un capriccio della natura, - dice Gleason. - Un terremoto o un nano. E visto che qui non siamo in California, vi conviene pregare per un elfo in tenuta da baseball. - Spi-ri-to-so, - dice Frank. L'argomento innervosisce Edgar. E' suscettibile in fatto di statura, sebbene sia tranquillamente nella media. Negli ultimi anni ha messo su peso, e ormai quando si veste davanti allo specchio, inquartato e con la testa da Buddha, è un uomo basso e rotondetto a restituirgli lo sguardo. E questa è una cosa che quei fanfaroni di giornalisti hanno pensato bene di confermare, e che irritazione vedere il proprio tormento più nascosto finire sulla carta stampata. E oggi la cosa certa è che ci sono ben poche probabilita che agenti più alti della media vengano assegnati al quartier generale. Un'altra cosa certa è che il nano a cui si riferisce l'amico Gleason, lo sportif alto un metro e dieci chiamato a battere per i Browns di Saint Louis circa sei settimane prima, per fare una spacconata e, secondo Edgar, anche un gesto politicamente sovversivo - insomma, quello che è certo è che questo tizio si chiama Eddie Gaedel, e se per caso Gleason se ne ricorda, non manchera di associare Eddie a Edgar, e allora le spiritosaggini sui piccoletti cominceranno a volare nell'aria come la proverbiale merda che va a sbattere contro il ventilatore. Gleason ha incominciato la sua carriera facendo satira offensiva e non ha mai veramente smesso - lo fa gratis, lo fa per puro divertimento, e si lascia dietro vite in frantumi. Toots Shor dice: - Piantala di fare sempre il menagramo, Gleason. Siamo solo uno a zero. I Giants non hanno fatto una rimonta di tredici partite e mezzo per mandare tutto in vacca proprio l'ultimo giorno. Questo è l'anno del miracolo. Non ci sono parole per quello che è successo quest'anno. Faccia di marmo e mani da macellaio, Toots ha il classico aspetto del veterano di bar clandestino, il corpo massiccio, i capelli lisciati all'indietro con la brillantina e due occhi da cinese che mettono immediatamente sul chi vive. E' un ex buttafuori che quando beve sbatte fuori dal suo locale persone del tutto innocenti. - Mays è il nostro uomo, - dice Toots. E Frank conferma: - Oggi è la giornata di Willie. Sembra proprio che si scatenera. Me l'ha detto Leo al telefono. Gleason, scandendo seccamente le parole, nella discreta imitazione di un inglese tifoso di cricket, dice:- Non vorrete farmi credere che quell'individuo che sta andando in porta fara veramente qualcosa di straordinario? Edgar, che odia gli inglesi, scoppia a ridere piegandosi in avanti, proprio mentre Jackie addenta un boccone di hot dog che gli va di
traverso e comincia a tossire, sputacchiando in tutte le direzioni una poltiglia di carne e pane, pallottoline e briciole, a volo radente. Ma sono le forme di vita invisibili, a terrorizzare veramente Edgar, che si affretta quindi a dare le spalle a Gleason trattenendo il respiro. Vorrebbe precipitarsi in bagno, in una stanza rivestita di zinco con una saponetta ovale e intatta, un torrente di acqua calda e un asciugamano di fiandra mai usato prima. Ma ovviamente non c'è niente di simile nei paraggi. Solo altri germi, una coltura dilagante di agenti patogeni, microbi, colonie galleggianti di spirochete che si fondono e si separano, si allungano in spirali e si inabissano, intere vagonate di materia che la gente butta fuori tossendo, primitive e letali. La folla, il rumore costante, il mormorio di fondo che di quando in quando monta a un rombo sordo, il carattere tipicamente maschile dell'esperienza condivisa della partita, il modo in cui un uomo si gratta il polso o lancia una sfilza di parolacce. E lo sciabordio degli applausi che si spengono lentamente e non bastano mai. Stanno tutti aspettando di essere trascinati sull'onda delle cantilene di incoraggiamento scandite dal battito ritmico delle mani, le forme e le ripetizioni prestabilite. Questa è la forza che tengono in serbo per il momento giusto. E' la potenza che fara succedere qualcosa, che cambiera la struttura della partita e li fara balzare in piedi, sollevandosi come impazziti in un boato che scuotera lo stadio. Sinatra fa: - Jack, mi sembrava di averti detto di restare in macchina finché non avevi finito di mangiare. Mays batte una palla lievemente tagliata ma la prende da sotto e manda una volata mediocre nel basso cielo ottobrino. Il rumore della mazza di frassino che picchia sulla palla arriva a Cotter Martin sugli spalti dietro l'esterno sinistro dove è seduto ingobbito nelle spalle magre. Sta guardando Willie invece della palla e lo vede correre rinspallucciato intorno alla prima base e poi raccogliere il guantone dall'erba e tornare saltellando alla sua posizione. Si accendono i riflettori e colgono Cotter di sorpresa, provocando un cambiamento nel suo umore, nella freschezza della sua scappatella, quel senso di leggerezza per avercela fatta senza essere acciuffato. La giornata adesso è diversa, greve e minacciosa, carica di pioggia, e Cotter guarda Mays che sembra rimpicciolito al centro del campo, in mezzo a tutto quello spazio, ridotto alla taglia di un bambino, e si chiede come faccia quel tipo a fare i lanci che fa, a caricare e lanciare, con tutta quella forza. Gli piace guardare il campo sotto i riflettori anche se è preoccupato per la pioggia, anche se è solo pomeriggio e l'effetto non è lo stesso di una partita notturna, quando il campo e i giocatori sembrano del tutto separati dalla notte che li circonda. E' stato a una sola partita notturna in vita sua, è sceso giù per la collinetta dietro lo stadio con suo fratello, il maggiore, per immergersi in una ciotola di luce colorata. Allora gli era parso che ci fosse un'ignota energia che esplodeva dalle torri dei riflettori, un lavorio più intenso della terra, che isolava i giocatori e l'erba e le righe di gesso passate a rullo da qualsiasi cosa avesse mai visto o immaginato. Avevano il lustro della prima volta. Il modo in cui il corridore frena derapando quando gira sulla prima base. I posti vuoti sono stati la prima sorpresa di Cotter, molto prima
delle luci. Mentre sgusciava tra le tribune continuava a vedere posti vuoti, troppi per essere gente andata a prendersi una birra o a fare pipì, e alla fine si è sistemato tra due tipi in giacca e cravatta e non gli resta che accettare la sua fortuna, la comodita di un vero posto a sedere, senza preoccuparsi del perché ce ne siano tanti vuoti. L'uomo alla sua sinistra gli fa:- Ehi, ti andrebbe un sacchetto di noccioline? Il venditore di noccioline sta tornando, un mago della presa al volo delle monetine, un ragazzo sui diciott'anni, nero e slanciato. La gente lo conosce da altre partite e si affretta a cercare le monete. Chiedono noccioline, ehi, qui, un sacchetto, e tirano monete con colpi di pollice e lanci del disco, e la mano del venditore sembra inalare il metallo volante. Ha la pelle come una calamita, questo acchiappamonete da circo che poi spedisce i sacchetti di noccioline dritti sul petto dei clienti. E' uno spettacolo continuo, ma Cotter sente odor di pericolo. Quel tizio lo sta rendendo visibile, lo sta smascherando nel suo nascondiglio. Non è strano che il loro colore comune scavalchi lo spazio che li separa? Nessuno aveva visto Cotter fino alla comparsa del venditore, con quelle mani che proiettano raggi neri. Un negro popolare che fa contenta la gente. Un ragazzo a disagio che cerca di non farsi notare. - Allora, che ne dici? - gli fa l'uomo. Cotter fa segno di no con la mano. - Lo vuoi un sacchetto? Su, dai. Cotter si scosta, portandosi la mano allo stomaco, come per dire che ha gia mangiato, o che le noccioline gli fanno venire i crampi, o che sua madre gli ha raccomandato di non mangiare porcherie per non guastarsi l'appetito per la cena. - Allora, qual è la tua squadra? - gli chiede l'uomo. - I Giants. - Che annata, eh? - Sì, ma con questo tempo, non so, è brutto essere sotto col punteggio. L'uomo controlla il cielo. E' sulla quarantina, ben rasato e imbrillantinato ma con un che di informale nei modi disinvolti e diretti che Cotter collega alla vita di provincia dei film. - Sono sotto solo di un punto. Rimonteranno. Un'annata come questa non può finire per un po' di maltempo. Vuoi qualcosa da bere? Uomini che entrano ed escono dai gabinetti, uomini che si chiudono la patta mentre si staccano dal vespasiano e altri che si avvicinano al lungo ricettacolo, pensando a dove vogliono mettersi e a chi vogliono stare vicino e a chi no, e qui il puzzo e la muffa del vecchio campo da baseball sono consolidati, ondate generazionali di birra, merda e sigarette, di gusci di noccioline e disinfettanti e pisciate a milioni di milioni, e tutti pensano nel modo banale che aiuta a passare con levita la vita, formulando pensieri non collegati a eventi, il polveroso ronzio del chi sei, uomini che si danno di spalla nel traffico del gabinetto maschile mentre la partita continua, l'andirivieni, i cazzi esposti e le pisciate meditabonde. L'uomo alla sua sinistra si sposta sul sedile e sussurra furbescamente a Cotter da sopra la spalla: - E la scuola? Ti sei preso una vacanza personale? - con un sorriso che gli illumina la faccia. - Come lei, - gli fa Cotter e l'altro scoppia in una sonora risata.
- Sarei evaso di prigione per vedere questa partita. In effetti la stanno trasmettendo ai detenuti. Hanno messo le radio nei bracci delle prigioni cittadine. - Sono venuto presto, - dice Cotter. - Avrei potuto andare a scuola la mattina e poi squagliarmela, ma volevo vedere tutto. - Un vero tifoso. Musica per le mie orecchie. - Volevo vedere la gente arrivare. I giocatori entrare dal loro passaggio riservato. - A proposito, io mi chiamo Bill Waterson. E me la sarei squagliata dall'ufficio anche senza permesso, ma in realta non ne ho avuto bisogno. Lavoro in proprio. Ho un'impresa di costruzioni. Cotter cerca di pensare a qualcosa da dire. - Siamo quelli che costruiscono le case dove la vita è uno spasso. Il venditore di noccioline sta risalendo il passaggio, diretto alla sezione successiva, quando intercetta Cotter e gli lancia un sorriso complice. Adesso scoppia un casino, pensa il ragazzo. Quel boccalarga gli fara fare una figuraccia. I loro sguardi si incrociano per un attimo mentre il venditore sale lungo la rampa di scale. In piena salita e a velocita doppia, prende a caso un sacchetto di noccioline e lo tira come niente fosse a Cotter, che lo acchiappa alla bell'e meglio con una presa che fa il paio con la traiettoria confusa del lancio. Ed è un momento magico, che dipinge in faccia a Cotter il sorriso della settimana e spedisce ondate di simpatia tutt'intorno. - Be', sei riuscito a beccarne uno a quanto pare, - dice Bill Waterson. Cotter srotola la cima pieghettata del sacchetto marrone e lo offre a Bill. Se ne stanno seduti a sgusciare noccioline sfregando via la buccia rossastra con un movimento rotatorio di pollice e indice e mangiano la polpa oleosa e salata lasciando cadere i gusci per terra senza mai staccare gli occhi dalla partita. Bill fa: - La prossima volta che senti qualcuno nominare il settimo cielo, pensa a questo. - Adesso ci serve solo qualche punto. Porge un'altra volta il sacchetto a Bill. - Tra poco segneranno, sta' tranquillo. Ti faremo contento di aver marinato la scuola. Guardate Robinson sul bordo erboso del campo esterno, mentre osserva il battitore che prende posizione e pensa pigramente, Un altro di quei crucchi zotici di Leo. - Allora, volendo rispettare una linea di condotta virile, - dice Bill, - dal momento che tu stai dividendo con me le tue noccioline, io sono tenuto a comprare qualcosa da bere per tutti e due. - Mi pare giusto. - Bene. Allora è deciso -. E si gira sul sedile sventolando un braccio. - Un paio di sportivi che se la godono. Stanky il carlino è seduto in panchina. Mays sta cercando di togliersi dalla testa un motivetto, la faccia malinconica un po' gonfia, uno di quegli slogan orecchiabili che ha sentito alla radio ultimamente. Il batboy scende dagli scalini con aria trasognata e infila la mazza nera di Dark nella rastrelliera. Il gioco langue negli inning di mezzo. Entrano in uno stato d'attesa, un'ansia indefinita che irrigidisce i muscoli delle spalle e li fa andare di continuo alla fontanella a bere e sputare. Dall'altra parte del campo Branca è salito nel bullpen dei Dodgers,
un omone grande e grosso con orecchie puntute da elfo, ha le braccia tese e fa lanci facili, giusto per sciogliere i muscoli. Mays pensa impotente, Spingi-tira, click dello scatto, cambia lametta ed ecco fatto. Sulle tribune l'agente speciale Rafferty sta scendendo le scale verso la zona dei box dietro la panchina della squadra di casa. E' un uomo tarchiato con una massa di capelli rossi - una criniera di capelli rossi, come piace dire alla gente - e cammina guardando dritto davanti a sé con l'aria di chi non vuole essere distratto. Si muove svelto, ma senza urgenza, puntando verso il box occupato dal Direttore. Gleason ha due bicchieri schiumanti piantati ai suoi piedi e un hot dog di cui s'è dimenticato gli spunta alle estremita del pugno strizzato. Sta parlando contemporaneamente a sei persone che ridono e fanno domande, abbonati stagionali dei box, ammiratori di lunga data con le mogli rinsecchite. Vedono che è piuttosto brillo e ammirano la sua prontezza di spirito, le sue battute taglienti e offensive. Vogliono essere insultati e Jackie è felice di accontentarli, ignorando il proprio stato di ubriachezza per fare la riuscita imitazione di un beone. Socchiudendo gli occhi, come se avesse le palpebre pesanti, si mette a grugnire, prendendosi gioco del tupè a scopetta di uno dei suoi interlocutori e ridicolizzandone un altro per le toppe ai gomiti della giacca di tweed. Le donne si divertono un mondo e non ne hanno mai abbastanza. Guardano Gleason, lanciano un'occhiata a Sinatra per vedere come reagisce a Gleason, seguono la partita, ascoltano Jackie che cita vecchie battute del suo show televisivo, guardano la senape che gli cola lungo il pollice ma non hanno il coraggio di dirglielo. Quando arriva al posto d'angolo di Mr. Hoover, Rafferty non rimane in piedi di fronte al Direttore, per parlargli, ma si da la pena di accosciarsi nel corridoio di passaggio. Tiene senza parere la mano davanti alla bocca perché nessun altro capisca quello che dice. Hoover ascolta per un momento, dice qualcosa ai suoi compagni, poi si allontana con Rafferty su per i gradini finché trova un punto isolato a meta di una lunga rampa, dove l'agente speciale riferisce nei dettagli il suo messaggio. Pare che l'Unione Sovietica abbia condotto un esperimento atomico in una localita segreta all'interno dei propri confini. Hanno fatto esplodere una bomba, per dirla in parole povere. E i nostri dispositivi di rilevazione indicano che proprio di questo si tratta è una bomba, un'arma, è uno strumento bellico, produce calore, radiazioni, shock. Non si tratta di un impiego pacifico di energia atomica applicata al riscaldamento domestico. E' una bomba rossa che produce un gran nuvolone bianco come un dio del tuono dell'antica Eurasia. Edgar fissa la data odierna. 3 ottobre 1951. Registra la data. Se la imprime nella mente. Sa che la cosa non è del tutto inaspettata. E' la seconda esplosione atomica dei russi. Ma è una notizia dura da incassare, lo mette in agitazione, lo costringe a pensare alle spie che hanno trasmesso i segreti, alla possibilita di testate nucleari inviate alle forze comuniste in Corea. Se li sente alle spalle, sempre più vicini, che guadagnano terreno, sorpassano. La cosa lo turba, lo cambia fisicamente mentre se ne sta lì impalato, la pelle tesa sulla faccia, lo sguardo fisso.
Rafferty è più in basso sulla rampa rispetto a Hoover. Sì, Edgar si imprime in testa la data. Pensa a Pearl Harbor, meno di dieci anni prima, anche quel giorno era a New York, e la notizia era stata un bagliore nell'aria, lo scatto di un flash su ogni cosa, oggetti comuni caldi e carichi di elettricita. Il rumore della folla esplode sopra di loro, un insieme di voci separate che si incanala rotolando nelle cavita del corpo sotterraneo dello stadio. Ci mancava anche questa, pensa. Il calore stesso del sole che inghiotte intere citta. Gleason non dovrebbe nemmeno essere qui. In questo preciso momento, in uno studio televisivo di midtown stanno facendo una prova generale, ed è lì che Jackie dovrebbe essere, a preparare uno sketch intitolato The Honeymooners, che andra in onda per la prima volta tra due giorni esatti. E' un soggetto al quale Jackie tiene molto, tratta di un conducente di autobus di nome Ralph Kramden che vive con la moglie Alice in uno squallido appartamento di Brooklyn. Gleason non ci vede niente di strano nel mancare a una prova per intrattenere gli ammiratori in tribuna. Ma Sinatra incomincia a essere seccato da tutta quella gente che preme contro lo schienale dei loro sedili. E' abituato alle distanze di rito. Vuole incontrare la gente in occasioni prestabilite. Frank oggi non ha con sé i suoi guardaspalle imbrillantinati. E anche con Jackie da una parte e Toots dall'altra due armadi che fungono da barriere naturali - la gente continua a stargli addosso, come se avesse una missione da compiere. Li vede, uno dopo l'altro, decidere che devono parlargli. I sorrisi forzati si avvicinano fluttuando. E lo usano come punto di riferimento per tutto quello che succede. Qualcuno fa una bella giocata, e loro guardano Frank per vedere come reagisce. Il venditore di birra inciampa in uno scalino, e loro guardano Frank per vedere se se n'è accorto. Si sporge verso Gleason e dice:- Senti Jack, è un vero spasso star qui, ma non potresti metterti un asciugamano sulla faccia, così questi tornano a guardarsi la partita? La gente vuole che Gleason ripeta le battute familiari del dialogo dello show. Gridano addirittura i pezzi che vogliono fargli recitare. Allora Frank dice: - A proposito, dove diavolo è finito Hoover? Ne abbiamo bisogno per tenere queste donne alla larga dai nostri splendidi corpi. Il ricevitore si rialza dalla sua posizione accovacciata, con un impasto di polvere nelle pieghe che gli attraversano la nuca rossastra. Alza la maschera per sputare. Ha corazza e schinieri, le labbra secche, segnate e screpolate dal sole. E' il massimo della liberta che si prende, questa di sputare in pubblico. La sua saliva rimbalza e tremola quando tocca terra, e diventa color sabbia. Russ Hodges passa dalla parte della tv per gli inning mediani, e parla meno, guidato dall'azione sul monitor. Tra un inning e l'altro il classificatore gli offre un pezzo del panino di pollo che si è portato per pranzo. - Cos'è quest'espressione meditabonda oggi? - dice a Russ. - Non sapevo di avere un'espressione. Una qualsiasi. Non mi sento capace di un'espressione. Forse sono le occhiaie. - Pensierosa, - dice il classificatore. E' vero e lui lo sa, Russ è pensieroso e vago ed è proprio strano, accidenti, l'umore che gli ha preso per tutto il giorno, questo suo
beccheggiare, questo vecchio e scricchiolante abbandono contro lo schienale, da uomo canuto su una sedia a dondolo. - Pollo e che altro? - Maionese, direi. - Certo è strano, - fa Russ, - ma penso che sia stata Charlotte a dipingermi quest'espressione in faccia. - La signora o la citta? - La citta, è evidente. Ho passato anni in uno studio di registrazione a reinventare partite di major league. Col telegrafo che ticchettava sullo sfondo e Hodges linguasciolta che si inventava il novantanove per cento dell'azione. E ti dirò una cosa, parola di boy scout. So che ti sembrera incredibile, ma mentre me ne stavo seduto lì, sognavo di commentare il baseball vero da una cabina del Polo Grounds di New York. - Il baseball vero. - Sì, quello che si gioca sotto il sole. Ti passano un pezzo di carta coperto di lettere e numeri e tu devi tirarci fuori una partita di baseball. Crei il clima, dai un corpo ai giocatori, li fai sudare, brontolare, gli fai tirar su le brache a strattoni, ed è straordinario, pensa Russ, quanto trambusto concreto, quanta estate e quanta polvere la mente sia in grado di sollevare da una singola lettera latina piatta su un foglio. - Non è una brutta curva quella che sta lanciando Maglie, - dice al microfono. Quando commentava partite fantasma, gli piaceva spostare l'azione sugli spalti, inventando un ragazzino che cerca di acchiappare una foul ball, un pel-di-carota con tanto di ciuffo (che sfacciato, eh?) che recupera la palla e la solleva per aria, un etto e mezzo di sfera di sughero, gomma, filo, cuoio di cavallo e punti a spirale, una palla-ricordo, una cosa a suo modo inestimabile, una cosa che sembra ricapitolare l'intera storia del gioco ogni volta che viene lanciata o colpita o toccata. Si infila in bocca l'ultimo pezzo di panino, si lecca il pollice e si ricorda dov'è, lontano dalla stanza senza finestre con il telegrafista e i messaggi in codice Morse. Dalla parte della radio il produttore sta dicendo: - Hai letto quella cosa sul giornale la settimana scorsa, a proposito di Einstein? - Einstein chi? - fa il tecnico del suono. - Albert, il capellone. Un giornalista gli ha chiesto di elaborare una teoria delle probabilita del campionato. Cioè, una squadra vince un tot delle partite che le rimangono, le altre squadre ne vincono chi un numero chi un altro, insomma, quali sono le migliaia di possibilita? Chi è in vantaggio? - Cosa diavolo ne sa lui? - Non molto, a quanto pare. Ha deciso che i Dodgers avrebbero eliminato i Giants venerdì scorso. Il tecnico del suono parla attraverso la coperta alla sua controparte della Kmox. La novita della coperta fa parlare questi uomini in un gergo da carcerati. Quando passano al dialetto nero il produttore li fa smettere, ma dopo un po' ricominciano, imitando i fumosi mormorii di un paio di negri spinellati in una cella. Naturalmente non tanto forte da essere captati dal microfono. Un rumore d'ambiente, una specie di ronzio da panchina - un ticchettio, un rumore di sottofondo, un'estensione della partita.
Giù nei box di prima fila, vogliono che Gleason dica Siete una fan-fan-tastica combriccola. Russ torna faticosamente dalla parte della radio dopo che i Giants chiudono il loro turno d'attacco nel sesto inning ancora indietro di un punto. E' contento di non avere un termometro, perché altrimenti sarebbe tentato di usarlo, con un effetto demoralizzante. E' una giornata mite, grazie al cielo, e la pioggia per il momento è scongiurata. - Vai in onda, Russ? - gli fa il produttore. - Spero di non dover chiudere bottega. Mi sembra di avere la laringe stretta in una morsa. - La radio è così, bello mio. Non può chiudere bottega. Hai un'idea di cosa c'è la fuori? Quelli sono abbracciati ai loro transistor. - Non è che mi fai sentire meglio. - Ci stanno accovacciati sopra, alle loro radio, accidenti! Tu sei come Murrow da Londra. - Grazie, Al. - Risparmia la voce. - Ci sto provando in tutti i modi. - Questa partita è dappertutto. Le telescriventi del Dow Jones stanno picchiettando i punteggi insieme ai listini di Borsa. E' in tutti i bar della citta, parola mia. C'è gente che si porta di nascosto la radio in sala di consiglio. Ho sentito che da Schrafft stanno interrompendo la filodiffusione per dare il punteggio. - Tutte quelle simpatiche signore con i loro completini in tinta e le tartine raffinate. - Risparmia la voce, - dice Al. - Ce l'hanno il tè col miele sul menu? - Stanno mangiando e bevendo baseball. L'annunciatore dell'ippodromo a Belmont aggiorna sui punteggi tra una corsa e l'altra. Ascoltano la partita sui taxi, dai barbieri e negli studi medici. Stanno tutti aspettando il lanciatore, che ha una faccia carica di presagi, la parte superiore del corpo protesa in avanti, la mano guantata che ciondola all'altezza del ginocchio. Sta prendendo il segnale. Lo legge e lo rilegge. Il battitore si muove nervosamente nel box. Questo figlio di buonadonna potrebbe anche darsi una mossa. L'interbase muove i piedi per rompere la trance dell'attesa. E' la regola del confronto, fedelmente mantenuta, scritta anche sulla faccia del più tonto dei lanciatori sin dai tempi in cui c'erano squadre con nomi come Superbas e Bridegrooms. La differenza arriva quando viene colpita la palla. Allora niente è più lo stesso. Gli uomini scattano, rialzandosi dalle loro posizioni accosciate, e tutto si sottomette al volo della palla che schizza via come un sasso sull'acqua, obbedisce a rotazioni, giravolte e folate di vento. Ci sono coefficienti di frenata. Ci sono vortici trascinanti. Ci sono elementi che incidono in modo irripetibile, memoria muscolare, scariche di adrenalina e granelli di polvere. La storia che vive negli spazi del resoconto ufficiale azione-per-azione. E in questo spazio perso c'è anche la folla, la folla che riemerge in quel millesimo di secondo in cui la mazza e la palla si incontrano. Un brusio di mormorii e imprecazioni, gente che si lascia sfuggire deboli lamenti, mentre le facce cambiano man mano che il gioco si srotola da un capo all'altro del diamante. Tra loro c'è anche John Edgar Hoover. Sta guardando dall'ampio corridoio in cima
alla rampa. Ha detto a Rafferty che restera alla partita. Andarsene non servirebbe a niente. La Casa Bianca dara la notizia tra meno di un'ora. Edgar odia Harry Truman, gli piacerebbe vederlo contorcersi su un parquet, stroncato da un attacco di cuore, ma non può criticare il tempismo del presidente. Dando la notizia per primi, impediremo ai sovietici di presentare l'accaduto a modo loro, indorando la pillola. E in una certa misura allenteremo la tensione del pubblico. La gente capira che abbiamo conservato il controllo delle notizie, se non della bomba, che è gia qualcosa. Edgar guarda le facce che lo circondano, aperte e speranzose. Vorrebbe provare una vicinanza e un'affinita da compatriota. Tutte queste persone formate da lingua, clima, canzoni popolari e prima colazione, dalle barzellette che raccontano e dalle macchine che guidano, non hanno mai avuto niente che le accomuni più del fatto di essere sedute nel solco della distruzione. Il Direttore cerca di provare un senso di appartenenza, cerca di aprire la valvola d'arresto della sua vecchia anima bloccata. Ma c'è in lui una strana amarezza che non è mai riuscito a definire, e quando si imbatte in una minaccia proveniente dall'esterno, dal declino morale che di fatto regna ovunque, scopre che questo compensa il suo stato d'animo, che è una forza ristoratrice. L'ulcera si mette a scalciare, naturalmente. Ma c'è quell'aspetto di lui, quella parte di lui che dipende dalla forza del nemico. Guardate l'uomo nella gradinata scoperta che va su e giù per i corridoi, il matto del quartiere che gesticola e farfuglia, basso, tozzo con una massa cespugliosa di capelli - potrebbe essere uno dei Ritz Brothers o un membro perduto dei Three Stooges, il Quarto Stooge, di nome Flippo o Dummy o Shaky o Jakey, e sta disturbando tutta la gente intorno, che gli grida, siediti e falla finita, vedi di andartene, brutto balordo, e lui va su e giù tutto preoccupato, scuote la testa e si lamenta come se sapesse che sta per succedere qualcosa, o che è gia successo e non c'è più niente da fare - è sensibile a cose che sfuggono al più acuto dei tifosi. E' un Direttore dalla faccia impenetrabile quello che ritorna al suo posto per la sgranchita del settimo inning. Non dice niente naturalmente. Gleason sta gridando a un venditore di scendere, tenta di ordinare delle birre. La gente si è alzata per scuotersi di dosso la tensione e il nervosismo. Un uomo si pulisce lentamente gli occhiali. Un altro ha lo sguardo imbambolato. Un altro ancora si stiracchia per sciogliere gli arti irrigiditi. - Prendimi un brandy e soda, - dice Toots. - Smettila di rompere, - gli fa Jackie. - Tratta bene quest'uomo, - dice Frank. - Ne ha fatta di strada, per un ebreo sbevazzone. E' pappa e ciccia con leader mondiali di cui tu non hai neanche sentito parlare. Prima o poi finiscono tutti nel suo locale a buttar giù un brandy con Toots. Eccetto forse il Mahatma Gandhi. E a lui gli hanno sparato. Gleason fa tanto d'occhi e spalanca le braccia come un idiota di fronte a una rivelazione. - Ecco il nome che non riuscivo a ricordare. Il nano che sostituiva il battitore. La gente intorno a loro sente il discorso solo in parte ma reagisce soprattutto all'inflessione della voce e al gesto - hanno visto Jackie costruire fisicamente la battuta e scoppiano a ridere ancora prima che l'abbia finita.
Sta ridendo anche Edgar nonostante il riaffacciarsi della faccenda del nano. Ammira la brusca sicurezza di questi uomini. Sembra esplodere dai pori della pelle. Hanno una loro statura, una carica vitale spontanea che offende la sua formazione da chierichetto ma al tempo stesso lo attira. Lui è un americano venuto dal niente che deve rispettare la saga del ragazzo combattivo che emerge da una cultura di caseggiati popolari, di strade periferiche fitte di pericoli. Contribuisce a una personalita godereccia, spiega gli appetiti. Gli arraffapassera, Jackie e Frank, hanno una disinvoltura da teatranti con le donne. Ed è vero, a proposito di Toots, che conosce tutti quelli che vale la pena conoscere, e quanto al bere può mettere al tappeto perfino Gleason. E quando ti pianta una zampata amichevole sulla spalla ti da l'impressione di essere una forza provvidenziale venuta a strapparti alla solita vecchia disperazione. - Questo è il nostro inning, - dice Frank. - Me lo auguro. Perché questi cagacazzi dei Dodgers cominciano a rompermi, - dice Toots. Jackie sta passando le birre a tutta la fila. - Mi pare che abbiamo tutti dichiarato le nostre preferenze. Manifestato il desiderio dei nostri cuori. Abbiamo un paio di tifosi dei Giants di lunga data. E questo cetaceo di Brooklyn coi capelli a spazzola. Ma cosa ne dice il nostro amico federale, il nostro G-man? G sta per Giants? Su Jedgar, confessa. Qual è la tua squadra? J. Edgar. Frank a volte lo chiama Jedgar e al Direttore il nome piace sebbene non lo dia a vedere - è medioevale, principesco, fosco e scaltro. Sulla faccia di Hoover striscia l'ombra di un sorriso. - Non ho un interesse vincolante. Chiunque vinca, - dice a bassa voce. - Quella è la mia squadra. Sta pensando a tutt'altro. A come i nostri alleati, uno dopo l'altro, accoglieranno la notizia della bomba sovietica. Il pensiero è cupamente confortante. Nel corso degli anni si è visto costretto a imbarcarsi in joint venture con i capi dell'intelligence di un certo numero di paesi e vuole che si sentano tutti un po' morire. Guardateli, questi quattro. Ognuno col suo fazzoletto ben piegato nel taschino, ognuno con la birra in mano ben distanziata dal corpo, piegato in avanti a sorseggiare la schiuma spessa dal bordo del bicchiere. Gleason con un fiore all'occhiello, un astro afflosciato arraffato da un vaso nel locale di Toots. La gente gli sta ancora alle costole perché reciti le battute del suo show. Vogliono che dica Harty-Har-Har. L'arbitro di casa base, in piedi con la maschera in mano, sembra quasi paffuto nella sua tenuta. Sta tenendo il conto, controlla il numero dei lanci di riscaldamento. E' la piccola, ostinata coscienza del gioco. Anche a riposo, mostra una storia densa di perplessita, di uomini che corrono nella polvere gesticolando e roteando sotto il sole a picco. Lo si capisce dalla sua faccia, mento in fuori e cipiglio che gli aggrotta la fronte. Quando il numero arriva a otto, sputa la cicca di tabacco e si prepara ad andare col suo scopino alla piastra di gomma del piatto. Sugli spalti Bill Waterson si toglie la giacca e la fa dondolare tenendola per il colletto. E' tutta sgualcita e stazzonata e Bill sembra considerarla un corpo vivo a cui vorrebbe fare una bella predica. Dopo un momento la piega in due e la posa sul sedile. Cotter è di nuovo seduto, attorniato da gente quasi tutta in piedi. Bill
troneggia su di lui, un uomo corpulento, un ex atleta, si direbbe dall'aspetto, che comincia a metter su pancia, la camicia bagnata sotto le ascelle. Un settimo inning fortunato. Cotter ha bisogno di un misero punto per non cadere nella disperazione - anche il più meschino dei punti a favore che si sia mai visto strappare in una partita. Altrimenti è pronto a rassegnarsi. E si sa cosa succede quando ti rassegni prima della fine e la tua squadra invece si riprende e compie gesta valorose, ti senti sopraffatto da una vergogna stomachevole e vischiosa come fanghiglia stagnante. Bill gli dice dall'alto: - Io prendo molto sul serio la mia sgranchita del settimo inning. Non solo mi alzo in piedi, ma, per la malora, mi sgranchisco. - L'ho notato, - fa Cotter. - Perché è un'abitudine che mi è stata tramandata. E' la nostra piccola tradizione. Ti alzi e ti sgranchisci... in un certo senso è un privilegio. Bill si diverte ad assumere varie posizioni, il fanatico di body-building, il gattino di casa, e cerca di convincere Cotter a fare il ragazzo sonnolento in un'aula scolastica. - Come hai detto che ti chiami? - Cotter. - E' questo che conta nel baseball. Fare quello che si è sempre fatto prima. E' questo il collegamento che si crea. E' una lunga trafila. Un uomo porta il figlio alla partita e trent'anni dopo è di questo che parlano, quando il vecchio babbeo sta tirando le cuoia in ospedale. Bill raccatta la giacca dal sedile e se la mette sulle ginocchia quando si siede. Un attimo dopo è di nuovo in piedi, lui e Cotter guardano Pafko che ferma un doppio. Si alza un lento boato, fitto e compatto, e i tifosi fanno volare altra carta ai piedi del muro. Vecchie liste della spesa, biglietti strappati e fogli di giornale appallottolati cadono intorno a Pafko nel pomeriggio sbiadito. Più in la, nell'area sinistra, stanno lanciando carta sul bullpen dei Dodgers, sulle sagome di Labine e di Branca che si scaldano e sui due ricevitori che acchiappano i lanci e sugli uomini seduti sotto la tettoia che sporge dal muro, gli uomini che masticano gomma senza niente da dire. Branca ha il numero tredici stampato sulla schiena. - L'avevo detto io, - fa Bill.- Cosa ti avevo detto? Te l'avevo detto o no? Stiamo rimontando. - Dobbiamo ancora segnare il punto, - dice Cotter. Si siedono e guardano il battitore lanciare un'occhiata di soppiatto a Durocher che mima i segnali dal box del suggeritore di terza. Poi Bill si alza di nuovo, si rimbocca le maniche e grida parole di incoraggiamento ai giocatori, i soliti incitamenti tutti cuore e sentimento. A Cotter piace la franca ostinazione di quest'uomo, il suo persistere nella fede e nella fiducia. E' l'unica forza disponibile contro il potere del dubbio. Ha la netta impressione che si fara un amico. E' una sensazione che gli viene dal tono confidenziale di Bill, dal suo simpatico corpaccione atletico e sudato, dal suo modo di ascoltare Cotter quando parla e da come riesce a fargli credere che la loro sia un'amicizia di lunga data - compagni di bisboccia, come si suol dire. Si sente un po' strano, è una cosa insolita per lui, questa di parlare con Bill, ma gli da un senso di protezione e
di intimita che lo aiutera a incassare la sconfitta, se mai si dovesse arrivare a questo. Lockman si gira e si prepara a smorzare il lancio. C'è un uomo nella tribuna superiore che sta sfogliando una copia dell'ultimo numero di Life. C'è un uomo nella Dodicesima strada a Brooklyn che ha collegato un registratore alla radio in modo da registrare la voce di Russ Hodges che commenta la partita. L'uomo non sa perché lo sta facendo. E' solo un impulso, un capriccio, è come sentire la partita due volte, è come essere giovani ed essere vecchi allo stesso tempo, e questa sara l'unica registrazione conosciuta del famoso commento di Russ del finale di partita. La partita e le sue estensioni. La donna che cuoce il cavolo. L'uomo che vorrebbe farla finita col bere. Sono l'anima più remota della partita. Collegata allo stadio dalla voce pulsante della radio, unita al tam tam orale che trasmette il punteggio per strada e ai tifosi che telefonano al numero speciale, e la folla dello stadio che diventa un'immagine televisiva, persone grosse come chicchi di riso, e la partita come voce e congettura e storia interna. C'è un sedicenne nel Bronx che si porta la radio in cima al tetto del caseggiato per poterla ascoltare da solo, un tifoso dei Dodgers, acquattato nel crepuscolo, e sente il resoconto della smorzata mal giocata e della volata che segna il pareggio e guarda al di la dei tetti le spiagge di catrame con le corde per stendere il bucato, le piccionaie e i preservativi spiaccicati e si sente accapponare la pelle. Il gioco non cambia il modo in cui dormi o ti lavi la faccia o mangi. Ti cambia soltanto la vita. Il produttore dice: - Finalmente, almeno un punto. Era ora! Russ è a pezzi, fratello, è rauco, stazzonato e spettinato. Quando la squadra segna all'inizio dell'ottavo ricorda che i Giants hanno giocato centocinquantaquattro partite stagionali, due partite di spareggio e sette inning della terza e adesso eccoli arrivati a un punto morto, assolutamente bloccati, sono in un vicolo cieco, ragazzi, quindi accendetevi una Chesterfield e restate dove siete. Il mezzo inning successivo sembra lungo una settimana. Cotter vede i Dodgers piazzare giocatori in prima e in terza base. Guarda Maglie che fa rimbalzare una curva per terra. Vede Cox battere una palla oltre la terza. Un sordo clamore comincia a levarsi dalla folla, uomini che gridano dai più lontani recessi dello stadio, un misto animalesco di sgomento e desolazione. Dalla cabina Russ vede la folla che comincia a perdere la sua compattezza, gente che siede alla rinfusa sulle gradinate dure, un prete con un corteo di bambini che sfila lungo il corridoio, carta che rotea e schizza via nel vento. Sente l'annunciatore di Saint Louis al di la della coperta, è Harry Caray e ha l'allegra parlantina di sempre mentre Russ pensa al termine giapponese per sventramento rituale e si chiede se lui e Harry non dovrebbero scambiarsi i nomi seduta stante (*). Il cielo che trascolora, i Dodgers che segnano punti, un uomo che balla nel corridoio, un nero con la barbetta a punta e una maglietta di Bing Crosby. Tutto sta cambiando forma, sta diventando altro. Cotter riesce a stento a tirar fuori le parole. - A cosa serve pareggiare il punteggio per poi cambiare idea e lasciare che ti facciano nero? - Ascolta, - dice Bill, - adesso scenderanno in quella panchina e
ti garantisco che non molleranno. Non esiste che si molli in questa squadra. E non prendertela con me, Cotter. Siamo compagni di sventura, ci tocca stare uniti. Cotter sente arrivare un cambiamento d'umore, una complicata autocommiserazione, sente che la forza gli sta abbandonando le braccia mentre una voce nella testa gli rimprovera di prendersela troppo. E il peggio è che ci sguazza fino al collo. Sa come trovare il contorto rimedio a questa storia di perdere, di essere un perdente, sa come sfruttarla fino in fondo, gonfiandola e addolcendola fino alla nausea, è bravissimo a recitare la parte della vittima predestinata. Il punteggio è di 4 a 1. Avrebbe dovuto piovere nel terzo o nel quarto inning. Avrebbe dovuto scatenarsi un finimondo di tuoni, fulmini e pioggia scrosciante. Bill dice: - Io ho ancora fede. E tu? Il lanciatore si toglie il berretto e si massaggia la fronte all'attaccatura dei capelli. Big Newk. Poi soffia nel berretto, lo scuote e se lo rimette in testa. Shor guarda Gleason. - Ancora a sparare cazzate. Lascia in pace la gente. E' venuta per vedere la partita. - Quale partita? E' uno strazio. Dovremmo andare a casa. - Non ci penso nemmeno, - dice Toots. - Potremmo evitare la folla, babbione, - dice Jackie. - Mettiamola ai voti, - dice Frank. Toots dice: - Avete il cervello in pappa. Mettetevi comodi e guardate la partita. Perché qui nessuno va via finché non vado via io, e io non mi muovo. Jackie chiama un venditore agitando il braccio e ordina un giro di birre per tutti. Non succede niente, nella seconda parte dell'ottavo inning della squadra di casa. La gente si sta avviando alle rampe d'uscita. Adesso tocca a Erskine e Branca, subire nel bullpen la strana pioggia di carta lanciata dagli spalti. I Dodgers chiudono il loro turno d'attacco nella prima parte del nono ed è allora che si percepisce lo scoraggiamento che disperde la folla, si può quasi toccarlo con mano, si può sentirlo negli ululati dall'alto degli spalti. Niente di quello che si è investito qui è recuperabile, e nessuno riesce a decidere se andarsene immediatamente o restare per sempre, vivere sotto una coperta nel vento. - Bella stagione ragazzi, - fa il tecnico del suono. - Vediamo di ripeterla, una volta o l'altra. La vicinanza forzata in cabina, tutta questa virilita compressa, sta rendendo Russ un po' irritabile. Si accende un'altra sigaretta e per la prima volta in tutto il giorno non se lo rimprovera. Sente il gemito solitario, sente il suo classificatore snocciolare numeri in un francese inventato. Sono tutti aspetti della stessa cosa, la sensazione di un fatto che, come una sedia pieghevole, viene chiuso e riposto, e la tristezza della scuola, vecchia di decenni - l'ultimo giorno plumbeo delle vacanze estive quando lo spazio per il gioco subisce un giro di vite. Questo è il giorno che non si è mai scrollato di dosso, l'ultima domenica che precede il primo lunedì di scuola. Gettava un'ombra fitta e inquietante sul confine occidentale del pomeriggio. Vuole andare a casa e guardare sua figlia biciclettare giù per la
strada ombreggiata. Dark si allunga verso il lancio e batte una rimbalzante che, neanche avesse gli occhi, scalfisce la punta del guanto del difensore di prima base. Una testa fa capolino al di sopra della coperta, è il tecnico della Kmox che si mette a raccontare una barzelletta sullo scopatore più veloce del Messico - del Mehico. Un tipo straordinario di nome Speedy Gonzales. Russ nel frattempo continua a pensare alla battuta valida ma lancia un'occhiata di routine al tabellone della clubhouse dritto al centro, di fronte alla cabina, per vedere se la prima E di Chesterfield si illumina per indicare un errore. Robinson recupera la palla poco più in la nell'area destra. - Allora, questo tizio è in luna di miele ad Acapulco e avendo sentito tutte le storie sull'incredibile astuzia di Speedy Gonzales è francamente preoccupato. E' un tipo nervosissimo e così la prima notte, la notte delle notti, è a letto con la moglie e le tiene il dito medio ben piantato nella passera per impedire a Speedy Gonzales di infilarsi dentro mentre lui non guarda. Mueller va alla battuta, e lascia passare il primo lancio basso. Nella panchina dei Dodgers un coach prende il telefono e per la diciottesima volta chiama il bullpen per sapere chi si sta scaldando bene e chi no. Mueller vede una palla veloce all'altezza della cintola e appoggia un singolo sulla destra. - Ma poi muore dalla voglia di fumare e si gira un secondo per prendere sigarette e fiammiferi. Russ descrive Dark che arriva in terza base senza tuffarsi. Thomson in piedi in panchina con le braccia alzate e le mani aggrappate al bordo della tettoia. Descrive la gente nei corridoi e altri che stanno scendendo verso il campo. Irvin lascia cadere la mazza appesantita. - Si accende rapidamente una sigaretta e si gira verso il letto col dito proteso. Maglie è gia negli spogliatoi seduto in mutande in quello stato di sfacelo e di puzza da dopopartita che potrebbe essere scambiato per turbamento interiore, e trangugia birra dalla bottiglia. Irvin alla battuta. Russ descrive Newcombe che tira un respiro profondo e si sgranchisce le braccia sopra la testa. Descrive Newcombe con lo sguardo fisso in attesa del segnale. - E Speedy Gonzales dice, Se¤or, attenzione, mi ha infilato un dito in culo. Russ sente quasi tutta la storiella e preferirebbe non averla sentita. Allora si produce a sua volta in una gag, facendo l'atto di alzarsi per coprire il microfono con la giacca come a impedire che al pubblico arrivi anche la più breve delle sillabe di un discorso spinto. C'è gente a modo la fuori. Palla veloce alta ed esterna. Il vociare della folla è incerto. Non sanno se questo è l'inizio di un recupero o un altro strascico che prolunga l'agonia. E' un rumore fragoroso e insistente che ricorda a Russ l'attesa indesiderata in una stazione ferroviaria. Irvin cerca di anticipare, troppo impaziente, e Russ sente l'anima della folla ripetere il triste arco della palla, una vocale
sussurrata in un gemito che cade a terra sottovoce. Il prima-base la prende come niente. C'è gente a modo la fuori. Russ vuol credere che siano ancora adunati in maniera riconoscibile, il popolo degli affratellati alla radio, vecchie battute, legami e affinita. Lockman alla battuta, il biondo-stoppia di Caroline. Russ pensa alla sua famiglia che soleva riunirsi intorno al grammofono ad ascoltare l'opera lirica, il trillo delle erre vibrate della vecchia Europa. Sono pensieri che vanno e vengono, ma non lo distraggono. Non gli sfugge neanche una mossa sul campo. Un paio di marinai scendono verso la ringhiera vicino alla terza base. E ai dischi vuoti su un lato e talmente fragili che si incrinavano solo a guardarli di traverso, come si usava dire scherzando. Russ è ingobbito sul microfono. Il campo sembra spalancarsi in sostantivi e verbi. Lui non deve far altro che parlare. Per dire: - Carl Erskine e il lanciafiamme Ralph Branca stanno ancora facendo lanci di riscaldamento nel bullpen. Lancio. Lockman lo rispedisce in foul contro la rete. Adesso parte l'applauso ritmico, incerto sulle prime, poi sempre più diffuso di gradinata in gradinata. Questo è il modo in cui la folla si introduce nella partita. La ripetuta scansione dei tre applausi ha la forza di una fede abietta, una specie di volonta disperata di evocare qualcosa di magico. Lockman va ancora una volta alla battuta, agitando in aria la mazza gialla. E a sua madre che gli faceva fare i gargarismi con acqua calda e sale quando aveva il mal di gola. Lockman prende il secondo lancio e batte una linea bassa sulla terza. Russ sente Harry Caray che grida al microfono dall'altra parte della coperta. Poi stanno gridando entrambi e la palla taglia verso la riga e atterra in campo sollevando uno schizzo di polvere e costringendo ancora una volta Pafko nell'angolo. Uomini che corrono, la volata dalla prima alla terza, l'uomo che segna correndo all'indietro verso la casa base in modo da poter controllare l'azione sulle corsie. Tutti i Giants in piedi davanti alla panchina. La folla è in piedi, teste che oscillano di qua e di la per vedere meglio. Uomini che corrono attraverso una slavina di rumore che rotola su di loro. Il lancio era fuori dal piatto e lui l'ha spedito inaspettatamente sulla sinistra. E Harry ha incominciato a gridare. Il colpo cancella il ritmo dell'applauso. Stanno esplodendo in un boato, stanno facendo un rumore che continua ad aumentare in ampiezza e portata. Questa è la folla rinata, la folla rinnovata. Harry si è messo a gridare, poi Pafko è andato in angolo e anche Russ si è messo a gridare e la carta ha ricominciato a cadere. Uno fuori, due punti sotto, uomini in seconda e in terza. Russ pensa che ogni sua parola potrebbe essere l'ultima. Sente la gola infiammata, la penosa costrizione. Mueller è ancora a terra in terza base, si è infortunato, è scivolato o non è scivolato, si è fermato di colpo con le lamine delle scarpe impigliate nella base, un uomo che soffre, il dolore lancinante di tendini stirati. Sta di nuovo piovendo carta, multe appallottolate, sigarette srotolate, appunti di lavoro e ruolini segnapunti trasformati in
aeroplanini, sospinti dal vento e per lo più bianchi, e Pafko torna verso la sua posizione e fa un piccolo salto per calciare un bicchiere di plastica, e il gesto è a suo modo una forma di riconoscimento, un accenno a una forza concorde tra giocatori e tifosi, il calcio che da al bicchiere bianco, una specie di finta, del tutto privo di malevolenza - un segno di rispetto per le astuzie del gioco, gli schemi impossibili da indovinare. L'allenatore entra in campo e mettono Mueller su una barella e lo portano verso gli spogliatoi. Mueller soffre, è la sofferenza che esige la partita - qui un uomo su una barella ha senso. La sosta nel gioco ha permesso alla folla di ridare fiato al suo rumore. Russ continua a interrompersi al microfono per permettere che il suono si accumuli. E' un boato di una vastita quale non ha mai udito prima. Non lo si può definire un'ovazione o un'acclamazione. E' un ruggito territoriale, l'affermazione dell'ego che distingue la folla dello stadio da altre entita, da raduni politici o rivolte carcerarie - da ogni cosa al di fuori delle recinzioni. Russ si avvicina al microfono e cerca di stare calmo sebbene sia molto prossimo a gridare perché è l'unico modo per farsi sentire. Un grappolo di uomini sul monte, il manager che gesticola verso il bullpen, il lanciatore che entra e il lanciatore che esce e il sostituto di Mueller che fa i piegamenti in terza base. Picchiano sul tetto della cabina. Russ dice: - Quindi non andatevene. Accendetevi quella Chesterfield perché noi non schiodiamo. Stiamo qui a vedere come se la cava il grosso Ralph Branca. Sì, è Branca che arriva nel riverbero umidiccio. Branca che è alto e robusto ma sembra gravato dal proprio peso, un uomo oppresso. Palpebre abbassate, piedi di piombo, fronte corrugata. La sua faccia è collocata dietro un naso tetro, largo e prominente. Le guardie dello stadio stanno andando ai loro posti. Guardate l'uomo nella tribuna superiore. Sta strappando le pagine della sua copia di Life, le getta dalla ringhiera senza appallottolarle, e le lascia cadere in un dondolio altalenante sui tifosi che strepitano di sotto. Lo fa sull'onda della carta che sta cadendo altrove, il contagio della carta - è divertimento puro, frivolo e senza parole. Incomincia a ignorare la partita per lanciare le pagine dalla ringhiera. Questo lo mette in contatto con gli altri lanciatori di carta e con i tifosi della tribuna sottostante che si protendono verso le sue pagine e le acchiappano - sono una seconda forza che corre parallela alla partita. Poco più in la un altro uomo sente uno strappo al petto, mentre le braccia gli si intorpidiscono. Vorrebbe sedersi ma non sa se riuscira a spostare il braccio all'indietro per abbassarsi sul sedile. Il cuore, mio Dio, il cuore! Branca ha venticinque anni ma sembra l'incarnazione di una fatica di altri tempi. Quando arriva al monte, i barellieri sono finalmente riusciti a trasportare Mueller su per i gradini e dentro gli spogliatoi. La folla si dimentica di lui. L'avrebbero dimenticato comunque, anche se fosse morto. Il rumore si espande di nuovo. Branca prende la palla e gli uomini intorno al monte retrocedono ai bordi del campo. Shor guarda Gleason. Gli fa: - Dimmi che vuoi andare a casa. Non volevi andare a casa? Se andiamo via adesso possiamo evitare la folla.
Gli fa: - Non ho parole. Pezzi di idioti tutti e due, vi meritate il peggio del peggio. Jackie è gia messo abbastanza male di suo. Si allenta la cravatta e slaccia il primo bottone della camicia. E' l'unico membro del quartetto a non essere in piedi ma non è il capovolgimento della partita la causa del suo malessere. E' che ha sbevazzato tutto il giorno e mangiato schifezze. Shor dice: - Dimmi che vuoi andare a casa così posso precipitarmi alla macchina e tenerti la portiera aperta per sbatterti dentro. La carta sta cadendo intorno al gruppo, grandi pagine patinate di una rivista che passano del tutto inosservate nel trambusto del momento. Frank acchiappa la pubblicita a tutta pagina di una cosa chiamata sottilette, un prodotto della Borden, la societa con la mucca, e c'è la foto a colori di una sostanza giallastra che si sta squagliando orribilmente sopra un hot dog. Frank sbatte la pagina sotto il naso di Gleason. - Ecco, questo ti aiutera a digerire. Jackie sta seduto come il passeggero di un aereo che attraversa un vuoto d'aria. Continuano a piovere pagine. Alimenti per neonati e caffè solubile, enciclopedie, automobili e tostapane, shampoo e whiskey di malto. Tempi d'oro, un'ottimistica sovrabbondanza che prosegue anche nelle pagine della cronaca dove le aziende agricole del paese registrano un raccolto record. E prodotti sfavillanti, il lustro di una Packard ripetuto nel pezzo centrale sui tesori artistici del Prado. Sono un tutto unico. Rubens e Tiziano, Playtex e Motorola. Ed ecco una fotografia di Sinatra in compagnia di Ava Gardner in un nightclub del Nevada e guardate che scollatura. Frank non sapeva di essere su Life di questa settimana finché la pagina non è piovuta dal cielo. C'è gente pagata per informarlo di queste cose. Conserva la pagina e ne prende un'altra da sbattere in faccia a Gleason. Ecco una pubblicita della Budweiser, vecchio mio. In un paese che ha fretta di creare il futuro, i nomi legati ai prodotti costituiscono una durevole rassicurazione. Johnson & Johnson, e Quaker State, e Rca Victor, e Burlington Mills, e Bristol Myers, e General Motors. Questi sono i venerati emblemi di un'economia fiorente, più facili da identificare dei nomi di battaglie o di presidenti morti. Non che Jackie sia in vena di sfogliare una rivista. E' sprofondato in un'inerzia totale, imperlato di sudore rancido, e ha gia in bocca il sapore di un massiccio scombussolamento viscerale. Branca fa l'ultimo dei suoi lanci di riscaldamento, scuotendo il guanto per indicare una curva. Non badate a dettagli quali il suo aspetto, i suoi modi e la pesantezza del suo corpo in posizione di riposo. La sul monte è forte e agile, sciolto nella torsione. E' un uomo che vuole la palla. Furillo controlla il gioco dall'area destra del campo. Il profilo scolpito nella pietra. L'uomo dai capelli cespugliosi sta ancora girando tra le gradinate, gemendo e scuotendo la testa - chiamate i camici bianchi e fatelo rinchiudere. Parla tra sé e sé, scuotendo il capo come uno di quei fanatici che predicano agli angoli di strada preannunciando l'arrivo di remote catastrofi. Siediti, piantala, gli dicono. Frank sbatte una pagina dopo l'altra sotto il naso di Gleason. Gli dice: - Mangia, vecchio mio. La carta pulisce il palato. Quand'ecco che Thomson va alla battuta.
Lo scozzese alto e smilzo. Che ricorda a se stesso mentre prende posizione, Occhio alla palla. Aspetta la palla. Russ è aggrappato al microfono. Acqua calda e sale. Fa' i gargarismi, gli diceva sua madre. Thomson non è sicuro di vedere chiaramente le cose. I suoi bulbi oculari ronzano. Il suo corpo ha una strana sensazione, sta piantando i piedi nel terreno, si sta mettendo in posizione di gioco, il rumore della folla riempie il cielo, e c'è una strana sensazione, il senso di aver perso il contatto con l'ambiente circostante. E' solo in tutto questo parapiglia. Occhio alla palla. Guarda e aspetta. E' davvero un po' intontito, il nostro Bobby. Come al momento del risveglio, quando non sai in che casa ti trovi. Russ dice: - E' Bobby Thomson quello che sta roteando la mazza. Mays ha un ginocchio a terra nel cerchio della battuta e si appoggia per meta alla sua adorata mazza mentre osserva Branca caricare al massimo, tira-molla, clic dello scatto, e pensa che se Thomson sbaglia tocca a lui rimediare, ha l'intera stagione sul groppone, e il motivetto gli risuona in testa, è l'abbraccio radiofonico dell'aria stessa, il mosaico dell'aria, e si spegnera quando ne avra voglia. C'è una stazione di pronto soccorso sotto le tribune e la guardia dello stadio dovra trovare un modo per farci arrivare l'uomo colpito da infarto senza che venga travolto e calpestato dalla folla sfrenata. Tutto sommato la vittima sembra okay. Adesso è seduto, in attesa che arrivi l'infermiere con la sedia a rotelle. D'accordo, forse non ha una gran bella cera. E' pallido, ha la nausea, è preoccupato e infartato. Ma riesce a stringere il pugno e a tirar fuori la lingua, e la guardia non può fare granché finché non arriva la sedia a rotelle, quindi tanto vale che si alzi in piedi nel corridoio a guardare il finale di partita. Thomson è chino in avanti, mento in dentro, in attesa. Russ dice: - Uno fuori, seconda parte del nono. Dice: - Branca lancia, Thomson lascia passare uno strike sull'angolo interno. Sottolinea con un pesante decibel la parola strike. Si interrompe per lasciare che monti la reazione della folla. Non parlare al posto della folla. Lascia che sia la folla a creare l'effetto teatrale. Quelle grandi pagine patinate che arrivano svolazzando dall'alto della tribuna. Lockman è vicino alla seconda e cerca di mandare un lancio sulla mazza di Thomson con la forza del pensiero. Quello avrebbe potuto essere il lancio che voleva. All'altezza della cintola, un filo interno - sara difficile che gliene capiti un altro così buono. Russ dice: - Bobby batte a una media di due e novantadue. Ha avuto un singolo e un doppio e ha fatto segnare il primo punto ai Giants con una lunga volata al centro. Lockman guarda la casa base dall'altra parte del diamante. Il doppio che ha battuto è ancora una presenza nel petto, si attenua scoppiettando la dentro, un ricordo corporeo che fa rivivere il momento. Tiene gli occhi fissi sull'apertura dei deltoidi tra le ginocchia del ricevitore. Vede le dita abbassarsi, la mano piatta fare un gesto svolazzante verso l'alto e a sinistra. Gli daranno la palla veloce alta e poi seguiranno con una curva bassa esterna. Un grazioso programmino in due parti. Sembra facile da qui. Russ dice: - Conduce Brooklyn per quattro a due.
Dice: - Corridore in fondo alla linea sulla terza. Non vuole correre rischi. Thomson pensa che sta succedendo tutto troppo in fretta. Pensa, svelto con le mani, occhio alla palla, datti una possibilita. Russ dice: - Lockman vicinissimo alla seconda non rischia ma correra come il vento se Thomson tocca la prima. Nei box J. Edgar Hoover stacca la pagina di una rivista che gli è rimasta appiccicata alla spalla. Sulle prime è irritato che l'oggetto sia entrato in contatto col suo corpo. Poi gli cade l'occhio sulla pagina. E' la riproduzione a colori di un quadro popolato da figure medievali morte o moribonde - un paesaggio di visionaria distruzione e rovina. Edgar non ha mai visto un quadro che avesse la seppur minima somiglianza con questo. Occupa tutta la pagina e deve sicuramente dominare la rivista. Sulla terra rosso-bruna, eserciti di scheletri in marcia. Uomini impalati su lance, penzolanti da forche, sventrati su ruote di tortura chiodate fissate in cima ad alberi spogli, corpi spalancati per i corvi. Morti che vanno formando legioni dietro a scudi fatti di coperchi di bare. La morte stessa in groppa a uno scarno ronzino, è assetata di sangue, falce in pugno, pronta a colpire mentre spinge frotte tormentate di gente verso l'entrata di una botola infernale, una costruzione stranamente moderna che potrebbe essere un tunnel della metropolitana o il corridoio di un ufficio. Sullo sfondo un cielo cinereo e navi in fiamme. Edgar capisce subito che la pagina viene da Life e cerca di indignarsi, si chiede perché una rivista che si chiama Life dovrebbe riprodurre un quadro di tali fosche e spaventose dimensioni. Ma non riesce a staccare gli occhi dalla pagina. Russ Hodges dice: - Branca lancia. Gleason fa un rumore a meta tra un sussurro e un gemito. Probabilmente è un profondo sospiro, come il fruscio della risacca su una spiaggia tropicale. Edgar si ricorda dell'abbuffata di prima, quando Jackie stava per soffocare. Qui intuisce un lavorio più profondo. Esce nel corridoio e sale due gradini, allontanandosi dall'imminente scarica di materia animale, vegetale e minerale. Non è un bel lancio da battere, alto e interno, ma Thomson ruota su se stesso e colpisce la palla con un colpo fortissimo dall'alto in basso, e tutti, tutti stanno a guardare. Eccetto Gleason che è piegato in due sul sedile, con le mani intrecciate dietro la nuca e uno sbavo cremoso che gli penzola dalle labbra. Russ dice: - Questa sì che va lontano. C'è come uno scoppio nella sua voce, una carica di speranza. - Per forza, - dice. C'è un momento di silenzio tutt'intorno. Pafko si precipita verso l'angolo dell'area sinistra. - Io ho fede, - dice. Pafko è al muro. Poi guarda per aria. La gente si chiede dov'è la palla. Un ritardo leggerissimo, il tempo che si ferma, una pausa che dura una frazione di secondo. E Cotter in piedi nella sezione 35 guarda la palla che viene nella sua direzione. Resta folgorato. Perde di vista la palla quando oltrepassa le prime gradinate e pensa che atterrera nella tribuna superiore. Ma prima che riesca a sorridere o a gridare o a dare una botta sul braccio del vicino. Prima che il momento possa travolgerlo, la palla ricompare, con le cuciture che roteano visibilmente tanto è vicina, e rimbalza di sbieco da un pilone - mani che balenano dappertutto.
Russ sente la folla intorno, un brivido che percorre gli spalti, poi si ritrova a gridare al microfono e c'è un'ondata di colore e movimento, un trambusto che sale verso l'alto, in tutto lo stadio, mani, facce, camicie, una marea palpitante di uomini, e lui sta gridando a pieni polmoni, la sua voce ha una potenza che credeva ormai perduta - potrebbe fargli saltare la calotta della testa come un razzo da cartoni animati. Dice: - I Giants vincono il campionato. Una linea dritta con effetto topspin. Thomson ha colpito il lancio dall'alto in basso e la palla è affondata nella tribuna inferiore ed ecco Pafko sotto il segno dei 315 piedi che guarda dritto in su con il braccio destro aggrappato alla recinzione sotto un'alluvione di carta. Dice: - I Giants vincono il campionato. Sì, la voce ha una punta di isteria di troppo sul registro alto. Ma è soprattutto una serie di sorde esplosioni, bum bam. Vede per prima cosa Thomson che fa le capriole. Poi il cappello del coach della prima base - il coach della prima base ha lanciato in aria il cappello. Thomson è partito per prendere un lancio ad altezza del mento e l'ha centrato in pieno. La palla è partita alta, poi è precipitata, mancando la facciata della tribuna superiore per tuffarsi invece tra i sedili sottostanti - attirata e inghiottita - e i giocatori dei Dodgers stanno lì impalati a guardare, gia staccati dall'evento, lo sguardo fisso sulle zone d'ombra tra le tribune. Dice: - I Giants vincono il campionato. La troupe sta gridando vittoria. Rispondono alle botte sul tetto menando colpi sulle pareti e sul soffitto della cabina. La gente si arrampica sulle tettoie della panchina e la folla è scossa dal proprio rumore. Branca è sul monte, scomposto nel suo tormentato abbandono. Ha lanciato una veloce alta, una palla interna, pensando che il battitore la lasciasse passare per guadagnare un ball. Russ sta gridando a più non posso dimentico del suo mal di gola, di ogni malattia, patologia e disturbo, di tutte le dolorose fitte dell'invecchiamento e di ogni ricordo che non sia dolce. Dice: - I Giants vincono il campionato. Quattro volte. Branca si gira, raccoglie il sacchetto e lo sbatte per terra, poi si dirige verso gli spogliatoi, le spalle curve inizia la lunga marcia mortale. Piove carta dappertutto. Russ sa che dovrebbe calmarsi e lasciare che il microfono raccolga il fracasso che sta montando tutt'intorno. Ma non riesce a smettere di gridare, di lui non restano altro che grida. Dice: - Bobby Thomson ha battuto la palla nella tribuna inferiore di sinistra. Dice: - I Giants vincono il campionato e stanno impazzendo. Dice: - Stanno impazzendo. Poi si produce in un grido puro, senza parole, un urlo dei tempi andati - è l'ora del folk, del canto di montagna sulla Wcky alle cinque e mezzo del mattino. Gli esce di getto, un grido di giubilo, potrebbe essere heyyy-ho o potrebbe essere oh-boyyy urlato alla rovescia o potrebbe essere qualcosa di completamente diverso difficile a dirsi quando non si usano parole. E i compagni di squadra di Thomson si riuniscono alla casa base, e Thomson gira intorno alle basi saltando come un daino - ormai sara per sempre Bobby, il ragazzo irruente non segnato dal tempo, e ha il respiro talmente accelerato che non sa se riuscira a controllare tutta l'aria che sta
incamerando. Vede uomini schierati alla rinfusa davanti al piatto, che aspettano di coprirlo di pugni - i suoi compagni di squadra, non c'è gente migliore al mondo, e le facce hanno un'espressione intensa, sono intontiti dalla felicita che gli è piombata addosso, e gli occhi brillano sotto i berretti. Ha aggredito il lancio, ha colpito la palla dall'alto in basso e adesso gli fischiano le orecchie e ha un formicolio alle mani e ai piedi. E Robinson è fermo dietro la seconda, mani sui fianchi, a controllare che Thomson tocchi le basi a una a una. Si può quasi vederlo invecchiare, l'intrepido Jack. Guardate Durocher che sta facendo una giravolta. Russ finalmente si ferma per la prima volta a incassare l'impatto di tutto il rumore che lo circonda. Leo sta ruotando su se stesso nel box del coach. Il manager si è alzato e sta girando su se stesso - sta ruotando a braccia aperte - forse è un'estasi ascetica, una cosa che fanno nelle moschee dell'Anatolia. La gente si fa un dovere di registrare l'ora. Edgar è in piedi a braccia conserte, gli occhi fissi su Gleason piegato in due. Tutt'intorno le pagine continuano a cadere - è un numero decisamente corposo - lassativi e digestivi, pannolini, cerotti callifughi e ritrovati antiforfora. Jackie manda un latrato acquatico, rumoroso e primitivo, il grido rauco di un mammifero in pena. Poi c'è un'ondata di materia lanuginosa. Sembra che stia vomitando un pigiama color topo. Il rigetto ha una sua liquida compattezza, nel linguaggio di spotlandia, e sta schizzando liberamente sulle robuste Oxford di Frank, sulle calze di filo di Scozia e sulla morbida lana ritorta dei suoi pantaloni sportivi. L'orologio in cima alla clubhouse segna le 3,58. Russ è di nuovo con la faccia nel microfono. Grida: - Non ci credo -. Grida: - Non ci credo -. Grida:- Non ci credo proprio. La gente sta scendendo per ammassarsi davanti alla recinzione. Arrivano dai punti più lontani della grande struttura a raggiera e stanno scendendo lungo i corridoi verso la recinzione. Pafko, ormai fuori dalla portata della carta, sta trotterellando verso gli spogliatoi. Ma la carta continua a cadere. Se le ondate di carta precedenti erano vagamente ostili e beffarde, e le ondate di mezzo un'espressione di comunanza tra i tifosi, quest'ultima dimostrazione ha invece una sua disinteressata dolcezza. Piove da tutte le parti, scontrini di lavanderia, buste rimediate in ufficio, ci sono pacchetti di sigarette schiacciati e appiccicosi involucri di gelato, pagine di promemoria e agendine tascabili, stanno lanciando dollari sbiaditi, istantanee stracciate, carta pieghettata di pasticcini, stanno strappando lettere che si sono portati dietro per anni schiacciate nel portafogli, residui di storie d'amore e di amicizie scolastiche, ormai allegra spazzatura, l'intimo desiderio dei tifosi di essere collegati all'evento, per sempre, sotto forma di rifiuti da tasca, spazzatura personale, cose che hanno una vaga impronta di identita - rotoli di carta igienica che si disfano liricamente come stelle filanti. Sono ammassati davanti alla rete dietro la casa base, aggrappati alle maglie strette. Russ sta ancora gridando, non è ancora sfinito dalle grida, è convinto di avere una cosa che vale la pena di ripetere. Dice: - Bobby Thomson ha battuto una linea dritta nella tribuna inferiore di sinistra e lo stadio sta impazzendo.
Subito dopo Cotter sta strisciando lateralmente nel corridoio. La zona è congestionata di traffico e deve guadagnarsi ogni fila a gomitate e a spallate. Nessuno sembra farci molto caso. La palla è la dietro in un possente ammasso di giacche e camicie. La partita è ormai lontanissima per lui. La folla può tenersi la partita. Lui vuole la palla adesso, e non ha tempo di chiedersi il perché. L'hanno sbattuta sugli spalti, e tu vai a prenderla. E' la palla con cui giocano, la cosa che maneggiano, per cui si azzuffano e su cui sudano. Sta risalendo il corridoio attraverso un migliaio di cuori martellanti. Avanza di striscio spintonando e menando colpi. Vede la gente buttarsi a terra freneticamente, potrebbe essere la gara ad afferrare le mele con i denti che fanno nell'Indiana, solo un po' più violenta. Poi la palla si libera e qualcuno cerca di prenderla, il primo del branco, un giovane che striscia sculettando mentre la folla alle calcagna cerca di bloccarlo prendendolo per la giacca, afferrando una manciata di sedere. Ha una zazzera crespa e rossastra e un giubbotto del college - quei giubbotti sportivi, sapete, con le maniche di un materiale e di un colore che sembra pelle e il busto di un colore più scuro e probabilmente di lana - di solito i due colori sono quelli della squadra del college. Cotter tira a indovinare e si fa strada lungo una fila di sedili che è due file sotto rispetto alla bolgia. Lavora d'intuito, anticipa, come quando si ha l'impressione che stia per succedere qualcosa e poi, misteriosamente, si vede la cosa succedere, verificarsi per gradi, per cui si riesce a scorgere l'ingranaggio dell'azione combaciare con la propria idea. Ha colpito il lancio in pieno e la palla è schizzata la sopra, è sprofondata ed è scomparsa. E Thomson atterra con un balzo sul piatto della casa base assalito dai compagni di squadra, che si muovono con passi accorti, le mani in avanti per evitare di farsi male con i chiodi. Intanto i fotografi si avvicinano con cautela a immortalarli nelle loro posizioni scomposte, e sul campo arrivano i primi tifosi, arrivano alla spicciolata e si fermano circospetti a una certa distanza, o piroettano di qua e di la per vedere le cose da un'altra prospettiva, sbalorditi di trovarsi a livello del campo, o corrono dritti verso Thomson, scoordinati e come impazziti, incuneandosi alla rinfusa nella serrata dei giocatori davanti alla casa base. Frank sta guardando quello che è successo ai suoi piedi. Se ne sta lì impalato, le mani protese, a palme in su, ammutolito per la sorpresa e il disgusto. Che una cosa del genere dovesse succedere proprio qui, in pubblico, al culmine della baraonda di questo evento - be', l'incidente lo lascia talmente interdetto che lo stupore supera il disgusto. Abbassa lo sguardo sulla parte posteriore della testa lucida di Jackie e sul risvolto dei propri pantaloni screziato di un intimo beige, guarda lo schizzo sulla punta delle scarpe simile a una mitragliata e un po' più in la la pozzanghera densa come zuppa di gombo che contiene qualche grumo flaccido di materia rosaticcia proveniente dal fondo della sacca gastrica di Gleason. Tentenna il capo e dice: - Le mie scarpe. E Shor si sente offeso, sente che la sua faccia sta assumendo quell'espressione che si accompagna al prurito di una cattiva rasatura, quelle lontane mattine di colpi di rasoio e acqua fredda. Allora guarda Frank e gli chiede: - Sei almeno riuscito a vedere il fuoricampo? - Una parte l'ho vista e una parte l'ho persa.
E Shor fa: - Dovrei fare lo sforzo di chiederti quale parte hai perso così ne parliamo al telefono un giorno o l'altro? C'è gente con le mani nei capelli, per tenere il cervello al suo posto. Frank insiste a guardare per terra. Inclina un piede a babordo in modo da controllare se sul lato della scarpa ci sono macchie di vomito. Queste sono scarpe fatte su misura in una stradina stretta con uno strano nome nella parte più antica di Londra. E Shor dice: - E' roba da non crederci, abbiamo vinto! E stanno facendo a pezzi il locale. Non so se ridere, piangere o farmela sotto. Al che Frank ribatte: - Propenderei per la numero uno o la numero due. Russ sta ancora presidiando il microfono, ha un'ultima cosa da dire e riesce a tirarla fuori a fatica. - I Giants hanno vinto per un punto, per cinque a quattro. E stanno sollevando da terra Bobby Thomson. Lo stanno portando in trionfo fuori dal campo. Se nella sua voce c'è una punta di inquietudine è perché deve andare fino agli spogliatoi a intervistare i giocatori, i coach e i dirigenti della squadra, e l'unico modo di arrivarci è attraversare il campo a piedi in tutta la sua lunghezza e lui è gia a corto di fiato, a corto di parole, e la folla si sta arrampicando sulle recinzioni. Vede Thomson portato a braccia da una falange di uomini, giocatori e altri, per lo più altri - i giocatori si sono allontanati di corsa, stanno schizzando verso gli spogliatoi - e vede Thomson tutto sbilenco sulle spalle di uomini che forse lo porteranno dritto filato fuori dallo stadio, nelle strade per una festa di quartiere. Gleason è in pieno naufragio, prosciugato e ingobbito e non ha neanche la forza di chiedersi il perché di tutte quelle grida. Il campo striato di folla, gente che tira il berretto per aria, bambini vivaci che imitano aerei in virata, le braccia aperte con un'inclinazione perpendicolare al terreno. Ed ecco Cotter che si infila sotto un sedile. Dappertutto in citta la gente sta uscendo di casa. Tale è la natura del fuoricampo di Thomson. Fa venir voglia alla gente di uscire per strada, mescolarsi, raccontare ad altri quello che è successo, ai pochi che non l'hanno sentito - paragonando facce e stati d'animo. E Russ ha un microfono rovente davanti a sé e deve trovare qualcuno che lo prenda e ci parli dentro in modo da poter scendere in campo e riuscire a passare intatto attraverso quella calca. E Cotter è sotto un sedile a contendere la palla a qualcun altro, usando tutta la forza delle mani. Sta tentando di rinsaldare la presa. Sta cercando di isolare la mano del rivale in modo da far leva sulla palla e liberarla dito per dito. E' un angusto teatrino di mani e braccia, un vero scontro marziale secondo le regole della lotta libera. La gamba di ferro della sedia gli sega la schiena. Sente il respiro affannoso del rivale. Stanno lottando per un vantaggio, cercano di guadagnare posizione. Il rivale è tagliato fuori dallo schienale, è a faccia in giù nella fila superiore con soltanto il braccio infilato sotto il sedile. La gente controlla scrupolosamente l'ora sull'orologio in cima alla facciata cesellata della clubhouse, all'alto bastione - prendono nota dell'ora in cui la palla è andata a segno.
E' un piccolo conflitto serrato di dita e centimetri, tutta una vita di sforzi compressa in pochi secondi. Cotter riesce a mettere entrambe le mani intorno al braccio del rivale appena sopra il polso. Agisce alla svelta, pensa alla svelta se ci metti troppo la gente prende partito. Il rivale, il nemico, il viso pallido, con le vene tirate e gonfie tra le nocche bianche. Se la gente prende partito, che possibilita ha Cotter? Due attacchi di cuore, non uno. Un secondo uomo crolla sul campo, un tipo ben vestito, e non è che cada, non esattamente, si affloscia, piuttosto, un ginocchio alla volta, lento e controllato, si abbassa appoggiato alla mano destra e infine rotola in avanti come un sacco. Nessuno pensa che sia uno scherzo. L'uomo non è tipo da rotolarsi per terra come un cane. Le mani di Cotter sono intorno al braccio del rivale, lo torcono in direzioni opposte, bruciando la pelle - si chiama fare gli spilli, ve lo ricordate? Una mano gira da una parte, l'altra dalla parte opposta, torcendo forte, lavorando in fretta. C'è una pausa nel respiro del rivale. Si ferma per registrare il dolore. Adesso non può che piangere la sua cattiva sorte e Cotter sente il braccio sobbalzare e le dita mollare la palla. Thomson scende a forza dalle spalle degli uomini che lo portano, mena colpi, si libera delle mani che cercano di afferrarlo - vede i giocatori osservare intenti la scena dalle finestre degli spogliatoi. E Cotter tiene fermo il braccio del rivale con una mano e protende l'altra verso la palla. La vede rotolare via oltre la gamba del sedile, oscillando sulla superficie granulosa. La intrappola, per così dire, con lo sguardo, e sporge la mano a paletta. La palla rotola all'aperto seguendo un percorso minuziosamente tortuoso. Il gesto della sua mano è vecchio come lui. Deve averla allungata repentinamente verso una cosa o l'altra fin dall'istante in cui è uscito dalla culla. Tutto quello che sa è contenuto nelle dita allargate di quest'unica mano incurvata. Il cuore, il mio cuore. L'intera battaglia sotto il sedile è durata solo qualche secondo. Adesso Cotter sta rinculando, si sta muovendo precipitosamente - ha preso la palla, la sente calda e ronzante nella mano. Percepisce vagamente la gente che lo lascia passare brontolando, lo lascia passare ma senza fretta, facce qualsiasi con gli occhi spenti. La palla trasuda il calore e il sudore della mano del rivale. Cotter tiene il braccio a penzoloni e cerca di togliersi qualsiasi espressione dalla faccia, più spaventato adesso di quando ha saltato il tornello ma deciso a sembrare freddo e indifferente mentre scende di fila in fila scavalcando gli schienali, insinuandosi tra corpi estranei e camminando sui sedili quando gli conviene. Guardate gli uscieri dello stadio che chiudendosi vicendevolmente le mani intorno ai polsi fanno un seggiolino per la vittima dell'attacco cardiaco e lo sollevano portandolo al pronto soccorso sotto le tribune. Un'occhiata alle sue spalle, si concede un'occhiata e vede il rivale che si sta rialzando. E' un uomo che non passa inosservato, stazza pesante e camicia bianca, non lo studente, come aveva creduto, il ragazzo con il giubbotto del college che aveva incominciato a contendergli la palla.
E l'uomo sorprende il suo sguardo. E' l'ultima cosa che Cotter desidera, questo mette in pericolo la causa. Ha fatto un errore a voltarsi a guardare. Si è concesso un'occhiata, uno sguardo in tralice, e adesso è prigioniero dello sguardo truce dell'uomo. Le cuciture in rilievo della palla gli pulsano nella mano. I loro occhi si incontrano negli spazi tra i corpi che dondolano, le facce che si sporgono e le ampie schiene dei tifosi che gridano. Tutt'intorno fervono i festeggiamenti. Ma lui è prigioniero dello sguardo dell'uomo e quando si scambiano un'occhiata al di sopra della folla e attraverso la folla, si accorge che l'altro è Bill Waterson con la camicia bianca tutta macchiata e i capelli scarmigliati ritti in testa - il buon vicino Bill, che lo sta guardando con un sorriso da tagliagole. Morti che sono venuti a prendere i vivi. Morti avvolti nel sudario, reggimenti di morti a cavallo, uno scheletro che suona l'organetto. Edgar si è fermato nel corridoio per affiancare le due pagine combacianti della riproduzione. La gente sta scavalcando i sedili, lancia grida rauche alla volta del campo. Lui resta fermo con gli occhi fissi sulle pagine. Non si era accorto di avere solo meta del quadro finché non è arrivata svolazzando anche la pagina di sinistra, offrendogli la fugace visione di un terreno marrone ruggine e di un paio di uomini scheletrici intenti a tirare le corde di una campana. La pagina ha sfiorato il braccio di una donna ed è volata contro il petto di Edgar timorato di Dio. Thomson è sbucato al centro del campo esterno adesso, e cerca di schivare i tifosi che arrivano correndo e saltando. Gli saltano addosso, vogliono buttarlo a terra, mostrargli le foto di famiglia. Edgar legge le didascalie sulla pagina di sinistra. Questa è un'opera del sedicesimo secolo dipinta da un maestro fiammingo, Pieter Bruegel, e si intitola Il trionfo della morte. Un titolo forte, pensa. Ma ne è affascinato, lo ammette - la pagina di sinistra è forse migliore di quella di destra. Osserva la carretta dei condannati a morte piena di teschi. E' fermo nel corridoio e guarda l'uomo inseguito dai cani. Guarda il cane macilento che mordicchia il neonato tra le braccia della madre morta. Sono segugi lunghi, scarni e famelici, sono cani da guerra, cani dell'inferno, segugi da fossa comune infestati dai parassiti, da tumori canini e cancri canini. Il caro Edgar senza-germi, l'uomo che ha installato in casa un impianto di filtraggio dell'aria per vaporizzare le particelle di polvere - è affascinato da ulcere, lesioni e corpi macilenti a patto che il suo contatto con la fonte sia puramente figurativo. Trova una seconda donna morta nel mezzo della scena, cavalcata da uno scheletro. La posizione è inequivocabilmente sessuale. Ma è proprio sicuro Edgar che sia una donna quella che viene montata e non un uomo? E' fermo nel corridoio circondato da gente festante e ha gli occhi fissi sulle pagine. Il quadro possiede un'immediatezza che Edgar trova strabiliante. Sì, i morti si accaniscono sui vivi. Ma poi incomincia ad accorgersi che i vivi sono peccatori. Giocatori di carte, amanti libidinosi, vede il re in manto di ermellino con le sue ricchezze ammassate dentro barilotti. I morti sono venuti a svuotare le borracce ricolme di vino, a servire un teschio sul piatto di portata a una tavolata di notabili. Vede ingordigia, lussuria e cupidigia.
Edgar adora questa roba. Edgar, Jedgar. Ammettilo - ti piace molto. Ti fa venire la pelle d'oca. Scheletri col cazzo peloso. Scheletri che suonano il timpano. Il morto vestito di un saio che taglia la gola a un pellegrino. I colori della carne sanguinolenta e le cataste di corpi, questo è un censimento dei modi più orribili di morire. Guarda il cielo fiammeggiante all'estremo orizzonte, al di la dei promontori sulla pagina di sinistra - la Morte altrove, la Conflagrazione diffusa, il Terrore dappertutto, cornacchie, corvi in silenziosa planata, il corvo appollaiato sulla groppa del cavallino bianco, bianco e nero per sempre. Edgar pensa a una torre solitaria che si erge nel Kazakistan, nella zona degli esperimenti nucleari, una torre armata con la bomba, e riesce quasi a sentire il vento che soffia sulle steppe dell'Asia Centrale, la dove vive il nemico in cappotto lungo e colbacco di pelo, parlando quella sua lingua antica, liturgica e grave. Che storia segreta stanno scrivendo? C'è il segreto della bomba e i segreti che la bomba ispira, cose che non riesce a indovinare nemmeno il Direttore - un uomo il cui cuore appartato racchiude tutti i purulenti segreti del mondo occidentale - perché queste trame si stanno sviluppando solo adesso. Ma una cosa sa per certo, ed è che lo spirito della bomba è impresso non solo nella fisica di particelle e raggi, ma nell'occasione che crea per nuovi segreti. Perché per ogni esplosione atmosferica, per ogni immagine fugace che riusciamo a cogliere della forza bruta della natura, quell'inquietante occhio senza palpebre che esplode sul deserto - per ciascuna di queste cose, Edgar immagina che almeno cento segreti vadano sotto terra, a moltiplicarsi e a tramare. E qual è il rapporto tra Noi e Loro, quanti collegamenti troviamo nel labirinto neurale? Non basta odiare il proprio nemico. Bisogna capire che ciascuno dei due contribuisce alla completezza dell'altro. Morti di lunga data che fottono morti recenti. Morti che dissotterrano le bare. Sulle colline, morti che suonano vecchie campane incrostate, rintocchi per i peccati del mondo. Alza gli occhi per un momento. Distoglie lo sguardo dalle pagine è uno sforzo di volonta lacerante - e guarda la gente sul campo. Quelli che sono felici e inebetiti. Quelli che corrono intorno alle basi gridando a squarciagola il punteggio. Quelli che sono talmente eccitati che stanotte non dormiranno. Quelli la cui squadra ha perso. Quelli che tormentano i perdenti. I padri che correranno a casa a raccontare ai figli quello che hanno visto. I mariti che faranno una sorpresa alle mogli portando fiori e cioccolatini. I tifosi ammassati davanti ai gradini degli spogliatoi che recitano in coro i nomi dei giocatori. I tifosi che fanno a pugni sul metrò tornando a casa. Gli urlatori e gli attaccabrighe. I vecchi amici che si incontrano per caso vicino alla seconda base. Quelli che illumineranno la citta con la loro gioia. Cotter cammina a un'andatura normale nella luce del dopo scuola. Oltrepassa lunghe schiere di case popolari lungo l'Ottava Avenue con un piccolo balzo solenne nella falcata, una specie di interminabile su-e-gi£ molleggiato, e Bill è alle sue spalle, una trentina di metri più indietro. Vede il cartellone del Potere della Preghiera, tiene la palla nella mano destra e la strofina parecchie volte, si guarda alle spalle e vede lo studente con il giubbotto bicolore arrivare dietro a Bill, il
ragazzo che si era lanciato per primo nella mischia per la palla. Bill ha perso il suo sorriso da cowboy. Sembra non accorgersi nemmeno dell'esistenza di Cotter, un ragazzo che va in giro in scarponcini Keds. Il corpo di Cotter vorrebbe scappare. Ma se cominciasse a correre adesso, si metterebbe nella situazione del ragazzo nero in fuga tra una massa di gente prevalentemente bianca inseguito da due bianchi furibondi che gridano al ladro o aiuto o chissa cos'altro. Camminano lungo la strada, tre membri segreti di un evento organizzato. Bill grida: - Dai Cotter fermati, l'abbiamo vinta insieme questa partita. Molta gente è scomparsa nelle macchine o nelle stazioni della metropolitana, altri stanno attraversando a frotte il passaggio pedonale sul ponte che porta al Bronx, ma ci sono ancora assembramenti sufficienti a ostacolare il traffico. La polizia a cavallo è di ronda. Alti in sella, ed eretti, gli agenti appaiono tra le macchine come esseri in levitazione. - Ehi Cotter, avevo messo le mani su quella palla prima di te. Bill parla in tono bonario. Ride, mentre parla, e Cotter non può fare a meno di trovarlo di nuovo simpatico. I clacson strombazzano lungo tutta la strada, rumori di gioia e felicitazione reciproca. Lo studente si intromette: - E' ora che io dica la mia, mi pare. Ci sono dentro anch'io, in questa storia, anzi, sono stato il primo a mettere le mani sulla palla. Molto prima di voi due, per essere precisi. Qualcuno me l'ha strappata di mano, se vogliamo stabilire chi è arrivato primo. Cotter segue il discorso dello studente con un'occhiata obliqua. Vede Bill fermarsi, e si ferma a sua volta. Bill si sta fermando per far scena. Vuole fermarsi per poter giudicare il giovane universitario, squadrarlo da capo a piedi, nei particolari. Sta esaminando il giubbotto bicolore, i corti capelli rossi, esamina il ragazzo nella sua totalita, la forma e la struttura complessive dello status del giovane universitario in quanto animale terrestre con un cervello superiore. E dice: - Cosa? - Niente di più e niente di meno. Solo un secco e duro cosa. E se ne sta lì a bocca aperta, il corpo afflosciato in una posa di comica ottusita carica di pericolo. Dice: - Chi diavolo sei comunque? Cosa ci fai qui? Ti conosco forse? Cotter segue la scena, divertito dall'espressione del ragazzo. Credeva di far parte di una squadra, lo studente, noi due contro lui. Adesso non sa più da che parte guardare. Bill dice: - Questa è una storia tra me e il mio amico Cotter. Una faccenda privata, chiaro? Non ti vogliamo qui. Ci rovini la festa. E, se proprio devo essere più esplicito, stasera ci sara una famiglia che si mettera a tavola senza il cocco di casa. Bill ricomincia a camminare e Cotter anche. Si guarda alle spalle e vede che il ragazzo segue Bill per un tratto, con passo incerto, poi resta indietro e incomincia a dileguarsi pian piano tra la folla. Bill guarda Cotter e fa un sorriso tirato. Ha un'espressione feroce, spietata. Tiene la giacca schiacciata in mano, arrotolata come se pensasse di lanciarla.
Col calare del buio il campo va assumendo una luce più intensa. L'erba è incandescente, ha calore e lucentezza. La gente gli corre accanto, semiabbacinata, e Russ Hodges si muove con l'andatura incerta di un turista al gran bazar, cercando di farsi strada a manate tra la folla. Alcuni uscieri stanno sollevando un ubriaco dalla linea di prima base e l'uomo si rannicchia in una massa informe, riesce a liberarsi e si mette a correre intorno alle basi con l'impermeabile troppo grande e lo strascico della lunga cintura. Russ si fa strada attraverso il diamante e, a passetti da ballerino, si mette a correre con una goffaggine che lo fa sentire vecchio ed estraneo, e pensa ai giocatori di baseball della sua giovinezza, gli uomini con soprannomi da bifolchi le cui imprese non mancava di seguire ogni giorno sui quotidiani, Eppa Rixey e Hod Eller e il vecchio Ivy Wingo, e ha un sorriso sciocco stampato in faccia perché è un uomo di quarantun anni con la febbre alta che sta attraversando di corsa un campo da baseball per intavolare una conversazione con un branco di atleti in mutande. Dice a uno che gli corre accanto:- Non ci credo. Non riesco ancora a crederci. Più in la, esattamente al centro, vede le finestre degli spogliatoi riflettere il balenio dei flash che esplodono all'interno. Sente uno stridulo evviva e girandosi vede l'ubriaco in impermeabile scivolare in terza base. Poi si accorge che l'uomo che corre al suo fianco è Al Edelstein, il suo produttore. Al grida: - Ci credi? - Non ci credo, - risponde Russ. Si stringono la mano correndo. Al dice: - Guarda questa gente -. Grida e gesticola, agitando un sigaro cubano. - E' una cosa che... bah, non so proprio come definirla. - Se non lo sai tu, figurati io. - Risparmia la voce, - dice Al. - La voce è morta e sepolta. E' andata in paradiso su un raggio di sole. - Però una cosa è certa, vecchio mio. La giornata di oggi non ce la scorderemo più. - Felice che la pensi come me, bello. Gli uomini si stringono di nuovo la mano correndo. Sono gia a meta del campo esterno e Russ ha tutte le articolazioni doloranti. Le finestre degli spogliatoi catturano il lampo dei flash che esplodono all'interno. Nel box dall'altra parte del campo Edgar si mette il cappello in testa, sulle ventitré. E' un cappello floscio grigio scuro che fa risaltare l'argento delle sue tempie brizzolate. Ha in tasca il Bruegel accuratamente piegato, si sta portando a casa le due pagine per esaminarle più a fondo. Sono rimasti a migliaia sugli spalti, incapaci di andarsene, e guardano la gente sul campo, mulinelli e strepiti senza scopo, figure isolate che si staccano correndo dagli assembramenti. Edgar vede qualcuno penzolare dal muro nell'area di centro-destra. Questi uomini che si gettano dall'alto dei muri amano restare un po' a penzoloni prima di lasciarsi andare. Toccano terra afflosciandosi e si rialzano lentamente. Ma è il dramma statico del corpo penzolante che Edgar trova irresistibile, il terrore del ripensamento.
Gleason è in piedi adesso, Jack il crapulone tornato a galla, tutto roseo e pronto a capitanare gli amici su per il corridoio. Prende in giro Frank. - Niente di personale, vecchio mio, ma mi chiedo se ti rendi conto che stai impestando lo stadio. A proposito di fetentoni. Riesco a sentire il tuo odore persino con Shor nelle vicinanze. Di solito, quando Shor è nei paraggi, i ciechi lavorano di bastone per non sbattere contro le pattumiere sul loro cammino. Shor trova la cosa divertente. Ha un luccichio negli occhi e la faccia tutta grinze. Adora gli insulti, le maldicenze e il dileggio, e se ne sta lì raggiante, gonfio d'amore come un pallone. E' il massimo che può passare tra uomini di una certa mentalita - uno scambio di battute di scherno che esprimono il reciproco affetto. Ma come la vede Frank? - Non è la mia puzza, - dice. - E' la tua puzza, amico. E, chissa come, è finita addosso a me. Ribatte Gleason: - Ehi, non crederai di essere il primo amico su cui vomito. Ho vomitato addosso a uomini migliori di te. Ritieniti onorato. E' una galanteria che riservo ai più intimi e ai più cari -. E qui agita la sigaretta. - Ma non pensare che io salga su una limousine con te dentro. Marciano verso la rampa d'uscita con Edgar in coda. Il Direttore si gira d'impulso a guardare il campo e vede un altro corpo cadere dal muro del campo esterno, un variegato insieme di arti, capelli e maniche svolazzanti. Il momento ha qualcosa di fantasmatico che lo agghiaccia e lo eccita spingendolo a mettere la mano in tasca e a toccare le lugubri pagine che ha nascosto. Ormai la folla si sta assottigliando rapidamente e Cotter supera l'ultimo drappello di polizia a cavallo giù verso la Centoquarantottesima strada. - Ehi, Cotter, vediamo di essere onesti. Tu me l'hai strappata di mano. E' un chiaro caso di scippo. Ma voglio essere ragionevole. Mettiamola in soldoni. Cosa ne dici di dieci dollari in moneta sonante? E' un fior di offerta, accidenti. Dodici dollari. Ti ci puoi comprare una palla e un guantone. - Questo lo dici tu. - D'accordo, costi quel che costi. Cerchiamo un negozio ed entriamo. Un guantone da baseball e una palla. Avete un negozio di articoli sportivi da queste parti? Cavolo, abbiamo vinto la partita della nostra vita. Abbiamo un buon motivo per festeggiare. - La palla non è in vendita. Non questa palla. Bill fa: - Lascia che ti dica una cosa, Cotter -. Poi si ferma e sorride. - Certo che hai una bella presa. Dovrei farmi medicare il braccio, senza scherzi. Me l'hai strizzato a morte. - Ringrazia che non ti ho morsicato. Ci stavo facendo un pensierino. Bill sembra deliziato dal modo in cui Cotter è entrato nello spirito del momento. Le strade laterali sono uno sfacelo di rifiuti abbandonati e vetri rotti, più i resti di una macchina mezza smontata accovacciata sul semiasse e uomini fermi sulla soglia di casa con l'aria completamente trasognata. Bill scatta verso Cotter, all'improvviso spicca quattro falcate, volutamente pesanti ed esagerate, con le braccia spalancate e un grugnito da film che gli esce dalla gola. Cotter lo prende come uno scherzo, ma non prima di essersi precipitato in mezzo alla strada, schivando per un pelo una macchina di passaggio.
Si sorridono attraverso il traffico. - Ti ho visto rannicchiato sul sedile e ho creduto di aver trovato un amico. Questo è un tifoso del baseball, ho pensato, non un delinquente di strada. Sembri decisissimo a deludermi. Cotter? Gli amici si siedono insieme e cercano di trovare una soluzione. I lampioni stradali sono accesi. Adesso stanno camminando spediti e Cotter non sa bene chi abbia accelerato l'andatura per primo. Sente un dolore alla schiena nel punto in cui la gamba del sedile gli premeva contro. - Avanti, dimmi quanto mi costera separarti da quella palla da baseball, figliolo. A Cotter non piace il tono di quest'ultima richiesta. - Voglio quella maledetta palla. Cotter continua a camminare. - Ehi villanzone, sto parlando con te. Cosa credi, che questo sia un divertimento a buon mercato? Tirarti dietro lo scemo, eh? - Puoi parlare finché ti pare, - fa Cotter. - Ma la palla non è tua, è mia. E non la vendo e non la scambio con niente. Una macchina arriva sterzando dalla avenue, e Cotter si ferma per lasciarla passare. Poi sente qualcosa muoversi intorno a lui. C'è un fremito sull'asfalto o nell'aria e un attimo di perplessita sulla faccia di una donna lì vicino - il suo sguardo si sposta per controllare cosa succede alle spalle di Cotter. Lui si gira e vede arrivare Bill immenso e veloce, pompando con le braccia. Che sbattimento per una palla da baseball. La faccia congestionata di Bill, la stoffa lisa sulle sue ginocchia. La sua espressione non ha niente a che fare con lui, sembra un uomo uscito da tutt'altra esperienza, disperato e irrefrenabile. Cotter resta lì impalato per un lungo secondo. Fa una finta con la testa, poi si mette a correre giù per la strada laterale vuota con Bill alle calcagna, vicinissimo. Si ferma bruscamente e si abbassa scivolando in ginocchio e ruotando sulla mano destra, la mano della palla, premendo forte la palla sull'asfalto e usandola come perno. Bill lo oltrepassa in un ronzio di respiri affannosi, un ronzio articolato molto simile alla parola. Cotter lo vede fermarsi e girarsi. Trasuda rabbia, la faccia congestionata e contorta. Una manica della giacca che ha in mano è caduta penzoloni e striscia silenziosamente per terra. Cotter torna di corsa verso la avenue con il fruscio di un respiro alle spalle. Hanno superato la folla dello stadio, sono in piena Harlem adesso - Cotter non deve far altro che arrivare all'angolo, alle luci e alla gente. Vede neon di bar e lenzuola stese ad asciugare. Vede Polli Freschi di Fattoria. Legge la scritta o forse la assimila tutta intera, e c'è in essa uno strano senso di calma e compiutezza, un segno di sicurezza. Due donne si scostano nel vederlo arrivare - guardano l'inseguitore alle sue spalle e Cotter nota la loro espressione allarmata, l'acuirsi dell'attenzione. Bill è vicino, fa rimbombare l'asfalto con le sue scarpe da uomo d'affari. Nella avenue Cotter piega a sud, corre per mezzo isolato, poi si gira con una piroetta, si produce in una serie di sbeffeggi - corre all'indietro per un tratto, trotterella, si prende gioco di Bill, mostrandogli la palla da baseball. E' un burlone incattivito. Tiene la palla all'altezza del petto e se la rigira tra le dita, il che non è facile quando si corre - fa ruotare la palla sul proprio asse, la fa roteare lentamente, mostrando i duecentosedici punti di cotone
rosso in rilievo. Non ditemi che non vi piace questa mossa. La manovra fa rallentare Bill. Guarda Cotter che pedala all'indietro, con passo da ballerino, e non vede via d'uscita. Perché grazie alla manovra si rende conto di dove si trova. Del fatto che Cotter non ha paura. Del fatto che sta esibendo la palla da baseball. Bill si ferma del tutto ma è troppo furbo per guardarsi intorno. Meglio limitare il campo visivo alla zona immediatamente circostante. Perché non sai chi potrebbe ricambiare il tuo sguardo. E man mano che Bill prende atto della situazione, aumenta lo spazio per la rabbia di Cotter. Non sa bene come sfogarla. E' la seconda volta che si prende gioco di qualcuno oggi, ma non prova un impulso iroso come quello di placcare il poliziotto. L'intensita dello sfondamento dei cancelli è un vago ricordo ormai - Cotter è confuso e stanco e non riesce a tirar fuori il suo sguardo truce da teppista. Quindi si ferma a guardare Bill con i piedi ben piantati per terra mentre i passanti guardano e non guardano. Fa roteare la palla in alto e sul dorso della mano e l'acchiappa al volo quando gli scivola giù dal polso, con una rapida torsione della stessa mano, tipo vaffanculo mister, con chi credi di avere a che fare. Guarda Bill, un uomo accaldato e ansimante che ha rincorso inutilmente sulle rotaie il treno delle nove e cinque. Poi gli gira le spalle e si incammina lentamente giù per la strada. Incomincia a pensare all'incredibile finale di partita. Quello che non poteva succedere in realta è successo. Vuole tornare a casa e sedersi in silenzio, rivivere il momento, lasciarsi travolgere dal fuoricampo, immergere il corpo in un bagno di calma, il piacere sicuro che arriva dopo l'avvenimento. Un uomo grida da una finestra a un altro seduto sui gradini. - Ehi bello, ho sentito che ti ha ingessato il manganello. Cotter si gira da una parte, guarda dall'altra, con la sensazione che i luoghi gli siano sempre più familiari. Vede un ragazzo che conosce ma non si ferma a mostrargli la palla o a vantarsi della partita. Sente ancora il dolore alla schiena dovuto alla pressione del sedile. Vede un predicatore di strada che sta facendo un discorso, un uomo alto con un abito sbrindellato e un paio di mollette da bicicletta appuntate ai pantaloni all'altezza della caviglia. Sente una leggera depressione farsi strada nella sua mente. Vede quattro tizi di una gang locale, gli Alhambras, e attraversa la strada per evitarli, poi attraversa di nuovo. Arriva nella sua strada, sale i gradini dell'ingresso, si immerge nell'aria rancida del suo caseggiato e sente la lieve depressione della luce che scolora, una sensazione che gli è gia capitato di provare un migliaio di volte. Merda, ragazzi. Non voglio andare a scuola domani. Russ Hodges si è issato su una cassa di attrezzature per descrivere la scena negli spogliatoi, e sa che sta facendo un discorso insensato, e i giocatori che si arrampicano sulla cassa per parlare con lui dicono cose altrettanto insensate, e parlano tutti con voci innaturali, voci sfalsate, scricchiolii umani nella notte. Altri si sono lasciati inchiodare agli armadietti dai reporter, dai parenti e dai dirigenti e non possono accedere ai liquori e alla birra piazzati
su un tavolo in mezzo alla stanza. Russ tiene il microfono sopra la testa perché raccolga il rumore, poi lo riabbassa e dice un'altra cosa insensata. Thomson esce sulla veranda per rispondere alla cantilena degli inni in suo onore e c'è gente dappertutto, sono sui gradini con le guardie dello stadio che mantengono l'ordine, e ce ne sono altre migliaia ammassati al di la dello spazio tra i muri sporgenti della gradinata, molte braccia protese verso Thomson - stanno indicando con le dita o implorando o alzando il pugno della vittoria o esprimendo il desiderio di toccarlo, uomini in abito scuro e cappello la sotto, e altri che si sporgono dal muro della gradinata sopra Bobby, allungando le braccia, a rischio di cadere giù, alcuni vicinissimi a toccarlo. Al, il produttore, dice: - Lavoro fantastico, oggi, caro Russ. - E' stato fantastico anche solo essere qui oggi. - Che esperienza. - Fumerei volentieri un sigaro, ma sarebbe letale. - Che esperienza, - dice Al. - Di sicuro abbiamo fatto un miracolo. Tutti insieme. Accidenti, me ne rendo conto solo adesso. - Cos'è una partita di baseball, per farci sentire così? - Devo tornare indietro. Ho lasciato il soprabito in cabina. - Abbiamo bisogno di una camminata per calmarci. - Una lunga camminata. - Quello è l'unico soprabito che ti sia mai piaciuto, - dice Al. Se ne vanno attraverso gli spogliatoi dei Dodgers e naturalmente c'è Branca, è la prima cosa che si vede, disteso a faccia in giù su una rampa di sei gradini, con i piedi che toccano il pavimento. E' ancora in divisa a eccezione di maglia e berretto. Indossa una canottiera bagnata e ha la testa affondata tra le braccia incrociate sull'ultimo gradino. Al e Russ parlano a qualcuno degli uomini rimasti. Parlano piano e cercano di non guardare Branca. Guardano ma si dicono che non lo stanno facendo. Accanto a Branca c'è un coach in divisa completa ma senza berretto, seduto a fumare una sigaretta. Si chiama Cookie. Nessuno vuole incrociare lo sguardo di Cookie. Al e Russ parlano sottovoce a qualche altro giocatore e tutti quanti cercano di non guardare Branca. Sui gradini degli spogliatoi dei Dodgers non c'è quasi nessuno. Thomson è tornato dentro ma ci sono ancora dei tifosi in zona che si sbracciano e inneggiano. I due uomini incominciano ad attraversare il campo esterno e Al indica il punto sulle tribune dell'area sinistra in cui è caduta la palla. - Metteteci una targa. Come nel posto in cui Lee si arrese a Grant o roba del genere. Russ pensa che questo sia un altro tipo di storia. Pensa che usciranno di qui portandosi dietro qualcosa che li unira in modo raro, che li leghera a un ricordo dotato di una forza protettiva. La gente si sta arrampicando sui lampioni in Amsterdam Avenue, sta suonando i clacson a Little Italy. E' possibile che questo momento di meta secolo ci entri nella pelle in modo più durevole che non le lungimiranti strategie di controllo di eminenti leader, generali d'acciaio con i loro occhiali da sole - le visioni chiare e dettagliate che squarciano i nostri sogni? Russ vuole credere che una cosa come questa ci terra chissa come al sicuro. Questa è una cosa che pulsera nel suo cervello anche quando arrivera la vecchiaia, la
vista annebbiata e gli attacchi di vertigine - quella sensazione di impeto, il balzo della gente gia in piedi, l'esplosione di rumore e di gioia quando la palla va a segno. Questa è la storia della gente, e ha carne e respiro che si rianimano in sintonia con la forza di questo nostro vecchio gioco collaudato. E i tifosi di oggi al Polo Grounds potranno raccontarlo ai loro nipoti - saranno dei vecchi chiacchieroni con un piede nel prossimo secolo e cercheranno di convincere chiunque sia disposto ad ascoltarli, insistendo con alito da medicinali, che loro c'erano, quando è successo. L'ubriaco con l'impermeabile sta correndo a toccare le basi. Lo vedono aggirare la prima, pagaiando l'aria con le mani per evitare di sconfinare nell'area destra. Si avvicina alla seconda in un parapiglia di lembi di impermeabile, arti, stringhe slacciate e cintura svolazzante. Si accorgono che sta per scivolare e si fermano a guardarlo andare a gambe all'aria. Tutti i frammenti del pomeriggio si accumulano intorno alla sua figura a mezz'aria. Urli, schiocchi di mazza, vesciche piene e sbadigli isolati, il numero infinito di cose che, come granelli di sabbia, non si possono contare. Tutto sta scivolando indelebilmente nel passato. NOTE: (*) Harry Caray in inglese suona come harakiri [N'd't']. Parte prima: Long Tall Sally. Primavera - Estate 1992 Capitolo primo Stavo guidando una Lexus nel vento sferzante. Si tratta di una macchina montata in un ambiente di lavoro completamente privo di presenze umane. Neanche una goccia di sudore mortale, salvo, d'accordo, i ragazzi che guidano il prodotto fuori dallo stabilimento - concedete un velo di umidita nei punti in cui impugnano il volante. Il sistema va avanti ininterrottamente, automatizzato fino a una precisione rituale, ogni scorrimento collaudato per il massimo della performance. Scocche vuote che arrivano in interminabile sequenza. Non c'è nessuno alla catena di montaggio con nervi da caffeina o un'anamnesi di depressione clinica. Solo lo strano incrociarsi di leghe di cromo trasportate lungo archi sincronizzati, ferro e fogli d'asfalto, ambiziosi finimenti di carrozzeria adattati e incorporati. Robot che stringono i bulloni, sgobboni programmati che non sognano i morti di famiglia. Per certi versi è una conquista, macchine costruite e modellate lontano dallo spiaccichio della parola umana. In questo senso la mia macchina a noleggio si sposava perfettamente con il paesaggio che stavo attraversando. Tremolii di calore si levavano dalla piana deserta. Un cielo bianco-esangue con folate di vento ticchettanti che sventagliavano polvere sul parabrezza. E ogni specie praticamente assente dalla scena - eccetto me, naturalmente, e io c'ero a malapena. Diciamo semplicemente che il deserto è un impulso. Avevo deciso di punto in bianco di cambiare volo, prendere una macchina e andare per strade poco battute. C'è qualcosa riguardo ai vecchi tempi che viene
soddisfatto dalla spontaneita. Più in fretta uno decide, meglio si libera del debito con la memoria. Volevo rivederla, provare qualcosa e dire qualcosa, poche parole, non troppe, e poi tornar via nella lontananza ventosa. Era tutto lontananza. Era una distesa ininterrotta di terra arida e cielo, e un'impalpabile traccia di montagne, basse e accovacciate in fondo, montagne o nuvole, a forma di gatto, di puma - com'è umano vedere una cosa come qualcos'altro. La vecchia strada piegava a nord, più o meno al traverso rispetto al sole, e io volevo sentire il caldo sulla faccia e sulle braccia. Spensi l'aria condizionata e abbassai i finestrini. Presi il tubetto della lozione solare, fattore quindici di protezione, una cosa che tengo sempre a portata di mano anche se sono di pelle olivastra, scuro come lo era mio padre. Rallentai fino ad avanzare a passo d'uomo, senza mani, e mi spalmai la lozione su meta della faccia e su un braccio, le parti del corpo esposte, perché avevo cinquantasette anni e stavo ancora imparando a essere assennato. Lozione muschiosa al cocco e sapore adolescente di caldo e di spiaggia e un ricordo sommerso di acqua di mare impetuosa, bruciore di sale negli occhi e nel naso. Strizzai il tubetto fino a prosciugarlo. Un risucchio, uno schiocco e si vuotò del tutto. Intravidi qualcosa, un'immagine mentale, una specie di scarica nervosa, un flash da deserto - la brevissima chiazza di colore di un gelataio che gesticolava nella sabbia alta. Più tardi il vento calò e una catena di nuvole dai bordi rosa pallido si profilò bassa e immobile in cielo. Adesso ero su una strada sterrata, spettacolarmente sperduto. Fermai la macchina e scesi a scrutare il paesaggio, sentendomi decisamente stupido, e mi parve di vedere dei rifugi sotterranei tra la iucca - vecchi bunker di cemento, residui di una posa di mine nel terreno o di un sito destinato a esperimenti bellici. Sarebbe stato buio nel giro di quarantacinque minuti. Avevo un quarto di serbatoio di benzina, mezza lattina di tè freddo, niente da mangiare, nessun indumento caldo e una cartina avara di dettagli. Avrei bevuto il mio tè e sarei morto. Poi ecco un gran polverone, una massa nebulosa che si alzava sulla linea del tramonto. E un oggetto in avvicinamento che mi fece venire in mente un centinaio di film in cui qualcosa attraversa la pianura ondulata, un uomo a cavallo con il fucile nel fodero o un cammelliere solitario ingobbito nella mussola sulla sua bestia dalla testa ottusa. Questa era una cosa diversa: sollevava due getti gemelli di sabbia e arrivava a velocita sostenuta. Ma non era il solito veicolo normale, buono per tutti i tipi di terreno. Aveva una luce sul tetto e mandava un bagliore di vernice gialla, era vistoso e sobbalzante, chiassoso come un cartone animato. La più felice delle apparizioni stava caracollando nei solchi della strada come un oggetto di pop art. A meno di cinquanta metri di distanza. Sembrava, anzi era chiaramente, un taxi newyorchese, incredibile ma vero, più giallo di un tuorlo d'uovo, e arrivava sparato. Che gesto avrei potuto inventare migliore della classica mano alzata per fermare un taxi? Ma quel maledetto affare non rallentò. Finestrini aperti, musica che usciva a fiotti - un'ondata di rock steroidale. Indietreggiai per togliermi dalla strada, il braccio ancora alzato, quello della lozione solare, viscido di sostanze chimiche. Vidi che il taxi era
stracolmo di gente e mentre passava gridai - il nome di una persona, una parola d'ordine nell'aria pulsante. - Klara Sax, - ecco cosa gridai. E ci furono grida di risposta. Il taxi rallentò bruscamente e li sentii ridere allegri. Poi da due o tre finestrini sbucarono delle braccia che salutavano e mi facevano segno di seguirli, e un'unica testa gialla sorridente, una donna bionda, solare e giovane, girata verso di me - la conducente, che guidava serena in tutta quella baraonda senza guardare la strada - e il taxi sgommò via, svignandosela tra la vegetazione sparuta attraverso il deserto. Salii sulla mia macchina silenziosa e lo seguii. I volontari erano per lo più studenti d'arte ma c'era anche altra gente, laureandi in storia e insegnanti in vacanza, nomadi e fuggitivi, un andirivieni continuo, hacker sfibrati in cerca del mondo senza fili, gente che aveva sentito il richiamo, quel sussurro all'orecchio che ti fa uscire dalla porta per entrare in una zona di gioco esaltato. Lavorare con le mani, scrostare e dipingere. Rimestare la miscela inerte. Vedere le pennellate segnare una superficie. Pigmento. I grassi animali e i polimeri che si mescolano per fare questa parola. Furono gentili con me. Mangiavano e dormivano in un gruppo di baracche abbandonate ai margini di un'enorme base aerea con gabinetti, docce, brande e un deposito viveri improvvisato. Erano una manodopera allegra e versatile. Riparavano oggetti, cantavano canzoni, raccontavano storielle divertenti. Quando il loro numero superava la capacita delle baracche, dormivano in tende militari a due posti, o nei sacchi a pelo, o nelle loro macchine impolverate. Dissi a uno studente col distintivo dell'accoglienza che non ero lì per lavorare col pennello o la sabbiatrice ma solo per vedere il lavoro - l'opera d'arte, il progetto, comunque si chiamasse - e per fare un saluto, se possibile, a Klara Sax. Gli dissi che non volevo privarli di spazio e lui mi indicò la strada per un motel dove avrei potuto passare la notte, a circa venticinque miglia di distanza, poi mi diede appuntamento a più tardi in un posto che chiamò il laboratorio di pittura. Mi lavai via la lozione solare dalle mani e dalla faccia e mi misi in coda per mangiare: panini, kiwi e succo di frutta. Poi mi sedetti a chiacchierare con altri cinque o sei di loro. Erano tutti simpatici. Chiesi del taxi e mi dissero che era la macchina di qualcuno, e che avevano deciso di dipingerla e decorarla come regalo di compleanno per Klara, qualche giorno prima. Non la macchina in sé, che era stata restituita al proprietario sotto forma di taxi, ma la verniciatura, il gesto, il senso ancestrale della sua New York. Mi chiesero di dov'ero e risposi con una battuta che usavo spesso. Vivo una vita tranquilla in una casa senza pretese in un quartiere residenziale alla periferia di Phoenix. Come uno del programma per la protezione dei testimoni. Ormai la odiavo, quella battuta, ma aveva il potere di smussare l'intimita delle domande, di dare un tono ostentatamente superficiale alla conversazione. Mentre parlavamo continuai a guardarmi intorno alla ricerca della tassista dai capelli biondo miele. Parecchia gente portava T-shirt con la scritta “Long Tall Sally”. Pensavo di poter indovinare l'eta di Klara con un margine di due o tre anni, e quando chiesi quanti anni avesse festeggiato qualcuno
disse settantadue. Più o meno come pensavo. Era una notte limpida con un turbine di stelle che brillavano basse e vicine e una brezza dolce che sfiorava la terra. Guidai per un minuto e mezzo circa - non andare a piedi, mi avevano raccomandato e seguii una fila di catarinfrangenti piantati nel terriccio. C'era un cordone di lampadine, un capannello di jeep e furgoni e un'unica lunga costruzione di cemento alta poco più di tre metri e divisa in una dozzina di scomparti grandi come una stanza e aperti sul davanti e sul retro. Era il centro operativo, dove veniva coordinato il progetto creati i disegni, assegnati i compiti quotidiani, immagazzinata la maggior parte del materiale. Uno degli spazi era pieno di gente, e individuai un microfono a giraffa sopra l'ammasso di teste. Luci, una telecamera, una donna con il blocco degli appunti - e spettatori, gente che lavorava al progetto, una quarantina, alcuni con maschere protettive a penzoloni sul petto, molti con T-shirt o giubbotti con la stessa scritta che avevo gia visto. Parcheggiai nelle vicinanze e camminai fino ai margini del gruppo. Mi ci volle un momento per trovare l'oggetto della mia ricerca. Era seduta su una sedia da regista con un bastone al fianco e una gamba appoggiata su un secchio capovolto. Fumava una sigaretta nera e parlava con la gente mentre la troupe si preparava per le riprese. Adesso che ero a un paio di parole, a un nome di distanza, la stranezza di quel viaggio mi incalzava. Diciassette anni. Tanti ne avevo l'ultima volta che l'avevo vista. Sì, proprio così, e dopo tutto questo tempo, forse le sarei sembrato una presenza invadente, l'immagine di un sogno angoscioso venuta in carne e ossa a cercarla attraverso un deserto. Rimasi fermo a guardare, cercando di trovare il coraggio di avvicinarla. E forse la cosa ancora più singolare, più strana che non tutti quegli anni passati, era che riuscivo a vederla in retrospettiva. Riuscivo a sollevare la donna più giovane da quella sedia, a separarla dalla persona con un paio di pantaloni scozzesi scuri e una vecchia giacca di pelle scamosciata seduta lì a parlare e a fumare. Avevo visto delle foto di Klara, ma non ero mai riuscito a isolare completamente la donna che avevo conosciuto, pallida ed eretta, con una strana piega della bocca, la bocca un po' storta che la faceva sembrare distaccata da quello che diceva. E gli occhi evasivi, lo sguardo che sembrava deviare la domanda di cosa volevamo l'uno dall'altra. Aveva un'aria famosa e speciale, famosa persino ai suoi stessi occhi, famosa anche da sola in cucina a prepararsi un'insalata. Aveva i capelli bianchi, di una lucentezza minerale, tagliati corti intorno al viso ovale con una frangetta decorativa sulla fronte. Portava una T-shirt arancione sformata sotto la giacca, una collana e diversi anelli, una scarpa da ginnastica bianca e una calza del colore del grappolo d'uva sulle lattine di Kool-Aid. Il piede infortunato era avvolto da una fascia elastica marroncina. Qualcuno passò con un bicchiere di carta e lei ci lasciò cadere la sigaretta. Si era messa del fard scuro sugli zigomi, e il trucco le dava un'aria severa, mortifera persino, di grande effetto. Ma io riuscivo a vedere la donna più giovane. Riuscivo a evocarla con uno stratagemma della mente perché occupasse il posto che avevo preparato, occhi leggermente a mandorla e mani sottili come carta, e
quel modo di sorridere tra sé e sé, incredula al pensiero di noi due insieme, e quel modo di muoversi, come in differita - la mente inizia a lavorare e il corpo le va dietro. La osservai. Quei primi trenta secondi avevano una forza compressa, sentivo il mio respiro cambiare ritmo. Quelli della troupe erano inviati della televisione francese, pronti a iniziare le riprese. Gli spettatori si zittirono. La donna con il blocco degli appunti si accovacciò fuori campo appena oltre l'inquadratura della telecamera, nel punto dal quale avrebbe fatto le sue domande. Era sui quarantacinque, flessuosa, capelli striati di grigio e jeans d'antiquariato, una sacca di tela con la tracolla afflosciata ai suoi piedi. - Bene possiamo incominciare credo, - disse. - Io posso dire tutte le stupidaggini che voglio perché le mie domande verranno tagliate dal filmato. E' la regola, okay? Se mi impapero con l'inglese non c'è problema. - Ma io devo essere brillante, divertente, profonda e affascinante, - disse Klara. - Sarebbe davvero molto carino. Cominciamo dall'incidente alla gamba. Ci può raccontare cos'è successo, okay? - Sono caduta da una scala a pioli. Una cosa da niente. Ho mancato un piolo da qualche parte mentre salivo. Usiamo qualsiasi strumento ci capiti a tiro. Non abbiamo un tetto sopra la testa, un hangar o un'officina. Non abbiamo le impalcature, le piattaforme che hanno nei capannoni di montaggio dove fanno lavori di costruzione e di riparazione. Mi avvicinai e mi trovai a pochi passi dallo studente con il distintivo dell'accoglienza che si era offerto di trovarmi una stanza. L'intervistatrice disse: - Allora lei si arrampica, lavora. - E' solo una caviglia slogata. Basta un'aspirina. Sì, a volte salgo lassù in cima. Se non è troppo dura, se il caldo è sopportabile, insomma. Bisogna che veda il lavoro, che lo senta. Abbiamo molti volontari robusti, ma io ho bisogno di dare un contributo di quando in quando. - Stasera sono stata al cantiere per la prima volta e ho visto molte scale a pioli e gente che camminava carponi sulle ali. Portano la maschera. Hanno queste taniche enormi legate sulla schiena. - Abbiamo pistole a spruzzo da carrozzieri che usiamo per dare il primer al metallo. Abbiamo pistole industriali che spruzzano vernici a olio, smalto, vernici epossidiche e via dicendo. Usiamo compressori d'aria portatili. Usiamo persino i pennelli. Usiamo i pennelli quando vogliamo l'effetto pennellata. Gli spettatori si spostavano leggermente, nel tentativo di vedere meglio Klara mentre parlava, o si sporgevano verso il bordo per sentire meglio la conversazione. La voce di Klara era leggermente stridula, e ondeggiava, con la consistenza di un liquido che scivola di qua e di la. - Scrostiamo e sabbiamo il metallo, - disse. - Abbiamo molte sabbiatrici con pistole e tramogge da quaranta litri, mi pare. Abbiamo alcune sabbiatrici a pressione, aggeggi enormi su ruote. La maggior parte degli aerei ha soltanto una mano da rimuovere perché originariamente venivano verniciati tenendo conto soprattutto del peso. In altre parole, venivano costruiti per trasportare bombe, non un bel manto di vernice. Naturalmente questo è un lavoro impossibile.
Lavorare all'aperto, con il caldo, la polvere e il vento. Assolutamente impossibile. Troppa polvere, non verniciamo. Un po' di polvere, verniciamo. Non è la precisione che cerchiamo. La vernice gliela spariamo sopra con sabbia e tutto. La spruzziamo, la spariamo, la lanciamo. Disse: - Naturalmente gli aerei sono stati spogliati di tutte le componenti utilizzabili o vendibili a imprenditori privati. Ma le ruote ci sono ancora, e i carrelli, perché non voglio aerei appiattiti sul ventre. Per cui abbiamo bisogno di moltissima elevazione per lavorare sulla fusoliera e su quella deriva massiccia. C'è gente che sta sulle scale a pioli con pistole piazzate su pertiche di quattro metri, c'è gente sugli stabilizzatori che spruzza a distanza la maledetta coda. - Ma avete degli aiuti. - Be', abbiamo la collaborazione dell'esercito fino a un certo punto. Possiamo dipingere i loro aerei in disuso. Ce li lasciano dipingere e promettono di mantenere la localita intatta, di isolarla da altri usi e mantenere l'integrita del progetto. Nessun altro oggetto, non un solo oggetto fisso può essere piazzato a meno di un miglio dal pezzo finito. Abbiamo anche le sovvenzioni di alcune fondazioni e abbiamo l'approvazione del Congresso, ogni genere di permesso. Cos'altro? Materiale donato dagli industriali, per un valore di decine di migliaia di dollari. Ma siamo ancora costretti a rubacchiare per ottenere molte delle cose di cui abbiamo bisogno. - E l'aria secca del deserto conserva il metallo. - E' secca ed è calda. - E' molto calda, okay? - Aerei abbandonati. Come alla fine della Seconda guerra mondiale, - disse Klara. - L'unica differenza... anzi ci sono due differenze. La differenza numero uno è che questa volta non abbiamo veramente combattuto una guerra. Abbiamo un certo numero di situazioni postbelliche senza che sia stata combattuta una guerra. E, numero due, non lasceremo che queste grandi macchine muoiano in un campo o vengano vendute come rottami. - Voi le dipingerete. - Le stiamo gia dipingendo. Le stiamo salvando dalla fiamma ossidrica. Ed è molto strano, lasci che glielo dica, perché trent'anni fa quando abbandonai quadri e cavalletto e cominciai a lavorare con gli scarti, mi attaccarono. E non ricordo quando il termine diventò di uso corrente, comunque a un certo punto cominciarono a chiamarmi la Bag Lady, proprio così, e io dissi divertente, immaginando che la cosa sarebbe durata un mese. Invece il nome mi rimase appiccicato per un bel pezzo e non mi divertiva affatto. - E adesso lei è qui nel deserto. - Gia, tornata agli scarti. Questa volta però non sono lattine di aerosol e scatole di sardine o tappi di shampoo e materassi. Una volta dipinsi un materasso e un paio di lenzuola. Era la fine del mio matrimonio numero due e dipinsi il letto di conseguenza. Comunque, sì, adesso ho a che fare con bombardieri B-52. Dipingo aeroplani che sono lunghi più di cinquanta metri e hanno un'apertura alare ancora maggiore e un peso complessivo a serbatoio pieno di circa duecentocinquanta tonnellate, non so a serbatoio vuoto - aerei che portavano bombe nucleari, ta-ta, ta-ta, dall'altra parte del mondo. - Questo non è un materasso.
- Le dirò io che cos'è. Questo è un progetto d'arte, non un progetto di pace. E' pittura paesaggistica in cui usiamo il paesaggio stesso. Il deserto è fondamentale per quest'opera. E' lo sfondo. E' la cornice. E' le quattro parti dell'orizzonte. Per questo abbiamo insistito tanto con l'Air Force... una zona sgombra intorno all'opera finita. - Sì, è vero, il paesaggio. - Aspetti, non ho finito. Voglio dire che in questo passaggio dagli oggetti piccoli a quelli molto grandi, negli anni che mi ci sono voluti per trovare queste macchine abbandonate, dopo tutto questo, sto riscoprendo la tinta. E sono ubriaca di colore. Sono posseduta. Lo vedo nel sonno. Lo mangio e lo bevo. Sono una donna che sta impazzendo di colore. E guardò il suo pubblico, la sua manodopera, una breve occhiata, e tutti si ravvivarono e risero. - Ma la bellezza del deserto. - E' così vecchio e possente. Credo che ci faccia sentire, noi in quanto cultura, qualsiasi cultura tecnologica, ci faccia sentire minacciati, ci inciti a non lasciarci sopraffare. Suscita soggezione e terrore, capisce. Improduttivo, - scosse una mano e rise, - per l'industria e il progresso eccetera. Così usiamo questo posto per sperimentare le nostre armi. E' solo logico, certo. E ci permette di dimostrare la nostra supremazia. Il deserto porta i segni visibili di tutte le detonazioni che abbiamo innescato. Tutti i crateri e i segnali di pericolo, le zone alle quali è interdetto l'accesso e i cippi di sepoltura, le localita in cui sono sepolti i detriti. L'intervistatrice fece una serie di domande su giovani artisti concettuali che lavoravano con scorie biologiche e nucleari poi chiese una breve pausa. Gli spettatori applaudirono delicatamente e si riunirono in capannelli a chiacchierare o uscirono a guardare il cielo notturno che si infittiva di stelle. Raggiunsi il ragazzo con il distintivo dell'accoglienza sul petto. - Puoi contattarla adesso? Dille che c'è Nick Shay. Di New York. Chiedile se ha un minuto di tempo, - gli dissi. - Eravamo vicini di casa a New York. Il ragazzo mi guardava strizzando gli occhi. Gli ripetei il mio nome e lo guardai dirigersi verso la sedia da regista. Dovette aspettare che lei fosse libera, poi le parlò, facendo un cenno nella mia direzione. Osservai la faccia di lei, in attesa che il nome venisse registrato, che una luce illuminasse il suo sguardo. Dopo una pausa, cominciò a cercarmi con gli occhi. La sua faccia mostrava - cosa? Una certa preoccupazione, una certa apprensione per me, seria e legata al ricordo. Sei davvero qui? Stai bene? Sei vivo? La raggiunsi, presi una sedia pieghevole, la sistemai accanto a lei e attesi che il ragazzo se ne andasse. - E così questo è Nick. - Sì. - Che sorpresa! - Ti ricordi. - Oh sì, - disse e ci fu quel sorriso in dissolvenza, quell'espressione che diceva com'è potuto succedere? - Ero a Houston. - Fai una vita normale. - Mi rado tutti i giorni.
- Paghi le tasse. Bene. - Dovevo andare a Houston per lavoro. Mi ero portato dietro una rivista e ho trovato un servizio sul tuo progetto. Così ho pensato perché no. - Nick fa ginnastica, credo. - Be', vediamo. Bevo latte di soia e corro i millecinquecento metri. Aspettai che sorridesse, poi dissi: - Ma l'articolo non diceva dov'era esattamente la localita dell'esperimento. Quindi ho preso un aereo per El Paso e ho noleggiato una macchina con l'idea di tornare a Phoenix passando di qui. - E ci hai trovato. - Non è stato facile. Mi stava guardando, mi soppesava apertamente. Mi chiesi cosa vedesse. Pensai che forse avrei dovuto spiegarle qualcosa degli anni intercorsi. Avevo quel senso di timore che si prova quando qualcuno ti studia dopo una lunga separazione facendoti pensare che devi aver sbagliato qualcosa per arrivare a questo punto tanto cambiato e svuotato. Sconosciuto a te stesso, praticamente. Arrivare a questo punto così indifeso contro le tue stesse macchinazioni da non sapere più la verita. - E stai bene? A vederti si direbbe di sì, - disse. Stava dicendo che avevo l'aria di star bene ma mi guardava in un certo modo e c'era qualcosa nella sua voce, capite, qualcosa che mi rendeva diffidente. La gente continuava a interromperla per dirle cose, riferirle messaggi. A un certo punto arrivò una persona con un messaggio a proposito di una questione amministrativa e lei ci presentò. - Un vecchio amico dei bei tempi, - disse. - Be', belli nel ricordo forse. Tempi duri all'epoca. Poi si rivolse di nuovo a me. - Sposato? - Sì. Con due figli in eta da college. Anche se non vanno al college. - Io mi sono sempre sposata d'impulso, dopo una seratina intima con del buon vino. Non di recente, comunque. Ultimamente sono impazzita di lavoro. Ci ho messo un sacco di tempo a rendermi conto che ero molto cauta e razionale in fatto di relazioni, scrupolosa, direi, riguardo a chi e dove e quando, e assolutamente avventata quando si trattava di matrimonio. Avrei voluto dirle, Non sei sempre stata così cauta in fatto di relazioni. Ma d'altra parte la nostra non era stata una relazione, giusto? Solo un evento occasionale, una cosa in due episodi, qualche ora soltanto, misurata in ore e minuti e poi la fine. Ovviamente non dissi niente. Non sapevo come affrontare l'argomento. Non potevamo fare del sarcasmo, data la differenza d'eta, sul diventare vecchi, sordi e claudicanti, e mi scoraggiai un po', cominciai a pensare che avevamo gia protratto la visita oltre i limiti tollerabili e che avevo fatto un errore, venendo qui, perché l'argomento non era affrontabile - troppo segreto, ancora, persino per i depositari del segreto, dopo quarant'anni. - Ho pensato che in qualche modo la dovevo, a noi due, questa visita. Qualunque cosa voglia dire con questo. - Io so cosa vuoi dire. Provi un sentimento di fedelta. Il passato tira fuori il nostro patriottismo, lo sai? Vogliamo provare un
sentimento di fedelta. La fedelta unica e indissolubile a tutta quella gente e quelle cose. - E diventa sempre più forte. - A volte penso che tutto quello che ho fatto a partire da quegli anni, tutte le cose che mi circondano, in realta, non so se anche per te è lo stesso, ma tutto è vagamente - non so come dire - fittizio. Era un'osservazione estemporanea che non cominciò a interessarla finché non fu arrivata all'ultima parola. - Ne abbiamo fatta di strada, Nick. Siamo molto lontani da casa. - Il Bronx. Scoppiammo a ridere. - Sì, quel posto, quel nome. Sgradevole, grezzo... come altro potremmo definirlo? - Stridente, - dissi. - Sì. Ha il suono di tre parole stritolate in una. - E' come parlare tra i denti rotti. Un'altra risata e mi sentii meglio. Era meraviglioso ridere con lei. Volevo che mi vedesse. Volevo che sapesse che avevo chiuso con quel posto, qualunque pazzia avessi fatto - ne ero uscito bene. - Così forte e reale, - disse. - E' tutto da allora... ma forse è solo una conseguenza dell'invecchiamento. Non leggo filosofia. - Io leggo di tutto, - le dissi. Mi guardò con una sorta di rinnovato stupore. - Forse questa dovrei tenerla in serbo per i francesi, - disse. Ma non ti pare che la vita abbia preso una piega irreale a un certo punto? - Be', tu sei famosa, Klara. - No. Non è irreale perché sono famosa -. Irritata con me. - E' irreale e basta. Tirò fuori un pacchetto di Nat Sherman dalla giacca e se ne accese una. - Non sono incinta, quindi posso permettermelo. Poi arrivò un'altra persona, una donna giovane che le comunicò un cambiamento di programma e se ne andò, e la faccia di Klara si fece distante e tesa, ma sicuramente non per quella notizia. La turbava qualcos'altro, qualcosa che si agitava e le premeva dentro, e inclinò il capo come per ascoltare. - Strano che tu sia ricomparso adesso. Dio com'è strano e orribile in un certo senso. E io che non ho collegato le cose fino a quest'istante. Ma cos'ho nella testa, Dio santo? Mi ero dimenticata che è morto? Albert è morto due settimane fa. Tre settimane fa. Mi ha chiamato Teresa, nostra figlia. - Mi dispiace. - Non eravamo più in contatto, io e lui. Tre settimane fa. Insufficienza cardiaca congestizia. E' una di quelle malattie che in qualche modo si capisce cosa vogliono dire anche senza saperlo. - Dove viveva? Ancora la? - Sì, ancora la, - disse, - dove altro avrebbe potuto morire Albert? Albert era il marito di Klara ai tempi della nostra relazione. Era professore di scienze nella mia scuola. Mr. Bronzini. Non lo vedevo da anni, ma mi capitava di pensare a lui inaspettatamente e spesso. Sapete come certi posti acquistino una forza sempre maggiore nella mente col passare del tempo. Nei miei sogni di prima mattina, quando torno a letto dopo una pisciata insonnolita e piombo rapidamente
nell'ultimo breve tratto di notte, c'è una serie di stradine in cui continuo a tornare, una nebbia indistinta di stanze, un'infilata di stanze che si aprono su un corridoio lungo e stretto, e ricompaiono certe figure, quasi fantasmatiche. Tra loro, Albert e Klara. Lui era il marito, lei la moglie, un dettaglio che all'epoca non avevo neanche preso in considerazione. Due persone si chinarono su Klara mormorando simultaneamente qualcosa poi un membro della troupe chiese se era pronta a ricominciare. - Tuo fratello? - mi chiese Klara. - Abita a Boston. - Vi vedete? - No. Raramente. - E i suoi scacchi? - Non vedo nessuno. Ha smesso di giocare da un sacco di tempo. - Che peccato però. - Non potevano nascere due geni nello stesso quartiere. - Stronzate, - disse lei. Le misi una mano sul braccio e la sentii ammorbidirsi. Mi guardò di nuovo, gli occhi sporgenti, arrossati e affaticati. Trovavo estremamente piacevole sedere accanto a Klara con la mano sul suo braccio e ricordare la bocca storta della donna più giovane, il tipo di difetto erotico che ti fa venir voglia di smarrirti nell'imperfezione - bocca e mascella non perfettamente allineate. Ma questo era il limite del piacere riflesso. Non mi restava altro da mettere nello spremitore. Avevamo detto quello che avevamo intenzione di dire, scambiato tutte le occhiate, ricordato i morti e gli assenti e adesso per me era venuto il momento di tornare adulto ed efficiente. Un'altra persona disse qualcosa e io mi alzai e mi allontanai, sentendo la mano di Klara scivolare sul mio avambraccio e sul palmo della mano. Questa volta trovai un posto più indietro, più vicino all'uscita. Il pubblico ci mise un po' a raccogliersi e sistemarsi. L'intervistatrice si accovacciò e incominciò a parlare. - Forse potrebbe raccontarci perché vuol fare questa cosa. - Questo è un work in progress, non lo dimentichi, che cambia di giorno in giorno e da un minuto all'altro. Vediamo, mi lasci fare un tentativo, proverò a prenderla alla larga per vedere di arrivare a una risposta. Forse ce la farò e forse no. Teneva la mano destra vicino alla faccia, la sigaretta puntata all'insù, all'altezza degli occhi. - Anni fa passavo un sacco di tempo sulla costa del Maine. Ero sposata con un velista appassionato, parlo del mio secondo marito, un operatore finanziario spericolato che stava per andare in bancarotta ma non lo sapeva ancora. Aveva un bellissimo ketch e così andavamo lassù a navigare lungo la costa. La sera ci mettevamo seduti sul ponte sotto un cielo meravigliosamente limpido e a volte vedevamo una specie di aureola attraversare i campi stellari e ci chiedevamo cosa fosse. Aerei di linea sulla rotta del Nord Atlantico oppure Ufo? Sa, anche allora erano un argomento d'attualita. Un disco luminoso che passava lentamente. Altissimo in cielo e dai contorni sfumati. E io pensavo che volava troppo alto per essere un aereo di linea. Sapevo che i bombardieri strategici volavano a qualcosa come diciottomila metri di quota, così decisi che doveva essere la luce riflessa da un oggetto molto più in alto, e quella la forma circolare che assumeva.
Perché volevo credere che proprio questo vedessimo, i B-52. La guerra mi spaventava, eccome, ma devo dire che quelle luci creavano una sensazione complessa. Quegli aerei sempre all'erta, sempre presenti, capisce, a pattugliare i confini sovietici, e ricordo che sedevo la fuori dondolando leggermente all'ancora in qualche piccola baia deserta e provavo un misto di soggezione e meraviglia simile alla sensazione di mistero, pericolo e bellezza che un bambino prova nel sonno. Penso che sia questo il potere. Penso che se si mantiene una forza nel mondo capace di entrare nel sonno della gente, si esercita un potere significativo. Perché io rispetto il potere. Ora che il potere è in frantumi o a brandelli e ora che quei confini sovietici non esistono più come prima, be', è proprio adesso che secondo me riusciamo a capire, a guardare indietro, a vedere più chiaramente noi stessi, e anche loro. Il potere aveva un significato, trenta, quarant'anni fa. Era una cosa stabile, focalizzata, tangibile. Era grandezza, pericolo, terrore, tutte queste cose. E ci teneva insieme, i sovietici e noi. Forse teneva insieme il mondo. Si aveva una misura delle cose. Si poteva misurare la speranza e si poteva misurare la distruzione. Non che io desideri riesumarlo. E' finito, grazie al cielo. Ma il fatto è. E a questo punto parve perdere il filo del discorso. Si fermò, si accorse che la sigaretta si era consumata. L'intervistatrice allungò una mano per prenderla e Klara gliela passò, delicatamente, dalla parte del filtro. - Molte cose ancorate all'equilibrio del potere e all'equilibrio del terrore si sono sciolte, liberate, così sembra. Le cose non hanno più limiti adesso. Il denaro non ha limiti. Non lo capisco più, il denaro. Il denaro è scatenato. La violenza è scatenata, la violenza è più facile adesso, è sradicata, incontrollabile, non ha più una misura, non ha una scala di valori. E si fermò di nuovo a pensare. - Non voglio disarmare il mondo, - disse. - Oppure, sì, voglio disarmare il mondo, ma voglio che la cosa venga fatta in modo cauto e realistico e nella piena consapevolezza di quello a cui stiamo rinunciando. Noi rinunciammo alla barca. Quella fu la prima cosa a cui rinunciammo. Adesso sono riuscita ad avere questi aerei a terra e lontano dai cieli e li ho percorsi in lungo e in largo, ritta, piegata e a quattro zampe, dalla carlinga alle mitragliatrici di coda, li ho visti sotto ogni tipo di luce e ho pensato molto alle armi che trasportavano e agli uomini che accompagnavano le armi, e non è una bella cosa a cui pensare. Ma le bombe non sono state sganciate. I missili sono rimasti sotto le ali, inesplosi. Gli uomini sono tornati e gli obiettivi non sono stati distrutti. Capisce. Tutti noi abbiamo cercato di pensare alla guerra ma non sono sicura che sapessimo come farlo. I poeti hanno scritto lunghe poesie piene di parolacce e questa, di fatto, è la cosa più vicina a una reazione meditata a cui siamo arrivati. Perché avevano introdotto nel mondo qualcosa che andava al di la della capacita d'immaginazione della mente. Non sapevano neanche come chiamarla, la prima bomba. La cosa, l'arnese o roba del genere. E Oppenheimer disse, E' merde. Userò il francese. J. Robert Oppenheimer. E' merde. Voleva dire che una cosa che sfugge alla definizione è automaticamente relegata, sono parole sue, alla condizione di merda. Non si può darle un nome. E' troppo grande o malefica o estranea alla nostra esperienza. E' merda anche perché è spazzatura, è materiale di scarto. Ma adesso sto facendo una
geremiade. Per venire al punto, quello a cui voglio arrivare è la cosa in sé, nella sua normalita, la vita normale dietro la cosa. Perché questo è il cuore e l'anima di ciò che stiamo facendo qui. L'ondeggiamento nella sua voce. E il modo in cui il suono usciva, come girando l'angolo, da un lato della bocca. Spaventava e affascinava, ci faceva pensare che avrebbe potuto trascinarsi in qualche incerto meandro. E le pause. Aspettavamo che finissero, guardando il fiammifero tremolare quando si accendeva un'altra sigaretta. Disse: - Vede, noi stiamo dipingendo, manualmente in alcuni casi, stiamo mettendo mano, le nostre piccole mani, a enormi macchine da guerra, armi uscite dalle fabbriche e dalle catene di montaggio il più simili possibile tra loro, milioni di componenti stampate, ripetute all'infinito, e stiamo cercando di rompere la catena della ripetizione, di trovare un elemento di vita vissuta, e forse in questo c'è una specie di istinto di sopravvivenza, l'istinto che produce graffiti... la volonta di violare i confini, di presentarci, di far vedere chi siamo. Come facevano i cosiddetti nose artist, i ragazzi che dipingevano pinup sulla fusoliera. Disse: - Alcuni degli aerei avevano segni distintivi dipinti sul muso, sul naso. Emblemi, insegne di reparto, figure, a volte, un animale mascotte che ringhia e sbava dalla bocca e dalle fauci. Fumetti meravigliosi, davvero. Nose art, la chiamano. E spesso sono figure di donne. Perché è tutta una questione di fortuna, giusto? La donna sexy dipinta sul naso è un talismano contro la morte. Potremmo esser tentati di relegare il tutto a un dimenticatoio per nostalgici ma in realta gli uomini che pilotavano questi aerei... e qui si parla di livelli di massima vigilanza, di anticipazioni di pericolo a distanza, si parla di situazioni estreme... questi uomini, dicevo, secondo me vivevano in un mondo chiuso, circoscritto, con i suoi presagi e i suoi simboli particolari, ed erano molto giovani e arrapati per giunta. E un giorno mi capitò sotto gli occhi uno degli aerei più vecchi della formazione, molto segnato dal tempo, con un bel pezzo di nose art sbiadito e pieno di chiazze che ritraeva una giovane donna in gonna a balze e top con le bretelle. Era molto alta e molto bionda, aveva un paio di gambe straordinarie e teneva le mani sui fianchi in una posa che faceva molto aspirante pinup... però si capiva che non aveva la grinta per farcela... e sotto il dipinto c'era il suo nome a grandi lettere: Long Tall Sally. Mi piace questa ragazza, pensai, perché non è né un'amazzone né una donna angelicata o troppo idealizzata. Pensai ancora un po' a lei e arrivai a questa conclusione: pensai, se anche dovremo passarle sopra una mano di vernice, e chissa, forse lo faremo o forse no, cercheremo in qualche modo di salvare il suo nome. La nostra opera portera il suo nome, pensai, in ricordo di questa giovane donna, degli uomini che ne hanno dipinto l'immagine, e della canzone che li ha ispirati. La ricordo solo vagamente, la canzone. Ma una canzone c'era, e pensai che probabilmente all'origine c'era anche una Sally in carne e ossa da qualche parte nel mucchio. Una Sally che aveva ispirato il compositore della canzone, o il pittore o l'equipaggio che pilotava l'aereo. Forse faceva la cameriera in un bar di aviatori. O era la ragazza di qualcuno in una piccola citta di provincia. O il primo amore di qualcun altro. Ma questa è una vita individuale. E io voglio che questa vita faccia parte del nostro progetto. Questo portafortuna, questo disegno contro la morte. Chiunque sia o fosse
Sally, una cameriera, magari, scarmigliata e affannata a correre avanti e indietro per il ristorante portando bottiglie di ketchup ai tavoli e chi se ne frega della bomba, voglio che i nostri intenti rimangano limitati e umani a dispetto del lavoro enorme che abbiamo fatto e del lavoro enorme che ci aspetta, ed eccomi qui con un piede per aria a fare discorsi interminabili sul mio lavoro mentre ho ben chiaro in mente quello che diceva Matisse, cioè che, tanto per cominciare, i pittori dovrebbero tagliarsi la lingua. Mi sembrava di vederla alla televisione in Francia, ridotta a una serie di puntolini dalla riconversione in onde televisive, sentivo la sua voce sullo sfondo di una monotona traduzione. La gente che la guardava in ogni parte del paese, grappoli di teste nell'oscurita. Vedevo la sua faccia appiattita sullo schermo con i contorni un po' tremolanti, i suoi occhi simili a lune svuotate, mezzo milione di Klare che fluttuavano nella notte. Disse: - Non molto tempo fa ho visto una vecchia fotografia, un'istantanea scattata a meta degli anni Sessanta, e c'è una donna vicino al margine. E' la foto di una folla raggruppata davanti a una porta che sembra l'ingresso di una grande sala da ballo, e la gente è tutta vestita in bianco e nero, gli uomini come le donne, e tutti indossano la maschera. Guardando meglio la foto, mi sono accorta che si trattava della famosa festa, un evento epocale, il Ballo in Bianco & Nero dato da Truman Capote al Plaza Hotel di New York nei giorni cupi del Vietnam, e dovevo essere completamente estraniata mentre guardavo questa scena perché mi ci è voluto almeno mezzo minuto per rendermi conto che la donna ai margini dell'inquadratura ero io. Innegabilmente. Accanto a un uomo che potrebbe essere Truman Capote o J. Edgar Hoover, l'uno o l'altro, perché avevano la stessa forma di testa, e la maschera, l'angolazione rendono difficile stabilire quale dei due. Io indosso un vestito nero, una lunga guaina che non riesco a credere di aver mai indossato, davvero, e invece eccomi lì, e sono proprio io, con una piccola maschera felina. E ho pensato, cosa c'è in questa foto che mi rende così difficile riconoscere me stessa? Non so chi sia quella persona, ho pensato, né cosa ci faccia lì. A cosa sta pensando? Che mutande porta sotto quello stupido vestito e posso giurarvi che non lo so. Circondata da gente famosa e gente potente, uomini di governo che decidevano della guerra, e voglio ridipingerla, quella foto, dipingerla di arancione, azzurro e borgogna, e dipingere gli smoking, gli abiti lunghi e la sala da ballo del Plaza Hotel, e forse è proprio questo che sto facendo, non lo so, è un lavoro in perpetuo divenire. E non dimentichiamo il piacere. I sensi, la volutta, i liquidi corporei. Blu zaffiro, sì. E giallo, e verde, e rosso geranio. I gerani del Maine che crescono rigogliosi nell'aria umida e fredda. E magenta, sì. E arancio, e cobalto, e chartreuse. E qualcuno dell'esiguo pubblico gridò, - Meglio rossa che nella fossa. E ridemmo tutti. La battuta aveva una risonanza che sembrava viaggiare sull'onda delle nostre voci, rimbalzando da una parete all'altra dello spazio che condividevamo. Ci alzammo e ascoltammo la nostra risata. E concordammo all'unanimita che la serata era finita. Mi stavo incamminando verso la macchina quando vidi il taxi newyorchese. Qualcuno ci stava salendo sopra, e quando si accese la luce mi accorsi che era la stessa ragazza che avevo visto al volante nel pomeriggio. - Ehi, grazie, - le dissi. - Per oggi.
- Sei la Lexus. - Perso ed errabondo. Meno male che siete passati voi. - Stavamo dicendo, scommetto che ci prende per il Texas Highway Killer pronto a fare un'altra vittima. - Sapevo che non eravate il Texas Highway Killer perché questo non è il Texas. - In più dubito che guidi un taxi giallo. - Questo è l'altro motivo. - Sei venuto a dare una mano? - chiese. - Magari potessi. Purtroppo devo tornare nella mia torre di uffici nella grande capitale. - Potrebbe essere la tua ultima occasione di fare la storia dell'arte. - O qualsiasi cosa stiate facendo qui. - O qualsiasi cosa stiamo facendo qui. Si sedette al volante con la portiera aperta, robusta, non la silfide eterea che mi era parsa nel polverone del primo momento. - Questa è la tua macchina? - L'ho offerta spontaneamente più o meno, - disse, - per cui immagino che resterò con il taxi sul gobbo, il che è un po' scomodo. Ma dopo aver visto l'espressione sulla faccia di Klara, be', devo dire che ne valeva la pena. Una parlata robusta e amichevole, come una cameriera avventizia quando dice Ecco qua mettendoti davanti il piatto. - Sei qui da molto? - Quasi sette settimane e non ho intenzione di mollare, durasse una vita, e potrebbe anche capitare. - Non hai nostalgia di casa? - Ogni tanto. Ma questa è una possibilita unica. Sei gia stato laggiù? - Domattina, - dissi. - Vacci presto. Il caldo è tremendo. - Lo conosco il caldo. Mi piace. - Di dove sei? Non le dissi che vivevo una vita tranquilla in una casa senza pretese e così via. Le dissi invece il nome del motel dove avrei trascorso la notte e lasciai che mi spiegasse come arrivarci, sebbene lo sapessi gia. Lasciai che mi parlasse della sua cittadina di provincia. Le chiesi qual era il suo lavoro al cantiere e lei disse che applicava il primer al metallo dopo aver scrostato la vernice, a volte a mano, a volte con la sabbiatrice. Sedeva alta sul sedile, dilungandosi nei particolari, e scuoteva la testa come una ragazzina, un po' per scherzo e un po' per civetteria. Le chiesi della scuola e lei disse che l'aveva lasciata sette anni prima ma stava pensando di ricominciare per prendere un diploma in merchandising e io lasciai che mi parlasse anche di questo. Parlammo di suo fratello che aveva una rara malattia del sangue. Lasciai che mi parlasse di un viaggio lungo le rapide di un fiume che aveva fatto durante l'estate a diciassette anni. Diceva deteriata invece di deteriorata. Quando diceva okay, lo pronunciava con la e molto aperta. Era seduta su un cuscino adorno di perline. I capelli, tagliati corti, le sparavano in fuori la faccia. Da vicino, mi accorsi che le finiture e gli accessori del taxi e persino il lavoro di
verniciatura, per quanto non privi di un certo charme dilettantesco, erano piuttosto rozzi. D'altra parte New York non è facile da catturare. - Ma ecco la barzelletta che circola, - disse. - Anche se nessuno sembra sicuro che sia una barzelletta. Noi stiamo dipingendo questi vecchi aerei per celebrare la pace, in un certo senso, ma come facciamo a essere certi che la crisi sia davvero finita? La disgregazione dell'Urss è davvero in corso? Oppure è tutto un complotto per fregare l'Occidente? Scoppiò in una risata nasale. Orale e nasale. Aspra e umida, uno strano rumore inteso a ridicolizzare l'idea ammettendone al tempo stesso il fosco richiamo. - Quelli vogliono farci credere che stanno cadendo a pezzi per farci abbassare la guardia, okay? Lasciai che mi parlasse anche di questo. Fece di nuovo quel rumore. Una lunga e uggiolante lettera k. e io conclusi che più parlava più mi era debitrice. Ma non dissi una parola. In cuor mio non vedevo l'ora di parlare, di aprire una breccia nel suo egocentrismo, nella materia concreta della sua citta di provincia e del fratello morente, volevo ridurre queste cose a un ammasso di macerie. Era solo un umore passeggero, una cosa che trabocca dal nucleo di una decisione presa a media mente. La lasciai parlare. E più ascoltavo, trovandola sempre meno appetibile, più volevo infilarmi nelle sue mutandine, per motivi che nessuno al mondo riesce a capire. Ma non dissi neanche una parola. In cuor mio volevo convincerla a passare la notte nella mia stanza, o meta della notte, o un'ora e dieci minuti. Non sapevo perché la volevo, ma sapevo perché non la volevo. Sarebbe stato sleale nei confronti di Klara, dei nostri ricordi comuni, dei nostri brevi momenti in quella stanzetta di allora nelle strade anguste che segnavano i confini del mondo. - Be', si sta facendo tardi, - dissi. - Domani è il grande giorno, eh? - Gia, - dissi. - Meglio che vada. Mi spiegò di nuovo come arrivare al motel e partì. Tutti i veicoli avevano lasciato la zona e andai a cercare la mia macchina al buio. E' interessante pensare alla grande esplosione del cielo che noi riduciamo a forme di animali e utensili da cucina. Guardavo la tv nel mio motel. Io vivevo nella realta, in modo responsabile. Non accettavo questa storia della vita come invenzione, o qualunque cosa intendesse dire Klara Sax con la sua affermazione che la vita era diventata irreale. La storia non era una questione di minuti mancanti sul nastro. Non rimanevo inerme di fronte a essa. Mi conformavo al tessuto della conoscenza accumulata, mi fidavo del solido e vantaggioso materiale della nostra esperienza. Anche volendo credere che il carburante della storia sia il sangue umano - leggete i discorsi di Mussolini si trattera pur sempre di qualcosa che abbiamo sperimentato insieme. Un'unica corrente narrativa, non diecimila rivoli di disinformazione. Un uomo era seduto su una poltrona anatomica in un soggiorno da set con un tavolino da tè di fronte e libri o simulacri di libri allineati sulla parete alle sue spalle. Ero convinto che fosse possibile sapere cosa ci stava succedendo. Non eravamo esclusi dalle nostre vite. Quella non è la mia testa sul
corpo di qualcun altro nella fotografia che viene presentata come prova. Non credevo che le nazioni recitassero su vasta scala. Vivevo nella realta. Gli unici fantasmi che lasciavo entrare erano fantasmi locali, fumose tracce di gente che conoscevo e il riflesso della mia ombra cupa, fantasmi di New York in ogni caso, il vecchio chiassoso Bronx, la vita precaria, pronunciato tra i denti rotti - lo scherno, la pernacchia. L'uomo in poltrona disse: - Sindrome di Down. Il vostro numero verde è uno, ottocento, cinque uno cinque, due sette sei otto. Psicosi di Korsakoff. Uno, ottocento, tre uno tre, sette cinque otto uno. Morbo di Alzheimer. Chiamate il numero verde. Uno ottocento, otto uno tre, tre cinque due sette -. Disse: - Sarcoma di Kaposi. Ventiquattr'ore al giorno. Uno, ottocento, sei sette due, nove uno sei uno. Andai al cantiere in macchina all'alba. Parcheggiai vicino a un capannone per gli attrezzi e cominciai ad arrampicarmi su una piccola altura che mi avrebbe concesso una posizione di vantaggio naturale rispetto ai velivoli. Li udii prima di vederli, un penoso scricchiolio, folate di vento che scuotevano le parti mobili. Poi arrivai in cima alla sporgenza di arenaria ed eccoli lì in ampia formazione sul fondo sbiadito del mondo. Non sapevo che ci sarebbero stati tanti aerei. Ero strabiliato dal numero degli aerei. Erano disposti in otto file irregolari con qualche velivolo isolato messo di sbieco ai bordi. Contai fino all'ultimo aereo mentre il sole sorgeva. Erano duecentotrenta, ad ali aperte, pinnati come creature degli abissi, alcuni dipinti solo in parte, altri quasi completati, molti non ancora toccati dai macchinari per verniciare, e questi ultimi erano grigi come incrociatori, o coperti di vernice mimetica sbiadita, o sabbiati fino al nudo metallo. Gli aerei dipinti prendevano luce e vita. Pennellate di colore, fasce e chiazze, scie ariose, la forza della luce satura - il tutto sembrava inaspettatamente personale, la sensazione della mano di un solo pittore, mosso da impulsi e ripensamenti quanto da un disegno epico. Non mi ero aspettato di provare un piacere e un'emozione così intensi. L'aria era piena di colore, fiammate di rame e ocra riverberavano dal guscio metallico dei velivoli in uno scambio con la cornice del deserto. Ma quei colori non si limitavano a trarre potenza dal cielo o a risucchiarla dalle forme della terra circostante. Spingevano e tiravano essi stessi. Erano in conflitto tra loro, dovevano essere letti emotivamente. Pigmenti color pelle e grigi industriali e un rosso virulento che appariva ripetutamente nella composizione - il rosso di uno sfogo, di una sacca scoppiata, denso come sangue misto a pus e screziato di giallo. E gli altri aerei, decolorati, i vetri anteriori e i motori ancora ricoperti di teli spettrali, anime morte, in attesa di essere mesticate. A volte mi capita di vedere qualcosa di così emozionante che so di non dovermi attardare. Guardalo e vai. Se rimani troppo a lungo, esaurisci l'impatto indescrivibile. Amalo, credici e vattene. Lei voleva che vedessimo una massa singola, non una collezione di oggetti. Insisteva perché il nostro sguardo scorresse lentamente sul pezzo. Ci invitava a vedere la dimensione del territorio, fino all'orizzonte, in cui era inserita l'opera. Ascoltai le turboeliche risuonare nel vento, sentii il soffio dello
scirocco caldo, e in effetti i miei occhi percorsero lentamente le file e mi sentii immerso nella natura allo stato brado, il feroce vigore del clima e del deserto e quelle vecchie macchine da guerra così potentemente ripensate, la coerente bellezza di quello che Klara aveva fatto, e una volta visto tutto capii che non mi sarei fermato un minuto di più. Tre veicoli stavano avanzando verso il cantiere, i primi tenaci lavoratori della giornata. Tornai alla mia macchina e svitai il tappo della lozione che avevo adocchiato su uno scaffale vicino al banco del motel a conduzione familiare, accanto alle cartoline e alle bambole indiane - le bambole kachina degli Hopi e i pacchetti di tortilla chips che fanno parte della curiosa rete di neuroni dell'America della solitudine cromata. Mi fermai accanto alla macchina a spalmarmi la lozione sulle braccia e sul viso, interrompendomi per rileggere l'etichetta. Era tutta la mattina che la leggevo. L'etichetta diceva che il fattore di protezione era trenta, non quindici. La sapevo lunga in materia. Avevo letto il leggibile sull'argomento, avevo visto i risultati delle ricerche e paragonato i prodotti e le loro pretese qualita. E sapevo con assoluta certezza che un fattore di protezione quindici era il massimo scientificamente possibile. Adesso mi vendevano un trenta. E mi venne in mente una cosa strana. Salii in macchina e mi diressi verso l'Interstate. Mi venne in mente la storia di Teller. La storia di Teller riguardava il dottor Eduard Teller e la prima esplosione atomica del mondo, avvenuta circa duecento miglia a nordest del luogo in cui mi trovavo. E la storia raccontava di come il dottor Teller, temendo gli effetti immediati dell'esplosione nella zona di osservazione a venti miglia dal punto zero, avesse deciso che poteva essere utile applicare una lozione abbronzante alla faccia e alle mani. Questi pensieri, questi lampi di luce, quel piccolo gesto ingenuo, questa macchina giapponese - tutto era più o meno intonato al paesaggio. Accesi il motore, abbassai i finestrini, guardai le montagne che torreggiavano al confine col Messico, liriche di per sé, e con nomi bellissimi, quali che fossero, perché non si può dare un brutto nome a una montagna, e cercai un cartello che mi indicasse la strada di casa. Capitolo secondo A quell'epoca mia madre viveva con noi. Alla fine l'avevamo convinta a lasciare la East Coast e l'avevamo sistemata in una stanza fresca sul retro della casa. Mia moglie era buona con lei. Sapevano parlarsi. Trovavano cose di cui parlare. Parlavano delle cose di cui io non parlavo con Marian, le cose che liquidavo con un'alzata di spalle quando Marian mi faceva domande, le mie vecchie fidanzate, o i rapporti con mio fratello. Le piccole domande astute che mi faceva Marian. Mi ero rotto un braccio a otto anni, cadendo da un albero. Ecco di cosa parlavano. Dalla scintillante torre bronzea dove lavoravo, guardavo le colline e i crinali color terra d'ombra che delimitavano la visuale verso nordest. Fuori in strada ci saranno stati quaranta gradi. Forse anche quarantuno o quarantadue, e io guardavo oltre le eterogenee miglia di tozzi fabbricati squadrati dove si portava a riparare l'apparecchio acustico o si andavano a comprare prodotti per la piscina, il tratto
di strada che si ripeteva e che percorrevo ogni giorno, e mi dicevo quanto amassi quel posto con la sua quiete e le torri di uffici separate da spazi aperti, i parchi con le corsie per il jogging, l'anello fatato di colline e le strade residenziali di oleandri, palme e tronchi d'albero imbiancati a calce - bianchi contro il sole. L'avevamo portata via dalla East Coast. L'avevamo sottratta al dramma quotidiano della violenza, del lamento e dell'atrocita da rotocalco e corrispettiva redenzione, e al come è dura la citta e come è malvagia la citta e come è gentile la citta con una turista del Missouri che dimentica la borsa in un taxi, e l'avevamo sistemata in una bella stanza fresca dove guardava la televisione. Marian voleva che le parlassi delle vecchie strade, dei giochi di strada e delle risse di strada, del sesso nei vicoli, dei furtarelli di poco conto. Le avevo raccontato della macchina, non proprio di poco conto come furto, ma non le era bastato. Voleva sapere delle sporadiche esecuzioni di membri ribelli di chissa quale banda che secondo lei imperversava da quelle parti, il proiettile che entrava dalla nuca e si faceva strada fino al cervello. Pensava che l'arrivo di mia madre le avrebbe fruttato quel sapore essenziale che non riusciva a ottenere dal laconico Nick. Ma mia madre parlava soltanto delle sufficienze stiracchiate che prendevo a scuola e della mia caduta da un albero quando avevo otto anni. E mi piaceva che la storia qui non circolasse a piede libero. Qui la segregavano, la storia visibile. La ingabbiavano, la fondevano e la brunivano, la conservavano in musei e piazze e parchi commemorativi. Il resto era geografia, tutto spazio, luci e ombre, e un indicibile calore incombente. Bevevo latte di soia e correvo i millecinquecento metri. Avevo un aggeggio che agganciavo alla fascia dei pantaloni corti, un dispositivo che pesava meno di settanta grammi, dotato di un indicatore che mostrava la distanza percorsa, le calorie bruciate e la lunghezza della falcata. Mi portavo le chiavi di casa in un borsellino da caviglia che aveva una chiusura a strappo di velcro. Non mi piaceva correre con le chiavi di casa che mi tintinnavano in tasca. Il borsellino da caviglia rispondeva a un bisogno. Si rivolgeva direttamente a una richiesta personale. Mi dava la sensazione che la fuori nel mondo dei prodotti, della promozione delle vendite e della creazione di cataloghi di oggetti dono ci fosse gente che capiva la natura dei miei puntigliosi bisogni. Parlavano anche di mio padre. Questa è l'altra cosa di cui parlavano nella calma piatta del dopocena. E' il tipo di argomento che Marian coglie al volo, cercando di colmare le lacune, di elaborare i dettagli. Di solito io sedevo in soggiorno e ascoltavo brani di conversazione sopra l'incalzante pulsare sessuale della lavastoviglie. Ascoltavo a meta, con gli occhi su una rivista, le voci smorzate che provenivano dalla stanza sul retro, un grappolo di parole percettibili a tratti sopra la lavastoviglie e l'apparecchio televisivo. Il televisore era sempre acceso quando mia madre era nella sua stanza. Viaggiare era una parte importante del mio lavoro. Lasciare le superfici riflettenti della torre bronzea, il modo in cui la gente si modellava su qualcun altro, su alcune persone, è più che naturale, per lo più scimmiottando, ripetendo i gesti o l'espressione di un superiore. Pensate a un uomo o a una donna giovani, pensate a una giovane donna che dice qualche parola con un grugnito da film di
gangster. Ecco, questa è una cosa che facevo spesso a scopo dichiaratamente comico quando volevo che un lavoro fosse sbrigato per tempo. Sibilavo tra i denti minacce da malavitoso poi, passando davanti a un ufficio un paio di giorni dopo, mi capitava di sentire uno dei miei assistenti parlare nello stesso modo. L'avevamo sistemata con un televisore, un umidificatore e il cassettone che era stato di Marian adolescente. Avevamo pulito il mobile, vuotato i cassetti, restaurato lo specchio e infilato un'abbondante riserva di grucce nell'armadio. Oppure alzavo il telefono nel bel mezzo di una riunione e fingevo di organizzare il pestaggio di un collega, manovra che strappava risate forzate alle altre persone nella stanza. Io stesso mi sforzavo di non ridere in un certo modo, come Arthur Blessing, il nostro direttore generale, con certi ah ah articolati, e un lento cenno di assenso con il capo a scandire il ritmo della risata. Partire, allontanarmi su un aereo, mi liberava dai segnali che rimbalzavano da ogni superficie lucidata a cera. E' uscito a comprare le sigarette e non è più tornato. E' una cosa che si sente dire a proposito degli uomini che spariscono. E' il mistero finale della famiglia. Tutti i misteri della famiglia raggiungono il loro apice nella passione finale dell'abbandono. Mio padre fumava Lucky Strike. Il pacchetto ha un disegno che si potrebbe facilmente definire un bersaglio ma forse no - non c'è un piccolo cerchio centrale, ovvero il centro del bersaglio. Il cerchio è grosso. C'è un grosso cerchio rosso con un bordo bianco, poi un bordo marrone più stretto e infine un sottile bordo nero, per cui, a meno che non si estenda la definizione di centro del bersaglio o di bersaglio, probabilmente non si può chiamare bersaglio il logo Lucky Strike. Ma io lo chiamo bersaglio comunque, e affanculo le definizioni. Marian è convinta che questo sia un elemento cruciale, da tener presente se si vuole che una persona si senta a casa sua. Se non le si danno abbastanza grucce per i vestiti, pensera di essere indesiderata. La mia azienda si occupava di rifiuti. Noi manipolavamo rifiuti, trattavamo rifiuti, eravamo i cosmologi dei rifiuti. Viaggiavo fino alle pianure costiere del Texas e controllavo uomini in tuta spaziale che seppellivano bidoni di rifiuti pericolosi in giacimenti di sale sotterranei vecchi di milioni d'anni, i resti disseccati di un oceano mesozoico. Nel nostro mestiere era una convinzione religiosa, che questi depositi di salgemma non avrebbero lasciato trapelare le radiazioni. I rifiuti sono una cosa religiosa. Noi seppelliamo rifiuti contaminati con un senso di reverenza e timore. E' necessario rispettare quello che buttiamo via. Ho visto un uomo in via della Spiga, fermo davanti a una colonna a specchio, ravviarsi i capelli, lisciandoseli con entrambe le mani, e il modo in cui lo faceva, il taglio dei suoi occhi, la pelle lievemente butterata, entrambe le mani che davano una piega alla capigliatura - mezzo secondo a Milano, un giorno - mi ha fatto venire in mente mille cose in un colpo solo, cose di molto tempo fa. I gesuiti mi hanno insegnato a esaminare le cose alla ricerca di un secondo significato, di collegamenti più profondi. Chissa se pensavano ai rifiuti? Eravamo i manager dei rifiuti, i giganti dei rifiuti, trattavamo i rifiuti universali. I rifiuti hanno un'aura solenne adesso, un aspetto di intoccabilita. Container bianchi di
scorie di plutonio con cartellini gialli di avvertimento. Maneggiare con cura. Persino l'infima spazzatura domestica viene controllata attentamente. La gente adesso guarda in modo diverso alla spazzatura, vede ogni bottiglia e cartone schiacciato in un contesto planetario. Mio figlio un tempo era convinto di poter guardare un aereo in volo e farlo esplodere a mezz'aria con la semplice forza del pensiero. Era convinto, a tredici anni, che il confine tra lui e il mondo fosse abbastanza esile e permeabile da permettergli di influenzare il corso degli eventi. Un aereo in volo era una provocazione troppo forte per ignorarla. Guardava un aereo prendere quota dopo il decollo da Sky Harbor e intuiva un elemento catastrofico insito nel fatto stesso di un oggetto volante pieno di gente. Era sensibile allo stimolo più casuale e gli sembrava di sentire l'oggetto stesso desiderare ardentemente di esplodere. Non doveva far altro che evocare l'immagine esplosiva nella sua mente, e l'aereo si sarebbe incendiato andando in mille pezzi. Sua sorella gli diceva sempre, Avanti, fallo scoppiare, fammi vedere che sei capace di buttar giù quell'aereo con tutte le duecento persone a bordo, e lo spaventava sentire qualcuno parlare così, e spaventava anche lei, perché non era del tutto sicura che non potesse farlo davvero. E' tipico dell'adolescente immaginare la fine del mondo come un accessorio del proprio scontento. Ma Jeff crebbe e perse interesse e convinzione. Perse il dono paradossale di essere separato e solo, eppure intimamente connesso, mentalmente collegato a cose distanti. A casa nostra raccoglievamo separatamente i rifiuti di vetro, le lattine e i prodotti di carta. Poi separavamo il vetro trasparente dal vetro colorato. La latta dall'alluminio. I contenitori di plastica, senza tappi o coperchi, li buttavamo via solo il martedì. Poi c'erano i rifiuti organici, per il giardino. E infine i giornali, inclusi gli inserti patinati, ma stavamo attenti a non legarli con lo spago, che è sempre una grossa tentazione. L'azienda dovrebbe aprirci verso l'esterno. Questi enti organizzati sono designati a rispondere al mercato, a faccia aperta nel mondo. Ma le cose tendono a slittare fiaccamente verso l'involuzione. Pettegolezzi, voci, promozioni, personalita, è naturale, no? - tutti i difetti umani che prendono spazio nell'anima dell'azienda. Ma il mondo persiste, il mondo guarisce in un certo senso. Senti i punti di contatto intorno a te, la carezza di griglie collegate che ti danno un senso di ordine e padronanza. E' la, nelle trillanti file di telefoni, nei fax e nelle fotocopiatrici e in tutta la logica oceanica immagazzinata nel computer. Lamentatevi della tecnologia finché volete, ma in realta aumenta la stima di noi stessi, e ci collega, con i nostri abiti ben stirati, alle cose che passano nel mondo altrimenti inosservate. Marian guidava la macchina con una matita in mano. Non credo di averle mai chiesto perché. Non parlavamo più come quando i bambini stavano crescendo. Che argomento inesauribile, due creature che cambiano sotto i tuoi occhi, passando dall'ottuso schiamazzo, dai rigurgiti di latte alla formazione delle parole, o quando cominciano la scuola, o stanno semplicemente seduti a tavola a mangiare, piccole facce disegnate a pastello gonfie di vita. Ma ormai erano persone adulte dotate di computer, con mensole girevoli per gli apparecchi e un bambino in arrivo e un adesivo sul paraurti (questo era mio figlio) con la scritta “Senza Meta a Tutta Velocita”. I giorni del matrimonio non erano più fitti di dialoghi su Lainie e Jeff. Ci
attaccavamo alla nascita del nipotino. Correvo lungo il canale con una cuffia senza fili. Ascoltavo canti Sufi mentre correvo. Correvo lungo i vialetti di palme e per strade zigzaganti fiancheggiate da aranci e armoniose case stuccate - le strade dei sogni della frontiera, il tipo di posto in cui avrebbe potuto portarci mio padre mezzo secolo prima, verso la luce e verso il West, dove la gente andava per sfuggire a un passato disgraziato di strade grige e appartamenti affollati e odore di cavolo nell'atrio. Lainie era un'imprenditrice, una lavoratrice indefessa, un'affarista, la nostra imbonitrice, la chiamavamo, e viveva a Tucson col marito Dex. Facevano gioielli etnici e li vendevano attraverso un canale televisivo commerciale, braccialetti, catene e tutto il resto, e rilasciavano interviste e andavano alle fiere e ad altre manifestazioni culturali. La sua gravidanza ci entusiasmò e lei prese a mandarci le foto delle sue forme che cambiavano e noi andavamo spesso fin laggiù in macchina per vedere il suo corpo in espansione. Rimisi a posto i libri sugli scaffali. Mi fermai nella stanza a guardare i libri. Poi mi assicurai il borsellino alla caviglia e andai a correre. Più lei diventava grossa, più noi eravamo contenti. Non sapevamo quanto ci saremmo sentiti felici finché non lasciavamo l'Interstate 10 e seguivamo il traffico veloce su una di quelle arterie fiancheggiate da centri commerciali che somigliano a una maratona precipitosa di metallo e trovavamo la sua stradina e lei col suo profilo statuario sulla porta. Definisco un bersaglio il logotipo delle Lucky Strike perché credo che lo stessero aspettando, mio padre, quando uscì a comprare le sigarette, e lo presero, lo caricarono in macchina e lo portarono da qualche parte vicino alla baia, dove il fiume si getta nella baia o dove la laguna si allarga silenziosa nel buio formando paludi e piccole insenature, remote lingue di terra, e poi lo sistemarono a dovere, il proiettile che entra dalla nuca e si fa strada fino al cervello. Inoltre, se non è un bersaglio, perché hanno chiamato la marca Lucky Strike? Colpo fortunato. E' vero, c'è anche la connotazione della febbre dell'oro. Ma un colpo non è solo la scoperta di un metallo prezioso nel sottosuolo. E' anche il colpo penetrante inferto da un'arma. E non c'è forse un rapporto tra il nome della marca e il disegno di cerchi concentrici sul pacchetto? Questo implica che avevano sempre avuto in mente un bersaglio. Capitolo terzo Eravamo seduti al club dello stadio, foraggiati di whiskey artigianale e carne al sangue, a far finta di guardare la partita. Mi era capitato spesso di venire a Los Angeles per lavoro, ma non avevo mai fatto la gita al Dodger Stadium. Per portarmici, Big Sims aveva dovuto caricarmi in macchina a forza. Eravamo separati dal campo, ingabbiati nel vetro all'altezza dei posti stampa, e anche con un tavolo vicino alla finestra sentivamo solo il vociare attutito del pubblico. La voce dell'annunciatore radiofonico arrivava nitida, trasmessa dalla cabina, ma la folla restava a una distanza inquietante, a gemere flebilmente come un battaglione smarrito. Brian Glassic disse: - Ho sentito che hanno finalmente bloccato lo scarico dei rifiuti al largo della East Coast.
- Non mentre sto mangiando, - obiettai. - Diglielo, - intervenne Sims.- Descriviglielo nei dettagli. Fagli sentire l'odore. - Ho anche sentito che più scaricavano rifiuti in una determinata zona, più la vita marina prosperava. Sims guardò la donna inglese, che era l'unica a mangiare pesce. - Prendi nota, - disse. - La vita marina prosperava. E Glassic disse: - Mangiamo alla svelta così usciamo di qui e andiamo a sederci in tribuna come persone normali. - E perché? - chiese Sims. - Ho bisogno di sentire la folla. - Ma fammi il piacere! - Cos'è una partita di baseball senza il rumore della folla? - Senti, siamo qui a pranzare e a vedere una partita, - disse Sims.- Per questo mi sono preso il disturbo di prenotare un tavolo vicino alla finestra. Una partita di baseball non si va a sentirla, giusto? Si va a vederla. Non ci vedi bene forse? Simeon Biggs, Big Sims, era famoso in azienda per il suo giro vita. Aveva cinquantacinque anni, era grasso e calvo ma anche forte, con il collo e le braccia che sembravano tronchi d'acero. Se gli eri simpatico ti prendeva a panciate o ti sfidava a una corsa intorno all'isolato. Dirigeva il settore operativo del nostro campus di Los Angeles, come lo chiamavamo noi, e progettava discariche più carine dei centri commerciali dai colori pastello. Glassic mi guardò e disse: - Qui ci servono caschi e guantoni cibernetici, perché non siamo nel mondo reale. Siamo in piena realta virtuale. E non abbiamo l'equipaggiamento adatto. - Non possiamo portarci dietro da bere se andiamo ai nostri posti la fuori. - Su questo non ci piove, - dissi. Le uniche volte, o quasi, che mangiavo cose malsane, o bevevo troppo, se mai capitava, era quando uscivo con Sims, che era un rimprovero vivente alla tattica della moderazione. La donna inglese disse: - Adesso, se ho ben capito, il ricevitore fa un segnale al lanciatore. Questo o quel lancio. Veloce o lento, alto o basso. Ma cosa succede se il lanciatore è assolutamente contrario alla scelta del ricevitore? - Liquida il segnale con un gesto. - Oh, capisco. - Agita il guanto o scuote la testa, - disse Sims. - O fulmina il ricevitore con lo sguardo. L'inglese, Jane Farish, era una produttrice della Bbc che voleva fare un programma sui giacimenti di sale che stavamo testando per l'immagazzinaggio delle scorie nucleari, sotto la direzione del Department of Energy. Per anni aveva divorato cultura americana, facendo terra bruciata con le sue interviste, diceva - re del porno, monaci contemplativi, cantanti blues in prigione. Aveva appena finito una panoramica della California ed era diretta a un torneo di poker a Reno e poi nel deserto a intervistare Klara Sax. I Dodgers stavano giocando contro i Giants. Sims guardò la Farish e disse:- Queste due squadre hanno una storia che va molto indietro negli anni, sai. Erano squadre di New York, fino alla fine degli anni Cinquanta. - Si sono trasferiti nel West, eh? - Si sono trasferiti nel West, portandosi via il cuore di Nick.
La Farish mi guardò. - Non era rimasto più niente da portar via. A quel punto non ero neanche più un tifoso. La passione era spenta. Questa è la mia prima partita da decenni. - E neanche a farlo apposta, è una partita muta, - disse Glassic. Big Sims ordinò un altro giro e ragguagliò la Farish sui vecchi Dodgers di Brooklyn. Sims era cresciuto nel Missouri, per cui alcune cose le azzeccò, altre le sbagliò. Nessuno che non fosse di New York poteva spiegare i Dodgers. L'inglese non ci fece caso. Assorbiva le cose chimicamente, chiudendo gli occhi di quando in quando per favorire il processo. - Nick si portava la radio sul tetto, - disse Glassic. La Farish si girò verso di me. - Avevo una radio a transistor che mi portavo dietro dappertutto. In spiaggia, al cinema... dove andavo io, veniva lei. Avevo sedici anni. E ascoltavo le partite dei Dodgers sul tetto. Volevo star solo. Era la mia squadra. Ero l'unico tifoso dei Dodgers nel vicinato. Morivo dentro, quando perdevano. Ed era importante che morissi da solo. Gli altri erano degli intrusi. Dovevo ascoltare da solo. E poi la radio mi diceva se mi sarebbe toccato vivere o morire. Non è facile non dire stupidaggini sul baseball se non si è cresciuti con il gioco, ma la Farish fece delle domande accettabili. Erano le risposte, a risultare difficili. Dovevamo sembrare tre matematici così persi nel loro lavoro altamente specializzato da non accorgersi di quanto fosse opaca e bizzarra la terminologia, piena di doppi sensi. Mettemmo in discussione il linguaggio e cercammo di dipanarlo per la profana. - Nessuno vuole del vino? - chiese la Farish. - Non mi dispiacerebbe provare un vino bianco locale. - Il vino è roba da smidollati, - le rispose Sims. - Noi puliamo cessi per vivere. Glassic le fece notare che un inning è un inning se si parla dal punto di vista di un lanciatore che fa tre out ma è solo mezzo inning nello schema più ampio di una partita di nove inning divisi in due meta, la prima in cui batte la squadra ospite, e la seconda in cui batte la squadra di casa. E lo stesso mezzo inning è i due terzi di un inning se il lanciatore viene sostituito quando gli resta ancora un out. Chiesi al cameriere di portare un bicchiere di vino alla nostra ospite. Glassic tornò al paradosso degli inning, ma Big Sims lo zittì con un cenno della mano. - Torniamo ai Dodgers, - disse.- Abbiamo lasciato il ragazzo sul tetto con la sua radio. - Lasciamo perdere, - dissi io. - Devi raccontare a Jane cos'ha messo fine alla tua carriera di tifoso duro a morire. - Non me lo ricordo. - Ti ha talmente tramortito che non ti sei più ripreso. - Sono dispiaceri locali. Non reggono al viaggio. - Raccontale del fuoricampo di Bobby Thomson, - disse Sims. La Farish assunse un'aria educatamente interessata. Voleva che qualcuno le raccontasse qualcosa di comprensibile. Allora Sims le raccontò di Thomson e Branca e di come la gente, più di quarant'anni dopo, si chiedesse ancora, Dov'eri tu quando Thomson ha battuto il fuoricampo? Le raccontò come alcuni di noi avessero fermato il
momento conservandolo intatto nella sua forma, e come lo stesso Sims si fosse precipitato in strada, un ragazzo nero che non faceva neanche il tifo per i Giants - aveva sentito la partita sulla buona vecchia Kmox ed era corso fuori di casa gridando, Sono Bobby Thomson, sono Bobby Thomson. E raccontò alla Farish come ci fosse gente che fingeva di aver visto la partita mentre non era vero e come molti di loro insistessero di esserci stati perché l'evento aveva un tale potere da convincerli che quel giorno dovevano per forza essere stati al Polo Grounds altrimenti come facevano a sentirsi questa cosa nel sangue? - Non vorrete dirmi che è stato come con Kennedy? Dov'eri tu quando hanno sparato a Kennedy? Glassic disse: - Quando hanno sparato a Jfk, la gente si è rintanata dentro casa a guardare la televisione al buio e a parlare al telefono con amici e parenti. Eravamo tutti separati e soli. Ma quando Thomson ha battuto il fuoricampo, la gente si è precipitata fuori. La gente voleva stare insieme. E' stata forse l'ultima volta che la gente è uscita spontaneamente di casa per qualcosa. Per la meraviglia, per lo stupore. Come una nota a piè pagina alla fine della guerra. Non lo so. - Non lo so neanch'io, - disse Sims. La Farish mi guardò. - Non guardare me, - dissi. - Ma tu eri sul tetto, se non sbaglio, quando la palla è stata battuta. - Non ho dovuto precipitarmi fuori. Ero gia fuori. Mi sono precipitato dentro. Ho chiuso la porta e sono morto. - Stavi anticipando Kennedy, - disse la Farish, suscitando una blanda risata. - Ed è stato il giorno dopo, credo, che ho cominciato a vedere ogni tipo di segno che portava al numero tredici. Sfortuna dappertutto. Diventai un numerologo in erba. Presi carta e penna e annotai tutti i collegamenti occulti che sembravano condurre al tredici. Mi piacerebbe riuscire a ricordarli. Uno lo ricordo. Era la data della partita. Il tre ottobre, ovvero, il tre del dieci. Se sommi il mese e il giorno, il risultato è tredici. - E' il numero di Branca, - disse Sims. - Certo, Branca aveva il numero tredici. - L'hanno chiamato Il Botto che ha Fatto il Giro del Mondo, - disse Sims alla Farish. - Una piccola spacconata americana? - Che cazzo, - disse Sims. Glassic mi stava guardando in uno strano modo, con tenerezza quasi, come si guarda un amico troppo lento per capire che sta per essere smascherato. - Racconta della palla, - disse Glassic. Si sporse attraverso il tavolo e pescò qualcosa dal piatto di Sims. Glassic passava per mio amico. Conoscevo Sims e Glassic da molto tempo, e Glassic, il lentigginoso Brian dai modi disinvolti, un uomo dal fascino incerto, era l'uomo con cui parlavo quando parlavo di qualcosa. Parlavo anche con Sims, ma forse mi veniva più facile comunicare con Glassic perché non mi sfidava con la sua esperienza, non stringeva gli occhi come faceva Sims, chiudendomi nella morsa del suo sguardo. - Cambiamo argomento, - gli risposi.
- No, voglio che tu ne parli. Fallo per Sims, glielo devi. E' un crimine che Sims non lo sappia. E' l'unico qui a cui piaccia ancora il gio-co -. Glassic si rivolse all'inglese. - Io vado alle partite di baseball, le poche volte che ci vado, per tenermi in contatto. E' una disgrazia non tenersi in contatto. Nick è caduto in disgrazia. Solo Sims è completamente, tristemente in contatto col gioco. Noi avevamo i veri Dodgers e i veri Giants. Adesso abbiamo gli ologrammi. - Quale palla? - chiese la Farish. Sims mi stava guardando. Aveva finito di mangiare e stava sfilando un sigaro dalla custodia, un'operazione semplicissima che circondava di un cerimoniale particolareggiato. Glassic mi lanciò un'ultima occhiata commovente e si rivolse a Sims. - Nick possiede la palla. La palla del fuoricampo di Bobby Thomson. L'oggetto autentico. Sims accese il sigaro con tutta calma. - Nessuno possiede la palla. - Qualcuno dovra pur possederla. - Della palla non si sa niente, - disse Sims. - L'hanno buttata via alcuni decenni fa. Altrimenti avremmo saputo qualcosa. - Simeon, ascolta prima di pronunciarti. Per prima cosa, - disse Glassic, - durante un viaggio nella East Coast, qualche anno fa, ho incontrato un collezionista di questo tipo di articoli. E questo tizio mi ha convinto che la palla da baseball in suo possesso, la palla che secondo lui era quella del fuoricampo di Thomson, era la palla autentica. - Nessuno ha la palla, - disse Sims. - La palla non è mai saltata fuori. Non se n'è mai saputo niente, chiunque l'abbia avuta per le mani. Questo fa parte della... come si dice?... della mitologia di quella partita. Nessuno si è mai fatto avanti per rivendicare l'autenticita della palla con argomenti credibili. Oppure si è fatta avanti una dozzina di persone, ciascuna con una palla da baseball, il che è sostanzialmente lo stesso. - Secondo, il collezionista in questione mi ha raccontato come era riuscito a ricostruire la storia della palla fin quasi al tre di ottobre del millenovecentocinquantuno. Non è il genere di persona che va alle mostre del baseball a caccia di un buon affare. La sua è un'ossessione patologica. E' un tipo impegnato anima e corpo. E a suo tempo mi ha convinto che, con una probabilita del novantanove virgola nove per cento, quella era la famosa palla. E poi ha convinto Nick. E Nick ha chiesto quanto. E hanno concluso l'affare. - Ti sei fatto fregare, - mi disse Sims. Guardai l'interbase dei Dodgers prendere una palla rasoterra e fare un tiro largo sulla prima. Glassic disse: - Insomma, quel tizio ci ha messo un sacco di anni a rintracciare la palla. Probabilmente ha speso più soldi lui in telefonate, francobolli e viaggi, sto esagerando, certo, di quanti ne abbia sborsati Nick per comprare la palla. Sims aveva un sorriso di scherno, un'espressione di sufficienza, che diventava più maligna di secondo in secondo. - E' tutta una storia fasulla, - mi disse. - Se quella era la palla autentica, come hai potuto permetterti di comprarla? - Te lo spiego io come, - disse Glassic. - Primo, il collezionista non era in grado di fornire una documentazione completa e indiscutibile. Il che ha ridotto il prezzo. Secondo, tutto questo
avveniva prima del boom dei cimeli, delle aste di Sotheby e dei quattrocentomila dollari che qualcuno ha sborsato per un'insignificante figurina del baseball. - Non lo so, - disse Sims. - Non lo so neanch'io, - gli feci eco. Finalmente arrivò il vino della Farish. Mi guardò e mi chiese: Quanto l'hai pagata? - Mi vergogno gia abbastanza. Non scendiamo nei particolari. - E perché ti vergogni? - Be', non ho comperato l'oggetto per la gloria e il dramma che si porta dietro. E' una storia che non ha niente a che fare con il fuoricampo di Thomson. Riguarda il lancio di Branca. Ruota tutta intorno al perdere. - Intorno alla sfortuna, - disse Glassic infilzando una patata nel mio piatto. - Sì, riguarda il mistero della sfortuna, il mistero della perdita. Non lo so. Continuo a dire che non lo so ed è vero. Ma è l'unica cosa che ho sentito di dover assolutamente possedere in vita mia. - Un vergognoso segreto? - disse la Farish. - Certo, è vero. Per prima cosa spendere una somma considerevole di denaro per una palla-ricordo. Poi comprarla per i motivi per cui l'ho comprata io. Per commemorare un fiasco. Per tenere in mano il momento in cui Branca si è girato a guardare la palla e l'ha vista volare in mezzo alle tribune. Da lui a me. Risero tutti eccetto Sims. Glassic disse: - Persino il suo nome. Il fosco Ralph Branca. Come l'eroe di un antico poema epico. Nell'ombre cupe dell'imbrunire, Ralph detto il Fosco andava a morire. Morto ammazzato, oh, che disdetta. - Da una ferale, nera saetta, - concluse la Farish. - Ottimo. Solo che non è affatto uno scherzo. Sai cosa significa dover convivere con il ricordo di un momento orribile? - Il momento di una partita, - disse lei. - Doversi trascinare per sempre sull'erba del campo esterno, diretti agli spogliatoi. Sims era furibondo con noi. - Mi pare proprio che non abbiate colto l'essenziale, ragazzi -. Il modo in cui disse ragazzi. - Si può sapere di quale sconfitta stiamo parlando? Di quale fiasco? Non sono andati a casa tutti felici e contenti alla fine? Anche Branca intendo... insomma, Branca ha il numero tredici sulla targa della macchina. Vuole farci sapere che era lui quello del lancio. Branca e Thomson presenziano sempre alle cene sportive. Cantano le loro canzoncine e raccontano barzellette. Sono il numero più duraturo del mondo dello spettacolo. Non avete capito niente, ragazzi -. Facendoci fare la figura di due scolaretti azzimati nelle loro giacche da liceali. - Branca è un eroe. Insomma, a lui è stata ampiamente concessa la possibilita di sopravvivere a quella partita, e sappiamo tutti il perché. Sul tavolo calò un lieve imbarazzo. - Perché è bianco, - disse Sims.- Perché tutta la baracca è bianca. Perché uno può sopravvivere, può venirne fuori e sfondare se glielo concedono. Ma perché glielo concedano, prima di tutto deve essere bianco. Glassic si agitò sulla seggiola. Sims raccontò la storia di un lanciatore di nome Donnie Moore che
aveva mancato un fuoricampo cruciale durante una partita di spareggio e aveva finito con lo sparare alla moglie. Donnie Moore era nero e anche il giocatore che aveva battuto il fuoricampo era nero. E poi aveva puntato l'arma contro di sé. Aveva sparato più volte alla moglie, senza ucciderla, poi aveva puntato l'arma contro di sé e aveva fatto fuoco. Aveva tirato le cuoia nella lavanderia di casa, disse Sims. Sims raccontò questa storia all'inglese, ma a me giungeva totalmente nuova e capii che anche Glassie stentava a ricordarla. Non avevo mai sentito parlare di Donnie Moore, mi ero perso il fuoricampo e non sapevo della sparatoria. Sims disse che la sparatoria aveva avuto luogo qualche anno dopo il fuoricampo ma che le due cose erano direttamente collegabili. A Donnie Moore non era stato concesso di sopravvivere al proprio fallimento. I tifosi gli avevano dato il tormento e non c'erano state barzellette da raccontare alle cene del giro del baseball. Sims sapeva un sacco di cose sulla sparatoria. Descrisse il ferimento della moglie con dovizia di particolari. La Farish chiuse gli occhi per vedere meglio la scena. - D'accordo, abbiamo capito, - fece Glassic. - Ma non puoi giudicare i due eventi in base al colore della pelle. - Cos'altro c'è di diverso? - Il fuoricampo di Thomson continua a vivere perché è stato battuto molti anni fa, quando le cose non venivano trasmesse in replay e logorate, indebolite ed esaurite prima della mezzanotte del primo giorno. Invece, nel caso di una vecchia pellicola o di una vecchia cassetta audio, più è scalfita, più l'azione è chiara, in un certo qual modo. Perché non deve competere per la nostra attenzione con altri mille eventi. Perché è qualcosa di protetto e di unico. Quanto a Donnie Moore... mi dispiace, ma come facciamo a distinguere Donnie Moore da tutte le altre partite di baseball, da tutte le altre sparatorie? - Quello che conta non è ciò che noi notiamo o ricordiamo, ma ciò che è successo agli interessati, - disse Sims. - Qui si parla di chi è sopravvissuto e di chi è morto. - Ma non del perché, - fece Glassic. - Infatti, se analizziamo i motivi in modo onesto ed esauriente invece che superficiale, facilone e... cos'altro? - Astorico, - lo soccorsi. - Ecco, allora ci rendiamo conto che probabilmente quell'uomo aveva una dozzina di motivi per mettersi a sparare e noi non li sapremo né li capiremo mai. Sims ci chiamò di nuovo ragazzi. Io cambiai partito parecchie volte mentre ci incaponivamo nella discussione dopo aver ordinato un altro giro di drink. Ormai non parlavamo più con Jane Farish. Non facevamo caso alle sue reazioni né incoraggiavamo il suo interesse. Sims ci apostrofò ripetutamente col suo ragazzi e alla fine ci definì compari. La cosa cominciò a farsi un po' strana. Ordinammo il caffè e guardammo la partita mentre la Farish si raggomitolava in un nodo pensieroso. Braccia e gambe incrociate, il corpo girato verso la finestra, succube della forza delle nostre differenze. - Ma tu pensa, mettersi nella compravendita di palle da baseball. Che strazio. E non me l'hai mai raccontato, - disse Sims. - E' stato un bel po' di tempo fa. - Ti avrei convinto a lasciar perdere. - Così l'avresti comprata tu.
- Io tratto un altro tipo di scarti. Roba concreta, la materia prima del mondo. Datemi pannolini usa e getta a tonnellate. Non questa spazzatura nostalgica dei tempi andati. - Non so, - dissi di nuovo. - Cosa ci fai con la palla? La tiri fuori dall'armadio e la guardi? E poi? - Nick pensa al suo significato, - disse Glassic. - E' un oggetto con una storia. Pensa alla sconfitta. Si chiede cos'è che porta sfortuna a una persona mentre elargisce il più soave dei destini a un'altra. Inoltre è un oggetto bello di per sé. Una vecchia palla da baseball? E' un bell'oggetto, Sims. E questa ha un pedigree come nessun'altra. - Si è fatto prendere per i fondelli, - disse Sims. - Si ritrova con una cosa priva di valore. Pagammo il conto e ci avviammo verso l'uscita. Sims indicò una foto sopra il bar, una delle tante istantanee sportive. Era la foto recente di un paio di ex-giocatori dai capelli grigi, Thomson e Branca in completo scuro e forma perfetta, sul prato della Casa Bianca di fianco al presidente Bush che tiene in mano una mazza di alluminio. Uscimmo e ci sedemmo nel box dell'azienda per dieci minuti, in modo che Glassic potesse sentire il rumore della folla. Poi scendemmo giù per la rampa diretti al parcheggio. La Farish aveva delle domande sulla regola dell'infield fly. Sims e Glassic riuscirono a concordare una risposta prima che arrivassimo alla macchina. Fu un regalo imprevisto per la Bbc. Mi sedetti dietro e guardai la citta filare via, immaginando il ragazzino Sims per la strada a Saint Louis. Corre, indossa una tuta jeans con i pantaloni rimboccati, risvolti gonfi, più chiari della scura tela ritorta del dritto della stoffa. Si sbraccia e grida, Sono Bobby Thomson. Capitolo quarto Andavo a sedermi con mia madre nella sua stanza e parlavamo, tacevamo e guardavamo la tv. Tacevamo per ricordare. Uno di noi diceva qualcosa che suscitava un ricordo e stavamo seduti insieme a ripensarci. Mia madre applicava il metodo del ricordo documentario. Buttava lì nomi e avvenimenti e li lasciava aleggiare nell'aria senza connotazioni di piacere o di rimpianto. A volte soltanto una parola. Pronunciava una parola o una frase che mi rimandava a qualcosa a cui non pensavo da decenni. Era sicura di sé nel ricordo, si muoveva nel passato con una disinvoltura che non era capace di applicare al momento presente o all'ora o al giorno della settimana. Ci scherzava sopra. Che giorno è? Ci vado oggi o domani a messa? L'accompagnavo a messa in macchina e poi andavo a riprenderla. Era la soddisfazione più stabile della settimana. Imparai gli orari delle messe, i tipi di messa e la lunghezza delle funzioni e mi assicurai che avesse gli spiccioli per l'offerta. Stavamo seduti in camera sua a parlare. Lei sembrava immune al sentimento. Capitava che evocasse un momento che mi colpiva con forza inusitata, un momento qualsiasi, una cosa ordinaria ma carica di potere - ordinaria soltanto se uno non l'aveva vissuta, se non era stato presente - e la vedevo restare immobile, vedevo quanto fosse prudente nella sua rievocazione. Dicevo sempre ai miei bambini quando erano piccoli. Una cima è una
corda che si usa per ormeggiare una barca. Oppure, il rialzo nel pavimento tra una stanza e l'altra, dicevo, si chiama soglia. L'avevamo sistemata con il cassettone, l'aria condizionata e un materasso duro che le faceva bene alla schiena. Buttava lì nomi ripescati dal passionario familiare, il libro delle sofferenze speciali, e restavamo in silenzio a pensare. I suoi capelli erano ancora parzialmente castani in alcuni punti, in altri erano diventati crespi e iridiscenti, spruzzati d'oro sotto la luce brillante, puntati con beccucci d'oca, e stavamo lì seduti con il televisore acceso. Sapevo che non avrebbe parlato troppo o ricordato a vanvera. Qui era padrona di sé, ci guidava con sicurezza attraverso i silenzi. Dopo i disordini di Los Angeles mio figlio incominciò a indossare short sformati, un berretto con la visiera all'indietro e scarpe da ginnastica con la linguetta imbottita. Prima d'allora aveva sempre avuto un aspetto qualunque, seduto nella sua stanza davanti al computer, un ragazzo tranquillo che aveva appena compiuto vent'anni. Si vestiva sempre nello stesso modo. Si vestiva per un colloquio di lavoro come ci si vestirebbe per portare a spasso il cane - per lui era tutto lo stesso. Progettavamo e gestivamo discariche. Eravamo i broker dei rifiuti. Organizzavamo trasporti navali di rifiuti pericolosi attraverso gli oceani del mondo. Eravamo i Padri della Chiesa dei rifiuti in tutte le loro trasmutazioni. Ero stato lì lì per accennare al mio lavoro con Klara Sax, durante la nostra chiacchierata nel deserto. Anche la sua carriera a tratti era stata contrassegnata dai metodi di trasformazione e di utilizzo dei rottami. Ma qualcosa mi aveva reso diffidente. Non volevo darle l'impressione di alludere a una certa affinita di intenti e di prospettive. Alle persone famose non piace sentirsi dire che qualcun altro condivide le loro qualita. Provano subito la sensazione di avere qualcosa di strisciante sotto i vestiti. Mio padre si chiamava James Costanza, Jimmy Costanza - sommando le lettere si ottiene tredici. A casa toglievamo la carta paraffinata dalle scatole di cereali. Avevamo un ripostiglio per il riciclaggio con bidoni separati per i giornali, le lattine e i vasetti di vetro. Sciacquavamo le lattine usate e le bottiglie vuote e le mettevamo nei loro bidoni. Dividevamo la latta dall'alluminio. Nei giorni di raccolta sistemavamo ogni tipo di spazzatura nell'apposito ricettacolo e mettevamo i ricettacoli, dalla parola latina che significa ricevere di nuovo, fuori sul marciapiede davanti a casa. Usavamo un sacchetto di carta per i sacchetti di carta. Prendevamo un sacchetto di carta molto grande, ci mettevamo dentro i sacchetti più piccoli e poi depositavamo il sacchetto più grande accanto a tutti gli altri ricettacoli allineati sul marciapiede. Strappavamo la carta paraffinata dalle scatole di germe di grano. Mi sarebbe impossibile trovare espressioni che possano esagerare la meticolosita con cui eseguivamo questi compiti. Facevamo la composta in giardino. Impacchettavamo i giornali ma non li legavamo con lo spago. A volte usavamo i silenzi per guardare la tv. Guardavamo le repliche di The Honeymooners, e mia madre rideva quando Ralph Kramden alzava le braccia al cielo e ululava le sue rimostranze. Erano più o meno le uniche volte in cui potevo aspettarmi di sentirla ridere. Doveva provare un certo sollievo, guardando l'appartamento tristemente ammobiliato, la moglie Alice con il grembiule o la giacca
trasandata di panno, o Norton, il vicino, con il cappello floscio di sbieco sulla testa traballante - cose vicine a ciò che conosceva. Superficialmente, certo. Vicine a ciò che conosceva in modo più apparente che reale. Una somiglianza che, per quanto superficiale, era commovente, e forse perfino misteriosamente reale. Guardava l'immagine sullo schermo, piatta e grigia, disturbata e carica d'anni, non diversamente dai ricordi che trasferiva nel sonno. Dormiva in una stanza in Arizona, e come doveva sembrarle strano. Ma Jackie Gleason sullo schermo rendeva il posto più plausibile l'attirava verso un centro percettibile. Una cima è quella cosa che si lega intorno a una bitta. Mi accorgevo che la gente giocava a fare il dirigente d'azienda, gente che di fatto ricopriva cariche di tipo dirigenziale. Lo facevo anch'io? Di solito si mantiene una distanza mutevole tra se stessi e il proprio lavoro. C'è uno spazio di imbarazzo, il senso di un gioco formale che è una specie di panico frenato, e forse lo si manifesta con un gesto forzato o con il classico colpo di tosse per schiarirsi la gola. Qualcosa che sbuca dall'infanzia si insinua in questo spazio, un vago senso di giochi e identita non del tutto formate, ma non è che si finga di essere qualcun altro. Si finge di essere esattamente quello che si è. E' questa la cosa strana. Marian voleva sapere com'ero a diciassette anni, voleva vedermi a diciassette anni, e c'erano piccoli particolari piccanti su cui mi interrogava. Lei e mia madre parlavano di mio padre e io ascoltavo nella calma piatta del dopo cena. Mia madre diceva cose che sapevo gia, ma ascoltavo ugualmente dal soggiorno con la faccia dentro una rivista. Lui era un allibratore famoso per la sua memoria, non segnava mai un numero su un pezzo di carta. Questa era la leggenda del quartiere. Io avevo undici anni quando prese la porta, e sentii la storia solo in seguito: ricordava tutto, faceva il giro dei negozi di barbiere e dei laboratori clandestini, nel quartiere dei grossisti di abbigliamento, agli angoli di strada, nelle hall degli alberghi, rigorosamente in piccolo, e non aveva mai dovuto affidare una cifra alla carta, perché riusciva a ricordare i dettagli di ogni scommessa. Questa è la storia nata intorno al suo nome. Rientrava in quel timore misto a reverenza che si lasciano dietro una morte violenta o una scomparsa inspiegata. Lei posava sulla soglia in statuario profilo e noi lasciavamo l'Interstate 10 per immetterci nel traffico della zona commerciale come in una maratona della morte, e alla fine trovavamo la stradina, ed eccola lì, lei, incinta che di più non si poteva. Mia madre raccontava qualche storia a Marian, ogni tanto, con la sua cadenza semidialettale del Bronx, e io sedevo ad ascoltare a intermittenza, dietro il pulsare corporeo della lavastoviglie. Avevamo ridipinto la sua stanza con una mano di vernice verde, la vecchia stanza di Lainie, un verde pallido e riposante. L'avevamo sistemata con il televisore e lo specchio restaurato e un buon letto duro e tenevamo in serbo per lei una cassetta di acqua frizzante aromatizzata - al limone, mi pare. Nel mio ufficio nella torre bronzea facevo minacce da gangster comicamente efficaci. Dicevo a un consulente in ritardo con una relazione: - Te lo dico una volta per tutte, io, Mario Badalato, taglio la testa a quella tua famiglia del cazzo -. Lo dicevo con la voce roca fedele al genere e malignamente apprezzata dagli astanti. In Olanda andai al Vam, un impianto di riciclaggio dei rifiuti che
tratta milioni di tonnellate di spazzatura all'anno. Seduto in una Fiat bianca, passai accanto a lunghe file di rifiuti ammonticchiati in pile alte parecchi piani. Una fila torreggiante dopo l'altra, con ondate di vapore che si alzavano dai mucchi rastremati verso l'alto, e c'era un puzzo nell'aria che mi riempiva la bocca e sembrava abbastanza penetrante da bruciacchiarmi i vestiti. Perché mi venne da pensare che ero nato con questa esperienza nel cervello? Perché era una cosa personale? Perché, pensai, i cattivi odori sembrano dirci qualcosa su noi stessi? Il manager mi scarrozzò su e giù per le file fumanti e io pensai, Ogni cattivo odore ci riguarda. Ci facciamo strada nel mondo per poi capitare nel mezzo di una scena medieval-moderna, una citta di grattacieli di spazzatura con la puzza infernale di ogni oggetto deperibile mai fabbricato, e accorgerci che assomiglia a qualcosa che ci portiamo dietro da tutta una vita. Era il tipo di persona che faresti fatica a descrivere, se l'avessi visto nell'atto di commettere un crimine. Ma dopo i disordini prese a indossare un berretto dei Los Angeles Raiders e una T-shirt extra lunga con un paio di occhiali da sole appesi al taschino. Non cambiò nient'altro. Continuò a vivere nella sua stanza, scomparendo dentro chip e dischetti, lo stesso ragazzo timido, ma fisicamente vivace, adesso, un essere sociale con un'andatura spavalda da ghetto. Stavamo seduti in camera a guardare le repliche, mia madre e io. Lui l'aveva lasciata per un lungo periodo prima che io nascessi. Per questo porto il cognome di lei, non il suo. Lei non credeva che sarebbe tornato, e mi disse di essere andata da un avvocato il quale era ricorso a un espediente. Il tribunale tende a stabilire che un bambino deve conservare il nome del padre fino alla maggiore eta, raggiunta la quale può decidere da solo. Ma l'avvocato era riuscito con non so quale stratagemma a strappare un'eccezione a non so quale giudice, ed è per questo che sul mio certificato di nascita c'è Shay. Poi lui era tornato ed era rimasto a lungo prima di uscire a comprare le sigarette, dieci anni o giù di lì. Era un uomo che veniva da non si sa dove, aveva detto lei, rassegnata, come se fosse tutto quello che poteva aspettarsi dal destino per noi tre - lei, mio fratello e io - o forse avevo frainteso il tono, e voleva dire che da lì lui veniva e lì aveva fatto ritorno, inevitabilmente, data la tendenza a rimare che ha il gergo della vita. Quando atterravo a Sky Harbour, di ritorno a casa, mi chiedevo sempre come facesse la gente a disperdersi così rapidamente uscendo dagli aeroporti, da qualsiasi aeroporto - si è ammassati sui sedili in file di tre o cinque posti, e ammassati in corridoio dopo l'atterraggio quando il capitano spegne il segnale delle cinture di sicurezza e si ritirano i bagagli a mano dagli armadietti in alto e si resta in piedi in corridoio aspettando che aprano il portello e la gente cominci a trascinarsi verso l'uscita, e c'è un'altra massa di gente quando si esce dal cancello, gente che sbarca e gente in attesa, e un affollamento anche maggiore nell'area del ritiro bagagli e nell'atrio, il tiro incrociato di voci riecheggianti e annunci di voli e motori ruggenti e in mezzo a tutto questo gente in movimento, gente con i suoi effetti personali unici e distinti, la sua microstoria di articoli da toilette e indumenti intimi, e medicine, e aspirine, e lozioni, e ciprie e gel, un numero così incredibile di persone che si incrociano in una giornata calda e secca ai bordi del deserto, mutande usate appallottolate nelle borse, e io mi chiedevo dove stessero andando, e perché, e chi fossero, e come facessero a
disperdersi così rapidamente e misteriosamente, come facesse una folla così grande a sparpagliarsi e svanire in pochi minuti, strascicando le valigie sui pavimenti lucidi. Dicevo sempre ai bambini. Tenevo ben alto un oggetto e dicevo, La piccola sezione rigata in fondo al tubetto del dentifricio. Ecco, questa si chiama pieghettatura. Gleason morto, ma ancora nella stanza con noi, irlandese come lei e accampato in un rancido loculo di appartamento con la divisa da conducente d'autobus, che si sbraccia, tremolante di grasso, l'unica persona che riuscisse a farla ridere. Misurava a grandi passi il pavimento, pompando i pugni. Ti spedisco sulla luna, Alice. A mia madre piacevano soprattutto le battute che conosceva gia. Più lui ripeteva le battute, più lei rideva. Le aspettava, certe battute. Le aspettavamo entrambi, e lui non ci deludeva mai. Ci sentivamo più intimamente legati, con Gleason nella stanza. Lui ci dava la battuta, ci dava la risata sicura, quella di cui avevamo bisogno alla fine della giornata. Gleason addolorato, che pesta i pugni sul tavolo, piega le ginocchia e alza il testone verso il cielo. Gleason era la battuta che conteneva una storia mai scritta - la battuta sui ciccioni, la battuta sugli idioti, la battuta sul rabbino e il prete, la battuta sulla luna di miele, la battuta dialettale, la battuta mordace che continua a vivere anche molto dopo che la barzelletta è dimenticata. Ci sentivamo meglio con Jackie nella stanza, trasparente nel suo dolore, vivo e morto in Arizona. L'accompagnavo e andavo a riprenderla in macchina, assicurandomi che avesse gli spiccioli per l'offerta. Costruivamo piramidi di rifiuti sopra e sotto la terra. Quanto più pericolosi i rifiuti, tanto più a fondo cercavamo di seppellirli. La parola plutonio viene da Plutone, dio dei morti e signore degli inferi. Lo portarono nelle paludi e lo fecero secco (*), come si dice adesso, o come si diceva finché non è saltato fuori qualcos'altro. Mi piaceva precipitarmi a casa dall'aeroporto e mettermi i calzoni della tuta e la T-shirt. Correvo lungo il canale con voci di Sufi che mi facevano da colonna sonora nella testa, e a volte vedevo un aereo decollare, tutto luci e calcoli ascensionali, e pensavo a mio figlio Jeffrey quando era piccolo - al dono che credeva di possedere, di far precipitare gli aerei, la padronanza dello spazio e della materia, un potere e un controllo che nascevano, esecrabili, dalla maledizione dell'estraneita. E talvolta assistevo con lei alla messa, la messa in inglese, una ben misera cosa, senza mormorii o riverberi, ma era pur sempre la parte migliore della settimana, e la prendevo sottobraccio per accompagnarla fuori dalla chiesa, e non era una donna minuta eppure sembrava rimpicciolire a poco a poco, divenire gradualmente puro spirito - sembrava carta di riso, sotto la mia mano. Lui si radeva con un asciugamano buttato sulla spalla, in canottiera, e la lama faceva un rumore che mi piaceva ascoltare, un raschiare di carta vetrata sulla barba folta, e il pennello nella ciotola, la lametta Gem, l'asciugamano buttato sulla spalla e l'acqua calda del rubinetto - caldo, manualita e lama tagliente. Dominus vobiscum, diceva il prete e noi uscivamo spintonandoci dalla sagrestia, parecchi ragazzini che cantilenavano, Dominick Va al Fresco. A cosa serviva il latino se non si potevano ridurre i codici formali a gergo da strada? Era roba da fantascienza o da film dell'orrore, salvo che Jeff era
troppo timido e spaventato per sperimentarlo davvero, il suo potere, anche con sua sorella che gli sibilava all'orecchio di far esplodere quell'aggeggio. NOTE: (*) In inglese waste, che significa, oltre a far fuori, uccidere, anche spazzatura [N'd't']. Capitolo quinto A volte Brian Glassic chiamava tardi. Chiamava a varie riprese, la sera tardi, anche quattro volte di fila in un weekend, e di cosa parlava quando chiamava? Dell'ufficio, naturalmente, tirando in ballo faccende di cui non poteva discutere agevolmente nella torre stessa, o dell'ultimo scandalo nazionale magari, con tanto di dettagli anatomici, oppure si dilungava su un video che voleva convincermi a noleggiare, tutto armi e droga - pensava che la cosa rinsaldasse la nostra amicizia. In parte era anche una forma di provocazione. Brian era convinto che io fossi ben rincattucciato al sicuro, solidamente protetto da casa e da famiglia, più sicuro di quanto fosse lui, più vecchio ma anche fisicamente superiore, fisicamente in gamba, un uomo di stoffa più resistente, questo era il suo chiodo fisso - un uomo che tiene per sé le sue opinioni. E la cosa lo disturbava enormemente, gli faceva venir voglia di corrodere le mie certezze, di attaccarmi in modo infantile, di pretendere la mia attenzione. Quando squillava il telefono a una certa ora, io e Marian ci scambiavamo l'occhiata Brian - doveva essere lui. - Se ti dico dove sono non ci credi. Vieni subito qui, è un posto sconvolgente. Sei l'unica persona con cui posso accettare di condividerlo. Vieni da solo, - disse. Mi ci volle un po' per trovare il posto. Continuai a incrociare la Interstate 10, giù in fondo dove la carta stradale finisce nel bianco del bordo, bassi edifici stuccati con antenne paraboliche - pezzi di ricambio per trattori e messa a punto di motori diesel, sabbia e rocce e autodifesa. Poi adocchiai un gruppo di negozi che corrispondeva alla descrizione di Brian, un minicentro commerciale lindo e grazioso, dipinto di rosa e verde, tre dei negozi non ancora aperti, e parcheggiai vicino all'ultimo sulla sinistra, l'unica impresa funzionante, chiamato Paradiso del Profilattico. Studenti universitari, delicatamente trasandati. Stavano tra gli scaffali a chiacchierare e a curiosare, sfogliando cataloghi e leggendo le istruzioni a caratteri minuti sulle scatole dei prodotti, e altri mescolati a loro, uomini e donne leggermente più vecchi, con una professione e pantaloni morbidi dalla piega impeccabile, con una certa disinvoltura e padronanza di sé, quell'insieme di atteggiamenti e di valori noto come stile di vita. Brian mi spinse in un angolo, in modo che potessi studiare a fondo l'ambiente. Corridoi ampi, moquette morbida e chiara, e quadri, cinque pannelli su ciascuna delle due lunghe pareti che ritraevano scene in una gelateria degli anni Quaranta e Cinquanta. Un barista dietro un bancone di marmo preparava una granita alla fragola per un paio di ragazzine in divisa scolastica e calzine bianche - questo era un murale, dipinto in uno stile piatto, non contemporaneo alla scena, e l'effetto era interessante, tutto fuorché nostalgico. Brian stava
studiando la mia mascella inferiore in cerca di qualche reazione. Sentii una musica di sottofondo, un cantante melodico che interpretava una canzone dimenticata, il tipo di ballata che a volte comprende un paio di strofe in un italiano biascicato, ed era gradevolmente sommessa, pensai, genuina, priva di umorismo condiscendente. Con un sussurro tagliente, come se non li avessi visti, Brian mi apostrofò. - Preservativi. Di questo si trattava, è evidente, di preservativi. Il negozio era tutto preservativi, scaffali zeppi di cento tipi di protezione, maschile e femminile, spermicidi, unguenti, guanti di latex, lubrificanti al silicone, e in più libri, manuali, video, vetrinette speciali con le ultime novita del tipo cazzo-grosso cazzo-piccolo, le immancabili T-shirt, e berretti da baseball con il marchio di fabbrica dei preservativi. - Questo negozio è in una posizione strategica, - disse Brian, - ai confini della nuova frontiera. Mi sembra gia di vederla, una citta satellite, svilupparsi a partire da quest'unico negozio, un migliaio di fabbricati, è così che me l'immagino, disposti a raggiera intorno alla rivendita di preservativi. Come una citta medioevale con il castello in pieno centro. - I castelli allora li costruivano alla periferia. - Ma vaffanculo. Dai qualche segno di sorpresa, no? Hanno preservativi al gusto di pesca. E i ragazzi vengono qui a socializzare, danno un'occhiata in giro, per vedere che aria tira. Mi aspetto di sentire Al Hibbler cantare Unchained Melody. - Al Hibbler era bravo. - Bravo? Ma che cazzo, era fantastico! Tu credi che Ray Charles sia cieco? Al Hibbler sì che era cieco. Dai, reagisci! Mi fece strada lungo un corridoio. La mia reazione fu, Ma tu guarda che razza di preservativi. Borchiati, aderenti, rigati, e questi poi, a pelo. Da ragazzi dicevamo sempre, non cavalcare a pelo, cioè usa il preservativo altrimenti la metti nei guai. E adesso c'erano dei preservativi cosiddetti a pelo, la cui sottigliezza e sensibilita veniva collaudata elettronicamente. - Questi rimpiazzeranno le scarpe da jogging, - disse Brian. - I ragazzi si prenderanno a revolverate per una confezione di costosi preservativi di pelle d'agnello. C'erano preservativi sciolti, dentro ciotole di vetro, dentro vasi per caramelle - prendetene una manciata. Una donna guardava un campione esposto con guaina in poliuretano dotata di anelli flessibili a entrambe le estremita. Brian aveva gia visto la donna alla cassa automatica della sua banca - salve, come va, ehi, salve. C'erano guaine per dita e guaine per tutto il corpo, profilattici orali al gusto di menta. C'erano astucci per preservativi, tascabili, e un preservativo che poteva essere infilato in testa come un cappello. Brian disse: - Mio fratello è andato in giro con un preservativo in tasca per tutta l'adolescenza. Una volta me lo mostrò, dovevo avere dodici anni, credo. Aprì il portafoglio e mi mostrò un aggeggio avvizzito come un pene moscio e non credo di essermi più riavuto. Era un mondo nel quale non ero ancora pronto a entrare. Potevo capire il sesso a livello animale, ma questa era tutta un'altra storia. C'era qualcosa di strano nel materiale, in quel tipo di gomma plasticosa, e
l'aspetto che aveva, l'effetto che faceva a toccarlo, me lo fece toccare, la natura stessa della cosa e la sua funzione, non so, aveva un che di totalmente alieno e inquietante. Come se il sesso non fosse gia abbastanza difficile di per sé. Ci mancava anche questa roba, questo ricavato tecnologico che secondo loro avrei dovuto avvolgermi intorno al pisello. Era latex prodotto in massa, la stessa roba che usavano per verniciare le navi da guerra. - Eri un bambino sensibile. - Ero scheletrico e muto, come uno spaventapasseri. Tu eri un ragazzotto tutto muscoli, di quelli che riempivano di botte i ragazzi come me. - Non ne avevamo, di ragazzi come te, - gli dissi. - Tu andavi in giro col preservativo? - Certo. Nel taschino della tuta. - Quando arrivai a sedici anni non si usava più. - Adesso si usa, - dissi. - Non credo che mio fratello abbia mai usato il preservativo che teneva nel portafoglio. Quando riuscì ad avere la macchina, lo mise in macchina. Nel cassetto del cruscotto. Credo che solo allora l'abbia finalmente usato. Un uomo stava canticchiando sottovoce, scandendo le strofe di una canzone sentimentale trasmessa dall'impianto stereo del locale. Veniva con passo incerto verso di noi, un uomo dai capelli grigi, e spingeva davanti a sé una bombola di ossigeno a rotelle i cui tubi gli salivano fino al naso. Il cilindro era delle stesse dimensioni di un bassotto in una gabbia doganale. E lui cantava con sentimento, con una voce sommessa e roca - il ritmo e il fraseggio erano perfetti, la pigra fine dei versi insipidi, su una lettera d'addio, ma resi vivi e passionali dalla sua voce tormentata, sentiti in ogni poro della pelle. Ci facemmo da parte per lasciarlo passare. Dietro i prodotti e il loro uso si intravedeva il lavorio dei pubblicitari. Dermoseta, megaliscio e con serbatoio. C'erano preservativi confezionati come monete romane e preservativi in contenitori tipo bustina di fiammiferi. Brian lesse ad alta voce le scritte sulle scatole. C'erano membrane animali naturali e preservativi all'aroma di gomma da masticare. C'erano preservativi che brillavano al buio, preservativi per i giochi preliminari e preservativi con graffiti che si allungavano a seconda dell'erezione, una lettera che diventava una parola, una parola che si allungava in una frase. Brian fece la sua piccola citazione parafrasando Churchill - Ce li metteremo sulle spiagge. C'erano preservativi lecca-lecca, c'erano boxer con personaggi da fumetto a forma di preservativo, fluttuanti e con le teste a capezzolo, che parlavano in Spermiano. Vicino alla porta c'era una ragazza con il logo Ramses tatuato sul lobo dell'orecchio. - Anche mia figlia ne ha uno, - disse Brian. - Solo che c'è scritto Pepsi. Dovrei essere contento? - Quale figlia? - Quale figlia. Che differenza fa? Brian diffidava della sua famiglia. Aveva adottato l'atteggiamento studiato del padre che si lamenta sistematicamente dei ragazzi incuranti del denaro e dimentichi di ogni cautela. Tutti noi ci produciamo in questa piccola messa in scena, alla fine si riduce a un secondo linguaggio, il pezzo abbastanza facile del lamento del papa,
e Brian si esibiva in sarcastici assolo di grande effetto, ma nutriva anche un sentimento più profondo e più amaro, la sensazione che i suoi familiari fossero anche suoi nemici, sguinzagliati in casa sua, pronti a prosciugarlo del suo amor proprio fino all'ultima goccia, una figliastra, un figlio e una figlia, tutti alle scuole superiori, e una moglie che, a suo dire, era un filino fuori asse. - E non è l'unica sforacchiatura che si è fatta fare. - Quale figlia? - ripetei. - Brittany. - Mi è simpatica Brittany. Trattamela bene. - Sì, trattarla bene. Vuoi sapere l'ultima? Adesso va in giro con una fascia al braccio, roba da non crederci... be', hanno fatto un'esercitazione a scuola, la Giornata di Simulazione dell'Apartheid. - Cosa sarebbe? - Esattamente quello che dicono le parole. Cercano di simulare la cultura dell'apartheid, perché serva da lezione ai ragazzi. Portano tutti una fascia al braccio. Dorata se appartieni alla classe oppressa, rossa, mi pare, se sei nell'esercito, e verde se rappresenti l'élite. Brittany si è offerta volontaria per la classe oppressa e adesso non vuole più togliersi la fascia. La simulazione ufficiale è durata solo un giorno, ma lei la sta continuando ormai da settimane. E' rimasta l'unica a farlo. Limita il proprio accesso alla mensa a dieci minuti al giorno. Prende solo certi autobus a determinate ore. Si siede in una zona specifica dell'aula. - Come reagiscono gli altri ragazzi? - Le sputano addosso e la evitano. Fece uno schermo televisivo con le mani, pollici orizzontali e indici verticali, e mi guardò da dentro la cornice, gli occhi strabuzzati e la lingua penzoloni. Facemmo un ultimo giro della stanza. In uno dei murali, un ragazzo e una ragazza sedevano in un separé con coppe di gelato, bicchieri ghiacciati pieni d'acqua e cucchiaini dal manico lungo, e la scena non era studiata per risultare gradevole, ma semmai descrittiva, aveva il tono del documento, e il locale stesso, nel complesso, dava l'impressione di un museo dove il tempo era compresso e gli oggetti disposti secondo un criterio evolutivo. In tutto questo, una donna cantava una ballata su una chiesetta al chiaro di luna, vagamente familiare, e mi girai a guardare se l'uomo con la bombola di ossigeno stesse canticchiando anche questa. Brian comprò una confezione di preservativi da dare a suo figlio David, una cosa tra compagni, un pegno di reciproca comprensione e solidarieta. Uscimmo e ci fermammo nel piazzale vuoto mentre Brian apriva la scatola e prendeva un solo preservativo nel suo involucro di carta stagnola. Lo guardò. Brian aveva una risata particolare che riservava a certe occasioni, una specie di tosse rauca da uomo semiaffogato scontento di essere stato salvato, e ora guardò quell'affare e fece quella risata. - Allora tutti parlavano di malattie veneree. Scolo era una parola con una connotazione molto decisa. Lo scolo. - La sifilide. - Sì, tutti quei termini, uno peggio dell'altro. Ma io non riuscivo a vedere un elemento di salvezza nel preservativo. Forse perché si chiamava anche in un altro modo. - Scumbag, sacco di feccia. - Gia. E nel mio piccolo cervello un po' ritardato di dodicenne,
forse intuivo una vita segreta in quell'oggetto nel portafoglio di mio fratello, quello scumbag... come poteva essere sicura, una cosa che si chiamava così? Sacco di feccia? - Siamo i manager dei rifiuti, - gli dissi. - I sacchi di feccia sono esattamente ciò che trattiamo. - Ma pensa al disprezzo che mettiamo in questa parola, scumbag. E' una brutta parola. Piena di disprezzo. - Lascia perdere le parole. Hai comprato un preservativo per tuo figlio perché è importante che lui lo usi. Scusa se faccio sfoggio di buon senso. Lo so che è un compito ingrato, specie con uno diffidente e primitivo come te. - Hai ragione. - Bisogna che la gente li usi questi cosi. - Hai ragione, - disse lui. - E' un compito ingrato. Scartò il preservativo e lo scosse finché l'estremita a capezzolo ondeggiò leggera nella brezza. Poi lo appallottolò nel pugno e se lo mise sotto il naso. - Di cosa profuma? - disse. - Di tenda da doccia? Di tappezzeria d'auto o di paralume? O di quei grossi sacchi per indumenti dove si ripongono i vestiti che non si mettono mai? Inalò a fondo, cercando di assorbire l'odore, di trattenerlo il più a lungo possibile per poterlo catalogare. La sua faccia scarna si infiammò, rossa per l'eccitazione. Pensò che potesse trattarsi dell'odore dell'involucro di plastica a bolle che avvolge i computer nuovi appena tolti dallo scatolone di imballaggio. Oppure era l'odore dello scatolone. O del computer stesso. O dei sacchetti di plastica rimasti troppo a lungo nel freezer, ad assorbire esalazioni di Freon. Pensò che forse era odore di ospedale, odore di laboratorio, di esalazioni di stabilimento chimico. Non riusciva a collocarlo con esattezza. L'isolamento termico delle pareti. Il filtro dell'aria condizionata. - Pensavo che fossero inodori. I preservativi moderni, - dissi. Salvo quando ci aggiungono un aroma particolare. - E' il nuovo tipo che è inodore. Io gli ho comprato il vecchio latex a buon mercato che fascia il membro, riduce la sensibilita e puzza. Perché voglio che paghi anche lui il prezzo del buon senso. Marian era in camera di Jeff a guardare un film alla tv. Dovetti fare uno sforzo per adattarmi alla vista di un'altra persona in camera di mio figlio. La sua stanza era la sua tana animale, il suo territorio e il suo odore, e mi parve che Marian stesse commettendo una trasgressione di specie, seduta lì dentro. Indossava un paio di jeans frusti e un vecchio top di maglia che pendeva sul davanti, il tipo di donna che cresce in bellezza, mi pare, che diventa più bella col passare del tempo, finché un giorno te ne accorgi, all'improvviso e tutto in un colpo - e nel suo piccolo diventa oggetto di scandalo, di sorpresa e commenti. - Quand'è che hai ricominciato a fumare? - Non scocciare, - disse lei. Le raccontai del Paradiso del Profilattico. Rimasi sulla soglia a parlare sopra il sonoro del film. Aveva una bella carnagione e tutta la sua forza di carattere era espressa dalla fisionomia - viso lievemente angoloso, naso diritto, capelli scuri, una bellezza severa, classica, direi, all'americana, secondo quello stile un po' antiquato che non si scosta drasticamente dalla banalita, come la
faccia intagliata in una saponetta di una volta, Camay, mi pare si chiamasse, ma non ne sono sicuro, la testa di una donna di profilo, con i capelli ondulati, anche se Marian li aveva lisci. - Dov'è Jeff? - E' uscito. Sto guardando un film. Le raccontai della Giornata di Simulazione dell'Apartheid, sempre fermo sulla soglia. Lei rispose: - Lasciami guardare questa roba. - Hai voglia di qualcosa? Io sì. - Un bicchiere d'acqua minerale va benissimo, - disse. Andai in cucina e presi ogni cosa dal suo scomparto. Versai l'acqua minerale sul ghiaccio in un bicchiere alto e aggiunsi uno spicchio di limone. Presi la vodka dal freezer, fumante di ghiaccio, e mi ricordai cosa volevo dirle. Tagliai una scorzetta di limone e la misi in un bicchiere da porto. Volevo dirle qualcosa a proposito di Brian. Avevo cercato di bere porto per un po', giusto per vedere che effetto faceva, come suonava, un bicchiere da porto, un vino rinforzato, e adesso usavo il bicchiere da porto per la mia vodka, versandola ghiacciata, sciropposa e opalescente. Sentivo il dialogo del film all'altro capo della casa. La sua pelle era pura come Camay e i suoi capelli erano scuri e lisci e di solito li portava corti perché il corto è facile. La sua voce era impostata, profonda e ricca di intonazioni, morbida ed erotica, soprattutto al telefono o nel buio della camera da letto, appesantita dal brandy o con una sfumatura gutturale di desiderio notturno. Un tempo cantava nel coro della chiesa della sua citta, una delle Big Ten, come le piaceva chiamarla, ma smise in seguito a un malinteso, un presunto affronto - quanto odierebbe sentirmi dire presunto. Le porsi l'acqua minerale e lei disse qualcosa su Brian. Pensai che stesse cercando di anticipare la mia battuta su Brian. L'aveva sentita arrivare grazie alla lettura dei segnali ormai abituale nell'ambito sensorio del matrimonio. - Ti ha consigliato un altro di quei film in cui tutti finiscono in una fogna a spararsi addosso? - E' così che Brian allenta la tensione di essere Brian. Mi ricordai di una festa in cui si era cacciata in un angolo della stanza con un uomo che entrambi conoscevamo appena, un poeta dell'universita con lunghi capelli incolti e denti macchiati, a ridere - lui parlava e lei rideva, una cosa abbastanza innocente, direte voi, o per niente innocente ma assolutamente accettabile, una festa è una festa, e se l'abboccamento si protraeva un po' troppo chi l'avrebbe notato se non il marito? E più tardi glielo avevo detto. Questo succedeva molto tempo fa, quando i bambini erano ancora piccoli e Marian guidava la macchina senza tenere in mano una matita. Più tardi glielo avevo detto, dandomi una certa importanza perché questo era il punto, parlare con dignita esagerata, parlare dal profondo del mio essere e nel contempo prendermi in giro da solo, perché è questo che si fa alle feste. Le avevo detto, Io soffro di un disturbo raro che affligge gli uomini mediterranei. Si chiama amor proprio. Ero fermo sulla soglia a guardare il film con lei. - Secondo te Jeff restera con noi per tutta la vita, eh, cosa dici? - Potrebbe anche darsi.
- E il lavoro al ranch dei salutisti, è saltato? - Immagino di sì. - Non ti ha detto niente? - Sto guardando questa roba, - disse Marian. - Hai fatto i giornali? - Ho fatto le bottiglie. Domani è il giorno delle bottiglie. Lasciami guardare il film, - disse. - Guardiamolo insieme. - Ma tu non sai cosa succede. E' gia un'ora e un quarto che lo sto guardando. - Riuscirò a capire lo stesso. - Non ho voglia di star qui a spiegartelo. - Non sei tenuta a dire una parola. - E' un film che non vale la pena di spiegare, - disse. - Riuscirò a capire guardandolo. - Ma così invadi il mio spazio, - disse. - Starò zitto e mi limiterò a guardare. - Lo invadi proprio perché guardi, - disse. L'osservazione le piacque, era azzeccata, e si stiracchiò sorridendo in una specie di sbadiglio attorcigliato, le gambe e i fianchi fermi, il busto girato dall'altra parte. Credo di aver capito cosa voleva dire, che un'altra presenza sbilancia l'equilibrio, rompe l'integrita della compagnia che ti tiene la scatola. Voleva stare da sola con un brutto film e io rappresentavo un giudizio. - Stai lavorando troppo, - le dissi. - Adoro il mio lavoro. Piantala. - Adesso che ho smesso io, ti ci sei messa tu, a lavorare troppo. - Senti, sto guardando il film. - Stai lavorando troppo senza motivo. - Se cerca di ucciderla, giuro che mi arrabbio. - Forse la uccidera fuori campo. - Fuori campo va benissimo. Può anche usare una sega elettrica, basta che non me lo facciano vedere. Guardai finché il mio bicchiere non fu vuoto. Tornai in cucina e spensi la luce. Poi andai in soggiorno e guardai il divano color terra di Siena. Era un mobile nuovo, una cosa da guardare e assorbire, un oggetto che la stanza avrebbe incorporato col tempo. Toglieva la maledizione al pianoforte. Avevamo un piano che nessuno suonava, uno dei pezzi dell'eredita di Marian, un oggetto che ci opprimeva tutti con la sua vita precedente, come un tappeto di pelle d'orso. Spensi la luce in soggiorno, ma prima guardai i libri sugli scaffali. Mi fermai nella stanza a guardare il divano terra di Siena, l'arazzo rajastano e i libri sugli scaffali. Poi controllai l'altra luce, quella del corridoio posteriore, per assicurarmi che fosse accesa in caso mia madre dovesse alzarsi durante la notte. Mi fermai di nuovo sulla soglia. Marian stava guardando la tv, anima e corpo. Si accese un'altra sigaretta e io andai in camera da letto. Mi fermai a guardare i libri sugli scaffali. Poi mi spogliai e andai a letto. Lei entrò circa un quarto d'ora dopo. Aspettai che cominciasse a spogliarsi. - Cosa capto? - Di cosa stai parlando? - disse lei. - Tra te e Brian?
- Di cosa stai parlando? - disse lei. - Cosa capto? Ecco di cosa sto parlando. - Brian mi fa ridere, - si decise a dire. - Fa ridere anche sua moglie. Ma tra loro non capto niente. Esitò a rispondere. Forse la mia era un'osservazione divertente, al di la delle intenzioni. Marian mi guardò e uscì dalla stanza. Sentii lo scroscio della doccia dall'altra parte del corridoio, e capii di aver sbagliato tutto. Avrei dovuto intavolare l'argomento quando ero sulla porta e lei guardava la tv. Così avrei potuto farla io, la scena di chi esce dalla stanza. Capitolo sesto Tenevamo in serbo una cassa di acqua frizzante al suo aroma preferito e l'avevamo sistemata in una stanza tranquilla, la vecchia camera di Lainie, con lo specchio restaurato e il televisore con lo schermo grande. Non ci volle molto prima che Jeff smettesse di portare gli short sformati e il berretto alla rovescia e ricominciasse ad assomigliare a se stesso. Il suo computer aveva una funzione multimediale che gli consentiva di guardare una copia del famoso videotape dell'automobilista ucciso a colpi di pistola dal Texas Highway Killer. Jeff si concentrava su queste immagini, valendosi di una serie di programmi e di tecniche di filtraggio per ripulire lo sfondo. Cercava possibili informazioni andate perdute. Accelerava e rallentava al massimo l'immagine, cercando di trovare in quello sciame di dati un pixel che gli fornisse qualche indizio sull'identita dell'assassino. Lo strumento pesava solo un centinaio di grammi e indicava la distanza percorsa, le calorie bruciate e persino la lunghezza della mia falcata - agganciato alla fascia dei pantaloni corti. Avevo undici anni quando lui uscì a comprare le sigarette, in una serata calda con la gente che giocava a pinnacolo nel circolo che dava sulla strada e voci radiofoniche dappertutto, c'è sempre qualcuno che ascolta la radio, e lo portarono via, dalle parti di Orchard Beach, dove la costa è disseminata di piccole baie remote, e lo buttarono giù all'inferno, il corpo sospeso sopra le alghe di scoglio, nella molle feccia organica. Non che io ricordi veramente che tempo facesse, o i giocatori di carte. C'è sempre una radio e qualcuno che gioca a carte. A casa nostra volevamo una spazzatura pulita, sana e sicura. Sciacquavamo le bottiglie vecchie e le mettevamo negli appositi bidoni. Toglievamo doverosamente la carta frusciante dalle scatole di cereali. Era come preparare un faraone per la morte e la sepoltura. Volevamo fare le piccole cose per bene. Non segnava mai una cifra sulla carta. Era portato per i numeri, aveva memoria per i numeri. L'avevamo sistemata con l'umidificatore, le grucce, un buon letto duro e il cassettone appartenuto a Marian adolescente, un bel mobile con una storia alle spalle. Nella torre bronzea guardavo le colline color terra d'ombra fuori dalla finestra e mi sentivo rassicurato e ben protetto, sicuro nel mio ufficio, con la camicia bianca pulita, collegato a cose che mi rendevano più forte. Nella torre bronzea un collega dirigente si schiariva la gola e io sentivo passare qualcosa in quel breve, rauco rumore, un'eco segreta
dell'infanzia, i giochi che faceva all'interno della sua vita. Ci saranno stati quaranta gradi fuori in strada. Lui stava spiando se stesso. La terza persona controlla la prima. Il “lui” spia l'“io”. Il “lui” sa cose a cui l'“io” non sopporta di pensare. Ci saranno stati quarantuno, quarantadue gradi, mentre i telefoni trillavano in sequenze modulate. La terza persona manda il suo nessuno a uccidere il qualcuno della prima persona. Dicevo sempre quando erano piccoli. Dissi loro più di una volta. Questa è la lavatrice, questo è l'imballaggio, questo è il tubo di scarico. Nella torre bronzea usavamo la retorica delle minoranze oppresse per bloccare misure legislative che avrebbero nuociuto ai nostri affari. Arthur Blessing era convinto, il nostro direttore, che i sentimenti autentici si levassero dalle strade fluttuando verso l'alto, pronti a essere manipolati dall'azienda. Imparammo a lamentarci, ad appropriarci del linguaggio della vittimizzazione. Arthur ascoltava gangsta rap tutte le mattine alla radio. Canzoni sul dare di fuori, darla via e andare in pari, prendere quello che ci spetta di diritto con mezzi violenti se necessario. Era convinto che questo fosse l'unico tipo di approccio che faceva colpo su Washington. Arthur una volta mi recitò alcune strofe sull'aereo dell'azienda e insieme ridemmo la sua risata balorda, una serie di ah ah articolati, chiari, lenti e ben distanziati, come ridere con le parole. Di ritorno a casa mi piaceva spalmarmi la lozione solare sulle braccia, la faccia e le gambe e andare a correre giù per le strade silenziose di oleandri e di palme e lungo il canale con gli argini di terra rossa. Correvo nel caldo denso e nella luce forte pensando al fattore di protezione che ormai era schizzato a sessanta, me ne preoccupavo nonostante avessi la pelle olivastra, scura come quella del mio vecchio - prima quindici, poi trenta, e ora sessanta, mentre una volta il fattore quindici era il massimo di protezione scientificamente possibile. Correvo oltre i tronchi d'albero imbiancati a calce contro il sole implacabile. Bisogna tagliarlo grosso. Questo lo diceva del pane, la pagnotta rotonda dalla crosta spessa che lui chiamava pane di Campobasso, dal nome del negozio, che a sua volta prendeva nome da una citta di montagna sulla spina dorsale d'Italia. Anche il pane migliore, diceva, se lo tagli fine, non vale niente. Lo guardavo radersi e lo guardavo tagliare il pane, tenendo la pagnotta sul fianco con una mano, e il pollice dell'altra, la mano col coltello, incuneato nel manico, per guidare la lama, giù attraverso la crosta e dentro la mollica elastica. Quando Lainie ebbe la bambina, provai una gioia leggera dentro il petto. O un senso di sollievo, forse, l'allentamento di una stretta, di una morsa perenne, di qualche rimprovero della virilita. Adesso tutte queste donne, da mia madre nella sua stanza verde pallido all'ultima arrivata che scalciava con frenesia mortale, erano raccolte intorno al caminetto. Era una benedizione che fosse una femmina. Provavo un senso di benessere diffuso, la cessazione di quel battito martellante di un nodo dentro il corpo. La vidi nuda tra le braccia di sua madre, nuotare in un nastro di luce. Solo il martedì facevamo la plastica, senza i tappi e i coperchi. Waste, ovvero rifiuti, è una parola interessante, che si può rintracciare nell'inglese antico e nel norvegese antico e si può far
risalire al latino, con derivati quali vuoto, svanire e devastare. Gli abitanti di Phoenix si chiamano Fenici. Loro due parlavano delle cose di cui io non parlavo, anche se le avevo raccontato della macchina rubata, e ci dicevamo, io e Marian, dicevamo, Se la gente vedesse nostro figlio nell'atto di commettere un crimine non saprebbe come descriverlo a parte il colore della pelle e l'adesivo incollato sul paraurti posteriore della Honda, ammesso che la Honda fosse un accessorio del crimine, l'adesivo regalo di qualcuno - “Senza Meta a Tutta Velocita”. Marian e io vedevamo i prodotti in termini di spazzatura anche quando luccicavano sugli scaffali dei negozi, ancora invenduti. Non ci chiedevamo, Che pietanza sara? Ci chiedevamo, Che tipo di spazzatura sara? Sicura, pulita, ordinata, facile da eliminare? La confezione potra essere riciclata e trasformata in buste marroncine difficili da incollare? Prima vedevamo la spazzatura, poi vedevamo il prodotto come cibo, lampadine o shampoo antiforfora. Quanto vale come spazzatura, ci chiedevamo. Ci chiedevamo se fosse corretto consumare un certo prodotto venduto in una confezione destinata a durare un milione di anni. Secondo la leggenda del quartiere, lui non scriveva mai un numero su un pezzo di carta. Una sera dopo l'altra stavamo seduti nel riverbero monotono del televisore, mia madre e io, a guardare le repliche di The Honeymooners. Ralph Kramden che piangeva nel suo dolore inarrestabile. Forse mia madre si identificava con la moglie Alice. Con il grembiule, la giacca di panno, l'appartamento miseramente ammobiliato e gli odori di cibo nell'atrio. Ma Alice aveva un marito conducente d'autobus che continuava a entrare dalla porta, invece di uscire. Guidava un veicolo, autorizzato dalla societa. E Ralph e Alice non avevano figli a dar loro preoccupazioni e tormento. Tu avevi i figli senza il marito. Nemmeno un corpo riemerso dalle alghe e trovato una domenica mattina presto da due sconosciuti su una barca a remi presa a nolo con una nassa per i granchi - il corpo smangiucchiato di Jimmy Costanza, eta vattelapesca. Tornai nelle pianure costiere del Texas e rilasciai un'intervista alla Bbc con casco e lampada da minatore in una galleria salina a settecento metri sotto terra. La regista era fuori campo e faceva le domande, mentre io con in bocca il sapore del pulviscolo salato sollevato dai carrelli elevatori a forcale cercavo di formulare risposte che l'accontentassero. Tu avevi l'uomo che faceva un lavoro non autorizzato dalla societa. Nei corridoi e nei vicoli di notte sentivi rumore di passi e forse ti chiedevi se era Jimmy che tornava. Dal regno dei morti, o dalle tenebre, o forse solo dal New Jersey. Ed eri tu, quella che si vestiva in fretta sul far del giorno, prima che il caldo salisse sibilando nelle tubature - la messa del primo mattino tra gli italiani perennemente in gramaglie. Tu avevi i figli con i nervi tesi, quella creatura scatenata più difficile da amare di una manciata di fondi di caffè. Tu, che andavi a messa da sola in quelle fredde mattine. E il figlio più grande, con i suoi modi inibiti e distanti, e la sua rabbia disinibita, in cima al tetto nel nevischio serale a fumarsi una sigaretta. Guardo il logo delle Lucky Strike e penso bersaglio. Guardavo uomini in tuta spaziale sepellire bidoni di scorie nucleari e pensavo alle rocce viventi la sotto, al processo
sotterraneo, la semivita, gli atomi che si riducono a meta del numero originario. L'isotopo più comune dell'uranio viene bombardato con i neutroni per produrre il plutonio che fissiona, se è possibile creare un verbo dall'energia della scissione degli atomi. Questo isotopo ha numero di massa due tre otto. Sommando le cifre, si ottiene tredici. Ma le bombe non furono sganciate. Ricordo Klara Sax che parlava degli uomini che pilotavano i bombardieri strategici mentre noi stavamo in piedi ad ascoltarla nella lunga struttura di cemento. I missili rimasero nei loro dispositivi di lancio. Gli uomini tornarono e le citta non furono distrutte. Capitolo settimo Marian mi si appoggiò contro e rise, guardando la superficie della terra che si allargava intorno a noi. Erano le prime luci dell'alba, un tremolio argentato ai bordi del deserto. A cento metri di altezza incontrammo un leggero vento da ovest che ci sospinse verso una mezza palpebra di sole. Ma non avevamo l'impressione di muoverci. Sembrava che fosse la terra a scivolare via sotto di noi, rivelando un gruppo di roulotte, un camion su una strada asfaltata verso sud. E cani che ci abbaiavano contro - abbaiavano e saltavano, correvano urtandosi e uggiolando mentre sorvolavamo il campo di roulotte, passando da un cane all'altro, altri cani che apparivano alla periferia, contorcendosi a mezz'aria, cani venuti dal nulla a moltiplicare guaiti e ululati, un contagio da svegliare mezzo mondo. Poi fummo sopra il territorio aperto, bruno avorio e fitto d'ombre, e restammo sospesi nell'aria morbida, cullati in un dondolio senza peso, con la distesa del creato che sfilava via sotto di noi. Il pilota tirò la valvola di alimentazione e sentimmo i bruciatori pulsare e ruggire e questo tornò a far ridere Marian. Parlava e rideva incessantemente, felice e spaventata. La cesta non era grande, conteneva a malapena noi tre più taniche, valvole, cavi, strumenti e corda arrotolata. Ogni getto di propano spediva una fiammata grande come un uomo nella gola aperta del pallone di nylon che si gonfiava sopra di noi. Jerry il pilota disse: - Bisogna che il vento resti esattamente com'è. Allora possiamo farcela senza problemi, credo. Ma dobbiamo essere boc£ fortunati. Questo fece ridere entrambi. Ridevamo, più leggeri dell'aria, e il pallone non sembrava tanto un prodotto della scienza quanto una preghiera improvvisata. Jerry distanziava le fiammate e teneva d'occhio il pirometro aggiungendo quel tanto di calore che bastava a compensare il raffreddamento dentro l'involucro. Era un gioco, un giocattolo smisurato in cui ci ritrovavamo ingabbiati, con gli occhi spalancati di fronte alle fiamme guizzanti. Il pallone era a strisce come una grossa caramella, e quando Jerry piegò verso sud intravedemmo una strada e un veicolo, il veicolo del recupero, un furgone a strisce in tinta col pallone con un piccolo rimorchio adibito al trasporto del pallone e della cesta. L'impeto della fiammata, l'ascesa differita e Marian che diceva: - E' il più bel regalo di compleanno che abbia mai ricevuto. - Non hai ancora visto niente, - dissi io. - Come ti è venuto in mente? - mi chiese. - Questa è una cosa che ho sempre desiderato fare senza saperlo. Oppure lo sapevo, ma non fino al punto di fare progetti. Devi avermi letto nel pensiero -. Poi disse: - Non sapevo quanto bisogno avessi di uscire all'aperto e
rivedere questo paesaggio. Troppo presa dal lavoro. Ma non avrei mai creduto che l'avrei fatto da quassù. Quando hai detto alle quattro del mattino, ho pensato ma che razza di compleanno sarebbe? - Adesso lo sai, - dissi. - Ma lo sai solo a meta. Eravamo vicini, il mio braccio intorno alla sua vita, le cosce che si toccavano, mentre venivamo cullati e spinti, volteggiavamo senza girare - era un turbinio interiore, un turbinio del sangue che ci tuffava dentro una sensazione esaltata. Stringevo la mano libera intorno a una sbarra di ferro, parte della struttura rigida che collegava la cesta ai cavi, e sentivo il metallo respirare nel pugno. Circa venti minuti dopo Jerry mi sfiorò la spalla e puntò il dito dritto davanti a noi, e vidi le prime chiazze di sole in punta d'ali. L'opera di Klara incominciò a emergere dalla foschia in lontananza, la struttura rettangolare ormai completata, file di velivoli che apparivano come un insieme unico di pezzi a incastro, un tessuto armonioso di acciaio dipinto sullo sfondo monocromatico. Jerry disse: - Adesso, se l'Air Force non ci spara nel culo, passiamo la sopra e ce ne andiamo pian pianino. Ed è esattamente quello che facemmo, avvicinandoci a centoquaranta metri di quota. Sentii Marian restare a bocca aperta, mentre guardava come istupidita oltre il bordo imbottito della cesta. Era una cosa sconvolgente da vedere, esplosioni e serpentine di colore, la potenza che emanava dalla terra, e Marian mi tirò per il pullover guardandomi con tanto d'occhi. Come a dire, Dove siamo e cosa stiamo guardando e chi l'ha fatto? I colori primari erano meno aggressivi di quanto mi fossero parsi all'inizio. I rossi erano smorzati, attutiti dagli agenti atmosferici o da altra vernice, penetrati più a fondo, e questo li inglobava perfettamente nell'opera. In una sezione c'erano metodiche sferzate di colore lungo le fusoliere, meravigliose miscele d'azzurro, azzurri puri e celesti sbiaditi. L'opera aveva una fantastica striscia di colore fluviale, un ampio arco verde salvia o verde senape mosso da pennellate grige, che partiva dall'angolo a sudest su fino a morire sul bordo settentrionale, attraversando quasi un terzo dei velivoli ammassati e coprendo interamente parecchi aerei - il fluido circolante, la linfa dell'opera, che stabiliva il ritmo, teneva insieme la superficie. Come a dire, Dio mio Nick, com'è possibile che questo esistesse senza che io lo sapessi? La tensione dei nostri corpi vicini veniva esaltata dal fattore fisico del colore, luce dipinta che straripava verso di noi. Il sole ardeva alto sulla linea dell'orizzonte. Eravamo scesi a settanta metri e Jerry pompò un'altra fiammata. Quando le fummo quasi sopra, l'opera divenne più grezza e frontale. Intravidi spazi privi di colore, strisce morte di metallo sulle ali di parecchi aerei, bianco ossigeno, incrostate e sfregiate, con una traccia ancora visibile delle istruzioni d'emergenza sulla fusoliera. L'opera doveva aver richiesto molta fatica. Ora perse la sua fluidita e la grana divenne più compatta, strati irregolari di vernice spessa, sparata con le pistole. Vidi la fatica per farlo, schiere di gente in questo caldo abbacinante, muscoli e polmoni. E cercai la ragazza bionda con la gonna vaporosa dipinta sul muso di una fusoliera e mi entusiasmai nel trovarla, spilungona e intatta, il pezzo di nose art, la pinup, la vita quotidiana e il portafortuna che era l'anima del lavoro. Marian cercava di assimilare il numero. Non stava contando, ma
voleva sapere, tanto per avere una misura del proprio stupore. E quando le sussurrai duecentotrenta in tutto, si concentrò più a fondo, paragonando la cifra a quello schieramento compatto, all'ebbrezza dell'effetto generale. Ci passammo proprio sopra. Gli aerei erano enormi naturalmente, erano oggetti mastodontici, stratofortezze, imponenti e massicce, con derive spesse, ali attaccate alte sulla fusoliera, qualche pilone di missile ancora intatto, qualche ruota di carrello sospesa, tutte le ruote principali bloccate dai cunei. Pensai sinceramente che erano cose grandiose, dipinte per sottolineare la fine di un'era e l'inizio di qualcosa di tanto diverso che solo una visione come questa poteva auspicarlo. Poi avanzammo verso il vuoto pianoro che incorniciava i velivoli e ci accorgemmo che l'opera perdeva vigore ai bordi, cedeva il passo, mescolandosi volutamente al deserto. Marian disse: - Non potrò più guardare un quadro nello stesso modo. - E io non potrò più guardare un aereo. - O un aereo, - convenne Marian. E mi chiesi se l'opera fosse visibile dallo spazio, come quella di un popolo andino scomparso. La brezza ci allontanò e il pilota tirò la manetta dell'alimentazione, regalandoci un'ultima ascensione di pochi centimetri. Vedemmo un muro di nuvole profilarsi a est, molte miglia più in la, e i falchi planare con quel moto del tutto naturale che induce a pensare che siano lassù, gli stessi due uccelli, da tempi biblici. C'erano pietre capovolte in un campo, grandi rocce bronzee dai fianchi scolpiti. Sentivo la presenza di mia moglie accanto a me. Vedemmo nubi di polvere alzarsi dalle colline scure, e un paio di macchine abbandonate acquattate nell'erba del pascolo, decapottabili con il tettuccio strappato. Tutto quello che vedevamo era lucente e denso di presagi, carico della bellezza delle cose che di solito non si vedono, persino le macchine corrose dalla ruggine. Il pilota indicò un oggetto a qualche miglio di distanza e vedemmo che era il veicolo del recupero, una gocciolina che rotolava giù per una lunga strada verso il punto dove saremmo atterrati. Quella sera vennero alcuni amici a cena e la conversazione fu divertente e animata, un tiro incrociato di discorsi che si protrasse ben oltre la mezzanotte, e quando se ne furono andati, ma anche mentre erano ancora lì - erano ancora lì quando sentii la distanza e l'immobilita di quell'alba dilatata come un cielo senza fine svegliarsi dentro di me, allargarsi sullo sfondo delle risate. Quando tutti furono partiti, andammo a letto. Dormivamo in una stanza tappezzata di libri, con scaffali color crema, tappeti folti e un'illuminazione discreta, calda e dorata come whiskey. Marian guardava una rivista girando le pagine con un gesto brusco che poteva sembrare d'impazienza a chi non conosceva le sue abitudini. - Che giornata lunga. - Che viaggio lungo. Che scarrozzata, ragazzi, - dissi. - Mi ha ucciso. - Il giorno più lungo della mia vita? - Il viaggio è stato una vera sevizia. Dio, come odio quei camion! - Sì, anch'io risento del viaggio. Ma è stato meraviglioso, tutto quanto. - Meraviglioso un corno. E' stato meraviglioso perché tu hai
dormito. Girò una pagina. - Hai notato come si danno sulla voce, finendosi le frasi a vicenda? - Io ho guidato, tu hai dormito. - Lei dice, ta-ta. E lui fa, tattara-ta. - Non è il peggio che possa capitare. Cioè, lo fanno persino gli estranei. C'è sempre qualcuno che lo fa a qualcun altro. - E poi non ho dormito. Mi sono assopita per dieci minuti. - E' l'unico modo per finire certe frasi. - Hanno mangiato il contorno di mais. - Ti credo che l'hanno mangiato. Il contorno di mais era delizioso. A proposito di mappe, mi piacerebbe trovare qualche vecchia mappa. Odio le nostre mappe. - Guarda qui. Il giorno dell'Apocalisse si sta avvicinando. Il ventotto di ottobre. Dicono la data esatta. - Sì, l'ho letto. - Il marchio della bestia. L'hai letta questa? E' sul codice universale dei prodotti. Di ogni prodotto. - Esatto. Su ogni scatola di Jell-O che passa attraverso lo scanner. - Avrò una delle mie notti. - Cioè? - Una di quelle notti. - Ovvero? - Insomma, ho quell'agitazione per cui so gia che non dormirò. E' saperlo che mi frega. Non è la stanchezza. Perché in effetti sono molto stanca. - Irrequieta. - No, è una cosa tipo che sono stanca ma non ho sonno. Sei sei sei. Allora il supermercato è un posto inquietante. - Questo lo abbiamo sempre saputo. Spensi la mia lampada e guardai il soffitto di un caldo color crema con le mani dietro la testa. - Ha un corpo fantastico per, quanti figli ha, Alison? Quattro? dissi. - Come dire che io sarei fantastica la meta o il doppio. Ma non approfondiamo. E' passato quel come-si-chiama Terry. Quello ben piantato. - Sono anni che non guardo una mappa vera. E' una cosa alla Robert Louis Stevenson, studiare una mappa. Noi abbiamo cartine di autostrade e motel. Le nostre cartine hanno punti di ristoro e simboli di sedie a rotelle. - Dai, dimmi come si chiama. - Per cosa, per il rubinetto? - L'altro ieri o ieri. Oggi è stata una giornata talmente lunga che non lo so più. No, la testina della doccia. - Che cavolo aveva la testina della doccia? Le nostre cartine segnalano le case del pancake. - Quel come-si-chiama, quello con il camioncino arancione. - Di quale doccia stiamo parlando? - Terry, giusto? Girò una pagina. Usava un cuscino da lettura quando era a letto. Glielo avevo ordinato io da un catalogo, jacquard color rubino, un cuscino a forma di cuneo che si bilancia perfettamente in grembo e
regge il libro o la rivista alla giusta angolazione, con i tasselli per il libro incorporati e un'asola dietro per infilarci gli occhiali da lettura. - Parto martedì, te l'ho detto? - Per dove stavolta, Mosca? O Boston? Troppo presto per Mosca. Come si chiama quello ben piantato? Non riesco mai a. - Bisogna che faccia risuolare le scarpe prima di partire. Ricordami di farlo domani. - Ho quest'affare sulla gamba. - Non è Boston, - dissi. - Non è Boston. - E' Portland. - E' Portland. - Quale affare? - chiesi. - All'interno della coscia. - Chiama Williamson. - Potrebbe essere un'irritazione. - Chiama Williamson. Quando ti è venuto? - Non lo so. Mi sembra che vada e venga. Girò una pagina. - Lainie si è fatta mettere la carta da parati oggi. - Era ora. - Era lei al telefono prima. - Spero che tu non glielo abbia detto. - Certo che non gliel'ho detto. Cosa volevi che le dicessi? Tesoro siamo passati dalle vostre parti ma non ci siamo fermati. - Se ci fossimo fermati saremmo rimasti bloccati. - Li abbiamo visti, quando è stato? Di recente, sì, di recente. Bah, non tanto di recente in realta. - Abbastanza di recente. Meglio non strafare. - Imbianchini. Uno era una donna, mi ha detto. - Non mi è ancora passato questo raffreddore del cazzo. Come mai? le chiesi. Marian girò una pagina. - Come mai? - le chiesi. - Prendi uno di quegli antistaminici che usi di solito. Non è facile procurarseli. - Le pastiglie. - Le capsule. - Sei tutta tesa. Sento la tua energia. - Non sono tesa. Sono stanca. La mia mente è messa così. Puoi scordartelo di dormire, mi sta dicendo. Avevo scelto il jacquard color rubino invece dell'avorio, perché la trama si intonava alla moquette. - L'ho visto sul suo camioncino arancione, sai. Come-si-chiama, quel ragazzo ben piantato. L'ultima volta l'ho installata da sola, ma questa volta non combaciava niente. - Perché l'universo è in espansione. Si espande col caldo. Ricordami che ci serve qualche lampadina da sessanta watt. - Ho accostato la macchina e lui ha detto che sarebbe venuto nel giro di un'ora. E' arrivato in perfetto orario e ha installato quell'aggeggio in dieci minuti esatti, detto e fatto. Girò una pagina e poi un'altra. Aveva il vezzo di sembrare contrariata mentre in realta stava esprimendo soddisfazione e appagamento - per aver portato a termine un compito o il racconto di
una storia con la morale. - Le hai detto di dare una mano di Spackle? - Hanno fatto la stanza della bambina per prima. - Perché di sicuro Dex non ci arriva da solo. Spero solo che abbiano dato una mano di Spackle. - Prendi gli antistaminici che durano dodici ore. Quelli di quattro danno sonnolenza. - Cos'hai contro la sonnolenza? Ricordami che ci servono delle lampadine per la dispensa. - Dai, dimmi come si chiama, il ragazzo. E' quello il cui padre, giusto? - E ci sono voluti quattro o cinque poliziotti per tenerlo buono. - Quello ben piantato. - Perché non lo chiami grasso? Chiamalo grasso. E' grasso come un maiale, - dissi. - E' vero. E' un'autentica palla di lardo. - Forse la lampadina è allentata. Ricordami di avvitare bene la lampadina. Troppo presto per Mosca. Girò una pagina. - E' un nodulo? - chiesi. - No. Non lo definirei un nodulo. No. E' un'irritazione. - Forse sono gli estrogeni. - No no no no no. - Chiama Williamson, - dissi. Mi girai sul fianco e udii un aereo in fase di atterraggio, un volo notturno da chissa dove. - Otto ore filate di sonno. Ecco cosa mi ci vuole. - E' proprio vero. Hai solo un paio di scarpe buone e hanno bisogno di essere riparate. - Stavo per comprarne un paio in Italia. Sì, le ho quasi comprate. Girò una pagina. - Come si chiama quella roba che volevo consigliare a tua madre? - Aspetta un momento. Lo so. - Ce l'ho sulla punta della lingua, - disse lei. - Aspetta un momento. Lo so. - Sai cosa intendo. - La roba per dormire o per l'indigestione? - Ce l'ho sulla punta della lingua. - Aspetta un momento. Aspetta un momento. Lo so. Circa tre ore dopo ero seduto in poltrona in un angolo della camera con un senso di freddo e umidita, un sudore gelato sulla schiena, sul collo e sotto le braccia. Mi ero svegliato da un sogno tutto sudato e col respiro affannoso, un respiro affrettato e rumoroso - così insolitamente rumoroso e affannato da svegliarmi, o comunque qualcosa mi aveva svegliato. Avevo in mano la palla da baseball. Di solito la tenevo nella libreria, incuneata in un angolo, tra libri diritti e libri obliqui, sotto una tenda di libri, senza tante cerimonie. Ma ora ce l'avevo in mano. Bisogna conoscerla, la sensazione di una palla da baseball nella mano, bisogna tornare un po' indietro, collegare molte cose, prima di riuscire a capire perché si possa stare seduti in poltrona alle quattro del mattino con in mano un oggetto del genere, e stringerlo - il modo rassicurante in cui aderisce al palmo, il centro di sughero che la rende leggera, e le zone ruvide di una palla vecchia, la pelle segnata, il piacere con cui il pollice strofina
pigramente il cuoio liso. Una palla da baseball la si strizza. La si spreme, per così dire, o la si munge. La resistenza del materiale pressato fa venir voglia di stringere più forte. C'è un equilibrio, una piacevole tensione animale tra l'oggetto di pelle dura e la mano ad artiglio, con le vene gonfie per lo sforzo. E' la sensazione delle cuciture in rilievo sulla punta delle dita, contorni di filo simili a gobbe sotto le articolazioni delle nocche - il cotone ritorto che può esser visto come un'impronta di pollice ingigantita, un ingrandimento delle spirali sul polpastrello del tuo pollice. La palla era color seppia intenso, impastata di terra, erba e generazioni di sudore era vecchia, sbattuta, pesta, intrisa di tabacco e macchiata dal tempo e dalle vite che aveva alle spalle, chiazzata dalle intemperie e personalizzata come una casa in riva al mare. E aveva una striatura verde vicino al marchio di fabbrica Spalding, aveva ancora un piccolo livido verde nel punto in cui era andata a sbattere contro un pilone secondo la storia che l'accompagnava - vernice scrostata di un pilone imbullonato nelle tribune dell'area sinistra impressa sulla superficie della palla. Trentaquattromila e cinquecento dollari. La mano che estrapola dalla palla da baseball ricordi che non hanno niente a che vedere con le partite abituali. Malasorte, Branca-sorte. Da lui a me. Il momento che fa la vita. Una volta Marian mi aveva sorpreso a guardare la palla. Ero davanti alla libreria con la palla in mano e lei aveva detto che sembravo Amleto con il teschio di Yorick o forse Aristotele, ancora meglio, che contempla il busto di Omero. Questa era carina, avevamo pensato. L'Omero di Rembrandt e l'homer, il fuoricampo, di Thomson. Avevamo sorriso del paragone. Pensai alla vecchia voce radiofonica, Russ Hodges, ormai morto da più di vent'anni, l'incredulita e l'eccitazione, la potenza di una singola voce umana che esce da una scatola. Non mi aveva chiesto se era Portland, Maine, o Portland, Oregon, quando le avevo detto che non era Boston, era Portland, e io avevo sentito arrivare la domanda, stratificata nella sequenza del nostro dialogo, pronta a far capolino, ma uno dei due si era addormentato prima che lei potesse chiedere quale Portland a proposito, esattamente con queste parole, penso di essermi addormentato io per primo, ma forse no - la luce era spenta, l'ultima luce era spenta. Poi mi ero risvegliato da un sogno e avevo raggiunto a tentoni la poltrona respirando in modo strano, e avevo acceso la piccola lampada da lettura. E il rumore della folla dietro la voce, il fracasso incessante e la tensione, la compattezza, il formicolio e il ronzio che si intensificavano a ogni cambio di gioco - un rumore così intenso che avrebbe potuto avere un punto di rottura, un calore da far saltare la radio. Avevo sentito mia madre nella stanza accanto alzarsi per andare in bagno. Avevo ascoltato mentre usciva dalla stanza. Avevo aspettato e ascoltato, quasi trattenendo il fiato. Avevo atteso il ciabattio delle pantofole strascicate in corridoio, il ritmo e la cadenza familiari del ciabattio, poi avevo teso l'orecchio per sentir scorrere l'acqua - tutto teso ad ascoltare nella più intensa e immobile delle concentrazioni, finché non era tornata al sicuro nel suo letto. Alzavo l'arma e la puntavo e vedevo un sorriso interessato
comparirgli in faccia, il più subdolo dei sorrisi da stronzo. Forse era quello il sogno - non ne ero sicuro. Poi avevo preso la palla da baseball dalla libreria e mi ero seduto in poltrona a fissare il soffitto crema-whiskey. Quel giorno non avevo ascoltato la stazione dei Dodgers. Avevo ascoltato invece Russ Hodges, cercando di attivare una specie di fortuna alla rovescia. All'epoca non mi era venuto in mente - in effetti non mi venne in mente finché non mi sedetti in poltrona a strizzare la palla - ma Russell Hodges, se uno conta le lettere, se è abbastanza strambo da fare una cosa così, da esaminare il nome per intero e contare le lettere a una a una, può avere la divertente sorpresa di ritrovarsi davanti il solito tredici. Adesso mi sentivo più calmo. Mi sentivo bene. Il mio braccio pendeva dal bracciolo della poltrona e io strizzavo la palla, ascoltando il respiro di Marian nel sonno - la strizzavo forte, con le vene che si spianavano sul dorso della mano, appiattendosi del tutto. Forse ci eravamo addormentati simultaneamente. Poi avevo raggiunto a tentoni la poltrona e avevo acceso la lampada. Mi ero fermato un momento, a staccare la giacca del pigiama dai punti in cui il sudore me l'aveva appiccicata addosso. Poi ero andato verso la libreria e avevo preso la palla da baseball. Marian era ritta a sedere. Non era esattamente ritta a sedere, era puntellata - mi resi conto che era sveglia, puntellata su un gomito, a guardarmi, strofinandosi la tempia con la mano destra. - Nick? - Sono qui. - Stai bene? - Sì. Tra un minuto arrivo. - Torna a letto. - Sto bene. Dormi. - E' stato un bel compleanno, vero? - Vuoi che spenga la lampada? - No. Però vieni a letto. - Vengo tra un minuto. - Ti voglio qui vicino a me, - disse. Ero in piedi sul tetto con la radio appoggiata sullo spiovente e ogni tanto mi accovacciavo e tiravo giù la radio, avviluppandola col mio corpo, per così dire, traendone speranza, soffrendo ogni scivolone e ogni sterzata della partita, tifando visceralmente - una Emerson color castagna che mi portavo appresso dappertutto. Ma quando stavo in piedi mi giravo a sudovest e guardavo al di la dell'ospedale per gli incurabili e oltre le rotaie soprelevate della Terza Avenue, verso il fiume che taglia i quartieri. La si ergeva il Polo Grounds, a ovest-sudovest, e io immaginavo il campo e i giocatori, gli azzurri vivaci e i verdi elisi in quella grandiosa giornata dal cielo cupo grandiosa e terribile, una giornata ormai ridotta al bianco e nero nella pellicola sbiadita del ricordo.
Manx Martin 1 Poi si ricorda dei libri e ridiscende le scale, perché non puoi tornare a casa da scuola senza i libri di testo, scemo. Schiaccia la palla nella tasca laterale, si china nel triangolo buio sotto le
scale, dove la prima rampa incontra il pavimento, e prende i tre libri che ha lasciato lì la mattina, li fa scivolare fuori e li prende, più il quaderno dei compiti con la copertina maculata, e soffia via la polvere, la fuliggine e l'umidita rancida. Il custode entra dalla porta posteriore che da sul cortile, il nuovo custode, zoppica talmente che non sai nemmeno se dispiacertene - più che altro ti viene da chiederti perché mai vada in giro. - Cosa stai facendo? - Niente. Mi era caduta una cosa, - dice Cotter. - Ho bisogno di parlare con tuo padre. - Quando lo vedo. - Diglielo, - fa il custode. Cotter non riesce a capire come faccia il custode a sapere chi è lui. L'ultimo custode se n'è andato in fretta e furia e questo è appena arrivato e deve star dietro a quattro edifici, con quella menomazione dura perfino da guardare, e sa gia chi è figlio di chi e probabilmente non si sbaglia. La gente vuole sempre parlare con suo padre. Suo padre passa ore intere ogni giorno a evitare queste conversazioni. Sale al quarto ed entra in casa. Sua sorella, Rosie, è china sui compiti al tavolo di cucina. Rosie ha sedici anni e si consuma sui libri, e Cotter ha anche due fratelli più grandi, uno in Corea con la fanteria e l'altro con i paracadutisti di stanza in Georgia. Che è lo stato delle pesche. Ma se dovesse scegliere fra le due cose, Cotter pensa che preferirebbe affrontare un nemico armato nella neve e nel fango piuttosto che uscire da una porta nell'aria balsamica della sera con un fagotto di seta arrotolata appeso sulla schiena. - Cos'avra in tasca? verrebbe da chiedersi, - dice Rosie. - A me sembra una mela. Forse è andato in un frutteto nel suo giorno di vacanza. - Quale giorno di vacanza? - Ha fatto un viaggetto su al nord per raccogliere qualche mela. Naturalmente, le mele le abbiamo anche qui. Ma quelle sono per dopo la scuola. Niente scuola, niente mele. E' per questo che lui si è procurato la sua mela? - E dove sarei andato, secondo te, se non sono andato a scuola? - Non lo so, ma quando ti ho visto dalla finestra non avevi i libri, poi sei entrato dalla porta e guardare per credere. - Allora sai che non è una mela quella che ho in tasca. Tira fuori la palla e si esibisce nel suo giochetto, facendola roteare sul dorso della mano e sul polso e acchiappandola come se innestasse la marcia, col gomito rovesciato. Questo fa sorridere Rosie che rituffa la testa nel libro e Cotter capisce di aver riportato una piccola vittoria perché sa che solo quando resta senza parole, questa ragazza sta dando segno di rispetto. Una volta nella sua stanza, guarda fuori dalla finestra, la stanza che un tempo divideva con i fratelli, ora decisamente sua, poi lascia cadere la palla sopra la coperta cachi sulla cuccetta inferiore del letto a castello, è l'unico tocco militare, la robusta saia olivastra, e prende un maglione dallo schienale della seggiola. Si infila il maglione dalla testa e guarda di nuovo fuori dalla finestra, osservando la gente che passa dalle zone illuminate dai lampioni alle zone relativamente buie. Fa buio troppo presto. Sta lì a guardare, guarda e basta, un nessuno alla finestra, poi sente sua madre entrare in casa spingendo la porta.
Si riscuote, pensando a cosa dire se per caso gli chiede se ha marinato la scuola. Ma sa che Rosie non fara la spia. Almeno crede. Ne è più o meno sicuro. Gli sembra di percepire la sua lealta attraverso le pareti, quindi va in cucina dove sua madre sta riponendo la spesa. Mette una mano sulla spalla di Rosie e resta lì davanti al tavolo con gli occhi fissi sulle scatole e le lattine colorate che sua madre sta sistemando sugli scaffali. - Quante volte te lo devo dire? - fa sua madre. - Cosa? - Di non mettere quel maglione. Lo devo lavare, quel maglione. - Mettilo a bagno in qualcosa di forte, - dice Rosie. - Quel maglione è sporco lurido. - Se lo porti in lavanderia te lo danno indietro, - dice Rosie. Respinto. Accidenti, il mondo è pieno di cose che lui non dovrebbe fare o non dovrebbe mettere. Ma forse gli piace quando le due donne si alleano contro di lui, è diverso che con i suoi fratelli, che un po' lo comandavano e un po' lo strapazzavano ma non gli dimostravano questo insistente interesse, questa interminabile preoccupazione inquisitoria. Sua sorella sporge il capo per studiare la posa particolare che lui assume nel suo mutismo. Gli piace passare la punta delle dita sul bordo della ciotola per la frutta, sul vetro smerigliato, con i libri di Rosie sparpagliati sul tavolo, la frutta nella ciotola e sua madre indaffarata ai fornelli o agli armadietti, il modo che ha sua madre di parlargli senza mai guardare nella sua direzione, però sapendo dov'è e calibrando la voce in base ai suoi spostamenti, stanza per stanza. Forse desidera che lo smascherino in modo da poterle mettere a parte del segreto. - Il maglione è pieno di lappole, - dice Rosie. Sembra che la parola le piaccia e la ripete con un tono vagamente dispettoso. - Il ragazzo si è riempito di lappole in chissa quale frutteto dove è stato chissa quando. Cotter passa le dita sul bordo interno della ciotola, tastandone la ruvidezza come di stoffa ritorta, le protuberanze delle bollicine a capocchia di spillo. Sua madre gli dice di lavarsi le mani. Non lo sta guardando ma sa perfettamente in che stato sono le sue mani, lo sa dalla posizione del sole e della luna. Neanche fosse un cumulo di sporcizia vagante. Mr. Sozzoni dal pianeta Sporcizia. A cena stanno in silenzio. Questo perché suo padre non c'è e potrebbe arrivare da un momento all'altro o non arrivare affatto e quindi sono tutti in uno stato di attesa involontaria. E' strano il modo che ha sua madre di entrare a spintoni dalla porta, introducendosi con una spallata insieme ai sacchetti della spesa, ai fagotti e alla borsetta che porta con la tracolla infilata dalla testa e di traverso sul corpo, o trascinando una sacca per il manico, tirandola dentro a strattoni dal corridoio con un movimento a perno della gamba, producendo nel contempo almeno sei tipi diversi di rumore anche quando non è carica di pacchi, portandosi dentro le strade, la metropolitana, gli autobus, tutti i rumori e la fatica di battere la citta in lungo e in largo, questa è sua madre, mentre suo padre di solito sguscia dentro senza annunciarsi, e resta lì con gli occhi fissi, attaccato al muro come se fosse entrato dalla porta sbagliata e dovesse elaborare i dettagli del suo errore. Sua madre è alta e lievemente sbilenca, ed è forte. Cotter lo sa perché gli è capitato di portare le cose che porta lei, di salire
quattro rampe di scale carico delle cose che lei porta abitualmente, e senza fare una grinza - le ci vuole mezzo minuto per strappare un sorriso a quei muscoli poco usati. Sua madre dice: - Ho visto quell'uomo che predica per la strada. Sempre nello stesso posto. - L'ho visto anch'io, - dice Cotter. - Mi sono detta, quest'uomo ha una vita anche se non riusciamo a immaginarcela. Quest'uomo andra pure a casa da qualche parte. Ma dove va? Come vive? Cerco di immaginarmi cosa fa quando non è fuori a predicare. Rosie dice: - Vedo gente così in un sacco di posti. - Ma quest'uomo è costante. Sempre allo stesso posto. Non credo che gli importi se la gente lo ascolta o no. Farebbe la predica anche alle macchine di passaggio. - Cosa predicava? - Bah, diceva che nessuno conosce il giorno o l'ora. Sembra che i russi abbiano fatto esplodere una bomba atomica. Così nessuno conosce il giorno o l'ora. L'hanno detto al giornale radio. Rosie dice: - Non mi fa né caldo né freddo. - Io invece mi sono agitata finché non ho cominciato a salire le scale con quei sacchetti della spesa. Credevo che mi sarei slogata la spalla. - Tutto regolare allora, - fa Rosie. - Però mi sono fermata ad ascoltarlo e devo dire che è la prima volta che ascolto quell'individuo. - E' sempre lì, - dice Cotter. - Sì, ma è la prima volta che lo ascolto. Nessuno conosce il giorno o l'ora. Credo che sia Matteo ventiquattro. - Non mi fa né caldo né freddo, - insiste Rosie. - Ma quell'uomo ha una vita che resta un mistero per me. - C'è sempre gente che predica, - dice Rosie. - E i vestiti che indossa. E' una vergogna. E dire che non è pazzo. Conosce bene le sacre scritture. - Uno può anche conoscere a menadito le sacre scritture, - fa Cotter.- Ma c'è gente che conosce le sacre scritture ed è suonata come una campana. - Amen, - fa sua sorella. Dopo cena Cotter torna nella sua stanza a guardare fuori dalla finestra. In teoria dovrebbe essere in camera sua a fare i compiti ma in pratica, pur essendo in camera sua, non sa quali compiti fare. Si porta avanti di qualche pagina sul testo di storia. Facevano storia accelerata a quei tempi. A ogni frase c'è una nuova guerra o un crollo tremendo. Imparare a memoria le date. La caduta dell'impero e l'avvento corrosivo del moderno detersivo. C'è un ragazzo nella sua classe che mangia le pagine del libro di storia quasi ogni giorno. Bisogna vederlo, si piazza il libro aperto sulle ginocchia, sotto il banco, e accartoccia furtivamente una pagina man mano che la strappa dalla costa cercando di farla frusciare il meno possibile. Poi la sua strategia è di aspettare un po' prima di portarsi la mano alla bocca fingendo di tossire, con la pagina stretta in pugno, come se niente fosse. Poi si ficca in bocca la pagina con tutte le lettere stampate a inchiostro e le date imparate a memoria, e assimila in silenzio. Aspetta un altro po', lasciando poltrire la pagina in bocca. Poi la mastica lentamente, con cura ma non fino in fondo, badando bene a non serrare i denti per ridurre il rumore al minimo, e Cotter cerca di
immaginare che sapore abbia, la carta con tutti i punti e gli spigoli inzuppati di saliva, mentre si ammorbidisce, si affloscia e si spappola in modo da andare giù liscia. Be', non è che gli vada giù così liscia. Il pomo d'Adamo gli sobbalza in gola come se avesse appena compiuto un atterraggio in territorio nemico. Guerre e paci, mangia e taci. Rosie adesso è sotto la doccia. Cotter si siede sulla sua cuccetta e sente l'acqua scrosciare dietro la parete e pensa alla partita. Si ricorda di cose che non sapeva di aver visto o udito, gente sulla rampa d'uscita - vede camicie colorate e ode voci che rimbalzano verso di lui. Un poliziotto a cavallo, gli stivali lucidi e il calore animale, e sente l'acqua scrosciare contro le pareti zincate della doccia, la doccia rumorosa con le pareti macchiate che qualcuno ha installato nel bagno anni prima. Quando suo padre entra, non ci sono dubbi circa il suo ingresso. Il cigolio dei cardini quando la porta si apre lentamente, quel suo modo di non portarsi dietro nessun rumore dall'esterno - non c'è alcun fruscio di indumenti tolti in fretta né respiro affannoso per l'arrampicata su per le scale. Non che non lo si senta per niente. E' una presenza vicino alla porta, un non so che di udibile, forse solo la tensione di un uomo in piedi sul pavimento di linoleum, o una nota che esce dal suo corpo, una tensione che dice che lui è a casa. Cotter resta seduto sulla cuccetta inferiore e aspetta. Suo padre attraversa la cucina e appare sulla soglia, Manx Martin. E' un uomo che lavora, fa il traslocatore di mobili quando lavora e scola whiskey quando non lavora. Guarda Cotter e annuisce senza un perché. Sta lì in piedi ad annuire, un gesto che non ha scopo, che sembra dire ah sì, sei tu, semmai vuole dire qualcosa. Poi entra nella stanza e si siede sul letto inutilizzato, la branda. Ascoltano l'acqua che scroscia sulle pareti della doccia. - Hai cenato? - Polpettone. - Ne è rimasto un po' per me? - Non lo so. - Non lo sai. Perché, ti sei alzato da tavola prima del tempo? Hai un appuntamento per caso? Cotter capisce che sta scherzando. Suo padre stringe gli occhi e fa quel suo sorrisetto che sembra una linea tracciata a matita. E' un uomo con gli zigomi alti, un po' butterato negli incavi delle guance, con la pelle ruvida, e un paio di baffetti sottili che porta ben distanziati dal labbro, curati e molto speciali. Da un'occhiata in giro per la stanza. Studia gli oggetti. Ha l'aria di pensare che questo sia il momento giusto per vedere in che tipo di ambiente sono cresciuti i suoi figli. E' di altezza media, con il torace ben sviluppato e le gambe un po' arcuate, e Cotter non avrebbe mai pensato che avesse la forza di portare pesanti mobili su e giù per le scale, e invece ha visto suo padre sollevare e sorreggere mobili insieme a uomini molto più grossi di lui. - Quale delle due è in bagno? - Rosie. - Sta scatenando un temporale la dentro. - Si stara strigliando Miss Perfettini. Fa così anche coi compiti. - Certo che quella ragazza le finisce le cose che incomincia. A Cotter non piace, gli da un vago senso di fastidio, star lì con suo padre a parlare di Rosie mentre la sentono nella doccia. Proprio
allora l'acqua smette di scorrere. - Perché devo fare un goccio, sai com'è. - Il custode vuole parlarti. - E' un can che abbaia e non morde, non fargli caso. - Come fa a conoscerci se è appena arrivato? - Forse siamo famosi, tu e io. Due macho, forse circola voce che siamo dei duri. Cotter si rilassa un po'. Pensa che forse questa volta andra liscia. Suo padre sembra felice e contento, come si suol dire, e c'è una cosa che può ottenere da lui che invece sua madre non gli concederebbe mai. Manx grida: - Rosie, piccola, il tuo papa deve usare i ser-vi-zi. Sentono un brontolio soffocato poi Rosie passa in corridoio a piedi nudi avvolta in un asciugamano e Manx si alza, si aggiusta i pantaloni ed esce dalla stanza facendo schioccare la lingua. Cotter pensa senza saperlo, senza preparare il pensiero - vede Bill Waterson sulla Ottava Avenue con la giacca in mano. Raccoglie la palla da baseball, la guarda e la rimette giù. Suo padre sta facendo una pisciata imperiale. Di solito non si sente altro che la doccia la dentro, e i rumori delle tubature, ma suo padre sta facendo una pisciata che è il massimo delle pisciate. Sta diventando proprio buffa, la durata e la forza del getto, e Cotter pensa che sarebbe bello se ci fossero anche i suoi fratelli a sentire, almeno potrebbero stupirsi insieme. Suo padre torna e si siede. Ha ancora indosso il giubbotto, un giubbotto di velluto a coste che apparteneva a Randall, a proposito di fratelli. - Ecco fatto. Adesso si ragiona. - Ti spiacerebbe scrivere una lettera per me? Ne ho bisogno per la scuola, - dice Cotter. - Ma davvero? E cosa ci scrivo? - Che ho perso un giorno, causa malattia. - Caro tal-dei-tali. - Esatto. Così. - La prego di scusare mio figlio. - Giusto. - Per il motivo che era malato. - Digli che avevo la febbre. - Quanta febbre avevi? - Boh, trentotto dovrebbe andar bene. - Non vogliamo essere troppo modesti. Sempre che decidiamo di farla, questa cosa. - Okay. Perché aveva trentanove e mezzo di febbre. - Però devo dire che a me sembri un fiore. - Mi sono ripreso bene, grazie. - Questo lo vedo, ma cos'è che hai sul maglione? - Non lo so. Lappole. - Lappole. Ma qui siamo a Harlem. Che tipo di lappole? - Non lo so. Si vede che vado in giro. - E dov'è che sei andato per perdere un giorno di scuola? - Sono andato alla partita. - Alla partita. - Al Polo Grounds. Oggi. - Eri alla partita? - chiede Manx. - Quella che ha scatenato quel casino per le strade?
- Questo non è niente. Che io ci fossi non è niente. Ho preso la palla che lui ha battuto. - No, non ci credo. Quale palla? - Quella del fuoricampo che ha fatto vincere il campionato, - dice Cotter sottovoce, un po' riluttante, perché è una cosa così stupefacente da dire che per la prima volta è intimorito nel dirla. - No, non ci credo. - L'ho trovata e l'ho presa. - Me la stai raccontando grossa. - No, te l'assicuro. Ho la palla. Proprio qui. - Sai cosa sei? - dice Manx. Cotter prende la palla. - Ti piace raccontarle grosse, eh? Cotter lo guarda. Siede sulla cuccetta inferiore con la schiena appoggiata al muro, e guarda l'uomo sul letto di fronte. Poi raccoglie la palla da baseball, la toglie dalla coperta militare dove è affondata, accanto alla sua coscia. La tiene bene in vista e la fa roteare sulla punta delle dita. La regge in alto con la mano destra e usa l'altra mano per farla ruotare. Non gliene importa un accidenti. La esibisce, se ne vanta. Sente rabbia e rossore salirgli in faccia. - Mi stai dicendo la verita? Cotter fa un altro giochetto, scuotendo la palla come se fosse troppo magica per tenerla ferma - gli fara venire un colpo, al suo vecchio, a furia di fargli strabuzzare gli occhi. E' incattivito e rabbioso, e fulmina il padre con lo sguardo. - Ehi. Sei sincero col tuo papa? - Perché dovrei mentire? - D'accordo. Perché dovresti? - Non ce n'è motivo. - D'accordo. Non ce n'è motivo. Questo lo capisco. L'hai raccontata a qualcun altro, questa storia? - A nessuno. - Non l'hai raccontata a tua madre? - Mi avrebbe detto di restituirla. Manx scoppia a ridere. Appoggia le mani sulle ginocchia e si dondola all'indietro ridendo. - Accidenti è vero! Ti farebbe marciare fino allo stadio per restituirla. Cotter non vuole andare troppo in la. Sa che la peggior trappola del mondo è schierarsi con suo padre contro sua madre. Deve calibrare ogni mossa, dire questo e fare quest'altro, ma la cosa a cui deve fare più attenzione è stare dalla parte di sua madre. Altrimenti è spacciato. - D'accordo. Allora cosa vogliamo fare? Forse domattina possiamo andare allo stadio a far vedere la palla. Portiamo il tuo biglietto così se non altro vedono che eri alla partita, seduto nella sezione giusta. Ma di chi chiediamo? A quale sportello andiamo? Forse saltano fuori una dozzina di persone che dicono questa è la palla, no è quest'altra, ce l'ho io, ce l'ho io, ce l'ho io. Cotter ascolta attentamente. - Chi vuoi che ci dia retta? Due persone di colore che non contano niente. Chi ci credera, che un ragazzo di colore ha soffiato la palla a una masnada di bianchi? - Manx a questo punto tace, forse per ascoltare l'idea che gli si sta sviluppando in testa.- Sono convinto che dobbiamo scrivere una lettera. Sì, sì. Scriviamo una bella
lettera alla scuola e poi scriviamo un'altra lettera e la mandiamo alla federazione del baseball. Cotter ascolta. Guarda suo padre sprofondare in riflessioni private, in preoccupazioni e progetti. - Cosa diciamo in questa lettera? - La mandiamo raccomandata. Ecco, un tocco in più. La mandiamo insieme al biglietto. - E cosa diciamo? - Che mettiamo in vendita la palla. Cos'altro possiamo dire? Cotter vorrebbe alzarsi e guardare fuori dalla finestra. Si sente intrappolato e vorrebbe star solo e non fare altro che guardare fuori dalla finestra. - Io non voglio venderla. Voglio tenerla. Manx piega il capo per studiare il ragazzo. Questa è un'idea che lo lascia di stucco - tenere la palla in giro per casa ad accumulare polvere e acquistare carattere. Dice piano: - Tenerla, a che pro? La vendiamo e compriamo un maglione così butti via quella palandrana da eremita che hai addosso. Sembri uno che vive su un albero. Compriamo qualcosa per tua madre e per tua sorella. E' da matti lasciare una cosa così in giro senza farci niente, senza guadagnarci niente -. La sua voce è ragionevole e sensata, mentre spiega le cose al figlio da istruire, abbiamo delle responsabilita nei confronti della nostra famiglia, non verso cose futili come oggetti ricordo e souvenir.- Compriamo un bel cappotto a tua madre. Sta arrivando l'inverno e lei ha bisogno di un cappotto pesante. Cotter vuole essere virile, all'altezza della situazione. - Quanti soldi ci daranno? - Non lo so. Non ne ho la più pallida idea, per dirla chiara. Ma questa palla la vogliono di sicuro. La metteranno in mostra da qualche parte. Credo che una lettera sia quello che ci vuole, e noi gliela spediamo raccomandata. Insieme al biglietto. La controprova che sei stato alla partita. Lo scontrino, si chiama così? - Non ho nessun biglietto. Ed ecco che suo padre mette su la temuta espressione - di stupore ferito - ferito fin nel fondo dell'anima. - Vuoi farmi venire un colpo? - Non l'ho mai avuto il biglietto. - Perché no? - Perché non l'ho comprato. Ho scavalcato i cancelli. - Ti rendi conto di quello che mi stai facendo, figliolo? - Non avevo i soldi per il biglietto. Quindi ho scavalcato i cancelli. Se avessi avuto i soldi, avrei comprato il biglietto -. E aggiunge sconsolatamente: - Niente quattrini, niente scontrini. Gli occhi di suo padre si incupiscono. Cotter vede montare una specie di panico, un intimo senso di colpa che proprio lui ha suscitato accennando alla questione denaro, l'antico problema dell'essere in bolletta. Suo padre è in ritirata, i suoi occhi si ritraggono, sfuggendo al luogo che ha appena inventato per entrambi, il mondo delle responsabilita. Questo è un momento terribile, una di quelle volte in cui Cotter si rende conto di aver vinto una battaglia che non sapeva nemmeno di combattere. Ha sconfitto suo padre costringendolo alla resa, a un'orribile ritirata. Dice: - E comunque il biglietto non indica in che sezione eri seduto, a meno che non sia un posto riservato o una poltrona nei box.
Quindi il biglietto non serve a niente. La gente li raccoglie per strada, i biglietti. - Dormiamoci sopra, eh, che ne dici? - conclude suo padre, alzandosi tristemente. - Stasera non possiamo far niente comunque. Tanto vale che dormiamo un po'. Cotter non accenna alla lettera che suo padre dovrebbe scrivere, la giustificazione per aver saltato la scuola. Forse domattina andra meglio. E forse suo padre cambiera idea quanto a vendere la palla da baseball. O se ne dimentichera del tutto. Cotter sa che se riesce a rimandare qualsiasi azione per un giorno, un giorno e mezzo, suo padre se ne dimentichera completamente. Questa è una delle cose su cui fanno affidamento in casa, tacitamente - stanno zitti e aspettano che dimentichi. Si mette alla finestra a guardare la strada sottostante. A scuola gli dicono sempre di smetterla di guardare fuori dalla finestra. Questo o quell'insegnante. La risposta non è la fuori, gli dicono. E lui vorrebbe sempre rispondere che invece è proprio la, che sta la risposta. C'è chi guarda fuori dalla finestra e c'è chi si mangia i libri. Si sveste e va a letto. Dorme in mutande e maglietta. Sua madre entra a dargli la buonanotte. Il che va benissimo fintantoché non gli chiede di cosa ha parlato con suo padre. Questa è un'altra trappola che scatta dal nulla. Gli dice che deve alzarsi superpresto per andare al lavoro, il che equivale a un lungo tragitto in metro fino alla Ventunesima strada, lei fa la cucitrice in un capannone rumoroso con i ventilatori che ronzano sul soffitto - l'estate scorsa ci ha lavorato anche lui quattro ore alla settimana, a spazzare via pezzi di tessuto dal pavimento e a far rotolare dentro e fuori quei cilindri di cartone, e loro scherzavano e lo prendevano in giro, quaranta o cinquanta donne, e parlavano senza tanti peli sulla lingua. - Ci pensera Rosie, a buttarti giù dal letto. - Non ho bisogno di aiuto, - dice lui. - Se c'è una persona al mondo che ha bisogno di aiuto per alzarsi, quella sei tu. - Mi tira la roba addosso. - E tu prendila e ritiragliela. - Certo, così non mi vesto più. Mi tira i vestiti. Sua madre si piega sulla cuccetta e lo bacia, cosa che non fa da un sacco di tempo, poi gli accarezza la testa con forza, con le nocche si direbbe, e gli pizzica le guance fino a fargli male, strizzandogli un bel pezzo di carne, e Cotter sente passare suo padre diretto in cucina e spera che gli sia sfuggito, quel maledetto bacio. Al buio ripensa alla partita. La partita gli rotola addosso in grandi ondate calde di sonno soddisfatto. La partita era persa e poi hanno vinto. Sembrava impossibile vincere la partita, e invece l'hanno vinta, ed è vinta per sempre. Questa è la cosa di cui nessuno potra più privarli. E' la prima cosa a cui pensera la mattina e una parte di lui è gia pronta, anche se si sta addormentando, è gia lì che si sveglia per pensare alla partita. Manx Martin è fermo davanti al frigorifero aperto. Sta guardando il polpettone. Lei gliene ha tenuto da parte un pezzo che spicca sul piatto come l'ultimo pasto del Prigioniero X. lo tira fuori e si siede a tavola, a mangiare lentamente. La sua mente è presa da altri
problemi al punto che guardando il cibo nel piatto deve fare uno sforzo per ricordarsi a cosa serve. Quando ha finito mette il piatto nel lavandino, poi decide di lavarlo e asciugarlo, puntigliosamente, anche le posate. Sa che dovrebbe aggiustare il rubinetto che perde, ma possiamo rimandare a un giorno in cui abbiamo un po' di tempo libero. Ripone il piatto nella credenza, lieve come un sospiro. Ivie entra in cucina e non lo guarda. Ha un modo di non guardarlo che dovrebbe essere studiato dalla scienza. Tanto è brava a farlo, a passare in rassegna tutta la stanza con lo sguardo, riuscendo però a mancare lui, completamente - è una cosa su cui dovrebbero fare ricerche scientifiche a uso militare. - Gli hai parlato per un bel po', - dice Ivie. - Non sono affari tuoi. - Si può sapere a che scopo? - dice lei. - Non ho bisogno di nessuno scopo. - Avete parlato per un'eternita, - fa lei. - E' mio figlio. Non sono affari tuoi. - Sì che sono affari miei. Lascialo in pace, - dice lei. - E' quello che vuole. Essere lasciato in pace e crescere senza i tuoi consigli. Solo che lui non te lo direbbe mai. - Lascia che sia lui a dirmelo. - Te lo dico io, - fa lei. Lei gira per la cucina sbrigando piccole faccende. Gli dice: - Esco presto domattina. Hanno un'ordinazione urgente, e ci pagano una volta e mezzo. Manx sente la musica fioca della radio nella loro camera da letto. - Quindi te lo dico in anticipo. La sveglia suonera molto prima delle sei. - Prima delle sei, - fa lui e controlla l'orologio, che non funziona, e comunque che differenza fa, e lo dice con una voce completamente scollegata dai fatti. Lei è in vestaglia e pantofole, e va in giro per la cucina come una sonnambula, senza degnarlo di uno sguardo. Ma è ben collegata ai fatti. Lui invece no. Lui sta sgusciando al di la di tutta la maledetta storia, del gelo mattutino, della moglie che lavora e della sveglia stridula che si sta gia preparando, mentre lui è ancora in piedi, a invadere il suo misero sonno. Lei trova le pillole che stava cercando e si allontana nel corridoio. Lui resta fermo ad aspettare. Spegne la luce centrale e resta nel tenue bagliore della lampada d'angolo. Resta lì una quindicina di minuti. A riflettere per un'eternita su una cosa, cercando di riordinare le idee. Okay. Si piazza sulla soglia della camera di Cotter, guarda dentro per abituarsi all'oscurita. Il ragazzo dorme come un sasso. Manx entra nella stanza e vede quasi subito la palla. E' in bella mostra sul letto inutilizzato. Questo lo lascia sempre di stucco. Fanno di tutto per avere una cosa di valore e non si degnano neanche di nasconderla. Credono che le fate veglieranno sui loro preziosi beni. Quante volte lo ha detto ai suoi ragazzi? Proteggete quello che è vostro. Perché, vista la piega che stanno prendendo le cose, bisogna vivere sulla difensiva. Cerca di ricordare quale figlio dormiva in quale letto quando Cotter era il piccolino nella cuccetta in alto. Arrivavano e se ne andavano così in fretta, accidenti!
Si ferma nella stanza buia. Sta discutendo tra sé se farlo o no. Poi lo fa. Prende la palla da baseball. Lo fa prima che la discussione finisca. Lo fa per mettere fine alla discussione. Prende la palla e attraversa silenziosamente la cucina fino alla porta d'ingresso. La palla entra comodamente nella tasca capace del giubbotto di suo figlio. Apre la porta appoggiando la faccia contro il battente per evitare il rumore. Dobbiamo oliare i cardini quando abbiamo la testa a posto e un po' di tempo a disposizione. Chiude piano la porta, scende le scale ed esce fuori, chiedendosi com'è successo che non siano loro a portare il suo giubbotto smesso, ma lui a portare il loro. Guarda in entrambe le direzioni perché lui guarda sempre in entrambe le direzioni. Poi scende i gradini e si incammina per la strada. Parte seconda: Elegia per sola mano sinistra. Meta anni Ottanta Primi anni Novanta Capitolo primo Mostra un uomo che guida una macchina. E' un semplicissimo video di tipo familiare. Mostra un uomo al volante di una Dodge di media cilindrata. E' solo una ragazzina che punta la videocamera oltre il lunotto posteriore della macchina di famiglia verso il parabrezza della macchina dietro di lei. Sai come va con le famiglie e le loro videocamere. Sai che i ragazzi si appassionano, che l'obiettivo mostra loro come ogni soggetto sia potenzialmente carico, mostra loro l'esistenza di un milione di cose che non avevano mai visto a occhio nudo. Così i ragazzi conducono la loro indagine sul significato di oggetti inerti e cuccioli idioti e ficcano il naso nella privacy di famiglia. Imparano a vedere le cose due volte. In questo caso è la privacy della ragazzina a venir protetta. Ha solo dodici anni e non viene fatto il suo nome nonostante non sia né la vittima né la colpevole del crimine ma solo lo strumento della sua registrazione. Mostra un uomo con una camicia sportiva al volante della sua macchina. Non c'è nient'altro da vedere. La macchina per un attimo si avvicina, poi resta indietro. Sai che i ragazzi armati di videocamera imparano a riprendere i momenti più delicati che definiscono il gruppo familiare. Non rispettano niente, invadono ogni spazio indifeso, sorprendono la mamma che esce dal bagno infagottata nell'accappatoio e con tanto di asciugamano a turbante, esangue e depilata. Non è uno scherzo. Sono pronti a riprenderti seduto sulla tazza se riescono a trovare l'angolazione giusta. Il nastro si snoda con quella traballante assenza di eventi che contraddistingue i video familiari. Naturalmente in questo caso l'uomo non è un membro della famiglia ma un estraneo in macchina, un personaggio casuale, uno che si è trovato a viaggiare sulla corsia riservata al traffico lento. Mostra un uomo sulla quarantina con una camicia chiara aperta sul collo, un'immagine sfuocata dal riverbero del sole, spesso disturbata.
Non è uno dei tanti omicidŒ registrati su nastro. E' un omicidio registrato da una bambina che credeva di fare una cosa semplice e forse originale, riprendendo un uomo al volante. L'uomo vede la bambina e fa un breve cenno di saluto, agitando una mano senza toglierla dal volante - una reazione discreta che lo rende simpatico. E' un filmato implacabile, che sembra protrarsi all'infinito. Ha una determinazione senza scopo, una pervicacia che trascende il tema preso in esame. E' un'esplorazione della mente del video familiare. E' innocente, è senza scopo, è determinato, è reale. L'uomo ha un inizio di calvizie in cima alla testa, è un tipo simpatico, sui quaranta, e la sua vita sembra totalmente spalancata davanti alla videocamera sorretta da una mano. Ma c'è anche un elemento di suspense. Continui a guardare non perché sai che succedera qualcosa - naturalmente sai che sta per succedere qualcosa ed è per questo che guardi, ma in realta potresti continuare a guardare anche se ti capitasse di vedere il filmato per la prima volta senza saperne niente. Qui è all'opera una forza bruta. Continui a guardare perché gli elementi si combinano in modo da avvincerti - l'impressione generale di casualita, di esercizio amatoriale e fortuito, la sensazione di qualcosa di incombente. Non ti poni il problema se il nastro sia noioso o interessante. E' rozzo, è ottuso, è implacabile. E' la parte disturbata della tua mente, la pellicola che scorre nell'andirivieni del tuo cervello al di sotto di tutti i pensieri che sai di pensare. Il mondo è in agguato nella videocamera, gia inquadrato, in attesa che arrivino il bambino o la bambina e prendano in mano l'aggeggio, imparino a usare lo strumento filmando il vecchio nonno a colazione, rimbambito dall'ictus, con tanto di narici spalancate e il cucchiaio dei cereali brandito alla bebè nella morsa del pugno pallido. Mostra un uomo solo su una Dodge di media cilindrata, e l'immagine sembra durare un'eternita. C'è qualcosa nella natura del nastro, nella grana dell'immagine, nei toni barbuglianti del bianco-e-nero, nella sua essenziale crudezza, che ti fa pensare che sia più reale, più aderente alla vita di tutto ciò che ti circonda. Le cose che ti circondano sono meno immediate, sembrano provate e ritoccate davanti allo specchio, abbellite dai cosmetici. Il nastro è iperreale, o forse sarebbe più appropriato dire subreale. E' ciò che rimane sul fondo scrostato di tutti gli strati che hai aggiunto. E questo è un altro dei motivi per cui continui a guardare. Il nastro è di un realismo folgorante. Mostra l'uomo che fa un breve cenno di saluto, col palmo rigido, come una bandierina di segnalazione a un binario di raccordo. Sai che le famiglie inventano i giochi. Questo è uno dei tanti giochi di cui la ragazzina inventa le regole man mano che procede. Le piace l'idea di riprendere un uomo che guida la macchina. Probabilmente non l'ha mai fatto prima e non vede perché dovrebbe cambiare soggetto o chiudere in anticipo o spostare l'obiettivo su un'altra macchina. Questo è il suo gioco e lei lo sta imparando mentre lo fa. Si sente abbastanza brava e creativa e forse anche lievemente invadente, quel tanto di faccia tosta che da più gusto a qualsiasi gioco. E continui a guardare. Guardi perché questa è la natura del filmato, creare un percorso obbligato nel tempo, dare una forma e un destino alle cose.
Naturalmente se lei avesse spostato l'obiettivo su un'altra macchina, la macchina giusta al momento giusto, avrebbe colto l'uomo armato nell'atto di sparare. Il carattere casuale dell'incontro. La vittima, l'assassino e la bambina con la videocamera. Energie allo sbando che sfociano in un punto comune. C'è qualcosa qui che ti parla senza mezzi termini, dicendo cose terribili su forze al di la del tuo controllo, linee di intersezione che attraversano la storia, la logica e ogni ragionevole livello di aspettativa umana. Ci piombò dentro a capofitto. La bambina si smarrì e piombò a occhi aperti nell'orrore. Questo è un racconto per bambini, un monito su quello che succede ad allontanarsi troppo da casa. Ma non è l'automobile di famiglia a servire da strumento alla curiosita della bambina, alla sua tendenza a esplorare. E' la videocamera, a collocarla nel racconto. Sai come sono le vacanze e le feste in famiglia: a un certo punto c'è sempre qualcuno che arriva con una videocamera e il parentado gli si raggruppa intorno senza reagire perché ormai sono tutti assuefatti a essere filmati, sbandierati ed esibiti sul videoregistratore con il caffè e la torta. L'uomo viene colpito poco dopo. Se hai visto il nastro più volte, capisci esattamente quando verra colpito dal sobbalzo della mano, e naturalmente aspetti quel momento. Dici a tua moglie, se sei in casa e lei è con te, Ecco, adesso si becca la pallottola. Le dici, Janet, fai presto, è qui che succede. Ecco è qui che si becca la pallottola. Lo vedi sobbalzare, come colpito da una scarica elettrica, poi si blocca e cade riverso contro la portiera, o forse sarebbe più appropriato dire che si appoggia o scivola contro la portiera. E' orribile e al tempo stesso non è niente di speciale. La macchina rimane sulla corsia a traffico lento. Per un attimo si avvicina, poi resta indietro. Non succede spesso che gridi a tua moglie di venire di corsa alla tv. Lei ha i suoi programmi e tu i tuoi. Ma qui c'è una certa urgenza. Vuoi che lei veda com'è. Il nastro è andato avanti per un'eternita ed ecco che la cosa sta finalmente succedendo e vuoi che lei sia presente quando l'uomo viene abbattuto. Sì, ecco che arriva. L'uomo si becca una pallottola, viene colpito alla testa, e la videocamera reagisce, la bambina reagisce - c'è un sobbalzo ma lei continua a filmare, c'è una reazione solidale, una reazione nervosa, il cuore le batte più forte ma tiene la videocamera puntata sul soggetto mentre questi scivola contro la portiera e proprio mentre lo vedi morire pensi alla bambina. A un certo livello la bambina deve essere presente sulla scena, a guardare ciò che stai guardando tu, impreparata - la bambina lo sta vedendo a freddo, e non puoi fare a meno di meravigliarti del fatto che continui a far girare il nastro. Mostra qualcosa di orribile e privo di effetti speciali. Vuoi che tua moglie lo veda perché questa volta è violenza reale, non invenzione cinematografica - la realta sotto gli strati di percezione cosmetica. Fai presto, Janet, sta per succedere. L'uomo muore così in fretta. Non c'è nessun tipo di effetto speciale, nessun accompagnamento. E' molto essenziale. Vorresti dirle che è più reale della realta ma poi lei potrebbe chiederti cosa intendi dire. Il modo in cui la videocamera reagisce al colpo di pistola - una reazione di sgomento che inserisce nel quadro una nota di pieta e
terrore, lo sgomento della bambina, l'identificazione della bambina con la vittima. Non vedi il sangue, che gli sta probabilmente colando dietro l'orecchio e sulla nuca. Ma la testa dell'uomo è girata dalla parte opposta alla portiera, e la sua angolazione lascia vedere solo un profilo parziale, e non è la parte giusta, non è la parte in cui è stato colpito. E forse in questo sei piuttosto aggressivo, nel costringere praticamente tua moglie a guardare. Perché? Cosa le stai dicendo? Una cosa meschina? Tipo, Adesso ti rovino la giornata solo per farti dispetto. O una cosa importante? Tipo, Questi sono i rischi della vita. In entrambi i casi le stai strusciando la faccia contro il nastro e non sai perché. Mostra la macchina che sbanda verso il guardrail, poi l'immagine diventa confusa e traballante, si intravedono altre due corsie dell'autostrada e un pezzo di un'altra macchina, un offuscamento di una frazione di secondo, e qui il nastro finisce, vuoi perché la bambina ha smesso di filmare, vuoi perché un'autorita centrale, la polizia o il procuratore distrettuale o la stazione televisiva, ha deciso che non c'era nient'altro da vedere. Questo è il decimo o l'undicesimo omicidio commesso dal Texas Highway Killer. Il numero è incerto perché la polizia pensa che uno dei delitti sia opera di un copycat, di un emulatore. E c'è un legame fra la videocamera e questo particolare tipo di crimine seriale, non è vero? Questo è un crimine che si presta alla registrazione casuale e alla proiezione immediata. Te ne stai lì seduto e ti chiedi se questo tipo di crimine non sia più facile da quando sono diventati di uso comune i mezzi per registrare un evento e proiettarlo immediatamente, senza un intervallo neutrale, uno spazio e un lasso di tempo equilibranti. La registrazione-e-proiezione intensifica e comprime l'evento. Suscita il bisogno di ripeterlo. Te ne stai lì e pensi che l'omicidio seriale ha trovato il suo mezzo, o viceversa - un atto di tecnologia ombra, di tempo compresso e immagini ripetute, nudo, crudo e banale. Alla fine mostra ben poco. E' un omicidio famoso perché è registrato su nastro, perché l'omicida ha ripetuto il crimine più volte, e infine perché è stato filmato da una bambina. Così la bambina è implicata nel crimine, la Ragazzina del Video, come la chiamano a volte, perché devono sempre chiamarla in un modo o nell'altro. Il nastro è famoso e lei anche. E' famosa alla maniera moderna delle persone i cui nomi vengono strategicamente taciuti. Queste persone sono famose senza nome e senza faccia, spiriti che vivono separati dal proprio corpo, le vittime e i testimoni, i criminali minorenni, laggiù da qualche parte, ai confini della percezione. Vedere qualcuno nel momento in cui muore, di morte improvvisa. Questo è di per sé un motivo per rimanere attaccato allo schermo. E' istruttivo, guardare un uomo colpito a morte mentre guida tranquillamente la macchina in una giornata di sole. Dimostra una verita elementare, che ogni respiro che fai ha due possibili conclusioni. E non è tutto. Comunque qui si cela una burla, un crudele sberleffo che in fondo sei disposto ad apprezzare anche se la cosa ti fa sentire un po' in colpa. Forse la vittima è un babbeo, una specie di tonto da film muto, tipicamente scalognato. Se l'è voluta, in un certo senso, per essersi lasciato riprendere dalla videocamera.
Perché una volta che il nastro comincia a scorrere può finire soltanto in un modo. Questo è quanto richiede il contesto. Non vuoi che Janet cominci a menarla con la storia che è sempre in onda, che lo trasmettono mille volte al giorno. Lo trasmettono perché devono, perché sono lì proprio per questo, per fornirci i nostri diversivi. Più lo guardi, più il nastro diventa mortale, freddo e implacabile. Il nastro risucchia l'aria dal petto, ma continui a guardarlo. Capitolo secondo Marian Shay andò in macchina a Prescott per lavoro, concedendosi per il tragitto di due ore soltanto una sigaretta, che riuscì a non fumare finché non arrivò a dieci miglia dalla citta, dove cominciavano gli agglomerati di roulotte e l'esplosione di fast food, e questo la fece sentire brava, controllata e disciplinata, pulita nel profondo. Nella piazza del tribunale stava succedendo qualcosa. Marian parcheggiò a un isolato di distanza e tornò verso la piazza. Era una di quelle giornate, su in mezzo ai pini, in cui il sole e la brezza dolce ti penetrano fin nelle mutande. C'erano macchine disposte in fila in una strada chiusa al traffico, quattro file di macchine d'epoca per due isolati lungo il bordo del piazzale, e altoparlanti che trasmettevano rock-and-roll da festa di ballo. Marian aveva un quarto d'ora a disposizione e si mise a passeggiare tra le macchine, molte delle quali avevano il cofano aperto per il piacere degli intenditori. Non erano ancora le undici, era presto e c'era solo una dozzina di persone in giro. Vide un uomo dai capelli rossi che le parve vagamente familiare e lo osservò piegarsi sotto un cofano e poi indietreggiare per valutare una Buick personalizzata con lo chassis laccato di nero. Assunse una posa pedante con tanto di gomito in fuori e mano a coppa sotto il mento, e Marian si rese conto dopo un po' che quell'uomo lavorava con Nick alla Waste Containment e che si chiamava, per questo le ci volle un altro po', Brian Glassic, che faceva rima con classic, ovvero l'aggettivo che descriveva le macchine in mostra. Lui la vide e fece un vago segno di riconoscimento. Poi si avvicinò a passo di danza da meta isolato di distanza, un lentissimo fox-trot degli anni Cinquanta. Circa due ore dopo si incontravano per pranzare nella sala di un vecchio albergo poco più su lungo la stessa strada. La sala era chiusa e calda, e Marian si appoggiò il bicchiere di acqua ghiacciata contro la guancia. - Come mai sei qui? - le chiese lui. - Un colloquio di lavoro. Qui c'è un piccolo studio di design che rinnova vecchie strutture. Vogliono aprire una sede a Phoenix. E dovrei mandarla avanti io. - Com'è andata? - Bene, credo. - Hai gia fatto questo tipo di lavoro? - Non proprio. Prima dei bambini davo una mano a dirigere una piccola agenzia immobiliare. Quando sono arrivati i bambini ho fatto solo lavori part-time, saltuariamente. - Un ufficio tutto tuo, eh? E' il mio sogno segreto. Prendermela comoda e arrivare verso mezzogiorno. Come un investigatore privato.
Con i postumi della sbornia e la barba ispida. Sfogliare la posta e ributtarla sul tavolo. - Tu hai la barba ispida? - gli chiese Marian. - Certo, ogni tanto. Perché me lo chiedi? - Non lo so. Credevo che quelli con la carnagione chiara avessero la pelle liscia. - Sì, ma la barba ce la facciamo, - disse lui. - Non credo che il mio ufficio somigliera a quello di un investigatore privato. - Tu vuoi luce e aria. - Grossi progetti corposi, dentro cartellette rilegate. - E vuoi anche plastici in scala, completi di alberelli. - Può darsi. - E piccole persone tranquille sui marciapiedi. - Multirazzialmente tranquille. - Brava. Vuoi bere qualcosa? - Perché no? - disse lei. Brian ordinò da bere a un vecchio che probabilmente fungeva anche da portabagagli nella hall. - E tu come mai sei qui? - chiese Marian. - Per le macchine. Ho letto della mostra ieri sera e ho sentito una specie di prurito da scolaretto. - Non sei neanche riuscito ad aspettare il weekend. - Troppa calca. E comunque mi merito un giorno di vacanza. - Mi spiace che tu abbia dovuto andare in giro a vuoto fino all'ora di pranzo. Pensavo che avessi un appuntamento di lavoro. - Non ho ancora finito con le macchine. Vale la pena di dare una seconda occhiata. E cosa può esserci di più gradevole che starsene qui seduti in attesa che qualcuno ci porti da bere, regoli l'aria condizionata e faccia qualcosa a proposito dell'imbottitura delle panche? - E' da lì che viene la puzza? - disse lei. Marian fumò, naturalmente. Una volta ordinato da bere sapeva che la facciata sarebbe crollata. Ci voleva molto poco per abbatterla. Avrebbe fumato tutte le sigarette che aveva e poi ne avrebbe trovate altre. Lui la fece ridere un paio di volte e comunque era divertente anche quando non si sforzava di esserlo. Marian pensò che da piccolo doveva avere avuto un coniglio come animale domestico, ma non avrebbe saputo dire perché. - Tu sei alta, vero? Glielo chiese sospettosamente, come se lei avesse tentato di nasconderglielo. - Non più di te. - Mia moglie è piccola. La conosci? - Non so. - Vuole che la porti a New York il mese prossimo. Ho un consulto con gli ingegneri alla discarica di Fresh Kills, che è una specie di King Kong delle montagne di rifiuti. - Pensi che a Nick piaccia questo tipo di lavoro? - E lo chiedi a me? - fece lui. - Sì, lo chiedo a te. - Penso che gli piaccia più che a me. Credo che lui lo veda in termini più puri. Concetti e principŒ. Perché Nick è fatto così - la tecnologia, la logica, l'estetica. Io invece, con la mia mentalita ristretta da gringo.
- Adesso vi trasferite in una nuova sede. Forse questo potra migliorare l'immagine che hai di te. - Sì, una grande torre bronzea. Proprio come una grossa compagnia di investimenti o un gigante dei media. Naturalmente l'edificio sembra uno stronzo geometrico, ma è assolutamente coerente, non credi? Il cameriere portò da bere e guardarono il menù nella sala quasi vuota, parlavano e guardavano, senza guardare veramente - guardavano e dimenticavano. Marian sentì la gradevole morsa del gin e si chiese cosa avesse Brian che rendeva così facile parlare con lui. Pensò che il più delle volte fosse spaventato, ma non cercava di nasconderlo alle donne, ad alcune donne quantomeno, forse alla rara donna nella quale gli capita di imbattersi a cento miglia da casa, e allora diventa tutto onesta e caustica autoironia, mostrando aspetti di sé che normalmente non lascia trapelare con i maschi. Forse per ricambiare. Marian non capiva proprio perché voleva raccontargli la storia del cane, se non per sfoggiare le proprie capacita di confessione. Ordinarono ancora da bere e il pranzo. - Il cane non la smetteva mai di abbaiare e piagnucolare, Dukey, ma i bambini erano piccoli e amavano il loro cane, e lui abbaiava, piangeva, andava in giro per casa uggiolando, e ringhiava agli altri bambini e i vicini si lamentavano e io cercavo di darlo via di nascosto, ma nessuno voleva prenderlo, così alla fine, d'impulso, è orribile, ma perché te lo sto raccontando? - Perché è una storia che ti ossessiona. Perché vedi un'ombra di misericordia nei miei occhi. - Sì, un impulso irresistibile. Mi ero convinta che il cane era infelice, malato, che soffriva di un male irreversibile, così ho preso la macchina e sono partita giù per la Ottantacinquesima, credo, giù oltre una diga nella pietraia deserta, assolutamente molto più lontano di quanto dovessi andare, e ho continuato ad andare, per miglia e miglia, e alla fine ho fermato la macchina, ho posato Dukey per terra e l'ho lasciato lì. Poi sono tornata a casa e ho detto a Lainie, Tesoro il cane è scappato, mi dispiace da morire. Ma non basta. Dopo ho perso completamente la testa. Ho cominciato a portarli in giro in macchina, tutti e due i bambini, giorno dopo giorno, gridando dai finestrini Dukey, Dukey, e mi ossessiona, è vero, come qualcosa che ho solo sognato e che sollievo quando scopri che non è successo davvero. - E poi ti rendi conto che è successo davvero. Brian si stava divertendo un mondo, per cui cominciò a divertirsi anche lei, probabilmente proprio per questo, pensò Marian. - Guidavo per le strade deserte, d'estate, nei lunghi pomeriggi. Sento ancora le loro voci. Dukey, Dukey. Avevano cinque e tre anni, mi pare. Gridavano dai finestrini, chiamando il loro cane. Tra il riso e il pianto, guardava la faccia di Brian accesa di piacere e sentiva il tormento e la vergogna della sua azione e fumava a meta pasto in una sala da pranzo vuota dove il condizionatore non dava segni di vita. Lui disse: - Dukey, Dukey. - Duchino (*), in realta. Piccolo duca. L'aveva trovato Nick, il nome. Lo sai che è mezzo italiano? - Il nostro Nick? E quando è successo? - Non lo vedi dalla sua faccia? - Lo sento in quella voce che fa.
- Quale voce? - Quella del gangster minaccioso. - Quale gangster? - E' una voce che fa lui. Esperta, stereotipata, molto buffa. - A proposito di origini, - disse lei. - Se è troppo personale non sei tenuto a rispondere. Ma, hai mai avuto un coniglio come animale domestico? Si stavano divertendo. Quando lui parlava, Marian si scopriva a scegliere tra varie risposte, a prepararle, una dopo l'altra, e talvolta lo interrompeva, era più forte di lei, e guardava la sua faccia illuminarsi. Gli raccontò che a scuola giocava a hockey, e lo rimpiangeva. Rimpiangeva le bevute dal tubo di gomma per innaffiare il giardino. Le mancavano più che mai sua madre e suo padre, ed erano morti da nove e sei anni, e adesso erano forze più potenti, così profondamente presenti nella sua vita che capiva perfettamente come mai la gente vedesse i fantasmi e parlasse con i morti. Aveva ancora un tubo per innaffiare il giardino, ma non ci si attaccava per bere, e non permetteva ai suoi figli di farlo, e qui stava la differenza, non tanto nelle cose perse quanto nella coscienza divenuta sospettosa e vigile. Gli disse che rimpiangeva il fumo sebbene non fosse riuscita a smettere di fumare. Quando ebbero finito risalirono una scalinata fino all'atrio dell'albergo e lei in cuor suo continuò a salire fino a una camera semibuia in fondo a un lungo corridoio vuoto e si vide ripiegare il copriletto e restare in piedi davanti alle lenzuola fresche ad aspettare che bussassero alla porta. Poi udirono voci lamentose in falsetto arrivare dagli altoparlanti sul prato del tribunale e scesero verso le macchine nel caldo piacevole. Brian andò in estasi per una Chevrolet giallo limone, una Bel Air decapottabile del '57 con i sedili bianchi. Si stese sul cofano e finse di leccare il metallo rovente. Marian pensò ecco cosa succede agli uomini, ecco cosa fanno, invece di accumulare grasso sulle cosce. Ma non poté fare a meno di ammirare la macchina, che aveva classe e spensieratezza, ed era persino grandiosa in un certo qual modo, con le curve cromate e la musica strana e toccante che metteva a nudo la sua innocenza. Brian si staccò dal cofano. - Ne hai mai avuta una? - Ero troppo giovane, - disse lui. - Mio fratello maggiore ne ha avuta una per un po'. La Bel Air di Brendan. Ne parliamo ancora con rispetto. Fu il momento culminante della sua vita. Significava tutto per lui. Ragazze, amore, personalita, potere. Esprimeva l'epoca. Tutte quelle macchine avevano il cosiddetto look d'avanguardia. Aerodinamiche come jet da combattimento. Ma poi si scoprì che avanguardia non voleva dire futuro. Voleva dire fallo adesso, goditela, perché stanno arrivando gli anni Sessanta, bim bum bam. Il motore aveva un rombo gutturale. Allora non potevamo saperlo, ma da quel momento in poi per Brendan andò sempre peggio. Passeggiarono sotto gli olmi intorno alla piazza. La macchina di Brian era posteggiata vicino alla vecchia prigione della citta, che adesso era trasformata in camera di commercio. Si scambiarono saluti stranamente educati e formali. Marian pensò che forse si sentivano in colpa per qualcosa e avevano bisogno di preparare la faccia per il viaggio verso casa, darsi una regolata. Risalì la strada fino alla sua macchina sentendo la liquida pulsazione del sole a ogni passo.
NOTE: (*) In italiano nel testo [N'd't']. Capitolo terzo Brian si diresse a nord, in cerca di un segnale che lo guidasse verso il ponte. Una navecisterna di liquame scendeva lungo il fiume, stramba, arrugginita e bassa sull'acqua. Il solito cattivo presentimento lo attanagliò. Non era universalmente noto, solo alcuni sapevano che Brian stava malissimo ogni volta che attraversava un ponte. Più era lungo e alto, più aumentava l'affanno, il terrore dell'abisso. E questo era un ponte importante su un vasto e storico corso d'acqua. La verita è che i ponti gli davano la sensazione di finire in un anello di Moebius, di diventare unilaterale, di perdere ogni nozione di nome e di luogo, di gusto del cibo e weekend con i suoceri - di stare sospeso come non nato nello spazio generico. Poi lo vide in lontananza, gettarsi sulla scogliera dell'altra sponda con le travi e i cavi d'acciaio. Seguì i segnali, imboccò il raccordo e incominciò la traversata, scegliendo il livello superiore perché così faceva la lunga Lincoln grigia davanti a lui. Lincoln e Washington, portatemi in salvo. La radio sparava a tutto volume voci di gente che telefonava, stanno brontolando, sprizzando saliva, è la salva e il rap da marciapiede, e Brian immaginò una lunga coda di anime sotterranee in attesa di entrare nella banda radiofonica e parlare in incognito. Ascoltò con solenne gratitudine. Era un clamore così forte da costituire una forza vitale, da trasportare il ragazzo dell'Ohio oltre la sua ansia livida e oltre il ponte fino alla sponda del Jersey. Stava cercando la Quarantaseiesima ovest. Aveva preso nota delle indicazioni che l'uomo gli aveva dato al telefono. L'uomo aveva elencato le strade e le vie in modo così automatico che Brian aveva capito che molti pellegrini avevano intrapreso quel viaggio oltre il fiume. Aveva scritto le indicazioni sulla carta da lettera dell'albergo e teneva la pagina sul sedile accanto a sé, controllandola ogni dieci secondi. Dopo un miglio sulla Quarantaseiesima ovest intravide il distributore della Exxon e manovrò per imboccare la Sessantatreesima sud, sfrecciando sul rettilineo di tre miglia fino al Point Diner. Poi girò a sinistra lasciandosi dietro l'urlo del traffico altamente motivato per percorrere strade residenziali, cominciando finalmente a rilassarsi, mentre si avvicinava alla rotonda su Kennedy Drive, un altro presidente morto. Poi, giù in fondo a una strada laterale fino a una vecchia casa rivestita di assicelle di legno. Gli aprì la porta Marvin Lundy, un uomo prossimo ai settanta, ingobbito, dal passo dignitosamente strascicato, che teneva in mano un sigaro spento. Brian pensò che sembrava un attore comico in pensione, un mattatore della scena che non sarebbe vissuto un minuto di più della sua ultima conversazione monopolizzata. Seguì l'uomo attraverso due stanze immerse in una penombra da acquario. Poi scesero nel seminterrato, una stanza grande e rifinita che conteneva tutti i cimeli del baseball collezionati da Marvin Lundy. - La mia defunta moglie ci avrebbe servito il tè con i biscotti appena sfornati, ma a parte questo tutto è rimasto uguale.
La stanza era piena di oggetti disposti con gusto. Divise di flanella drappeggiate alle pareti, berretti col distintivo ricordo sulla visiera, e pagine di giornale incorniciate e appese. Brian fece un giro, esaminando con reverenza mazze autografate allineate su rastrelliere a muro fatte su misura, mazze con bellissime venature, alcune con resina di pino sull'impugnatura. C'erano sedili da stadio etichettati come rari esemplari botanici - Ebbets Field, Shibe Park, Griffith Stadium. Fu lì lì per toccare un vecchio guantone da catcher esposto su un piedistallo, un oggetto sfregiato di giallo, sfregiato dai chiodi, affumicato dal sole e patriarcale, ma riuscì a trattenersi. Guardò palle da baseball autografate dentro globi di plexiglas. Si piegò su teche che contenevano figurine di sigarette di una volta, biglietti, contratti firmati da giocatori famosi, baseball da tavolo del diciannovesimo secolo, involucri di gomma da masticare con le fattezze rosee di uomini famosi ai tempi della sua giovinezza, i cui nomi fluttuavano di decennio in decennio come una specie di poesia. - Ci mettevamo la marmellata di fragole, sui biscotti, e ti saluto, tutta la vita dal Rinascimento in poi impallidiva al confronto. Niente di tutto questo arrivava a essere straordinario. Era interessante, persino commovente a suo modo, ma non grandioso o memorabile. Il tocco magico, il massimo dell'originalita e della stravaganza era la costruzione lungo la parete in fondo, una riproduzione del vecchio tabellone segnapunti e della facciata della clubhouse del vecchio Polo Grounds. Copriva un'area di circa sette metri in lunghezza e tre e mezzo in altezza, dal pavimento al soffitto, e comprendeva il cartellone delle Chesterfield con lo slogan, l'orologio Longines, una riproduzione delle finestre e del parapetto della clubhouse e infine una riga per i cartelli dei punteggi scanalata a mano, il resoconto inning per inning della famosa partita di spareggio del 1951. - Bisognava mangiarli belli caldi. Su questo lei non transigeva, Eleanor, perché se li mangi tiepidi ti perdi il bello dell'esperienza. Brian era fermo davanti al tabellone segnapunti, e guardava Marvin come a chiedergli il permesso di toccarlo. - Avevo un progettista, un falegname, un elettricista, e un pittore di insegne invece di un imbianchino, un tipo molto lunatico. Io mostravo le foto e loro prendevano le misure e facevano i bozzetti in modo da rispettare le proporzioni e riprodurre i colori giusti. Il segnale di punto e la E che si illumina, E come errore. Lei dove abita? - A Phoenix. - Non ci sono mai stato. Quaggiù, sotto la luce più forte, Brian si accorse che i capelli di Martin Lundy erano un ciuffo di fili sintetici intrecciati, di un castano cinereo, pettinati in avanti, il che evocò in lui l'immagine di Las Vegas, di anelli da mignolo e di cancro alla prostata. Disse a Marvin: - Sono cresciuto nel Midwest. Gli Indians di Cleveland erano la mia squadra. E ieri sera, mentre venivo qui in aereo per affari, ho letto un articolo sulla rivista della compagnia aerea, il pezzo su di lei e la sua collezione, e ho provato l'impulso irresistibile di contattarla e vedere queste cose. Toccò i risvolti di seta della giacca da smoking di Babe Ruth. - E' stata mia figlia a convincermi a fare l'intervista, - disse
Marvin. - Pensa che io stia diventando una specie di, come-si-chiama. - Recluso. - Sì, un vecchio recluso con mezzo stomaco soltanto. E così adesso la mia fotografia è nella tasca posteriore di ventimila poltrone. Questa è l'idea che ha lei dell'uscire e incontrare gente. Mi ficcano la dentro insieme ai sacchetti per il vomito. Brian disse: - Sono stato a un'esposizione di macchine e mi ha fatto uno strano effetto. - Cioè, che effetto le ha fatto? - Macchine degli anni Cinquanta. Non lo so. - Lei si sta autocommiserando. Pensa che le stia sfuggendo qualcosa ma non sa cosa. Si sente solo nella vita. Ha un lavoro, una famiglia e un testamento gia redatto, alla sua eta, perché quello che conta è morire preparati, di una morte legale, con tutte le carte in regola. Morire solvibili, così gli eredi possono convertire tutto in denaro sonante. Un tempo pensava di avere le stesse dimensioni dell'intero universo. Adesso è una scheggia smarrita. Guarda le macchine di una volta e si ricorda di uno scopo, di una meta. - E' ridicolo, vero? Ma probabilmente è anche irrilevante. - Niente è irrilevante, - disse Marvin. - Lei è preoccupato e spaventato. Vede che la guerra fredda sta per finire, e la cosa la lascia senza fiato. Brian passò attraverso un tornello proveniente da un vecchio campo da baseball. Scricchiolò con un suono nostalgico. - La guerra fredda? - disse.- Bah, non mi sembra che stia finendo. Comunque, se così fosse, tanto meglio. Ne sarei felice. - Lasci che le spieghi una cosa a cui, forse, non ha mai fatto caso. Marvin era seduto su una poltrona di fianco a un vecchio baule di attrezzature su cui era impressa la scritta “Boston Red Stockings”. Indicò con un gesto ampio la poltrona dall'altra parte del baule e Brian andò a sedersi. - Bisogna che i leader di entrambe le parti facciano continuare la guerra fredda. E' l'unico elemento di stabilita. E' onesta, è affidabile. Perché quando la tensione e la rivalita finiscono, allora sì che comincia il vero incubo. Tutto il potere e l'intimidazione dello stato smetteranno di circolare nel suo sangue e lei non si ritrovera più a essere... oddio, cosa volevo dire? - Non lo so. - Ah sì, non sara più il punto di riferimento principale. Perché verra aggredito da altre forze bellicose e incalzanti. La guerra fredda è sua amica. Per lei è necessario che rimanga predominante. - Predominante su che cosa? - Non lo sa? Non capisce che tutta la faccenda è collegata al predominio nel mondo? Non ha visto cosa sta succedendo in Inghilterra? Quarantamila donne che manifestano intorno a una base aerea per protestare contro bombe e missili. Alcune di loro sono uomini travestiti. Ci sono anche dei buddisti che suonano i loro tamburi. Brian non sapeva come reagire a queste osservazioni. Voleva parlare di vecchi giocatori di baseball, delle dimensioni dello stadio, di soprannomi e di cittadine della minor league. Era per questo che era venuto, per arrendersi alla nostalgia, per ascoltare il suo ospite raccontare aneddoti famosi, le storie ormai classiche di azioni stupide e di risse scatenate, i duelli di lancio che continuavano
fino al crepuscolo, storie che Marvin collezionava da mezzo secolo l'eros intenso della memoria che distingue il baseball dagli altri sport. Marvin sedeva con gli occhi fissi sul tabellone segnapunti, il sigaro lievemente sfilacciato all'estremita bruciacchiata. - Credevo che avremmo parlato di baseball. - Stiamo parlando di baseball. Questo è baseball. Lo vede l'orologio? - disse Marvin. - E' fermo sulle tre e cinquantotto. Perché? Forse perché è l'ora in cui Thomson batté il fuoricampo sul lancio di Branca? Lo chiamò Branker. - Oppure perché quello è il giorno in cui scoprimmo che i russi avevano fatto esplodere una bomba atomica. Vuol sapere una cosa di quella partita? - Cosa? - fece Brian. - C'erano ventimila posti vuoti. E sa perché? - Perché? - Mi ridera in faccia. - No, glielo prometto. - D'accordo allora. Lei è mio ospite e voglio che si senta a suo agio. - Come mai tanti posti vuoti per la partita più importante dell'anno? - Di molti anni, - intervenne Marvin. - Di molti anni. - Perché certi eventi hanno una componente di paura inconscia. In cuor mio sono convinto che la gente intuiva la catastrofe nell'aria. E non c'entrava con chi avrebbe vinto o perso la partita. Sentivano una forza tremenda che avrebbe obliterato... è questa la parola? - Sì, obliterato. - Allora, che avrebbe completamente obliterato la partita. Deve sapere che per tutti gli anni Cinquanta la gente è rimasta chiusa dentro casa. Uscivamo solo per salire in macchina. I parchi pubblici non erano pieni di gente come adesso. Un museo era una serie di stanze vuote con cavalieri in armatura e un guardiano insonnolito ogni sette secoli. - In altre parole. - In altre parole, c'era una tendenza sotterranea a restarsene a casa. Perché nell'aria incombeva una minaccia. - E lei vorrebbe dirmi che la gente ha avuto un'intuizione su questa giornata particolare? - Sì, è come se lo sapessero. Intuivano che c'era un legame tra la partita e un avvenimento sconvolgente che si sarebbe verificato all'altro capo del mondo. - Questa partita in particolare. - Non il giorno prima o il giorno dopo. Perché si trattava della partita del tutto-o-niente tra i due odiati rivali della citta. La gente aveva il presentimento che quella partita fosse legata a qualcosa di molto più grosso. Per cui passarono attraverso il processo mentale di chiedersi, Voglio davvero uscire e trovarmi tra la folla, che è il posto peggiore in cui essere se succede qualcosa di orribile, oppure sara meglio che resti a casa con la mia famiglia e il mio televisore nuovo di zecca, come suggerisce il buon senso, nel suo mobiletto impiallacciato d'acero. Con sua sorpresa, Brian non respinse questa teoria. Il che non
significa necessariamente che ci credesse, però non la respinse. Ci credeva provvisoriamente, qui in questa stanza sotto il livello della strada, in una casa di legno, nel pomeriggio di un giorno feriale a Cliffside Park, New Jersey. Era liricamente vera, mentre usciva dalla bocca di Marvin Lundy e arrivava all'orecchio medio di Brian, indimostrabilmente vera, remotamente e inammissibilmente vera, ma non del tutto avulsa dalla storia, non priva di una sfumatura di autentica storia interiore. - E devo dire che la faccenda è interessante perché quando fabbricano una bomba atomica, questa è bella, il nucleo radioattivo lo fanno della stessa dimensione di una palla da baseball - disse Marvin. - Ho sempre creduto che avesse la dimensione di un pompelmo. - No. Di una palla da baseball regolamentare da major league, non inferiore a ventitré centimetri di circonferenza, secondo il regolamento. Accavallò le gambe e si ficcò un dito nell'orecchio per alleviare il prurito. Marvin aveva orecchie enormi. Per la prima volta Brian si rese conto che c'era musica nell'aria, musica di sottofondo. Forse l'aveva sentita per tutto il tempo assimilandola senza accorgersene, una musica mixata col tono della stanza, con gli aerei che atterravano a Newark, con il debole gemito del traffico che schizzava via come un proiettile sulle autostrade la fuori - un lamento moderato, un pezzo al pianoforte che aveva la consistenza di qualcosa di vecchio e conservato con delicatezza, di una rosa schiacciata e sbiadita tra le pagine di un libro. - La gente intuisce cose praticamente invisibili. Invece quando ha una cosa sotto il naso la ignora completamente. - Che cosa intende dire? - chiese Brian. - Questo Gorbaªc‰v, che va in giro con quella roba sulla testa. Cos'è, una macchia congenita? - Sì, credo di sì. - E' grossa. Ne conviene? - Sì, è piuttosto grossa. - E' notevole. Non si può fare a meno di notarla. Dico bene? - Sì, è vero. - E ammettera che milioni di persone la vedono tutti i giorni sul giornale? - Sì. Indubbiamente. - Aprono il giornale e si trovano davanti la testa di quell'uomo con quel marchio incredibile sulla cucuzza. Giusto? - Sì, certo. - Cosa significa? - chiese Marvin. - Perché dovrebbe significare qualcosa? - Per lei è normale, l'accetta così com'è? - E' la sua faccia, - disse Brian. - E' la sua testa. E' un'imperfezione, una macchia congenita. - Non è quello che vedo io. - Perché, lei cosa vede? - Me l'ha chiesto lei, eh, quindi le rispondo. Marvin ci vedeva il primo segno del collasso totale del sistema sovietico. Stampato sulla fronte di Gorby. La pianta della Lettonia. Lo disse a muso duro, che Gorbaªc‰v stava sostanzialmente annunciando al mondo che l'Unione Sovietica avrebbe dovuto fronteggiare la rivolta delle repubbliche.
- Ma come, lei pensa che quella macchia sulla fronte. - Mi scusi, ma se lei fa ruotare la carta della Lettonia di novanta gradi in modo che il confine orientale venga a trovarsi in cima, ottiene esattamente la forma che Gorbaªc‰v ha sulla testa. In altre parole, quando Gorby è disteso a letto la sera, se la moglie si piega su di lui per dargli un bicchiere d'acqua e un'aspirina si ritrova a guardare la Lettonia. Brian cercò di evocare la forma della voglia di vino sulla testa di Gorbaªc‰v. Voleva confrontarla con i ricordi di interrogazioni in geografia di lontani e pigri pomeriggi, con le membra indolenzite da desideri biologici e la dolcezza della fine della scuola. Gli tornò in mente la vecchia cantilena, Lettonia, Estonia, Lituania. Ma la forma sulla carta geografica gli sfuggiva, i contorni precisi di quelle anatomie circoscritte. Marvin stava guardando di nuovo il tabellone segnapunti. - La gente colleziona, colleziona, non fa che collezionare. C'è gente che insegue qualsiasi oggetto del periodo della Germania nazista. Nazisterie. Grandi collezionisti che cercano la grande storia. Ciò significa forse che gli oggetti accumulati in questa stanza sono del tutto insignificanti? Qual è la parola che sto cercando, che suona come se ti iniettassero un vaccino nel muscolo del braccio? - Innocuo, si dice. - Sì, ecco. Innocuo. Cosa sarei io, innocuo? Anche questa è storia, le ultime pagine. Storia alla rovescia. Felice, tragica, disperata -. Marvin spostò lo sguardo. - Proprio qui, in questo baule, - disse, tengo un oggetto. Ho letteralmente passato gli ultimi ventidue anni della mia vita a cercarlo. Brian ebbe un sospetto. - L'ho rintracciata, l'ho cercata e alla fine l'ho trovata e l'ho comprata, diciotto mesi fa, e non la metto neanche in mostra. La tengo nel baule, nascosta alla vista. Adesso era Brian a guardare il tabellone segnapunti. Marvin disse, cupo: - E' la palla del fuoricampo di Bobby Thomson, sono riuscito a rintracciarla seguendone la storia a ritroso, a partire da voci che circolavano nell'ambiente, tra quelli che si dedicavano a quest'attivita. E allora non era neppure un'attivita, c'erano solo pochi interessati con una manciata di numeri di telefono o nomi di battesimo, indizi tra i più striminziti, che ho seguito con furiosa determinazione. Si interruppe per accendersi il sigaro. Era vecchio e stantio, e sembrava una salsiccia di soia della mensa scolastica. Ma Brian capì che un sigaro qui ci voleva, era un'esigenza tribale, anche se il fumo faceva bruciare gli occhi. Per tre ore di fila Marvin parlò della sua ricerca della palla da baseball. Dimenticò alcuni nomi e ne storpiò altri. Smarrì citta intere, situandole in zone temporali sbagliate. Raccontò di come avesse seguito falsi indizi in luoghi remoti. Si arrampicò su scale che portavano in solaio a frugare dentro vecchi bauli tra la biancheria della nonna e le foto dei morti. - Mi sono detto mille volte. Perché desidero tanto questo oggetto? Cosa significa? Chi lo possiede? Durante l'intero racconto dell'epico vagabondaggio, ora conciso ora verboso, Brian non dubitò mai che il vecchio fosse trasandato solo nella narrazione. La ricerca in sé era stata chiaramente ardua,
spietata, totale e debilitante. A un certo punto Marvin aveva assunto un uomo che lavorava in un laboratorio fotografico e aveva accesso ad attrezzature speciali. Studiarono le foto di repertorio che ritraevano le tribune di sinistra del Polo Grounds scattate subito dopo che la palla era caduta tra i sedili. Poi esaminarono gli ingrandimenti e le ottimizzazioni. Andarono nelle agenzie fotografiche a scartabellare gli archivi. Marvin aveva dei contatti che gli permisero di consultare il materiale d'archivio dei giornali, di intrufolarsi nelle redazioni delle radio e delle principali riviste. - Ho guardato un milione di fotografie perché questa è la teoria della realta detta dei puntini, cioè la teoria secondo la quale la conoscenza è totalmente disponibile se si analizzano i puntini. C'era un lieve crepitio nella sua voce, come quello di un'improvvisa interferenza alla radio. Aveva acquistato i negativi originali delle pellicole. Aveva allestito una camera oscura. Consumava i pasti con una lente d'ingrandimento appesa al collo. La casa era piena di provini, di stampe lucide, c'erano ingrandimenti appesi a un filo teso attraverso parecchie stanze. Sua moglie e sua figlia si erano rifugiate a Londra da certi parenti perché chissa come Marvin aveva sposato un'inglese. Aveva assunto un investigatore privato afflitto da intermittenti emorragie al naso. Avevano messo annunci sulle riviste sportive, cercando di rintracciare le persone sedute nella sezione 35, dov'era atterrata la palla. C'era stato il lavoro fotografico sui dettagli, l'ottimizzazione dell'immagine, la riduzione o come-si-chiama, in piccole unita. - Risoluzione, - disse Brian. Poi era stata la volta dei lunghi viaggi, la valigia trascinata in vuote stazioni ferroviarie, gli aspri voli invernali con il ghiaccio sulle ali, lo stanco vagare errabondo, un aggettivo che non si sente più, l'intrusione nelle case e nelle vite altrui - l'esperienza fisica vera e propria, non fotografata, mani cosparse di macchie scure, più di un mento con la fossetta, e la somma confusa di quello che ricordano e quello che dimenticano. 1. La vedova di Long Island che girava il cucchiaino nella tazza. 2. La cantante di gospel di nome Prestigious Booker che teneva una palla da baseball nell'urna delle ceneri del suo amante. 3. La nave in banchina a San Francisco - non nominiamola nemmeno. 4. L'uomo in macchina nella contea di Deaf Smith, Texas, nel bel mezzo del nulla. 5. Tutta una generazione di facce da Gesù. Ovunque giovani barbuti e insandalati, barbuti e scalzi - occhialetti striminziti, con la montatura di ferro. 6. La sensazione di Marvin di essersi smarrito in America, vagando per citta senza centro. 7. La donna di Long Island, come-si-chiamava, il cui marito era alla partita - quella che aveva servito il caffè solubile dentro tazzine da museo delle bambole. 8. La famiglia di copti a Detroit - lasciamo perdere, è troppo complicato, tumulti e incendi in lontananza, carri armati per la strada. 9. La particolareggiata confusione del racconto di Marvin, i ricordi degli altri mescolati con i suoi, trasformati per piegare il tempo.
10. Un tornado in arrivo, che spazza le cime degli alberi in un'ondata maligna, tutto il cielo macchiato dai detriti scaraventati in aria. 11. Il cui marito era nel filmato analizzato da Marvin, arrancava cercando di afferrare la palla, e in casa aveva solo caffè solubile. 12. La salita lungo il fianco di un edificio dentro un ascensore trasparente. 13. La nave in banchina - non adesso, per favore. 14. Che mistero tutt'intorno, ogni strada immersa in un radioso stupore. Brian ascoltò tutto questo e udì la musica finire e ricominciare, lo stesso pezzo al piano, e non era la seconda volta che lo sentiva ma forse l'ottava o la nona, e ascoltò la teoria dei puntini, e sentì una forza intrinseca nel tema dell'implacabile ricerca fotografica, un prototipo cui non riusciva a dare una definizione calzante. - Me lo sono detto mille volte. Per quanto tempo cercherò? Perché la voglio? Dov'è? Aveva messo annunci per acquistare filmati amatoriali della partita e aveva comperato pochi minuti di azione cruda che mostravano una massa indistinta e pulsante che si muoveva freneticamente sopra la recinzione del campo sinistro, ripresa da un uomo in gradinata. Marvin si munì di una stampante ottica. Rifotografò la pellicola. Ingrandì, riposizionò, analizzò. Inquadrò e bloccò ogni fotogramma dell'azione per rallentarla, per combinare parecchi secondi di filmato in una sola immagine. Esaminò i margini dentati del rocchetto alla ricerca di un atomo di informazione, di una goccia di immagine mancante. Era un lavoro di talmudica precisione, di continue zoomate e dissolvenze nel tentativo di mettere a fuoco la faccia di un uomo, di leggere il nome inciso sulla cavigliera di una donna. Brian si vergognava di fronte alle ossessioni altrui. Mettevano a nudo la sua dispersivita, la voce che udiva, dolce, debole e lontana, che gli diceva di lasciar perdere. La moglie e la figlia di Marvin erano tornate e ripartite. La casa era diventata una trappola che scattava su immagini da incubo. La smorfia isolata, i peli che spuntano dal neo sul mento di un vecchio. Ogni immagine un formicolio di puntini cristallizzati. Una fotografia è un universo di puntini. La grana, il composto alogeno, i piccoli grumi argentei nell'emulsione. Una volta entrati nel puntino, si accede all'informazione nascosta, si scivola all'interno dell'evento minimo. Questo riesce a fare la tecnologia. Sbuccia le ombre e redime la confusione e l'incoerenza del passato. Fa avverare la realta. Marvin Lundy aprì il baule. La palla da baseball era avvolta nella carta velina dentro una vecchia scatola bianca e rossa della Spalding. C'erano grossi fasci di fotografie e corrispondenza e altro materiale relativo alla ricerca. Certificati di nascita, passaporti, dichiarazioni giurate, testamenti scritti a mano, liste dettagliate dei beni di certe persone, c'erano indumenti macchiati di sangue dentro buste di plastica chiuse da una cerniera. Prese dei fotogrammi da una grossa busta marrone e li mostrò a Brian. Si trattava di una sequenza di immagini della lotta per la palla, frotte di gente, disse Marvin, che arraffavano e graffiavano, e nell'ultima foto, un uomo in disparte, assolutamente solo, in camicia
bianca, che guardava giù verso la rampa d'uscita, fissava qualcuno con occhi furenti, probabilmente la persona che era andata via con la palla, ma Marvin, pur con tutta la sua padronanza dei puntini, non era riuscito a trovare il modo di far girare la testa alla gente sulla rampa in modo da poter vedere la faccia dell'individuo in questione. - Però lei ha identificato l'uomo con la camicia bianca. - Pubblicando la foto sul retro di copertina di riviste che reclamizzavano i letti ad acqua e facevano annunci pornografici. - Ed è andato a trovare la moglie. - Questo molti anni dopo la partita. Il fatto è che nel frattempo il marito era morto. Sua moglie è seduta in una stanza fredda a rigirare il cucchiaino nella tazzina minuscola. Io cerco di scoprire cosa potrebbe averle raccontato della partita, della palla, insomma cerco di saperne qualcosa. Quale partita, fa lei. Cerco di spiegarle l'intensita estenuante di tutta la ricerca. Ma sono passati più di vent'anni. Quale partita, quale palla? Una donna scese dalle scale portando caffè e cheesecake su un vassoio. Sembrava uscita dalla storia di Marvin, una figura materializzata dal ricordo. Marvin chiuse il baule in modo che lei potesse appoggiarvi sopra il vassoio. Era la figlia, Clarice, decisa ad accudire papa, ignorando le sue obiezioni. - Non ti ho sentita entrare. Arriva come una cinese, con i piedi fasciati. - Stavi parlando. Potevo essere un rapinatore e non avresti sentito niente. Aveva meno di trent'anni, era biondiccia e con un fisico da palestra. Disse a Brian che abitava a dieci minuti di macchina da lì e lavorava come stenografa del tribunale. Lui pensò che gli sarebbe stato facile innamorarsi della nota da sitcom nella sua voce e della curva delle sue cosce sotto la gonna di lino. - Abbiamo quasi finito qui, Clarice. - Sì, tra cento ore estenuanti. Forse il tuo ospite ha altro da fare. - E cosa, di grazia? - Tra poco sara buio. - Buio, luce. Sono solo parole. La scatola della palla da baseball era rovesciata sul fianco tra le fotografie sparpagliate sul pavimento e la palla era rotolata fuori, ancora frusciante nella carta. Clarice prese una seggiola e lei e Marvin finirono la storia, più o meno, tra un boccone e l'altro di cheesecake. - Per quanti anni, Clarice, ho cercato un uomo di nome Jackson, o Judson? - Arriva al dunque, - disse lei. - Perché c'erano molti indizi che convergevano su di lui, che lo rendevano interessante. E la palla a questo punto ha una storia ricostruita passo passo, nella quale molte cose corrispondono e quadrano. Ma non riesco a rintracciare l'uomo e nemmeno a, come si dice? - Accertare? - disse Brian. - Il suo vero nome. A questo punto, col filmato ho chiuso e mi affido a dicerie e sogni. C'è una specie di esperienza extrasensoriale del baseball, una coscienza, diciamo, sotterranea, e la sento nel sonno.
- Accelera papa, accelera. - Nel frattempo c'è questa donna. Io sto cercando di rintracciare Judson Jackson Johnson e c'è questa donna che ha avuto il mio nome nel giro della compravendita di cimeli e mi chiama in intercomunale a spese del destinatario, cioè mie, giorno e notte. Dice che una volta ce l'aveva lei, l'oggetto che sto cercando. Misteriosamente scomparso da anni, dice, dalla piccola cassetta col lucchetto in cui la teneva. - Genevieve Rauch. - Un nome che non riesco mai. - Genevieve Rauch, - disse sua figlia. - E insieme cercano di verificare le cose fondamentali, i... insomma mi capisce. - I segni indicativi, - disse Brian. - Capaci di rendere la sua palla da baseball quantomeno una remota possibilita. - Sì, le tacche e i graffi, - disse Marvin. - Il marchio di fabbrica, se è quello giusto. La firma del presidente della lega in carica all'epoca. La donna ha una memoria instabile. Mi distraggo un attimo e lei si mette a parlare d'altro. Questa qui ha un cromosoma speciale per cambiare argomento. Sono tentato mille volte di riattaccare. - Poi succede, - interviene Clarice. - Un uomo in macchina. - Un uomo in macchina, al volante, e uno gli spara e lo ammazza. Salta fuori che la vittima è l'ex marito da tempo scomparso di Genevieve Rauch. In più salta fuori che si chiama Juddy Rauch, Judson Rauch. E così i due fiumi si incontrano. Ci voleva un omicidio, per rivelare il legame. Marvin abbassò la testa sul baule per sorseggiare il caffè e Brian guardò la trama del suo triste toupé. - Quando avevo ancora lo stomaco mangiavo questo cheesecake fino alla nausea. Clarice spiegò che suo padre era andato nella contea di Deaf Smith, Texas, dove aveva assunto un avvocato locale per conto di Genevieve Rauch, e alla fine aveva rintracciato la palla da baseball sigillata in un sacchetto, etichettata, numerata e immagazzinata tra le prove indiziarie. Sequestrata dalla polizia insieme al corpo, alla macchina, a tutte le cose che c'erano in macchina, tra le quali la palla, schiacciata in una scatola di cartone piena di cianfrusaglie. Marvin tirò una boccata dal suo sigaro. - Vado fino nel Bronx a comprare questo cheesecake. Un fornaio kosher che lei non troverebbe nemmeno se le dessi una piantina, una guida e un come-diavolo-si-chiama che parla cinque lingue. - Un interprete. - Un interprete, - disse Marvin. Il cheesecake era morbido e gustoso, con la personalita di uno zio benestante che conosce un centinaio di barzellette sporche, destinato a morire di eccessi sessuali tra le braccia dell'amante. - E così, alla fine comprò la palla da baseball, - disse Brian. - E ne ricostruii la storia fino al quattro di ottobre, il giorno dopo la partita, del millenovecentocinquantuno. - Ma come ha fatto a finanziare quest'operazione per tanti anni? I viaggi, gli aspetti tecnici e tutto quanto? - Avevo una catena di negozi, lavanderie a secco, che ho venduto dopo la morte di mia moglie perché non ne avevo più bisogno, di quel grattacapo.
- Marvin il Re dei Lavasecco, - disse sua figlia con un po' di affetto, un po' di rimpianto, una certa ironia, un certo orgoglio, una sfumatura di franco umorismo e così via. Parlò a suo padre di un appuntamento col dottore che aveva preso per la mattina dopo, e lui ascoltò come si ascolta il telegiornale, fissando con aria indifferente l'India. Clarice prese il vassoio e salì le scale. Brian immaginò di seguirla affiancando la macchina alla sua, lanciandole un'occhiata e accelerando rumorosamente per guidarla fino a un motel lungo la strada dove avrebbero preso una stanza e si sarebbero spogliati a vicenda con i denti e la lingua senza mai dire una parola. Ascoltò la musica che aleggiava nella casa, il lamento della tastiera, e finalmente individuò la presenza in agguato nella storia della ricerca di Marvin, la strana qualita di seconda mano, per così dire, di tutto quel lavoro rigoroso, i ritocchi, gli ingrandimenti, le ottimizzazioni dell'immagine - era un'inquietante replica delle indagini sugli omicidŒ politici degli anni Sessanta. Il tentativo di ricostruire un momento cruciale nel tempo a partire da macchie e ombre - Marvin nella sua camera oscura prendeva a prestito un tema forte e lo usava per rintracciare un piccolo oggetto innocente che rimbalza qua e la nello stadio. Brian disse: - Quindi adesso conosciamo il pedigree della palla negli ultimi passaggi. Da Rauch a Rauch a Lundy. Ma com'è incominciata tutta la storia? - Me l'ha chiesto lei, eh, quindi glielo racconto. Con un uomo che si chiamava Charles, mi lasci pensare, sì, Wainwright. Un dirigente pubblicitario. Ho la sequenza completa che risale fino a lui. La linea di discendenza della proprieta. - Ma non fino alla partita vera e propria. - Mi manca l'ultimo anello per collegare retrospettivamente la palla di Wainwright alla palla che entrò in contatto con la mazza di Bobby Thomson -. Lanciò un'occhiata amara all'orologio del tabellone segnapunti.- Devo ancora trovare un certo numero di ore mancanti. E tenga presente che quando si ha a che fare con qualcosa che va così indietro nel tempo, bisogna fare i conti con l'indice di mortalita. Wainwright è morto e suo figlio Charles junior ha quarantadue anni e non riesce ancora a liberarsi di un diminutivo come Chuckie, ed è un sacco di tempo che cerco di parlargli. L'ultima volta che è stato visto lavorava come tecnico su una nave da carico che incrociava... le piace la parola? - Incrociava. - Nel mar Baltico, - disse Marvin. - A questo proposito. - Sì? - Dovrebbe tener d'occhio la macchia sulla testa di questo Gorbaªc‰v, per vedere se cambia forma. - Cambiare forma? Ma se è sempre stata lì. - E lei come lo sa? - Be', non credera che sia comparsa di recente? - Lei che ne sa, se è sempre stata lì? - E' una macchia congenita, - disse Brian. Mi scusi ma questo è quello che dice la biografia ufficiale. Le dirò come la vedo io. Io penso che se avessi un lavoro di responsabilita nel governo fotograferei Gorbaªc‰v dallo spazio in ogni minuto del giorno in cui non ha il cappello in testa, per controllare la forma della macchia congenita e vedere se cambia.
Perché adesso è la Lettonia, ma domattina potrebbe essere la Siberia, dove stanno svuotando le prigioni. Guardò il sigaro. - La realta non accade finché non si analizzano i puntini. Poi si alzò in piedi con un certo sforzo. - E quando la guerra fredda verra mandata in pensione, lei non riuscira più a guardare una donna per la strada e ad avere quel tipo di fantasia, come-si-chiama, che ha oggi. - Erotica. Ma qual è il nesso? - Non sa qual è il nesso? Non sa che ogni privilegio della sua vita e ogni pensiero della sua mente dipendono dalla capacita delle due grandi potenze di tenere il pianeta sotto controllo con la paura? - Be', è una cosa sconcertante da dire. - E non sa che quando questo controllo minaccioso comincia a svanire? - Cosa? - Lei diventa l'uomo scomparso dalla storia. La visita sembrava giunta al termine. Ma prima l'ospite condusse il visitatore davanti agli scaffali in una nicchia vicino alle scale. Qui teneva la sua raccolta di partite di baseball registrate, alla radio e alla tv, centinaia di cassette che risalivano fino alle prime trasmissioni. - La gente che conserva queste mazze e queste palle, che tramanda le vecchie storie grazie alla tradizione orale e conosce i soprannomi di un migliaio di giocatori, si ritrova come me in un seminterrato con una storia fantastica appesa alle pareti. E le dirò di più, e vedra se non ho ragione. Negli anni a venire ci saranno uomini disposti a pagare una fortuna per questi oggetti. Pagheranno cifre incredibili. Perché qui è la disperazione che parla. Brian avrebbe preferito che il vecchio fosse più leggero e più dolce. Lanciò un'ultima occhiata al tabellone segnapunti. Pensò che nel complesso era un oggetto notevole, ma forse un po' funereo. Aveva quell'essenzialita della conservazione nel rispetto delle proporzioni e della storia che crea un'atmosfera da cupo mausoleo. Salirono le scale e attraversarono le stanze in penombra fino alla porta d'ingresso. Marvin si fermò sulla soglia col sigaro spento. - Ci sono uomini che vengono qui per vedere la mia collezione. - Sì. - Vengono e non vogliono più andarsene. Squilla il telefono, ed è la famiglia, Dov'è mio marito? Questa è l'associazione degli uomini scomparsi. - Capisco. - Lei come si chiama? - Brian Glassic. - Piacere di conoscerla, - disse Marvin. Brian chiese se c'era modo di tornare a Manhattan senza passare il George Washington Bridge. Allora, c'erano due tunnel, uno qui e uno la, e Marvin gli fornì tutte le indicazioni per entrambi i percorsi e le possibili alternative. Brian il tonto strinse gli occhi e annuì vigorosamente, sebbene sapesse che non avrebbe ricordato una parola, una volta salito in macchina. Percorse autostrade e sopraelevate, guardando Manhattan andare e venire in un tramonto da valium, fumoso e dorato. La macchina vibrava nel rimbombo dei camion lanciati a tutta velocita, con i camionisti appollaiati in alto nella cabina con cibo, bevande, droga e
pornografia, e i tir sembravano risucchiare la piccola autovettura nel loro vento destabilizzante. Oltrepassò enormi depositi disseminati di cisterne, tozzi cilindri bianchi schierati nell'acquitrino, e vide altre cisterne dalla cupola bianca in raggruppamenti più piccoli e lunghe file di vagoni-cisterna che scorrevano sulle rotaie. Superò piloni dell'alta tensione dalle braccia affusolate, a gomiti in fuori e mani piantate sui fianchi. Guidò nel fumo vomitato da acri di copertoni che bruciavano, con gli aerei in discesa e le gru allineate al terminal marittimo, e vide cartelloni pubblicitari della Hertz, dell'Avis e della Chevy Blazer, della Marlboro, della Continental e della Goodyear, e si rese conto che tutte le cose che lo circondavano, gli aerei che atterravano e decollavano, le macchine in coda, le sigarette che i conducenti delle macchine stavano schiacciando nei portacenere - tutte queste cose erano sui cartelloni pubblicitari intorno a lui, sistematicamente legate in uno strano rapporto autoreferenziale che aveva una specie di rigore nevrotico, un carattere inesorabile, come se i cartelloni generassero la realta, e naturalmente non poté fare a meno di pensare a Marvin. Quando passò vicino all'aeroporto di Newark si rese conto di aver superato tutte le uscite con relative opzioni. Cercò un'uscita tranquilla, rurale e non battuta dai camion, e dopo un po' si ritrovò su una strada asfaltata a due corsie che si snodava incerta tra le canne degli acquitrini. Sentì l'odore aspro di acqua salmastra nell'aria e dopo una curva la strada finì nella ghiaia e tra le erbacce. Brian scese dalla macchina e si arrampicò su un argine terroso. Il vento era abbastanza freddo da fargli lacrimare gli occhi, mentre guardava al di la di uno stretto specchio d'acqua verso un'altura a terrazze sull'altra sponda. Era bruno-rossastra, appiattita in cima, monumentale, illuminata in vetta dalla fiammata del tramonto, e Brian pensò che fosse l'allucinazione di uno di quei cucuzzoli isolati dell'Arizona. Invece era reale, ed era creata dall'uomo, spazzata dal volo roteante dei gabbiani, e Brian capì che poteva essere solo una cosa - la discarica di Fresh Kills a Staten Island. Quello era il motivo del suo viaggio a New York, ed era proprio lì che la mattina dopo aveva appuntamento con i tecnici e i topografi. C'erano migliaia di acri di spazzatura ammonticchiata, terrazzata e segnata dai percorsi dei macchinari, e bulldozer che spingevano ondate di rifiuti sopra il versante in uso. Brian si sentì rinvigorire, guardando la scena. Chiatte che scaricavano, imbarcazioni più veloci che battevano i canali per raccogliere rifiuti alla deriva. Vide una squadra della manutenzione che lavorava ai tubi di scarico in alto sulle terrazze progettate per controllare lo straripamento dell'acqua piovana. Altre figure in maschera e tuta di butilene erano raggruppate alla base della struttura, a ispezionare materiale isolato per stabilirne il contenuto tossico. Era fantascienza e preistoria, spazzatura che arrivava ventiquattr'ore al giorno, centinaia di operai, veicoli con rulli compressori per compattare i rifiuti, trivellatrici che scavavano pozzi per il gas metano, gabbiani che scendevano a picco stridendo, una fila di camion dal muso lungo che risucchiavano i rifiuti sparsi. Immaginò di osservare la costruzione della grande piramide di Giza - solo che questa era venticinque volte pi£ grande, con autobotti che spruzzavano acqua profumata sulle strade circostanti. Per Brian era
una visione ispiratrice. Tutta questa industriosa fatica, questo sforzo delicato per far entrare il massimo dei rifiuti in uno spazio sempre minore. Le torri del World Trade Center erano visibili in lontananza e Brian percep¡ un equilibrio poetico tra quell'idea e questa. Ponti, gallerie, chiatte, rimorchiatori, bacini di carenaggio, navi di container, tutte le grandi opere di trasporto, commercio e collegamento, alla fine erano dirette al culmine di questa struttura. Ed era una cosa organica, perennemente in crescita e mutamento, la cui forma veniva tracciata al computer di giorno in giorno, di ora in ora. In capo a qualche anno sarebbe stata la montagna pi£ alta della costa atlantica tra Boston e Miami. Brian ebbe un attimo di illuminazione. Guardò tutta quella spazzatura in perenne aumento e per la prima volta cap¡ in cosa consistesse il suo lavoro. Non in progettazione o trasporto o riduzione alla fonte. Lui si occupava di comportamento umano, delle abitudini e degli impulsi della gente, dei loro incontrollabili bisogni e innocenti desideri, forse delle loro passioni, sicuramente dei loro eccessi e delle loro debolezze ma anche della loro gentilezza, della loro generosita, e la domanda era come impedire a questo metabolismo di massa di sopraffare l'umanita. La discarica gli mostrava senza mezzi termini come finiva il torrente dei rifiuti, dove sfociavano tutti gli appetiti e le brame, i grevi ripensamenti, le cose che si desideravano ardentemente e poi non si volevano pi£. Brian aveva visto centinaia di discariche ma nessuna altrettanto vasta. S¡, notevole, e inquietante. Sapeva che probabilmente il vento portava il puzzo in ogni sala da pranzo nel raggio di miglia. Chissa se la gente, sentendo un rumore di notte, si chiedeva se la montagna stesse franando, scivolando verso le case, come una creatura onnivora da film dell'orrore che avrebbe tappato porte e finestre? Il vento portò la puzza attraverso il canale. Brian tirò un respiro profondo, si riemp¡ i polmoni. Questa era la sfida che bramava, l'assalto al suo autocompiacimento e al suo vago senso di vergogna. Capire tutto questo. Penetrare questo segreto. La montagna era l¡, esposta, ma nessuno la vedeva o ci pensava, nessuno sapeva della sua esistenza salvo i tecnici, gli operai di squadra e gli abitanti del luogo, un deposito culturale unico, cinque milioni di tonnellate una volta che fossero arrivati alla sommita, l'avessero scolpita e modellata, e nessuno ne parlava eccetto gli uomini e le donne che cercavano di gestirla, e per la prima volta Brian si vide come il membro di una setta esoterica, un ordine di adepti e veggenti, che davano forma al futuro, pianificatori di citta, manager dei rifiuti, tecnici del concime, architetti del paesaggio che un bel giorno avrebbero costruito in quel posto giardini pensili, creato un parco valendosi di ogni tipo di oggetto del desiderio, usato, smarrito ed eroso. I pi£ grandi segreti sono quelli spalancati davanti a noi. Cos¡ aveva detto Marvin Lundy, riempiendogli la testa con quella voce asciutta ed elettrica che sembrava uscire da un'incisione chirurgica alla gola. Il vento portava il lezzo della montagna di rifiuti. Granelli, scintille e squarci di colore facevano capolino nella massa stratificata del terriccio superficiale, pezzi di stoffa residui dell'industria dell'abbigliamento, o forse quella cosa dai colori cangianti è un bikini appartenuto a una segretaria di Queens,
e Brian scopre che può evocare un'infatuazione lampo, lei ha gli occhi scuri e legge rotocalchi, si dipinge le unghie e mangia dentro contenitori di polistirene, lui le da regali, lei gli da preservativi, e tutto finisce qui, giornali, limette di carta, mutandine sexy, dolcemente schiacciato nell'altorilievo dai bulldozer roboanti - pensa alla sua numerosa progenie di spermatozoi con la loro storia di fronte alta in famiglia, sepolti nelle guaine marca Ramses, cadaverini compressi dai rulli al calduccio gi£ in fondo ai rifiuti. Guardò uno stormo di gabbiani che planavano e ne vide altre centinaia arroccati su un pendio, tutti girati dalla stessa parte, immobili, attenti, uniti nella concentrazione, nella loro splendida e vuota natura di uccelli, in attesa del segnale per spiccare il volo. Capitolo quarto Marvin era uscito dalla cantina e strizzava gli occhi nella luce. Guidava la macchina con tenacia, scegliendo una corsia e ostinandosi a rimanerci. Portava un giubbotto scamosciato con la fodera a scacchi perché era quello che aveva sempre indossato quando le foglie incominciavano a cambiare colore. Era il cambio d'abito puntuale, un adattamento al cosmo che dava alla sua vita una parvenza di regolarita. Indossava lo stesso giubbotto da decenni, regalando quello vecchio all'Esercito della Salvezza e comprandone un altro assolutamente identico, un comune giubbotto scamosciato che riusciva a localizzare sulla gruccia di un negozio a cinquanta metri di distanza in una di quelle ampie zone silenziose poco prima della chiusura dove file e file di completi scuri sono schierati come dirigenti d'azienda all'inferno. Portava anche un paio di guanti di latex, precauzione che prendeva ogni volta che andava in citta. Una volta arrivato nel Lower East Side, andò su e gi£ per le strade pi£ d'una volta prima di trovare il parcheggio giusto, in un punto dove la macchina non sarebbe stata rimossa né ammaccata, poi chiuse a chiave la portiera e si scostò per esaminare meglio il risultato della sua manovra e la strada in generale, vecchi mobili venduti a buon mercato e un parcheggio di autocarri in cui ogni centimetro di ogni singolo autocarro era coperto di graffiti. Gli umani di passaggio sembravano permalosi e soli, esseri che nessuno amava. Vide due uomini in sedia a rotelle precipitarsi verso le macchine ferme al semaforo per rimediare qualche spicciolo. Marvin camminava con il suo passo strascicato, un passo chiarificatore, un commento alla letteratura sul passo strascicato. Scese lungo Orchard Street guardando i vestiti in vetrina e sulle bancarelle, miglia e miglia di generi di abbigliamento. Si fermò a leggere le scritte su una collezione di come-si-chiamano, T-shirt, praticamente ogni articolo con una cattiveria scritta sopra, parolacce impubblicabili da che mondo è mondo stampate su magliette in vetrina. Un giovanotto gli si fermò accanto, spilungone e tatuato, con un paio di baffetti tronchi, e lo fissò con sguardo torvo. Marvin sent¡ l'occhiataccia, uno sguardo affilato che gli penetrava dritto nella tempia. Si girò a guardarlo. - Che c'è? Sto guardando la vetrina, - disse. - Se la guardo io vuol dire che devi guardarla anche tu? - Non posso guardare? E perché? E' una vetrina.
- Hai visto che c'ero prima io. Devi guardarla per forza? - Ma come? Allora non posso guardare anch'io? - La sto guardando io. - E' una vetrina pubblica, - disse Marvin. - Vuoi una vetrina? Te la do io la vetrina. - Ma s¡ può sapere cosa succede? - Vuoi guardare? Ti faccio vedere io. Marvin si allontanò, perché cos'altro poteva fare, si allontanò flettendo le dita nei guanti di latex. Vivere era impossibile. Non si poteva camminare per strada mettendo un piede davanti all'altro. Perché sai che succede? Succede che ti ammazzano. Sbucano da una porta e ti tirano una coltellata perché li guardi. Questa è l'ultima novita in fatto di morte e minacce. Tu li guardi e loro ti ammazzano. Incroci il loro sguardo per sbaglio, e questo gli da il diritto di metter fine alla tua vita. Pi£ tardi attraversò Essex Street e trovò il panificio. La cosa che gli piace di pi£ è che tutto il lavoro del retrobottega qui si svolge in pieno negozio, i forni, il tavolone dove vengono mescolati gli ingredienti e dove si preparano i bialy, le focacce alla cipolla, sono proprio l¡ davanti agli occhi, e anche l'uomo in camicia bianca e grembiule con la farina sulle mani e sulle braccia. Marvin rimase colpito dalla potenza del momento, un semplice dramma in una vetrina, il biancore del pane e del lavoro. Pensò che avrebbe potuto restare l¡ tutto il giorno a guardare il fornaio plasmare la massa di pasta. Comprò, per dopo, per sua figlia, le focacce alla cipolla, che erano una cosa da mangiare, ma anche una citta, una religione e una guerra. Camminò fino in fondo alla strada con il sacchetto caldo stretto contro le costole. Passò davanti a un parco giochi con i bambini che sfrecciavano sul campo piegati sulla palla, e mezzo isolato pi£ in la era tutto cinese. Quando aveva ancora lo stomaco, veniva qui con Eleanor. Era il vecchio mistero delle cose cinesi, cibo cotto al vapore dentro i cestelli, verdure che non sapeva identificare, la mente segreta della gente. Si fermò a guardare i pesci vivi che guizzavano dentro vasche rudimentali. Comprò un raviolo fritto e lo addentò, pi£ per il gesto che per il gusto, perché non aveva pi£ il sapore di una volta. Era come un ricordo di cibo, un fantasma di zenzero e trito di erba cipollina. Tornò con passo strascicato alla macchina. Vide i mendicanti in sedia a rotelle con la barba ispida che gareggiavano per arrivare primi a una macchina ferma, il corpo proteso, le mani che lavoravano freneticamente sulle ruote. Era una gara di braccia roteanti, e gli occhi trapassavano il vetro polveroso nella speranza di cogliere lo sguardo della persona al volante. Ma gli automobilisti stornavano gli occhi. Gli automobilisti chiudevano i finestrini in faccia ai lavavetri, ai venditori di fiori e ai ladri di macchine, al solito pazzo immerso nella sua conversazione. Tu li guardi, e loro ti ammazzano. Tornò a casa, teso, chino sul volante. Una ragazza inglese del Somerset, chi l'avrebbe mai detto. Ascoltava l'elegia per pianoforte preferita da Eleanor una volta al mese o gi£ di l¡, e schiacciava il tasto del replay, cos¡ non si fermava mai. Era la voce di lei, quella che udiva in questo periodo dell'anno, a ricordargli di togliere dall'armadio il giubbotto scamosciato. E' ora di mettere il vecchio Mcgregor, Marv. Nella concisa semplicita di quella frase, parola per
parola, c'era tutto il - che cosa? - tutta la profonda dipendenza di due persone che si erano conosciute in tempo di guerra, si erano scambiate una quantita di lettere, alla fine si erano sposate e dopo un po' avevano avuto una bambina, c'era voluto un bello sforzo, due cuori uniti nella consuetudine dei giorni. Lavaggio a secco. Aveva lavato a secco tonnellate di Mcgregor. Quando entrò in casa il telefono stava squillando. Andò in cucina, mise il sacchetto delle focacce sul tavolo, si tolse la giacca, il telefono stava squillando, apr¡ il frigorifero, prese il tonico al sedano e bevve una sorsata dalla bottiglia, adesso era libero di farlo, c'era anche un tornaconto nelle cose. Si tolse i guanti, cos¡ stretti che si opponevano alla separazione, rivoltandoli fino alla parte larga della mano e poi strappandoli via dito per dito, un processo che lo faceva sentire parzialmente artificiale. Poi attraversò la stanza diretto al telefono, un apparecchio bianco a muro con accanto una fotografia del presidente Reagan in posa nello Studio Ovale tra Bobby Thomson e Ralph Branca, e questo era l'unico riferimento al baseball in tutta la casa sopra il seminterrato, una bandiera con le nappe alle spalle. Perché poteva essere una rompipalle, Eleanor, in fatto di bere dalla bottiglia. Il telefono stava squillando. Marvin lo guardò e sollevò il ricevitore, che adesso chiamavano cornetta. Ormai stava vendendo la casa per andare a vivere nel condominio di Clarice, la figlia e il genero su al quarto, il padre gi£ al terzo in un appartamento facile da accudire con le banane che diventavano marroni sul davanzale. Avrebbe fatto la doccia seduto, mentre Clarice e Carl correvano sul tapis roulant di sopra, allenandosi a vivere in eterno. - Chiamo da Phoenix, - disse la voce. - La citta o l'uccello? - Qualche mese fa, un uomo di mia conoscenza. Dieci o undici mesi fa. Le ha fatto una visita. - Non saprei. - Si chiama Brian Glassic. - Non me lo ricorderei nemmeno se mi torturasse. C'è gente che viene qui cinque o sei volte, e se li incontro per la strada, per quello che ne so potrebbero anche essere sacche di indumenti dirette all'aeroporto. La mia testa funziona a modo suo. - Comunque, recentemente mi ha accennato a questa visita. Mi chiedevo cosa potrebbe dirmi della palla da baseball nel baule. Avrebbero bussato alla porta per vedere se stava bene. Lui avrebbe fatto capolino da dietro la tenda della doccia. Tutto a posto, sto bene, tutto a posto. - Allora, vediamo. Lei è un tifoso fedele, pensionato in Arizona, con una valvola cardiaca di dacron, e ha sviluppato un debole per i vecchi tempi. Ha passato la carriera a far fusioni commerciali e cos'altro, acquisizioni. Ha fatto i miliardi ma è ancora insoddisfatto. Vuole un'ultima acquisizione personale, dettata dal cuore. - Brian me l'aveva detto che la cosa poteva prendere questa piega. - Se vuol parlare della palla, prima deve lasciarsi inquadrare. Il fatto è che sono pronto a vendere. Lo sanno tutti. Ricevo telefonate da uomini con la voce impastata. Hanno le gengive imbottite di polimeri. Hanno buchi trapanati nel fianco per deviare gli escrementi. Tornano a casa dall'ospedale eco-dopplerati. Parlo a uomini con bypass quadrupli, con il sangue imbottito di
nitroglicerina, che serve per fabbricare la dinamite. - Non sono pi£ un tifoso. Non seguo le squadre. - Anch'io appartengo ormai alla categoria che deve sottoporsi alle analisi. Il che significa che ho un cancro in metastasi in tanti punti del corpo che ormai il medico mi fa lo sconto di gruppo. Non si preoccupi, non mi aspetto che rida. Sto cercando di farla star male. - Lei è un tifoso dei Dodgers, giusto? - Fin da prima di nascere. - Cresciuto a Brooklyn? - Cresciuto a Brooklyn. Compro il cheesecake nel Bronx e vado nel Lower East Side a fare acquisti. - Un tifoso dei Dodgers. Però ha riprodotto il tabellone segnapunti del Polo Grounds, nel suo seminterrato. - Per ricordarmelo, - disse Marvin. - O per prepararmi. Non so quale delle due. - Non sono in pensione. E non ho fatto i miliardi. E non so esattamente perché voglio comprare la palla. Ottimo. A Marvin questo piacque. Era bello parlare con qualcuno a cui non battesse il cuore per i vecchi Giants o la vecchia New York. Hanno sgabelli acquistabili nelle rivendite di materiale chirurgico da mettere nella doccia per sedersi a lavare le parti del corpo difficili da raggiungere senza cadere e rompersi il femore. Lo aveva visto sul canale del femore, con il sedile anatomico e le gambe antiscivolo. Hanno un canale per ogni parte del corpo. - Mi chiama da chissa dove, - disse Marvin. - E vuole concludere un affare. Ma non sa perché. - Esatto, - disse la voce. Ottimo. Perché questa era stata la situazione di Marvin per moltissimo tempo. Era stata l'esatta situazione di Marvin. Per anni non aveva capito perché stesse inseguendo oggetti logori. Tutta quella passione frenetica per una palla da baseball e alla fine aveva capito che era il ricordo di Eleanor, che era un terrore sotto pelle, nel profondo, a spingerlo a raccattare oggetti, ad ammassare beni e scartoffie per opporsi alla forma cupa di una perdita irrimediabile. Quello che ricordava, quello che viveva nella vecchia pelle affumicata del guantone da catcher nel seminterrato era il tocco della sua Eleanor, erano gli occhi di sua moglie, quelli nelle fotografie ovali di uomini con i baffi a manubrio. La condizione della perdita, il fatto, la fattualita nella sua solitaria durata. Era una parola che non avrebbe mai pensato di dover usare, e invece eccola lì, accovacciata per anni nel profondo del cervello, che sbucava fuori a prolungare la perdita. - Ho un tumore a forma di fungo. - S¡. - Il dottore lo chiama massa funghifera. - Non conosco il termine. - Non lo conosco neanch'io. Sul vocabolario non c'è, l'ho cercato su due vocabolari diversi. Quando devono coniarli, i loro termini, significa che ti stanno dicendo addio e tanti saluti. Andavano a Chinatown. Andavano sulla costa del Jersey a mangiare pesce spada preso all'arpione, pi£ saporito perché non muore soffocato nelle reti, con olio d'oliva e capperi, l'ultimo grande piatto di pesce sul pianeta. - Bisogna che le dica una cosa, prima di tutto. Non ho il come-si-chiama completo.
- Il pedigree. - Il pedigree. Non è completo. Cominciò a parlare della palla. Disse che l'avrebbe fatta breve, ma poi la fece lunga. Decise di intrattenere il suo interlocutore, perché no? E proprio mentre si produceva nella solita routine, recitando le vecchie battute di effetto sicuro, vide quello che gli sarebbe capitato. Clarice avrebbe dovuto noleggiare un letto d'ospedale per l'appartamento, con le sponde alte per impedirgli di cadere. Sarebbero arrivati estranei a lavargli i genitali, emigrati dai paesi del canale televisivo dei viaggi, gente che aveva una sua vita di cui lui non riusciva a immaginare un solo minuto. Avrebbe dimenticato come mangiare, come dire parole semplici. Il suo corpo sarebbe rimasto l¡ sdraiato a sforzarsi di mettere insieme gli elementi necessari a tirare un respiro. Il tubo dell'ossigeno nel naso e le banane sul davanzale, le odia quando sono maculate e mollicce. Clarice avrebbe parlato sottovoce, mettendogli una pezza fresca sulla testa nuda. Tutto a posto, sto bene, tutto a posto. Carl con i suoi short bianchi ben stirati e i calzettoni al ginocchio, un agente di cambio camuffato da bambino. - Che ne dice di parlare del prezzo? - disse la voce. La parola per acqua e acqua, ma lui non sarebbe riuscito a dirla. Il corpo dimentica le cose fondamentali. Parlava al telefono con Phoenix, e guardava il suo giubbotto appeso a una seggiola. Andavano sulla costa del Jersey. Facevano l'amore, facevano l'insalata. Questo quando le parole erano sul vocabolario. Quella sera mangiò mezzo melone con acini d'uva ragranellati nella conca ripulita dai semi. Era cos¡ che lo vendevano al supermercato, avvolto in pellicola trasparente. Capitolo quinto Quando la gente racconta storie di ratti, il ratto è sempre enorme. E' un gran pancione di ratto ancor p¡u grosso di un gatto, perché questa è una rima soddisfacente. In queste strade correvano molte leggende sulla popolazione dei ratti, quando Nick Shay stava crescendo. Non che capitasse spesso di vederli, i ratti, pi£ che altro li si sentiva nei muri e gi£ nei cortili, indelebili seminvenzioni che correvano sui tetti al chiaro di luna. Ratti enormi con il manto bruno-topo. C'erano ratti nelle fogne, nei cantieri di demolizione e tra i bidoni di carbone, un fruscio nell'immondizia buttata alla rinfusa nei terreni abbandonati. Scese dal taxi vicino al caseggiato dove viveva sua madre. Questo edificio non c'era trenta o quarant'anni fa, una grande struttura marrone, alta e massiccia, che dava l'impressione di una fortezza palizzate e rampe, telecamere che sporgevano ad angolo dai muri di mattoni. Un tempo qui c'erano case popolari, una schiera di edifici a cinque piani, ed era tra quei casermoni che Nick aveva visto il topo, tutto bagnato, morto stecchito vicino a un mucchio di carbone sul marciapiede. All'epoca aveva nove o dieci anni, e l'episodio gli tornò in mente mentre il taxi si staccava dal marciapiede, in modo particolareggiato e immediato. Era solo un topo morto, ma lo vedeva chiaramente, provando un senso di sovrapposizione, come se una trasparenza dalla forma precisa, ritagliata, lo inserisse nei contorni del momento. Ricordò di aver studiato il corpo senza vita, provando una macabra eccitazione all'idea di essere cos¡ vicino,
tanto vicino da riuscire a intravedere una debole riga rosa lungo la parte inferiore della coda, e il topo era bruno e grigio e rosa e bianco nell'insieme e separatamente, ma anche una certa delusione per le dimensioni - avrebbe dovuto ingrandire il ratto, rimpolpare la sua storia con un'aggiunta di peso e lunghezza, con un po' di bava alla bocca e due occhi giallastri. C'era un uomo in una cabina di plexiglas. Nick firmò un registro e venne introdotto con un ronzio elettrico nell'atrio pieno di bambini, piccoli e piccolissimi, che giocavano, correndo da tutte le parti con voci stridule nello spazio vuoto. Prese l'ascensore per il dodicesimo piano. L'altro ratto era arrivato pi£ tardi, quando aveva gia superato i vent'anni, anche quello di dimensioni ordinarie, del solito marrone spento, ma di dimensioni ordinarie vuol sempre dire piuttosto grosso, quando si parla di ratti. Venne Matt ad aprire la porta, suo fratello Matty, che aveva ancora un aspetto un po' infantile, basso e tarchiato, con tanto di ciuffo, occhiali spessi e capelli tagliati di fresco con una spruzzata di grigio, forse, sulla cucuzza, che sembrava fuori luogo. Ormai doveva avere almeno quarantacinque anni. Non si vedevano da qualche anno ed era solo una coincidenza a farli incontrare quel giorno. Si strinsero la mano scambiandosi il sorriso ironico di due avversari che non possono massacrarsi di botte solo perché il contesto non lo permette. - Dov'è? - chiese Nick. Parlarono della madre, di medicine, di appuntamenti dal dottore, delle solite cose, ma c'era un rigore, nelle domande del fratello maggiore, una puntigliosita, nel suo interessamento, che sconfinava nella sfida. Alla fine Matt disse: - Senti, sta benone, mangia e dorme normalmente. Se vuoi delle informazioni sulle sue funzioni corporali, dovrai chiedergliele di persona. - Ti fermi a dormire? - S¡, per due notti. Tu ti sei completamente dimenticato com'è, Nick. Una notte nel Bronx. Ma era ormai da un bel pezzo che Matty aveva rimpolpato il torace mingherlino, che aveva sviluppato una certa massa nella parte superiore del corpo, acquistando un aspetto piuttosto robusto. Nick disse: - Domattina devo andare nel Jersey, altrimenti l'avrei portata io dal dottore. - Cosa c'è nel Jersey? Rifiuti chimici che mangiano le case della gente? - Faccende personali. - Come sta Marian? - Bene, stanno tutti bene. Bevvero una bibita frizzante e fecero a turno a guardare fuori dalla finestra. C'era una finestra panoramica con un'ampia vista a ovest. El Bronx. C'era gente seduta su sedie a sdraio sul tetto di un motel vicino. Nick sapeva che si trattava di uomini e donne del posto sgusciati sul tetto da un edificio adiacente portandosi dietro le sdraio e i giornali. Sapeva che era solo una cosa estemporanea, frutto di una vivace improvvisazione, ma equivaleva all'apertura di una breccia, un'altra apertura, un altro segno locale di instabilita e di rischio. - L'ho portata allo zoo, - disse Matt. - Lo zoo è praticamente davanti a casa ma è la prima volta in vent'anni che riesco a
portarcela. L'ho dovuta praticamente costringere a uscire dalla porta. - Sei in missione. - Dice che di animali ne vede gia fin troppi alla televisione. Non le interessa vederli in carne e ossa, e non c'è verso di convincerla. - La porterò via da qui, - disse Nick. - Davvero? - La porto a Phoenix. Davvero. Non ha pi£ senso per lei stare qui. - Ha i suoi amici qui. Lo sai. - Lo so? Quanti amici? Quali amici? - A Phoenix, - disse Matt. - Quanti amici? - Non abbiamo fatto un censimento, di recente. Ma se volesse andarsene di qui, saremmo felici di prenderla con noi. - Voi non avete posto. - S¡ che abbiamo posto, - disse Matt. - Dammi retta. Non avete posto. Noi l'abbiamo. E abbiamo anche il clima. - Ah, il clima. - E' importante alla sua eta. - Janet è infermiera. Cos'è, vuoi fare una gara? Janet è infermiera. - Tutto questo è stupido. - Certo che è stupido. Perché lo faremmo altrimenti? - disse Matt. Nick era di nuovo alla finestra. - Cosa ce l'hanno messo a fare un motel in un posto come questo? - Non ne ho idea. - E' una copertura, questo motel, per sesso e droga. Altrimenti cosa ci sta a fare qui? Oppure è per i senzatetto. Un rifugio per i senzatetto. Adesso li mettono nei motel. - A lei piace questo posto, Nick. E' la sua vita, è quello a cui è abituata. Ha la sua chiesa, i suoi negozi, tutte le cose che le sono familiari. E alcuni amici ancora vivi. Chiedile la lista. - Tu non lo sai, ma io s¡. E' una facciata, questo motel, una copertura per qualcos'altro. Nick andò in cucina e incominciò ad aprire gli armadietti. Ispezionò la zona sotto il lavandino. Alcuni bambini scorrazzavano in triciclo nel corridoio. Si versò un'altra bibita e tornò in soggiorno. Dal fondo del corridoio arrivano trilli di campanelli di bicicletta. - Come sta Janet? Tutto bene? - Le hanno tolto un nodulo dall'ascella. - Non lo sapevo. - E' tutto a posto. Adesso sta bene. Anche i bambini stanno bene. - Questi noduli sono dappertutto. Siamo tutti alla ricerca di noduli. - Qualche tempo fa ho letto una cosa sul giornale che mi ha fatto pensare a te, - disse Matt. - Ti ricordi quelle macchine che avevano nei negozi di scarpe? Aggeggi alti, tipo le radio di una volta, ma con una fessura in basso, vicino alla base? - Ges£, certo. Non ci penso da. - Il commesso metteva le scarpe al bambino e poi il bambino infilava i piedi dentro la fessura. - Non ci pensavo da una vita. Hanno smesso di farle. - E il commesso guardava da un visore in cima all'aggeggio,
guardava i piedi dentro le scarpe. - Per controllare se calzavano bene, - disse Nick. - Esattamente. Be', la macchina era un fluoroscopio e quel che faceva era trasmettere raggi x nel piede, attraverso la scarpa. Si chiama trasmissione differenziale e produce un'immagine verdastra. E' un ricordo molto vago, ma ancora lo rammento. Jimmy che ti sta comprando un paio di scarpe e poi mi prende in braccio così posso guardare dentro la macchina e vedere i tuoi piedi nelle scarpe e le tue ossa nei piedi. - La domanda è, Dove sono adesso quelle scarpe? - No. La domanda è, L'hai fatto abbastanza spesso da ricavarne un danno permanente alle ossa? Perché, in sostanza, quello che faceva la macchina era bombardarti i piedi di radiazioni. Sentirono la chiave nella serratura. - I miei piedi sono sanissimi, - disse Nick. - E' un vero sollievo. - Comunque grazie per lo spavento. Un giorno o l'altro ti renderò il favore. Rosemary Shay entrò dalla porta con due sacchetti della spesa, uno per mano, il corpo inclinato verso quello pi£ pesante. Vide Nick e si fermò a guardarlo, gli occhi vivi e indagatori. Lo frugava sempre con sguardi indagatori, alla ricerca di qualcosa, di un segno, di un cambiamento. Lui le andò incontro per aiutarla con i sacchetti. La sua faccia era una ragnatela di rughe, con solchi e pieghe dappertutto e una fitta riga di piccole scanalature sulla pelle incartapecorita sopra la bocca. Le mani erano vecchie, lunghe e segnate dal lavoro, con piccole vene bluastre che lambivano le nocche rugose. Le tolsero di mano i sacchetti, lamentandosi che non permetteva mai a nessuno di aiutarla. La misero in guardia contro gli strappi alla schiena e i collassi per il caldo. Lei li zitt¡ con un piantatela e cominciò a riporre la spesa, con le scatole che passavano da una mano all'altra. Nick l'abbracciò ridendo, e la sent¡ ostinata tra le braccia. Non sarebbe mai riuscito a persuaderla. Mangiarono e parlarono, servendosi abbondanti porzioni di pannocchie arrostite e pomodori enormi che il negoziante teneva nel retrobottega per i clienti speciali, coltivati nel suo orto personale a City Island - il vecchio sapore intenso di pomodoro, estivo, burroso, sanguigno e voluttuoso. - Digli del lavoro, - fece Rosemary. - Non gli interessa. - E' tuo fratello. Diglielo. - Un altro cambiamento di lavoro? - chiese Nick. - S¡. Un istituto di ricerca. - Allora non è un cambiamento. - E' un altro tipo di ricerca. Senza scopo di lucro. Facciamo degli studi per aiutare i paesi del terzo mondo a sviluppare servizi sanitari e strutture bancarie. - Roba da santi. - S¡, - disse Matt contento.- Produciamo carta. Fumiamo la pipa, quelli di noi che fumano. - Un pensatoio, - disse Rosemary. Lasciarono aleggiare l'espressione sopra l'insalata. Di anno in anno, di lavoro in lavoro, Matt stava abbandonando il tipo di ricerca
a cui si era dedicato negli anni Settanta, un lavoro la cui precisa natura sfuggiva a Nick, un lavoro governativo che comportava progetti segreti e postazioni remote. Non che Nick ci tenesse a stargli dietro, era solo strano, ecco tutto, che per una volta fosse il fratello minore quello di poche parole, quello poco incline a rispondere prontamente alle domande. - Mio figlio sta imparando a giocare. Parlo di Jeffrey. - A cosa? - chiese Matt. - Come a cosa? Al tuo gioco, no? - Il mio gioco. - Gioca contro il computer. Il suo computer ha un programma di scacchi con un'opzione di take-back che gli consente di correggere le mosse pi£ stupide. Matt non disse niente. I gatti uscirono dai loro nascondigli. Si acciambellarono intorno alle gambe delle seggiole, inarcarono la schiena, strusciandosi contro le gambe delle persone, ondeggiando nello spazio labirintico la sotto, poi si allontanarono sculettando e sbadigliando, col sedere in aria. - Abbiamo posto per te, - disse Nick alla madre. - Da dove salta fuori questa novita? - Non è una novita. Lo sai benissimo. Aspettavamo solo che tu dicessi che sei pronta. - Be', non lo sono. C'è il dolce. Chi vuole il caffè? Ho il decaffeinato. So che per Matty va bene. Poi raccontò loro una storia di Jimmy, gi£ in citta. La raccontò bevendo il caffè, e i figli l'ascoltarono con quell'intensita condivisa che nessun altro argomento aveva il potere di suscitare, neanche alla lontana. Era ciò che faceva di loro una famiglia, ancora adesso, dopo tutti i silenzi e le distanze - il padre nella sua perduta gloria di allibratore. - E' strano, ma le prime scommesse che prese gliele piazzarono i poliziotti. All'inizio lavorava come assistente idraulico al New Yorker Hotel. Poi venne trasferito all'ufficio sicurezza, dove andavo a trovarlo spesso, ci tenevamo compagnia allora, un grosso ufficio rumoroso nella zona dello scarico merci, e il capo della sicurezza aveva creato uno spazio dove l'allibratore locale poteva venire a fare i conti. Ben presto fece di Jimmy il suo fattorino. A lui piaceva un mondo. Pagava i vincitori e riscuoteva i soldi dai perdenti. Faceva il giro tutti i giorni, coprendo il distretto dei grossisti di abbigliamento, quella era la sua zona. Aveva il passo leggero, e sgusciava via scansando i ragazzi che spingevano rastrelliere cariche di indumenti. Cominciò a fare qualche lavoretto in proprio, a sedere sulle scommesse, si diceva cos¡... sceglieva molto oculatamente, una scommessa qui e una la, e lavorava soprattutto con i poliziotti. Cos¡, da una parte abbiamo quelli della sicurezza e dall'altra quelli della polizia, niente di nuovo sotto il sole, giusto? Poi una volta al mese, un detective, l'uomo delle bustarelle, andava all'autorivendita dei fratelli Solomon a incassare i soldi da distribuire tra i poliziotti del distretto, cos¡ il denaro circolava e tutti erano contenti. I fratelli Solomon controllavano le scommesse in tutta la zona, Arthur e, non mi ricordo il nome dell'altro Solomon, ah s¡, Arthur e Bernie, e insomma, questi due, Arthur e Bernie, indossavano completi bellissimi, avevano un box al Polo Grounds e un sacco di conoscenze tra i giocatori e la gente di
spettacolo, cos¡ alla fine Jimmy riusc¡ ad avere il suo piccolo traffico, onesto e alla luce del giorno, e i Solomon gli davano ottanta dollari alla settimana, questo dopo che tu eri gia nato, disse rivolta a Nick, - e dopo che mi aveva gia lasciata una volta, pi£ un bonus mensile se gli affari andavano bene. Matt disse: - Ma chi impediva che altri interessi si intromettessero nel business delle scommesse? Non potevano certo bastare un paio di rivenditori d'auto, ti pare? Devono aver tirato dentro veri e propri gangster. - Non era necessario. I soldi che pagavano alla polizia garantivano una doppia copertura... pagavano la polizia perché li lasciasse lavorare, ma la pagavano anche perché scoraggiasse la concorrenza. Quando si affacciava la concorrenza, i detective del distretto le piombavano addosso come mastini. - Gangbuster, - disse Matt. - Proprio cos¡. Gangbuster, scacciabande. Che sarebbe poi la storia che volevo raccontare prima di perdermi nei dettagli. La storia degli arresti. La polizia doveva arrestare quegli stessi allibratori che allungavano le bustarelle. Subiva pressioni, quando la gente si lamentava, gli onesti cittadini, sapete, o direttamente dalla giunta municipale. Si chiamavano arresti di comodo. Il sergente si scusava, ti registrava alla stazione di polizia della Trentesima e poi andavi a Centre Street, dove ti aspettava l'avvocato dei Solomon, e l¡ dicevi, Colpevole, giudice, pagavi una multa di venticinque dollari e ricominciavi a lavorare. E il giorno della tua nascita, - disse a Matt, - tuo padre fu arrestato due volte. Fecero confusione, alla stazione. Lo arrestarono la mattina, e quando finalmente lo rilasciarono, prese la metropolitana per il Bronx e venne su all'ospedale dove ero ricoverata per partorire, era una di quelle giornate umide e appiccicose, sapete, e lui entrò nella mia stanza e mi asciugò la fronte, poi mi fece vento con un ruolino delle corse e mi chiese, L'hai gia avuto?, e dopo un po' disse che doveva vedere una persona molto imPortante, e che sarebbe tornato subito, cos¡ andò gi£ in citta e venne arrestato di nuovo, sbirro diverso, stesso sergente dietro la scrivania, non so il giudice, e quando finalmente tornò in ospedale, dopo tutto quell'andirivieni e il caldo e il metrò, era conciato peggio di me, ma non ebbe certo la mia comprensione, ve lo assicuro. - Giornata interessante, - disse Matt. - Era comico, ma non potevamo riderne con nessuno, perché prendere le scommesse era una cosa, ma essere arrestati, no, non era altrettanto accettabile, infatti non ho mai raccontato questa storia prima d'ora. Nick la osservò attentamente, assorbendo ogni suo gesto ed espressione. L'intensita del suo sguardo, che toccava ai figli interpretare - il tormento, il dolore bruciante dietro la disinvoltura del racconto. E la voce che descriveva i fatti, le vocali allungate e un po' smussate, un suono che veniva dalle vecchie strade, ormai passato ai quartieri vicini, e il lieve accento irlandese che scombussolava tutto sbucando da qualche abisso dell'infanzia. Ci fu un rumore per strada, un altoparlante montato su una macchina che bombardava di musica la notte, una macchina tutta rumore, una bomba sonora mobile, e Nick lanciò un'occhiata significativa al fratello, che fece spallucce e sorrise.
- Vuole vederti seduta nel patio, mamma. Il cielo tempestato di stelle. E i cactus al chiaro di luna. - Te lo immagini, io e i cactus? - Nessun rumore per la strada. Laggi£ arrestano la gente per rumori molesti. E se il giardino non è ben curato e pulito, i figli dei vicini non rivolgono la parola ai tuoi. Nick aspettò che sua madre parlasse di nuovo. Si apr¡ a tutto ciò che lei aveva dentro, al passato che non smette mai di succedere, al momento che passa, a ciò che prova quando si gratta il dorso della mano, tirando la pelle per poi grattarla. Cercò di udire il fruscio della sua vita, il ronzio della mosca nella stanza della donna che vive sola. Uno dei gatti gli si strusciò contro la caviglia, il maschio arancione che sua madre aveva raccolto in strada. Se lo scrollò di dosso e versò il caffè per tutti. Sedevano a tavola e parlavano a bassa voce. Rosemary era in camera da letto e i due fratelli si parlavano sopra i piatti, le tazze e il breve gorgoglio del latte versato. - Dove dormi? - Sul sofa, - disse Matt, - e tu? - In Park Avenue South. Al Doral. Sei venuto in macchina? - Ho preso la shuttle. Senti, parliamo seriamente, vuoi davvero portarla laggi£? - Pi£ che mai. - Devi capire che questa donna non ha paura. Fa una vita libera. La gente la conosce. La rispetta. Il quartiere ha ancora una sua vita. - Abbassa la voce. - Abbasso la voce. - Hai visto i corridoi? - chiese Nick. - I corridoi. Questi corridoi? Quali corridoi? Matt preparò una pila di piatti e li portò in cucina. - Dammi retta. Mettiti davanti all'ascensore e guardati intorno. Dai un'occhiata a sinistra, e poi a destra. Cosa vedi? - Non lo so. Cosa vedo? - Vedi il pi£ lungo, il pi£ triste, il pi£ spaventoso, il pi£ deprimente... hai presente quella sensazione? - E' un corridoio, - disse Matt. - E' quella sensazione. Un incubo di stampo stalinista. D'accordo, sto esagerando. - E' un corridoio. E per lo pi£ pieno di bambini. - Abbassa la voce. - Senti, è un classico da parte tua stravolgere gli avvenimenti, credere che siano successi o stiano succedendo in un certo modo. Non è una cosa insolita per te fantasticarci sopra. Nick non riusciva a guardare suo fratello senza provare l'impulso di tirargli un cazzotto in bocca. Per lo stesso motivo di sempre - il padre, non la madre. La profonda discordanza, la vecchia lotta delle volonta, quell'impossibilita di cedere insita nell'idea di fratelli. - Nessuno è venuto a prenderlo, Nicky. Nessuno l'ha portato via. Se n'è andato da solo, sostanzialmente per causa nostra. Non voleva essere un padre. Era gia abbastanza pesante essere un marito, un fardello gravoso, capisci, pieno di obblighi e situazioni cui non sapeva far fronte. Lui era un solitario, per usare un termine romantico, solo che era peggio di cos¡, era di un egocentrismo
patologico, non per vanita o per stupidita, ma per una forma di paura, una mentalita congenita, una ristrettezza di vedute che equivaleva a una forma di paura. Una paura che gli impediva di vedere gli altri se non come ostacoli, piccole forme nebulose che interferivano con la sua solitudine, con la durezza del suo modo di essere. Avrebbe dovuto arruolarsi nella Legione Straniera a vent'anni. Non è che sarei felice di non essere mai nato, ma per dirla onestamente e realisticamente, è questo che avrebbe dovuto fare. - La sai lunga tu. Com'è che la sai cos¡ lunga? - Lei mi racconta delle cose. Mi dice cose che a te non ha mai detto. - Questa non la bevo. Guardami, mentre la racconti. - Non la bevi. - Esatto. - E basta guardarti per capirlo. - Proprio cos¡. Matt stava lavando i piatti, adesso. Faceva scorrere l'acqua piano, in modo da non soffocare le voci, e non si girò a controllare l'occhiata del fratello. - Si era messo nei guai. Uno speculatore aveva speculato sulla sua pelle. Gli aveva piazzato una grossa scommessa contro ogni probabilita. A quel punto Jimmy lavorava in proprio, indipendentemente dai Solomon. Conosco persino il nome del cavallo. - Certo che la sai lunga. Come mai non mi convinci per niente? - E' stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, la pressione insostenibile che l'ha spinto fuori dalla porta. - Aspetta un momento, c'è qualcosa che non quadra qui. Prima se ne va per causa nostra. Poi se ne va perché qualcuno gli piazza una scommessa pesante e lui non può pagare. - Sicuro come l'oro. Jimmy non aveva girato la scommessa a un allibratore in grado di far fronte a somme di quel genere. Forse era una scommessa dell'ultima ora e non aveva avuto il tempo di piazzarla in giro. - E tu sapresti tutto questo e io no? - Lei ti protegge. - Ma guarda. E come mai questa storia del cazzo mi lascia del tutto indifferente? - Non c'è stato nessun dramma con uomini che lo spingevano dentro una macchina e partivano a tutto gas. Aveva un debito che non poteva pagare. Operava su scala ridotta, pagava un fabbricante di bottoni dieci dollari alla settimana perché gli tenesse la contabilita. Trattava cifre basse. - Scusa, ma secondo te questo non sarebbe un invito alla violenza? Il fatto di dovere dei soldi a qualcuno e non poter pagare? In quel tipo di ambiente? - Quale ambiente? L'hai sentita, no? Non avevano bisogno di scagnozzi per costringere la gente a rispettare i patti. - No, avevano gli sbirri. Ma non per questo tipo di situazione. - Lui se n'è andato prima ancora che si creasse, una situazione. Erano anni che stava con un piede fuori dalla porta. Non hai sentito quello che ha detto? L'aveva gia lasciata una volta. Stava solo cercando una scusa per rendere la cosa definitiva. - E cos¡ tu sai tutto questo e io no. Eppure la cosa mi lascia del tutto indifferente. Aiutami un po' a capire come mai.
Matt chiuse il rubinetto e guardò il fratello, che era seduto coi gomiti sul tavolo. - Si è macchiato di un crimine impensabile, per un italiano. Ha abbandonato la sua famiglia. Non hanno neanche la parola, per una cosa del genere. - Non è vero. Non è stato lui ad andarsene. Sono venuti a prenderlo. - Continua pure a crederci, - disse Matt. Riapr¡ il rubinetto, passò la spugna sui piatti e li sciacquò. La macchina tornò, la radiolona a forma di automobile, scatenando un nuovo subbuglio gi£ in strada. Nick si appoggiò pesantemente al tavolo, gli occhi insonnoliti, adesso, le palpebre abbassate e la bocca appena socchiusa in un sorriso senza vita. Sembrava uno che avesse incominciato a bere molte ore prima, col preciso intento di raggiungere un certo livello di abbandono. Nessuno parlò. Matt lavò un piatto e lo asciugò, poi cercò di trovare il posto giusto per riporlo. L'auto si era allontanata, finalmente. Allora Nick si alzò e prese gli ultimi oggetti rimasti sul tavolo per portarli al lavandino. Non camminò, si mosse. Un movimento pesante, scomposto e meditabondo. - Ha la sua chiesa, - disse Matt. - Cosa? - Ha la sua chiesa. Il suo prete. - Le troveremo un'altra chiesa. - Non sara lo stesso. - Non vogliamo che sia lo stesso. Vogliamo che sia diverso. E' proprio questo il punto. Matt gli passò un bicchiere da asciugare. Per un po' lavorarono in silenzio, lavando i piatti e riponendoli, trovando il posto giusto per ogni oggetto. - Come va il business dei rifiuti? - E' in pieno boom. Il business dei rifiuti. Cresce di minuto in minuto. - Non ne dubito. - Non riusciamo a costruire abbastanza discariche, a scavare caverne abbastanza capaci. - Tu ci entri in quei posti? Le vedi da vicino quelle schifezze? - Ci passo accanto in macchina di quando in quando. Controllo da una certa distanza. - E l'odore lo senti? - S¡, mi capita di sentirlo. - E li vedi i topi? Dev'essere il pianeta dei topi. Nick trovò il posto dei piatti da dessert. - Ti ho mai raccontato del topo a casa di quella ragazza? - Non credo, - disse Matt. - Ci pensavo venendo qui. Avevo un appuntamento con una ragazza, per un concerto jazz, per andare a sentire Charles Mingus. A quell'epoca abitavo a Palo Alto, mi sembra, e facevo libri di testo, credo, però ero tornato qui per un congresso. Dovevo avere ventisei anni, e la ragazza era tedesca, una studentessa di filosofia, il classico tipo della futura terrorista, ora che ci penso. Be', andiamo a sentire Mingus da qualche parte in Hudson Street, e lui è la sulla pedana, scuote il suo basso e lancia occhiate torve alla cassa ogni volta che la sente squillare. Non hai idea della stazza di Mingus, era grosso come tre uomini infilati nello stesso vestito. Poi la
accompagno a casa a piedi, attraversando la citta in lungo e in largo, arriviamo fin gi£ in fondo a Manhattan, se Dio vuole, a casa sua, un appartamento nel seminterrato di un vecchio edificio. Bene, nell'attimo stesso in cui entriamo dalla porta lei accende la luce. Ed ecco che compare il topo. Sono l¡ che penso a non so cosa, ma certo il sesso non è estraneo ai miei pensieri, ed ecco che compare questo grosso topo. Lo vedo arrampicarsi direttamente sul muro. Corre su per il muro, un ratto spaventoso, e fa un rumore che mi sembra ancora di sentire, come il sibilo di un cadavere. E la mia bella, il mio appuntamento galante, dice qualcosa in tedesco, arraffa un oggetto dal tavolo e si lancia all'inseguimento del topo. Io resto l¡ immobile. Sono paralizzato dal desiderio congelato. Il desiderio mi si è congelato nei lombi. E la mia bella è partita alla carica e sta attraversando la stanza sulle orme del ratto. Matt mise una tazza bagnata nello strofinaccio che Nick teneva in mano. Nick gli leggeva in faccia il piacere del fratello minore che viene invitato a partecipare all'azione, messo a parte dei dettagli privilegiati di una situazione sfortunata. Un resoconto tanto pi£ sfaccettato, tanto pi£ raro e gradevole quando il narratore permette che la sua integrita di persona seria venga intaccata da un elemento di stupidita, dalla scalogna o da una figuraccia. Tanto pi£ intimo e appetitoso. - Poi il topo corre gi£ dall'altra parte del muro e, zot, schizza nel bagno come un giocattolo attaccato a un cordino, ma infinitamente pi£ veloce. Un ratto fenomenale, grosso e veloce, e la mia bella si lancia all'inseguimento brandendo qualcosa di cui non ho mai appurato la natura. Accende la luce del bagno e schizza dentro. Francamente, mi sento un po' trascurato, ma pazienza, resto dove sono. Cosa ne è della mia seratina galante con musica jazz? penso tra me e me. Sta degenerando in una caccia al topo. Poi lei fa capolino dalla porta. Matt studiava la faccia del fratello, muovendo visibilmente le labbra in sincronia col racconto di Nick, anticipando le parole, cambiando espressione quando lo faceva Nick. - Resto alla larga dal bagno, al massimo della distanza consentita perché si possa ancora dire che sono dentro il perimetro dell'appartamento. Per ogni evenienza, lascio aperta la porta d'ingresso. La mia bella sta battagliando con il topo nella stanza da bagno e continuo a sentire il sibilo nauseabondo della bestia. Poi lei sporge la testa dalla porta e dice, Non riesco a crederci. E' gia la seconda volta che ammazzo questo topo del cazzo! Veleno per topi con tanto di teschio! E adesso si ripresenta! Detto questo, torna dentro e ricomincia la caccia. E io mi sento un verme. Spartire il letto con lei? Non ho neanche il diritto di trovarmi nella stessa citta. Sento il topo correre nella vasca da bagno. Hai mai sentito un topo correre in una vasca da bagno? Be', ti assicuro che è spaventoso! Matt stava soffocando dal divertimento. Si lasciò sfuggire un suono gutturale, una specie di trillo involontario. Nick fin¡ il racconto il topo che sguscia via infilandosi in un buco nel muro, e la serata completamente rovinata. Bevvero un'altra tazza di caffè, poi Matt trovò l'elenco telefonico e chiamò un taxi. Nick si fermò davanti alla finestra del soggiorno. Stava cercando le puttane fasciate di spandex sul tetto del motel. Gli italiani. Se ne stavano seduti sulla veranda con ventagli di
carta e aranciate. Erano un mondo a parte. Dicevano, Chi sta meglio di me? Lei non sarebbe mai riuscita a dirlo. Loro sapevano starsene seduti l¡, dirlo ed essere davvero felici. Tornò indietro di decenni col pensiero. Vide una donna che si faceva vento con una rivista e le parve un'enciclopedia dei venti, il libro di tutti i venti che avessero mai soffiato. La citta drogata di caldo. Cavalli che morivano per la strada. Chi sta meglio di me? Li sent¡ parlare, la fuori. Vuole che vada allo zoo perché gli animali sono veri. Sono animali da zoo, gli ho detto. Animali che vivono nel Bronx. Alla televisione posso vedere gli animali nelle foreste pluviali o nel deserto. E allora quali sono quelli veri e quali quelli finti? E questo lo ha fatto ridere. Sarebbe stato pi£ facile credere di esserselo meritato. Se n'era andato perché lei era senza cuore, era stupida e rabbiosa, era una pessima donna di casa, una cattiva madre, una donna fredda. Ma non riusciva a inventare un intreccio credibile per nessuna di queste scuse. Però era cos¡ dolce la loro intimita, le sue storie sugli scommettitori e la polizia, sussurrate quando erano a letto, vicini, le sue giornate con i grossisti di abbigliamento e i fattorini. La faceva ridere, raccontandole queste storie a notte fonda, notti d'amore, seguite dai suoi sussurri, dopo, sdraiato accanto a lei nel letto, e anche quando era senza il becco di un quattrino le raccontava buffe storie strampalate a notte fonda. Incominciava a scivolare nel sonno, adesso, e recitò un'Ave Maria perché era quello che faceva sempre prima di addormentarsi. Solo che ormai non sapeva pi£ con sicurezza se l'ultima Ave Maria che aveva recitato era quella di ieri sera o di due minuti fa, cos¡ diceva e ridiceva la preghiera perché faceva confusione col tempo e non voleva addormentarsi senza essere sicura. Possedeva pi£ cose materiali della maggior parte delle persone che conosceva, grazie alla prodigalita dei figli. Aveva mobili pi£ belli, un caseggiato pi£ sicuro, dottori a destra e a sinistra. L'avevano convinta ad andare da un ginecologo, e le avevano telefonato a turno, prima Janet e poi Marian, un urra per le donne del mondo! Ma non riusciva ancora a dire, Chi sta meglio di me? Le era toccato l'italiano senza famiglia, il ragazzo che era arrivato all'improvviso, come un'ombra staccata dal muro. All'inizio non le importava, anzi, le piaceva. Non voleva parenti che arrivano con le paste dentro scatole bianche. Le piacevano la sua magrezza, la sua mancanza di affetti. Ma poi aveva cominciato a capire cosa significava. L'unica cosa rimasta dentro il corpo scuro di quell'uomo era un bambino nello spazio vuoto, il ragazzo sfuggente sul punto di esaurire tutta la sua fortuna. Infine si addormentò, ma poi l'auto della musica la svegliò. Sent¡ di nuovo le loro voci, li sent¡ chiudere gli sportelli degli armadietti. Lei non manifestava il suo amore. Lo manifestava ma non abbastanza. Non era brava in questo. Ma in parte era colpa di Jimmy. Pi£ lei lo amava, pi£ lui si spaventava. I suoi occhi tradivano la paura, mentre raccontava le sue storie buffe di notte. Li sent¡ aprire e chiudere gli sportelli degli armadietti. Non avevano mai saputo dove riporre le cose. Perché avrebbero dovuto saperlo adesso? Tonti. Si grattò il dorso della mano, ferocemente, e
recitò un'altra Ave Maria in caso l'ultima che aveva recitato fosse quella della notte prima. Era stata allevata cos¡. Andare a messa, prendersi cura dei genitori, sposare un ragazzo a posto, un gran lavoratore, un ragazzo normale senza grilli per la testa. E le suore dicevano sempre, Tu sei una figlia di Maria e non devi baciarlo. Ma lui non era un ragazzo normale e lei l'aveva baciato. Non sopportava l'idea che Nick potesse aver ragione. Qualcuno era venuto a prenderlo. Questo avrebbe reso Jimmy innocente. Cosa di cui Nick era convinto fin da piccolo. Ma forse l'altra versione era anche peggio, la verita era peggio. Non c'era stata nessuna violenza. Dorm¡ e poi si svegliò. Tese l'orecchio e cap¡ che Nick era uscito e Matty era andato a letto, poi cercò i rumori della strada e pensò agli animali nelle loro gabbie e nei loro habitat, leoni nei pressi di Boston Road che tossivano nella notte. Stavano di nuovo trasmettendo il videotape ma Nick non lo guardava. Era in albergo, davanti alla finestra, a guardare le macchine che passavano in silenzio nella avenue, il traffico rado nel bagliore al sodio dei lampioni. Stava aspettando che il servizio in camera arrivasse con il brandy. Il tassista aveva guidato con la mano sinistra per tutto il tragitto, un dominicano con una camicia impeccabile, il braccio destro allungato sullo schienale del sedile accanto al suo. Aveva raccontato a Nick di tutti quegli omicidŒ di tassisti indipendenti, un fatto regolare negli ultimi tempi, un gioco d'azzardo che si faceva tutte le sere. A Nick non piacevano i gatti. Una volta che l'avesse convinta a dire di s¡, i gatti avrebbero dovuto essere liquidati. Ti derubano e ti ammazzano, oppure ti derubano e ti lasciano vivere, oppure li porti da qualche parte, un buon servizio, aveva detto l'uomo, e ti pagano o non ti pagano. Vivo una vita tranquilla in una casa senza pretese in un quartiere residenziale alla periferia di Phoenix. Una volta che l'avesse convinta a dire di s¡, sarebbero riusciti a passare tutto il tempo che volevano a ricordare insieme. Aveva dato una bella mancia al tassista. Che mancia si da a chi rischia la vita rispondendo a una chiamata? Nick era sicuro di avergli dato una mancia equa, generosa, ma non esagerata, non tanto da fare la figura del provinciale in citta. Guardò lo schermo della tv, dove il nastro si stava avvicinando al punto in cui l'automobilista saluta, un gesto incisivo della mano dalla sommita del volante, e attese che il servizio in camera bussasse alla porta. Capitolo sesto Quando Matty era ancora molto piccolo, suo fratello si sedeva sulla tazza a leggere i giornalini a un pubblico in miniatura, bambini del vicinato dai quattro ai cinque anni in teoria affidati alle cure di un adulto nei paraggi. Matty stava sulla porta pronto a urlare chickie, che era il grido d'allarme, e Nick, seduto sulla tazza a leggere le avventure di Captain Marvel o dei Targeteers, con i pantaloni calati sotto le ginocchia, si produceva in un dialogo vivace, declamava e gesticolava, faceva una voce speciale per i
cattivi e per le donne e un sibilo straziante per le macchine dei gangster che di notte svoltavano l'angolo radenti al marciapiede, spaventando i bambini, a volte, con l'intensita dei suoi modi, e infine interrompendosi per liberare uno stronzo che cadeva sollevando schizzi d'acqua, cadeva con un tonfo, un plop che era il rumore più buffo del mondo, dipingendo sulle facce dei suoi ascoltatori un felice e rispettoso stupore - il massimo della delizia, del brivido, meglio di qualsiasi cosa potesse declamare leggendo le pagine divise in riquadri. Matt attraversò il quartiere per vedere il vecchio edificio al numero 611, e si chiese pigramente chi vivesse nel loro appartamento al terzo piano, adesso, che lingua vi venisse parlata, quante vite dolorose, ma pensò soprattutto al Nick di nove anni accosciato sul suo trono glorioso. Chi altri avrebbe letto loro i giornalini, recitando quei drammi vibranti di vili marrani e baldanzosi eroi? Andò a trovare Bronzini, il suo vecchio maestro di scacchi, un uomo dal carattere dolce, istruttore suo malgrado. Ormai confinato in un caseggiato triste con l'atrio macchiato di umori metropolitani vernice spray, piscio, saliva, chiazze di una sostanza scura che probabilmente era sangue. L'ascensore non funzionava e Matt dovette salire a piedi cinque piani. Nel corridoio il sandalo di un bambino. Bussò e attese. Intuì un occhio dall'altra parte dello spioncino e pensò alla sua strada e alla sua casa, alla vita nell'agglomerato residenziale dell'industria dei computer, quell'enclave compatta, vicina al casello dell'autostrada, situata in modo da scoraggiare l'entrata, e al negozio d'angolo che vendeva undici tipi di croissant e ventisette di caffè, e chissa come ancora non bastavano, e alla vita che faceva prima, alle armi che aveva ideato e aiutato a perfezionare, all'esperienza del deserto, tutto così totalmente avulso dalla realta, in confronto a quest'uomo, pensò, dall'altra parte dello spioncino, che vede la rovina crescere tutt'intorno, sullo stesso pianeta in cui è nato. L'uomo aveva il sorriso negli occhi, una calda effervescenza piena di interesse, di desiderio di sapere. Questo era quanto rimaneva, la sua curiosita. Sembrava troppo vecchio, troppo sparuto, la faccia un rozzo rettangolo, una riproduzione inadeguata delle fattezze originarie, un Bronzini scarnificato e riempito di ombreggiature. Un'ispida barba grigia di due giorni circondava i baffi incolti, e Matt pensò che l'uomo si era aggrappato alla vecchiaia, l'aveva abbracciata con una specie di temerario consenso. - Niente signore, ti prego. Chiamami Albert e basta. Ti trovo proprio bene, sai. Robusto, il che mi sorprende. Ti ricordavo magro come un fiammifero. Un fiammifero dalla capocchia incendiaria. Evidentemente si era dimenticato gli incontri più recenti. Si sedettero a un tavolo vicino alla finestra a bere tè caldo. Bronzini adesso viveva con la sorella, che non si era mai sposata, che restava seduta in camera sua e parlava per cantilene, disse Bronzini, di contenuto informativo ridotto. Una tale fatica! Ma dopo che aveva imparato a sopportare pazientemente le ripetizioni e le riduzioni della sorella, aveva cominciato a trovare la sua presenza fonte di enorme conforto. Un riposo, disse, dalla propria verbosita interiore. - A volte prendo il treno e vado giù nel Village, - disse Bronzini.- C'è un circolo di scacchi e anche un caffè, nel Village, e faccio un paio di partite. Perdo, ma non me la prendo. Oppure gioco qua fuori, nel parco giochi, con un vicino. Dividiamo una panchina, e
loro ci lasciano in pace, i ragazzini. - Io non gioco più, - disse Matt, con voce totalmente inespressiva. - Ricordo che non sapevo cosa pensare di tuo padre. Ti aveva insegnato le mosse, ma chissa se era un giocatore serio, mi chiedevo. Non lo conoscevo abbastanza bene da parlare con lui dell'argomento, di qualsiasi argomento, in effetti. Non era un uomo che incoraggiasse le domande, diciamolo pure. Gli occhi frizzarono come acqua effervescente. - Mi ha insegnato parecchio. Ci allenavamo sulle aperture e facevamo un sacco di partite. Partite lampo, per divertimento. Le chiamava il treno rapido. Quando suo padre era uscito a comprare le sigarette, Matt stava finendo la prima elementare. Aveva trovato un manuale degli scacchi che Jimmy teneva in un cassettone. Era stata una scoperta fondamentale. Aveva studiato il libro da cima a fondo e si era messo davanti alla scacchiera, a provare una mossa dopo l'altra. Suo fratello entrava nella stanza, rovesciava i pezzi sulla scacchiera e usciva dalla porta senza dire una parola. Matt raccoglieva i pezzi e li rimetteva sulla scacchiera esattamente allo stesso posto di prima. Studiava la difesa dei neri, e suo fratello entrava in camera, rovesciava i pezzi sulla scacchiera e usciva di nuovo. - Tua madre mi supplicava di tenerti, ma tu eri un problema, disse Bronzini. - Avevo bisogno di aiuto per cavarmela con te. - Ero un bambino difficile, eh? - Sì, eri volubile, e non ci pensavi un momento a scartare i miei consigli. Naturalmente tu vedevi cose che a me sfuggivano. Avevi grandi capacita e intuito. Per me era esilarante, ma anche umiliante. Mi mancava il tocco del grande giocatore. - Come squadra forse eravamo debolucci. Però siamo riusciti a durare qualche anno. Abbiamo assaporato la gloria, Albert. In tutta franchezza non mi piaceva quel bambino. Non mi piace pensare a lui. - Ogni tanto studio teoria. Leggo qualcosa sulla storia del gioco. La personalita del gioco. E' un gioco estremamente ostile. - Sono arrivato a odiarne il linguaggio, - disse Matt. - A scacchi, l'avversario lo schiacci. Non è che vinci o perdi. Lo schiacci. Lo annienti. Lo spogli della sua dignita, della sua virilita o femminilita, lo distruggi, lo smascheri pubblicamente come un essere inferiore. E poi godi alla faccia sua. Tutte le cose che mi davano un piacere così scoperto, ho incominciato a odiarle. - Perché hai incominciato a perdere. Era vero, naturalmente, e Matt rise. Tutto quel potere concentrato, la vita implosiva della scacchiera, bianca e nera, la bellezza autocratica della vittoria, la vampata di orgoglio che ti gonfiava il petto, impossibile da nascondere - aveva sconfitto uomini, ragazzi, vecchi e saggi, vigorosi e veloci, i poeti bohémien da caffè, cordiali e puzzolenti. Ma poi, a dieci o undici anni, aveva visto la propria perspicacia annebbiarsi, aveva subito qualche sconfitta, aveva sofferto consistenti rovesci che gli provocavano nausea e spossatezza. - La competizione cambiò. Ti trovammo avversari più validi con cui giocare. - E io mi afflosciai. - La tua evoluzione urtò contro un muro. No, non proprio. Ma cessò di crescere esponenzialmente. Matt guardò il parco giochi, sorpreso dalla desolazione, il campo
di palla canestro vuoto e costellato di buche, con un solo tabellone ancora in piedi. Direttamente sotto di lui, il vecchio campo di bocce infestato dalle erbacce. Un deserto. Più su, al secondo livello, il campo di softball vuoto, con l'asfalto arroventato, un'indolenza greve d'afa, la superficie scura tutta un baluginio di vetri rotti, e due o tre uomini, li vedeva solo adesso, fermi vicino alla recinzione dell'area sinistra del campo, in pose ferali, come personaggi da spaghetti western, smilzi, senza nome, la barba incolta - pensò che non dovevano avere dimestichezza con il linguaggio della speranza. - Sono andato un po' in giro, - disse. - E' una cosa complicata. Mi sorprendo a sforzarmi di non cadere nella reazione standard. - Non vuoi restare sconvolto. Non sai a chi dare la colpa. Ma sei andato nelle vecchie strade. - Sì. - Hai visto il tuo caseggiato. Lo squallore che lo circonda. Il terreno abbandonato cintato con il filo spinato. - Sì. - E gli uomini. Chi sono quegli uomini che ciondolano senza scopo? Poveracci. Uno spettacolo sconvolgente. - Sì, è così, - disse Matt. - E queste erano le tue strade. E' uno strano rito di passaggio, vero? Visitare i vecchi posti. Prima ti chiedi come hai fatto a vivere senza lamentarti in una situazione così angusta. Le strade sono più strette, gli edifici più piccoli di quanto li ricordassi. E' come far ritorno a Lilliput. E pensa alle stanze. Pensa a quel bagno piccolo piccolo, condiviso da tutta la famiglia, dai nonni allo zio detto u' pazz' (*). Ma cos'altro vedi? Questa gente di cui ti accorgi a malapena. Come fai a vederli chiaramente? Non puoi. - No. Non posso. - E vorresti chiedermi come mai sono ancora qui. Ne parliamo, con tua madre, quando la incontro al mercato. Non vogliamo saperne di piangere la morte delle vecchie strade. Abbiamo fatto la nostra scelta. Ci lamentiamo, ma non portiamo il lutto, non mostriamo dolore. Ci sono cose qui, c'è gente che da prova delle più alte qualita umane, senza che nessuno se ne accorga, perché chi viene qui a vedere? E poi sono troppo radicato per andarmene. Parlo solo per me, intendiamoci. Sono troppo radicato, troppo limitato. La mia mente è aperta assolutamente a tutto, ma la mia vita no. Non voglio cambiare. Sono un vecchio stoico romano. Del resto sono sempre stato troppo vecchio, troppo limitato. Klara mi attaccava per questo. No, non è che mi attaccasse. Mi sgridava, mi incitava a vedere le cose in modo diverso. - La vedi ancora? - No. Va' in Arthur Avenue, Matty. Guarda i negozi, la gente che fa la spesa, la gente che pesa il pesce e taglia la carne. Ti rinfranchera lo spirito. L'altro giorno ho portato tua madre alla macelleria suina per farle vedere il soffitto. Centinaia di salami appesi, una tale abbondanza, una pienezza, il posto traboccava di odori e testure, il soffitto completamente coperto. Ho detto, guarda, Rosemary. Una cattedrale gotica di carne di porco. Si strinsero la mano sulla porta. - Una volta portavi gli occhiali, Albert. - Non è che ne avessi assolutamente bisogno. Mi servivano solo un po'. Facevano parte del mio armamentario da professore. Erano la mia bardatura. Prendi l'ascensore.
- Non funziona. - Non funziona. Allora immagino che dovrai scendere a piedi. Ma non attardarti, - disse Bronzini, con un luccichio negli occhi, - I boschi sono pieni di pericoli. Matt andò a fare la spesa per la cena e tornò a casa di sua madre puntando verso l'angolo occidentale dello zoo. Sopra le cime degli alberi vide il residuo della scia di condensazione di un jet, il vapore che stava scomparendo, incominciava a disperdersi e a sfrangiarsi, e naturalmente pensò al deserto, alla gittata e alla traiettoria delle armi, e a come, nel cielo, le tracce di condensazione fossero l'unico segno di attivita umana, per quel che era dato di vedere a lui, a un ragazzo di citta venuto a campeggiare nel territorio selvaggio, portandosi dietro ansie e travagli dello spirito, e le esplosioni del muro del suono schiaffeggiarono il cielo mentre il vapore formava una scia di ghiaccio nella volta celeste. Stavano di nuovo trasmettendo il nastro. Il televisore era acceso nella stanza vuota e stavano trasmettendo il video, mostrando la vittima al volante, il malcapitato sulla Dodge di media cilindrata, ancora una volta vivo nella luce del sole - lo stavano trasmettendo per l'ennesima volta. Matt entrò, sorpreso di trovare il televisore acceso, e si sedette sullo sgabello vicino allo schermo. Quando il nastro andava in onda, non riusciva a non guardarlo. Quando non andava in onda, non ci pensava mai. Poi, mentre era in fila al supermercato giù a casa, eccolo di nuovo sui monitor installati nel negozio per tenere i clienti occupati alle casse - nove monitor, dieci monitor, tutti con le immagini del videotape. Ma questa volta c'era qualcosa di diverso. C'era una voce fuori campo, appena percettibile, e Matt si guardò intorno alla ricerca del telecomando. Diede due colpetti al pulsante per alzare il volume, e la voce, che adesso si udiva chiaramente, era in qualche modo coerente con il video. La voce era nuda, come il videotape. La voce di un uomo, piatta e nuda, che diceva qualcosa a proposito del clima. Apparve una riga di parole in sovrimpressione nella parte inferiore del nastro. Voce dal vivo del Texas Highway Killer. La voce stava chiedendo che tempo faceva ad Atlanta. Ci fu uno stacco dal videotape all'immagine in diretta di un viso sopra una scrivania, una donna con i capelli rossi e gli occhi di un verde incredibile. La anchorwoman. La anchorwoman stava dicendo all'interlocutore che il servizio meteorologico prevedeva pioggia. Poi disse: - Chiaramente la voce che stiamo sentendo al telefono non è la vera voce di chi parla. E' una voce contraffatta. E la voce disse: - Be', è un apparecchio che altera il suono. E' un aggeggio di poco più di dieci centimetri per sei e quando lo si attacca alla cornetta rende la voce di chi parla difficile da identificare. Allora la donna disse: - Dunque, per ricapitolare. Stiamo ricevendo la telefonata di un individuo che si è qualificato come il Texas Highway Killer. Ci ha fornito informazioni note soltanto al vero assassino e alle autorita. Abbiamo controllato queste informazioni con le autorita, per verificare le credenziali del nostro interlocutore. Poi chiese qualcosa all'interlocutore circa il motivo della sua
chiamata. Matt la guardò, ipnotizzato. Quegli occhi erano una meraviglia, come il verde al largo di una costa vista dall'aereo. La voce disse: - Il motivo per cui sto chiamando è per dire come stanno le cose. La gente scrive e trasmette cose che non so proprio dove siano andati a pescarle. Ho l'impressione che la mia situazione sia stata confusa con il profilo di altri cento individui dei file del crimine. Continuo a sentir parlare di bassa autostima. Fanno delle gran sviolinate in proposito. Ma, usa la tua testa, Sue Ann. Come si fa a pensare che un individuo che da prova di tanta precisione quando colpisce un bersaglio dentro un veicolo in movimento, guidando con una mano e sparando con l'altra, maneggiando una pistola, ecco dimmi tu come si fa a pensare che uno così non sia consapevole delle proprie capacita? La anchorwoman guardò nella telecamera. Non aveva scelta, ovviamente. La telecamera era puntata su di lei, non sull'interlocutore. Lei era un corpo vivo e lui era solo una voce, o una non voce. Quel suono strano, spersonalizzato, spogliato di ogni definizione e intonazione. Modulato elettronicamente ma non privo di caratteristiche umane, pensò Matt, con una traccia di accento texano. La fatica di parlare, le viscere nude della più semplice espressione. La anchorwoman ascoltava. - Continuo a sentir parlare di traumi mentali per cui un individuo, insomma, per cui la gente non riesce a controllare il proprio comportamento. Passarono di nuovo al videotape. Mostrava l'uomo al volante della Dodge di media cilindrata. - Allora, vediamo di chiarire come stanno le cose. Io non ho avuto nessun trauma alla testa. Ho avuto un'infanzia tipo, insomma, sana, voglio dire. La macchina si avvicina per un momento poi resta indietro. - Perché lo fa? - Cioè cosa? - Perché commette questi omicidŒ? - Be', diciamo che è una bella giornata qui dove sono io, con nuvole sparse, e se questo è un indizio per capire dove mi trovo, allora prendilo come un indizio, e se questo è tutto un gioco, allora prendilo come un gioco. Sullo schermo l'uomo al volante fa il suo piccolo cenno di saluto, un cenno timido e amichevole alla volta della videocamera, del futuro e di tutto il mondo che guarda, agitando rigidamente la mano dalla sommita del volante. - Lo sa, vero, che si dice che uno di questi crimini sia stato commesso da un copycat? Potrebbe dirci qualcosa in proposito? Ecco, adesso si becca la pallottola. Matt non riusciva a guardare il video senza che gli venisse voglia di chiamare Janet. Sbrigati, Janet, ci siamo, fai presto! Facendola infuriare. Con il videotape e con lui. E più lo trasmettevano, più la sua voce si faceva cantilenante. Sbri-gati, che-ci-siamo. Una battuta angosciosa, una battuta con la voce di qualcun altro, uno scherzo che non voleva essere divertente. Janet lo copriva di improperi e diceva basta. Ma non bastava mai. Non bastava mai. - Diciamo che, be', la polizia ha il suo lavoro, e io ho il mio. L'effetto inquietante della macchina che continua ad avanzare, dopo che il guidatore è stato colpito da una revolverata. Si avvicina per
un attimo, poi resta indietro. - Comunque, il termine corretto nel mio caso non è cecchino. Qui non si tratta di un individuo con un fucile di precisione che funziona più o meno a lungo raggio. Qui ci si muove, ci si sposta, e bisogna avvicinarsi alla situazione per quanto è umanamente possibile senza che i due veicoli vengano in contatto, per non lasciare tracce di vernice. Adesso la macchina sta sbandando verso il guardrail. Lo strano suono della voce al telefono, piatta, con un lieve tremito ai bordi, piccole tempeste elettroniche, come se qualcuno stesse cercando di creare un'emissione umana partendo da una serie di dati segmentati e dettagliati. Altro stacco, ed ecco di nuovo la faccia sopra la scrivania. La anchorwoman in diretta. Adesso teneva i gomiti appoggiati sul ripiano, le mani giunte e chiuse sotto il mento. Matt si chiese cosa significasse. Ogni cambiamento di posizione corrispondeva a un cambiamento della situazione notizie. Gli occhi verdi guardavano intensamente dallo schermo. E la voce contraffatta continuava sul fondo, a parlare con quell'intonazione da grafico piatto, adesso l'uomo stava proprio chiacchierando, sicuro di sé, padrone del mezzo, del format, e la anchorwoman ascoltava, perché non aveva scelta, e tutti la guardavano mentre ascoltava. La guardavano a Murmansk nella nebbia. La voce disse: - Spero che questa chiacchierata sia servita a capire meglio la situazione. Per me, quando ho fatto la richiesta di parlare solo con Sue Ann Corcoran, faccia a faccia, be' è stata una cosa intenzionale da parte mia. Ho visto l'intervista che hai fatto, sai, quella dove affermavi che ti sarebbe piaciuto continuare la tua carriera anche quando, almeno così speravi, avessi messo su famiglia, e secondo me questa è una cosa di cui la superstazione deve assumersi la responsabilita, deve conservarti il posto, chiaro, perché non bisogna penalizzare gli individui per le scelte importanti che fanno, per il loro stile di vita. Passarono di nuovo al nastro. Mostrava l'uomo al volante di una Dodge di media cilindrata. Quando sua madre entrò in casa, Matt stava scrostando una padella con uno spazzolino dal manico corto. Lei si fermò a guardarlo. - La consumerai, - gli disse. - Lo facevo sotto le armi. Mi piaceva farlo. Era la cosa migliore della vita militare. - Sì, ma era molto tempo fa. Inoltre la padella è gia pulita. Non so cosa credi di fare, ma comunque, per quanto tu faccia, non riuscirai a pulirla più di così. - Il televisore era acceso, quando sono entrato, - le disse. - Lo lasci acceso normalmente quando esci? - Non normalmente. Ma se dici che era acceso, immagino che lo fosse. Abnormalmente. - Ho sempre creduto che facessi attenzione a queste cose. - Sì, faccio abbastanza attenzione. Ma non sono fanatica, - disse.Stai rovinando l'acciaio. Finirai col fare un buco, a furia di grattare. Matt preparò la cena per tutti e due e tennero il ventilatore acceso perché il condizionatore sembrava funzionare a meta della sua potenza.
- Sono andato laggiù oggi. Un bel po' di costruzioni sono scomparse. Niente è più al suo posto. Parcheggi senza macchine. E' una cosa molto strana. All'improvviso, si vede il profilo dei grattacieli. - Io non ci vado più laggiù, - disse Rosemary. - Bene. Non andarci. - Non mi piace andarci. - Ho dato un'occhiata al 611. - Non voglio vederlo. - Mi pare giusto. Mangia i tuoi asparagi, - disse lui. Sentì tuonare a ovest, la promessa di pioggia in serate soffocanti, uno dei ricordi più lontani. - Sono riuscito a trovare Nick prima che uscisse dall'albergo. Gli ho detto che il dottore ti ha trovata in gran forma. - Non esaltarti adesso. - Mi manderanno i risultati di tutte le analisi. - A te racconta mai niente? - Nick? - Sì. Ti racconta mai niente? - No. - Neanche a me. - Lo ha cancellato, - disse Matt. - Mi chiedo cos'altro poteva fare. - Cos'altro poteva fare? - Non lo so, - disse lei. Per un po' rimasero in silenzio. Due dei gatti uscirono dalla camera da letto. Scivolarono oltre le sedie come pelliccia liquida. - Sono andato a trovare Mr. Bronzini. - Albert. Sembra l'ultima rosa d'estate. Quando l'ho visto gliel'ho detto. Vai dal barbiere. Esce in pantofole. Gliel'ho detto. - E' dimagrito. - Cosa gli ho detto? Stai diventando un vecchio eccentrico. Finirono di mangiare e Matt andò in cucina a prendere la frutta che aveva comprato, un'uva color rubino dagli acini enormi che non avevano subito nessun trattamento per privarli dei semi, e pesche con le foglioline sul gambo. - A che ora vuoi che ti svegli? - Non preoccuparti. - A che ora hai l'aereo? - All'ora in cui arrivo all'aeroporto. - Hai gia l'ok sul biglietto? - Prendo la shuttle. - La shuttle. - Non mi serve il biglietto. - Cos'è la shuttle? - Allora, vado all'aeroporto, salgo sull'aereo e andiamo a Boston. A meno che non salga sull'aereo sbagliato. Nel qual caso, andiamo a Washington. - Dov'ero io quando hanno smesso di usare i biglietti? - Pago sull'aereo. - E se tutti i posti sono prenotati? - Prendo l'aereo successivo. Appena parte un aereo, ce n'è un altro pronto. - Dov'ero io, quando hanno inventato la shuttle? Lo sanno tutti tranne me.
Matt aspettò che lei dicesse qualcosa su quei grappoli d'uva enorme ammonticchiati nella ciotola di ceramica, o che ne mangiasse un chicco, lavato e luccicante. - Che ne dici dell'Arizona? - Cosa c'è da dire? - fece lei. - Non lo so. Cosa ne pensi? Anche l'ultimo gatto uscì dalla camera da letto, il bianco timido, e Matt lo tirò su da terra e se lo mise sulla coscia. - Sempre a scrostare pentole e pignatte. - Era la parte migliore dell'addestramento di base, - disse Matt.Perché era la più civile. - Non so quante notti ho passato senza chiudere occhio quando ti hanno mandato laggiù. - Quante lettere ti ho scritto dicendo che ero tutt'altro che vicino alla zona di combattimento? - Eri nel paese. Vicino abbastanza, per me. - Il paese non è così piccolo. Se sparavano un colpo a Khe Sanh, io non avevo alcuna probabilita di venire ferito, dovunque fossi, comodo e al riparo, a fare il mio lavoro da sgobbone. - Sei stato più fortunato di un sacco di altra gente. - Sei sicura di non volerci andare? - Io resto qui, - disse lei. Erano seduti a tavola, con la frutta in mezzo. Matt sentì la pioggia rimbalzare sui vetri, con un suono calmo e fresco, e guardò sua madre. Lei non le vedeva come un'opera d'arte, le pesche con le foglioline sul gambo. - Domattina vado alla prima messa. - Saluta Dio da parte mia. Ti farò trovare il caffè pronto quando torni. - L'ha cancellato, - disse lei.- Del resto cos'altro poteva fare? Gli diede la buonanotte e si ritirò nella sua stanza. I gatti sparirono mentre Matt preparava il divano. Gira e rigira, l'argomento era sempre Nick. Qualsiasi argomento, polverizzato e setacciato, produceva un Nick da piccolo, o una versione dell'adulto distaccato, o dell'adolescente mezzo matto pronto a picchiare qualcuno. Questi erano i termini della parentela. Rimase al buio ad ascoltare la pioggia. Si sentì piccolo. Si sentì piccolo e sperduto. Sua moglie era piccola. Aveva dei figli più piccoli della media. Non facevano niente al mondo che fosse degno di nota. Erano innocenti. Lui si portava dietro la maledizione dell'innocenza. L'unica cosa che poteva opporre al fratello, alla statura del pericolo e della rabbia, era la realta della sua secondogenitura, la sua mansueta mancanza di colpa. Udì un rumore vicino alla porta. Per un attimo non si mosse. Rimase in ascolto. La pioggia batteva forte adesso, schizzando sui vetri, tempestando la finestra. Sentì di nuovo il rumore e si alzò. Si infilò gli occhiali e guardò attraverso lo spioncino. Aprì lentamente la porta. Guardò il corridoio, lungo e illuminato come una prigione, guardò a destra e a sinistra, file di porte chiuse, mute e immobili, e lui era un uomo adulto a casa di sua madre, impaurito dai rumori in corridoio. NOTE: (*) In italiano nel testo [N'd't'].
Capitolo settimo Quanto è profondo il tempo? Fino a quale punto dobbiamo calarci dentro la vita della materia prima di capire che cos'è il tempo? Il vecchio professore di scienze, Bronzini, avanzava nella neve, sguazzando, trascinandosi allegramente, con la sua scatola di sigari sottobraccio - le forbici, i pettini e la tosatrice elettrica per rifinire la nuca di Eddie. Ci lanciamo nello spazio, sfidiamo lo spazio, stabiliamo la finestra di lancio e decolliamo, facciamo un girotondo intorno al mondo. Ma il tempo ci lega alla carne che invecchia. Non che gli dispiacesse invecchiare. Ma per curiosita, in teoria soltanto, si chiedeva cosa avrebbe scoperto spingendosi più a fondo dentro strutture al di sotto del modello standard, giù sotto il quantum, un milione di miliardi di volte più piccolo del vecchio atomo greco. Cadeva la neve, fiocchi enormi dalle punte stellate, piume bagnate sulle sue ciglia, su cui si posavano per svanire in un soffio. Alzando la testa vide macchine parcheggiate ingobbite e stordite, la strada un deserto, la neve sul dorso della mano - una carezza sulla carne e via. Salì le scale fino all'appartamento di Eddie e suonò il campanello. Niente trilli, né ronzii, né note lamentose in sequenza. Bussò sul rivestimento metallico che copriva la porta e sentì Mercedes avvicinarsi ciabattando. Gli aprì la porta, gridando a Eddie, - Non indovinerai mai chi è. Bronzini le porse la scatola di sigari, Garcia y Vega, sigari di prima qualita dal 1882. Si tolse il berretto a scacchi e glielo porse. Si liberò del cappotto con la cintura che aveva comprato alla Freight Liquidation, dove si va per prezzi di fabbrica, per vestiti e completi difettosi, cardigan rubati per sbaglio durante il trasporto - i ladri credevano di prelevare un carico di sigarette. Le porse il cappotto. Agitò le mani per mostrare l'assenza di guanti. Poi si piegò a sganciare le galosce, scuotendosele dai piedi con un mezzo capogiro per il piegamento. - Guarda, Eddie, ha le pantofole sotto le galosce. Quest'uomo è indescrivibile. Abbracciò donna e cappotto e si spostò in soggiorno fregandosi le mani come se si stesse incamminando su un tappeto persiano verso un fuoco di betulle e un bicchiere di brandy raro. Eddie era lì seduto e sorridente, il vero Eddie Robles che viveva dentro l'impostore, in quella spettrale somiglianza, con l'artrite, l'enfisema, le vene ulcerate sulle gambe, a riposo più o meno da tutto. - Questa mattina mi sono svegliato e ho deciso, - disse Bronzini. - Hai deciso. - E' ora di tagliare i capelli a Eddie. - Con la tormenta. Ti sei svegliato ma non hai guardato fuori dalla finestra. - E' una nevicata dolce. All'antica. Dovresti uscire a fare una passeggiata. - Una passeggiata, - disse Eddie. - Ti rendi conto di quello che dici? Siediti che mi innervosisci. - Non posso tagliarti i capelli da seduto. Dove sono i ferri del mestiere? - Dovrei tagliarli io a te, i capelli. Sei tu quello che ha bisogno di un buon taglio. Dovresti andare in giro con un violino, Albert. - Tu non vuoi più giocare a scacchi con me. Non è rimasto più
nessuno al mondo che io possa sconfiggere a scacchi, anzi umiliare... che io possa umiliare come umilio te. Così ti tocca subire i gesti del barbiere. E' una bellissima nevicata, come ai vecchi tempi. A proposito, Mercedes. Dov'è finita? Il vostro campanello non funziona. Bevvero una cioccolata calda. Quello che voleva Albert era un bel cicchetto da una bottiglia d'importazione. Immaginò il caldo stimolo ammiccante di un goccio di scotch. E poi durava, quello era il bello. Ti dava una botta e poi durava. Una zeppa, un cuneo da mettere sotto la ruota di un veicolo per impedirle di slittare, ecco cos'era anche uno scotch. E anche una linea tracciata per terra, pensò, come in hopscotch, o campana. - Il campanello? Fosse solo il campanello, - disse Mercedes. - Anche l'ascensore, naturalmente. Ma questo lo sapevamo gia. - Sai anche dell'intonaco? - chiese Mercedes. - Tampono le crepe con i giornali. Un giorno troveranno questo posto e capiranno esattamente quando è cominciato il problema, dalla data dei giornali. - Lascialo vivere, - disse Eddie. - Parla di qualcos'altro. - Il mio ascensore sì che è un problema, - disse Bronzini. - Si guasta di continuo. - Quattro piani? - Cinque. - Lascialo vivere, - disse Eddie. - Cinque piani, con il tuo cuore? - Cambia discorso. Mercedes era pesante, incline a gesticolare, ad agitarsi sulla sedia, a sventolare le mani, ma era bravissima a prendersi cura del povero Eddie, l'impostore, l'uomo dolorante, ansimante, con le articolazioni irrigidite. Il vecchio Eddie della metropolitana era un tipo robusto, che vendeva gettoni da una cabina in quella penombra da cinema fitta d'aria viziata e treni cigolanti come vecchi rocchetti dentati, immune al frastuono infernale dell'espresso, e adesso lei lo curava con amore esperto, con cognizione e padronanza, e quando si infuriava per qualcosa Albert avrebbe voluto nascondersi, perché non aveva il coraggio dell'emozione scoperta, delle cose dirette, prese di punta. - Hanno messo il filo spinato per proteggerci dagli spacciatori di droga. Ma vogliamo parlare del problema dell'acqua quando piove? Arriva dritta in casa. Non voglio che l'inverno finisca. Preferisco avere freddo. Preferisco stipare i giornali nelle crepe. Perché quando la neve si scioglie. - Non vedi che è contento? Lascialo vivere, - disse Eddie. Mercedes prese una sedia da cucina su cui far sedere Eddie. Portò la scatola dei sigari e la posò sul tavolo, aperta. Si allontanò e tornò con una salvietta che avvolse intorno al busto del marito allargandogliela sulle ginocchia. Gli legò i due angoli superiori intorno al collo, con un nodo lento, poi lanciò un'occhiata ad Albert, che condivise la sua soddisfazione dedicandosi alle procedure collaterali, alla precisione dei preparativi, cruciale per l'operazione del taglio. Albert tolse gli strumenti dalla scatola di sigari. Li dispose sul tavolo a qualche centimetro di distanza l'uno dall'altro. Il pettine nero, corto e gommato, assottigliato a un'estremita per le basette. Il pettine di tartaruga con il manico e tre denti mancanti, chiamato pettine a rastrello. Il bellissimo paio di forbici, di fattura italiana, in possesso della famiglia da generazioni, una di quelle
cose che saltano fuori tra gli effetti personali dei deceduti e si vedono all'improvviso con occhi nuovi, un utile tesoro, con impugnature di filigrana e uno sperone attaccato a uno degli occhielli, un prolungamento ricurvo per sorreggere il dito medio. Si infila l'indice nell'occhiello e si appoggia il medio all'appendice modellata a questo scopo. Che altro? Il pennello da barba, non necessario. Le forbicine da naso, che provveda da sé al suo naso. La tosatrice elettrica, pesante e nera, Elk Grove, Illinois, la lama ancora un po' inciuffolata dei capelli di Eddie tagliati sei settimane prima. Che altro? Tubetto di olio lubrificante per forbici. Spazzola del five-and-dime, dalle setole morbide. Non aveva idea di come tagliare i capelli. Li aveva tagliati a Eddie parecchie volte, ma non aveva elaborato un metodo. Si interrompeva spesso per studiare l'effetto, tagliuzzando, indietreggiando. Mercedes non era lì a guardare. Lavorava lentamente, tagliuzzando. L'idea era di togliere i capelli dalla testa del soggetto e farli cadere sul pavimento. A quanto pare, Mercedes non riteneva che questa fosse un'operazione cui era tenuta ad assistere. - Sai, adesso hanno questa novita, forse ne hai gia sentito parlare, - disse Eddie. - Si chiama sepoltura spaziale. - Gia mi piace. - Mandano le tue ceneri nello spazio. - Prenotami, - disse Bronzini. - Hanno delle orbite tra cui puoi scegliere. C'è un'orbita intorno all'equatore. Mica male, no? La terra gira e tu con lei. Non tu, le tue ceneri. - C'è una lista d'attesa? - C'è una lista d'attesa. L'ho visto al telegiornale. In più c'è il lancio speciale. Lontanissimo, lassù in alto. - Nello spazio siderale. - Sì, lontanissimo. Tu e le stelle. - Però non si va su da soli. - Si sale con almeno settecento altre ceneri nello stesso lancio. Umani e i loro animali domestici. Se chiami l'agenzia, ti mettono in lista. - E se sei gia morto? - Allora chiamano i tuoi figli. O il tuo avvocato. La cosa importante è il peso delle ceneri. Perché tutto questo costa, indovina un po'? - Come faccio a indovinare? - Indovina, - insistette Eddie. - Senti, fai prima a dirmelo. - Diecimila dollari al chilo. Eddie diede alla frase un tono di inappellabilita carico di cupo piacere. - Un chilo. Quanto peseremo, in cenere, una volta morti? - disse Albert. - Per quello che mi riguarda, mi sembra ragionevole. - A te sembra ragionevole. Ma allora mi rovini la storia. - Un chilo di ceneri, Eddie. Un'intera famiglia, forse. Sepolta nello spazio. Conservata per sempre. - Mi rovini la storia. Albert usò il pettine di tartaruga, occupandosi della parte superiore della testa dell'amico. Pettinava con un gesto ampio, lasciando ricadere i capelli per poi pettinarli di nuovo. Amava quel lavoro. Usò le forbici con parsimonia, in quel punto, perché un
errore sarebbe saltato all'occhio. Passò il pettine dolcemente tra i capelli radi di Eddie. Li sollevò, poi li lasciò ricadere. Mercedes ascoltava la radio in cucina, mentre preparava la cena, o il pranzo, forse. Albert era vago, ultimamente, in fatto di tempo. Un battito del cuore, il pulsare del sangue nel polso, un piede che batteva sul pavimento, questo era tempo discernibile. Sollevò i capelli, poi li lasciò ricadere. - Ti manca la tua cabina, Eddie. - Mi piaceva il mio lavoro. - Lo so che ti piaceva. - Tutti quegli anni e mai una volta. - Che ti abbiano rapinato. - Non ci hanno mai nemmeno provato, - disse. Questo è lo spirito di New York. Eddie Robles con una scacchiera in miniatura che provava le mosse alle due del mattino nella sua cabina, e la gente che faceva capolino allo sportello per proporgli una partita, e lui che accettava, perché giocava, giocava davvero, dietro cinque strati di vetro antiproiettile, con i treni che sfrecciavano vicini nella notte. - Non ho mai pensato oggi è la volta che mi derubano. Non ho mai avuto questo pensiero. E non è mai successo. Mi è successo che una donna mi vomitasse dentro la fessura dei gettoni. Il peggior incidente che mi è capitato, personalmente parlando. Non ho mai pensato a cosa avrei fatto se avessero provato a rapinarmi. La mia psicologia era che se ti ci prepari, poi succede. Mi pianta le mani sul ripiano, e giù vomito. - In piena notte? - C'eravamo solo noi due. Se proprio devi vomitare, dico io, perché non lo fai sulle rotaie? Solo io e lei in tutta la stazione, e quella viene dritta verso la cabina, come se la fessura dei gettoni fosse fatta apposta per questo. Albert attaccò la macchinetta alla presa e tosò la nuca di Eddie. Scese sotto la salvietta e il colletto della camicia per radere i peli che salivano dalle spalle. Ripulì completamente il collo e lo ripassò con la spazzola, poi chiese a Mercedes di portargli del borotalco, l'unica cosa che non aveva nella scatola dei sigari, e prese mentalmente nota di procurarselo per la prossima volta. Sepoltura spaziale. Pensò alle scie di condensazione in quella giornata azzurra lassù sopra l'oceano, due anni prima se non andava errato - e ai razzi ausiliari che volavano via lungo traiettorie divergenti lasciando la terribile lettera Y sospesa nell'aria immota. I vapori erano rimasti intatti per un po', gli astronauti precipitati in mare ma ancora lassù, sepolti nel fumo ghiacciato, e restò sveglio nel cuore della notte, vide quel profondo cielo atlantico e pensò che una morte così era una cosa pulita, un volo esaltante, una trasformazione del corpo tribolato in fumo e fiamme, lassù sopra il mondo, monogrammata, la Y di young, di morire giovani. Non era sicuro che la gente avesse voglia di vedere una cosa come quella. Che fosse disposta ad assistere al fallimento della tecnologia e alla sofferenza umana. Ma com'era possibile che la bellezza, la fede profonda che viene riposta nello spazio, che simili qualita fossero collegate alla morte. Sette, tra uomini e donne. La loro bellezza e la nostra, rivelata in una missione fallita come non ci era stato dato di vederla in centinaia di trionfi. Un'apoteosi.
Sì, quei morti avevano una statura divina, trasformati in scie impalbabili, nell'unico tipo di divinita che lui ci tenesse a riconoscere, poetiche e fugaci. Trovava quest'esperienza ancora più profonda della prima passeggiata sulla luna. Quella era stata eccitante, ma anche un po' artificiale, un'azione fantasmatica, movimenti che sembravano computerizzati, tanto che non era mai riuscito a liquidare del tutto i sospetti dell'élite paranoica, i vecchi gurkha brizzolati, che tutta la faccenda fosse una messa in scena organizzata in un ranch alla periferia di Las Vegas. In primavera erano ancora lì, Albert e Laura. Possibile che sua sorella non fosse stata colpita da una malattia calamitosa? Sempre seduta, a lasciare che il corpo diventasse debole e flaccido, senza camminare, senza vedere nessuno, senza sentire nel sangue il flusso della curiosita e dell'interesse. Ma era contento della sua presenza. C'era sempre stata una donna accanto a lui, almeno una, una donna o una bambina, a dividere il bagno, la cucina e molto tempo prima il letto. Aveva bisogno di questa compagnia. Le donne e la loro celebrazione del tempo, il loro vigoroso senso del futuro. Aveva sposato un'ebrea e l'aveva amata, ma era stato escluso dal futuro di Klara. Si era preso cura di sua madre, una cattolica di antica eloquenza, che si metteva lo scapolare, si faceva il segno della croce e si portava la nocca del pollice alle labbra. L'aveva amata e l'aveva vista morire. Aveva educato sua figlia a costruire il proprio destino, a essere una persona degna al di la dell'obbedienza a riti religiosi, e l'amava, ora lei viveva nel Vermont, moltissimo. E sua sorella, che scivolava dentro e fuori dal passato ma che misteriosamente lo capiva sempre, guardando dritto nel suo cuore disadorno. Lui l'amava per tutte le confuse ragioni per cui si ama una sorella e perché aveva ridotto la propria vita a pochi commenti che trovava commoventi. Aveva un fonografo portatile, di forma elegante, un tempo, design d'avanguardia. Adesso sembrava tozzo e banale ma funzionava ancora, dopo tanti anni. Trovò il disco che stava cercando, lucidò il vinile con un panno speciale e lo appoggiò in bilico sul perno. Saint-Sa‰ns, pezzi per pianoforte, dolci e pensosi, un cambiamento di ritmo dal fastoso tormento delle opere liriche di Bronzini, quella sensazionalita da rotocalco che manda in frantumi le tazzine. Si girò per assicurarsi che Laura fosse lì, informe nella poltrona, la testa appoggiata al coprischienale fatto all'uncinetto, il viso alzato verso la musica. Schiacciò il pulsante e guardò il braccetto sollevarsi e il disco scendere, una discesa ballonzolante verso il piatto. Poi il braccetto si spostò lateralmente e il disco cominciò a girare, e quella serie di azioni laboriosamente collegate, con i loro rumori, le loro pause e traballamenti, con i loro torpidi indugi, parve situarlo in una lontana epoca meccanica insieme all'orologio a pendolo e alle macchine con l'avvio a manovella. La puntina saltò alcune note ma lui ci aveva fatto l'abitudine. Si sedette ai margini della stanza, dove poteva sentire il sole della cucina e guardare la faccia di Laura. La musica li unì in modo discreto. Gli parve di entrare nel sogno a occhi aperti di lei. Riusciva a capirla, a conoscerla, quasi, a sentire la sua innocenza attraverso la musica, a riconoscere la bambina, la spigolosa dodicenne che camminava dietro ai genitori per la strada, riusciva a vederla sulla faccia della triste sorella maggiore, era ancora lì, la
bambina, nelle borse sotto gli occhi, nelle macchie sulla faccia e nei capelli sbiaditi. Ci fu un momento, nel pezzo, dopo passaggi di delicata rievocazione, in cui parve fare il suo ingresso qualcosa di fosco, mentre la sinistra del solista accelerava il tempo, e questo la spinse ad alzare un braccio, lentamente, quasi in un gesto di sgomento, meditabondo e gravido - nelle note basse aveva sentito un cupo presagio che l'aveva spaventata. E questa era l'altra cosa che condividevano, la tristezza e la chiarezza del tempo, il tempo rimpianto nella musica - il modo in cui il suono, le modulate vibrazioni prodotte da martelletti che battevano corde di metallo, provocava in loro uno strano dolore, non per qualcosa di preciso ma per il tempo in sé, la sensazione concreta di un anno o di un'epoca, le testure del tempo non misurato che ormai sfuggivano a entrambi, e lei stornò gli occhi, fissando oltre la mano alzata qualcosa di trasparente che lui pensò di poter chiamare la sua vita. - Devi dirmelo, Albert, quando esci. Così lo so. - Ma te l'ho detto. - Non me lo dici mai. - Sì che te lo dico. - Non so se è perché te lo dimentichi o se hai qualche altro motivo. - Te lo dirò. - Se me lo dici, almeno lo so. - Te lo dirò. Farò di tutto per ricordarmelo. - Ma io me ne dimentico, vero? - A volte, sì. - Tu me lo dici e io me lo dimentico. - A volte. Non è importante. - Però devi dirmelo. - Lo farò. Te lo assicuro. - Così almeno lo so, - disse lei. Il caffè lo beveva nero, il mattino con un filo di whiskey di segale, giusto uno schizzetto, una punta, e il pomeriggio con l'anisette. Una bella botta, una sorsata di essenza di finocchio, e forse ancora un goccino di whiskey, giusto per il sapore, prima di andare a letto, senza caffè questa volta, proibito dal medico, era ovvio, ma proprio un filino, un'idea, la sorsata più rapida nella storia delle bevute colpevoli. -
Devi dirmelo. Così lo so. Te lo dirò. Lo prometto. Così lo so. Così lo sai. Se me lo dici, almeno lo so. Giusto. E' giusto, no? Sì, è giusto. Ma bisogna che tu me lo dica. Solo così posso saperlo.
Pulì il davanzale della finestra di cucina, polvere, peli, teste di mosca, scaglie di intonaco - piccole schegge di pietra. Quando preparavano la cena insieme, lei dava un colpetto alla mano di Albert ogni volta che se lo trovava tra i piedi, una piccola pacca
giurisdizionale sul dorso della mano. Allineò le tre pastiglie sul tavolo davanti al piatto, in ordine di consumo. La pillola per il cuore, la pillola per i peti e la pillola per il fegato. Passava più tempo chiuso in casa, quando c'era gente nei corridoi. Aveva visto una siringa ipodermica sul pianerottolo del secondo piano e adesso c'erano persone nei corridoi, indaffarate e inerti allo stesso tempo, indaffarate nello sguardo ma anche morte nel corpo, capaci a malapena di sollevare una mano. Quando smette di piovere, pensò, se ne andranno al parco giochi o nei terreni abbandonati. E l'ascensore era bloccato tra un piano e l'altro, quindi era comunque meglio se non usciva dall'appartamento perché non era una buona idea per lui salire le scale. Le sfilò gli occhiali dalla faccia, li pulì con un fazzolettino di carta e glieli rimise. E quando uscì loro erano sul pianerottolo a borbottare qualcosa che suonava come Wall Street, e Albert alla fine arrivò alla conclusione che si trattava di un tipo di eroina in vendita, Wall Street, Wall Street, e li sentiva nei corridoi, individui estranei al caseggiato, li sentiva respirare. Le disse che stava chiamando sua figlia Teresa in interurbana. Annunciava ogni telefonata a Laura, per coinvolgerla, le annunciava anche l'ora e le condizioni meteorologiche, e perché gli piaceva fare annunci. Sua figlia dirigeva un asilo nido in una piccola citta e aveva molte spese, due bambini suoi e un marito disastrato che stava cercando di iniziare una nuova carriera, e Albert di tanto in tanto le mandava un po' di soldi, dalla sua pensione di insegnante. Una telefonata interurbana era un gesto che richiedeva premeditazione, e nella sua mente riempiva un arco di tempo molto più vasto della lunghezza della chiamata. Ci organizzava intorno la serata, aspettando l'ora del cambiamento di tariffa, poi mettendo una sedia accanto al telefono e componendo i numeri molto attentamente, con la faccia appiccicata al disco combinatore. Li sentiva respirare nei corridoi e sapeva di avere cibo per due giorni abbondanti, e quando il latte fosse inacidito avrebbe aperto una lattina di pesche e versato i frutti e il succo sciropposo sui cereali della colazione. Duracina, polpa che resta attaccata al nocciolo, come nelle pesche. Li sentiva a tarda notte e sapeva che poteva far durare più a lungo la carne macinata, rinforzare la zuppa di pomodoro con un po' di pasta, e in definitiva quelli non vivevano nel caseggiato e avrebbero trovato un altro posto. Quando sua figlia rispose al telefono, lanciò un'occhiata a Laura in fondo alla stanza e annuì - contatto avvenuto, il secolo del progresso continua la sua marcia. Mele e formaggio, avevano mele e formaggio, questo costituiva un pasto di per sé. Stava riportando un libro in biblioteca, in un'altra primavera o inizio estate, in una giornata mite, e vide una figura familiare attraversare la strada dirigendosi verso il convento che faceva parte della scuola elementare cattolica. Anticamente familiare, una figura sbucata dalla terra del passato. Non pensava che fosse ancora viva, suor Edgar, incredibile, stessa faccia affilata e mani ossute, frettolosa, una gruccia modellata da abiti fruscianti. Indossava la
veste tradizionale con il lungo velo nero, il soggolo bianco e il collare inamidato sul collo e le spalle, un crocifisso di ferro appeso alla vita - avrebbe potuto essere un dettaglio del quadro di un maestro del sedicesimo secolo. La guardò aprire la porta del convento e sparire. Era una suora famosa ai suoi tempi, per il terrore che seminava tra i bambini, scolari di quinta o di sesta, li riempiva di botte, li copriva di insulti, li tratteneva dopo le lezioni, li mandava fuori a sbattere i cancellini sotto la pioggia torrenziale. Non aveva mai scambiato una parola con suor Edgar, ma adesso fu quasi tentato di bussare alla porta del convento e parlarle, scoprire chi fosse dopo tutti quegli anni. Lui era stato fiero di insegnare in una scuola pubblica, e pazienza se la disciplina lasciava a desiderare. Lavorava tra colleghi umani e sentiva spesso parlare di questa suora e delle sue abituali crudelta. Adesso camminava col bastone, che faceva tanto professore emerito. Nella biblioteca locale, che prendeva nome da Enrico Fermi, c'era una fotografia appesa al muro che ritraeva lo scienziato con un modello della prima bomba atomica. Anni addietro Albert si trastullava con l'idea che tra lui e il grande Fermi ci fossero alcune affinita. La malattia nella prima infanzia, il matrimonio con una donna ebrea, la scienza stessa naturalmente, l'eredita culturale - quel tanto di orgoglioso compiacimento per l'origine italiana, solo non così potente nel suo caso, non legato a tanta distruzione. A quell'epoca la biblioteca era un cinema noto ai ragazzi del vicinato come il Mondezzaio per i suoi odori rancidi e la sporcizia. Non dimentichiamoci che alcune cose migliorano, pensò. Adesso c'erano i libri, il silenzio di pile di libri ordinati per decimali. Andò fino al circolo dove talvolta giocava a carte, meno di quanto soleva fare un tempo, e beveva un bicchiere di vino. Alle pareti alcune fotografie dei tempi andati, pescivendoli con grembiule e berretto, camerieri davanti a un ristorante con i capelli divisi da una scriminatura netta, nobilitati dal tempo. Udì la campana della chiesa di Mount Carmel, mezzo isolato più su, e si versò un bicchiere di rosso. Si sedette da solo a un tavolo di formica a esaminare le gambe del vino, i rivoletti di liquido vorticoso che scorrevano lungo l'interno del bicchiere e rivelavano quanto corpo aveva il vino. Questo vino era corposo. Era tutto gambe. Aveva le gambe di un lottatore di sumo. Il videotape stava scorrendo sul televisore nell'angolo. Lui l'aveva visto soltanto una volta, proprio lì, e sapeva che avrebbero continuato a trasmetterlo finché non l'avessero visto tutti gli abitanti del pianeta. Ormai aveva capito che quando ricominciavano a trasmetterlo, dopo un po' che non lo mandavano in onda, significava che l'assassino aveva colpito ancora, e dato che non c'era nessun filmato o nastro del nuovo omicidio, dovevano far vedere il vecchio, e unico, videotape, e l'avrebbero fatto vedere fino alla fine dei giorni. Arrivò Steve, Silvera, uno dei fratelli Silvera, in abito scuro, al volante di un carro funebre. Albert gli chiedeva sempre, chi è morto? - Tu lo bevi, quel vino? - Ho provato a parlargli, ma non funziona, - disse Albert. Siediti a farmi compagnia. - Ho un funerale. - Chi è morto?
- Come-si-chiama, quello del mercato del pesce. - Sepoltura o cremazione? - Oggigiorno li mettono dentro un muro. E' una cosa molto diffusa. - Dentro un loculo, - disse Albert. Quando la campana della chiesa batté un altro tocco, Steve corse fuori. Sporgendosi un po', Albert riuscì a vedere gli altri autisti e i portaferetro spegnere le sigarette e avviarsi su per le scale. Era quasi ora di portar fuori la bara. Un altro pescivendolo, un'altra fotografia che di qui a qualche decennio sembrera l'emblema di una certa nobile innocenza, di dolci tempi andati. Strano come il ricordo cospiri con gli oggetti di fattura umana, appiattendo il tempo, suscitando tenere reminiscenze. Più tardi entrò nella chiesa vuota e si sedette nell'ultimo banco, per restare un momento solo con Eddie Robles. Un piccione attraversò in volo il transetto e si posò sul bordo di una finestra girevole vicino a una fila di candele. Albert ammirava quella vecchia chiesa. Colonne corinzie e santi nelle nicchie. Candele accese dentro vasetti di vetro rosato. Il quartiere cambia, la chiesa rimane la stessa. Nei giorni seguiti alla messa di suffragio per Eddie, Albert era tornato ad accorgersi di come la perdita di un amico, di come qualsiasi perdita fosse un aspetto dell'abbandono di Klara, che ne ripeteva l'impatto, la devastazione. Il piccione era di nuovo per aria, svolazzava in alto, vicino alla cupola. Gli sembrava di ricordare che lo Spirito Santo venisse rappresentato in forma di colomba, giusto? Ogni fantasma è santo, pensò tra sé, ma bisognera che me ne facciate vedere uno prima che mi genufletta. Eppure, gli piaceva starsene seduto lì da solo, a meditare e a piangere il suo lutto in mezzo ai dettagli architettonici, la fede di pietra e legno, di pigmenti mescolati al vetro. Quando Klara l'aveva lasciato, qualcosa si era scatenato dentro di lui, uno sproloquio, una voce inarticolata che suscitava sentimenti così vari e confusi, così mischiati tra loro, così resistenti alla distinzione e allo scrutinio da farlo sentire inerme. Era un ostacolo al vivere. Lo faceva dubitare dell'uomo che avrebbe dovuto essere, l'uomo misurato nelle parole, beneducato, gentilmente riflessivo. Oh quella stronza, e com'era indegno pensare a lei in questi termini. Era stata sua sorella, alla fine, a salvarlo dalla disperazione, un altro tipo di voce, una donna ancorata all'introversione, ma stranamente amorevole. Aveva bisogno di camminare, di sciogliere i muscoli, e uscì in strada. Sì, gente intenta a parlare, a mangiare, clienti fedeli che venivano da altri quartieri, da altre contee, macchine parcheggiate in doppia fila, il fremito coronarico delle strade vicine ancora palpabile. Camminò verso ovest attraversando Arthur Avenue e puntando poi stancamente a nord, un vecchio itinerario ultimamente rinnegato, verso la scuola superiore in cui aveva insegnato per trent'anni. Eddie morto, Mercedes a Portorico ormai. Se smetti di camminare, muori. Nell'imboccare una strada dietro la scuola superiore scoprì con sorpresa che era chiusa al traffico. Una strada riservata al gioco, l'asfalto coperto di disegni geometrici, per i vari giochi, la campana e lo skelly, le basi per lo slapball, che cosa deliziosa. Credeva che la vecchia usanza di chiudere le strade per lasciarle ai giochi dei bambini fosse morta da tempo, da decenni, credeva che
fosse una reliquia mentale della vita non ancora dominata dalle macchine e dai camion. Si fermò a guardare i bambini che giocavano, impugnando il bastone di traverso all'altezza della vita, come aggrappato alla ringhiera dello stadio. Bambini piccoli, veloci e sguscianti, la cadenza giamaicana in alcune delle voci, e una bambina con la pelle screziata, malese forse o dell'India del Sud, stava solo tirando a indovinare, che saltava i riquadri della campana, con attenta abilita, facendo una giravolta a mezz'aria così misurata che i suoi capelli si muovevano appena - pelle bronzea che in alcuni punti era più chiara e in altri più scura, olivastra sotto gli occhi. Avrebbe voluto bloccarla a meta salto, bloccare tutto per mezzo secondo, orologi atomici, orologi corporei, un micromondo in cui i fisici cercavano il tempo - e poi farlo scorrere all'indietro, disfare il salto della bambina, riavvolgere la vita, dando a tutti la possibilita di rifarla. Gli venne in mente la parola inglese per rifarlo, una parola che i bambini solevano gridare quando il gioco veniva interrotto dal raro passaggio di una macchina o da una signora che attraversava la strada con un bimbo sul passeggino. In-do, gridò qualcuno. In-do o hin-du, non ne era completamente certo. La bambina indiana in jeans e scarpe da tennis. Arimortis tocca a me. Ecco cosa diceva il bambino quando aveva una seconda occasione di rifare la cosa che aveva fatto prima dell'interruzione. Batteva un fuoricampo, scalciava la lattina, mandava a bersaglio la biglia sulla pista scavata nella polvere. Arimortis tocca a me. Vide un ambulante che vendeva canna da zucchero da un furgone con la fiancata aperta, manghi dentro cassette di legno e lunghe canne riunite in fasci legati con lo spago. Alcune cose migliorano, pensò Albert. Una biblioteca, una strada per giocare, pungoli al suo ottimismo, da un isolato all'altro. Ma cosa significa ri-farlo? Lui non voleva giocarsi l'anima per un compromesso, per una seconda occasione che lo trasformasse radicalmente. E comunque, in ultima istanza, noi non dipendiamo dal tempo. C'è un equilibrio, una specie di contrappeso fra la continuita del tempo e l'entita umana, il nostro fragile fastello di soma e psiche. Alla fine noi soccombiamo al tempo, è vero, ma il tempo dipende da noi. Ce lo portiamo nei muscoli e nei geni, lo trasmettiamo al prossimo gruppo di creature dotate del fattore tempo, le nostre figlie dagli occhi castani e i figli dalle orecchie a sventola, altrimenti come farebbe il mondo ad andare avanti? A prescindere dai teorici del tempo, da strumentazioni al cesio che misurano la vita e la morte del più piccolo trilionesimo di secondo, Albert era convinto che siamo noi gli unici orologi cruciali, le nostre menti e i nostri corpi, stazioni di servizio per la distribuzione del tempo. Pensaci bene, Einstein, caro omonimo Albert. Girò intorno alla facciata della scuola superiore, con la tentazione di salire sul portico a parlare con i ragazzi e le ragazze - ma, no, non lo conoscevano e non ci tenevano. Allora perché venire qui? Quella tozza pila di arenaria e mattoni conteneva il suo corpus di insegnamento, un milione di parole intrecciate nell'aria tiepida, e non c'era motivo di pensare che lui dovesse passare di nuovo di lì. Uno sguardo documentario per congelare la scena. Fece il giro dell'isolato e si diresse verso casa. In una delle strade vuote s'imbatté in un grosso cane randagio che sembrava malato, tutto costole e chiazze di bava, e si mise a camminare di sghimbescio
cercando di evitarlo. In un allevamento di cani da guardia ce n'è sempre qualcuno che finisce in mezzo alla strada. Il trucco è scansare l'animale senza esternare la propria paura. Festina lente. Affrettati lentamente. Pulì il davanzale con uno straccio umido, ali di mosca, pezzi di mosca, briciole di carapace di scarabei verde bottiglia. Aveva la sua pensione da insegnante, una piccola annualita con tasse rateizzate, e un vecchio libretto di risparmio con gli interessi riportati a gradevoli caratteri ineguali. Le stagioni si fondevano l'una con l'altra, gli anni erano una stordita macchia confusa. Come il tempo sui libri. Il tempo sui libri passa nel giro di una frase, molti mesi e anni. Scrivi una parola, scavalchi un decennio. Non era poi così diverso qui fuori, alla sua eta, nel mondo privo di margini. Mise un disco sul piatto, e Laura, nella sua poltrona, sembrava non tanto ascoltare la musica quanto vederla. Sul pane si poteva fare affidamento. Pane quasi a ogni pasto, pane fresco dal forno di mattoni. Teneva i libri della biblioteca impilati vicino alla scatola del pane per essere sicuro di restituirli entro la data prevista. - Stiamo partendo, Albert? - No. Non stiamo andando in nessun posto. - Me l'ha detto qualcuno, non mi ricordo chi, che saremmo partiti. - Forse andremo ancora a trovare Teresa. Prenderemo l'autobus. E' un viaggio bellissimo. E' l'unico viaggio che faremo. - Mi hai detto che stavi uscendo? - Ti piacera il viaggio. Nel Vermont. Ci andremo quando le foglie cambiano colore. L'autunno ti piace. - Albert. - Cosa? - Se me lo dici, almeno lo so. Stagioni e anni. Laura leggeva i riassunti delle soap opera per star dietro alle vicende dei personaggi televisivi, sebbene il televisore si fosse scassato da tanto tempo che sembrava un'altra vita. La minestra d'orzo borbottava sul fornello. Le si avvicinò e le tolse gli occhiali, li pulì con un fazzolettino di carta e glieli rimise sul naso. Capitolo ottavo La vecchia suora si alzava all'alba, con tutte le giunture doloranti. Si alzava all'alba fin dai suoi giorni da postulante, inginocchiandosi sul pavimento di legno duro a pregare. Prima di tutto alzò gli scuri. Quello era il creato, la fuori, piccole mele verdi e malattie infettive. Poi s'inginocchiò tra le pieghe della camicia da notte bianca, la stoffa lavata e stirata all'infinito, battuta con la saponata fino a diventare cartilaginosa e rigida. Suor Alma Edgar. E il corpo sotto la camicia, quella cosa smilza che si portava dietro nel mondo, bianca come il gesso, e le mani coperte di macchie e vene superficiali, e i capelli rapati a zero, sottili, di un grigio chiarissimo, e gli occhi azzurro-acciaio - molti bambini e bambine di un tempo vedevano quegli occhiacci in sogno. Si fece il segno della croce, mormorando le parole conformi. Amen, una parola antica, che risaliva al greco e all'ebraico. In verita -
la più familiare delle preghiere quotidiane, eppure procurava tre anni d'indulgenza, sette se si intingeva la mano nell'acqua santa prima di farsi il segno della croce. La preghiera è una strategia pratica, la conquista di un vantaggio temporale nei mercati capitali del Peccato e della Remissione. Recitò la sua offerta mattutina e si alzò in piedi. Al lavabo si strofinò ripetutamente le mani con un pezzo di sapone grezzo e scuro. Come si fa a pulire le mani se il sapone non è pulito? Questa era una domanda insistente nella sua vita. Se si pulisce il sapone con la candeggina, con cosa si pulisce poi la bottiglia della candeggina? Se si usa polvere abrasiva sulla bottiglia della candeggina, come si pulisce poi la scatola di Aiax? I germi sono dotati di una personalita precisa. Oggetti diversi ospitano minacce diversamente insidiose. E la domanda gira su se stessa all'infinito. Un'ora dopo indossava velo e veste, e sedeva dalla parte del passeggero su un furgone nero diretto a sud, fuori dalla circoscrizione scolastica e giù oltre il mostro di cemento dell'Expressway, fin dentro strade perdute, uno sciupio di edifici bruciati e di anime abbandonate. Al volante c'era Grace Fahey, una giovane suora in abito secolare. Tutte le suore del convento indossavano semplici gonne e camicette eccetto suor Edgar, che aveva avuto il permesso dalla casa madre di addobbarsi con le vecchie cose dai nomi arcani, soggolo, cingolo, sparato. Sapeva che circolavano storie sul suo passato, sul fatto che faceva roteare il rosario dai grossi chicchi per sbattere la croce di ferro sulla bocca degli allievi, le cose allora erano più semplici. Gli abiti erano stratificati, la vita no. Ma Edgar aveva smesso di picchiare i bambini da anni ormai, ancor prima di diventare troppo vecchia per insegnare, quando il vicinato era cambiato e le facce dei suoi allievi erano diventate più scure. Tutta quella giusta collera l'aveva abbandonata. Come faceva a picchiare un bambino che non era come lei? - Questa vecchia carretta ha bisogno di una messa a punto, - disse Gracie. - Lo senti questo rumore? - Chiedi a Ismael di dare un'occhiata. - Clomp-clomp-clomp-clomp. - E' un esperto. - Posso farlo da sola. Mi servono soltanto gli attrezzi giusti. - Io non sento niente, - disse Edgar. - Clomp-clomp-clomp-clomp? Non lo senti? - Forse sto diventando sorda. - Diventerò sorda io prima di te, sorella. - Guarda, un altro angelo sul Muro. Le donne guardarono la distesa di terreni ingombri di anni di depositi stratificati - l'era della spazzatura domestica, l'era dei detriti da costruzione e delle carrozzerie vandalizzate, l'era della fusione di pezzi di ricambio rubati. Tra gli oggetti buttati via alla rinfusa crescevano piante ed erbacce. C'erano mute di cani, avvistamenti di falchi e gufi. Gli operai del comune venivano periodicamente a fare scavi in loco e se ne stavano guardinghi vicino alle grandi macchine scavatrici, le ruspe color zucca infangata e i bulldozer, come soldati di fanteria accalcati intorno ai carri armati in avanzata. Ma ben presto se ne andavano, se ne andavano sempre lasciando buche scavate a meta, utensili buttati, bicchieri di plastica, pizza alla salsiccia. Le suore guardarono tutto questo.
C'erano ragnatele di insetti, crateri intasati di impianti idraulici e metallo in fogli. C'erano monticelli di copertoni tagliati avvinti da una guarnizione di rampicanti rigogliosi. Al tramonto si levava il canto degli spari dalle basse pareti di costruzioni demolite. Le suore se ne stavano sedute nel furgone a guardare. In fondo c'era una solitaria struttura ancora in piedi, una derelitta casa popolare con il muro denudato nel punto in cui un tempo confinava con un altro edificio. Era su questo muro che Ismael Mu¤oz e la sua banda di scrittori di graffiti dipingevano a spray un angelo commemorativo ogni volta che nel vicinato moriva un bambino. Angeli rosa e azzurri coprivano quasi la meta dell'alto muro. Sotto ogni angelo c'erano il nome e l'eta del bambino, talvolta la causa della morte, o i commenti personali della famiglia, e man mano che il furgone avanzava Edgar poteva leggere, Tbc, Aids, percosse, sparatoria da una macchina in corsa, morbillo, asma, abbandono alla nascita - gettato in una discarica, dimenticato in macchina, in un sacco dell'immondizia in una notte di tempesta. Questa zona veniva chiamata il Muro, in parte per la facciata di graffiti e in parte per il senso di generale esclusione - era un'ansa di terra alla deriva dall'ordine sociale. - Vorrei che la piantassero con questi angeli, - disse Gracie. - E' di pessimo gusto. Gli angeli stanno bene in una chiesa del quattordicesimo secolo. Questo Muro reclamizza tutte le cose che noi stiamo cercando di cambiare. Ismael dovrebbe sottolineare le cose positive. Le villette, gli orti comunitari che la gente coltiva. Basta girare l'angolo per vedere gente normale che va a lavorare, che va a scuola. Negozi e chiese. - La Chiesa Battista della Titanic Power. - Che differenza fa, è sempre una chiesa. Questa zona è piena di chiese. Di gente per bene che lavora. Se proprio vuol dipingere un muro, Ismael dovrebbe rendere omaggio a questa gente. Essere positivo. Edgar rise tra sé e sé in quella sua testa da scheletro. Era il dramma degli angeli che le dava un senso di appartenenza a questo posto. Era la morte terribile che questi angeli rappresentavano. Era il pericolo che gli scrittori affrontavano per produrre i loro graffiti. Non c'erano scale antincendio o finestre, sul muro commemorativo, e gli scrittori dovevano calarsi dal tetto attaccati a una corda, o lavorare su impalcature improvvisate e traballanti, quando facevano un angelo nella parte più bassa. Ismael parlava di un muro di riscontro da dedicare agli autori di graffiti caduti sul campo, ostentando il suo sorriso devastato. - E li fa rosa per le bambine e azzurri per i maschi. Roba da rivoltare lo stomaco, - disse Gracie. Si fermarono al convento dei frati a prendere le provviste da distribuire ai bisognosi. Il convento era una vecchia costruzione di mattoni incuneata tra case popolari dalle finestre sbarrate con le assi. I monaci in saio grigio e cintura di corda lavoravano in un'anticamera, preparando le consegne della giornata. Grace, Edgar e fratello Mike portarono fuori i sacchetti di plastica e li caricarono sul furgone. Mike era un ex vigile del fuoco con una barba alla Brillo e una coda di cavallo arruffata. Sembrava due persone in una, visto da davanti e da dietro. Quando le suore si erano presentate per la prima volta, si era offerto di far loro da guida, come presenza protettrice, ma Edgar aveva declinato fermamente l'offerta. Era
convinta che la veste e il velo fossero una protezione sufficiente. Fuori da queste strade del South Bronx, la gente poteva anche guardarla e pensare che fosse uno strano fenomeno sbucato da un'altra epoca. Ma dentro questo ammasso di detriti era una visione normale, lei e i frati col saio. Quali figure avrebbero potuto essere al passo con i tempi più di queste, addobbate in modo consono a topi e pestilenze? A Edgar piaceva vedere i frati per strada. Visitavano le persone relegate in casa, gestivano un rifugio per i senza tetto, procuravano cibo per gli affamati. Ed erano uomini, in un posto in cui di uomini ne rimanevano pochi. Bande di adolescenti, spacciatori di droga armati - questi erano gli uomini di quelle strade. Chissa dov'erano gli altri, i padri, con una seconda o una terza famiglia, nascosti in camere d'affitto o a dormire sotto i ponti dentro carcasse di frigoriferi, sepolti nella fossa comune di Hart Island. - Sto facendo un elenco delle specie botaniche, - disse fratello Mike. - Ho un libro che mi porto nei terreni abbandonati. - Ti tieni ai margini, vero? - chiese Gracie. - Mi conoscono, in quei posti. - Ti conoscono? I cani ti conoscono? Ci sono cani idrofobi, Mike. - Sono un francescano, okay? Gli uccelli si posano sul mio dito indice. - Resta ai margini, - disse Gracie. - C'è una bambina che vedo sempre, sui dodici anni, e scappa ogni volta che cerco di parlarle. Ho l'impressione che viva nelle rovine. Chiedi un po' in giro. - Lo farò, - disse Gracie. Quando ebbero caricato il furgone, tornarono al Muro a concludere i loro affari con Ismael e a caricare qualcuno della banda che li aiutasse a distribuire il cibo. Ismael aveva squadre di segnalatori di macchine che battevano il vicinato, le strade più desolate e le zone sotto i ponti e i viadotti. Le suore rappresentavano la sua operazione nel North Bronx. Gli fornivano liste con la posizione precisa di macchine abbandonate lungo il Bronx River, una delle più grosse discariche di macchine rubate, automobili prese per il gusto di una scorribanda e poi abbandonate, semismontate, macchine a metano e veicoli da paria della societa. Ismael mandava la sua banda a prelevare le carrozzerie e qualsiasi pezzo ancora intatto. Si servivano di un camion a rimorchio piatto con un argano inaffidabile e la cabina, la plancia e i parafanghi coperti di graffiti che rappresentavano le anime all'inferno. Le carcasse delle macchine venivano portate nei terreni abbandonati perché Ismael le ispezionasse e stabilisse il prezzo, poi venivano spedite nella parte più remota di Brooklyn per l'operazione di sabbiatura del metallo. A volte c'erano quaranta o cinquanta macchine cannibalizzate abbandonate nei terreni vuoti, macchine da museo, un parco di sculture-relitto - macchine fracassate e tempestate di proiettili, senza tettuccio, senza portiere e mangiate dalla ruggine, macchine carbonizzate, macchine rovesciate, macchine con cadaveri avvolti in una tenda da doccia, con i topi che si agitavano nel cassetto del cruscotto. I soldi che Ismael dava alle suore per il loro lavoro di segnalazione andavano al convento dei frati per il cibo. Quando il furgone si avvicinò all'edificio, Edgar si tastò alla ricerca dei guanti di latex che teneva infilati nella cintura.
Gracie parcheggiò il furgone. L'unico veicolo funzionante in vista. Attaccò l'antifurto a ombrello al volante e schiacciò l'asta dentro il lucchetto. Allo stesso tempo Edgar s'infilò a forza i guanti e sentì la solita ambivalenza, il conflitto. Sicura, sì, scientificamente protetta dalla minaccia organica. Ma anche peccaminosamente complice di un processo che capiva soltanto a meta, quella forza nel mondo, quello spiegamento di sistemi che sostituisce la fede religiosa con la paranoia. Era nella sensazione viscido-lattiginosa di questi guanti sintetici, la paura, la sfiducia e l'irragionevolezza. E si sentiva anche mascolinizzata, ricoperta da dieci strati di profilattico - sicura, sì, e forse un po' confusa. Ma il latex qui era necessario. Una protezione contro lo schizzo di sangue o di pus e i virus nascosti all'interno, parassiti submicroscopici con i loro manti proteici bolscevichi. Le suore scesero dal furgone e si avvicinarono all'edificio. Alcuni piani erano occupati dagli abusivi. Edgar non aveva bisogno di vederli per sapere dov'erano. Erano una confraternita di indigenti che sopravviveva senza riscaldamento, luce o acqua. Erano famiglie nucleari con giocattoli e animali domestici, tossicomani che vagabondavano di notte con le Reebok di uomini morti. Sapeva chi erano per assimilazione, per ingestione dei messaggi che bombardavano le strade. Erano quelli che frugavano tra la spazzatura per procacciarsi il cibo, che accumulavano paccottiglia, che riscattavano lattine, gente che caracollava per le carrozze della metropolitana brandendo un bicchiere di carta per l'elemosina. E puttane che prendevano il sole sul tetto quando il tempo era clemente e uomini con avvisi di garanzia per comportamento irresponsabile e indifferenza depravata. E c'erano urlatori dello Spirito, questo lo sapeva per certo - una banda di carismatici che si dimenavano e piangevano all'ultimo piano, farfugliando parole e nonparole, curando ferite da coltello con la preghiera. Ismael aveva il suo quartier generale al terzo piano e le suore si affrettarono su per le scale. Grace aveva la tendenza a girarsi inutilmente a guardare la suora più anziana, che aveva tutte le giunture doloranti ma teneva bene il passo, con la veste che frusciava nella tromba delle scale. - Siringhe sul pianerottolo, - segnalò Gracie. Occhio alle siringhe, scansare le siringhe, facili strumenti di autodistruzione. Gracie non riusciva a capire perché i tossici non badassero a usare un ago pulito. Questa trascuratezza la faceva sbuffare di rabbia. Edgar invece pensava al fascino del rischio, al piccolo morso amoroso di quel pungiglione da libellula. Se si sa di non valere niente, solo la scommessa con la morte può gratificare la vanita. Gracie bussò alla porta. - Non avvicinarti troppo, - disse Edgar. - A chi? - A Ismael. - Perché? - Non sta bene. - L'ho visto tre giorni fa. Io sono stata qui. Tu no, sorella. Come fai a sapere che non sta bene? - Lo sento. - Sta benone, - disse Gracie. - E' un po' che lo sento.
- E cos'è che senti? - Aids, - disse Edgar. Gracie studiò la vecchia Edgar. Guardò i guanti di latex. Guardò la faccia della suora, i lineamenti espressivi, gli occhi lucidi da uccello. Guardò, pensò e non disse niente. Uno dei ragazzi aprì la porta - chiavistelli, lucchetti, paletti d'acciaio. Ismael era scalzo sull'impiantito polveroso con un paio di vecchi pantaloni di cotone arrotolati sopra le caviglie e una camicia stampata a piccoli pappagalli sopra i pantaloni, e fumava un sigaro enorme con l'aria dello spensierato isolano che sguazza felice tra le onde. - Sorelle, cosa avete per me? Edgar pensò che doveva essere giovane nonostante l'aria stagionata, sui trentacinque anni forse - barba rada, sorriso dolce, complicato dai denti guasti. I membri della sua banda sedevano su divani sgangherati, sedie improvvisate, a fumare e a leggere fumetti. Troppo giovani per una cosa, troppo vecchi per l'altra. In cuor suo Edgar sapeva che Ismael aveva l'Aids. Gracie gli porse la lista delle macchine localizzate negli ultimi due giorni. Un elenco completo di ora, luogo, tipo di veicolo e condizioni del medesimo. Ismael disse: - Lavorate bene, voi. Si sbattessero così anche i miei, saremmo gia i padroni del mondo. Edgar naturalmente si tenne a distanza. Guardò la banda, sette ragazzi, quattro ragazze. Graffiti, ignoranza, furtarelli. Parlavano un inglese sgrammaticato, molle e smorzato, carente di suffissi, e lei avrebbe voluto piantare qualche g dura alla fine dei loro gerundi. - Non vi pago oggi, d'accordo? Ho per le mani delle cose che mi serve il capitale. - Quali cose? - chiese Gracie. Retrovirus nel sangue, acronimi nell'aria. Edgar sapeva cosa rappresentava ogni singola lettera. Azidothymidine. Azt. Human Immunodeficiency Virus. Hiv. acquired Immune Deficiency Syndrome. Aids. komitet Gosudarstvennoj Bezopastnosti. Sì, il Kgb faceva parte dello sciame che si moltiplicava, dell'esplosione cellulare che doveva essere distillata e contrassegnata da iniziali per essere vista. - Ho in mente di mettere il riscaldamento e l'elettricita qua dentro. Più un canale pirata via cavo per i Knicks. Lì al Muro molta gente era convinta che fosse il governo a diffondere il virus, il nostro governo. Edgar la sapeva più lunga. C'era il Kgb dietro questa notizia fasulla. Ed era proprio il Kgb, il primo responsabile della malattia stessa, un prodotto della guerra batteriologica - erano loro a fabbricarlo, a diffonderlo attraverso una rete di agenti prezzolati. Edgar aveva smesso di parlare di queste cose con Gracie, che roteava gli occhi fino a sembrare una creatura da fantascienza. Edgar guardò fuori da una finestra e vide qualcuno muoversi tra i pioppi e gli ailanti nella parte più lussureggiante dei terreni ricoperti di detriti. Una bambina con una felpa troppo larga e pantaloni a strisce, che frugava tra le erbacce, forse alla ricerca di qualcosa da mangiare o da indossare. Edgar la guardò, una ragazzina alta e magra dotata di una specie di intelligenza
selvaggia, sicura nei gesti e nel passo - sembrava esausta ma vigile, aveva l'aria di non lavarsi ma di essere in qualche modo assolutamente pulita, pulita come la terra, affamata e svelta. C'era qualcosa in lei che ipnotizzò la suora, un che di incantato, l'impressione di un essere prediletto e solido. Fece segno a Gracie di avvicinarsi. Proprio allora la bambina sgusciò attraverso un ammasso di rottami di macchine, e quando Gracie arrivò alla finestra era ormai soltanto un guizzo tra le basse rovine di una vecchia caserma dei pompieri. - Chi è, - chiese Gracie, - quella bambina che si nasconde la fuori? Ismael lanciò un'occhiata alla sua banda e uno di loro cantò, un ragazzo mingherlino con un paio di jeans dipinti a vernice spray, a torso nudo e con la pelle scura. - Esmeralda. Nessuno sa cosa combina sua madre. Gracie disse: - Potete prenderla e avvertire fratello Mike? - E' molto svelta, la bambina. Mormorio di assenso. - Corre come una matta, quella. Teste che andavano su e giù sopra i fumetti. - Perché sua madre se ne è andata? - E' una tossica. Sono imprevedibili quelli lì. Tutti strada, questi ragazzi. Niente casa o scuola. Edgar avrebbe voluto chiuderli in una stanza con una lavagna e poi riempirgli la testa di ortografia e punteggiatura. Avrebbe voluto bombardarli di lezioni del catechismo di Baltimora. Vero o falso, sì o no, riempire gli spazi. Ismael disse: - Forse va a finire che la madre ritorna. Sentira il tarlo del rimorso. Ma, per dirla tutta, ci sono bambini che se la cavano meglio senza i padri o le madri. Perché i padri o le madri creano solo problemi. - Prendetela e trattenetela, - disse Gracie alla banda. - E' troppo piccola per stare da sola. Fratello Mike dice che ha dodici anni. - Dodici anni non sono così pochi, - disse Ismael. - Uno dei miei scrittori migliori, quello che fa lo stile selvaggio, be', ha undici o dodici anni. Juano. Lo mando giù attaccato a una corda a fare le lettere complicate. Edgar sapeva della carriera precoce di Ismael come maestro di graffiti, una leggenda della pittura spray. Era il famigerato Moonman 157 di quasi vent'anni prima, e aveva raccontato alle suore di aver contrassegnato le carrozze della metropolitana di tutta la citta, con la sua firma che correva su ogni linea, e probabilmente aveva cominciato allora a fare sesso con gli uomini, da adolescente, nei tunnel. Edgar l'aveva capito dalle pause nella sua voce. - Quand'è che avremo i nostri soldi? - chiese Gracie. Ismael si mise a tossire ed Edgar indietreggiò verso la parete più lontana. Sapeva che avrebbe dovuto essere più solidale con lui, ma non era sentimentale in fatto di malattie letali. La morte era solo una versione allargata del mercoledì delle Ceneri. Lei aveva tutte le intenzioni di andare incontro alla propria fine con i sensi intatti, afferrarla, conoscerla finalmente, aprirsi al mistero che altri scambiavano per qualcosa di spaventoso e indicibile. Alla gente del Muro piaceva dire, Quando l'inferno si riempira, i morti cammineranno per strada. Stava succedendo un po' prima del previsto.
- Avrò un po' di soldi, la prossima volta, - disse Ismael. - Non ci ricavo praticamente niente da queste macchine. Il mio margine è molto, molto minimo. Ho in mente che forse posso espandermi fuori dal paese. Non sorprendetevi se i miei scarabocchi finiscono nella Corea, sapete, del Nord. Gracie ci scherzò sopra. Ma non era una cosa che Edgar potesse prendere alla leggera. Era una suora della guerra fredda, che un tempo aveva ricoperto le pareti della sua stanza di carta stagnola per proteggersi dal fallout nucleare. L'infiltrazione furtiva, infida e profonda. Non di meno trovava che la guerra potesse anche essere eccitante. Ancora adesso, le capitava di evocare l'immagine dell'Urss che si frantumava alfabeticamente, le lettere massicce capovolte come statue cirilliche. Scesero verso il furgone, le suore e cinque ragazzi, e si prepararono a distribuire il cibo, iniziando dai casi più disperati nelle case popolari, subito al di la del Muro. Presero gli ascensori e percorsero i lunghi corridoi. Vite sconosciute in ogni stanza dalle pareti di compensato. Suor Grace era convinta che la prova della creativita di Dio si manifestasse con prepotenza nel fatto che non si poteva indovinare, neanche lontanamente, la vita del suo più umile recluso. Parlarono a due donne cieche che vivevano insieme e dividevano un cane guida. Videro un uomo con l'epilessia. Videro bambini con bombole di ossigeno accanto al letto. Videro una donna su una sedia a rotelle che indossava una T-shirt con la scritta “Fuck New York”. Gracie disse che avrebbe senza dubbio barattato i viveri con un po' di eroina, la peggior porcheria disponibile sulla piazza. Il gruppo insistette, arrabbiato. Gracie indurì la mascella, strinse gli occhi pallidi e porse il cibo. Discussero, ma suor Gracie aveva tutti contro. Nemmeno la donna sulla sedia a rotelle pensava che quel cibo le spettasse. Parlarono a un uomo malato di cancro che cercò di baciare le mani guantate di lattice di suor Edgar. Lei indietreggiò rapidamente verso la porta. Videro cinque bambini piccoli accuditi da un altro di dieci anni, tutti ammonticchiati su un letto, e due neonati in una culla di fianco. Scesero lungo i corridoi in fila indiana, una suora in testa e una in coda, ed Edgar pensò a tutti i neonati del limbo, non battezzati, bambini nel semivuoto, e ai nonbambini dell'aborto, una nube cosmica di feti sgozzati che galleggiava negli anelli di Saturno, e ai bambini nati senza sistema immunitario, ai bambini in provetta allevati dal computer, ai bambini tossicodipendenti alla nascita - li vedeva in continuazione, neonati di un chilo e mezzo con dipendenza da crack che assomigliavano a mostriciattoli del folclore contadino. Distribuirono il cibo ed Edgar parlò poco. Era Gracie a parlare. Gracie dava consigli. Edgar era soltanto una presenza, un'aura in bianco-e-nero regolamentare. Scesero lungo i corridoi, tre ragazzi e due ragazze che formavano un corpo unico con le suore, una singola figura ondeggiante con molte parti mobili, e terminarono le loro consegne nel seminterrato di una casa popolare all'interno del Muro, dove la gente pagava l'affitto per certi cubicoli di compensato peggiori di celle carcerarie. Videro una prostituta il cui seno al silicone aveva cominciato a
colare, poi si era rotto e infine un bel giorno era esploso, schizzando polimeri in faccia all'uomo che le stava sopra, e adesso era disoccupata e viveva in una stanza grande come un loculo. Videro un uomo che si era strappato un occhio dall'orbita perché conteneva un simbolo satanico, una stella a cinque punte, e con lui Edgar parlò, si era strappato l'occhio dalla testa e poi aveva tagliato i tessuti connettivi con un coltello, e lei gli parlò in inglese e capì quello che le diceva sebbene lui parlasse una lingua, o un dialetto, che nessuno di loro aveva mai sentito - e infine aveva buttato l'occhio nel gabinetto comune fuori dal suo cubicolo e aveva tirato lo sciacquone. Gracie lasciò i ragazzi davanti al loro caseggiato proprio mentre un autobus accostava al marciapiede. E questo cos'è? Roba da non crederci. Un autobus turistico a colori sgargianti con un cartello sul parabrezza che diceva “South Bronx Surreal”. Il respiro di Gracie si fece affannoso. Una trentina di europei con macchina fotografica appesa al collo scesero timidamente sul marciapiede di fronte ai negozi sbarrati dalle assi e alle fabbriche chiuse e guardarono oltre la strada verso la derelitta casa popolare. Gracie andò su tutte le furie, sporse la testa dal finestrino e si mise a gridare: - Non è surreale. E' reale, è reale. Surreale sara il vostro autobus. Surreali sarete voi. Un frate passò su una bicicletta sgangherata. I turisti lo guardarono pedalare giù per la strada. Ascoltarono Gracie che imprecava alla loro volta. Videro passare un uomo che vendeva girandole a pile, banderuole dai colori vivaci appuntate a bastoncini - un nero attempato con una papalina gialla. Videro la giungla di ailanti e l'ammasso scomposto di macchine massacrate, infine guardarono il Muro, sei piani di angeli dipinti con i pennoni increspati sopra le teste da cherubino. Gracie gridò: - Bruxelles è surreale. Milano è surreale. Questa e roba vera. Il Bronx è reale. Un turista comprò una girandola e risalì sull'autobus. Gracie si allontanò brontolando. In Europa le suore portavano cuffie simili a cabine da spiaggia con il tetto sbalzato. Quella è una cosa surreale, disse. Poco lontano dal Muro si creò un ingorgo. Le due donne rimasero sedute ad aspettare. Guardarono i bambini che tornavano a casa da scuola, mangiando gelati di cocco. Sul marciapiede due tavolini, uno di preservativi gratuiti, l'altro di siringhe gratuite. - Che sia gay te lo concedo. Ma questo non significa che abbia l'Aids. Suor Edgar non disse niente. - D'accordo, questa zona è un disastro per l'Aids. Ma Ismael è un uomo intelligente, attento, sicuro. Suor Edgar guardò fuori dal finestrino. Tutt'intorno a loro si scatenò un gran clamore, auto strombazzanti, sirene della polizia e il gran ruggito sauriano dei clacson delle pompe antincendio. - Sorella, a volte mi chiedo perché ti sobbarchi tutto questo, disse Gracie. - Te la sei guadagnata, un po' di pace e di tranquillita. Potresti vivere nella casa madre in campagna e occuparti dell'ampliamento dell'ordine. Come mi piacerebbe sedermi nel roseto con un libro giallo e il vecchio Pepper accoccolato ai pie-di -. Il vecchio Pepper era il gatto della casa madre in campagna. - Potresti portarti il picnic al laghetto.
Edgar sorrise tra sé, un sorriso senza gioia che indugiò da qualche parte vicino al suo palato. Non moriva dalla voglia di vivere in campagna. Questa era la verita del mondo, proprio qui, la casa della sua anima, e la sua vera natura - la sua vera natura era quella di una bambina impaurita costretta ad affrontare il terrore reale della strada per guarire il protrarsi della distruzione che aveva dentro. Dove altro avrebbe dovuto lavorare se non sotto il Muro coraggioso e folle di Ismael Mu¤oz? Poi di colpo Gracie era fuori dal furgone. Si era tolta la cintura di sicurezza, era scesa dal furgone e stava correndo lungo la strada. La portiera era rimasta aperta. Edgar capì all'istante. Si girò e vide la bambina, Esmeralda, mezzo isolato più avanti di Gracie, correva verso il Muro. Gracie schizzava in mezzo alle macchine con le scarpe grosse e la gonna gualcita. Seguì la ragazzina dietro l'angolo dove c'era l'autobus turistico, bloccato nel traffico. I turisti guardarono le due figure in corsa. Edgar riuscì a vedere le loro teste girarsi all'unisono, mentre le girandole roteavano ai finestrini. Tutti i rumori si raccolsero nel cielo che sbiadiva. Edgar pensò che in fondo li capiva, i turisti. Facevano un viaggio da qualche parte non per vedere musei e tramonti, ma rovine, terreni bombardati, per i ricordi coperti di muschio delle torture e della guerra. Tutti i veicoli di emergenza stavano convergendo in un punto a un isolato e mezzo di distanza. Vide alcuni operai della metropolitana avvolti in nuvole di fumo pallido aprire le grate e capì che avrebbe dovuto recitare una preghiera rapida, un atto di speranza, tre anni di indulgenza, ma rimase solo a guardare, in attesa. Poi incominciarono a emergere teste e busti, indistintamente, gente che usciva all'aria aperta con le mascelle spalancate, alla frenetica ricerca d'aria. Un corto circuito, un incendio nella metropolitana. Nello specchietto retrovisore vide alcuni turisti scendere dall'autobus e avanzare cauti per la strada, pronti a scattare foto. E gli scolari che passavano, per niente incuriositi - sentivano sparatorie in continuazione fuori dalla finestra di notte, la morte intercambiabile per strada e alla tv. Ma cosa ne sapeva lei, una donna ormai vecchia che mangiava ancora pesce il venerdì, e stava incominciando a sentirsi inutile qui, molto meno utile di suor Gracie. Gracie era un soldato, un combattente per la dignita umana. Edgar era fondamentalmente un giovane agente federale che proteggeva un corpo di leggi e proibizioni. Lei aveva un cuore di corvo, piccolo e indurito. Sentì il lamento delle macchine della polizia nel traffico paralizzato e vide un centinaio di passeggeri della metropolitana uscire dalle gallerie accompagnati da operai in tuta fosforescente e guardò i turisti scattare foto e pensò al viaggio che aveva fatto a Roma molti anni prima, per motivi di studio e rinnovamento spirituale. Aveva alzato gli occhi verso le grandi cupole che davano il capogiro e aveva attraversato furtivamente le catacombe e i sotterranei delle chiese ed era a questo che pensava mentre i passeggeri uscivano in strada, pensava alla cappella sotterranea di una chiesa dei cappuccini dove era rimasta impalata a guardare gli scheletri ammassati senza riuscire a staccare gli occhi, pensando ai monaci la cui carne aveva un tempo decorato quei metatarsi, femori e teschi, molti teschi ammonticchiati in nicchie e recessi, e ricordò
di aver pensato vendicativamente che quelli erano i morti che sarebbero usciti dalla terra per frustare i vivi e prenderli a randellate, punire i peccati dei vivi - sì, il trionfo della morte. Ma è proprio sicura di volerci ancora credere? Dopo un po' Gracie si rimise al volante, infelice e accaldata. - L'avevo quasi presa. Ci siamo inoltrate nel fitto dei terreni abbandonati e poi mi sono distratta, mi sono spaventata a morte a dir la verita, per via dei pipistrelli, non riuscivo a crederci, pipistrelli veri, gli unici mammiferi volanti sulla terra -. Fece un ironico movimento d'ali con le dita. - Sono usciti come un turbine da una buca piena di sacchetti rossi, scarti di ospedale, rifiuti di laboratorio. - Non dirmelo, non voglio saperlo. - Topolini bianchi morti a centinaia, rigidi e piatti. Si poteva lanciarli come figurine del baseball. - Le macchine stanno incominciando a muoversi, - disse Edgar. - Ti sei mai chiesta cosa succeda agli arti amputati dopo che il dottore li sega via? Finiscono nel Muro. Li gettano in un terreno abbandonato o li bruciano nell'inceneritore. - Pensa a guidare. - Ed Esmeralda la in mezzo a quei cespugli e a quelle carcasse di macchine. Sono pronta a scommettere che vive in una macchina, - disse Gracie. - Se la cavera benissimo. - No che non se la cavera. - E' capace di badare a se stessa. - Prima o poi, - disse Gracie. - E' svelta. E' benedetta. Se la cavera. Gracie la guardò e continuò a guidare, poi la guardò di nuovo, sentì il motore battere in testa ma non disse niente. Non capitava mai che Edgar prendesse una posizione ottimista. Forse era questo a preoccuparla un po'. E quella notte, sotto il primo strato di sonno irrequieto, Edgar rivide i passeggeri della metropolitana, maschi adulti, femmine in eta da figli, tutti portati in salvo dalle gallerie fumose, li vide arrancare lungo stretti passaggi, guidati su per le scalette fino alla strada - padri e madri, i genitori smarriti ritrovati e riuniti, tirati su a forza, con le vesti strappate, condotti in superficie da piccole figure senza volto dalle ali fosforescenti. Qualche settimana dopo Edgar prese una copia di Time mentre usciva dal refettorio e la vide, la grande foto a colori di una donna dai capelli bianchi seduta su una poltroncina da regista dietro la vecchia ala di un bombardiere dell'Air Force. E riconobbe il nome, Klara Sax, perché lei riconosceva tutto, perché la gente le sussurrava dei nomi, perché percepiva ondate di informazione nei polverosi corridoi del convento o nel magazzino della scuola che odorava di legno di matita e quaderni dei compiti, perché sentiva un'oscura conoscenza fluttuare nel fumo del turibolo ondeggiante del prete, perché per lei le cose venivano delineate dallo scricchiolio di vecchi impiantiti e dall'odore degli abiti, dell'umida giacca di cammello di un uomo, perché lei attirava Notizie e Voci e Catastrofi negli immacolati pori di cotone della veste e del velo. Tutti i collegamenti intatti. La donna un tempo era sposata con un uomo del posto. L'uomo era l'istruttore di scacchi di uno degli ex
allievi di Edgar. Il ragazzo con il cravattino sempre storto, Matthew Aloysius Shay, con le unghie rosicchiate fino alla carne, uno dei suoi ragazzi più intelligenti, genitore maschio scomparso. Lei le sapeva le cose, sì, conosceva gli scacchi, tutti quegli strati di scaltrezza slava, quelle trappole e quegli stratagemmi. Sapeva che Bobby Fischer si era fatto togliere tutte le otturazioni ai denti quando aveva giocato contro Boris Spasskij nel 1972 - e secondo lei era perfettamente sensato - per impedire al Kgb di controllarlo tramite radiotrasmissioni dentro l'amalgama schiacciato nei suoi molari. Mise la copia di Time nell'armadio insieme alle vecchie riviste che aveva smesso di leggere ormai da decenni, da quando aveva perso la fede nelle stelle del cinema. La fede del sospetto e dell'irrealta. La fede che rimpiazza Dio con la radioattivita, la potenza delle particelle alfa e i sistemi onniscienti che le plasmano, l'interminabile catena di collegamenti. Quella sera, piegata sul lavandino nella sua stanza, pulì una paglietta d'acciaio col disinfettante. Poi usò la paglietta per scrostare una spazzola, passando ogni singola setola. Ma non aveva immerso il disinfettante originale in qualcosa di più forte del disinfettante. Non l'aveva fatto perché la regressione era infinita. E la regressione era infinita perché si chiama appunto regressione infinita. La paura che si diffonde oltre l'espulsione forzata di materia fin dentro gli spazi elevati in cui le parole giocano su se stesse. Pulì e pregò. E recitò preghiere brevi mentre lavorava, semplici suppliche pie chiamate giaculatorie che recavano indulgenze espresse in giorni anziché in anni. Pregò e pensò. Andò a letto e restò sveglia a pensare a Esmeralda. L'avevano vista più d'una volta ma non erano riusciti a prenderla. Né Gracie né i frati né gli agili scrittori della banda di Ismael. E la sensazione che Edgar aveva sulla sua sicurezza incominciò a vacillare. Accoglieva di buon grado ogni soffio di conoscenza che incontrava sul suo cammino, tanto più se conteneva elementi inquietanti, ma questa volta un presentimento la scosse nel profondo. Intuì qualcosa la fuori nel Muro, un pericolo confuso e strisciante che aspettava la bambina nel suo agile percorso tra carrozzerie di macchine, arti buttati via e distese di spazzatura mai raccolta. Madre misericordiosa prega per noi. Trecento giorni. Capitolo nono Nick stava cercando la rivista che aveva messo da parte per il viaggio a Houston. Riservava certe letture ai viaggi d'affari, cose che altrimenti non avrebbe mai degnato d'uno sguardo, riviste le cui pile erano un rimprovero costante fin quando non finivano sul marciapiede nel giorno designato. C'era un rumore che si faceva sentire, il ronzio del mondo - incominciava a farsi sentire quando si lasciava la propria casa dalla morbida moquette per andare all'aeroporto. Voleva qualcosa di leggero da leggere in quel singolare ronzio prolungato che caratterizza ogni miglio della giornata di chi viaggia per affari. La rivista era Time, e non la vedeva da quasi un mese. Alla fine la trovò in bagno, in un cestino in cui Marian teneva per lo più riviste
di moda patinate - ogni ombra sfumata fino a una lucentezza anatomica, a prova di briciole e rifiuti. La cosa giusta da sfogliare accoccolati sul water con le mutande calate. In quella copia di Time c'era un articolo su Klara Sax che voleva leggere, non certo il primo che avesse trovato nel corso degli anni ma forse più interessante degli altri, su un progetto che l'artista aveva iniziato nel deserto, un'opera decisamente ambiziosa. La sua valigia era sul letto, abbastanza piccola da stare nello scompartimento dei bagagli a mano, e Nick chiuse la rivista nella tasca esterna e finì di fare i bagagli. Marian entrò nella stanza con i suoi occhiali da donna gatto. Intonati al nuovo lavoro. Ora Marian lavorava per la commissione artistica municipale e voleva un look più disinvolto. - Non dovresti sbrigarti? - La macchina non è ancora arrivata. Mi fido della macchina, disse lui. - La macchina è affidabile. - La macchina sa cose che noi non sappiamo. - La macchina non è mai in ritardo. - La macchina e l'aereo sono in contatto costante. Marian aveva sempre un aspetto fantastico, quando lui stava uscendo dalla porta. Come mai, si domandò. Un certo languore nelle membra, un tono che in parte insisteva per essere notato ma che era anche un timido segreto, timoroso di smuovere l'aria tra loro. La spinse contro la parete e le mise le mani sulle cosce, baciandola e mordicchiandole il collo. Lei disse qualcosa che lui non afferrò del tutto. Infilò le mani tra il sedere di Marian e il muro e la attirò a sé. La gonna le scivolò contro le gambe aperte, il tessuto teso e sollevato, il fruscio elastico della frizione su cui lui contava per tirare avanti nella vita. Indietreggiò leggermente e la guardò. - Cos'è questa cosa? - chiese. - Di cosa stiamo parlando? - E come mai quando ritorno è completamente svanita, finita e dimenticata? - Quale cosa? Le tolse gli occhiali da sole e glieli porse. Quando uscì dalla porta, qualche secondo dopo, la macchina dell'azienda lo stava aspettando. Qualche ora dopo Marian era in una stanzetta di un pallido edificio di mattoni a due piani vicino al Jack in the Box e al Brake-O. Le macchine erano parcheggiate sotto una tettoia spiovente sul retro e c'era una scarpa da uomo abbandonata in uno degli spazi vuoti. Era in piedi vicino alla finestra, nuda. Poi si avvicinò al lungo specchio e appoggiò il fianco contro la superficie del vetro, sentendo un piccolo fremito di freddo al contatto del corpo con l'oggetto. Aveva un bell'aspetto. Tutta quella ginnastica, la dieta, la dieta e la ginnastica. Tutto quel lavorio di natiche, la noia e la fatica che sopportava in nome del tenersi in forma. Non era più la donna dalla perfezione contorta di un tempo, ma si teneva ancora in forma. Vaffanculo, tu e il tenersi in forma. Si piantò bellicosamente davanti allo specchio. Non c'era niente che potesse fare per il naso appuntito, ma il resto non era male. Non si guardava mai così da vicino, a casa. Era più facile vedersi qui, chiusa tra pareti
estranee. Schiacciò i capezzoli contro il vetro e quando indietreggiò vide che avevano lasciato un velo di umidita, l'impronta di due baci, simile al fiato d'inverno. Quando Brian arrivò, indossava una vestaglia che aveva trovato nell'armadio. - Non dovrei essere qui, - disse lui. - Nemmeno io. E' questo il punto, vero? Lui si sedette sul bordo del letto per togliersi le scarpe, un po' come il piagnucolone della classe quando si spoglia per la ginnastica. - Di chi è questo posto? - Di una persona che lavora con me. - Dici sul serio? - Perché no? Ci serve un posto sicuro, - disse lei. - Ma una collega? - La mia assistente, in realta. E poi è meglio di un albergo. - Non dovrei essere qui. Si mise a camminare per la stanza a piedi nudi, sbottonandosi la camicia. Aveva piedi da clown, lunghi e pieni di calli, e non si allentò la cravatta finché non ebbe tirato fuori la camicia dai pantaloni. - E' una ragazza giovane? - Hai capito subito che è l'appartamento di una donna, vero? - Sul serio. E' giovane? - Sì, - disse lei. Lui andò in giro toccando oggetti qua e la, guardando fotografie e scatole di fiammiferi. - Bella? - Vuoi dare un'occhiata alla sua biancheria intima? Guarda, ho indosso la sua vestaglia. Scopami scopami scopami, - disse seccamente Marian. - Non può permettersi di meglio? - Abbiamo un budget insufficiente. - Ma è un monolocale. - Piccolo ma intenso, - disse Marian. Era appoggiata al muro, a braccia conserte, e lui le si appoggiò addosso. Marian liberò le mani e si mise ad armeggiare con i suoi pantaloni. Le piaceva fare sesso con Brian perché poteva manipolarlo, rigirarlo come voleva, indurlo ad assecondare il suo umore, poteva eccitarlo facilmente o farlo parlare, parlare - chiacchiere spudorate tra l'acido e il candido, spiritose e amare. - Credo che lui abbia capito, - disse Marian. - Cosa? - Credo che lui lo sappia. - No, non lo sa. - Io credo che lo sappia. Aveva le mani dentro i suoi pantaloni e il sorriso sulle labbra. Lui le fece scivolare la vestaglia di dosso, la stropicciò - gliela strofinò contro la spalla e il seno prima di togliergliela a meta, tirandole fuori un braccio dal buco della manica e lasciando penzolare l'indumento. Si lasciarono andare sul letto. Lei cercò di liberarsi del resto della vestaglia ma lui non glielo permise. Voleva una donna con mezza vestaglia. Squillò il telefono e si fermarono ad ascoltare. Ogni volta che squillava il telefono in un appartamento preso a prestito
si interrompevano e pensavano a quello che stavano facendo e forse un po' anche alla vita della persona di cui stavano usando la casa. Li faceva sentire colpevoli per il motivo sbagliato, per un altro tipo di violazione, pensò lei. Il letto. Il mistero della vita dell'altra persona, dell'armadietto delle medicine e del letto. Era una delle tante cose che non le piacevano di questa situazione, e non riusciva a fare sesso con un telefono che squillava. Cercò a tentoni la borsa, che era su una seggiola di fianco al letto. Il telefono smise di suonare. Brian scese dal letto e finì di spogliarsi. - Pensi che quella terra la bocca chiusa? - Tiene la bocca chiusa su tutto il resto. - Questo non è tutto il resto. Marian trovò le sigarette e ne accese una mentre lui le porgeva il portacenere. - Credevo che avessi smesso. - Sono scesa a cinque al giorno. - Credevo che avessi messo il cerotto. - No, non l'ho messo, - disse lei. Brian le si stese accanto, sul fianco. Gli squilli del telefono li avevano portati prematuramente a un pigro stato di piccole carezze, di conversazione rilassata e nuvole di fumo. - Questo tuo lavoro, - fece lui.- Vero o finto? - Lavoro con ingegneri e urbanisti. Passo il tempo a combattere con gruppi di cittadini. Ma riesco quasi sempre a concludere qualcosa. - L'altro giorno ho pranzato in un grigiore meccanico. In un anonimo centro commerciale. - Noi non ci occupiamo di centri commerciali, ma di strade. - E cosa fate alle strade? - Le rendiamo vivibili, sopportabili. Raccontiamo piccole storie. Sculture sullo spartitraffico. Piazzuole a forma di animali. - Come si chiama la tua segretaria? - chiese lui. Lei gli fece cadere la cenere sul pelo del pube. - Ore di straordinario, devozione assoluta. Incastrata in quel fenomeno giapponese, - disse lui, - che è la morte da superlavoro. - Sparire nell'azienda e morire. Solo che io mi guardo bene dallo sparire. Faccio di tutto per essere vista e ascoltata. Non so bene cosa intendi dire con vero o finto. Lui si tolse la cenere dall'inguine e la soffiò via dalla punta delle dita. - La maggior parte dei lavori sono finti, - disse. Avevano incominciato tardi e non avevano mai dato al loro rapporto un andamento stabile. In tutto questo tempo c'erano stati tre o quattro appartamenti, ciascuno dei quali usato soltanto una o due volte. Lei aveva imparato a non far caso alla propria delusione. Questo era un aspetto della sua contorta perfezione. Ma la riluttanza di Brian era davvero esasperante. Le toccava trovare gli appartamenti, assicurarsi che tutto fosse a posto, calibrare esattamente i tempi per poi chiedersi se si sarebbe fatto vivo. Si parlava tanto di amanti demoniaci, ma demoniaco semmai, era suo marito. Il suo amante era un tipo molleggiato con la fronte lentigginosa e i capelli ricci. Ma questa era una sfida che doveva raccogliere, per penetrare in una parte essenziale del proprio essere, una potenzialita che altrimenti risultava inconsistente, insufficiente e intentata. Queste ore erano sue, per quanto brevi e saltuarie. E stare con Brian era così facile, così gradevole, che gli
si stava attaccando sempre di più. Le piaceva tormentarlo e spaventarlo ma non voleva saperne di rinunciare a lui. - Soffia il fumo dalla mia parte, - disse Brian. - Voglio tutti gli aromi. Tabacco, lenzuola, donne. Si sentiva se stessa, con Brian, qualunque cosa volesse dire. Sapeva cosa voleva dire. Meno costretta dentro la proiezione di un altro, dentro la sua egocentrica volonta di plasmare la vita. - E non farmi dimenticare che ho un appuntamento alle tre, - le disse. - Sono un po' seccata dal fatto che tu, insomma, - lasciando le parole in sospeso, - non ti sia innamorato di me, Brian. - Tu hai la mia eta e la mia statura. Io mi innamoro di donne piccole e vivaci che vedo da lontano. - E devono essere giovani. - Devono essere giovani. Io e te, be', diciamo che siamo amici. Mi sento troppo in colpa per innamorarmi di te. Mi sento una merda. - Allora perché lo fai? - Perché tu lo desideri tanto, - disse lui. Lei schiacciò la sigaretta nel portacenere. - E saresti così accomodante? Perché lo voglio io? Per questo sei disposto a farlo? - No, lo desidero anch'io. Ma per te sembra una questione di vita o di morte. Non le piaceva quando era troppo serio. Non era nelle regole del gioco. Brian ciondolò la testa verso di lei, sussurrando. - E' stupido ed è crudele, e non dovremmo farlo più. Perché se lui lo scopre, - sussurrò. - E se lo scopre tua moglie? E' lei quella che ti tagliera le palle. - Nick mi uccidera soltanto. - E poi non ha bisogno di scoprirlo. Lo sa gia. - Non lo sa. - Io credo che lo sappia. Lui sussurrò: - Facciamoci quest'ultima felice scopata d'addio. Lei stava per dirgli qualcosa ma poi ci ripensò. Si girarono l'uno verso l'altra e si abbracciarono, poi lei si scostò, inarcando la schiena, puntellata sulle braccia, e lasciò che fosse lui a stabilire il ritmo. A un certo punto Marian aprì gli occhi e vide che la stava osservando, che stava cercando di capire a che punto era, e sembrava un po' solo e pallido, allora lo attirò a sé abbassandogli la testa, e gli succhiò il sale dalla lingua, e sentì lo schiaffo del torace, lo schiocco della parte superiore dei corpi e il cigolio del letto. A questo punto si trattava solo di concentrarsi intensamente. Marian restò in ascolto di qualcosa nel flusso accelerato del sangue e gli fece roteare i fianchi sentendosi elettrica e disperata e finalmente libera, poi guardò i suoi occhi chiusi strettamente e la bocca tesa al punto da sembrare incerottata agli angoli, con il labbro superiore bianco per la pressione contro i denti, e lo sentì venire con una specie di orgasmo da impiccato, lo scatto del corpo e l'irrigidimento delle membra, e gli passò una mano tra i capelli - sarebbe tanto più bello se lo facessimo più spesso. Aspettò che il respiro di entrambi si normalizzasse in modo da potersi liberare e prendere la borsa dalla seggiola. Lui andò in cucina a bere un bicchiere d'acqua. Era una borsa piuttosto grossa, di quelle che si chiudono con un
cordino, e Marian tirò fuori un pezzo di carta stagnola e lo srotolò spargendo il contenuto sul letto. Brian restò a guardare dalla porta della cucina. Poi Marian tirò fuori un piccolo pacchetto trasparente. Sembrava un sacchetto di plastica per i sandwich, solo più piccolo, e aveva un'etichetta appiccicata, con la scritta “Trip di Morte numero 1”. - Vieni qui, - gli disse. Aprì il pacchetto e ne fece cadere il contenuto, meta del contenuto, sul foglio di carta stagnola. Era una sostanza resinosa, spezzettata in piccoli grumi. Disse a Brian di sedersi sul letto e di prendere il foglio di alluminio tenendolo dritto, reggendolo ai bordi in modo che la roba, i piccoli grumi simili a catrame, non colassero via. - Che diavolo è? E come fa a colare se è solida? Allora lei frugò di nuovo nella borsa e ne estrasse una cannuccia, uno strano tipo di cannuccia di carta stagnola lunga una decina di centimetri. - Ehi, Marian, si può sapere cosa stiamo combinando? Lei prese i fiammiferi, ne accese uno e lo tenne sotto il foglio argentato in mano a Brian, riscaldando la sostanza sulla carta stagnola. - E' eroina, - gli disse, guardando il catrame che incominciava lentamente a liquefarsi. - E' eroina, - fece lui. - Secondo te cosa dovrei dire a questo punto? Quando il catrame incominciò a evaporare e a fumare, Marian spense il fiammifero, si mise in bocca la cannuccia di stagnola e seguì le volute di fumo, risucchiandolo e trattenendolo nei polmoni, coscienziosamente. - Okay. Dove l'hai presa? - Marian guardò il catrame sciogliersi, scorrere ed evaporare, e seguì il fumo che si levava dalla stagnola tesa risucchiandolo attraverso la cannuccia. - Mary Catherine. - E chi sarebbe? - La mia assistente. - La proprietaria di questo letto? La tua segretaria sarebbe il tuo spacciatore? Quand'è che hai incominciato a farti? - In realta non ho mai pensato a lei come. Seguì la scia di fumo ficcandoci dentro la testa e risucchiandolo attraverso la cannuccia. - Non ho mai pensato a lei come al mio spacciatore ma immagino che lei sia il mio spacciatore e io la sua come-si-chiama. - E' una novita questa? - Sì, è una cosa abbastanza nuova. Dai, tira una boccata. - No, grazie. Soffiò fuori il fumo. - Sono decisamente prudente, sai. La uso di rado, molto di rado. Non mi alzo con gli occhi gonfi, dolorante o con la nausea. Tira una boccata. Risucchiò il fumo. - Nick lo sa? Non è possibile che lo sappia. - Sei pazzo? Mi ucciderebbe. Tira una boccata. - Stammi lontano, accidenti a te. - Voglio coinvolgerti più a fondo. Tira una boccata. Voglio coinvolgerti così a fondo che smetterai di mangiare e di dormire.
Starai sdraiato a letto pensando a noi. Che facciamo le nostre cose in una stanza presa in prestito. Non riuscirai a pensare a nient'altro. Questo è il mio programma per te, Brian. - Mary Catherine. Mi piace il nome, - disse lui. - Sexy. Sedevano sul letto, fianco a fianco, ascoltando il traffico che scivolava via su Thomas Road. Quando lei ebbe finito tolsero di mezzo tutto, pulirono il letto e si sdraiarono a chiacchierare. - Credo che lo sappia, - disse lei. - Dov'è adesso? - In viaggio per Houston, oppure è gia arrivato. Poi va in macchina in quel sito di depositi nucleari, non so dove esattamente. - Ai giacimenti di sale. - Alla mercé del Texas Highway Killer. - Non lo sa, - disse Brian. - Ma dovremmo pensare a darci un taglio. Dovremmo mettere fine a questa storia. - Non sono neanche lontanamente pronta. Quindi vedi di piantarla. Mi fai sentire come una vecchia sciattona appiccicosa. - Non sei una sciattona. Sei una battona. - Sii carino con me, - gli disse lei. Il giorno si era ridotto a una pulsazione sonnolenta situata da qualche parte vicino ai suoi occhi. Quando si stiracchiò, Marian sentì la crosta di sperma sul pelo pubico sbriciolarsi leggermente e screpolarsi. Lui sussurrò: - Facciamo un'ultima scopata civile e vediamo di uscirne vivi. Lei ascoltò il traffico e si chiese che cosa avrebbe risposto nella versione cinematografica. Lui sussurrò: - Facciamoci la scopata sayonara e infiliamoci nei rispettivi completi o vestiti. Lei sorrise appena. Nell'aria aleggiava un disegno propizio. Si sentiva vagamente rilassata e ottimista, stile L'A', e rotolò sopra Brian, e parlò mentre lo facevano, a intermittenza, dolcezza, affetto, soffiando fuori le parole, intuendo un invisibile disegno di cose assolutamente propizie. Quando furono fianco a fianco lui si rizzò su un gomito e la guardò. - Hai negli occhi quella palla liquefatta di sfida. - Non parlare di farla finita. Non sta a te farla finita. Brian scoppiò a ridere. Quando rideva, Brian diventava semitrasparente. Gli si vedeva il sangue scorrere sotto la pelle, una corrente rosa pallido. Si alzò e incominciò a vestirsi. Prese una rivista di moda e la tenne aperta sulla foto sfumata di un bisessuale sciolto e muscoloso, forse bianco, forse no - la fece dondolare sul letto per mostrare quanto lui fosse sorpassato in confronto, il suo corpo, il suo stile di vita e lui stesso, Brian, un uomo senza un video di fitness da infilare nella scanalatura oblunga. - Biancheria intima. All'improvviso, tutto verte sulla biancheria intima, - disse. - Puoi spiegarmi cosa significa? Controllò l'ora e venne colto dal panico. Lei cercò di aiutarlo, passandogli capi di vestiario attraverso il letto, e lui si mise a fare confusione intenzionalmente, si infilò una calza alla rovescia e si legò insieme le scarpe in modo che per poco non cadde mentre si slanciava verso la porta. Più si faceva tardi, più lui faceva il buffone. Era Brian al suo meglio. - Ma cosa succede se lo sa?
- Non lo sa, - disse Marian. Lei aveva un marito demoniaco, se per demone si intende un certo tipo di forza, uno spirito guardiano della disciplina e dell'autocontrollo, il rapido scatto da lui perfezionato per prendere le distanze, un gesto automatico, come spegnere la radio. Marian sapeva della scomparsa di suo padre ma c'era qualcos'altro, qualcosa di duro e distante. Era stato soprattutto questo ad attrarla, all'inizio, la situazione rischiosa ed erotica. Brian stava guardando le fotografie appese alla parete vicino alla porta. - Qual è lei? - Fuori di qui, - gli intimò Marian. Rifece il letto, rimise la droga nella borsa e la vestaglia nell'armadio. Lavò il bicchiere che Brian aveva usato, nuda nel cucinotto, e sembrava assolutamente ragionevole e naturale, tutto quanto, una cosa meritata, necessaria, nuda, poi fece la doccia e si vestì. Si sentiva proprio bene. Felice e contenta, insomma. Sapete com'è quando qualcosa che si trascina da un pezzo tormentandovi, all'improvviso, chissa come, si risolve. Sentiva che tutte le cose buone le sarebbero andate incontro, contrariamente al solito. Le avrebbe riconosciute quando le avesse viste con i suoi occhi stile L'A'. Si mise davanti allo specchio e si sistemò gli occhiali. Perché se non avesse avuto questa cosa da fare, da progettare, da manovrare e aspettare con ansia, questo Brian che faceva tanto il prezioso proprio questo era stata sul punto di dirgli prima - si sarebbe sentita sola e insicura, a guidare sulla strada decorata sotto il cielo bruciante, e forse un po' indistinta. Si sentiva apprezzata. Le piaceva quel modo di essere. Si sentiva un po' frivola. Qualsiasi cosa stile L'A' oggi le sembrava appropriata. Poteva persino dire di essere più o meno euforica, sebbene non fosse pronta a giurarlo. Prima di andarsene ispezionò la stanza un'ultima volta. Queste erano le cose che aprivano il mondo degli accordi segreti, l'appartamento in prestito, il numero di telefono memorizzato e l'annotazione in codice sull'agenda. Un gioco infantile, in realta, tipo guardie e ladri, che la faceva sentire più colpevole che non il sesso, suscitando in lei un timido rimorso. Diede qualche colpetto a un cuscino per togliere le infossature. Voleva che le cose sembrassero intatte, così Mary Catherine non avrebbe avuto niente in contrario quando le avesse chiesto di usare ancora l'appartamento. Capitolo decimo Spalmò la maionese. Spalmò la maionese sul pane. Poi ci schiaffò sopra la carne del pranzo. Non spalmava mai la maionese sulla carne. La spalmava sul pane. Poi ci schiaffava sopra la carne e guardava la maionese colare ai bordi. Si portò il panino nella stanza accanto. Papa era seduto a guardare la tv, nella sua solita posa a periscopio, tutto piegato in avanti, come se stesse per cadere sul tappeto. Papa aveva una serie di malattie ancora in attesa di un nome. Cose che andavano giocate le une contro le altre. Una cosa richiedeva un certo tipo di medicina, ma ne faceva peggiorare un'altra. Poi c'erano le controindicazioni e gli effetti collaterali, c'era un orario per le medicine a cui
Richard e sua madre cercavano di tener dietro tra i meandri quotidiani di mezze dosi e controindicazioni, di dipende da e non dimenticare che. Richard mangiò circa meta del panino e lasciò il resto sul bracciolo della poltrona. In cucina chiamò il suo amico Bud Walling, che viveva a quaranta miglia nel mezzo del nulla e non era neanche un vero amico. Guidò fino a casa di Bud attraversando vecchi campi contrassegnati come aree fabbricabili, con strisce di cotone irrigidite dal vento su esili paletti. Quaggiù il vento era una forza che paralizzava la mente. Ti lasciavi alle spalle la scuola superiore, e dopo un quarto di miglio udivi ancora la grande bandiera schioccare e la drizza sbattere nauticamente contro l'asta, partivi in macchina nel vento e vedevi la polvere spazzare la strada, poi avanzavi dentro un cielo bianco sentendoti inutile e stupido. La casa di Bud sembrava una cosa portata giù dal vento delle montagne. Sembrava depositata in naturale disordine, con pezzi di legname da costruzione che si deformavano in cortile, le porte spalancate e una veranda ancora incompleta appoggiata su blocchi di calcestruzzo, una di quelle verande talmente basse da far sembrare la casa sprofondata nella sabbia. Bud aveva un cane-coyote che viveva incatenato in una baracca sgangherata sul retro, in parte coyote, in parte bastardo randagio. Richard pensava che quel cane fosse meno pericoloso di quanto volesse la leggenda. Pensava anche che Bud lo tenesse soprattutto per il gusto giovanile di avere una bestia incatenata da nutrire o far morire di fame a piacimento. Si accorse che aveva dimenticato di dare a papa i due bicchieri d'acqua da prendere con la capsula azzurra e gialla, a dispetto del vistoso promemoria sulla boccetta della medicina. Queste piccole manchevolezze logoravano la sua fiducia in se stesso, nonostante sapesse che la colpa era di suo padre che non riusciva a controllare l'assunzione delle medicine, e di sua madre che non era mai nei paraggi quando c'era bisogno di lei. C'erano piccole guerre continue fatte di che colpa ne ho e d'accordo mi spiace e vorrei che questa storia finisse una volta per sempre e spero che muoia, e si svolgevano tutte nella mente di Richard. Fece il solito giochetto stupido di bussare alla porta di Bud annunciando: - Guardia di Finanza. Sezione Alcol, Tabacco e Armi da Fuoco. Non successe niente. Entrò e vide Bud in uno stanzone aperto intento a segare un'asse due per quattro che aveva posato su due panchetti di altezza diversa. La casa era ancora soltanto struttura portante sebbene Bud ci lavorasse da molti mesi, combattendo una coscienziosa battaglia che secondo Richard non aveva tanto a che vedere con la ristrutturazione di una casa quanto con la distruzione, una volta per tutte, dello spettro di una paura, forse la vecchia tossicodipendenza di Bud. - Hai il telefono guasto, - disse Richard. - Ho pensato di passare a vedere se, insomma, se andava tutto bene. - Perché non dovrebbe andar bene? - L'ho segnalato all'ufficio guasti. - L'unica idea che ho sul telefono. - A volte riescono a risolvere il problema dall'ufficio. - E' che procura più dolore che gioia. Alla fine Bud si decise ad alzare gli occhi e a prendere visione
della sua presenza. - Porta nella tua vita voci personali che non sei preparato ad affrontare. Richard si tenne ai margini della stanza, passando il palmo delle mani sui davanzali piallati, esaminando le graffe che assicuravano i teli di plastica agli infissi delle finestre. Era un vuoto diversivo per prevenire lo strazio delle chiacchiere banali. - Penso che poserò il parquet, - disse Bud. - A lisca di pesce, forse. - Dovrebbe venir bene. - Spero proprio. Ma probabilmente non ce la farò mai. Il rumore del vento contro la plastica era una tortura per i nervi. Richard si chiese come facesse un ex tossico a lavorare tutto il giorno in mezzo a quei rumori stridenti. La plastica si gonfiò, schioccò e scricchiolò. Il crack della cocaina instupidisce il cervello inducendolo a credere che la droga gli giovi. Pensò a qualcos'altro da dire. - Sai una cosa, Bud. Compio quarantadue anni la settimana prossima. Il prossimo giovedì. - Capita. - E mi sento come se avessi ancora la meta dei miei anni, davvero. - Per forza, visto come vivi. - Cosa intendi dire? - Con i tuoi, - disse Bud. - Non ce la fanno a vivere da soli. - E chi ce la fa? Ma la mia domanda è un'altra. Bud gettò in un angolo meta dell'asse che aveva segato e contemplò l'altra meta come se qualcuno gliel'avesse appena passata in mezzo a una strada affollata. - Cioè? - disse Richard. - Non puzzano? - Cosa? - I vecchi. Di latte rancido. Richard sentì le finestre di plastica schioccare. - Non tanto, almeno io non me ne accorgo. - Non tanto, eh? Okay. Vuoi sentirti addosso tutti i tuoi anni? Trovati una moglie. Ti assicuro che te li fara sentire tutti. E' orribile ma vero. Una moglie è l'unica cosa che può salvare i tipi come noi. Ma non ti fanno sentire più giovane, questo è certo. Richard cincischiava felice nel suo angolo. Gli piaceva l'idea di far parte della redenzione femminile degli uomini ribelli. - Lei dov'è? - disse. - Sta facendo il secondo turno adesso. La moglie di Bud lavorava, alla catena di montaggio della Texas Instruments, a sparare microchip sulla plastica verde, diceva Bud, per l'autostrada informatica. Richard credeva di essere un po' innamorato della moglie di Bud. Era un sentimento che andava e veniva, segreto e anche un po' patetico, come se il suo cuore fosse fatto di maglia di cotone. Cosa avrebbe pensato Aetna, se avesse intuito quello che provava? La paura suscitata da quella domanda gli provocava veri e propri disturbi fisici, ondate di calore, una vampata sulla schiena, e un senso di costrizione alla gola. Pensò a qualcos'altro da dire. - I mancini, l'ho letto l'altro giorno -. E qui s'interruppe cercando di ricordare l'esatta formulazione delle frasi nella stretta
colonna di caratteri tipografici. - I mancini, categoria di cui personalmente non faccio parte, hanno mediamente una vita più corta dei destrorsi. Gli uomini che usano la mano destra vivono dieci anni più a lungo degli uomini mancini. Ci crederesti? - Insomma, un arco di vita scarsino, se è di questo che stiamo parlando. - I mancini mediamente muoiono sui sessantacinque anni, mi pare. - Perché si fanno le pippe girati verso il Polo Nord, - disse Bud, un commento a cui Richard non riuscì a dare uno straccio di significato. Guardò Bud strappare i chiodi dal vecchio impiantito e si offrì di aiutarlo, cercando un martello da carpentiere. - Allora, Richard. - Cosa? - Ti sei fatto cinquanta miglia in macchina per dirmi che il mio telefono non funziona. Richard non sapeva se questo era il preambolo di una frecciata sarcastica alla Bud Walling o un modo per dire grazie. - Quaranta miglia, Bud. - Ah, meno male. Ti offrirei una birra, ma. - Non c'è problema. - Forse è Aetna che fa cinquanta miglia. Chi se lo ricorda. Rientrava nel campo di attivita di Bud raccontare cose personali su sua moglie, dalle sue preferenze sessuali ai suoi problemi di digestione, e ogni volta che Bud la nominava, il vecchio Richard tratteneva il fiato, tra il timore e la speranza che arrivasse qualche particolare intimo, e sebbene sapesse che Bud lo faceva per scioccarlo e inorridirlo, assorbiva ogni singola parola, ogni descrizione di immagini e odori, guardando la lunga faccia grinzosa di Bud in cerca di segni di scherno. - Le dispiacera di non averti visto, - disse Bud, alzando la testa dal legno marcio e dalla polvere sospesa. Lui non era mancino ma aveva imparato da solo a sparare con la mano sinistra. Questa era una cosa che Bud non sarebbe mai riuscito a capire, come mai lui dovesse esternare i suoi sentimenti per sfuggire all'isolamento. L'aveva imparato basandosi sulla teoria che se uno sta guidando con la mano destra, rannicchiato contro la portiera, in pratica, è meglio che tenga la mano destra sul volante e sporga dal finestrino la sinistra, la mano che impugna l'arma, in modo da non dover sparare con il proprio corpo di mezzo. Probabilmente avrebbe potuto parlare di questo a Bud, e Bud forse avrebbe capito. Ma non avrebbe mai capito perché Richard dovesse esternare tutto, condividere tutto con gli altri, divenire parte delle storie altrui, eppure questo era l'unico modo per evadere, per emergere da sotto lo strato dei merdosi dettagli della sua natura. Bud stava dicendo: - Allora lo sbirro dice, Piedi uniti, testa indietro, occhi chiusi per piacere. Al che Aetna si mette a ridere, quando lui dice per piacere. E adesso apra le braccia, fa lui. Adesso porti avanti la mano sinistra e si tocchi il naso con l'indice. Mentre io sono lì sotto una pioggia torrenziale e lui da gli ordini dalla macchina. Si tocchi il naso con l'indice, mi fa. - Se sei mancino e guidi la macchina, hai cinque volte più probabilita di morire in un incidente. - Rispetto a chi usa di preferenza la destra. - Rispetto a chi usa di preferenza la destra, - disse Richard, con
convinzione religiosa. Bud strappò un'asse dal pavimento. - Non è il mio problema. - Neanche il mio. - Io morirò di stress, - disse Bud. - Non sai qual è il mio livello di stress. Richard aspettò il resto. Prima, al supermercato, lavorava seduto in una cabina di vetro, raccoglieva gli assegni e i buoni sconto e distribuiva i rotoli di monetine al personale della cassa, ma apparentemente aveva fatto qualche pasticcio ed era stato rispedito alla cassa, a passare gli articoli sullo scanner, a battere i codici della frutta e della verdura, esposto agli insulti occasionali di estranei di passaggio nel mondo. - Dobbiamo arrangiarci fuori casa perché il gabinetto non è ancora agibile. Così ho costruito un bugigattolo fuori, che è l'unico metodo che funziona intanto che mi faccio un'idea sul gabinetto. E Aetna, be', te lo puoi immaginare. - Quando torna dal lavoro. - Lo stress monta in una maniera molto personale. - Guidando proprio su quella strada, - disse Richard. - E le scappa. Allora si ricorda che in casa non c'è un gabinetto agibile. E mi lancia un'occhiata omicida. Dicevano cose incredibili, le donne obese nella fila rapida, con lui che aveva due genitori malati a casa, o almeno uno malato e l'altra sempre di cattivo umore, cose tipo ci sono sedici centesimi di sconto sulla conserva di pomodori, oppure, quella non è una pera rossa è una decana. Lo costringevano a chiedere alla cassa vicina. Non vede che non è rossa? Mi ha battuto una rossa, e questa qui è una decana. E lui doveva parlare con l'altra cassa, e tutta la gente in entrambe le file sentiva quello che diceva. - A me non da nessun fastidio, - disse Bud. - Perché non è poi così sbagliato fare i bisogni fuori casa. Se pensi a cosa c'è in ballo. Parlano di traumi mentali. Si chiedono se è stato adottato o se ha subito molestie sessuali. Il problema sta tutto nel calcolo delle distanze. Se spari fuori dal finestrino dalla parte del guidatore, e ti conviene se non vuoi avere di mezzo tutto l'abitacolo della macchina più lo spazio tra una macchina e l'altra, hai comunque il problema di dover sparare coprendo lo spazio fra le due macchine più quello dell'abitacolo dell'altra macchina perché il sedile di guida dell'altro automobilista è diametralmente opposto al tuo. Non si deve sparare al passeggero. Se spari al passeggero, è probabile che il conducente riesca a sfuggirti e a prendere nota del tuo numero di targa, modello di macchina, colore di capelli e così via. Quindi devi limitarti ad automobilisti che viaggiano soli e sparare dal tuo finestrino, con l'arma nella mano sinistra. Ma il fatto è, e questo l'aveva capito solo a un certo punto, che se spari con la mano destra, la mano naturale, il proiettile percorre la stessa distanza attraverso gli stessi spazi che coprirebbe col metodo autodidatta della mano sinistra. Questo l'aveva capito dopo la vittima numero cinque o sei, non ricordava quale, ma aveva deciso di continuare a sparare con la mano sinistra anche se aveva più senso guidare con la sinistra e sparare con la destra, perché la mano destra era la mano naturale. - Adesso capisco cos'era che non mi tornava, - disse Bud. Sentirono il cane abbaiare, e attraverso il polveroso telo di
plastica, Richard vide l'animale ritto sulle zampe posteriori in fondo alla catena, le palle ben sode, e sperò che fosse Aetna, tornata presto dal lavoro. Una volta Aetna aveva fatto una torta per loro, con una bella decorazione a griglia. Questo se lo ricordava. Vedendo che a eccitare il cane non era stato il ritorno di Aetna, ma forse solo una creatura dei boschi, provò una tristezza assolutamente sproporzionata. Del resto, tutto era assolutamente sproporzionato. I colpi di vento contro la plastica, che vibrava e schioccava. Sembra che farsi di cocaina fumando crack sia la forma più incontrollabile di tossicodipendenza, secondo gli studi effettuati nel corso degli anni. - Porti la cravatta, - disse Bud. Richard tacque per un momento, non sapendo come prendere quell'osservazione, cercando di intuire quale sarebbe stata la battuta successiva. - Be', sai, è per via del lavoro, - disse. - Sono tornato a casa dal lavoro e non mi sono cambiato. - Ma tu metti la cravatta? Per stare alla cassa a battere scontrini? - E' una regola dell'azienda, in tutto lo stato. Stai calmo, pensò. - E poi pensavo a quello che ha detto Aetna, e per una volta ha ragione. Tu hai l'aria di uno che porta gli occhiali. Solo che non li porti. Però quando lei l'ha detto, non eravamo sicuri. Li porta o no? ci siamo chiesti. - Mai portati, - disse Richard. Prima, quando era entrato in casa e Bud non si era quasi accorto di lui, era stato un po' come la normalita della morte, quella specie di vuoto del non esserci. Un viaggio di quaranta miglia per arrivare a essere trasparenti, orribile ma non insolito. Questo esame minuzioso invece, su cosa indossava e che aspetto aveva, lo gettava nel panico. Cercò di pensare a cosa dire. Forse poteva trovare qualcosa da dire sul cane. Cercò una traccia del cane fuori dalla finestra. Non c'è niente che si sporchi più dei teli di plastica, trattengono lo sporco, lo assorbono. - Fai male. Gli occhiali danno risalto. Trovati un bel paio di lenti scure e spesse, intonate alla cravatta. Non capiva perché Bud gli parlasse così. Bud sedeva a gambe incrociate sullo stretto squarcio nell'impiantito. Teneva il martello sulla spalla e guardava fisso Richard. Richard abbozzò un sorriso, tentò di buttarla sul ridere. Sentì la stupidita della propria espressione, come se una piega della bocca potesse trasformare il mondo esterno. - Ci penserò. - Fallo. - Sara meglio che vada, adesso. - Le dispiacera di non averti visto. - Dille che ci penserò. - Non mancherò, ma tu fallo. L'unica persona con cui avesse mai parlato a cuore aperto era Sue Ann. Lei lo faceva sentire reale, quando parlava al telefono. Gli faceva sentire che stava incominciando a diventare se stesso, ad assumere la forma che gli era stata destinata da sempre, la forma di ciò che era realmente. Era come traboccare - non hai mai sentito qualcosa straripare dal centro della persona che sei per assumere la
forma della persona che dovresti essere? Be', questo faceva Sue Ann, e puoi anche non crederci o infischiartene, ma lui non era mai veramente se stesso finché non parlava con lei. Mentre usciva dalla porta e andava alla macchina, sentì Bud strappare il legno dall'impiantito. Con assassini psicopatici in giro per il mondo, i cassieri del supermercato portano la cravatta. Ecco cosa aveva pensato che stesse per dire Bud. Aveva fatto la telefonata a Sue Ann da una casa in cui era entrato scassinando la porta. Aveva acceso la tv e chiamato la superstazione di Atlanta, toccando gli oggetti con un fazzoletto e applicando al telefono l'apparecchio per la voce che aveva ordinato tramite una rivista specializzata. Non era il tipo di pubblicazione che Richard leggeva abitualmente. Non era un addetto alla sicurezza o un appassionato di armi. La sua arma era la vecchia 38 di suo padre. Non aveva una grande potenza, non sparava attraverso blocchi di cemento né faceva buchi grossi come un pugno nelle silhouette dei bersagli. Uccideva la gente e basta. Uscì dalla zona boscosa sotto il cielo aperto, dove la strada scendeva verso la piana alluvionale, e sentì tutta la vera forza del vento. Aveva fatto la chiamata e acceso la tv, o viceversa, senza il sonoro, la mano avvolta in un fazzoletto piegato in due, e non si era mai sentito così a suo agio parlando con qualcuno al telefono, o faccia a faccia, o da uomo a donna, come quel giorno con Sue Ann. La guardava sullo schermo e le parlava. Vedeva le sue labbra muoversi silenziosamente in una parte della stanza, mentre le sue parole si riversavano dolci e calde nelle volute del suo orecchio segreto. Le parlava al telefono e la guardava negli occhi alla tv. Era così che prendeva coscienza di essere reale. Grazie a quella donna con occhi da aliena e splendidi capelli, dalla quale emanava una forza che gli scombussolava il cuore. Aveva parlato con maggior sicurezza man mano che passava il tempo. Stava diventando se stesso, timido ma anche sfrontato, un po' vanitoso persino, onesto e intelligente, evasivo quando doveva esserlo, il tutto nella casa di uno sconosciuto, accanto a una lampada senza paralume, mentre lei ascoltava e faceva domande, guardandolo dallo schermo a tre metri di distanza. Emanava un tale splendore da riuscire a rendere reale un uomo come lui. Quella era una strada poco battuta. Si potevano fare trenta miglia su quella strada senza incrociare un'altra macchina. I cavi elettrici si tendevano fino ai limiti della visuale, e sprofondavano verso terra per una questione di prospettiva. Quando cessava il vento, sulla terra calava una sorta di attesa ansiosa che faceva pensare alla quiete prima del Giudizio. Poi c'era stato uno stacco di immagine ed erano passati al videotape. Lui non si fidava del nastro, perché aveva una prospettiva diversa da quella della sua esperienza, e continuava a pensare che la bambina avrebbe spostato la videocamera per inserirlo nel quadro. Aveva guardato il nastro una dozzina di volte insieme al padre devastato dal dolore, e ogni volta che guardava il nastro temeva di materializzarsi nel soggiorno, staccato da se stesso, con gli occhi strizzati sopra il volante dell'utilitaria. Aveva chiamato Sue Ann altre due volte ma il centralino non aveva passato la chiamata perché ormai molti altri stavano cercando di mettersi in contatto con lei e quelli del centralino erano furbi,
villani e increduli. Aveva bisogno di lei per restare integro, per essere se stesso. Probabilmente le avrebbe rivelato il suo nome. Sue Ann lo avrebbe fatto capitolare completamente nel giro di poche chiamate, nel giro di pochi giorni, guardandolo dallo schermo. Si sarebbe arreso a Sue Ann sotto le luci abbacinanti, Richard Henry Gilkey, scortato frettolosamente giù per un corridoio con uomini in cappellone da cowboy tutt'intorno e Sue Ann Corcoran al suo fianco. Passò accanto alla bandiera con la drizza che sbatteva. Il vento faceva sbattere la drizza contro l'asta, e chissa perché il significato ripetuto di quel rumore lo fece sentire debole. Entrò in casa e vide suo padre tutto attorcigliato davanti al televisore. La madre era in cucina a battere la frusta in una ciotola. - Guarda guarda chi hanno tirato dentro per la collottola. - Sono andato da Bud. - E secondo te avresti tempo da perdere con Bud? - Dobbiamo dare il Nitrospan a papa. - Be', muoviti e daglielo. - Non dovremmo chiamare per sapere il nuovo dosaggio? - Io non ho chiamato, e tu? - disse lei. La cabina di vetro aveva un foro attraverso il quale parlare. Ma loro lo avevano mandato alle casse costringendolo a parlare a voce alta per farsi sentire dalla cassiera vicina. - Io posso anche chiamarlo, - disse lei, - tanto non c'è. - Ti rispondera il servizio di segreteria. - Appunto, mi rispondera il servizio di segreteria per dirmi che lui non c'è. - Avevo in mente di chiamarlo, ma poi, - disse lui. - Ci penso io, - disse la madre,- tu occupati dell'unguento. Dopo cena spalmò l'unguento sul torace di suo padre. Suo padre si distese sul letto, la barba ispida e l'aspetto trasandato del vecchio che sta diventando un reietto, un paria, a eccezione degli occhi erano umidi e infossati, e chiedevano implorando un po' di tempo. Richard spalmò l'unguento e abbottonò la giacca del pigiama del padre pensando al momento, ormai vicino, in cui avrebbe dovuto pulirgli il sedere. Condanna pendente sul parente più prossimo. Prendeva vita in loro. Viveva nelle loro storie, nelle fotografie sul giornale, sopravviveva nei ricordi delle famiglie, viveva con le vittime, continuava a vivere, si fondeva, si duplicava, si quadruplicava, cresceva in progressione geometrica. Si fermò sulla porta della cucina e guardò sua madre agitare una soluzione da somministrare a suo padre il giorno dopo, con il primo gruppo di medicine. - Bene, buonanotte. - Dormi bene, - disse lei. Andò nella sua stanza e si sedette su una sedia per togliersi le scarpe. Tutto il significato di una data vita si collocava nell'atto di piegarsi a slacciare le scarpe e prepararle in un posto preciso per l'inizio del giorno seguente. Pensò all'altra persona. Quando stava nella cabina aveva il foro apposito attraverso il quale parlare. Ma da quando lo avevano rispedito alle casse gli toccava parlare nello spazio aperto dove chiunque poteva sentirlo. Teneva la pistola nascosta in macchina e ci pensò mentre scivolava
nel sonno, e pensò all'altra persona che aveva colpito su una delle strade dove lui aveva sparato a un automobilista, a un solo giorno di distanza. Il cosiddetto copycat. Non gli piaceva pensarci, ma scoprì che ultimamente, e sempre di più, quella persona stava diventando una presenza ossessionante nella sua mente. Aveva l'abitudine di alzarsi presto. Udì la pioggia sul tetto, si vestì e mangiò una pasta stando in piedi, con una mano a coppa sotto il mento per non far cadere le briciole. Aveva ancora tre ore e mezzo, prima di presentarsi al lavoro. Udì la pioggia gocciolare dalle grondaie e battere sulla tortiera di latta in cui lasciava gli avanzi per un gatto randagio quando se ne ricordava. Io so chi sono. Ma lui chi è? Si tirò su la cerniera del giubbotto. Poi si infilò il guanto sulla mano sinistra, un guanto bianco da donna, e uscì nella strada vuota, dove la macchina lo aspettava sotto la lamina metallica del cielo.
Parte terza: La nube della non conoscenza. Primavera 1978 Capitolo primo Io sono sempre stato un solitario. C'è una certa distanza nel mio modo di essere, un distacco misurato, come quello del mio vecchio, immagino, ed è una cosa che a volte ho tentato di ridurre, o almeno ci ho pensato, oppure mi sono detto chi se ne sbatte, e basta. C'è una cosa che mi piace dire a mia moglie. Lo dico spesso a mia moglie. Le dico di non gettare la spugna con me. Le dico che c'è una parola italiana, o latina, che spiega tutto. Poi le dico la parola. E questo cosa spiegherebbe? dice lei. E risponde, Niente. La parola che non spiegherebbe niente in questo caso è lontananza (*). Distanza o distacco, sicuro. Ma per come la uso io, per come la interpreto, una parola dai contorni netti e dalla grana fine, esprime la distanza perfetta del gangster, del sindacalista - del made man (**). Una volta che sei un made man, non hai bisogno dell'influenza costante di fonti esterne. Sei completo. Sei fatto. Sei fatto a mano. Sei un solido muro romano. Ero a Los Angeles e pensavo a queste cose. Dicono che L'A' sia un posto di matti, che esista solo a meta, e forse è per questo che stavo pensando a mio padre. E anche per via di mio fratello Matt era l'eterna premessa di Matt, il suo cantico dei cantici, che il nostro vecchio, Jimmy, vivesse da qualche parte nella California meridionale sotto falso nome, come sempre succede. Io continuavo a dirgli che Jimmy era morto sotto il suo vero nome. Eravamo noi quelli che l'avevano cambiato, il nome. Ma la cosa strana, la contraddizione, è che mi trovavo nel mezzo di un recinto in una viuzza di piccole case a un piano e guardavo le guglie di quello strano ammasso architettonico noto come Watts Towers, una stramberia nata dalle innocenti visioni anarchiche di qualcuno, e più guardavo, più pensavo a Jimmy. Le torri, le vasche per gli uccelli, le fontane, i pali decorati, i cocci vivaci, i colori familiari, il verde delle bottiglie di 7-Up e il blu del Milk of Magnesia, tutte le vivaci maioliche incastonate nel cemento, insomma tutto quel complesso di strutture, porte e pannelli costruito
a mano, da un solo uomo, un immigrante di un posto vicino a Napoli, probabilmente analfabeta, che aveva lasciato moglie e famiglia, o forse erano stati loro a lasciare lui, non ricordavo bene, un uomo la cui storia era piena di lacune, la data di nascita incerta, e che aveva finito per impiegare trentatré anni della sua vita a costruire quel colosso con verghe di ferro, cocci di terracotta, ciottoli, conchiglie, bottiglie di bibite e rete metallica, impastando il tutto con la malta, tremila sacchi di sabbia e cemento, un uomo che aveva trascorso tutti quegli anni con le mani e le braccia incrostate di scaglie di vetro e gli occhi infiammati dal pulviscolo di vetro, appeso a una cintura da lavavetri, penzolante dall'alto delle torri, con la tuta strappata e il cappello di panno polveroso, la faccia bruciata dal sole, e le lampadine appese ai raggi di ruota per poter lavorare di notte, a circa trenta metri di altezza, con Caruso di sotto sul grammofono. Jimmy era un amante delle situazioni estreme, un chiromante che leggeva il futuro nelle linee della propria carne, ma un giorno si era guardato la mano, secondo il mio fratellino, e aveva scoperto che era liscia. Allora era diventato, riuscivo a immaginarmelo come un vagabondo eccentrico? Per certi versi sì, un uomo che non si lava né si cambia i vestiti, che parla da solo per la strada come un barbone. Per altri versi invece, me lo immaginavo sospeso lassù, elevato al di sopra di se stesso per produrre un'opera d'arte incoerente e senza precedenti, con cemento e filo spinato. Questa era la contraddizione. Il futuro di Jimmy aveva chiuso i battenti la sera in cui era uscito a comprare le sigarette. Perché avrei dovuto anche solo provare a immaginarmelo in una realta alternativa, a immaginare che fosse venuto qui, qui a meta, fuggendo verso la luce di L'A', verso il clima mediterraneo? Camminai tra quelle torri che sembravano lavorate al traforo, tre alte, quattro più piccole, e vidi le maioliche che aveva inserito nell'intonaco sotto una volta, e il vetro fuso e la madreperla schiacciati sulla superficie dei mattoni cotti al sole. Nonostante la natura di scarto dei materiali, l'apparente improvvisazione, e nonostante il predominio dell'intuizione pura, l'uomo era sicuramente un grande costruttore. Il posto aveva una sua unita strutturale, dava l'impressione di temi ripetuti, di un abile lavoro d'ingegneria. E qua e la c'erano le sue iniziali, Sr, Sabato Rodia, se questo era davvero il suo nome - Sr inciso nelle arcate come i graffiti nelle strade vicine. Cercai di capire la forza della presenza di Jimmy in quel posto. Lo vidi borbottare tra sé, sporco e male in arnese, ma anche privo di costrizioni, senza niente e nessuno a cui render conto, in una stanza grande come una scatola da scarpe, ad affettare una pera con un temperino. Jimmy vivo. Poi pensai a una cosa successa quando avevo circa otto anni e quel ricordo chiarì l'associazione. Vidi mio padre fermo dall'altra parte della strada, a guardare due giovanotti, due ragazzotti alle prime armi che cercavano di posare i mattoni per un paio di pilastri davanti a una casa modesta. Prima restò a guardare, poi diede qualche consiglio, gesticolando, parlando un inglese volutamente smozzicato per farsi capire dai due ragazzi, poi intervenne con decisione: porse la giacca a qualcuno, riposizionò il filo a piombo e infine prese in mano la cazzuola e posò i mattoni in linea, modellando la malta con gesti rapidi e competenti, lasciandomi sbalordito perché non sapevo che fosse capace di fare quel lavoro, e
non credo che lo sapesse neppure mia madre. Allora attraversai la strada, e ricordo che provai una sorta di orgoglio la in mezzo a uomini anziani e di mezza eta, gli ispettori dell'aria fresca, come li chiamavano, e nessuno era più felice di loro, mentre guardavano un uomo in camicia bianca e cravatta portare a termine un abile lavoro in muratura. Una volta finite le torri, Sabato Rodia diede via la terra e tutto il lavoro che c'era sopra. Lasciò Watts e andò lontano, disse, a morire. La sua opera è una specie di vortice spensierato di rumore, una cattedrale del jazz, e ciò che mi colpiva tanto, che mi turbava, era che mio padre, il padre-fantasma, viveva tra quei muri. La cameriera portò una forchetta di metallo ghiacciato per la mia insalata lifestyle. Big Sims stava mangiando un cheeseburger con tre tipi di formaggio cheddar, ciascuno dettagliatamente descritto sul menu. C'era una crepa nel muro dovuta alla scossa di terremoto del giorno prima, e quando Sims rise gli vidi in bocca un intreccio di filamenti di lucido formaggio. Sentivamo i voli di collaudo alzarsi stridendo da Edwards. Sims disse che esistevano aerei che rimbalzavano al bordo estremo dello spazio e tornavano rinati. Eravamo a Mojave Springs, un centro di congressi poco lontano da Los Angeles. Io ero stato assunto da poco alla Waste Containment, nota nel campo come la Whiz Co, quindi avevo lo spirito del nuovo arrivato che vuole orientarsi, adattarsi agli usi e costumi, e il mio consigliere informale era Simeon Biggs, un progettatore di discariche che lavorava per la societa da quattro o cinque anni. Al convegno partecipavano altre societa del settore, e dividevamo lo spazio del seminario con un gruppo più piccolo e più impegnato, quaranta coppie sposate che erano venute per scambiarsi i partner sessuali e parlare dei loro sentimenti. Noi eravamo i manager della spazzatura, loro erano gli swinger, e ci facevano sentire impacciati. Sims disse: - Sai, sono quasi due anni ormai che la nave è la fuori, a navigare da un porto all'altro. - E allora? Non vogliono accettare il carico? - Da un paese all'altro. - Quanto è tossico il carico? - Ho sentito delle voci, - disse Sims. - Questo non è il mio campo, naturalmente. Ma in una stanzetta sul retro del nostro ufficio di New York si narra una leggenda su una nave fantasma. Il Liberiano Volante. - Pensavo che fosse prassi normale scaricare sostanze terribili nei Pms. Un Pms, lo avevo appena scoperto, era un Paese Meno Sviluppato, ovvero un paese sottosviluppato nel linguaggio delle banche e altre entita globali. - Quei paesi dalla Pelle Molto Scura, hai presente? Sì, è una storia orribile che sta diventando sempre più pesante. Un paese riceve un compenso pari a quattro volte il suo prodotto nazionale lordo per accettare un carico di rifiuti tossici. Dopodiché cosa succede? Non vogliamo saperlo. - D'accordo. Ma cos'è che rende questo carico così inaccettabile? E perché non sappiamo in che cosa consista esattamente? - Forse stiamo cercando di risparmiarci un grosso imbarazzo, disse Sims.
La scossa si era verificata all'ora dell'aperitivo mentre ero nella suite di rappresentanza con alcuni colleghi, che avevano sgranato gli occhi al di sopra dei loro bicchieri nella lenta inclinazione del mondo. La stanza aveva mandato un sibilo e un gemito. Io mi ero sforzato di controllare l'espressione sulla mia faccia, in attesa che la situazione si definisse. Non era stata una scossa lieve. Era nella fascia del cinque, come avevamo scoperto più tardi, una 5,4, e mi sentii giustificato per la sensazione di potenziale pericolo che avevo provato, quando vidi la crepa nel muro del ristorante, all'ora di pranzo. - Tu ci credi che sia un carico di droga? Camuffato da rifiuti tossici? Perché ho sentito anch'io delle voci. - Dimmi tutto, - fece Sims. Era seduto di fronte a me, con la faccia da bisteccone e il corpo imponente, il labbro inferiore sporgente, le orecchie piccole e stranamente prive di lobo, orecchie rotonde e perfettamente cesellate, minute orecchie leziose da folletto. - Sono ansioso di sentire la tua versione, - disse, con una traccia di gentile condiscendenza nella voce. - Allora. Uno, è un carico di eroina, il che non ha proprio senso. Due, sono le scorie di un inceneritore della zona di New York. Di tipo industriale per lo più. Dieci milioni di chili. Arsenico, rame, piombo, mercurio. - Diossine, - disse amabilmente Sims, addentando la carne cotta su braci di mesquite. Quattro coppie occuparono il tavolo rotondo accanto al nostro e io e Sims osservammo una pausa di silenzio. Volevamo mostrarci divertiti e lievemente sarcastici. Quelli erano swinger, naturalmente, vestiti in modo aggressivo, in terza persona, e si appoggiarono allo schienale uno dopo l'altro quando il ragazzo versò loro l'acqua. - Staccano per il pranzo. Tanto di cappello per questo, - disse Sims. - Ho sentito delle storie sulla nave. - La nave continua a cambiare nome. La sapevi questa? - No, ti confesso di no. - La nave è salpata da un molo sullo Hudson River con un nome che non so quale fosse, ma l'ha cambiato tre mesi dopo al largo della costa occidentale africana. Poi l'hanno cambiato di nuovo. Questa volta da qualche parte nelle Filippine. - Enormi quantita di eroina, ho sentito dire. Ma da quando in qua l'eroina viene spedita dagli Stati Uniti in estremo oriente? Non ha senso. - Non ha senso, - confermò Sims.- Salvo che coincide con un'altra voce. Sai quale? - Non credo. - E' in mano alla mala. Ci provò gusto a dirlo, arrotondando le parole, e sgranando un po' gli occhi. - Cos'è che è in mano alla mala? - La societa armatoriale che possiede le navi che affittiamo. La criminalita ha un sacco di interessi nel trasporto dei rifiuti. Quindi perché non nella manipolazione dei rifiuti, nella spedizione dei rifiuti, in tutto quello che riguarda i rifiuti? - C'è una parola in italiano, - dissi. - E forse non si tratta solo della societa armatoriale, forse c'è
di mezzo anche la nostra. Siamo in mano alla criminalita organizzata. Sono soci segreti. Oppure sono i proprietari toutcourt. Ci provò ancora più gusto a dire questo. Non che ci credesse. Ma voleva che ci credessi io, o che prendessi in considerazione l'idea, in modo da potermi ridicolizzare. Aveva un ghigno duro, che si prendeva gioco di qualunque sentimento semplicistico si fosse tentati di nutrire in nome del proprio credo personale nella cospirazione. - C'è una parola in italiano. Dietrologia (*). Sarebbe la scienza di quello che sta dietro a qualcosa. A un fatto sospetto. La scienza di ciò che sta dietro a un fatto. - Loro hanno bisogno di questa scienza. Io non so che farmene. - Non so che farmene neanch'io. Te lo sto solo raccontando. - Io sono americano. Vado alle partite di baseball, - disse. - La scienza delle forze oscure. Evidentemente loro pensano che questa scienza sia abbastanza legittima da richiedere un nome. - Bah, la sai una cosa? A gente che ha bisogno di una scienza del genere, potrei degnarmi di dire che noi abbiamo scienze vere, scienze difficili, e non abbiamo bisogno di scienze immaginarie. - Ti stavo solo dicendo la parola. Sono perfettamente d'accordo con te, Sims. Ma la parola esiste. - C'è sempre una parola. Probabilmente c'è anche un museo. Il Museo delle Forze Oscure. Ci tengono un milione di fotografie indistinte. Oppure la mafia l'ha fatto saltare in aria? Fu a questo punto che Sims rise, mettendo in mostra la bocca impastata di formaggio. Controllai il tavolo rotondo. Due delle donne fumavano. Altre due indossavano gilet borchiati stile western. Una era miope, e teneva la faccia appiccicata al menu, e una aveva un accento che non riuscivo a decifrare. Tutte le donne erano in ghingheri, cariche di catene, braccialetti e spille, orecchini a gancio con pendagli di perline, gioielli che sembravano lavorati a sbalzo, martellati, e una masticava una carota e parlava dei figli. - Tu sai l'italiano? - chiese Sims. - Ho studiato latino per un po'. A scuola, poi per conto mio, piuttosto bene. E mi sono dilettato un po' col tedesco e l'italiano. - Mia moglie è tedesca, - disse lui. - L'ho conosciuta quand'ero di stanza in Germania. - Uno spavaldo soldato di fanteria. - La descrizione è calzante. Salvo che ero nell'Air Force. - E lei parla tedesco in casa? - Un po'. Sì. Anzi, un sacco. - E tu capisci? - Per forza, - disse lui. Gli uomini indossavano camicie stampate dal colletto largo, sbottonate fin sul torace. Gli uomini erano tutti capelli e peli. Non i capelli della protesta degli anni Sessanta. Petti villosi, baffi, basette folte, grandi teste di capelli hollywoodiani, capelli veri che sembravano toupé di cattivo gusto, pettinature pretenziose, con ricci laccati e onde pesantemente gonfiate. Big Sims chiese il conto. - Ma noi amiamo il nostro lavoro, vero, Nick? Chiunque sia il proprietario delle navi che usiamo. - Io amo il mio lavoro. - Anch'io. La sua giacca sportiva era appoggiata sullo schienale della
seggiola, troppo ingombrante per poterla infilare tra le palme nane che ornavano la balaustra sovrastante. Indossava una camicia bianca a maniche corte con una cravatta scura e un fermacravatta a forma di scimitarra. Mi guardò fisso negli occhi. - Vuoi andare a una partita dei Dodgers? - No, - dissi. Non sembravano sorprendenti, tutte quelle storie di navi fantasma, anche se erano soltanto voci infondate, perché la sera prima c'era stato detto che i rifiuti sono il segreto meglio custodito del mondo. Lo aveva detto Jesse Detwiler, l'archeologo della spazzatura che aveva parlato alla riunione plenaria circa un'ora dopo la scossa - un discorso difficile da mandar giù dopo il piccione alla griglia e le verdure baby Zen. Sulle nostre facce si era dipinta un'antica espressione di allarme, all'ora dell'aperitivo, quando la stanza aveva tremato intorno a noi. Era un'espressione che aveva trascinato nella sua scia un certo impaccio, un vergognoso imbarazzo per la paura tradita, la sensazione di essere stati colti di sorpresa, appena prima di riprendere il controllo, ed era questa la faccia che si aggirava nella suite, al di sopra delle vodka tonic, creando un ironico legame tra i manager, nell'aria condizionata. Vedemmo Detwiler nell'atrio dopo aver pagato il conto. Sims gli andò incontro e lo prese per il collo, letteralmente, lo strinse in una presa di testa e finse di tempestargli di pugni il cranio rasato. A quanto pare si conoscevano, e ci demmo un appuntamento per andare tutti e tre a vedere una discarica che Sims aveva progettato, un'opera imponente ancora in via di costruzione. Un uomo e una donna attraversarono l'atrio e io osservai attentamente la donna. Forse per via della sua andatura ancheggiante, per il suo modo di muoversi, tutta sberluccicante e con il culo alto, attenta alle apparenze come il personaggio di un film di serie B fradicio di alimenti e di gin. Andai a controllare il nostro programma sul tabellone a cavalletto vicino alle porte girevoli: iscrizione e caffè, leggi sulle autorizzazioni, immagazzinaggio di scorie, con gli argomenti e i nomi degli oratori a caratteri bianchi mobili, dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 17, e poi ancora fino a tarda sera, e pensai agli swinger e ai loro programmi. La Whiz Co' era una societa con una corsia preferenziale verso il futuro. Il Futuro dei Rifiuti. Questo era il titolo che avevamo dato al nostro congresso nel deserto. L'incontro era allargato a tutto il settore ma noi eravamo la societa che forniva la forza motrice, eravamo i precursori, gli audaci imprenditori, quelli pronti a capire le vere dimensioni dell'argomento. Avevo poco più di quarant'anni quando mi avevano assunto, strappandomi a un lavoro esangue come scrittore di discorsi e aiuto Pr, ed ero pronto per qualcosa di nuovo, per una fede da abbracciare. Le grosse societa sono cose grandiose e terribili. Ti prendono e ti plasmano appiattendoti in men che non si dica, ti girano e ti rigirano come vogliono. E lo fanno senza ricorrere alla persuasione aperta, lo fanno con sorrisi e cenni del capo, con un'inflessione collettiva della voce. Sei all'inizio di un corridoio e quando arrivi in fondo hai gia adottato la filosofia globale della societa, la Weltanschauung. Uso questa parola greve e stratificata perché da
qualche parte nelle sue profondita c'è un sussurro di contemplazione mistica che sembra del tutto appropriato all'argomento rifiuti. Andai a correre con Big Sims, sui sentieri usati dagli escursionisti, gente con lo zaino in spalla e scarponi robusti, e sui sentieri per i cavalli che si inerpicavano tra le colline. Portavamo occhiali da sole e berretti a visiera e correvamo su pietrisco e sabbia rossa, e Sims non smetteva mai di parlare, parlava e correva, correvamo tra le sterpaglie del deserto e io mi affannavo per non restare indietro. - E' strano, sai, ho accettato questo lavoro quattro anni fa ed è un buon lavoro, ben pagato, con tanto di assistenza sanitaria e in più provvedera alla mia vedova quando sarò morto di fatica, ma mi accorgo... te ne accorgi anche tu, Nick? Fin dal primo giorno mi accorgo che non vedo altro che spazzatura. Ho studiato ingegneria. Non ho studiato spazzatura. Pensavo che forse sarei andato in Tunisia a costruire strade. Avevo un'idea romantica, sai, infilarmi una sahariana e coprire di strade il mondo. Di fatto me la passo piuttosto bene. Faccio un lavoro vero, un lavoro importante. Le discariche sono importanti. Il problema è che il lavoro mi perseguita. L'argomento mi perseguita. La settimana scorsa sono andato in un nuovo ristorante, un posto molto carino, sai, e non mi sono ritrovato a guardare i resti nei piatti della gente? Gli avanzi. Vedevo le cicche nei portacenere. E quando siamo usciti. - Se vedi immondizia dappertutto è perché è davvero dappertutto. - Ma prima non la vedevo. - Adesso sei illuminato. Rallegratene, - gli dissi. Le nostre scarpe da ginnastica erano inconsistenti sulle lastre di pietra e il tufo. Correvamo su sentieri inzaccherati dallo sterco dei cavalli noleggiati, correvamo annaspando e ansimando, ansimando mentre parlavamo, e il sudore scendeva a rivoli sulla faccia di Sims. Stavo al passo con lui. Era necessario non restare indietro, continuare a correre, dimostrare di poter parlare mentre si corre, dimostrare che si può correre, che si è capaci di non restare indietro. Il sudore colava sui nostri corpi incollandoci le camicie alla schiena. - Be', siamo usciti dal ristorante, e mentre aspettavamo che il ragazzo ci riportasse la macchina, ho dato un'occhiata nel vicolo. E ho visto qualcosa di strano. Un recinto, una specie di recinto chiuso, contro il muro. Una gabbia praticamente. Con tre lati e un coperchio. Sbarre di ferro battuto e un grosso lucchetto -. Parlava e s'interrompeva, pompando fuori le parole. - E ho dovuto inoltrarmi un po' nel vicolo, prima di riuscire a vedere esattamente di cosa si trattava. Ho sentito l'odore ancora prima di vedere. La gabbia era piena di sacchi d'immondizia. Avanzi di cibo dentro sacchi di plastica. Un giorno e una notte di spazzatura del ristorante. Mi guardava, continuando a correre. - Perché la chiudono in una gabbia? - chiesi. Lui mi lanciò un'occhiata. - I derelitti escono dal parco e la mangiano. Tornammo verso l'agglomerato di edifici stuccati di rosa che ardevano nella luce. Non era facile tener dietro a Sims. Aveva una resistenza da ex pugile ben pasciuto con enormi riserve di grasso e carburante fossile - non gli mancavano le calorie da bruciare e produceva sudore in abbondanza.
- Perché il ristorante non lascia che mangino la spazzatura? - Perché è di loro proprieta, - disse lui. Cinque jet da combattimento passarono in formazione compatta, volando bassi, riempiendo la vallata di un rombo inquietante, e Sims alzò il pollice verso il cielo come per segnalarmi qualcosa che mi era sfuggito. Continuavo a vedere la faccia che avevo la sera prima, quando la scossa nella fascia del cinque aveva fatto tremare la stanza, tutta la fatica che mi ci era voluta per riconciliare forze in contrasto tra loro. Scendemmo a rotta di collo oltre il campo da golf e i cottage, un mondo ben tosato di gente a delicati colori pastello, in piccoli gruppi vivaci, quartetti ordinati, e mi sentii sollevato che la corsa fosse quasi finita. - Chiedimi della nave, - disse Sims. - Batte bandiera liberiana? - Sì, alla partenza. Però adesso ho sentito dire che è registrata a Panama. - E' possibile? Cambiare bandiera a meta traversata? - Non lo so. Non è il mio campo, - disse Sims. - Ma le voci sulla nave non riguardano soltanto quello che la nave trasporta nella stiva. O chi sia il proprietario. O quale sia la destinazione. - D'accordo, cos'altro c'è? - E' una normale nave da carico, o anche su questo c'è una certa confusione? - Che tipo di nave vuoi che sia se trasporta un carico? - Ricordami di spiegarti un paio di cosette sul liquame, una volta o l'altra. Rise e continuò a correre, saltellando con un ritmo da be-bop, tenendo i gomiti in fuori e schioccando le dita, e mi sorpassò in tutta supplesse. Sentii il morso della competitivita, una costrizione dello spirito che ti mette in guardia contro la vergogna della perdita, e accelerai per raggiungerlo. E la cosa interessante è che più tardi questa storia del frugare tra i rifiuti, di vecchi avvinazzati e bambini scappati di casa che si intrufolano in un vicolo per arraffare un pezzo di pane e scarti di carne nodosa - più tardi, con Detwiler, questa storia si sarebbe ripresentata, ma in modo diverso, con una sfumatura da teatro radicale degli anni Sessanta. Andammo tutti e tre insieme alla discarica verso la fine del pomeriggio, mezz'ora di macchina a est, in parte su strade strettamente riservate ai militari. Sims aveva un permesso che consentiva l'entrata a determinate ore, un accordo elaborato tra la Whiz Co' e un'agenzia sepolta dentro il Pentagono, cosa che ci risparmiò la noia di un giro interminabile. La squadra addetta alla costruzione dell'impianto aveva finito il turno per la giornata. Ci fermammo sopra una buca nel terreno, un cratere scavato secondo un progetto preciso, profondo quasi duecento metri, e lungo circa un miglio, disseminato di macchine dal muso rincagnato lungo i tratti a terrazza, con il fondo e gran parte delle pareti inclinate ricoperti da un immenso telo luccicante, una pellicola di polietilene, azzurro argento, che rifletteva il movimento delle nuvole e rollava nel vento. Fui colto di sorpresa. La vista di questa cosa, di questa enorme cavita artisticamente tappezzata di plastica, era il primo segno materiale che mi mostrava
come questa attivita avesse una sua drastica grandezza, una certa grandiosita persino - i falchi a coda rossa trasparenti nel sole al tramonto, gli steli primaverili della iucca alti come bacchette magiche e questa membrana ad alta densita stranamente ed egualmente bella, in un certo senso, uno strumento profilattico, un sistema di controllo del gas, e il cratere che rivestiva, destinato ad accogliere migliaia di tonnellate di spazzatura al giorno, la vostra spazzatura e la mia, per una sepoltura nel deserto. Ascoltai Sims snocciolare cifre, quanto metano avremmo recuperato per illuminare quante case, e provai una strana euforia, un senso di fedelta verso la societa e la causa. Sims parlò a entrambi ma soprattutto a Jesse Detwiler, perché era lui il visionario, tra noi, il teorico dei rifiuti le cui provocazioni avevano spaventato tutto il settore. E Sims era eloquente, amava l'argomento e gesticolava con movimenti ampi, illustrando con le mani gli strati di plastica e terra, la trinciatura dei copertoni, la mescolanza di sostanze chimiche con la polvere da combustione. Personalmente, non avevo ancora visto queste cose, ma era facile capire cosa significassero per Sims, una fatica terrena, del tutto soddisfacente nella sua temprata mescolanza di tecnologia e vecchio, duro lavoro manuale, con la polvere in bocca e un muro di odori che ti penetravano fin nelle ossa. Detwiler si fermò sul bordo del cratere a guardare giù. - E che mi dite del materiale a rischio? - Verra chiuso in bidoni e seppellito. Ma non ce ne dimenticheremo. Sara registrato su file 3D. Possiamo trovarlo se è necessario. - Qual è il vostro approccio alle scorie nucleari? - Scorie nucleari, hai detto. Per questo abbiamo assunto Nick. Vidi il baluginio nello sguardo di Simeon e dissi con aria impassibile: - Ho una certa esperienza di pubbliche relazioni. Detwiler sollevò impercettibilmente il mento, per sottolineare lo scarso divertimento che ricavava dalla mia battuta. Aveva la spavalda sicurezza del dissidente, dell'elemento estraneo che cerca di intorbidare le acque, sovvertendo le regole di ogni credo compiaciuto. E sembrava rifatto, rimaneggiato, testa rasata e baffi folti, un tipo sicuro di sé, con un trainer personale in palestra e un buon conto in banca, vestito in lupetto nero e jeans firmati. Mi venne in mente che, a parte i capelli rasati, avrebbe potuto essere uno swinger. - Ti dirò cosa vedo qui, Sims. Il panorama del futuro. L'unico panorama che restera da guardare. Più i rifiuti saranno tossici, più aumentera il livello di sforzo e di spesa che i turisti saranno disposti a tollerare per visitare il sito. Però credo che non dovreste isolare questi siti. Isolare i rifiuti tossici va bene. Li rende più grandiosi, più minacciosi e magici. Ma la spazzatura ordinaria dovrebbe essere piazzata nelle citta che la producono. Esponete la spazzatura, fatela conoscere. Lasciate che la gente la veda e la rispetti. Non nascondete le vostre strutture. Create un'architettura fatta di immondizia. Progettate fantastiche costruzioni per riciclare i rifiuti e invitate la gente a raccogliere la propria spazzatura e a portarla alle presse e ai convogliatori. Così imparera a conoscere la propria spazzatura. Il materiale a rischio, i rifiuti chimici, le scorie nucleari, tutto questo diventera un remoto paesaggio all'insegna della nostalgia. Gite in autobus e cartoline, posso garantirlo.
Sims non era sicuro che questa tirata gli andasse a genio. - Che tipo di nostalgia? - Non bisogna sottovalutare la nostra capacita di provare desideri complessi. Nostalgia per i materiali della civilta messi al bando, per la forza bruta di vecchie industrie e vecchi conflitti. Detwiler era stato una figura marginale negli anni Sessanta, un guerrigliero della spazzatura che rubava e analizzava i rifiuti domestici di gente famosa. Aveva diramato una serie di comunicati finto-comintern sul contenuto di quell'immondizia, con tirate personali, e la stampa underground non ci aveva messo molto a impadronirsi di quel materiale. Le sue attivita erano culminate in un'ondata di popolarita quando era stato arrestato per aver sottratto la spazzatura di J. Edgar Hoover sul retro della casa del Direttore nella zona nordovest di Washington, ed era questo che la gente ricordava di lui, o quantomeno quello che avevo ricordato io appena mi era capitato di risentire il nome di Jesse Detwiler. Si era guadagnato un fugace momento di celebrita nelle cronache dell'epoca, condiviso con la banda girovaga di ragazze con i tamburelli e bombaroli, di levitatori e patiti dell'acido e bambini sperduti. Un uccellino sorvolò il cratere, un cardellino o uno scricciolo, muovendosi con nervosa fugacita, con l'urgenza del tramonto. Detwiler disse che le citta crescevano sulla spazzatura, centimetro per centimetro, guadagnando in altezza nel corso dei decenni man mano che i rifiuti sepolti aumentavano. La spazzatura veniva sempre ricoperta o spinta ai margini, nelle stanze come nel paesaggio. Ma aveva un suo impeto e reagiva spingendo a sua volta. Spingeva in ogni spazio disponibile, dettando schemi di costruzione e alterando sistemi di rituale. E produceva ratti e paranoia. Così la gente era stata costretta a sviluppare una risposta organizzata, ovvero a inventarsi un modo ingegnoso per disfarsi della spazzatura e costruire una struttura sociale ad hoc - operai, manager, addetti alla rimozione, saccheggiatori. La civilta è costruita, la storia è guidata. Parlava con il suo stile da talk-show, esperto, concentrato, genericamente intimo. Era un attivista della spazzatura, alla caccia di contratti per libri e documentari, e non credo che gli importasse se ad ascoltarlo eravamo in due o in mezzo milione. - Noi abbiamo ribaltato tutto, capite, - disse. La civilta non era nata e fiorita tra uomini che scolpivano scene di caccia su portali di bronzo e parlavano di filosofia sotto le stelle, mentre l'immondizia non era che un fetido derivato, spazzato via e dimenticato. No, era stata la spazzatura a svilupparsi per prima, spingendo la gente a costruire una civilta per reazione, per autodifesa. Eravamo stati costretti a trovare il modo di liberarci dei nostri rifiuti, di usare quello che non potevamo gettare, di riciclare quello che non potevamo usare. La spazzatura aveva reagito alla spinta crescendo ed espandendosi. E così ci aveva costretti a sviluppare la logica e il rigore che avrebbero condotto all'analisi sistematica della realta, alla scienza, all'arte, alla musica e alla matematica. Il sole tramontò. - Ci credi davvero? - dissi. - Ci puoi scommettere le palle. Io insegno alla Ucla. Porto i miei studenti alle discariche di immondizia e li aiuto a capire la civilta in cui vivono. Consuma o muori. Questo è il dettato della cultura. E
finisce tutto nella pattumiera. Noi creiamo quantita stupefacenti di spazzatura, poi reagiamo a questa creazione, non solo tecnologicamente ma anche con il cuore e con la mente. Lasciamo che ci plasmi. Lasciamo che controlli il nostro pensiero. Prima creiamo la spazzatura e dopo costruiamo un sistema per riuscire a fronteggiarla. Le nubi all'orizzonte assunsero una sfumatura al cromo mentre la volta celeste era ancora di un azzurro pomeridiano. Ma la buca si scurì in un battibaleno, mentre il grande telo di plastica lambito dal vento produceva una musica tra le più inquietanti, assolutamente estranea alla natura, e la superficie si faceva color indaco, con lievi striature di cielo, sfumata d'ombre in movimento. Restammo lì un momento a guardare poi tornammo verso la macchina. Detwiler si piazzò nel bel mezzo del sedile posteriore, punzecchiandoci a proposito delle discariche costruite sul territorio sacro agli indiani. E ironizzando sulle posizioni d'avanguardia della Whiz Co'. Secondo lui, l'azienda aveva gli stessi appetiti spietati di qualsiasi societa tradizionale. Viaggiavamo su una strada deserta. - Sei al corrente delle voci che corrono, Sims? Su quella vostra nave. - Non è di mia competenza. - Sta battendo tutti gli oceani del mondo nel tentativo di scaricare una sostanza infernale. - Preferisco girarmi dall'altra parte, - disse Sims. - Sara meglio che ti rigiri. Ho sentito che sta tornando verso gli Stati Uniti. - Allora ne sai più di noi -. Sims detestava ammetterlo. - Cosa ne sappiamo noi, eh Nick? - Bah, noi non siamo gente degli anni Sessanta. Siamo gente degli anni Quaranta e Cinquanta. - Siamo limitati, - disse Sims. - Sappiamo poco di tutto. - Ascoltavamo la radio, noi, - disse Sims. - Conosciamo il Cavaliere Solitario e Tonto. - Figure del passato remoto, - dissi. - Gli zoccoli tonanti del grande cavallo Silver. - Un cavallo focoso più veloce della luce. - E' questo quello che sappiamo, Jesse. - Una nuvola di polvere. - E un caloroso ioo-huu Silver! Con voci dal timbro profondo, adattate al dramma baritonale della vecchia trasmissione radiofonica. - Fate tanto gli spiritosi, - disse Detwiler, - ma scommetto che non sapete il nome del cavallo di Tonto. Avanti, Sims. Il cavallo del bianco lo conosci. Come mai non conosci il cavallo dell'indiano? Non è che Detwiler mi piacesse, ma mi piaceva ascoltarlo. Sims invece non lo sopportava. Aveva voglia di bloccarlo con un'altra presa di testa, ma non così fraterna questa volta. No, non conosceva il cavallo dell'indiano, e forse gli seccava un po'. Jesse continuò a parlare. - Più i rifiuti saranno pericolosi, più diventeranno eroici. Terreno contaminato da radiazioni. Nel secolo a venire, arriveremo a considerare sacra questa terra, proprio come oggi la venerano gli indiani. Parco Nazionale del Plutonio. L'ultima dimora degli dèi
bianchi. Turisti con maschere antigas e tute protettive. - Come si chiamava il cavallo dell'indiano? - chiesi. - Scout, okay? E voi mi avete proprio deluso. Questa è una grossa lacuna culturale, ragazzi. Il cavallo di Tonto. Questo dovevate saperlo. Si sporse verso di noi, provocatorio. - Una nave che trasporta migliaia di barili di rifiuti industriali. Oppure è eroina della Cia? Io non stento a crederci, e sapete perché? Perché è facile da credere. Saremmo stupidi a non crederci. Sapendo quello che sappiamo. - Cos'è che sappiamo? - chiese Sims. Ed ecco una formazione di elicotteri, dieci o dodici, venire dritta verso di noi dalla strada, enormi mezzi d'assalto che volavano come angeli impazziti, per poi passarci sopra la testa con una raffica assordante che risucchiò l'aria dalla macchina lasciandoci semitramortiti, con la testa incassata tra le spalle. - Che tutto è collegato, ecco cosa sappiamo - disse Jesse. Non è che il mio lavoro precedente mi dispiacesse in tutto e per tutto. In genere scrivevo discorsi per i dirigenti delle societa - i presidenti e gli amministratori delegati - uomini rubizzi e canuti con grossi nasi devastati, patriarchi di questo o quel settore dell'industria. Per lo più amavano lo sport e raggiungevano a bordo degli aerei della societa remoti laghi canadesi, dove pescavano nelle ultime acque pure del continente. Una volta feci anch'io uno di quei viaggetti insieme a un presidente di nome Mchenry, un uomo gentile e simpatico, devo dire, proprietario di alcune societa di software che lavoravano anche per il governo. E sul lago c'erano i suoi nipoti, un paio di giovani pallidi col giubbotto di piumino, attrezzati per sport cruenti. Mi fermai davanti alla vecchia casa in riva al lago con il suo rivestimento di assicelle di cedro, gli alti comignoli e i mobili da giardino frusti e scheggiati tipici del rifugio nei boschi, e la guardai a lungo. La guardai e provai una strana sensazione di nostalgia. Avrebbe potuto essere un oggetto del mio passato, un presagio alla rovescia, maestosamente rustica, con i soffitti alti, la naftalina nelle stanze inutilizzate e le spesse coperte ruvide sui letti degli ospiti, sormontati dagli emblemi del college - la promessa di cose che non avevo mai avuto ma di cui, stranamente, sembrava avessi una conoscenza di tipo collettivo, ai margini della memoria. E la sicurezza con cui i ragazzi maneggiavano i fucili, ci erano nati, capite - erano solo ragazzi e io ero un uomo, eppure credo di aver imparato qualcosa da quei due, Johno e Todd, pur senza partecipare ai loro appostamenti. Per lo più rimasi seduto in veranda a lavorare ai discorsi per Mchenry, ma dai ragazzi riuscii a farmi un'idea di cosa significasse crescere in questo tipo di mondo, di quanto fosse commensurato a ciò che ci si aspettava di diritto - il mondo creato dal denaro, e il portamento eretto, la facilita di parola, gli emblemi del college sopra il letto insieme a un senso di legittimo privilegio e di fruibilita della storia. A cena chiacchierammo piacevolmente, delle loro scuole e dei loro sport, e io mi compiacqui di questa gioventù facile, grezza, nel senso migliore del termine, robusta, vigorosa e incompleta. Ne ricavai un piacere riflesso, mi sentii camminare con il loro passo scattante, sentii cosa si prova a lanciare una lenza nel sole senza ottenere altro che la carezza del legno levigato della barca e il primo tepore
sulle braccia, e anche quando sentii affiorare qualcosa dal profondo, una figura costretta in un angolo, riuscii a seppellirla nella conversazione conviviale e a disperderla nel fuoco scoppiettante che ardeva nel grande focolare di pietra. Presi appunti e mi presentai a tutti, visitando il padiglione, quasi un ettaro affollato - argani e gru, unita idrauliche per imballatori pesanti e poi i mezzi di trasporto, i camion dei rifiuti che sembravano giocattoli a dispetto della loro mole, innocenti con la loro lucida carrozzeria, impreparati al duro lavoro che li aspettava. Ero fermo davanti a un modello di trinciacarta per documenti riservati chiamato Watergate, e stavo parlando con un rappresentante delle vendite di una questione tecnica, istruendomi doverosamente e buttando giù appunti, quando vidi la donna davanti a una fila di nuovi prodotti informatici, in jeans attillati e borsa a tracolla con applicazioni di satin - non era dei nostri. Quando alzò la testa e guardò dalla mia parte, capii chi era. L'avevo vista attraversare l'atrio dell'albergo con il marito, il giorno prima o chissa quando, e l'avevo guardata camminare quasi in punta di piedi sui tacchi alti, scelta dall'obiettivo nella fluida miscela di tiratardi e fattorini, e adesso era lì, e mi piantava gli occhi addosso, segretamente divertita da qualcosa. Prendemmo il caffè sul bordo della piscina. Erano le dieci del mattino e l'addetto alla piscina e i giardinieri scivolavano ai bordi della conversazione. - In mezzo ai macchinari per l'immondizia. Strano modo di passare la mattinata, Donna. Ci eravamo scambiati solo il nome di battesimo. - Un piccolo cambiamento di ritmo, - disse lei. - Rispetto a cosa? - Rispetto a cosa. Rispetto a star qui a fare quello che stiamo facendo. Era seduta nella parte in ombra del tavolo, le mani simili a guizzi di luce mentre le allungava verso il caffè, e il viso che acquistava in contorno e calore quando il telo dell'ombrellone si sollevava nella brezza. - Incominci a sentirti prigioniera? Un lieve sorriso tortuoso. - Il programma ti sembra troppo restrittivo? Aveva i capelli scuri e mandava al diavolo con una smorfia contegnosa le osservazioni che non le andavano a genio. - Dov'è tuo marito? - Seduto da qualche parte con un bloody mary. - Come fai a sapere che non si sta scopando una delle mogli? - Oppure si sta scopando una delle mogli. - In definitiva siete qui per questo. - Esattamente, - disse lei. Guardò un addetto alla manutenzione che controllava una porta scorrevole su un balcone. - Come mai non sei la con loro? Lui è a letto con un'altra donna e a te non è consentito guardare? Dev'esserci una commissione di controllo a cui puoi rivolgerti, o no? - E' una bella giornata. Sta' zitto. - Sono tutte belle giornate.
- Come hai detto che ti chiami? - disse seccamente, facendo sfoggio di un'ironia distratta e complessa, sfottendo se stessa, me, la piscina e le palme da dattero. - Mi piace la tua bocca, Donna. - Sono gli incisivi sporgenti. - Sexy. - Così dicono. - E se noi due decidessimo... O puoi farlo solo con quelli del tuo genere? - Barry ha notato che mi guardavi ieri. Io non me ne sono accorta, ma lui sì. E ieri sera a cena ti ha indicato. - E lui pensa che noi due? - Abbiamo deciso che sappiamo chi sei. Sei l'uomo azzurro ghiaccio dell'Aqua Velva. - E tu chi sei? - Noi siamo due club di swinger, a convegno. - No, chi sei tu? Questa bocca e questi occhi. Lei guardò l'addetto alla manutenzione far scorrere la porta avanti e indietro. - Sono una persona, se proprio vuoi saperlo. E se diventi troppo curioso sono una persona che cambia canale. Continuò a guardare nel vuoto. - Una persona riservata che scopa con gli sconosciuti. - Dov'è la contraddizione? - disse lei, con un sorriso cordiale al di sopra della spuma del cappuccino, senza guardarmi. - In realta tu ci detesti, vero? - Falso. - E so anche perché. Perché lo rendiamo di pubblico dominio. - E' un business, perché non dovrebbe essere di pubblico dominio? Qui sono tutti uomini d'affari, venuti per stabilire contatti, per ampliare la sfera delle opportunita. - E' vero, ci detesti. Erano scene da film, queste, dal tono lievemente ellittico, con le riprese un po' improvvisate, sfasate dall'azione accidentale. Prima, la scena muta nel padiglione, dove i due personaggi si adocchiano in mezzo ai camion. Poi l'incontro sul bordo della piscina con primi piani e pause, i due un po' distaccati dal proprio dialogo, e un senso pervasivo di languore mattutino nel classico canto d'uccelli, nel movimento ritmico di uomini armati di tosasiepi e nel baluginio perfettamente turchese sullo sfondo. Il campo lungo insinua una certa compressione, un'ansia in agguato che minaccia non solo il momento, ma anche il giorno, la settimana e l'epoca. E adesso la scena nella stanza, la mia stanza, dove lei si tolse i jeans, più che altro perché erano troppo stretti, e si mise a sedere sul letto in camicia e mutandine, con le gambe allungate verso il fondo. Presi una seggiola e mi sedetti di fianco a lei, in posa di consultazione, la mano stretta intorno alla sua caviglia. Non era così carina nella luce diretta, con un'ombra triste sotto gli occhi e un livido informe su una coscia, simile a una melanzana spappolata. Ma mi piaceva il suo modo di guardarmi, curioso, con una punta di sfida. Mi rendeva ambizioso, questa occhiata, ansioso di decondizionare l'episodio, di renderlo intimo e reale. - Detesti il fatto che sia pubblico. Non sopporti che veniamo qui a dirlo, a farlo e a dimostrarlo. Ne abbiamo parlato proprio a cena.
- Tu e Barry. - Facciamo sempre un gioco, sai. - Voi due. Tu e Barr'. - Studiamo la gente al ristorante. E lui è bravissimo. Cerchiamo di indovinare le loro abitudini, i segreti e le preferenze, fino alla biancheria intima. - Vuoi dirmi cosa indosso? - Abbiamo studiato proprio te. - Ma non vi siete spinti fino alla biancheria. - No. Perché ci sembrava che ci fossero cose più importanti. Tipo, come mai ci detesti. Io guardavo e ascoltavo, cercando di classificare la voce e i modi, di immaginare Donna in una cittadina industriale forse, una ragazza cattolica cresciuta in riva a un fiume triste, in una casa traballante come se stesse per stramazzare a terra ubriaca. - Sai cosa mi piace di te? - dissi. - Il fatto che mi rendi aggressivo e un po' avventato. Sto avendo una ricaduta solo a stare qui seduto. Sto scivolando indietro alla velocita di un miglio al minuto. - Cosa vorresti dire con questo? - Voglio dire che tutte le cose interessanti della mia vita mi sono successe da giovane. - Se mi scopi lo farai per odio. E' questo che vuoi? E' questo che intendi quando dici che ti senti aggressivo? - No. Ma tu cosa vuoi? Sei nella mia stanza, mezza nuda. - Forse è quello che vuole Barry. - Farti scopare con un uomo che ti odia? - Siamo qui per sfruttare al massimo le nostre possibilita. - Allora lo fai per lui? - Forse. - Per eseguire un ordine. - No, per condividere una fantasia, per assecondare una fantasia. - E cosa fa Barry per te? - Non sono affari tuoi, cocco, - e lo disse con una voce nasale da bar di campagna. Non volevo capirla troppo in fretta. Poteva anche darsi che non fosse lì per il sesso, ma solo per il materiale di contorno, il tipo di materiale accessorio che rimpolpa un'esperienza. Avremmo parlato di una scopata ma senza farla e lei sarebbe tornata tutta contenta al suo gruppo di swinger. Guardai il livido sulla coscia. Era deprimente pensare che lei eseguisse la volonta del marito, che facesse tutto questo per poi riproiettarlo, riviverlo con lui, e forse il vecchio Barry era uno sceneggiatore a tempo perso, che si guadagnava da vivere al telefono, vendendo proprieta immobiliari ai pensionati. Quando mi piegai per baciarla, lei si ritrasse con una spallucciata esperta, minima, impersonale, che riuscì a confinarmi al bordo esterno della percezione. - Forse non ti sbagli del tutto sul mio conto, Donna. Forse ho davvero una teoria sui danni che fa la gente quando porta certe cose allo scoperto. - Coraggio, continua. Siamo sempre interessati alle critiche costruttive. - Ma non credo che la mia teoria ti andrebbe a genio. E' troppo personale. - E invece voglio proprio sentirla.
- Probabilmente farò la figura dello scemo. - Coraggio, fai questa figuraccia. Mostrami la tua stupidita. Si tolse l'orologio e lo lasciò cadere sul letto. Provai il forte impulso di scoparla subito e rischiare il malessere da squallido commercio sessuale che si sarebbe insinuato nella stanza sgusciando su dallo show locale degli swinger. Perché non sapevo fino a che punto sarei sembrato stupido, o infantile, o ansioso, o cosa avrei perso con questa digressione nella storia personale. - Avanti. Vogliamo essere illuminati, - mi disse. Azzardai un bacio e questa volta lei non si ritrasse, ma restituì una sorsatina tiepida, un assaggio delle distanze che dovevamo ancora coprire. - Molto tempo fa, anni fa, ho letto un libro intitolato La nube della non conoscenza. Scritto da un mistico anonimo, non so bene, nel quattordicesimo secolo, credo, o comunque all'epoca della peste... scritto nei giorni della peste. E' stato un prete a darmi questo libro. Ero nel periodo pretesco della mia vita e il prete mi impose, letteralmente, questo libro. Ora, col passare degli anni, l'ho dimenticato quasi del tutto, ma so che allora mi fece pensare a Dio come a una forza che si sottrae alla nostra conoscenza perché è proprio questa la fonte del suo potere. Ricordo esattamente una frase. - Carino, il titolo. - Ricordo il titolo e ricordo una frase. Qui mi interruppi, lasciando che le parole prendessero forma e successione, la mano chiusa intorno alla caviglia di Donna, e sentii una certa ricettivita, la cosa di cui avevo bisogno per controbattere l'incongruita della situazione. E che diavolo, pensai. Corrilo questo rischio. - La frase era all'inizio del libro e mi diede l'impressione che lo scrittore, chiunque fosse, un poeta forse, un prete-poeta, come mi piace credere, si rivolgesse proprio a me. “Fermati un momento, disgraziata e debole creatura, e prendi atto di ciò che sei”. In qualche modo, quello ero io, individuato con una sorta di incisivita, io che vivevo in uno stato di perenne sospensione, e di inventario di quello che ero, un ventenne più stupido dei miei coetanei, alla disperata ricerca del mio posto nel mondo. Poi, dopo questo libro, ho incominciato a pensare a Dio come a un segreto, a un lungo tunnel buio e interminabile. Questo è stato il mio disgraziato tentativo di capire il nostro sconcerto di fronte all'enormita di Dio. Era questo che rispettavo in Dio. Egli mantiene il suo segreto. E ho cercato di avvicinarmi a Dio attraverso il suo segreto, la sua inconoscibilita. Forse possiamo arrivare a conoscere Dio attraverso l'amore e la preghiera, o grazie alle visioni e all'acido lisergico, ma non possiamo conoscerlo tramite l'intelletto. La nube ce lo dice. Così ho imparato a rispettare il potere dei segreti. A Dio possiamo avvicinarci tramite il suo non essere creato. Noi siamo creati, siamo fatti. Dio è non fatto, disfatto. Come possiamo conoscere un essere simile? Noi non lo conosciamo. Non affermiamo la sua esistenza. Coltiviamo invece la sua negazione. Noi disgraziate e deboli creature, capisci? E cerchiamo di sviluppare una sorta di intento essenziale che ci ancori all'idea di Dio. La Nube ci raccomanda di sviluppare questo intento intorno a una singola parola. Meglio ancora, a una parola di una sola sillaba. La cosa mi attirava molto, e ho cominciato a occuparmi della ricerca di questa singola parola,
di una sola sillaba. Era romantico. Il mistero di Dio era romantico. Con questa parola avrei eliminato la distrazione e pian piano mi sarei avvicinato all'inconoscibile persona di Dio. - Che tipo di parola? - Non sai quanto l'ho cercata, quanto ci ho pensato. Avevo preso la cosa molto sul serio. Ero giovane. - Love poteva essere la parola. Ma non per te. Troppo stucchevole, - disse lei. - Help poteva essere un'altra. Ma persino per un debole, era troppo pietosa. Allora pensai che il problema era la lingua. Dovevo cambiare lingua, trovare una parola che fosse pura, priva di tutta una vita di connotazioni e sfumature di significato. E mi venne in mente la parola italiana per help perché era quella che usava mio padre quando lo infastidivamo, mio fratello e io. Sventolava le mani giunte nell'aria, alzava gli occhi al cielo e diceva, in italiano, Aiuto (*). Probabilmente come facevano suo padre e suo nonno. Una parola per penetrare l'oscurita. Aiuto. - Troppe sillabe. - Troppe sillabe e troppo comica. Perché in fondo lo faceva per farci ridere, per distrarci con una risata. Forse mio padre conosceva una ventina di parole in italiano, era nato qui, o forse, chi lo sa, parlava bene la lingua, non lo so davvero. Comunque diceva spesso questa parola. Era una commedia in tre atti, per come la diceva lui, strascicandola, gracchiando come un duca avvelenato. Ai-u-too. E noi ridevamo, perché in certo qual modo si prendeva gioco del vecchio paese e dei vecchi manierismi. Una parola grande e profonda, ma non potevo usarla. Stranamente, lei si sporse verso di me, prese la mia mano e la fece scivolare su, lungo l'interno della sua coscia, per poi rincantucciarla a coppa sull'inguine, e cambiò posizione, accoccolandosi come una bambina all'ora della favola. - Dov'è adesso tuo padre? - Morto. - E tuo fratello? - Non ne ho idea. Aspettò che continuassi. - Ma una cosa ho capito, che avevo ragione a lasciar perdere l'inglese. E alla fine mi sono imbattuto in un'espressione che pulsava di scoperta intenzionalita. Era animata da qualcosa che conoscevo e sentivo per esperienza personale. Una bellissima preghiera spontanea. Cinque sillabe, ma pazienza. Tre parole e cinque sillabe, ma sapevo di aver trovato l'espressione giusta. Proveniva da un altro mistico, uno spagnolo questa volta, Juan de la Cruz, e per tutto un inverno questa espressione è stata il mio limite essenziale, la mia avanzata nel buio, nel segreto di Dio. E l'ho ripetuta, l'ho ripetuta mille volte. Todo y nada. - Todo y nada. - Sì. E a cosa ti fa pensare? A cosa si riferisce, nella tua vita? Cosa descrive? - Il sesso, - disse lei immediatamente. - Il sesso migliore. Todo y nada. - Sì, esattamente. - Quindi cosa mi stai dicendo? - Non sto dicendo che il sesso è la nostra divinita. Per carita. Ma solo che il sesso è l'unico segreto che si avvicini a uno stato di
esaltazione condivisibile, condiviso da due persone, più o meno senza parole e in parti più o meno uguali, e questo lo rende potente e misterioso, e soprattutto degno di essere protetto. - Quindi non bisogna sbandierarlo ai quattro venti, dici tu. Ma questo perché, probabilmente, sei rimasto la stessa persona romantica che eri a vent'anni. Il sesso non è più così segreto. Il segreto è stato svelato. Sai cosa rappresenta il sesso per molta gente? Appoggiò la mano sulla mia e spostò lievemente il bacino, strofinandosi contro il mio palmo. - Il sesso è qualcosa che puoi avere. Per alcune persone, per la maggior parte delle persone, è la cosa più importante che possono avere senza essere nati ricchi o intelligenti e senza dover rubare. E' ciò che la vita può darti nella stessa misura in cui lo concede ad altri, se non addirittura in misura maggiore. Una cosa che puoi avere senza dover andare al college per sei anni. E poi, non è né una religione né una scienza, ma si può esplorarlo e imparare molto su se stessi. Tacque ed era vero, sembrava un po' inespressiva lì al chiuso, lontana dal barbaglio della luce accanto alla piscina, il viso privo delle sue ombre inquiete, dello sfavillio di peltro che dava spicco alle linee della sua ossatura. Ancora più interessante, pensai. Ancora più seria, più importante. Cercavo un momento di verita, una lettura onesta di quella donna. - E comunque c'è sesso pubblico di ogni genere, - disse. - Gli scrittori arrapati scrivono scene di sesso. - Da soli. Le scrivono da soli. E noi le leggiamo in solitudine. - Ma come si fa a incontrare gente con gli stessi interessi? - Non so. In modo silenzioso e clandestino. - Come criminali. Ma noi non siamo criminali. Vogliamo un convegno tutto nostro, con tanto di antipasti e tovagliolini. Non c'è troppa solitudine in America? Troppi segreti? E allora riveliamoli, scopriamoli. E non guardarmi così. Mi guardi troppo attentamente. - Come faccio a conoscerti altrimenti? - Tu non mi conosci. Non mi conosci e non vuoi conoscermi. Siamo nel deserto qui. - C'è un'altra frase ne La nube, ma ne ricordo solo un frammento. Sul dardo acuminato dell'amore struggente. - Sembra una cosa porno. - Tu e i tuoi amici siete porno. Avete la vostra rivista speciale, vero? Come qualsiasi azienda. Come le imprese edili e le pompe funebri. Solo che voi mostrate il pelo pubico. E vi spedite i video per posta. Testa eretta, bocca imbronciata e una scherzosa espressione di orgoglio ferito. - L'oscenita non c'entra, io non sono una persona libidinosa, che tu lo creda o no - la voce incrinata da una risata incontrollata mentre me ne sto qui con la mano di un estraneo sulla passera -. E agitò i fianchi mugolando di piacere per lo sfregamento - in parte era una parodia ma in parte faceva sul serio. - Io non sono la mano di un estraneo. - Non guardarmi. - Chi devo guardare allora? - Non sono venuta in questo strano posto in capo al mondo per farmi analizzare. - Tu sei la mia ricaduta. Non la prima, ma la prima da molto tempo.
Ed è questo che ti rende pericolosa. - E tu allora? Cos'è che ti rende pericoloso? - Io sono la tua eccezione alla scopata indiscriminata. - Ah, perché tu invece saresti una scelta ragionata? Vuoi dirmi il perché, visto che non mi ricordo nemmeno come ti chiami? Glielo dissi, nome e cognome, e lei ribatté che sembravano falsi. - Ho bisogno di sapere di più, - disse. - Eri arrivato a disgraziata e debole creatura. - Sì. - E leggevi libri su Dio. - Sì. - E parlavi con i preti. - Sì. - Allora, qual era il tuo peccato? Il tuo segreto? Il motivo della tua infelice condizione? Aveva la stessa sfida di prima negli occhi, ma senza la condiscendenza, la lieve sfumatura divertita - non di disprezzo ma di precisa determinazione a non concedere possibilita di sorpresa. Questo atteggiamento era svanito, e c'era invece una certa curiosita meno scoperta e frontale. Ritrassi la mano dal suo corpo e mi appoggiai allo schienale incrociando le braccia sul petto, con la testa inclinata a indicare la mia rassegnazione, la mia abiezione di giovane senz'arte né parte, indegno di fronte al mistero. - Ero stato in riformatorio. - In riformatorio? - Sì, in un centro correzionale per minorenni. Mi ci mandarono per un po', e quando uscii andai in un piccolo avamposto gesuita nel Minnesota settentrionale, dov'erano specializzati in ragazzi di famiglie bisognose e altri con caratteristiche non comuni. - E prima eri stato in riformatorio? - Sì. Per aver sparato a un uomo. - E l'hai ucciso? - Sì. L'ho ucciso. E' successo quando avevo diciassette anni, e ancora oggi non so se è stato un omicidio volontario o preterintenzionale o come diavolo lo chiama la legge. O uno sfortunato incidente. - E ci hai pensato molto? - Ci ho provato, a intermittenza. Ricordo perfettamente il momento e ho cercato di scomporlo, di vederlo chiaramente in ogni sua componente. Ma c'è una tale girandola di motivi e di possibilita latenti e tanti e va bene e perché no. - Cosa vuoi dire? - Be', a un certo punto, con il dito gia pronto sul grilletto, a un certo micropunto dell'azione della mente e dell'azione del dito e della stessa azione-grilletto, può essere che abbia detto semplicemente, E va bene. Oppure, Perché non farlo e vedere cosa succede? - Chi era l'uomo? - Chi era l'uomo. Non era un nemico o un rivale. Anzi, semmai una specie di amico. Uno che mi dava una mano ogni tanto, più vecchio di me, ma per niente autorevole, credo, salvo nel senso che possedeva una pistola. A quel punto ebbi un'ispirazione improvvisa e feci la mia voce da malavitoso.
- In parole povere, l'ho cancellato dalla lista. Una voce che mia moglie non aveva mai sentito e una storia che non le avevo mai raccontato, e com'era strano, questo, quanto mi fece sentire in colpa. Ma non subito. Il senso di colpa venne dopo, a Phoenix - il senso di colpa riservalo alle pareti tappezzate di libri, al tappeto da preghiera turco e alle riviste di moda nella cesta in bagno. Donna continuava a tirare su con il naso. Aveva fatto una nuotata a mezzanotte e si era buscata un raffreddore, così per un po' non parlammo d'altro. Parlammo della notte, dell'aria fredda e di come si mangiava al ristorante. Poi lei si tolse le mutandine e me le porse. Le buttai sul letto e mi spogliai. Sentii un soffio di distacco nella stanza e pensai che forse lei avrebbe vissuto la propria esperienza dall'esterno, come un voyeur, registrandola in uno stato d'animo proiettato verso il futuro. Ma poi mi tirò giù di colpo, mi prese per i capelli e mi baciò con forza, e c'era calore in lei, un'energia famelica che sembrava una ventata di vita. Eravamo stretti in un abbraccio frenetico, e le mani non bastavano per brancicarci a vicenda, quasi non bastava il corpo per premerlo su quello dell'altro, volevamo un abbraccio, una presa più forti, una specie di contatto in decalcomania, con i corpi che aderivano totalmente, e a un certo punto mi sollevai e mi accorsi che sembrava piccola, così nuda a letto, completamente diversa dalla donna da film nell'atrio dell'albergo. Adesso era davvero in contatto con la terra, con il suo io scavato dal sesso, e la sentivo vicina, e pensai che finalmente la conoscevo anche se teneva gli occhi chiusi per nascondersi. La chiamai per nome. Dopo, ci sentimmo svuotati come gusci di guava. Eravamo tutti indolenziti, avevo una sete da deserto e avevamo ammazzato la mattinata. Andai a fare pipì e guardai il fluido schizzare ambrato nella tazza inondata di sole. Che senso di benessere in una pisciata a piedi nudi dopo una strenua scopata. Quando tornai nella stanza, lei era rauca e raffreddata e la avvolsi in una coperta. Finse di addormentarsi, il classico sonno da lasciami-in-pace, ma io mi infilai sotto la coperta e mi strinsi a lei, respirando il dolce calore della sua fronte e sentii sulla punta della lingua le minuscole goccioline della febbre. Sentii le cameriere parlare in corridoio e capii che ci eravamo allontanati l'uno dalla vita dell'altro, ormai, e per sempre. Ma qualcosa indugiava ancora e ci tenne immobili, ci fece restare sdraiati così per un po', me e Donna, nel tutto-e-niente del nostro amore. Si nascondono le cose più intime alle persone più vicine e poi si parla con un'estranea in una stanza numerata. A che serve chiedersi perché? A dopo il senso di colpa, a Phoenix, dove potevo sottrarmi a domande opprimenti rifugiandomi nella routine del lavoro. Ero l'ultimo arrivato col sorriso incollato in faccia. C'era una generosa atmosfera di benvenuto, benvenuto tra noi, e quanti bambini ha e facciamo colazione insieme. Volevo essere legato alla societa. Mi sentivo partecipe di una sottintesa funzione della societa. Restavo fino a tardi e lavoravo durante il weekend. Corressi il mio passo strascicato. Ascoltai la mia voce, badai al mio sorriso e mi guadagnai un ufficio in fondo al corridoio, dove indossavo un
elegante completo grigio e diventavo ogni giorno più forte. Fu una corsa lunga in una gola angusta quella dell'ultimo giorno del convegno, correvamo contendendoci lo spazio a gomitate, Sims e io, finalmente dimentichi della scossa nella fascia del cinque e di come ci aveva parlato la stanza, e mi venne in mente che è proprio a questo punto che si incomincia a risentire dello shock, quando lo si è dimenticato. Nella prima parte della corsa Sims si produsse in un monologo con il consumato entusiasmo di un veterano, interrompendosi soltanto per prendere fiato o per soffiare via il sudore dal bordo del labbro superiore. - Per venire alle acque di scolo, - disse. - Le tratti amorevolmente. Le convogli con un sistema di sbarramenti fin sottoterra. Poi le pompi su dentro cisterne di sedimentazione e cisterne di aerazione. Poi le separi, le schiumi e le nutri di batteri. Descrisse l'intero processo con dovizia di particolari, accarezzando certe parole, scegliendole con cura, fangoso, stagnante, semisolido, spesso, viscido, melmoso. - Perché questo è il tuo elemento adesso. Una sostanza catramosa e puzzolente. Qualunque fosse il piacere che riusciva a ricavare dalla nostra corsa punitiva, con quegli occhi spalancati e la voce forte - lo faceva sembrare un attacco personale. - E poi aspetti che una nave cisterna venga a prendersela. Un secchio di miele, come la chiamano nel Nordest. La nave cisterna scarica questo liquame nell'oceano. Come una cagata in casa. A centosei miglia dalla costa del Jersey, legalmente. O più vicino, illegalmente. - Interessante. - Interessante, - fece lui. - Vero? - Indubbiamente. - Non ci hai mai pensato, eh? - Sì, un po' ci ho pensato. - No, non ci hai mai pensato. Ammettilo. - Ci ho pensato vagamente, forse. - Vagamente forse. Capisco. Ben detto. Perfetto, davvero. Un aereo con le ali a delta pungolò il sole e svanì nella nebbia di ozono, in un'ascensione sognante. - Ma perché sarebbe il mio elemento? - dissi. Correvamo nella gola, sul terreno pietroso. - Perché è di questo che ci occupiamo. Fondamentalmente. Io e te. E tutti quelli che sono qui. Dal primo all'ultimo. Dall'inizio alla fine. E' nostro preciso dovere. - Vuoi dire che tutti i rifiuti. - E' quello che sto dicendo. Che tutti i rifiuti finiscono in merda. Tutti i rifiuti aspirano alla condizione di merda. Cercavamo di guadagnare terreno a spinte e gomitate e Sims si soffiava via il sudore dal labbro superiore. - Come vanno le cose in famiglia? Tutto bene a casa? - Benone. A casa va tutto bene. Ti ringrazio per l'interessamento. - Ami tua moglie? - Sì, amo mia moglie.
- Meglio così, perché lei ti ama. Ci mettemmo a correre un po' più forte e lui si tolse il berretto, lo usò per darmi una botta su un braccio e se lo rimise in testa. - Ma questa faccenda della nave, - dissi. - Questa faccenda della nave è una stupida diceria che si alimenta da sola. - La nave è un'eterna barzelletta. - L'equipaggio continua a cambiare. Lo sapevi? - disse lui. Cambiano equipaggio più spesso di quanto cambino nome alla nave. Rise e mi diede una botta con il berretto. - Un equipaggio se ne va, e loro devono arruolarne forzatamente un altro. Mi superò ma io lo raggiunsi e oltrepassammo di corsa il campo da golf nella calura pulita e luminosa. Più tardi salimmo sulla stessa macchina e andammo direttamente al campus, il nostro quartier generale di Los Angeles, una serie di edifici collegati da ponti, con le facciate riflettenti, che svettavano sopra un'autostrada, ed ebbi la visione di tutto il complesso che si sbriciolava al rallentatore. Una strada col fondo di pavé ci portò oltre stagni e bionde sculture e piste da jogging color cannella. - Li vedi anche tu questi edifici spaccarsi e crollare? Sims mi lanciò un'occhiata. - Non credi che sia esattamente quello che si aspettano che vediamo quando guardiamo questi edifici? Non voleva saperne di quest'idea. - Non credi che sia un modo nuovo di vedere? Percorremmo un labirinto di corridoi chiusi da cancelli elettronici che Sims aprì inserendo una tessera-chiave nell'apposita fessura. Questo era il brillante mondo nuovo di microprocessori che leggevano chiavi codificate. Mi piaceva il ronzio e lo scatto della tessera nella serratura. Segnalava il collegamento. Mi piaceva questa sensazione di una fonte di potere accessibile a quelli di noi in possesso di chiavi codificate. Sull'ascensore Sims pronunciò il proprio nome dentro un dispositivo che riconosceva le frequenze della voce, Simeon Branson Biggs, un nome adeguatamente sonoro, e l'ascensore salì istantaneamente al terzo piano. Ci sedemmo nel suo ufficio. - Qui non muore nessuno. Mi posso misurare la pressione in fondo al corridoio. Ci sono le palestre. Mi misurano il grasso corporeo e mi dicono cosa mangiare e in quale quantita. Si accese un sigaro e mi guardò attraverso il fumo con aria scettica. - C'è gente che viene a lavorare in scarpe da ginnastica e barba bionda. Giocano a tennis e a volano. Tutte le sere vado a dormire nero e la mattina torno qui e divento bianco. Portava quelle scarpe che una volta si chiamavano spaccazolle, grossi aggeggi pesanti con la punta squadrata. - Tu credi in Dio? - mi chiese. - Sì, credo di sì. - Un giorno o l'altro andremo a una partita. Sims aveva telefonate da fare e posta da leggere. Passai un po' di tempo con altre persone, poi presi un taxi per tornare in albergo sarei rimasto per un paio di giorni. E il tassista disse una cosa strana. Eravamo per strada, ma non sapevo dove. Arrivi in una citta e
vai dove ti porta il tassista - vai sulla fiducia. E lui disse qualcosa, non so se a me o a se stesso. Era un uomo di una certa eta, e aveva mani nervose e una specie di sussulto nella voce, che si inceppava come un giunto che non funziona. Disse: - Accenditi una Lucky. E' ora di godersela. Nessuno dei due aveva in mano sigarette o dava segno di cercarne una. Forse stava solo ricordando il vecchio slogan, pigramente, e lo recitava perché ci aveva pensato, perché era saltato fuori da qualche recesso della memoria, ma fu una cosa strana e inquietante. Arrivi in una citta e di punto in bianco ti senti dire una cosa del genere, e non sai cosa pensare. Lo guardai. Mi spostai di fianco e lo guardai di profilo, cercando di capire cosa intendesse dire. NOTE: (*) In italiano nel testo [N'd't']. (**) Made man in inglese significa sia mafioso che uomo fatto [N'd't']. (*) In italiano nel testo [N'd't']. (*) In italiano nel testo [N'd't']. Capitolo secondo Stava aspettando Chuckie Wainwright. Tutt'intorno ferveva il massiccio lavoro del fronte del porto, un traffico marittimo frenetico con argani e gru in movimento sui ponti di stazza, camion a rimorchio che si infilavano nelle aperture contrassegnate e container di merci ammassati sul ponte di navi smisurate, da non crederci quanto erano grosse, e i come-si-chiamano, i bracci delle gru di banchina che spostavano carichi dondolanti nella nebbia. E fuori nella baia una portaerei si dirigeva verso il Golden Gate, guidata da un'ibrida flottiglia di piccole imbarcazioni e tre motoscafi equipaggiati di pompe antincendio che spruzzavano in aria grandi archi d'acqua come champagne per l'addio. Marvin controllò l'orologio per la decima volta nell'ultima ora. Si era messo vicino a una pensilina dove era al sicuro da tutto quel movimento. Sembrava un gentile perso nella nebbia, con il berretto di pelle scamosciata e l'impermeabile a doppio petto con spalline, falde, maniche a raglan, conosceva questi termini grazie ad anni di lavaggi a secco, grandi tasche applicate, passacintura, cinturini alle maniche e tanti di quei bottoni che si sentiva invulnerabile. Si era portato un ombrello pieghevole infilato in un fodero che apparteneva a un ombrello diverso, così aveva un verde mela dentro un azzurro cielo, non che importasse a qualcuno a parte sua moglie. C'era anche Eleanor, ed era la prima volta che lo accompagnava in uno dei suoi viaggi alla ricerca della palla da baseball. Ma questa era San Francisco, non bisognava dimenticarlo, e lei non intendeva vivere tutta una vita senza vederla. E la, al di sopra della sua spalla destra, c'era il Bay Bridge, dove ogni minuto sfrecciavano un milione di macchine che non avevano mai sentito parlare di Marvin Lundy e della sua mania per il baseball. Controllò nuovamente l'orologio e guardò oltre la baia. Chuckie Wainwright faceva il marinaio a bordo di una nave volandiera che stava arrivando giù dall'Alaska. Marvin aveva contattato spedizionieri marittimi, capitanerie di porto e capitani
di nave per sapere qualcosa sugli spostamenti della nave e dei turni di servizio dell'equipaggio, facendo telefonate e spedendo radiogrammi. E più di una volta era stato confermato, determinato e doverosamente documentato che Charles Wainwright Jr., detto Chuckie, era a bordo della Lucky Argus salpata da Anchorage con un carico di sabbia e roccia polverizzata. Chuckie era la chiave per la catena dei passaggi di proprieta. Marvin aveva raccolto mille frammenti d'informazione che collegavano la palla da baseball ai proprietari precedenti e alla fine, qual è la parola che indica non l'ultima cosa ma quella prima dell'ultima alla fine era saltato fuori il nome di Wainwright. Aspettò una mezz'ora poi andò al Ferry Building a informarsi sulla Lucky Argus, per sapere se doveva preoccuparsi o no, e gli dissero che avrebbe attraccato al molo 7 nel giro di un'ora e mezza. Fuori sentì una zaffata nell'aria, un vago odore di pozzo nero, che si notava appena ma aveva una strana potenza emotiva. Poi svanì, spazzato via dalla brezza, e Marvin udì lo sciabordio del traffico sul ponte e vide Eleanor avvicinarsi, con il suo sorriso alla fragola, sotto un ombrellino azzurro cielo. - Ho pensato che ti avrei trovato qui. Sono venuta a vedere questo bellissimo vecchio edificio. Marvin si guardò alle spalle per capire cosa gli fosse sfuggito di tanto bello. - Lo sapevi che questa costruzione è sopravvissuta al grande terremoto? Ma l'orologio si bloccò e rimase così per un anno intero. - C'è sempre un orologio che si ferma da qualche parte, - disse Marvin con aria tetra. - Come per ricordare a tutti quelli che lo vedevano. - Ricordare cosa? Gli sventolò la guida sotto il naso. - Che a volte la sfortuna è scritta a chiare lettere. - Cosa vorresti dire? - L'orologio si fermò sulle cinque e diciassette minuti del mattino. Cinque, uno e sette, caro. Se li sommi ottieni tredici. Forse era cambiato il vento. Marvin sentì di nuovo l'odore e si accorse che lo turbava in modo strano, uno di quegli odori che riportano indietro nel tempo, un odore di muffa e di terra in questo caso, e provò l'inspiegabile impulso di rintracciarne la fonte. - Dov'è il tuo Mr. Wainwright? - La nave è in ritardo, - disse Marvin. - Non essere così pessimista. - Chi è pessimista? Sono qui a fare conversazione, no? - Sei tutto ingobbito e ti trascini invece di camminare. - Sono sempre ingobbito. Sono uscito così dalla fabbrica. - Ti ingobbisci più del solito quando c'è di mezzo la palla da baseball. Eleanor non si sbagliava. Quando mai si sbagliava Eleanor? A volte lui la rimbrottava, ma sapevano entrambi che aveva quasi sempre ragione. Eleanor aveva il suo accento inglese, i biscotti che cuoceva in forno e che lui pregustava con un giorno di anticipo, un'esasperante meticolosita nel vestire che gli sembrava quasi una malattia, un paio di volte l'aveva sorpresa a parlare con l'armadio ma sempre decorosamente ecco una parola che gli piace, accostando con gusto questo a quello. Aveva una volonta implacabile che esercitava con guanto di velluto assicurandosi sempre che lui avesse capito
bene. E adesso che la loro figlia viveva sola, con un buon lavoro e un appartamento in una strada sicura, Eleanor vegliava sull'ossessivita di Marvin e sul suo malumore venato di battute di spirito. Adesso stavano camminando con passo sciolto lungo l'Embarcadero, e Marvin si accorse che il numero dei moli cresceva man mano che camminavano - numeri alti e numeri pari, il che significava che si stavano allontanando dal molo 7. Ma era lì che sembrava guidarlo l'odore, una zaffata puzzolente sollevata a intermittenza dal vento. - Cosa ti deve dire questo Wainwright? - Come suo padre, che ormai è morto e sepolto, è venuto in possesso della palla. - E così completerai il che cosa? - Il come-si-chiama. - Il pedigree. - Il pedigree, - confermò Marvin. 1. La ex moglie di Chuckie Wainwright, Susan qualcosa - lasciamo perdere i dettagli. 2. L'uomo con un ottavo di sangue indiano, Marvin non ricorda di quale tribù, che l'aveva portato alla ex moglie. 3. Lo shock della vita altrui. La verita di un'altra vita, la botta, l'impatto. 4. Chuckie nell'Air Force, in Groenlandia, in Vietnam, e infine partito in licenza senza permesso, anche se non con l'intenzione di disertare, Awol (*), che è, come si dice?, un acronimo, e poi allo sbando, si era fatto crescere la barba e aveva avuto un bambino chiamato Dakota. 5. Che è il posto in cui Marvin aveva trovato la ex moglie, per pura coincidenza, a Rapid City, impegnata a far camminare gente malata in una piscina con un metro e venti d'acqua. 6. Lo sgomento, la potenza della vita di ogni giorno. E' una cosa che non si potrebbe inventare nemmeno con una serie di computer in una stanza a prova di polvere. - Sai cosa sto per dire, vero Marvin? - Mancano ancora tre ore. Non credo che riuscirò ad aspettare. - Tira su i piedi quando cammini. Sei un uomo sano che fa di tutto per sembrare ammalato. - Queste sono chiacchiere da canale popolare. Lei non cavillò e non fece obiezioni, gli parlava sempre con dolcezza, era migliore di quanto lui non meritasse, e gli mandava anche delle cartoline quando tornava in Inghilterra - ma tu pensa, ricevere cartoline dalla propria moglie. Poi Eleanor si fermò di colpo, irrigidendosi nel suo vivace impermeabile. - Cos'è questo odore? - chiese. Marvin incominciava a capire perché l'odore era così imperioso. In certo qual modo, proveniva da lui. Si ricordò del viaggio che avevano fatto in Europa sei anni dopo la guerra, sposi novelli, lui ed Eleanor, una ragazza di origini modeste, una lunga luna di miele fatta nel modo meno costoso possibile, treni accelerati e vecchi alberghi privi di ogni comodita, ma anche una missione importante per la famiglia di Marvin. Stava cercando di rintracciare il suo fratellastro, Avram Lubarskij, che aveva militato nell'Armata Rossa, era stato ferito a Leningrado, e poi a Stalingrado, si era sparato all'alluce a Grodno, aveva attraversato il Volga con una barca a remi
sotto un bombardamento di Stukas, era stato catturato dai tedeschi ed era fuggito, scappando verso sud con i piedi fasciati di giornali, aveva sposato una zingara nei Carpazi e mangiato pesce bianco del Mar Nero e infine era scomparso da qualche parte negli Urali. Quella storia così russa, e adesso eccolo qui, Marvin, a cercare una palla da baseball. Ma non intendeva prendere alla leggera la sua ossessione. Aveva un suo carattere epico, una sua storia di ritorni, e dolci ricordi, e scampagnate in famiglia, e serate infestate dagli insetti sulla veranda, e speranze che nascono e muoiono, e la canzone della sconfitta che viene trascurata nei resoconti. - Torniamo indietro, per favore. Non mi va di avvicinarmi di più a quell'odore. Pronunciò la parola con una smorfia di sospetto, la reazione riservata a certi odori, tappandosi la bocca e il naso, stringendo gli occhi per proteggerli dalla vista della sostanza criminale. - Probabilmente sono le fognature. Comunque va e viene. Camminiamo ancora un po'. - Sono in vacanza. - E questo ti rende schizzinosa? C'è gente che mangia carne di cammello con le mani, e la mattina dopo va a lavorare normalmente. - Facciamo un patto. Arriviamo fino a quel cantiere laggiù e poi torniamo indietro. - Cosa vuoi che sia un po' di puzza? Ma non era più un po' di puzza. L'odore si fece più forte e lo attirò più vicino, ricordandogli quei vecchi alberghi e i loro gabinetti, i gabinetti in fondo al corridoio, fortunatamente, e anche i gabinetti pubblici delle stazioni ferroviarie, uno sconosciuto nello scompartimento accanto, con la propria autobiografia di cibi stranieri e odori personali, dall'Inghilterra alla Francia all'Italia, ma non erano gli odori altrui a sopraffarlo - era soltanto il suo. Le feci di Marvin sembravano cambiare, gradualmente, per cupi stadi, man mano che lui ed Eleanor procedevano verso est attraverso l'Europa. L'odore peggiorava, si faceva più intenso, acquistava una sorta di densita, maturava e si stagionava, finché Marvin aveva incominciato a temere il momento dopo la prima colazione in cui doveva trascinarsi in bagno. Qual è la parola, ignobile? Marvin chiamava le proprie feci mi - moti intestinali un'espressione che una volta aveva sentito borbottare da un medico militare. I mi gli si stavano rivoltando contro, con una certa violenza. Lui ed Eleanor avevano attraversato le Dolomiti e l'Austria per infilarsi nell'angolo nordoccidentale dell'Ungheria e quella schifezza era sgorgata dal suo corpo come una cascata, rumorosa e molto scura. Ma era soprattutto l'odore a disturbarlo. Temeva che Eleanor lo notasse. Si rendeva conto che la cosa rientrava nel bagaglio di ogni matrimonio agli inizi, sentire gli odori dell'altro e superare la cosa una volta per tutte in modo da poter andare avanti con la vita, avere dei figli, comprare una casetta, ricordare il compleanno di tutti, fare la Blue Ridge Parkway, ammalarsi e morire. Ma in questo caso il marito doveva prendere precauzioni estreme perché l'odore era vergognoso, intenso, fortemente personale, e sembrava raccontare cose orribili sul responsabile. Quell'odore era un segreto che doveva nascondere alla moglie. Erano entrati in Cecoslovacchia, dove gli sciacquoni dei gabinetti
erano così deboli che gli toccava tirare l'acqua almeno due volte e poi spalancare la finestra e sventolare l'asciugamano, sentendosi in colpa e in trappola. C'era qualcosa di freddo e duro nelle strade, una tensione respirabile, molti arresti, molti processi. Gli sposi novelli avevano avuto una discussione in un caffè con un metalmeccanico, fiero del fumo e della fuliggine che aleggiavano sul paesaggio, quello era il progresso, la forza motrice dell'industria più il cielo era scuro e più cresceva il numero dei ricchi proprietari in prigione, più grande diventava il futuro dello stato socialista. Chi sono questi, pensava Marvin, perché mi da così fastidio non riuscire a convincerli che si sbagliano? I suoi mi si erano fatti più puzzolenti man mano che risalivano la Polonia orientale. Avevano discusso con alcuni operai al bancone di un bar, uomini che bevevano boccali di birra il mattino presto. Avevano litigato con una donna che calcolava il prezzo dei biglietti su un abaco. Marvin era tornato in un gabinetto a recuperare il giornale dimenticato, stava cercando inutilmente i risultati delle partite di baseball su un quotidiano di Varsavia, ed era rimasto sorpreso dal calore della stanzetta, dall'atmosfera che si era lasciato dietro, pesante e umida, una massa d'aria dal tanfo opprimente - tutta quell'energia che irradiava da un singolo mi. Per sua fortuna Eleanor andava in bagno per prima tutti i giorni. Perché non era lecito che una cosa del genere toccasse proprio a lei, una ragazza inglese dai capelli quasi biondi. Marvin faceva sempre in modo da evitare che Eleanor entrasse in un gabinetto appena usato da lui. - Più in la di così non ci vado, - disse Eleanor adesso. - Non siamo ancora arrivati al cantiere. - Morirò soffocata se faccio un altro passo. Un centinaio di metri più in la c'era una zona di lavori in corso interrotti, con bulldozer e autocarri per i detriti incustoditi, l'asfalto sventrato e neanche un'anima viva nei paraggi a eccezione di una figura solitaria che dormiva in un sacco della posta, uno di quegli uomini inzaccherati che Marvin vedeva dappertutto in quei giorni - dov'erano nascosti prima? - Faccio ancora una ventina di metri, - le disse. - Tanto per vedere qual è l'origine di questa puzza, una tubatura rotta probabilmente, così, per pura curiosita. Doveva nasconderle il ricordo come una volta le aveva nascosto l'odore. E lo stress dell'evacuazione peggiorava, avevano i loro passaporti e avevano i loro visti, erano andati a Pinsk ed erano andati a Minsk, e lui grugniva sulla tazza finché non sgorgavano tutti gli elementi - terra, aria, fuoco e acqua. Più si addentravano nei paesi comunisti, più i suoi Mi si facevano immondi. Ovunque andassero erano accompagnati da una guida dell'Intourist. Non appena una guida li lasciava, ne compariva un'altra, qualcuno perquisiva i loro bagagli, una guida si assicurava che non guardassero neanche di sfuggita certi edifici delicati, o fiumi con dighe cento miglia più a monte, o strade che portavano a postazioni militari lontane mille miglia. Era come condividere ogni respiro col proprio poliziotto personale. Persino le condizioni meteorologiche erano un segreto, mai pubblicato sui giornali e mai menzionato in un tono superiore al sussurro.
Munito di nomi e indirizzi, Marvin aveva parlato con una dozzina di persone e seguito una traccia che portava a Gorªkij, dove un lontano cugino gli aveva detto di andare in una strada di edifici ancora incompleti, e lì aveva trovato Avram - era la prima volta che lui e Marvin si vedevano - in un piccolo appartamento dove viveva con la seconda moglie e il secondo, terzo e quarto figlio. Si erano abbracciati piangendo, un po' sul serio e un po' per scena, parlando a smozziconi in russo, in inglese e in yiddish, e poco dopo si erano messi a litigare furiosamente. Avram era un comunista convinto con la fronte sporgente e aveva sputato parole di disprezzo contro gli Stati Uniti. Il sistema è corrotto, e noi vi mangeremo a colazione, siete una cultura da Topolino, e quella sera Marvin aveva dovuto fare una corsa d'emergenza al gabinetto dell'albergo, dove aveva liberato un fuoco di fila di rifiuti chimici. L'odore che lo circondava era soffuso - di cosa? - di geopolitica, e gli era toccato sventolare l'asciugamano per cinque minuti e tenere aperta la finestra, che continuava a chiudersi, con una copia arrotolata della Pravda - non aveva smesso di cercare i risultati del baseball - poi era tornato in camera e aveva guardato Eleanor dormire - veniva da un dolce paesino di campagna e avrebbe anche potuto morire per la sua puzza. Arrivò ai detriti dei lavori in corso e si rese conto che non era quella la fonte dell'odore. L'odore era ancora distinto, gli ricordava senza possibilita di dubbio la sua esperienza sovietica, ma era meno forte di quello della sua produzione personale, un po' attenuato, e non proveniva da un guasto nella fognatura o da un gabinetto comune per i senzatetto. Poi vide la nave. Era ormeggiata a un molo remoto, molto più avanti, tra alcuni posti vuoti e un'ampia darsena, e sembrava abbandonata, con la plancia e il ponte deserti, macchie di ruggine sulle fiancate e graffiti dipinti a spray sui fumaioli in lingue che non riconobbe e in alfabeti mai visti. Marvin si girò a guardare Eleanor. Lei aveva un modo tutto suo per dar segno di impazienza, inclinando il capo e afflosciandosi, con la bocca atteggiata a un inizio di sbadiglio. Il nome della nave era illeggibile, coperto di ruggine e graffiti. Che desolazione, un'imbarcazione oceanica che trasporta il tanfo pubblico dei gabinetti portatili da campo. Marvin e Avram avevano litigato per tre giorni. Mangiavano nel piccolo appartamento privo di riscaldamento dove bisognava svitare il rubinetto del lavandino in cucina e portarselo nello stanzino in fondo al corridoio se si voleva fare un bagno perché la costruzione di quel blocco d'appartamenti aveva una scadenza precisa, finite o no che fossero le abitazioni. I due uomini si erano scambiati molte storie di famiglia ma sempre con una corrente sotterranea di rivalita intervallata da insulti aperti, Noi e Loro, e a Marvin rodeva sentire queste cose da un uomo pieno di sé che era una totale nullita, un ometto che si levava in tutta la sua bassa statura nel parlare e che, con i due denti falsi di acciaio inossidabile, era l'accessorio più luccicante in vista. L'appartamento era stato consegnato senza finestre. Avram aveva dovuto montarle da sé, con i pannelli della fabbrica di cristalleria in cui lavorava, un vetro talmente sottile che bisognava allontanarsi dalla finestra per parlare. Una parola con troppe consonanti avrebbe potuto mandarlo in frantumi. Avram gli disse, Noi stiamo fabbricando bombe così grosse che l'occidente non se le sogna nemmeno. Per questo le finestre si
rompono tanto facilmente. Sì, era davvero irritante per Marvin il pensiero di un uomo che viveva in quelle condizioni, portando avanti e indietro per casa un rubinetto, con solo la manopola dell'acqua fredda funzionante, la famiglia che doveva arrampicarsi sui muri in quello spazio angusto, e lui tutto tronfio e infervorato, era questo che mandava in bestia Marvin, che un uomo potesse tirare avanti senza nemmeno le cose fondamentali, come si chiamano, Eleanor sapeva senz'altro la parola, le cose che contribuiscono al benessere materiale - lei lo diceva in modo così raffinato. Adesso Eleanor gli gridò, - Vieni via. Poi, sulla via del ritorno verso l'Europa occidentale il suo organismo pian piano si era normalizzato, feci ricche di fibra, e Mi sani e moderati. E una volta, mentre attraversavano in treno la Svizzera, un tranquillo posto neutrale, e sfrecciavano attraverso gallerie e oltre laghetti al chiaro di luna, Marvin aveva sentito una voce familiare, il gracidio di una radio, e aveva seguito il rumore fino in fondo alla carrozza, dove due soldati americani erano piegati su una piccola radio portatile con un'antenna sgangherata ad ascoltare Russ Hodges sul network delle Forze Armate, il commento della partita interrotto ogni volta che il treno entrava in una galleria, ed era lì che si trovava Marvin quando Thomson aveva battuto il fuoricampo, su un treno che sfrecciava attraverso le Alpi. Eleanor era appena uscita dalla doccia quando Marvin entrò nella stanza, invadendola col suo umore. Lei era avvolta in un asciugamano, con i piedi rosei, e lo guardò. - La nave è arrivata. La Lucky Argus. Molo sette. Esattamente all'ora prevista. Ha spaccato il minuto. - Ma Wainwright, - disse lei. - Non era a bordo. - Stai dritto. - E' sceso dalla nave a Vancouver. - Sanno dove è andato? - Si è imbarcato su un'altra nave. Diretta da qualche parte a nord. E' uno da climi freddi, questo Chuckie. - Lo troverai. - Non ha importanza. - Ne ha invece. Sai, una volta pensavo che fossi matto. Ma adesso capisco. Sì, sei matto, ma c'è un ragionamento dietro. C'è una punta di logica infantile. E' un po' come la fiaba prima di dormire. Hai bisogno di completare la storia. Caro il mio Marvin. Senza il collegamento finale con la palla, non c'è modo di sapere come va a finire la storia. Che senso ha una storia senza il finale? Anche se, immagino, in questo caso non è la fine che ci serve, ma l'inizio. Gli piaceva Eleanor avvolta nell'asciugamano. Si erano conosciuti verso la fine della guerra e avevano fatto appena in tempo a dirsi salve e addio, ma erano rimasti in contatto epistolare, lei era una sentinella della protezione antiaerea, così le chiamavano, e lui un furiere che distribuiva preservativi ai soldati del D-day, da mettere sulla canna del fucile per proteggerlo dalla sabbia e dall'acqua, e ancora oggi gli piaceva guardare Eleanor avvolta in un asciugamano, o in sottoveste, dopo ben ventisette anni di matrimonio. Si sedette in mutande sul bordo del letto, a togliersi i calzini a
coste. Avrebbero fatto come i turisti degli spot pubblicitari, una scopata coniugale in un bell'albergo. Il loro albergo aveva un panorama del panorama. Dalla finestra vedevano, oltre il cortile, i grattacieli e le nubi riflesse nella vetrata del ristorante dell'albergo. - Marvin, hai intenzione di mettertelo? Si riferiva al parrucchino. - Ne ho bisogno per sentirmi a posto. Ne aveva bisogno anche perché attenuava le sue orecchie enormi e il naso triste. Voleva avere un bell'aspetto per Eleanor, anche se lei non lo considerava importante. Questa sera avrebbe indossato la sua camicia migliore, con polsini così francesi che si sarebbe messo a canticchiare la come-si-chiama. - Sei il mio uomo, con o senza il parrucchino. Lo diceva con un tremolio della bocca che lo faceva sentire il padrone del mondo. Eleanor si sfilò l'asciugamano e appoggiò un ginocchio sul bordo del letto. Erano ancora in luna di miele, timidi ma appassionati, e Marvin con le sue origini di Brooklyn, con la sua religione fatta di reazioni scettiche - be', Marvin stava incominciando a capire solo adesso quanto fosse difficile persistere nel mito sentimentale, dopo tutti quegli anni, della loro diversita, una cosa che aveva costruito sull'accento e sulla carnagione di lei. Stava scoprendo la sua Eleanor, una verita dopo l'altra. Lei lo eguagliava nel desiderio, le sue ambizioni per il lavoro erano più grandi di quelle che nutriva lui, la sua massima aspirazione era l'America, un fatto che lui era riuscito a trascurare - le cose, i posti, il vivace brusio dei prodotti sugli scaffali, l'esplosione solare della fortuna propizia. Ed eccoli qui adesso, in un letto estraneo, in California, che colpi di scena riserva la vita, e che svolte incerte, una ragazza inglese tra le braccia, rosea e innocente anche se non lo è, e il parrucchino sintetico ben saldo sulla testa di Marvin. Eleanor voleva andare in un ristorante giapponese, ma non solo. Voleva andare in un posto dove, diceva la guida, ci si sedeva sul tatami. Marvin pensò che se avesse vissuto cent'anni prima di incontrare Eleanor, avrebbe fatto le stesse tre o quattro cose nello stesso ordine ogni giorno, e poi, non appena conosciuta Eleanor, a cento e uno anni, si sarebbe seduto sul pavimento a mangiare alghe marine. Erano seduti uno di fronte all'altra con il tavolino in mezzo, scalzi. - Qual è la parola per la cosa che non è l'ultima ma viene prima dell'ultima? - Penultima. - Penultima. Ecco, è questo che rappresenta per me Chuckie Wainwright. - Stai seduto dritto, - gli disse Eleanor. - La Groenlandia. Mi ha sempre insospettito quel posto. - Cosa vuoi dire? - E' lì che Chuckie era di stanza con l'Air Force, ammesso che ci sia stato davvero. - Perché non dovrebbe esserci stato? - Tu hai mai conosciuto personalmente qualcuno che sia stato in Groenlandia?
- No, - disse Eleanor. - Be', neanch'io, lascia che te lo dica. E non è mai capitato a nessuno di quelli con cui ho parlato ultimamente. - Credo che ci sia una grande citta, una capitale. - Tu credi che ci sia una capitale. E sai come si chiama? - No, non lo so. - Hai mai guardato la Groenlandia su una carta geografica? - Credo di sì. Un paio di volte forse. - Ti sei accorta che non ha mai le stesse dimensioni, su due carte geografiche diverse? Le dimensioni della Groenlandia cambiano da una carta all'altra. Cambiano anche da un anno all'altro. - E' grande, - disse lei. - E' molto grande. E' enorme. Ma talvolta è un po' meno enorme, a seconda della carta che consulti. - Credo che sia l'isola più grande del mondo. - L'isola più grande del mondo, - disse Marvin. - Ma non conosci nessuno che ci sia stato. E le dimensioni continuano a cambiare. E c'è di più, senti questa, cambia anche la posizione. Infatti, se guardi attentamente prima una carta geografica e poi un'altra, sembra che la Groenlandia si sposti. E' in un punto leggermente diverso dell'oceano. Il che dimostra la giustezza della mia convinzione. - E quale sarebbe la tua convinzione? - Be', me l'hai chiesto tu. Allora, secondo me, i segreti più grandi li abbiamo proprio sotto il naso e non ce ne accorgiamo. - E qual è il segreto della Groenlandia? - Primo, esiste sul serio? Secondo, perché continua a cambiare dimensioni e posizione? Terzo, come mai non si riesce a trovare nessuno che ci sia stato personalmente? Quarto, una decina di anni fa, un B-52 precipitò sull'isola, ma non misero forse tutto a tacere, tanto che non si è mai saputo se a bordo ci fossero armi nucleari? Marvin disse nuculari. - Quindi pensi che la Groenlandia abbia una funzione e un significato coperti dal segreto. Del resto tu pensi che tutto abbia una funzione segreta e un significato recondito, - disse Eleanor. - Più l'oggetto è grande, più è facile nasconderlo. Come ci si arriva, in Groenlandia? Che nave si prende? Dove si trova un aeroporto che abbia un volo per questa famosa capitale di cui nessuno conosce il nome e che nessuno ha mai visitato? E stiamo parlando della capitale. Che dire delle zone sperdute? Tutta quell'isola enorme è una grande zona sperduta. Di che colore è? E' verde? L'Islanda è verde. L'Islanda si vede alla tv. Si vedono le case e la campagna. Se l'Islanda è verde, di che colore è la Groenlandia, bianca? Lo chiedo solo perché non lo chiede nessun altro. Non è che io abbia interessi personali in quel posto, però guardo il canale dei documentari e vedo tribù che si coprono il corpo di fango in Nuova Guinea e vedo quei cosi selvatici, gli gnau, che si accoppiano in una valle africana. - Gli gnu, - lo corresse Eleanor. - Ma non vedo mai niente sulla Groenlandia. La cameriera portò saké per lei e birra per lui. Li chiamò bevande e Marvin ebbe l'impressione di essere in aereo. Tutti i viaggi che aveva fatto, collegati alla palla da baseball, le vite disordinate, le parole e le frasi. Il passeggero Lundy in lista d'attesa si presenti allo sportello. 1. La madre dei gemelli a, qual era la citta?
2. L'uomo che viveva in una comunita di persone allergiche agli agenti chimici, indossavano camici bianchi di cotone e appendevano la posta al filo del bucato. 3. La donna di nome Bliss, lui era più giovane a quell'epoca, lui, Marvin, e forse, con quegli occhi così belli, avrebbe combinato volentieri qualcosa, a Indianola, Mississippi. 4. Lo sgomento di vite diverse dalla propria. Felici, sane, solitarie, distrutte. L'uomo con un ottavo di sangue indiano. Vite dure e insolite anche quando sono ordinarie. 5. Che conosceva una certa Susan che parlava di una palla da baseball con un passato famoso. Marvin non ricordava la tribù. 6. Lo stomaco che faceva di nuovo le bizze. 7. L'uomo allergico agli agenti chimici, tremava da capo a piedi quando qualcuno scattava una foto a un miglio e mezzo di distanza. 8. E Chuckie Wainwright partito per mare, lasciandosi alle spalle una donna e un bambino, un branco di hippy cristiani, scalzi e coperti di collanine, e Marvin che gli teneva dietro di nave in nave. 9. E il bambino con il cancro delle ossa nello Utah, e la madre che dava la colpa della malattia al governo. 10. Marvin sperduto. Un giorno era partito per Melbourne, Florida, e per poco non era finito in Australia. 11. E la donna col dente scheggiato - una storia lunga, meglio non fare domande. 12. E le sostanze chimiche al centro della palla che facevano correre l'uomo da fermo tutti i giorni dopo colazione. - Dimmi cosa facciamo dopo cena. - E lo chiedi a me? - Tu sei gia stato in questa citta. Io no, - disse Eleanor. - Cosa ci rimane da fare dopo che mi sarò tirato su dal pavimento? Ho le gambe talmente anchilosate che un cannibale si rifiuterebbe di mangiarle. - Avanti. Fammi divertire. - Questa vuole andare in giro a far follie. - Scateniamoci, Marv. Strano che stesse compilando un resoconto dei passaggi più recenti della palla e allo stesso tempo volesse risalire a collegamenti del lontano passato. A volte gli sembrava di vedere la palla passargli accanto in volo. Voleva scovare Chuckie e trovare l'ultimo anello, il primo anello, il collegamento con il Polo Grounds, ma anche se non fosse riuscito a trovare quell'individuo, probabilmente la palla l'avrebbe comprata comunque, la presunta palla autentica, una volta che l'avesse localizzata, e avrebbe continuato a cercare Chuckie fino alla morte. - Voglio che tu mi faccia vedere l'altra faccia della citta, disse Eleanor. La palla non portava né fortuna né sfortuna. Era un oggetto che passava di mano. Ma spingeva la gente a raccontargli cose, a confidargli segreti di famiglia e storie personali inconfessabili, a singhiozzare di cuore sulla sua spalla. Perché sapevano che lui era il loro, come dire, il loro strumento di sfogo. Le loro storie avrebbero assunto un rilievo diverso, sarebbero state assorbite da qualcosa di più vasto, il lungo viaggio della palla stessa e l'assurda marcia di Marvin nel corso dei decenni. D'accordo. Marvin non era un nottambulo, ma conosceva un posto dove
portarla, una strada, a dire il vero, detta il Float, vicino al vecchio quartiere hippy, negozi che aprivano e chiudevano da un giorno all'altro, edifici senza numero civico, una zona capace di soddisfare desideri molto precisi che cambiavano con le fasi della luna. Si sollevò dal tappetino per gradi, un'articolazione dopo l'altra, poi chiamarono un taxi e uscirono. Venti minuti dopo camminavano lungo la famosa strada, sotto l'ombrello - stava piovviginando, e c'era qualche mendicante, una donna con i capelli alla moicana e il fondo tinta bianco che infilò nella cintura dell'impermeabile di Marvin un foglietto da giorno del giudizio. La pace sta arrivando - preparatevi. La maggior parte dei negozi erano aperti nonostante l'ora, o per via dell'ora, ed erano quasi tutti sotto il livello stradale, per cui bisognava guardare giù dalla ringhiera per vedere cosa vendevano. Articoli di Gomma per Inversione-dei-Ruoli, oppure Moda a Rischio, giacche confezionate con la pelle di specie in via di estinzione. Entrarono in un buco di negozio con un sacco di crepe nell'intonaco, i battiscopa infestati dagli scarafaggi e una raccolta di registrazioni rare. Ma non si trattava di vecchi 45 giri di musica jazz. Quelle in vendita erano registrazioni, telefoniche e non, ottenute con microspie, chiacchiere di personaggi della mala che parlavano delle loro ragazze o degli avvocati, quello la è un cazzo duro in giacca e cravatta - stiamo parlando di uomini che appaiono al telegiornale delle undici in cappotto di cachemire con tanta di quella stoffa che ci si potrebbe vestire un'intera squadra della Little League di Taiwan. E registrazioni telefoniche di gente qualsiasi, uomini e donne qualunque, roba ancora più maniacal-repellente, del vicino di casa magari, e Marvin capì come un acquisto del genere potesse portare a ore e ore di ascolto imbambolato, potesse invadere la vita di una persona, proprio per la noia mortale delle registrazioni, capì che possedevano l'attrattiva di ogni assuefazione, che consiste nel perdersi nel tempo. Il Float aveva un limite, chiudeva a mezzanotte. Fecero brevi visite a negozi che vendevano foto di autopsie, o spazzatura di star cinematografiche, immondizia vera e propria, surgelata in un magazzino - si guardava un catalogo e si faceva l'ordinazione. Eleanor era incantata dall'ambiente, una parola che pronunciava alla francese, ambiance. Pavimenti di nude assi di legno e pareti macchiate. Prese Marvin a braccetto e scesero lungo la strada, notando un'insegna alla finestra di un piano rialzato, Crociera in Spagna per Feticisti dei Piedi. Itinerari di desiderio. Era, come dire, la scomposizione del desiderio in mille sottospecialita, specifiche e ristrette, sussurri furtivi del sé. C'era un locale sotterraneo con un retrobottega dove proiettavano film porno con persone prive di arti. Avevano notti gay e notti etero. Chi era aperto alle proposte poteva vagare nella zona e scoprire le proprie preferenze, gustando, fetta dopo fetta, le goloserie della strada. Trovare un'identita in base alle proprie fissazioni. Passò un ragazzo con gli abiti così stracciati che sembrava coperto di stelle filanti. C'era un caffè chiamato Teoria della Cospirazione. Scaffali pieni di libri, pellicole cinematografiche, cassette, rapporti governativi
dentro cartellette blu. Eleanor voleva prendere un caffè e dare un'occhiata in giro, ma Marvin liquidò il posto con un cenno della mano - una serie di esercizi sterili. Era convinto che le fonti fossero più profonde e meno discernibili, più profonde e più superficiali a un tempo, che bisognasse guardare i cartelloni pubblicitari e le scatole di fiammiferi, i marchi di fabbrica sui prodotti, i segni particolari sul corpo, osservare il comportamento dei propri animali domestici. Le cose sotto il nostro naso. Il negozio più grande era al livello della strada, e c'erano una dozzina di clienti dentro, uomini furtivi in impermeabile, tutti assorti nella consultazione di vecchi numeri del National Geographic. Erano riviste usate quelle, usate e maneggiate, vissute, con l'etichetta dell'indirizzo ancora attaccata alla copertina, stampata a macchina, con sbavature d'inchiostro e macchie di grasso lasciate dalle dita, e i nomi e gli indirizzi sulle etichette erano quelli di gente in carne e ossa la fuori nell'America dei periodici, e gli uomini in impermeabile stavano in piedi accanto ai tavoli a leggere le etichette e a sfogliare i numeri, senza mai alzare la testa. Un uomo comprò una rivista e se ne andò in fretta, infilandosela sotto l'impermeabile. Marvin non credeva che a questi uomini interessassero i branchi di lupi nella tundra al tramonto. Era qualcos'altro che cercavano, un mormorio umano dimenticato, forse, un senso di famiglie dentro piccole case nel cuore del paese con uno spaniel dalle orecchie spioventi sul tappeto, un senso di tranquilla innocenza al calduccio e fuori il mondo ancora da scoprire, la vasta geografia. Una forma pornografica di nostalgia, forse, o era qualcosa di completamente diverso? E chissa se c'era un retrobottega, perché un retrobottega c'è sempre, no?, un'altra frammentazione del desiderio, un po' più rifinita e personalizzata, e chissa se nel retrobottega c'erano le riviste raccolte dentro cartellette di acetato, numeri rari forse, o etichette rare, oppure erano proprio le cartellette, il feticcio, coperte di polvere, quasi opache, alcune, a furia di passare di mano, una plastica un po' appannata, con un che di profilattico al tatto e all'olfatto, simili a preservativi per materiale cartaceo, e forse c'è un'altra stanza dove bisogna sussurrare una parola d'ordine per passare, una stanza in cui ci sono solo cartellette, contenitori vuoti, maneggiati mille volte, ed Eleanor era del tutto sconcertata da quel posto, era più di quello che si aspettava, uomini in impermeabile con copie del National Geographic, che passavano furtivamente in rassegna le etichette. Dall'altra parte della strada videro un negozio dedicato alle donne alte, Long Tall Sally, si chiamava, ma non vendeva abiti e cappotti. Esaltazioni della Fantasia, diceva l'insegna. Libri, film, accessori - solo donne alte. Capita di vedere cose strane in una stradina secondaria in una sera piovosa, e ci si chiede come mai sembrino significative. Marvin pensò che lì c'era qualcosa che era forse il segno precoce di una grande forza sul punto di riscuotersi con un tremito, non sapeva bene cosa fosse, se fosse un bene o un male, non sapeva dove nel mondo - uno scossone nella terra che poteva cambiare tutto. - Bene Marvin, sono pronta per andare a letto adesso. Ancora un locale, l'unico della strada in cui era gia stato,
gestito da un conoscente, si sarebbe potuto definire un collega, Tommy Chan, forse il primo collezionista di cimeli, se si chiamavano così, del baseball. Scesero una rampa di scalini sporchi che portava in una stanzetta con pile di ruolini segnapunti, vecchi canzonieri e altri mille souvenir del baseball, cataste traballanti di registrazioni e documenti lungo tutto il perimetro della stanza. Eleanor fece un sospiro di petto come una pernice ferita. E c'era Tommy sulla sua seggiola, sopra una pedana, insieme al registro di cassa, un'isola sopraelevata rispetto alla massa di carte che stavano ingiallendo, e Marvin ricordò tutti i filmati di baseball che aveva visto durante la sua ricerca, tifosi al Polo Grounds che lanciavano sul campo ruolini segnapunti e giornali mentre il giorno si spegneva e i Dodgers andavano verso la rovina. Tutte quelle cartacce al crepuscolo. Forse un po' di quella roba adesso era qui, conservata dagli spazzini dello stadio per entrare poi nel sotterraneo della memoria e del ricordo, ruolini segnapunti trasformati in piccoli aerei da qualche bambino, pezzi di carta igienica srotolata dalle tribune in segno di giubilo, forse delicatamente autografata da un giocatore, la frenesia di una partita approdata al silenzio dopo tutti quegli anni, dall'altra parte del continente. - Questa è mia moglie. - Non si vedono molte donne qui, - disse Tommy come un monaco buddista in un monastero remoto, gentile e saggio. - E' un miracolo che tu veda qualcuno. Perché, francamente, chi vuoi che venga quaggiù? - disse Marvin. - Devi fare qualcosa per rendere presentabile il locale. - Presentabile -. Bella parola.- Pensaci un attimo, Marvin. Cosa vendo qui dentro? Non vendo casalinghi in un ipermercato. Era un uomo intelligente, con una faccia che avrebbe potuto essere gradevole se non fosse sembrata senza eta, il che sconcertava Marvin, perché in genere si preferisce sapere quanti anni ha la persona con cui si parla. - Cos'hai venduto oggi? - Siete i primi a entrare in negozio. - Non fare quell'aria soddisfatta. - Sono qui da mezzogiorno. Gli altri commercianti non aprono fino a tardi da queste parti. - Da mezzogiorno. E non è entrato nessuno. - Interessante vedere una donna, - disse Tommy. Eleanor rimase immobile, forse parzialmente paralizzata dalla propria condizione esotica. - Non dovresti dare alla gente qualche incentivo per comprare? gli disse. - Non che la cosa mi riguardi. - Un incentivo -. Che novita.- L'incentivo è all'interno, credo. Questo non è materiale di interesse estetico. Sono carte sbiadite che si stanno sbriciolando. Carta vecchia, nient'altro. I miei clienti vengono in gran parte per il disordine e la confusione. E' una storia di cui si sentono parte. Marvin disse a Eleanor: - Avevo sempre creduto che chi conserva queste vecchie cose, queste cose del baseball, vivesse sulla East Coast. Credevo che fosse la East Coast a mantenere vivo il ricordo. Tommy è il primo collezionista che ho trovato a ovest di Pittsburgh. Tommy fece un sorriso così fugace e impercettibile che avrebbe
potuto essere impresso solo su una pellicola sviluppata dalla Nasa. La sua faccetta da ninnolo galleggiava nella penombra, e Marvin provò l'impulso infantile di allungare una mano per toccarla, tanto per vedere se era come la sua, al tatto, simile alla ruvida superficie che lavava e radeva ogni giorno. - Hai trovato il tuo uomo? - chiese Tommy. - Ho trovato la mia nave. Quanto all'uomo, lasciamo perdere. - Devi arrenderti. - Senti chi parla. - Non puoi ricostruire il passato con precisione, Marvin. Lascia perdere. Molla. Per il tuo bene. - Senti chi parla. - Liberati, - disse Tommy. - Proprio tu che te ne stai seduto qui a respirare polvere come una statua di non so quale tipo. - Equestre, - disse Eleanor. - Una statua equestre in un parco. - E' vero. La mia situazione è ancora più irreale della tua. Almeno tu vai in giro. Io sto seduto qui con le mie carte che vanno in briciole. C'è una vendetta poetica in tutto questo. - Quale vendetta? Un sorriso fugace come il respiro di un colibrì passò sulle labbra di Tommy. - La vendetta della cultura popolare su quelli che la prendono troppo sul serio. L'osservazione colpì nel segno. Marvin sentì una fitta al petto come un coreano in pigiama che spezza un mattone con la forza della mano nuda. Del resto, pensò, come faccio a non essere serio? In cosa consisterebbe non essere seri? Cosa potrei prendere più sul serio di questo? E che senso ha svegliarsi il mattino, se non si tenta di far fronte all'enormita delle forze del mondo con qualcosa di potente nella propria vita? Sapeva che Eleanor voleva andar via. Sapeva che Eleanor stava pensando, Se non altro Marvin tiene il seminterrato pulito. Ma prima doveva comprare una cosa. Una piccola scatola vuota semiabbandonata in un angolo, contrassegnata dalla scritta “Spalding Official National League Number 1”. Un tempo conteneva una palla da baseball nuova, molti anni prima. L'avrebbe conservata per il momento in cui la vecchia palla usata e ammaccata fosse venuta in suo possesso, se e quando. Si sporse a pagare l'amico. Appesa al muro c'era la fotografia del presidente Carter con la figlia come-si-chiama nel Rose Garden con Bobby Thomson e Ralph Branca, tutti con un sorriso forzato sulle labbra. Uscirono in strada. Una donna vestita di stracci spingeva tutti i suoi beni dentro un carrello della spesa, apparentemente diretta verso una destinazione precisa. Chissa se c'era una famiglia in attesa, se era una pendolare del futuro, se la gente viveva all'insaputa di tutti nei cunicoli delle come-si-chiamano, delle infrastrutture, nelle gallerie e sotto i ponti? - Tommy sembra così contento. Com'è possibile, se vive al buio? - Alza i piedi, Marv. Sei sano, non malato. - Tutto solo in quella segreta ogni giorno. - Ha moglie e figli? - Non lo so. Chi gliel'ha mai chiesto? Non è il tipo di domanda che
si fa nell'ambiente dei collezionisti. - Credi che apprezzi le attrattive del nostro sistema di vita? - Come la dici bene quella parola, attrattive. - Ha un orticello dove coltiva pomodori tutte le estati? - Quando lo guardo, non vedo un pomodoro. - Porta sua moglie nei viaggi d'affari? Eleanor sapeva come farlo sentire fortunato. E aveva ragione, aveva quasi sempre ragione, i pomodori, le lavanderie a secco, la casa con il seminterrato spazioso, la figlia che non aveva dato loro dispiaceri facendo stupidaggini al di fuori del vincolo matrimoniale. Pensa a Tommy che consuma takeway cambogiano nel suo negozietto a mezzanotte. Pensa ad Avram, a Gorªkij, che percorre tutto il corridoio con il rubinetto del lavandino della cucina ogni volta che vuole fare un bagno. Trovarono un taxi fermo di fronte a un vecchio dormitorio per uomini. Ma per la verita, siamo onesti, era Marvin a strascicare i piedi, Marvin il vero schlimazel, scalognato anche ai propri occhi, era Marvin il tifoso dei Dodgers, votato a una rovina cui non voleva dar nome. Una macchina della polizia passò a sirena spiegata, con un rumore da risucchio meccanico, simile al frullatore della loro cucina Eleanor si sentiva obbligata a fare frullati di frutta che erano poi moralmente impegnati a bere. Era ora di pensare ad andare a letto. Ma prima la portò a ballare nella mansarda dell'albergo, una saletta intima con un'orchestrina, fino a mezzanotte passata. Scivolarono leggeri sulla pista, ondeggiarono e accennarono un caschè - non lo fecero veramente, si limitarono a una pausa, a una dichiarazione formale che a quel punto poteva intervenire qualcosa come un caschè. Amavano il ballo, erano bravi insieme, e un tempo andavano a ballare, ma avevano perso l'abitudine col passare degli anni, come ci si dimentica una certa ghiottoneria di cui si andava pazzi, come i tranci di torta charlotte quando era in voga. Eleanor gli accarezzò la capigliatura non infiammabile. E Marvin la tenne stretta e provò la vecchia incredulita per la loro vita in comune, due persone tanto diverse anche se poi non lo erano, e capì che la forza di questa incredulita era esattamente la stessa cosa, ammesso che si potesse misurarla, dell'essere innamorati persi. Ma nelle correnti profonde, nella Marvinita dei suoi abissi senza nome, c'era ancora un qualcosa di oscuro che lo inquietava. E quando passarono ballando davanti alla finestra, Marvin guardò le luci del Bay Bridge, e attraverso la nebbia localizzò la vecchia e derelitta nave cisterna rannicchiata al suo posto di fonda, puzzolente e reietta, poi risalì fino al molo 7 e scoprì che la Lucky Argus aveva gia scaricato ed era ripartita, trasportata dalla corrente, una forma scura che avanzava a tutto vapore - è così che si dice? - nella notte fitta di pericoli. NOTE: (*) Absent without Leave, assente senza permesso [N'd't']. Capitolo terzo
Il locale non era esattamente affollato. C'erano sette avventori, io e Sims compresi, e quattro suonatori sulla pedana dell'orchestra un sassofonista con il pizzetto e i suoi compagni piegati sugli strumenti. Non sapevo dove eravamo, avrebbe potuto essere Long Beach o Santa Monica o un'indistinta periferia chissa dove. Era il terzo locale in cui facevamo tappa e il mio gia scarso senso dell'orientamento era svanito. Quella sera Big Sims non era in vena di chiacchiere, sfrecciava nella notte con cupa determinazione, mezzo bicchiere e poi via, come l'eroe di un poema epico con un'impresa da portare a termine. - Senti Sims, perché non te ne vai a casa? La musica non ti piace. Non voglio che tu ti senta obbligato. - La musica va bene. E' musica. - Non devi sentirti obbligato a portarmi in giro. Torna a casa. Io resto ancora un po', poi prendo un taxi. - Tornare a casa. - Sì, torna a casa. Ma prima dimmi cos'è che ti rode. Perché sei arrabbiato. - Arrabbiato io? Dovresti vedermi quando sono arrabbiato. Un cameriere attempato ci portò da bere, un tizio con un batuffolo di cotone in una narice. Aveva una T-shirt con la scritta “Lunedì Sera Partita di Football al Loins and Ribs di Roy Earley”. Non era lunedì e non eravamo in quel locale. - Cos'è successo? - gli chiesi. - Cos'è successo. Cosa vuoi che succeda a casa? - Hai litigato con Greta. - Lascia perdere, - fece lui. - Beviamoci su. - Non sono male questi ragazzi. - E' musica. Finisci di bere. - Hai un groppo allo stomaco. - Il fatto è che non litighiamo mai. - Non litigate mai. Neanche Marian e io litighiamo mai. E quando succede. - Ti resta in corpo. - Senti un groppo, un peso. - Non litighiamo mai di brutto. - Noi non litighiamo mai, io e Marian. Torna a casa e fai la pace. Io posso chiamare un taxi. Si può chiamare un taxi da qui? - Stai diventando un po' grigio, - mi disse. - E tu stai diventando un po' calvo. - Io sto diventando molto calvo ma tu stai diventando un po' grigio. Il sax tenore emetteva note cubiste mentre noi bevevamo parecchi bicchierini, e il percussionista sparava colpi sull'anello del rullante o come diavolo si chiama, e in mezzo a quel rumore, acuito dal senso di estraneita dell'ambiente notturno che non mi era familiare, cercai di capire cosa diceva Sims. - Dico sul serio, torna a casa. Io sto bene. Questi ragazzi mi piacciono. E' roba tosta. - E' musica nera. - E' jazz tosto a ruota libera. - E' musica nera. Ti piace per il motivo per cui vuoi che ti piaccia. Almeno per me è così. Voglio farti vedere una fotografia che ho a casa. Una foto fantastica, degli anni Cinquanta, credo, ma non
sono sicuro. Charlie Parker in completo bianco in un locale non so dove. Una foto davvero grande, grande. - E' un locale di New York. Mi fulminò con lo sguardo. - Conosci la foto? - E' una foto fantastica, - dissi. - Aspetta un momento. Ne sei sicuro? E' un locale di New York? - Indossa un completo bianco e quelle scarpe di cui non ricordo mai il nome. Di punto in bianco pensai a come cambiavano le nostre facce, a come cercavo di sorprendere un segnale negli occhi di un altro che mi dicesse fino a che punto avrei dovuto preoccuparmi, mentre, allo stesso tempo, cercavo di evitare tutti gli sguardi fino a quando non riuscivo a controllare meglio la situazione, e a come sembrassimo tutti d'accordo - mentre la stanza scricchiolava e gemeva - nel convenire che, se tutti avessimo mantenuto la stessa espressione in viso, saremmo stati al sicuro da ogni pericolo. - Posso chiamare un taxi da qui? Torna a casa. Fai la pace con lei. Non sottoporre l'episodio a dieci ore di analisi nevrotica. - Tornare a casa. - Sì, torna a casa. Come si chiamano quelle scarpe di cui sto cercando di ricordare il nome? Chiedile scusa. Non lasciare che il litigio incancrenisca. Quelle scarpe bicolori, che un tempo erano di moda. Sims mi guardò, valutandomi. - Una volta o l'altra andremo a una partita. Tra pochi mesi tornerai, giusto? Allora andremo a vedere una partita. - Non ho voglia di vedere una partita. - E invece ci andremo, - ribatté lui. Vuotammo il bicchiere e uscimmo. In meno di un quarto d'ora eravamo in un altro locale ad ascoltare dei trombettisti che raschiavano i muri, quattro ragazzi in fez e caftano che producevano suoni fisici, e un percussionista che emetteva per lo più suoni vocali, grida e gemiti atonali. Ordinammo da bere e ascoltammo per un po', poi Sims si sporse verso di me. - Mi è successo due volte da quando sono qui. Di trovarmi sotto tiro. La vita in balia del dito piegato di un poliziotto perché avevo l'aria sospetta o il fanalino di coda spento. Allora, lui scende dalla macchina e fa scendere anche me. Mi fa, Esca dalla macchina immediatamente. E io esco dalla macchina. E lui fa, Adesso deve mettere le mani sul tetto e aprire bene le gambe. Ma io mi limito a guardarlo. E lui guarda me. Ci guardiamo con un desiderio di uccidere tanto ingiustificato quanto naturale. Annuisco e aspetto. Lui guarda in tutta serieta il suo bicchiere, Sims. - Se vuoi essere mio amico, questa la devi ascoltare, - disse. Le pareti erano decorate con vecchie copertine di album dei Pacific Jazz, e girando la testa verso la pedana della band sentimmo la forza della musica, un jazz sofisticato che aveva la consistenza di una discussione di importanza vitale. - Sì, - gli dissi. - E' vero, sto diventando un po' grigio. Ma non capisco perché sia peggio che diventare completamente calvo. Il che, per tua stessa ammissione, è il tuo destino. - E' questo il punto.
- Cioè? Un po' di grigio non è la cosa peggiore che possa succedere a un uomo. - Diamoci una mossa, okay? - Perché? - C'è un posto. - Ma a me piace questo locale. - Ti sto portando in giro io, d'accordo? Devi seguirmi, - disse. Io vivo qui, tu no. - D'accordo. Ma dovresti tornare a casa. Chiederle scusa. - Voglio che tu sappia una cosa di noi. - Cosa? - Non litighiamo mai. - Neanche noi litighiamo. I nostri amici litigano. - Per questo sono tutto attorcigliato. - Ti capisco. - E allora muoviamoci, - disse lui. Il locale successivo era downtown L'A'. Downtown L'A' - il termine aveva una vita segreta che non riuscivo a decifrare con chiarezza. Il gruppo stava facendo un intervallo e sulla stanza gravava una nuvola di fumo decennale. - Un tempo suonavo la tromba. Lo sapevi? - Suoni ancora? - Una vecchia tromba di seconda mano. Alla fine l'ho buttata via. - Ma ce l'hai ancora. - L'ho buttata. - Non l'hai tenuta? - Per quale motivo? Aveva un suono infernale. - E' una bella cosa da avere. Una vecchia tromba? Non sono le Duilio, comunque. Non sono quelle le scarpe a cui mi riferisco quando parlo di scarpe bicolori. - Aveva un suono che sembrava il funerale della musica. Morta e sepolta. - Che stronzo. Avresti dovuto tenerla. - Come? Io sarei uno stronzo? - E' una gran cosa da avere. Una cosa così la si conserva. Una tromba di seconda mano? E' un oggetto fantastico. - Aspetta un momento. - Grosso errore, Sims. - Io sarei uno stronzo? Il pianista comparve per primo, poi il basso. Il percussionista aveva una fascia sulla fronte e occhiali scuri. - La nave è tornata. Lo sapevi? - No. - Sulla costa, a San Francisco. - Chi te le dice queste cose? - Lo sai come va con le voci. Non è che qualcuno te lo dica. Le senti e basta. - E cos'hai sentito a proposito del carico? - Questa è un'altra storia, - disse Sims, assumendo il tono forzato di un venditore di macchine usate, imbroglione per giunta, e mi fece ridere.- Be', questa è davvero bella. E' la storia più divertente di tutte. Alla fine fece la sua comparsa anche la tromba, uno spilungone con tanto di catena d'oro e un buco tra gli incisivi, in tenuta da spiaggia e sandali.
- Dicevano che era eroina. Dicevano che la Cia trafficava in eroina per finanziare un'operazione segreta. Ma noi non ci credevamo, tu e io. - Perché siamo persone sensate. - E avevamo ragione, - disse Sims. - Infatti non è eroina. Non sono sostanze chimiche tossiche, non sono scorie industriali e non è eroina. - Cos'è allora? - C'è stata una certa confusione su una parola. Ecco tutto. - Quale parola? - Sai come viene chiamata l'eroina. La chiamano roba, la chiamano smack, la chiamano ero, la chiamano lenta, la chiamano in mille modi. E come altro la chiamano, Nick? - Merda. La chiamano merda. - Esatto. E quindi non è un carico di eroina, capisci? E' un carico di merda. Per un attimo ci sentimmo svegli e concentrati. Era uno di quei momenti di chiarezza intensa in una notte di alcol e parole. - A un certo punto, se non sbaglio, secondo le voci, la nave non era una normale nave da carico. - Infatti è una nave cisterna carica di liquame. Le voci erano corrette. - Che trasporta escrementi umani trattati. - Da un porto all'altro. Da quasi due anni, - disse Sims. Ascoltammo la musica, lo squillo di un registro di cassa in fondo al bancone e una traccia di voce radiofonica, o televisiva, che arrivava da una stanza sul retro. - Chiedile scusa. Torna a casa, Sims. - Forse dovrebbe essere lei a chiedermi scusa. - Fallo prima tu. - Forse la colpa non è mia. Ci hai mai pensato? Non sono io a cominciare. - Non importa, stronzo. - E' gia la seconda volta, - disse, mostrandomi due dita. Uscimmo di lì e andammo in un altro locale, pareti zebrate e tavoli piccoli, una stanza piuttosto affollata piena di brusio umano, e gente con occhiali da aviatore e camicie d'argento. - Indossa un completo bianco. - Giusto. - E suona il suo sax alto. - Giusto. - E guarda fuori dalla foto, fuori dall'inquadratura. - E indossa scarpe bianche e marroni. Scarpe bicolori. Ma non sono le Duilio. - Non ti ho chiesto che tipo di scarpe indossa. Me ne frego delle scarpe. - Stavo solo dicendo. - Non mi interessano le sue scarpe. - Hanno un nome che sto cercando di ricordare. - Fallo da un'altra parte. - In un locale di New York, - dissi. - Com'è che tu lo sai e io no? E stiamo parlando della mia fotografia, quella che ho a casa mia. Il cameriere portò da bere. - Senti, torna a casa, chiedile scusa, fai un bagno e va' a letto.
Lui mi guardò, sporgendo il labbro inferiore. - C'è un'altra cosa. - Cosa? - gli chiesi. - Un giudice ha emesso un ordine, un'ingiunzione per cui non potevano scaricare il liquame perché c'è un cadavere sepolto dentro, - disse Sims, e prese il bicchiere, e tirò fuori un sigaro di tasca. - Il cadavere di chi? - Il cadavere di chi. Di chi vuoi che sia? Di un malavitoso, dicono. Con un colpo in testa, stile esecuzione. Un trio con cantante. Una donna dai capelli striati di rosso e la pelle ramata che teneva il microfono sulla coscia coperta di lustrini mentre l'accompagnatore intonava il verso successivo. - Noi non litighiamo mai. I nostri amici litigano, - dissi. Quando la musica finì, ci aggredì un senso di fatica, di vuoto. Sims soffiò il fumo al di sopra della mia spalla. Misi un cubetto di ghiaccio nel mio bicchiere, gli diedi un colpetto con un dito e lo guardai sobbalzare. - C'è un uomo che un tempo conoscevo. O meglio, non è che lo conoscessi, l'avevo incontrato una volta. Ero giovane allora, dissi. - Era venuto a giocare a biliardo. - Perché me lo racconti? - Per via del cadavere nella merda. - Un personaggio della mala. Chi era? - Ero giovane, andavo alle superiori. Gli parlai solo quella volta. Ma mio padre l'aveva conosciuto anni prima, e mi raccontò tutto. Badalato mi raccontò tutto, non mio padre. Non erano amici, solo conoscenti. Probabilmente si incrociavano ogni tanto. - E' di Mario che stai parlando, Mario Badalato? L'ho visto una volta alla tv, - disse Sims, - mentre lo facevano salire su una macchina non numerata per portarlo in tribunale, e un detective gli mise una mano sulla testa perché non la sbattesse contro il telaio della portiera, e ricordo di aver pensato, ma tu guarda quanti sforzi fa la polizia per impedire che questi criminali sbattano la testa quando salgono in macchina, è una vera e propria mania dei poliziotti, ultimamente, questa mano sulla testa. - All'improvviso ti è venuta voglia di parlare. - Lo fotografano sempre sui gradini del tribunale, quello. E' il re dei gradini. - Hai ragione. Andiamocene. - E tuo padre lo conosceva. Questo cosa significa? - Significa che lo conosceva. - In altre parole devo mostrare rispetto. Devo pronunciare il suo nome con un certo rispetto. Per uno che dirige un'impresa criminale coinvolta in narcotici, estorsione e che altro? Omicidio, tentato omicidio e che altro? - Trasporto di rifiuti. - Può anche darsi. Perché no? E io devo rispettarlo. Perché era gentile con tuo padre. - Hai ragione. Andiamocene. - Non ho detto che volevo andarmene. Non ho voglia di andare via. - Chiedile scusa e fai un bagno. Mezz'ora dopo eravamo nell'ultimo locale della nottata, un locale di blues con un'aria desolata, e il cameriere assomigliava al vecchietto di due o tre locali prima, di faccia, gli assomigliava indossava una normale divisa da cameriere ma assomigliava un sacco,
almeno mi pareva, all'altro tizio, quello con la T-shirt del football, tre o quattro locali prima, o chissa quanti, quello con la T-shirt e il batuffolo di cotone nel naso. - Questo posto mi ricorda una cosa. Sai come succede che tutti chiedono sempre, Dov'eri quando eccetera eccetera? Dov'eri quando Kennedy? Be', ricordi quando andò via la luce? Questo posto me lo ricorda. Il grande blackout del Nordest. - Dovrei chiederti dov'eri? - disse Sims. - Trenta milioni di persone coinvolte. - Ero in Germania, e non ho mai saputo cosa lo provocò. Cosa lo provocò? - Non se lo ricorda nessuno. Trenta milioni di persone, e nessuno di noi se lo ricorda. - Però ti ricordi dov'eri. - Mi chiedi dov'ero. Ero in un bar che assomigliava un po' a questo posto, - dissi. - Anime morte, jazz triste. Palme dipinte sui muri. - Questo posto non ha palme sui muri. - Tanto meglio, questo aumenta la somiglianza. E andò via la luce. - Hanno fatto un film. Io ero in Germania, - disse Sims. - Forse non c'era musica jazz in quell'altro posto. Forse un tempo facevano musica jazz ma avevano smesso. Avevano una politica di musica jazz che era diventata una politica di non jazz, che, a ben guardare, è la stessa cosa. Il cameriere non assomigliava al tizio di tre o quattro locali prima. Non era affatto a lui che assomigliava. Assomigliava al tassista che avevo fermato nel pomeriggio, o il giorno prima, quello che aveva detto: - Accenditi una Lucky. E' ora di godersela. Quando mi misero nella macchina di pattuglia, o forse allora la chiamavano autoradio, era un veicolo verde e bianco in ogni caso, e il poliziotto alla guida fumava, cosa che non avrebbe dovuto fare, perché un poliziotto in uniforme non avrebbe dovuto fumare, infatti rimasi sorpreso, ricordo, nel vedere un poliziotto che teneva una sigaretta nella mano a coppa tra le ginocchia, perché avevo sparato a un uomo facendolo secco e pensavo che mi stessero portando dentro un sistema dove le regole erano coerenti e rigorose, e l'altra cosa che ricordo è che nessuno mi mise una mano sulla testa per farmi chinare mentre salivo in macchina perché evidentemente non era una cosa che facevano all'epoca, la adottarono solo più tardi, quest'abitudine di impedire al malvivente di sbattere la testa quando lo portavano in gabbia. Questo avvenne ai tempi della East Coast naturalmente. East Coast è un'espressione che sento ripetere continuamente da quando sono venuto in questa parte del paese. Ma per me non è un luogo geografico. E' un riferimento temporale, un'affermazione di tipo temporale, che parla di tutti gli strati della vita e dell'esperienza, è tempo camuffato, è ora di godersela, è tempo fumoso e fugace spacciato per un posto ben preciso. Quando la gente usa questa parola si riferisce a com'erano le cose prima di venire quaggiù, a com'era il mondo, non solo il New Jersey o South Philly, o prima che i loro genitori si trasferissero, o i nonni, e a come stanno ancora le cose in una teoria della relativita personale, una fumosa e fugace dimensione della mente, o prima che altri uomini e altre donne venissero su questa costa, quelli arrivati sui carri coperti di Conestoga, un nome che avevamo imparato alle elementari, un nome dei tempi della East
Coast, nato dal posto in cui venivano fabbricati i carri. La stanza era quasi vuota e stavano suonando il blues. - Sii carino con lei, - dissi.- Torna a casa e parlale, fa' il bravo. Te lo dicevano mai quando eri un bambino negro a Saint Louis, Sims? - Una volta vennero a fare il censimento. - Sì, e allora? - E mia madre mi disse di nascondermi. - Perché? - Perché. E' questo il dunque. Io non sapevo perché. Lei pensava, non so cosa pensasse. Così andai a nascondermi. C'erano due persone alla porta con tanto di blocco per gli appunti, e lei mi disse, Va' dentro e sta' giù. - Sta' giù. - Sta' giù, mi disse. Non so cosa pensavo io né cosa pensava lei. - Erano solo quelli del censimento. - Non sottovalutare il censimento. - Mi dici che sto diventando un po' grigio. E io dovrei capire perché è peggio che diventare completamente calvi. - Perché è nella mia storia, nella mia famiglia, - disse lui. - Si sa che diventerò calvo, se lo aspettano da me. Sta' giù, mi disse. - Sta' giù. - Tu ci credi al censimento, Nick? Se ne stava seduto con la cravatta allentata e la giacca stazzonata, e riaccendeva il sigaro interrotto, con una linea rosa tramonto visibile sul bordo del labbro inferiore sporgente. - Cosa vuoi che ti dica? Sì, ci credo. No, non ci credo. - Voglio che tu mi dica che cosa credi. - Non vorrei sbagliarmi, ma ho la sensazione che ci stiamo inoltrando in una zona delicata. - Cosa credi? - mi chiese. - Credo al censimento. Perché non dovrei? Mi guardò fisso negli occhi. - Tu ci credi. - Perché non dovrei crederci? - Credi ai numeri. Per esempio, credi che ci siano solo venticinque milioni di neri in America. - Perché non dovrei crederci? - Allora ci credi. - Se il numero è questo, è questo e basta. - E non credi che possano falsificare le cifre, ridurle? - Aspetta un momento. - Non ci pensi. - Alt, alt alt. - Pensaci, - disse. Si staccò la camicia dal corpo, fece una cosa che fanno gli uomini grandi e grossi, usò entrambe le mani per staccarsi la camicia dal corpo e poi la agitò, con una certa delicatezza, lasciando respirare il torace. - Sims, io e te. - Tu pensaci e basta. - Io e te, se ben ricordi, noi insomma, non abbiamo una parola per la scienza delle forze oscure. Per ciò che sottende a un evento. Non accettiamo la validita di questa parola o di questa scienza. Ti
ricordi la nostra conversazione? - Questa è un'altra conversazione. E in questa conversazione, ti dico, Pensaci. - Ma io e te. Insomma noi due andiamo controcorrente, Sims. La corrente è facile, è irresponsabile. Noi siamo persone sensate. Questo l'abbiamo stabilito. Noi non crediamo che ci siano forze segrete che insidiano la nostra vita. - Trenta milioni di persone coinvolte nel vostro blackout locale. Ma solo venticinque milioni, dicono, di neri in tutto questo immenso paese. - Se il numero è questo, è questo e basta. - E' tutto quello che hai da dire. Abbiamo un dato che esige a gran voce uno scrutinio, per usare una delle tue parole. - Coraggio, fa' questo scrutinio. - Tu sei disposto ad accettare questo numero. - Venticinque milioni. Sì, perché no? - Non credi che sia un numero decisamente troppo basso? - Venticinque milioni non sono così pochi. Sono venticinque milioni, - dissi. - Dunque non credi che questo numero sia assolutamente inferiore alla realta. - Perché dici che scrutinio è una parola mia? - Perché l'hai usata. - E questo ne fa una parola mia? - Non sono stato io a usarla. L'hai usata tu. - Io credo nel numero. Secondo me è un numero credibile. - Non credi che se venisse reso pubblico il numero vero, ai bianchi tremerebbero le ginocchia e i neri si ringalluzzirebbero tutti, Ehi, dovremmo avere un po' più di questo, di quello e di quell'altro. - Io e te, - dissi. - Allora non credi che il numero sia sgonfiato di almeno il quaranta per cento? - Noi non ci abbandoniamo a facili e volgari allucinazioni, Sims. - Facili e volgari. - Non è vero? Io e te. Noi due non crediamo che ciò che sta dietro a un fatto sia così organizzato e sinistro da rendere necessaria una scienza per studiarlo. - Tu non credi che i bianchi si sentirebbero depressi e, detesto dirlo, minacciati, dal numero vero? Non detestava affatto dirlo. - Sei convinto che l'ufficio del censimento nasconda dieci milioni di neri? - dissi. - Non nascondono la gente. Nascondono il numero. E' una cosa facile da nascondere. - Ma un numero così alto. Che incredibile manipolazione. E avviene sotto i nostri occhi. Forse è colpa delle madri, - dissi. - Dieci milioni di madri che dicono ai loro bambini di star giù. State giù, dissi. Un sorriso fugace da parte di Big Sims, un sorriso di riflesso privo del luccichio degli occhi. - Affronta il problema, - disse. - Qual è il problema? - Abbiamo il diritto di sapere quanti siamo. - Ma lo sapete. - Non lo sappiamo. Perché la verita è troppo pericolosa. Quale
minaccia costituisce per te il numero vero? Lo chiedo a te. Pensaci seriamente. - D'accordo, ci sto pensando. - Dimmelo in tutta sincerita, non credi che ci sia qualcosa di autentico in quello che dico? - Sì, un'autentica paranoia. E' l'unica cosa autentica che vedo. Sims aveva tutta l'aria di divertirsi. Si sistemò comodamente e stornò gli occhi, tristemente felice, chiedendosi come mai la natura degli scambi umani fosse tale da rendere la gente così tranquillamente prevedibile. Ascoltai il trombettista blues, un ragazzo con un vestito malandato, e mi colpì la sua negritudine, una nerezza africana, sapete, quel nero saturo di una certa fascia del continente, una striscia nomadica di gente dalla grazia estrema e slanciata del deserto, ma vidi nei gesti e nella postura, da come si asciugava la saliva dalle labbra con la lingua tra un attacco e l'altro, l'appartenenza alla cultura popolare locale - uno dei tanti trombettisti inquieti di un ghetto urbano. - Charlie Parker in completo bianco, in un locale di New York, dissi. - Vediamo un po', quante volte ti ho sentito nominare New York questa sera? - E so che tipo di scarpe indossava. - Non mi interessa che tipo di scarpe indossava. - Erano un paio di Derby. - Non mi interessa che tipo di scarpe indossava. - Non erano Duilio. Erano Derby. - Non mi interessa come si chiamano. - Senti, perché non mi dai retta e te ne vai a casa? - gli dissi. Le chiedi scusa, metti una schiuma tonificante nella vasca, fai un bel bagno e vai a dormire. Dieci minuti dopo eravamo fuori dal locale e, mentre aspettavamo che ci riportassero la macchina, Sims mi appoggiò le mani sulle spalle e mi diede una testata. Non sapevo bene come prenderla. Sims fece un sorriso tirato e mi colpì di nuovo, sulla fronte, e io non riuscivo a capire se il suo era un gesto impulsivo alla fine di una lunga serata, quando si è inebetiti dall'alcol e arrochiti da chiacchiere e fumo, un gesto che sanciva la chiusura della serata, o se era qualcosa di più intenzionale. Scostai le sue braccia e gli restituii la testata, gli appoggiai le mani sulle spalle e lo colpii, e lui mi guardò con interesse e tornò a colpirmi. Faceva male naturalmente, provocava una pulsazione dolorosa, era un gesto breve, un colpo, una botta, un trauma che si ripercuoteva sulla nuca, scendendo come una scossa elettrica sul collo e sulle spalle. Ed era a distanza ravvicinata, occhi negli occhi, una zona di combattimento che non lasciava spazio di manovra e impediva una tattica più raffinata, il campo visivo invaso da una certa dose di rancore esplicitato, uno sguardo torvo e minaccioso, con le palpebre semiabbassate, una specie di occhiata assassina sonnacchiosa, ottusa e pesante. Ero più alto di Sims ma non altrettanto solido e voluminoso, per di più non avevo mai usato la testa come uno strumento da assedio medievale.
Gli diedi una testata appena sopra il naso, che gli fece male, me ne accorsi, fece partire un messaggio che gli risuonò nel cranio. Sims reagì a tono. Mi colpì così forte che per poco non caddi all'indietro, sfuggendo alla sua presa, e in quella comparve il ragazzo con la macchina e si fermò a guardare. Era un dolore elettrico e compatto, che riduceva tutto al suo particolare tipo di intontimento, che faceva sembrare il mondo oltre la mia testa piccolo e annebbiato. Era proprio questo che stavamo facendo, ci stavamo scornando, escludendo tutto eccetto le testate, gli sguardi torvi e il dolore. Quando Sims mi diede un'altra testata mi ritrassi di qualche centimetro nel tentativo di attutire il colpo, e lui sporse il mento e mi fulminò con lo sguardo. Il dolore, in fondo, è un tipo di informazione come un altro. Ci scornammo ancora una volta, una volta per ciascuno, e il ragazzo rimase a guardare con le chiavi della macchina in mano. Nella mia camera d'albergo mi sporsi verso lo specchio sopra il lavabo. Appoggiai entrambe le mani alla parete, mi sporsi verso lo specchio e vidi escoriazioni e lividi, scoloramenti estesi, e un baffo di sangue rappreso circondato da un alone violaceo. Mi lavai le ferite con acqua fredda, poi andai a letto. Ma appena posai la testa sul cuscino mi venne un capogiro e dovetti stare seduto in poltrona per un'ora prima che mi passasse. Non riuscivo a smettere di pensarci, così cercai di entrarci dentro fino in fondo, alla scossa, le nostre facce come sdoppiate sopra i cubetti di ghiaccio nei bicchieri, sfocate, e poi di nuovo nitide non per analizzare i miei sentimenti ma solo per capire le scintille nascoste che fanno scattare l'esperienza, i piccoli tuffi e gli scarti improvvisi che creano uno stato d'animo. Correvamo lungo avallamenti pieni di smog oltre case abbarbicate sopra gole spoglie e attraversavamo zone boscose che sembravano pronte a prendere fuoco, un'asciutta immobilita polverosa, un senso di alta combustibilita, ma forse no - forse era solo il mio film. - Cosa ne sai del cadavere nel liquame? - Non troveranno nessun cadavere. Il cadavere è solo uno dei tanti ricami su questa storia, - disse Sims.- La cosa più importante è la nave stessa. - Cioè? - Una nave che è stata in alto mare per due anni, cambiando nome ed equipaggio, e anche questa è solo una storia. La nave ha fatto un viaggio recente, dalla East Coast alla West Coast. Portando in California liquame da trasformare in concime. Una semplice spedizione di routine. Correvamo lungo strade urbane, viali alberati con un'aura di perduto splendore, viali al tramonto incantevoli nel loro aperto rimpianto. - Senti, Sims, adesso te lo dico. - Corriamo, - fece lui. - Non so. Vedi, io sono un po', e non dovrei dirlo, lo so bene, a uno come te. - Vuoi bene ai tuoi figli, giusto? - Certo, è naturale. - Allora corri, - disse.
- Insomma, certe volte, nonostante il bene che gli voglio, a tutti loro, penso a quanto io sia prossimo, a volte, a sentirmi un impostore. Perché non mi ci ritrovo, cazzo, non è mai stata una cosa che mi corrisponde. Eravamo in cucina, stravolti da miglia e miglia di colline e asfalto bollente, restii a muoverci per paura di sgocciolare sudore, due uomini in short, e Greta ci diede un bicchiere d'acqua, una donna con le mani lunghe, i capelli scuri e una magrezza celata, una seconda Greta smilza e angolosa, in radiografia, che probabilmente si manifestava nei litigi o in stato di stress. - Ti piace questo posto? - chiesi. - Mi sembra di essere in capo al mondo. Siamo qui da quattro anni e ancora adesso quando mi sveglio la mattina devo ricordarmi dove sono. Così lontano da tutto. - Siamo addossati a un oceano enorme, - disse Sims. E il figlio, quello di cinque anni, sedeva a tavola con la sua scodella di cereali e il cucchiaio troppo grande, Loyal Branson Biggs, un bambino di una bellezza così squisita, baciato da una leggiadria così inattesa ed espressiva che non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso, continuavo a guardarlo mentre parlavo con i genitori, e questi lo guardavano a loro volta, perché il mio sguardo li invitava a rinnovare il senso di meraviglia per il proprio figlio. - Cosa ti è successo alla faccia? - mi chiese Greta. Guardai Loyal lavorare di cucchiaio nel latte grumoso. - Be', questa è davvero una bella domanda. - E qual è la risposta? - disse lei. - Be', ho avuto una piccola zuffa sull'ascensore. In albergo. Si vede molto? Non sapevo che si vedessero ancora i segni. Due ubriachi. Un bianco e un nero. Sims se la stava spassando nelle Reebok bollenti. - E' stato Nick a cominciare, - le disse. - Davvero? Lo disse a me, ma guardando il bambino che mangiava la sua colazione. Eravamo tutti incantati da Loyal. - Gli hanno detto che stava diventando un po' grigio, e lui ha dato in escandescenze, - disse Sims. Greta doveva accompagnare il bambino a scuola e poi andare alla sua, di scuola, dove insegnava chimica tre volte la settimana, con l'oceano alle spalle. Io e Sims restammo al nostro posto, a bere acqua. - Siete ancora arrabbiati? - gli chiesi. - Lei è ancora arrabbiata. A me è passata. - Ho un aereo da prendere, - gli dissi. Sims si fece la doccia, si vestì e mi portò in albergo, dove feci a mia volta una doccia in fretta e furia, mi vestii, agguantai la valigia e tornai in macchina, e sulla superstrada c'era un uomo, sul terrapieno, c'era un uomo che tentennava il capo scandendo il ritmo di una musica da viaggio, seduto sull'erba con un oggetto di traverso sulle ginocchia. Sims disse che era un fucile e io dissi che era una gruccia, una di quelle stampelle di metallo con un prolungamento per l'avambraccio, e mi ci vollero un paio di secondi per capire che Sims stava scherzando - era solo una battuta da superstrada. Trovavo la California del Sud fin troppo interessante. Gli aerei sperimentali, i sistemi di errore, l'inferno di macchine e smog, le
donne venute dal nulla, persino le bande giovanili che incominciavano a prendere piede, all'epoca, e adottavano i colori delle universita. Feci altri viaggi d'affari ma, dopo il primo, molto brevi, viaggi lampo. Il posto comunicava quella sensazione di limite estremo che si insinua nel commento più insignificante e diventa l'avanguardia di un senso di estraniazione. Quando avevo sparato a George Manza avevo cominciato a capire la natura di questa sensazione. Mi avevano caricato su una macchina di pattuglia insieme a un poliziotto che fumava e alla fine mi avevano spedito in un istituto nel nord dello stato di New York, un posto dotato di una delle tante stravaganze del sistema penale. In questo caso, di un minigolf, con nove buche, torrette e mulini a vento da fumetto - eravamo delinquenti minorili, capite, e forse gli psicologi pensavano che ci sarebbero state di qualche consolazione, quelle forme da giardino d'infanzia, i colori vivaci o il giochetto anale di palle e buche. Non lo so. Non lo sapevo allora e non lo so adesso. Comunque, io e i miei compagni, i colpevoli di reati D e di reati E, gli spaccateste, i ladruncoli della notte, il gruppo più eterogeneo che si possa immaginare, di razze, di religioni, di grida nel buio be', noi sfilavamo lentamente davanti alle finestre della mensa e guardavamo il minigolf la fuori con i suoi percorsi circolari, le sue gallerie e i suoi laghetti, le sue zolle d'erba sgargiante, e lo chiamavamo California. Phoenix andava meglio, per me, tutto sommato. Avevo bisogno di una vita privata. Ma come si fa ad avere una vita privata in un posto in cui tutti i sentimenti sono allo scoperto, dove la tensione che hai nel cuore, quella cosa che sei riuscito a relegare in piccole stanze chiuse, è esposta alla luce lattiginosa ed è così vasta e radicata che non si riesce a distinguerla dal paesaggio e dal cielo? Appena entrai dalla porta, Marian disse, - Cosa ti è successo alla faccia? Entro dalla porta ed ecco cosa sento, bambini che giocano, la radio a tutto volume, il notiziario, il traffico, il telefono che squilla, la lavatrice che pompa laboriosamente per completare il ciclo. Sorrisi e baciai Marian e lei sollevò il ricevitore. I bambini stavano facendo un gran baccano sul retro della casa, i nostri figli e quelli dei vicini, un gioco inventato da Lainie - lo capivo dalla qualita degli strilli. Lainie inventava giochi diabolici, fantasiosi e striduli spettacoli di tortura e umiliazione. - Cos'hai combinato ai capelli? - Li ho tagliati. Ti piace? - disse lei, ancora al telefono con qualcuno. - E tu cos'hai combinato alla faccia? Entro dalla porta e vedo la luce colpire le pareti fredde esaltando i colori dei tappeti, l'albicocca e il rosso chiaro, l'incredibile topazio dorato. Quella sera raccontai a Marian quello che avevo fatto, o la sera dopo, le dissi della storia con Donna a Mojave Springs. Bisognava che glielo dicessi, pensavo. Glielo dovevo. Glielo dissi per il nostro bene, per il bene del nostro matrimonio. Era a letto a leggere, quando glielo dissi. Mi ero tormentato pensando al momento giusto per dirglielo, e poi glielo dissi all'improvviso, senza alcuna preparazione. Non le dissi cosa avevo raccontato a Donna o perché Donna fosse in quell'albergo, e lei non me lo chiese. Ero accanto alla poltrona, con la camicia in mano, e mi parve che la prendesse
bene. Capì che era un fatto isolato con una sconosciuta in un albergo, un breve episodio, concluso per sempre. Le dissi che avevo bisogno di parlarne. Le dissi che parlarne era difficile ma non quanto nasconderle la verita, e lei annuì quando lo dissi. Mi parve che la prendesse piuttosto bene. Non mi chiese niente di più di quanto le dissi. Nell'aria aleggiava un'atmosfera di tatto, di rispetto per i sentimenti. Rimasi accanto alla poltrona, aspettando che lei girasse la pagina per potermi svestire e andare a letto. E il primo sabato libero, il primo sabato che non passai in ufficio, andammo a sud con i bambini a vedere un'antica rovina. Avevamo lozioni solari, cappelli e acqua da bere, un'idea di Marian, l'acqua intendo, perché la zona era desertica e il caldo intenso. Lainie stava in piedi dietro il sedile anteriore, a volte si puntellava sui gomiti tra Marian e me, sporgendosi verso il parabrezza, pronta a farci notare le manovre stupide di altri automobilisti. Reagiva con indignazione alle manovre scorrette, abitudine questa che placava la mia ira, e anche quella di Marian, e ci costringeva a giustificare le mosse stupide e pericolose che ci faceva notare. Jeff aveva due anni di meno, sei, ne aveva, e gli piaceva rannicchiarsi in un angolo del sedile posteriore, raggomitolarsi e scivolare verso il fondo della macchina in un distacco astrale da tutto ciò che lo circondava, usando il corpo per sognare a occhi aperti. Anche se non era un fucile, cosa stava facendo quell'uomo sulla superstrada, seduto sul bordo erboso con una stampella di metallo sulle ginocchia a pochi metri da quel traffico demenziale? L'antica rovina aveva più di seicento anni, un'unica struttura con resti minori sparsi qua e la e una vaga traccia di mura. Nel caldo della tarda mattinata ci fermammo per qualche minuto ad ascoltare la guida del parco prima di allontanarci alla spicciolata, anche se, essenzialmente, non c'era nient'altro da vedere. Lessi la scritta su una placca e poi osservai Jeff che faceva la posta a uno scoiattolo. Non portava il berretto, ma non dissi niente, mi limitai a pensare, cazzi tuoi piccolo, non dire che non ti avevamo avvertito. Poi mi intenerii e lo chiamai per dargli le chiavi della macchina. Lo sforzo per addolcirmi, lo sforzo per mollare e cedere, per amarlo nella sua incurante e pigra goffaggine, be', fu una cosa terribilmente difficile, per quanto piccola, per quanto piccola e fugace possa sembrare - fu sorprendentemente difficile. Ma alla fine lo chiamai e gli diedi le chiavi della macchina, sapevo che gli sarebbe piaciuta l'idea, e gli dissi di prendere il berretto, chiudere a chiave la macchina e riportarmi le chiavi, e lui partì a razzo, felice come una pasqua. Tornai verso la struttura principale e mi fermai tra una dozzina di turisti ad ascoltare la guida, una donna ben piantata che si grattava il gomito. Nessuno conosceva la destinazione di quella struttura, ci disse la guida, alta tre piani, con una traccia di graffiti all'ultimo. Scoprii che provavo più interesse per il telo protettivo che per l'antica struttura. La guida disse che la costruzione era stata abbandonata un centinaio d'anni dopo l'edificazione, la costruzione e l'intero insediamento erano stati abbandonati senza un motivo comprensibile, era uno dei tanti misteri di un intero popolo scomparso. Ma io mi ritrovai a studiare il telo protettivo con le sue
grandi colonne smussate, alte almeno sei metri, e l'intelaiatura a traliccio che sosteneva il tetto. Lainie mi raggiunse e si fermò accanto a me, mi crollò addosso, si appoggiò alla mia anca in una posizione che lasciava trapelare la sua noia irreversibile. La guida elencò alcuni dei motivi per cui quel popolo poteva essere scomparso, gli abitanti del deserto. Parlò di alluvioni, parlò di siccita, parlò di invasioni, ma erano solo supposizioni, disse nessuno conosceva per certo i veri motivi. Pensai a Jesse Detwiler, l'archeologo della spazzatura, e mi chiesi se avrebbe suggerito che la gente aveva abbandonato l'insediamento perché allontanata a forza dalla spazzatura, perché priva di spazio per vivere e respirare, circondata dalle montagne crescenti dei suoi stessi rifiuti, e in un certo senso era bello pensare che fosse vero, uno di quei romantici misteri del deserto la cui risposta è proprio sotto il nostro naso. Stavo diventando come Sims, un po' troppo in fretta, vedevo rifiuti dappertutto, o li usavo come chiave di lettura di una situazione. Dissi a Lainie di andare a cercare il fratello e vedere se aveva finito con le chiavi della macchina. Poi partimmo verso casa come un gruppetto di pellegrini stravolti che non erano riusciti a vedere piangere la statua. Eravamo in macchina da dieci minuti quando Marian incominciò a piangere. Era al volante, con il viso illuminato dal sole, e si mise a piangere silenziosamente. Lainie abbandonò la sua postazione in piedi alle nostre spalle e si sedette accanto al finestrino, con le mani intrecciate in grembo. Jeff si interessò al paesaggio. - Vuoi che guidi io? - dissi. E lei fece segno di no con la testa. - Fammi guidare, - dissi. - Lascia che guidi io. E lei fece segno di no, preferiva guidare, era quello che voleva. Eravamo su una strada secondaria fiancheggiata da cactus giganti e fiori di campo, cactus nodosi, beccati dagli uccelli che vi nidificavano, poi raggiungemmo l'Interstate e ci inserimmo nella fiumana di traffico. Nessun cognome, nessuna eco di ripensamento. Questo è il patto del sesso casuale. Ma io le avevo detto il mio cognome e questo non era stato casuale, vero? E' questa la stranezza dell'insieme, l'elemento predominante, il fatto che io volessi arrivare a lei, arrestare il suo respiro, lasciarla senza fiato, sì. C'era qualcosa in Donna che mi scioglieva la lingua. E poi il senso di colpa, con Marian al mio fianco, che dormiva nel buio. Quando non ci piacevamo, di solito dopo una serata fuori, mentre tornavamo a casa in macchina, stufi marci della solita faccia dell'altro, della sua voce, fin nell'intonazione, fin nella minima sfumatura di un gesto perché lo si è visto migliaia di volte e dice troppo, pur con tutta la sua parsimonia, anzi, per essere precisi, dice tutto quello che c'è di sbagliato - insomma, quando ci capitava questo, a me e a Marian, pensavamo che fosse perché avevamo esaurito il nostro significato, la forza che manda avanti l'alleanza. Le serate fuori erano una provocazione. Ma in realta non avevamo esaurito niente - c'erano cose non fatte, non dette e lasciate in sospeso, di cui Marian si sentiva deprivata. Marian nella sua citta delle Big Ten, cresciuta al sicuro, protetta
dal brulichio della vita di strada e proprio per questo con la sensazione di essere defraudata - privilegiata e defraudata, una classica storia americana. Tutte le scene alle quali si sottraeva quando guardava la tv, la narrazione del crimine locale, che mostra il cadavere per strada, il lamento dei parenti, l'indiziato piegato in due per nascondersi - Marian non riusciva nemmeno a guardare la mano del detective sulla testa dell'indiziato, che lo costringeva a piegarsi per salire sulla macchina priva di contrassegni. Era tutto una violenza, un danno allo spirito. Ma voleva le mie storie, le mie cose, e più erano violente meglio era. Io ero egoista riguardo al passato, egoista e protettivo. Non sapevo come trasportare Marian in quegli anni. E penso che il silenzio sia la punizione che si accetta come giudizio dei propri crimini. Marian disse che era per via di sua madre. Disse che sua madre era morta proprio quel giorno, due anni prima, e io lo ripetei ai bambini, che si rilassarono un po'. Mi girai verso Lainie e mi feci dare una gomma da masticare. Esattamente due anni prima, e naturalmente Marian lo sapeva e noi no, io non lo sapevo, me l'ero dimenticato, ma mi sentii sollevato, e anche i bambini, perché se non altro c'era una ragione, se non altro non era una di quelle situazioni in cui i genitori si comportano in modo strano e i bambini imparano a diventare impassibili. Marian era luminosa, brillava nel suo pianto, e sorrise, credo - un sorriso che era una smorfia ma anche un sorriso autentico, con dentro sua madre. Dopo un po' i bambini si misero a cantare. E io ero sollevato, ero maledettamente contento perché avevo pensato che fosse colpa mia, o che forse le succedeva di continuo perché come diavolo facevo io a sapere cosa succedeva quando non ero a casa? E i bambini cantavano: - Novantanove birre contro il muro, novantanove birre, e se una cade, ne restan novantotto contro il muro. Marian mi guardò e guardò la strada mentre i bambini continuavano a cantare, facendo la conta alla rovescia, fino all'ultima birra, e Marian guidava - piangeva e guidava.
Manx Martin 2 Il custode gli viene incontro zoppicando. Non ha ancora fatto cinque passi che il custode gia gli viene incontro zoppicando da un edificio in fondo all'isolato, con quella sua falcata laterale che spazza meta del marciapiede. - E' un po' che ti sto cercando, - dice lo zoppo. Manx Martin se ne sta a braccia conserte, senza neanche prendersi il disturbo di piegare la testa - è un po' presto per gesti di tipo superiore. - Hai visto quelle pale? - Quali pale? - dice Manx. - Perché mancano dalla cantina. - Manca sempre qualcosa. Ho appena comprato un paio di calzini nuovi e sono andati persi nel bucato.
- Due pale da neve, dalla stanza degli attrezzi. Questa mattina erano appoggiate al muro. - Sta per nevicare? - dice Manx. E alza gli occhi al cielo. Ti sembra che tiri a nevicare? A me pare di no. Cosa dicono le previsioni? - A mezzogiorno erano gia sparite, uscite dalla porta. E sto chiedendo a tutti in giro. - Dovresti stare attento a chi lo chiedi. Perché a qualcuno potrebbe dar fastidio. - Lo chiedo a te perché ho sentito delle cose sul tuo conto. Il custode è in maniche di camicia con questo freddo. Manx sente l'odore del cambio di stagione, il morso dell'umidita e il vento tagliente, e questo qui va in giro in maniche di camicia, ed è gia in la con gli anni, il custode, con qualche spunzone di barba gia bianco. - Qualcuno me l'ha detto senza mezzi termini, - dice a Manx. Parla con il clepto. - E me lo dici in faccia. - Dico solo quello che ho sentito. - E da chi l'hai sentito? - E dico anche che quelle pale valgono un bel po' di soldi. Sono attrezzi che mi servono per fare il mio lavoro. Sono affilate, hai capito? Prova a spalare neve con una pala da carbone. Manx è sorpreso dall'atteggiamento del custode, lo spiazza. Sembra assolutamente deciso. Dovrebbe essere un problema del padrone di casa. Perché questo qui va in giro a fare l'investigatore? Invece di lasciare che il proprietario si frughi le tasche per rimpiazzare le pale. Quelle tasche così profonde che ha le ginocchia ammaccate da tutta la moneta sonante che c'è dentro. All'angolo un uomo sta predicando al vento. Manx è sorpreso anche dagli avambracci del custode. Ne ha di forza in quelle braccia, a furia di lottare con i bidoni della spazzatura, facendoli rotolare diagonalmente sul marciapiede. - Mi pare che non hai capito bene il tuo mestiere, - dice Manx. Perché quello che succede in questo isolato è che svaligiano gli appartamenti, non che si portano via un paio di pale. Ti entrano in casa da tutte le parti. - Ti dico solo quello che ho sentito in giro. - E io ti dico come dovresti occupare il tempo. Facendo la guardia alle porte. - Se scopro che hai preso quelle pale, vado dritto dal padrone di casa e tu ti ritrovi in mezzo alla strada, fratello. Quante arie per uno storpio. - Perché lui mi da retta quando parlo. La maggior parte dei custodi da queste parti sono solo di passaggio, gente che lavora in un quartiere e poi in un altro, che va e che viene, con un piede gia da un'altra parte. Questo qui invece ha messo radici peggio della fanteria. - Senti, - dice il custode, - qui nessuno dei due ha tempo da perdere. Tu presentati alla mia porta con una pala nella destra e una nella sinistra, e io ascolterò quello che hai da dire. Manx tentenna il capo e stringe gli occhi affettando una certa concentrazione. Sta cercando di guardare l'uomo dall'alto in basso, di rimetterlo al suo posto. Ma il custode lo scansa e continua per la sua strada. Manx gli sta
addosso, ma quello lo scansa e continua per la sua strada, goffo e impedito, ogni passo una contorsione e una fatica, e Manx rimane spiazzato un'altra volta - proprio adesso che era pronto a fare una dichiarazione fondamentale. Si rimette in cammino, verso Amsterdam Avenue. Tre ragazzini gli schizzano accanto, veloci come le fiamme dell'inferno, e Manx vede Franzo Cooper in giacca e cravatta, fermo davanti al calzolaio. - Chi è morto? Sei vestito a festa, Franzo. E si gira mentre parla, per dare un'ultima occhiata al custode, non sa bene perché, forse per lanciargli il malocchio, chissa. - Hai visto mio fratello? - chiede Franzo. Porta un cappello con una piccola piuma nella fascetta e le scarpe sono tirate a lucido come nell'esercito. La scarpa al neon ha esaurito il fluido. - Sto andando da Tally. - Be', se lo vedi, digli che mi serve la sua macchina. - Chi è morto, Franzo? - Devo andare nel Jersey a trovare una signora. Sennò muoio. E tu cosa combini? - Niente di che. - Muoio d'amore, amico. Digli di venire qui con quel rottame. Ne varra la pena. C'è la scuola per estetiste, il calzolaio, le stanze ammobiliate e sopra la porta del calzolaio c'è uno stivaletto al neon, e il neon, nota Manx, è spento e freddo, il che lo deprime un po', gli affloscia l'umore. Il traffico si ferma e rotola via all'angolo, rotola via nella notte, e all'incrocio c'è un uomo che predica. Tre o quattro persone si fermano un minuto per farsi un'idea, lo ascoltano un altro minuto e continuano per la loro strada, e altri due o tre arrivano, ascoltano e se ne vanno, e le macchine passano, il semaforo cambia e le macchine continuano a passare. Il predicatore annuncia: - Dicono che solo gli insetti sopravviveranno. E' un vecchio dalla faccia patita, con le tempie venate, e le mani che sporgono di un bel pezzo dalle maniche. Le maniche della sua giacca sono talmente striminzite che non gli coprono i polsi. Lunghe dita piatte sottolineano le sue parole e ha i pantaloni pinzati con mollette da bicicletta. Tre ragazzini gli passano accanto di corsa, come se stessero scappando dalla scena. - E' questo che dicono, e io ci credo perché loro studiano l'argomento. Di tutte le creature che Dio ha messo in terra, solo gli insetti sopravviveranno alle radiazioni. Hanno scienziati che studiano lo scarafaggio in ogni istante della sua esistenza. Lo osservano quando dorme. Lui esce da una crepa nel muro, e c'è un uomo con una lente di ingrandimento appostato lì fin dall'alba. E io gli credo quando dicono che gli insetti ci saranno ancora dopo che la bomba atomica avra fatto crollare gli edifici e distrutto la gente e ucciso gli uccelli e gli animali e avra reso sterili cani e gatti in modo che non possano procreare. Io gli credo in tutto e per tutto. Ma ho anche una notizia per loro. Io lo sapevo gia da prima. Noi lo sapevamo, tutti noi qui presenti, perché li conosciamo bene certi posti. Abbiamo forse bisogno che ce lo dica qualcun altro che gli insetti sopravviveranno all'esplosione atomica? Non lo sappiamo fin
dal momento in cui veniamo al mondo? Ve lo dico io. Nessuno qui ha bisogno di prove scientifiche sul fatto che gli insetti saranno gli ultimi esseri viventi. Ci stanno gia andando vicino. Noi moriamo in continuazione mentre questi scarafaggi continuano ad arrampicarsi sui muri e a uscire dalle crepe. Manx si gira a guardare dall'altra parte. Vorrebbe dare un'ultima occhiata al custode per alimentare il suo rancore. La gente si ferma per farsi un'idea di quello che dice il predicatore, sei o sette persone ritte nel vento. Manx guarda il vecchio e i suoi pantaloni stretti dalle mollette e simili a quelli di un'uniforme inventata da un bambino che gioca ai soldatini. C'è un che di esile nel suo cranio, la faccia nuda e coperta di vene, sottile come carta. Un uomo ascolta con interesse, con un basco in testa, un berretto nero alla francese, e due donne con quei camicioni da suore, suor tal-dei-tali della chiesa dietro la facciata di un negozio, tanto piacere, con il fazzoletto in testa e le facce aggrottate. - Nessuno conosce il giorno o l'ora. Due uomini in completo elegante con le mogli ben vestite, gli uomini vogliono ascoltare, le signore dicono no grazie - l'argomento scarafaggi non è il massimo per loro. - I russi hanno fatto esplodere una bomba atomica all'altro capo del mondo. Siete sintonizzati sul giornale radio? Bene, ecco le notizie. Proprio all'altro capo del mondo. E voi ve ne state qui a dire che tanto per voi non significa niente. Vecchia storia, dite. Roba da generali e diplomatici. Ma proprio ora, in questo preciso istante, mentre io parlo e voi ascoltate, i funzionari del governo stanno progettando di costruire rifugi atomici in tutta la citta. Rifugi atomici capaci di contenere fino a venticinquemila persone sotto le strade di questa citta. E indovinate cosa non sentirete nel notiziario di oggi. Dovrete restare qui nel vento e farvelo raccontare da me. Ciascuna di quelle persone radunate in quei rifugi atomici mentre le bombe pioveranno giù dal cielo, sara bianca. Ve lo dico io. Perché a Harlem non stanno costruendo neanche mezzo rifugio. Sicuro. Stanno piazzando rifugi nell'Upper East Side. Stanno organizzando rifugi in fondo alla Sesta Avenue. Stanno disseminando di rifugi la Quarantaduesima strada, e stanno costruendo rifugi a Queens. Per non parlare di Wall Street. E quando le bombe atomiche pioveranno dal cielo, cosa si aspettano che facciamo noialtri? Che prendiamo un autobus per downtown? Manx si lascia sfuggire un sorriso. Una ragazza si è fermata all'angolo insieme al suo ragazzo e dice: - E' un agitatore, andiamo via. Manx non manca di apprezzare le argomentazioni del predicatore, ma ha la testa altrove. Il discorso è soddisfacente perché è come la moltiplicazione per un milione di volte dei piccoli imperativi quotidiani che lui si porta dietro ogni giorno, di tutti i fai questo e non fare quello delle sue giornate. La ragazza dice: - E' un agitatore, andiamo via. Ma è con i suoi imperativi che Manx deve vivere, non con le notizie internazionali del cinegiornale con quel galletto che gracchia nel cinema in fondo alla strada. Il vecchio sta ancora parlando, fermo all'angolo in tutta la sua statura, il corpo inclinato in una posa da fustigatore, la testa come un uovo dischiuso pieno di venature, e tre ragazzini passano come
saette, e una faccia così nuda che sembra di conoscerlo da tutta la vita, i pantaloni stretti dalle mollette, e i ragazzini passano come saette. - Dove hai lasciato la bicicletta, amico? Il ragazzo ha il berretto calato sugli occhi, non si è spostato di un millimetro, e la sua ragazza dice:- E' un agitatore, andiamo via. L'uomo fa roteare la testa per incrociare uno sguardo da qualche parte. - Ci dicono smettete di pagare l'affitto. Io non dico smettete di pagare l'affitto. Non dico fregatevene del gas e dell'elettricita, e della corrente elettrica e della luce. Ci dicono buttate a mare i padroni di casa. Io non dico buttate a mare i padroni di casa o metteteli al muro. Io dico prendete un biglietto da un dollaro dalla tasca dove è riposto ben piegato perché lo tenevate da conto per un motivo o per l'altro. Stendete questa banconota e giratela sul retro, dalla parte in cui tengono i loro messaggi segreti. Ci tengono le loro parole latine e i loro numeri romani. E l'uomo si toglie di tasca una banconota arrotolata e la srotola come in un gioco di prestigio, poi la fa sventolare mostrandola al gruppetto che ha di fronte. - Vedete l'occhio che aleggia sopra questa piramide? Be', cosa ci fanno le piramidi sui soldi americani? E questo numero qui, alla base della piramide, lo vedete? Ecco, è così che si trasmettono i loro codici massonici. Questo è framassone, parola d'ordine e stretta di mano. Questo è rosacroce, il raggio di luce. E questa roba, questi intrecci e scarabocchi su tutta la banconota, davanti e dietro, be', questa è roba che contiene un messaggio. E non si tratta di tiritere inutili. Predicono il giorno e l'ora. Si dicono quando verra il momento. La risposta non la troverete nella Bibbia o nella Costituzione. Ve lo dico io. Vi dico che la storia sta scritta sul più comune dei biglietti di carta che avete in tasca. E, tenendo la banconota per i bordi, allunga le braccia e la mostra per intero. - Sono quindici anni che studio questa banconota da un dollaro. Me la porto al gabinetto quando mi occupo della mia igiene. Ho studiato quei numeri e quelle lettere in tutte le combinazioni possibili e guardo il biglietto controluce e lo leggo sott'acqua e ogni giorno sono sempre più vicino a svelare il codice segreto. E con questo si porta il dollaro al petto e lo piega cinque volte prima di rimetterlo in tasca, più piccolo di un francobollo. - E' per questo che mi controllano con quell'occhio che aleggia sopra la cima della piramide. Non smettono mai di controllare e di seguire. Manx ha bisogno di un cicchetto. Si incammina veloce su per Amsterdam Avenue oltrepassando un negozio di tv e radio dove un televisore lampeggia e una decina di persone sta a guardare nel freddo. Un isolato più in la Manx vede alcuni uomini arrivare di corsa, uomini adulti, capite, che pestano il marciapiede, pestano le grate di ferro che portano alle cantine, facendo risuonare il metallo man mano che avanzano, e Manx vede che trattengono a stento le risate, sono imbarazzati, dovevano essere in fondo a un vicolo a fare una partita a dadi interrotta dalla polizia, e lo sorpassano facendo risuonare le grate, e si guardano alle spalle, corrono soffocando le risate e guardandosi alle spalle. Manx avrebbe quasi voglia di fare dietro front e mettersi a correre
con loro. Ne vede l'aspetto umoristico. Si ritroveranno in un androne tre isolati più in la, a ridere ansimando e a riprendere fiato, sentendosi stupidi e contenti, e troveranno un posto per il loro gioco d'azzardo, il retrobottega di un barbiere o il soggiorno di qualcuno se la moglie non c'è. Ma la moglie c'è. Perché io ho una moglie che non mi può vedere neanche a dieci miglia di distanza, e non mi lascia neanche respirare senza fare un commento, a parte tutti i commenti che fa nella sua testa, e lei è decisamente a casa. Un cane guarda fuori da una finestra del primo piano. Gia, neri che corrono per la strada. Manx si era ritrovato a correre nella sommossa del '43 e probabilmente aveva la stessa espressione dipinta in faccia, consapevole di essere coinvolto in qualcosa che non avrebbe dovuto fare ma che faceva comunque, passando di corsa davanti a Orkin's dove Ivie aveva comprato un cappotto della campionatura, un cappotto che era stato indossato da un manichino e veniva svenduto per poco, e la cosa gli rodeva parecchio, e adesso tutti i manichini di Orkin's erano sul marciapiede, busti rovesciati nella cunetta, teste senza corpo, colli sottili e capelli pallidi, e manichini senza braccia come statue famose. Adesso gli torna tutto in mente, le grandi vetrine saccheggiate e i manichini in giarrettiere, gambe di manichini con calze e giarrettiere e bambini in smoking, uomini che correvano per la strada e un bambino di una decina d'anni in cappello a cilindro e smoking rubato e un poliziotto che lo portava verso una macchina di pattuglia, roba da morir dal ridere, cilindro, code e pantaloni che strisciavano per terra - persino il piedipiatti aveva una perla di sorriso. Procede per altri cinque isolati con la testa girata controvento e il vento che soffia sferzante dall'Hudson e Manx cammina come un cavallo imbizzarrito. Ma che differenza appena si entra in un bar! Il brusio caldo, il respiro disteso, i quarti posteriori felici sugli sgabelli. Il brusio da Tally stasera è speciale, corpi più numerosi della solita fiacca di meta settimana e più elettricita nell'aria - e allora Manx si ricorda. C'è una tonalita, un fruscio rivelatore nella stanza e Manx si tasta il giubbotto e sente la palla da baseball e capisce che tutti stanno parlando della partita. Fa un cenno di saluto a Phil, che è dietro il bancone, il fratello di Tally, con una camicia tinta unita e un paio di bretelle ricercate, e gli chiede a gesti dove - e Phil gli indica con un cenno del capo l'angolo in fondo alla stanza dove c'è Antoine Cooper, seduto, con un bicchiere davanti e due alte pale dietro, appoggiate alla parete alle sue spalle. Manx si siede di fronte ad Antoine, si mette di traverso sulla sedia in modo da non dover guardare le pale. - Ho visto Franzo la fuori al buio. - Lo so. Vuole la mia macchina. Ma non gliela do. - Cosa stai bevendo? - Sta cercando di farsi una tipa che farebbe meglio a evitare. Fidati. Io me la sono gia fatta. Manx da un'occhiata in giro, assorbe il brusio, sente una mezza frase sopra una risata collettiva e decide di non far parola delle pale. E' stupefatto alla vista delle pale. Non dovrebbero essere lì, in nessuna maniera, modo, o forma. Ma decide che per il momento non ne fara parola.
- Cos'era quella sommossa nel quarantatré? Stavo cercando di ricordare com'era incominciata. Quella volta riempirono così tante celle in tanti di quei commissariati che dovettero aprire un arsenale. - Nel quarantatré. Ero sotto le armi, bello. - C'erano uomini sanguinanti che si portavano addosso il loro bottino sotto guardia armata. Li schiaffarono in un arsenale di Park Avenue. - Noi avevamo la nostra rivolta particolare. Manx va al banco e si fa dare un Seagram's da Phil - il whiskey di segale gli piace berlo in un bicchiere basso con un solo cubetto di ghiaccio. - Allora, che succede? - chiede Phil. - Ho sentito che c'è stata una partita oggi. - E che partita, per la malora. Manx si porta il bicchiere al tavolo reggendolo nel solito modo ma appoggiandolo sul palmo dell'altra mano, sostenendolo come un oggetto sacro in una chiesa. Il cubetto di ghiaccio serve solo per fare scena. - Come stanno i ragazzi? - chiede Antoine. - I ragazzi sono sparpagliati ai quattro venti, - dice Manx. Randall è da qualche parte al Sud, al bivacco, sai addestramento sul campo. E Vernon. - Lo so dov'è Vernon. - Vernon è in prima linea, ecco dov'è. Hanno di fronte duecentocinquantamila soldati al di la delle linee. Quei cinesi. - Con quale divisione è? - Quale divisione. - Il Secondo Fanteria è in Corea, - dice Antoine. - Non so con quale divisione è. - Non segui la guerra? - Cos'è quella roba che stai bevendo? - A me piace seguire la guerra. Loro hanno le loro strategie. - Sì, quelli danno fiato a trombe e fischietti, ecco la loro strategia, di quei cinesi. Ti piombano addosso come falchi. - Questo è brandy, amico mio. Roba da importazione stasera. - Sembra bello tosto a vederlo, - fa Manx. - Solo nel bicchiere. Va giù che è una meraviglia. - Ti piombano addosso come falchi. Ecco la loro strategia. - Basta dire una preghiera ogni tanto. Ecco cosa devi fare. - Certo, Antoine. Mi inginocchio accanto al letto. - Li hai tirati su bene i tuoi figli. - Certo, Antoine. Si prenderanno cura di me quando sarò vecchio. - Hai un lavoro? - Verranno a trovarmi all'ospizio. Mi passeranno una bottiglia da sopra la sbarra. - Te la sei cavata bene, tutto sommato. - Rosie è speciale. Lei sì che è una ragazza fantastica. E' l'unica che mi porti rispetto. - Hai bisogno di lavorare. Devi cambiare atteggiamento. Stai camminando sulle uova, da un po'. - Guarda che stanno licenziando, altro che assumere. - Devi entrare nel giro dei trasporti a lunga distanza. - Mi porteranno una torta per il mio compleanno. - La lunga distanza, ecco il biglietto vincente. Io ho un cugino
nell'Alabama, fa base a Birmingham e trasporta mobili e tutto il resto a lunga distanza. - Lo terrò a mente. - Patate dolci di Birmingham. - Lo metterò nella lista delle cose a cui pensare. - Le più belle verdure delle nostre pianure, - dice Antoine cantilenando. Manx decide che non ce la fa più a stare zitto. Ma non guarda Antoine. Guarda una lampada in fondo alla stanza, una di quelle aplique antiquate dai sostegni a forma di candela con la cera che cola sui lati. E dice: - Ma cazzo, le hai proprio messe in mostra, quelle pale. Antoine ha la faccia lunga e magra e il collo stretto, un uomo tutto imbrogli e sotterfugi, soprannominato il Serpente da giovane, e decide che è necessario girare il busto verso la parete alle sue spalle per identificare gli oggetti in questione. Ah gia, questi aggeggi, per spalare il patio dopo il bianco Natale. Poi torna a girarsi verso Manx, abbassandosi sulla seggiola in modo da lanciargli un'occhiata confidenziale sopra il bicchiere. - Non credo che l'Fbi abbia diffuso un comunicato. Tu cosa dici? - Io dico che dovrebbero stare sulla tua macchina, come avevamo stabilito. - Il punto è che devi alzare il tiro. Perché questi aggeggi non portano molto lontano. - L'avevamo stabilito prima, Antoine. - Non vale la pena di litigare. Tu hai ragione e io ho torto. Però devi alzare il tiro. Rimangono seduti a bere per un po' e Manx pensa di andarsene ma non si sposta dalla sedia. Pensa di prendere le sue pale e andarsene ma resta seduto perché una volta che si sara alzato e avra preso le pale dal muro gli tocchera attraversare tutta la stanza con due grosse pale da neve, ai primi di ottobre, senza avere un posto sensato in cui metterle, e gli basta pensarci, figurarsi la scena, per restare con il culo inchiodato alla sedia. Invece tira fuori la palla da baseball e la mette sul tavolo. Poi aspetta che Antoine sacrifichi un minuto della sua occupatissima giornata per guardare la palla. - Mio figlio l'ha portata a casa dalla partita, il più piccolo, sai, dice che è la palla del fuoricampo che ha fatto vincere la partita. - La partita che hanno giocato oggi? - Esatto, - dice Manx. - Ho visto gente che strillava per tutta la Settima Avenue. Gente che urlava dai finestrini, con la mano premuta sul clacson. Ho detto a Willie Mabrey. Sai una cosa Willie, gli ho detto, Mi sa che stanno aprendo i caveau. Le banche stanno spalancando le cassaforti. Chi tardi arriva, male alloggia. Andiamo a prenderci la nostra parte. - Il piccolo, sai. E' tornato a casa con la palla. Questa è la palla che quel come-si-chiama ha sbattuto nelle tribune. Quella che ha fatto vincere la partita. Il campionato. Manx si sente a disagio, staccato da quello che sta dicendo - gli esce di bocca come una bugia, una bugia che è nell'aria indipendentemente da ragione o torto, e ti da la sensazione di non essere responsabile. Sente che deve assolutamente togliere la palla dal tavolo e
rimettersela in tasca. - Allora, questa è la palla che quel come-si-chiama. Si può sapere cosa stai dicendo di preciso? - Sto dicendo che potrebbe valere qualcosa. - E io ti dico alza il tiro. Perché si da il caso che non puoi dimostrare niente. E poi a chi la vendi? - La vendo al club del baseball. La vorranno come trofeo. Li mettono in mostra, sai. - Lasciami dare un'occhiata. E' tutta macchiata. Manx si rende conto di non volere che Antoine tocchi la palla. Antoine guardera la palla e dira qualcosa di deprimente, qualcosa che irritera Manx, lo fara arrabbiare, e lui è gia abbastanza teso, con lo stomaco in subbuglio. Prende la palla e se la mette in tasca. Antoine si appoggia allo schienale, alzando le mani a palmi in su, sfoggiando il suo vecchio sorriso da serpente, freddo e cattivo. - Ti dirò una cosa. Forse riuscirai anche a vendere la palla da qualche parte, ma certo non ti ci comprerai un divano da Ludwig Bauman, - dice. - O un bel tinello. Manx va al banco a bere in pace. Dopo un po' Phil si avvicina e si mettono a chiacchierare. Il locale è più tranquillo adesso, restano solo i bevitori accaniti, e parlano della partita. Phil è un ragazzo a posto, grande come una casa, e guarda la gente dritta negli occhi. Parla della partita e Manx ascolta attentamente, sperando in un appiglio, un suggerimento. I Dodgers sono finiti per quest'anno. Morti e sepolti. I Giants giocheranno nella World Series a partire da domani - anzi, a partire da oggi, dice Phil controllando l'orologio, perché ormai è mezzanotte passata. - Contro chi giocano nella Series? - Contro gli Yankees, e contro chi se no? - New York contro New York in altre parole. - Gia. E la gente sta gia facendo la coda per i biglietti. L'ho sentito alla radio. Faranno la coda per tutta la notte. Con i sacchi a pelo, sai. Vorrei andarci anch'io. - Per tutta la notte? - dice Manx. - La gente è disposta a fare qualsiasi cosa per vedere la World Series, visto poi come ci sono entrati i Giants. Questa è musica per le orecchie di Manx. La gente è disposta a qualsiasi cosa. Manx dice a Phil di bersene uno alla sua salute, sapendo che declinera l'invito, e si sente un po' serpente, ha preso da Antoine in questo. Torna al tavolo con un'andatura strascicata. - Stai lasciando tuo fratello fuori al freddo. - Lo so, - fa Antoine. - Vuole la macchina per una sera, tutto qui. - Gli sto facendo un favore. Perché quella signora che sta cercando di farsi è falsa e bugiarda. - Lascia che lo scopra da solo. E' giovane e vuole divertirsi un po'. - Tu non sei un uomo geloso, capisci. Io invece sono proprio geloso. E quando dico geloso, intendo nel senso pieno della parola. Geloso di tutti, - dice Antoine. - La parola non vuol dire un cazzo se non la prendi nel suo significato pieno. Ha bisogno di un aggettivo. Tipo geloso pazzo, o geloso perso. Così quando dico che sono geloso, devi immaginare occhi iniettati di sangue.
- Hai gia chiuso con lei. Cosa te ne importa? E' un bravo ragazzo, Franzo. Lascia che impari. - Lascia che lo scopra, vuoi dire. Perché non imparera un bel niente. - Ma Antoine sembra addolcirsi. Si abbassa verso il ripiano del tavolo, a gomiti in fuori, il mento che sfiora il bicchiere di brandy. - Sì, mi piace un sacco quel ragazzo. E' un bravo ragazzo, Franzo. Ma in questo momento la mia macchina è in una posizione strana. - Perché, l'hai legata a un palo? - Conosci Willie Mabrey? - Non credo, - dice Manx. - Io e Willie abbiamo parlato della mia macchina, di un modo facile per far soldi. Non che io sia in bolletta, ma un po' di entrate veloci possono farmi comodo -. Sorseggiando il brandy. - E questo è il mio primo anticipo. Questa roba va giù che è una meraviglia. La crème de la crème. - Anticipo per cosa? - Willie ha aperto un ristorante più o meno sei settimane fa. Gli sta andando bene, ma ha un problema con la spazzatura. Il comune parla di imprese private che dovrebbero ritirare questa immondizia, in futuro. Ma per ora ci pensa la municipalita e c'è un'ordinanza sull'ora del giorno o della notte in cui un ristorante può lasciare la spazzatura fuori in strada. Non si può lasciarla lì tutta la notte. - Puzza. - Puzza e attira gli insetti. E se la tieni dentro, dopo un po' trovi i topi che parlano con i clienti. - Così hai fatto un accordo con quel tizio. - Io e la mia macchina, tutti e due. - Il che mi ricorda, - fa Manx.- Ti spiacerebbe darmi un passaggio? - Ti porto dove vuoi, - dice Antoine. Vuotano i bicchieri e si alzano dandosi una mossa, scrollandosi di dosso l'atmosfera compiacente della locanda, si danno una svegliata per affrontare qualunque cosa li aspetti la fuori, la strada spigolosa infestata dal vento. Antoine si infila il giubbotto, inarca le spalle e chiude la cerniera fino al mento. Si da un'aggiustata alle palle per buona misura, allineandole per amore di comodita e di simmetria, piazzandole dritte al centro del mondo. Manx ha gia il giubbotto addosso, non se l'è mai tolto, ce l'ha addosso da quando è uscito di casa la mattina, ci ha bevuto dentro, ci ha mangiato, ci ha lavato i piatti, e adesso si tira la cerniera sulla gola e affonda nell'involucro, nel guscio, gia un po' leggero per la stagione. Uscendo fanno un cenno di saluto a Phil. Camminano fino in fondo all'isolato, dov'è parcheggiata la macchina. Manx va dalla parte del passeggero, mette una mano sulla maniglia e poi si ferma a guardare. - Sali, bello. Meno ci metti a salire meno ci mettiamo a partire. Dove vuoi andare? Manx sta guardando. Guarda dentro al finestrino e vede che il sedile posteriore è pieno di immondizia. Aveva sentito l'odore mentre scendeva per la strada, ma non era un odore insolito, e aveva pensato alla normale spazzatura in un vicolo o in un terreno abbandonato. Adesso capisce che è la macchina di Antoine che puzza, è la macchina di Antoine carica di montagne di spazzatura marcescente.
- Puah, ragazzi! Avevo capito male. Perché pensavo. - Sali, che si crepa di freddo stasera. C'è spazzatura dentro sacchetti di carta e scatole di cartone. Ci sono due bidoni dell'immondizia regolamentari incuneati tra i sedili anteriori e quelli posteriori, bidoni di metallo da strada con i coperchi bitorzoluti come scoppiati per la pressione. Manx vede altra spazzatura ammucchiata sulla mensola del lunotto posteriore. Vede immondizia anche davanti, in una cassetta di pesche piazzata sul sedile anteriore e la puzza che ne trasuda è così vicina che si potrebbe berla. - Pensavo che stessi andando a ritirare la spazzatura di quel tizio per portarla da qualche parte. - L'ho portata qui. Eccola. Ho riempito il bagagliaio mentre quelli stavano ancora cenando. Poi ho cominciato con l'interno della macchina, dai sedili posteriori a quelli anteriori. Sposta la cassetta e sali. Manx apre la portiera, mette la cassetta di pesche sul tappetino e si siede, cercando di trovare spazio per i piedi sui due lati della cassetta. - Dove vuoi andare? - chiede Antoine. - Non lontano. Ma in fretta. Su, dalle parti della Centocinquantacinquesima strada. Dove la porti questa roba? - La porto nel Bronx. C'è una montagna di spazzatura da qualche parte sotto il Whitestone Bridge. La butto fuori dalla portiera e schiaccio l'acceleratore. - Fammi il piacere di schiacciarlo adesso, - gli fa Manx. - Perché mi sento morire, a stare qui in conversari. - Calmati. Ti porto dove vuoi. Antoine mette in moto la macchina. Guida sicuro e imperturbabile, puntando su per Broadway come una freccia avvelenata. Manx capisce il motivo per cui le pale da neve non erano in macchina, dove aveva detto ad Antoine di metterle. Non c'era spazio per le pale, in macchina. Poi si rende conto che hanno lasciato le pale nel bar. Un posto come un altro. Solo che domani non ci saranno più. Per cui può metterci una croce sopra. L'ultima cosa di cui si rende conto è che Antoine gli ha detto per tutta la sera di alzare il tiro. Proprio lui che guida una Desoto piena di immondizia. - Lasciami pure la, un po' più avanti. - Ti porto esattamente dove vuoi. - Broadway va benissimo. La puzza lo sta ammazzando, lo sta strappando dallo stato di beato isolamento, effetto di una giornata di whiskey. L'immondizia viene sballottata da tutte le parti e sembra dotata di vita propria, una specie di minaccia vegetale in fermento che fa pressione per uscire dai bidoni e dalle scatole, è rumorosa e irrequieta, ma forse sono solo gli insetti che si agitano, in preda al mal d'auto. - Qui va bene, - dice Manx. - Qui all'angolo. - Non vuoi dirmi dove devi andare? - Ti dirò dove devi andare tu se vuoi portare questa spazzatura al Whitestone Bridge. Attraversi il fiume e arrivi sulla Centosessantunesima, che è a doppio senso, mi pare, e poi vai giù fino al Bruckner Boulevard, senza problemi.
Antoine lo guarda. Manx è gia sceso dalla macchina ed è fermo sul marciapiede, e Antoine lo guarda, imperturbabile, seduto dietro il volante. Una lunga, pigra occhiata da serpente. - Oppure potrei scaricarla in strada. - E' quello che pensavo anch'io. - Mentre la citta dorme, - fa Antoine. - E gli sbirri mangiano la loro zuppa di molluschi. Manx guarda la macchina allontanarsi. L'atmosfera delle strade vuote dopo mezzanotte e il vento che soffia dallo Hudson mentre lui cammina. L'aria fredda alle sue spalle. Il vento tagliente che sparpaglia la spazzatura per la strada. Potrebbe essere Antoine che sta scaricando prima del previsto. Gli piacerebbe vedere un Alka-Seltzer, ecco cosa gli piacerebbe vedere adesso come adesso, un Alka-Seltzer che affonda sfrigolando in un bicchiere d'acqua fredda. Scende giù per la lunga rampa con il campo di baseball alla sua sinistra, il Polo Grounds, e si guarda intorno alla ricerca di gente in coda o accalcata sul marciapiede con cibo e coperte, i tiramattina, gli uomini e i ragazzi che smaniano per i biglietti, i ragazzini che vengono pagati dai bagarini per star fuori al freddo a comprare i biglietti che i tifosi disperati si contenderanno il giorno dopo, pagando prezzi mai visti. Il posto è assolutamente deserto. E Manx sente un'acidita stantia, quel senso di nervosismo di quando si beve troppo a stomaco vuoto, sebbene sappia di aver mangiato, ricorda il piatto lasciatogli da Ivie, sente il sapore della carne e delle verdure, ma c'è come un crampo che sembra prosciugarlo dentro. Adesso è nell'Ottava Avenue a battere il perimetro del campo da baseball, alla ricerca di un segno di vita. Il posto è silenzioso come un sasso. Cosa ci fa una piramide su una banconota americana? Questa è una domanda che è giusto porsi. L'unica cosa in vista è un cane di quelli pronti a squagliarsela, un cane che ha preso tanti di quei calci da scambiarli per coccole. Non riesce a capire com'è possibile che Phil si sia sbagliato. Phil è un ragazzo a posto. Se Phil dice che i tifosi faranno la coda tutta la notte per comprare i biglietti e quando vai a dare un'occhiata il posto è assolutamente deserto, c'è da chiedersi se la testa non ti stia giocando qualche scherzo. Il suo è un lavoraccio precario. Lo chiamano e lui lavora, non lo chiamano e lui non lavora. Ora vede una macchina ferma al semaforo e si avvicina, strascicando i piedi come fa sempre quando le cose diventano insostenibili. Un uomo siede al volante. Vede arrivare Manx e tira su il finestrino, un bianco con un'espressione tipo non sono pronto a morire. Manx fa un gesto con la mano. La agita come a dire no no no - voglio solo fare una domanda. E l'uomo schiaccia il pedale e parte, pazienza se il semaforo è ancora rosso, sgommando via come un disperato. Il rumore si spegne nell'immobilita della notte e tutto torna al silenzio di prima. Il vecchio campo da baseball si erge sopra la strada e produce un enorme silenzio, diverso da quello della strada e del fiume. I bambini nuotano ancora nell'Harlem River in estate, nella parte più a nord della citta, dove esce dall'Hudson, e anche i suoi ragazzi si tuffavano da un molo, a braccia tese - per un attimo li vede a mezz'aria.
Gli si stringe il cuore e i santissimi. Si sente un po' vuoto. E' depresso e scocciato e francamente disgustato dall'umanita e vorrebbe sdraiarsi e dormire. Si sente preso in giro. Vorrebbe in qualche modo, a scapito di qualcuno, fare un po' di soldi. C'è una probabilita su dieci milioni che il club del baseball lo lasci anche solo entrare dalla porta. Deve trovare dei tifosi pronta cassa. E si era incamminato verso la macchina solo per chiedere dov'erano, i tifosi. E la faccia al volante, tipo non farmi a pezzettini, per piacere. Guarda sull'altro lato della Centocinquantacinquesima strada, a sud delle case popolari, e sotto l'insegna del Potere della Preghiera vede una donna, intenta ad adescare i clienti. Sente un rumore al di la del fiume. Che senso hanno tutti quei codici segreti su una banconota statunitense se non quello di scollegarti da quelli che conoscono i fatti? Sente un rumore. E' gia pronto a dirigersi verso casa, non c'è altro posto dove andare a meno che non trovi un bar, e sa che deve scendere nella metropolitana e aspettare il treno in una stazione vuota, un'altra seccatura, starsene sul lungo marciapiede ad aspettare, magari per mezz'ora, quando sente un rumore al di la del fiume, lontano ma distinto, per come le voci viaggiano precise sull'acqua di notte. Si ferma ad ascoltare vicino all'imboccatura del ponte. Uomini che cantano, il rumore di una gran moltitudine di voci, alcune al seguito di altre, sfrenate e ineguali, e lui la conosce quella canzone. Stanno cantando, Riding on a pony. Stanno cantando, Stuck a feather on his cap. Stanno cantando, Called it macaroni. E sente scoppi di risa che attraversano il fiume e finalmente incomincia a capire. Il barista non si era sbagliato. Phil non aveva mai detto che la gente avrebbe fatto la coda al Polo Grounds. Non l'aveva neanche nominato, il campo da baseball. Era Manx che si era sbagliato. Perché stanno facendo la coda allo Yankee Stadium, dall'altra parte del fiume. La partita è Giants contro Yankees allo Yankee Stadium, e le voci viaggiano così precise che è come se qualcuno gli bisbigliasse all'orecchio. Sente un gruppo di tifosi intonare Say Hey Willie e naturalmente sono per i Giants ed è Willie Mays quello di cui cantano le lodi. E sente il canto di risposta dei tifosi degli Yankees, quella vecchia canzone per Joe Dimaggio, di prima della guerra, gli pare, quella che trasmettevano tutte le radio del Paese, we want you on our side, ed è una gran baraonda bonaria che gli cambia l'umore, e Manx da una pacca col palmo della mano alla palla, la dove l'ha ficcata, nella tasca del giubbotto, la perfetta rotondita e durezza di un oggetto sostanziale. Attraversa il ponte girevole e prima li sente, poi incomincia a vederli. Stanno attraversando il parco pubblico verso lo stadio, camminano sull'erba e sui vialetti, e scendono dalla sopraelevata, lunghe file di uomini e ragazzi che scendono lungo le curve dell'alta scalinata, ridendo e cantando. Vede le bandiere sventolare sul tetto dello stadio e i festoni della World Series appesi in alto sul muro esterno. Vede i falò sull'asfalto, stanno accendendo il fuoco dentro bidoni da
duecentocinquanta litri, ed è stupefatto dalla massa di gente che è uscita a comprare i biglietti a quest'ora di notte. Se ne sta lì a bocca aperta, con gli occhi sgranati. Si mette al passo con la folla, lasciandosi trascinare, sentendosi francamente felice di essere tra loro, e la folla è carica di cibo e di sedie, sedie da spiaggia pieghevoli e leggere da portare, e hanno sacchi a pelo in spalla, una dozzina di studenti del college con i capelli tagliati cortissimi, e si passano i thermos che fumano quando si svita il tappo, caffè forte per tenerli svegli e riscaldarli. Vede padri e figli che si scaldano intorno ai fuochi, un numero incredibile di persone se si riuscisse a contarle, e poliziotti a cavallo con gli animali che soffiano vapore dalle narici, e Manx prova un'euforia insolita, un gran desiderio di essere tra loro, e viene trascinato dalla fiumana con la bocca semiaperta perché è una cosa straordinaria da vedere, e tutti cantano tonanti canzoni guerresche, vanno avanti e indietro per la strada con spirito battagliero, tutti questi tifosi che marciano verso le code per i biglietti, alle due o alle tre del mattino, o qualunque ora sia. Manx porta un orologio che si è fermato sei settimane fa. E' una circostanza cui dedichera un po' di attenzione quando la sua vita sara tornata alla normalita. Parte quarta: Cocksucker Blues. Estate 1974 Capitolo primo Era l'estate dei tetti, per l'aperitivo o per la cena, un giardino pensile incuneato tra i comignoli con un tavolo di ferro battuto dalle gambe ricurve picchiettate di macchioline d'ossidazione, e forse sono rose antiche francesi quelle che si arrampicano sul comignolo, color guancia di vergine, lo chiamano, o una lunga terrazza col pavimento d'ardesia e alberi di betulla dentro vasche di rame e le risate di una dozzina di persone che risuonano esili e preziose nella notte, aleggiando sopra la zuppa fredda verso lucernari, cupole e cisterne d'acqua, o un pranzo improvvisato, un vecchio amico, sedie a sdraio e takeaway cinese, e che odore burroso hanno le nuvole di drago sotto il sole. Questa fu l'estate di Klara Sax all'altezza dei tetti. Scoprì una citta segreta sopra la griglia di strade febbrili. Semaforo verde, semaforo rosso. Dieci milioni di teste che sobbalzano al di sopra della fiumana dei taxi, tutte con onde cerebrali diverse, e, sì, la strada abbonda di piccole manie, di diversi atteggiamenti umani, ma bisogna situarsi all'altezza dei tetti per scorgere il dettaglio, preservato in muratura e ottone. Klara guardava il cielo affollato di ventilatori e antenne e all'improvviso ecco uno svolazzo, un tocco inesplicabile che si distingue da tutto il resto. Angeli con ali di farfalla incassati sotto un cornicione in Bleecker Street. O il mistero di un cottage di compensato bianco sul tetto di una torre di uffici. O le strane teste deco, stile isola di Pasqua, abbarbicate agli angoli di un grattacielo del centro. Klara trovava incoraggianti queste cose, dozzine di opere anonime appese in aria, con i cavi del ponte in lontananza e il cielo scosso da tuoni occasionali, i falsi temporali dell'estate. Adesso aveva cinquantaquattro anni, lascia che il numero ti
rimbombi in testa - cinquantaquattro e non stava lavorando a nessun progetto in particolare, ed era umanamente invisibile e in attesa di tornare a lavorare, a creare, modellare, modificare e costruire. Il World Trade Center era in costruzione, le torri gemelle gia svettanti, con le gru inclinate sulla sommita e i montacarichi che salivano lungo i fianchi. Klara lo vedeva dovunque andasse, praticamente. Mangiava, beveva un bicchiere di vino poi andava verso la balaustra o il bordo piatto e di solito la costruzione era lì, cospicua sull'estremita affusolata dell'isola, e un uomo le si avvicinò una sera, presto, a un cocktail sul tetto del palazzo di una galleria - un uomo sui sessanta, pensò Klara, corpulento e mascelluto ma con una sua eleganza, sicuro di sé, riservato e distinto, un solido esemplare di europeo. - Io lo vedo come una cosa sola, non due, - disse Klara. - Anche se chiaramente le torri sono due. E' una singola entita, non è vero? - E' una cosa terribilissima, ma non si può fare a meno di guardarla, credo. - Sì, non si può farne a meno. E per un po' rimasero a corto di idee, appoggiati alla balaustra a incamerare insieme la vista funesta, con un certo imbarazzo, pensò Klara, perché i giudizi estetici sembrano superficiali se condivisi con un estraneo, e alla fine percepì un elemento di irrequietezza e confusione nell'atteggiamento di lui, inteso a sottolineare la volonta di cambiare argomento, impaziente e determinata, e poi lui disse, lo sguardo ancora puntato sulle torri, anzi, sussurrò: - Mi piace il suo lavoro, sa. - Sì? - Mi è molto congeniale. Certe sere era così umido che non si riusciva a chiudere la porta. Bisognava chiuderla con una spallata. I ponti si dilatavano, i marciapiedi si riempivano di crepe, c'era immondizia per strada e bisognava, per così dire, parlare alla porta, prima che si degnasse di chiudersi. A Klara piacevano le serate elettriche, con l'aria carica di statica e di lampi a ondate morbide, a grandi palpiti informi, di cui si può quasi leggere lo schema ritmico, lento e protoplasmatico, magari con un tendone del Cinzano assicurato a un tavolo su una terrazza più alta - e non si riesce a identificare quel rumore di spari finché non si localizza il tendone a strisce, con i bordi che schioccano nel vento. Klara era felice in modo guardingo, badava a tenerlo per sé. Aveva la sensazione di essere fortunata, decisamente stimata per il lavoro recente, di nuovo in buona salute dopo un periodo di mal di schiena e insonnia, mentalmente lucida dopo una breve depressione, attenta a risparmiare dopo aver scialacquato, disposta a uscire, a vedere gli amici e ad affacciarsi ai parapetti, silenziosamente felice, in forma come non lo era da anni - così almeno dicevano tutti. Era l'epoca delle dimissioni di Nixon ma lei non ne gioiva come i suoi amici. Nixon le ricordava suo padre, un altro uomo dalla mente logora, costretto a studiare e rivedere persino il proprio modo di camminare, il proprio modo di fare, amaro e distante a volte, con la postura ingobbita del perdente, tutto testa e mani. Klara si affacciava ai parapetti e si chiedeva chi avesse lavorato
la pietra, modellato quei dettagli dal tocco così soave, modanature e rosoni, urne su balaustrate, i classici festoni di frutta, i tasselli a serpentina che sostenevano i balconi, e pensava che dovevano essere opera degli immigrati, intagliatori italiani probabilmente, dimenticati, artisti anonimi di inizio secolo, sepolti in cielo. Non era abituata a essere riconosciuta. La riconoscevano, in alcune circostanze, ma solo di rado, e allora aveva l'impressione che le stessero prendendo le misure del corpo in una piccola stanza tappezzata di specchi. Tendenzialmente non veniva notata, se non dagli amici. Per lo più era invisibile, umanamente invisibile per la gente nel supermercato in fondo alla strada, e non solo per i giovani che sorpassavano frettolosi una forma vaga negli stretti passaggi tra i banchi, l'indistinta materia della mezza eta, ma per la gente in generale - d'accordo, gli uomini in generale - che al massimo le riconosceva uno status generico. Non era un problema. Klara non si sentiva sola o poco amata. Be', era poco amata nel senso più profondo della parola, ma le stava bene così, di amore ne aveva avuto abbastanza, e del tipo più intenso, fonte di dolore e di interminabili ripercussioni, i matrimoni rancorosi che rendono difficile conquistarsi una solitudine sicura. Era solo una stranezza, e una forma fortificante di autocoscienza, imparare a non essere vista. Miles Lightman le girò parecchio intorno quell'estate. C'era qualcosa in Miles che le faceva pensare che mangiasse dentro piatti sporchi ma pian piano si abituò a lui, cominciò a trovarlo molto piacevole - era esagitato e irriflessivo, essenzialmente ingenuo, sordo agli intrighi della presunzione che rovinano tanti amori in boccio. Klara portava lunghe gonne arricciate, gonne di tela jeans con balze floreali. Era sul tetto di una fabbrica, un posto messo a disposizione per la raccolta di fondi di un piccolo gruppo teatrale, e una cinquantina di persone bevevano vino tiepido dentro bicchieri di plastica e dicevano, Abbiamo bisogno del teatro. Era sul bordo della terrazza a parlare con una donna che non conosceva e a un certo punto capì che l'edificio che le stava di fronte, circa dieci isolati più a nord, una torre vecchiotta con una massiccia sezione centrale e la sommita decorata a mosaico, era il Fred F. French Building. E cercava di ascoltare la donna ma non riusciva a concentrarsi perché il nome le aveva acceso una lampadina nel cervello, uno di quei lampi intensi che ci mettono quarant'anni a verificarsi. Fred F. French. Doveva raccontare la storia a Miles perché era buffa e strampalata e voleva riviverla tutta, esporla e ricamarci sopra, soffermandosi sui dettagli. Rochelle l'assatanata e il ragazzo arrapato sul sedile posteriore, e c'era anche lei, naturalmente, Klara Sachs senza la x, e voleva raccontargli come camminava e come parlava, com'erano le cose e com'era lei, allora, un modo di essere che aveva disimparato. Dagli alti finestroni del suo loft vedeva scale antincendio ripide e angolose, questa era la vista principale, scure strutture di metallo che si intersecavano sopra i vicoli, e si chiedeva se quelle linee potessero dirle qualcosa.
Forse i loft erano pericolosi, pensava, ma non per gli incendi spaziosi, sostenuti da colonne, carichi di passato e grandiosi. Doveva stare all'erta contro le furtive invasioni dell'ego. Doveva chiedersi, faresti questo pezzo con maggiore verita se lavorassi in un'angusta soffitta da qualche parte? Cercava di adattare il suo lavoro alle proporzioni della figura umana sebbene non fosse un lavoro figurativo. Diffidava di ego e di eroi, di altezze e dimensioni grandiose. Quello era il materiale dell'eloquenza da tetti. Da ammirare ma non da emulare. Sua figlia era in citta, così fecero un giro nel quartiere del ferro battuto, pranzarono nel Village, fecero qualche spesa e fu difficile. Era sempre difficile con Teresa, aveva un'aria ostinatamente trascurata e ordinaria - era sovrappeso e volutamente brutta e sembrava dire papa mi vuol bene esattamente come sono ma mia madre no, mia madre pensa che potrei essere migliore e più brillante, che potrei conoscere gente migliore e più brillante. Klara udì quel rumore di spari e guardò in su e vide il tendone del Cinzano e capì che le frange schioccavano nella brezza che veniva dal fiume. Teresa aveva venticinque anni, ma sembrava senza eta e senza forma, e per Klara la parte più difficile della visita fu stare sedute nel loft a parlare, o ad aspettare che i silenzi finissero, o a scoprire che sua figlia metteva lo zucchero nel tè e lei non aveva zucchero in casa. - Dovresti andare a trovare papa, - disse Teresa. E lo disse come una provocazione, una forma di censura che non aveva niente a che vedere con una corsa in metropolitana nel Bronx. - Non è una buona idea. Te l'assicuro. - Non riesco a credere che abitiate nella stessa citta e mai una volta. - Francamente potrei anche abitare nella stessa strada. Il problema non è dove abitiamo, sai? Non c'è niente da guadagnarci, e lui lo sa bene quanto me. Trascura di dire che lo sa bene anche Teresa. - Perché bisogna sempre guadagnarci qualcosa? Perché dev'esserci sempre di mezzo il guadagno? - Dopo tanti anni, Teresa. Che senso ha? Ed ecco un altro silenzio scandito da tazze da tè che tintinnano e dai camion alle piattaforme di carico sulla strada, quei camion con le fiancate di metallo ammaccate e senza il nome della ditta. - Non hai nemmeno un dolcificante? Klara guardò le scale antincendio fuori dalla finestra, il retro di edifici grigi, un'accozzaglia di ferro smussato, di ruggine e mattoni sbreccati. - Come sta? - chiese Klara. - Come? Sta bene. Non vuole trasferirsi in un caseggiato nuovo. Sta diventando ridicolo, quell'edificio in cui è adesso. Ovunque andassero, c'era spazzatura ammucchiata dentro sacchi neri. Era il settimo giorno di uno sciopero che aveva comportato alcuni incidenti violenti e un trasportatore privato ridotto quasi in fin di vita. Teresa non disse niente delle montagne di spazzatura, cinquanta sacchi in alcuni punti, perché lei viveva in Vermont e cosa poteva dire? Ma usò la spazzatura contro sua madre. L'immondizia era l'ennesima forma di accusa, la cosa si trasmise telepaticamente tra
loro, un centinaio di sacchi all'angolo e un odore così saturo d'estate che avvolgeva tutto il corpo, avanzando come una perturbazione meteorologica. Nel loft Teresa disse: - Ascolta l'opera tutto il giorno. Per tutta l'estate, finché ricomincia la scuola. Vuole che zia Laura vada ad abitare da lui. Sta diventando, non so, non proprio senile, ma un po' instabile, Laura, ma credo che preferisca vivere sola. Klara sentiva l'accento strascicato di sua figlia, le vecchie vocali storpiate, e com'era strano udire quei suoni del quartiere così da vicino, e dalla propria figlia, che sembrava esagerare a bella posta la cattiva pronuncia, la caratteristica indolente dell'accento, un tipo di inflessione e di pronuncia cui suo padre e sua madre erano scampati - è proprio la parola giusta, scampati come se la ragazza avesse bisogno di andare ancora più indietro, di superare un'ulteriore linea di demarcazione, di scendere al livello più basso della vita delle strade, come a dichiarare il valore della costanza e della fede. Erano anni che Klara sottraeva colore al suo lavoro. Per un po' aveva usato bitume e pittura murale. Le piaceva miscelare i colori dentro le conchiglie di molluschi che aveva portato dal Maine una dozzina di anni prima. Ma adesso c'era meno colore da miscelare. Sentiva che era giusto sottrarlo al suo lavoro. Si incamminò verso il supermercato passando davanti all'ennesima galleria nuova, adesso c'erano troppe gallerie e negozi, ma le facciate di ferro battuto erano al sicuro dagli scassinatori, quella era la cosa più importante - le vecchie fabbriche dove gli immigrati facevano bottoni e vestiti, donne e bambine che lavoravano diciotto ore al giorno, e comprò una scatola di zucchero al supermercato per non dimenticarsene prima che passassero dieci mesi e Teresa tornasse a farsi viva. L'arte in cui il momento è eroico, l'arte americana, quella del fallo-adesso, e in-culo-il-passato - be', lei non poteva seguirla. Poteva guardarla e rispettarla, invidiarla persino, in certo qual modo, ma non metter mano a un oggetto e creare un furioso presente, una brillante eiaculazione che è un gesto di indipendenza. Disse al telefono a un'amica, la sua amica e gallerista Esther Winship, che era sempre pronta a dar consigli a un pittore o a uno scultore, a costringere un artista fiacco a una solida strategia, a un piano d'azione preciso, mentre di fatto era Esther, ad aver bisogno d'aiuto, Esther con il suo guardaroba da donna di potere, le sue perle e i suoi tailleur gessati, che stava perdendo pittori e veniva spremuta dal padrone di casa nei quartieri alti e si autocommiserava, Klara disse a Esther al telefono:- Senti, ricomincio a lavorare, se mi inviti in campagna. - Lascia perdere la campagna. Voglio che tu mi porti nel Bronx. - Cosa c'è nel Bronx? - Un ragazzino che fa graffiti. Fa treni, metropolitane, treni interi, fa ogni singola carrozza di un treno della metropolitana. Voglio fargli un contratto e una mostra. Ma prima devo trovarlo. - Come fai a fare una mostra con quel tipo di lavoro? - Gli darò un muro, - disse Esther. Klara dovette ammettere che la cosa le piaceva. Forse era il primo stadio dell'affermazione gli darò un edificio, gli darò un intero isolato della citta. Era questo che Esther voleva dire. Si vive più a
lungo, si dorme meglio se si riescono a dire cose del genere. Gli darò un treno con cento carrozze. - Perché ti serve aiuto per trovarlo? - Non so come si chiama. So solo come si firma. Moonman 157. - Non mi giunge nuovo, - disse Klara. - L'hai visto. Tutti l'hanno visto. Quel ragazzo è un fottuto maestro. Klara amava le cisterne dell'acqua che vedeva dai tetti, appollaiate ovunque, di vecchio legno marrone con coperchi simili ai cappelli dei portatori cinesi. Spesso costruivano le cisterne sul posto, come si fa con le botti, doghe scanalate tenute insieme da cerchi di metallo, e naturalmente con le torri gemelle in lontananza, un esempio di mastodontici prodotti di massa, unita che rotolano identiche sulla catena di montaggio e finiscono al supermercato con sopra il prezzo del giorno. Miles era più giovane di Klara di otto o nove anni forse, e sembrava ancora più giovane, così privo di responsabilita e di impegni reali da dare sempre a Klara un'impressione di gradevolezza e leggerezza, di chi arriva per caso, il tipo di persona che è quasi sempre in ritardo ma tutto sommato non importa. Di solito indossava jeans e stivaletti di lucertola, aveva un pessimo incarnato, un bellissimo naso aquilino, capelli pettinati all'indietro, e viveva in un locale e mezzo nell'Upper West Side, pieno di vecchie pellicole e oggetti della sua vita ancora chiusi dentro vecchi scatoloni - roba da niente, quel tipo di cose che ti porti dietro e conservi perché costituiscono un ingombro mentale rassicurante. Miles lavorava part-time per un distributore cinematografico e produceva anche documentari in proprio, o in coproduzione, o stava attaccato al telefono per ore, una serie di occupazioni sufficientemente chiare da apparire in tutta la loro rinnovabile futilita. Miles organizzava anche proiezioni speciali per i soci di una cineteca. E visionava tutto il materiale, collezionava manifesti e cartoline di film ed era in grado di elencare le opere dei più oscuri registi, perché naturalmente più il personaggio era oscuro, più la conoscenza era preziosa. Questo è sempre stato un punto d'onore nell'ambiente. Quell'estate in particolare, Miles stava cercando i fondi per finanziare un documentario su una donna che contraeva le malattie e i disturbi delle celebrita. In seguito a una strana forma di neuroipnosi, o quale che sia il termine esatto, questa donna, che viveva a Normal, Illinois - particolare che di per sé rendeva la storia irresistibile - manifestava i sintomi di qualunque malattia tormentasse al momento Elizabeth Taylor, o John Wayne, o Jackie Onassis, o qualunque altra star, dall'affaticamento da sindrome influenzale alle eruzioni cutanee da erpes simplex fino alla debilitazione fisica da cancro. Erano le stigmate della modernita. E i medici, sponsorizzati dai rotocalchi, stavano studiando il caso. Quanto a Miles, semmai fosse riuscito a portare a termine il documentario, l'avrebbe intitolato semplicemente Normal, Illinois. I capelli le scendevano liberamente ai lati del viso, più o meno spettinati, a ciocche scalate e visibilmente grigi alla scriminatura. Gli occhi erano distanti e lievemente sporgenti e le sopracciglia si
incurvavano assottigliandosi verso le tempie. Aveva un'espressione timida - no, non timida, ma riservata, e chi l'avesse vista da sola su una terrazza quell'estate ci avrebbe pensato due volte, prima di abbordarla con chiacchiere insulse. Era l'estate dei lampi a raffica e del vino rosso, quei Bordeaux intensi che sembrano sangue di leone, e Klara andava su tetti e terrazze e si chiedeva com'era possibile che tutte quelle cose esistessero da tanto tempo senza che lei ne fosse a conoscenza. Le piaceva la scultura del biplano su un tetto di downtown, un vecchio aereo postale forse, a grandezza naturale, con luci e pista d'atterraggio. E la piramide a scaloni in cima a un edificio di Wall Street, e la guglia d'acciaio ritorto del Chrysler Building, e la facciata meridionale dell'Hotel Pierre, simile a una scansione dei tetti di Parigi, ma prolungata molte volte, sapientemente proiettata verso il cielo. Klara si rese conto di quanto fosse raro vedere le cose sotto il proprio naso, di quanto fosse nuova questa percezione fondamentale, nella vita frenetica della citta - guardare uno spazio circoscritto senza essere distratti da cartelli, semafori, taxi e impalcature, dalla propria mente schizzata e dall'energia che crea la gente nella fretta, la folla dell'ora di pranzo, gli autobus e i motorini dei pony express, tutte quelle presenze che intasano le gole di Manhattan al punto che diventa impossibile vedere dall'altra parte della strada le mattonelle turchesi di una facciata di terra cotta, una bestia alata scolpita sopra l'architrave. Klara intratteneva un dialogo con il proprio corpo, ricordando a se stessa dove voleva andare prima di alzarsi da una seggiola, forse in cucina a prendere un cucchiaio, ed esattamente come arrivarci. Aveva bisogno di collocare il proprio corpo in una situazione precisa, di dire a se stessa dov'era, talvolta girandosi a guardare, per assicurarsi di non essere ancora seduta sulla seggiola. Aveva una bocca grande, troppo carnosa e piena di grinze e anche lievemente storta, destinata a parlare di traverso, e la sua voce era ricca di intonazioni interessanti, di cali, di vuoti e strascichi rauchi. Io e la mia amica Rochelle, che mi ha insegnato a fumare. Era in un giardino pensile altissimo con alberi da frutto ed edera canadese, a bere con un gruppo ristretto di persone, e tutti guardavano una donna che faceva jogging su una pista in cima a una torre di uffici. Li rallegrava la vista di quella ginnasta in tuta fosforescente, delle torrette medievali in lontananza, e ancora più in la delle ciminiere e poi del fiume simile a un nastro di seta, appena oltre Brooklyn. Klara aveva il collo sottile e portava una catenina con un amuleto nordafricano, un portafortuna che le aveva regalato il suo secondo marito, Jason, quando avevano divorziato. Miles aveva un bel mazzo di carte italiane e le insegnò un gioco chiamato scopa (*). Giocavano la sera tardi, dopo la cena fuori, e facevano l'ultima partita a letto sotto gli alti finestroni del loft con i gradini delle scale antincendio che scendevano nei vicoli intersecandosi in un'intricata prospettiva. Miles le chiese a cosa servissero le pile di listoni da pavimento nell'angolo in fondo alla stanza. Listoni, tela da imballaggio, rotoli di corda.
Uno dei suoi ex studenti raccoglieva materiali per lei. Klara aveva insegnato scultura per qualche anno, e uno dei suoi ragazzi faceva incursioni in edifici abbandonati, piccoli cantieri navali, vetrerie, perlustrava i quartieri periferici, setacciava garage e sale da bowling, e una volta era tornato con una dozzina di vecchi cuscini di un albergo in demolizione, ridotti a un colore grigiastro dal passaggio di tante teste - oggetti tristi e inquietanti da tenere per casa. - Non ti da fastidio lavorare nello stesso posto in cui vivi? - Per me lavorare e vivere sono una cosa sola, - disse lei. - Ma non devi prendere le distanze? Tutta questa roba qui dentro. Non puoi sfuggire al tuo lavoro. E' dappertutto, ed è lavoro, e ti tocca averlo sotto gli occhi di continuo. - E me lo dici proprio tu. Uno che vive. - Lo so, ma io non ci lavoro la dentro. Tutt'al più parlo al telefono. E' il massimo che faccio per quello che riguarda il lavoro. Abbiamo in programma un filmato che ti piacera. La settimana prossima. Ti farò sapere. - Bene. Si va al cinema. Klara amava nuotare, andava allo Ymca quasi ogni giorno e avanzava invisibile nell'acqua a grandi bracciate, consegnandosi al ritmo lenitivo delle vasche, monotono e corroborante, come le recite a memoria della scuola elementare - rafforzano il senso di identita. - La cosa bella dell'estate è che ti da la sensazione di avere la citta tutta per te. - Mi piacerebbe passare qualche giorno a Sagaponack. Ma Esther vuole che le faccia visitare il Bronx, prima di invitarmi. A un certo punto Klara si rese conto che il gioco che faceva con Miles, il gioco di carte che facevano con il costoso mazzo di delicati cavalli e regine, figure di un certo sinistro minimalismo si rese conto gradualmente che la scopa era lo stesso gioco che facevano i ragazzi sui gradini della casa in cui abitava quando era sposata con Albert, studenti di Albert, alcuni, i ragazzi di Bronzini, giocavano con un mazzo ordinario di carte piene di orecchie, naturalmente, e lo chiamavano sweep. - Cosa c'è di speciale nel Bronx? - C'è un ragazzino che Esther vuole trovare. Un artista di graffiti. - Uno scrittore di graffiti. - Sì, bene, è dappertutto, questa scrittura. - Quando lo trovi, fammelo sapere, - disse Miles. - Perché? - E' un po' che penso a un film in cui seguiamo un ragazzo giorno e notte nei colorifici, nei depositi di treni, sui treni. - Sembra un film che hanno gia fatto, anche se non è così. - Non l'hanno fatto, - disse lui. - E Normal, Illinois? - Stiamo andando avanti, stiamo facendo di tutto per avere una sovvenzione statale. Ma lei è malata adesso. - E' naturale che sia malata. Non fa altro che ammalarsi, o sbaglio? - No, questa volta è malata sul serio. Indipendentemente da influenze esterne, - disse lui. Ma le vasche erano più efficaci quando Klara era occupata con un progetto. Non le piaceva altrettanto nuotare quando era inattiva. Le
vasche erano legate al lavoro rigoroso, erano l'intervallo che completa l'ottava. Quando Esther dava dei consigli e Klara li seguiva, avrebbe dovuto intervenire un elemento di condiscendenza reciproca. Perché Esther di solito era troppo autoritaria e Klara un po' sbrigativa e disinvolta. Ma in realta aveva bisogno di sentire quello che Esther aveva da dire, qualunque cosa fosse. Esther diceva un sacco di cose inutili, ma lei aveva bisogno di sapere che la fuori c'era qualcuno che preparava uno spazio, che le dedicava del tempo, pronunciava il suo nome e citava elogi da chissa quale fonte oscura. Non sempre le era d'aiuto. Quando veniva lodata, l'elogio le sembrava fiacco e approssimativo, imbastito alla bell'e meglio, e quando veniva criticata dalla stampa, o riceveva commenti negativi per vie traverse, doveva lottare contro la sensazione che avessero ragione gli altri, che il suo lavoro fosse debole, superficiale e insignificante. - Questo è un mondo di lupi, è il cane-mangia-cane di Darwin, amava dire Esther, lo diceva incessantemente, godeva nel dirlo perché sapeva di spaventare le persone come Klara. A Klara piacevano le assi ammonticchiate nell'angolo. Legno marrone striato, un marrone scuro-fradicio, come le torri a doghe sui tetti, le cisterne piene d'acqua, per lo più esposte agli elementi ma talvolta racchiuse in strutture chiesastiche con archi a sesto acuto e grandi aquile per decorazione. La gente non diceva più Oh wow, diceva No way, non c'è verso, e Klara si chiedeva se non ci fosse qualcosa da imparare da questo. Guardò la sua amica Acey Greene alla tv, una nuova amica, giovane e piena di talento, intervistata la sera tardi su una stazione via cavo locale. Era splendida - come sei bella, pensò Klara. Capelli afro senza esagerazione, giacca da smoking e cravattino rosso a farfalla. Miles la chiamò e si incontrarono in un vecchio loft che era stato un laboratorio per la confezione di vele. Il gruppo della cineteca di cui Miles faceva parte programmava film per lo più impossibili da distribuire nei cinema per una ragione o per l'altra, e le proiezioni erano piuttosto fluttuanti - ovunque Miles riuscisse a procurarsi uno spazio. C'erano cinquanta o sessanta persone, venute per vedere un filmato di Robert Frank, Cocksucker Blues, sulla tournée dei Rolling Stones in America. Klara sedeva al buio e scucchiaiava yogurt da un cartone. Si rese conto che da un po' vedeva la bocca di Mick Jagger dovunque andasse. Forse era il logo del mondo occidentale, lo sberleffo e il broncio che ti segue per strada - le piaceva vederlo ballare col suo passo diabolico, ma la bocca le sembrava un oggetto a sé, come un effetto aggiunto in seguito. Disse ad Acey, che le sedeva accanto: - Credo che tutto quello che ciascuno di noi ha mangiato negli ultimi dieci anni sia finito in quella bocca. Le piaceva la luce azzurro slavato del film, una luce di tipo crepuscolare, una luce da tunnel che evocava una realta inaffidabile - per niente inaffidabile invece, perché non si stenta a credere a quello che si vede, quindi forse una realta sovversiva, pericolosa e corruttrice, un bellissimo azzurro tunnel.
- Devi interpretare la bocca come una satira, - disse Miles. Sniffate di coca dietro le quinte o nei camerini e gente seduta in una stanza o addormentata su un aereo, quella sensazione di tempo-al-limite, frasi pronunciate a meta, una sigaretta che ciondola in bocca a qualcuno, gente non ancora pronta a muoversi, e a Klara piaceva il suono allusivo, il modo in cui il suono del documentario, quella specie di film fatto al volo, rimbalzava dalle pareti piastrellate, dai muri di calcestruzzo dei camerini e dei tunnel dello stadio. Qualcuno che dice, Spesso mi riprende dalla parte sbagliata. E Klara si rese conto che sì, quella bocca era completamente satirica, era caricaturale, una versione dell'ano parlante dei fumetti alternativi degli anni Sessanta, e tutte le nostre espressioni di scherno e sarcasmo, tutte le mezze frasi che avevamo borbottato erano uscite dallo stesso orifizio, più o meno. Acey disse: - Li ho visti a San Francisco, dev'essere la stessa tournée, per forza, era due anni fa. Lancio del televisore dell'albergo da un balcone. Interviste smozzicate e chiazzate, la più semplice delle domande accuratamente preparata persa, ponderata e persa un'altra volta, la tournée è una serie di frasi lasciate a meta, e un uomo e una donna che scopano in aereo, e una bocca che mastica cibo, la bocca stacca-e-incolla, Mick in concerto sotto luci stroboscopiche e flash, simile a una donna multibocca di de Kooning, che succhia il microfono. La falange delle telecamere nei tunnel. Gente seduta in cerchio, due persone che dormono accartocciate, o strafatte, o potrebbero essere morte anche se non platealmente, l'interminabile noia fracassona della tournée - tunnel e passerelle. Acey disse: - Sono andata al concerto e c'era una guardia del corpo, forse riesco a vederlo in una di queste inquadrature, un nero che indossa una T-shirt con una scritta tipo “Stones Security”, capisci, ma espressa in modo completamente diverso, anche se questa è l'idea. E a Klara piacevano la luce azzurro tunnel e le parti in cui non succedeva niente e tutti avevano una cinepresa e riprendevano quell'assenza di avvenimenti mentre il suono si perdeva nelle piastrelle del soffitto. Qualcuno dice, Odio quei rotti in culo. Quelle mezze calze. Dice, In quale stato siamo? Due tossici che farfugliano su un letto, un uomo e una donna con gli occhi egualmente strabuzzati sull'ago piantato nel braccio di lei. Dice, Come mai hai voluto riprendere questa scena? Dice, Non avevo intenzione di riprenderla. Oh nell'Indiana. E' successo, non so cosa dire. Mick in una stanza con la mascella ciondoloni. La bocca fa i gargarismi e sputa, lecca un cono gelato. E il pezzo di filmato è virato in rosso, corpi bioluminescenti, proprio quello che tutti amiamo del rock, pensò Klara, l'aureola di luce di una morte superiore. Excedrin in tv, decisamente più efficace dell'aspirina. - E quello mi segue, - disse Acey, - in quel lungo tunnel e mi fa, brown sugar, aspettami perché ho qui una cosa che devi assolutamente
vedere. Ehi, brown sugar. E io mi sono girata, come una povera scema, lo ammetto, e lui non l'aveva tirato fuori, ma ci teneva la mano sopra. Due uomini bianchi in una stanza e uno dei due pontifica con voce da nero, Bisogna mettere i fratelli in contatto con la loro eredita culturale. E il secondo bianco si pianta un ago nel braccio, e quello che parla come un nero dice, Tomba del Tossico Ignoto, Centotrentasettesima strada e Lenox Avenue, fatta da cima a fondo, dice, di siringhe usate. Qualcuno dice, Mi hanno tolto la bambina perché ero in acido. Dov'è la chiave della mia stanza? Tunnel, passerelle e luce azzurro slavato e poi il passaggio per il palcoscenico, il bianco bagliore chiassoso e il ruggito preistorico. Gli hai fatto un pompino? No. Ho fatto solo una foto con lui. Dice, Arriva lo stato e mi porta via la figlia. Donna nuda che si accarezza in un letto d'albergo, si sfrega la mano sulla passera poi la lecca. E Acey interrompe la sua storia per dire:- Mmmmm. L'intero monotono erotikon masturbatorio in volo. A Klara sembrò interessante che quella fosse l'unica donna che non sembrava una ragazzina. Era interessante, pensò, che tutte le donne del filmato fossero ragazze o lo diventassero. Uomini e donne facevano tutti le stesse cose, droga, sesso, fotografie, ma gli uomini restavano uomini e le donne diventavano ragazze, con l'eccezione, forse, della donna che si accarezzava la passera e si leccava le dita dicendo qualcosa di inafferrabile perché l'unica finalita del sonoro in un film del genere è di perdersi negli angoli della stanza. Non m'importa - è solo San Diego. Acey stava raccontando la sua storia e nel frattempo cercava il tizio del racconto la sullo schermo. - E io volevo dire qualcosa che lo sistemasse e gli facesse passare le idee che aveva per la testa. Ehi brown sugar. Ma eravamo soli in quel posto enorme e pieno di echi, col concerto in piena esplosione da qualche parte sopra di noi, e quello insisteva col suo brown sugar, brown sugar, brown sugar. - Ed era questo il concerto? - chiese Klara. - Non so se era la stessa sera, ma lo stesso concerto sì, la stessa citta, la stessa fottutissima band di emaciate teste di cazzo milionarie con quei negracci come guardaspalle. Era l'estate dei tetti e l'aria era piena di eroi, il cielo polveroso che bruciava di luce temporalesca. Dèi oblunghi abbarbicati in angoli angusti e una coppia di faraoni seduti ai lati di un condizionatore d'aria. E Klara amava le colonne a forma di sirena in fondo alla Quinta Avenue e tutte le stravaganze, le figure enigmatiche che non riusciva a situare in un mito particolare, soprattutto downtown, in cima alle banche più vecchie, sui parapetti e le rientranze - oracoli in tunica che sporgevano al di sopra delle strade o uomini con copricapi di aspetto poco rivelatore, legislatori o guerrieri, difficile dirlo. E fu su un tetto laggiù che una domenica, dalle strade morte e roventi, riapparve l'uomo, l'europeo con cui aveva gia parlato una volta, intento a fissare la silhouette incompleta del World Trade
Center. Salve, ci incontriamo di nuovo. E lui le disse che le figure che la lasciavano perplessa con quell'aria da personaggi di culto, le facce in ombra sotto i copricapi aerodinamici, si chiamavano i Titani della Finanza. E com'erano acconciamente austeri, quasi valutassero gli effetti della grande depressione nelle strade sottostanti - Klara immaginò che l'edificio fosse stato costruito più o meno in quel periodo. - Dal nome si direbbe una specie di confraternita segreta. - Forse, - disse lui. - Ma tutto il sistema bancario è segreto, credo. Klara non stentava a crederci, con quell'ammasso di granito e arenaria tutt'intorno, e le torri più moderne, completamente impenetrabili, di vetro riflettente e alluminio anodizzato, e ogni ufficio privo di qualsiasi traccia umana quel giorno, eccetto forse nei seminterrati dove la carta veniva microfilmata, un miliardo di assegni al secondo. Si chiamava Carlo Strasser. Abitava in Park Avenue e collezionava opere d'arte con la goffa passione del dilettante, disse - un appartamento in Park Avenue e una vecchia fattoria vicino ad Arles, dove si ritirava a pensare. E naturalmente Klara chiese: - A pensare a cosa? E lui disse: - Al denaro. Lei rise. - Talvolta mi chiedo cosa sia il denaro, - disse. - Sì, certo, esattamente. Questo è il problema. Le dirò cosa ne penso. Mi sembra che stia diventando molto esoterico. Tutto onde e codici. Una forma più alta di intelligenza. Viaggia alla velocita della luce. Era vestito molto bene, con grande eleganza, aveva personalita e classe e lei si sentì un po' trasandata, ma non per questo a disagio, con i jeans e i vecchi sandali. L'uomo la confermò nelle sue preferenze e lei si sentì meravigliosamente disinvolta, in realta, parlando con lui. Udirono le sirene antinebbia nella baia e tacquero per ascoltare, un suono che aveva un elemento di rispetto formale, rotolava e rimbalzava nelle strade strette, si scontrava con se stesso, un pezzo per organo che riempiva l'aria e faceva volar via i piccioni dalle torri con l'orologio. Lui le chiese di alcuni pittori e lei fece una cosa che non faceva quasi mai - si diffuse in commenti e interpretazioni, in analisi dettagliate, una cosa che aveva sempre cercato di evitare anche quando insegnava. Si sorprese a dare spiegazioni così appassionate e originali che si rese conto di averle negate anche a se stessa. - Una volta Louise mi disse, Louise Nevelson, che quando guardava una tela, o un pezzo di legno, lo vedeva bianco, puro e virginale, e per quanto lo lavorasse, per quante pennellate, colori e immagini aggiungesse, il fine ultimo era di restituirlo al suo stato virginale, ed era questa la cosa grandiosa e spaventevole. Klara non riusciva a collegare quest'affermazione al proprio lavoro, ma le piaceva comunque ripeterla tra sé - le piaceva l'idea che un'artista famosa fosse spaventata da quello che faceva. - Ho un piccolo Nevelson, - disse lui. - Un pezzo molto piccolo. L'ho comprato anni fa e adesso mi ha dato un motivo per guardarlo in modo diverso, e lo farò senz'altro, con molto piacere.
- Capitava che andassi nel suo studio, e lei mi mostrava una scultura nera, una scultura in legno dipinta di nero, e di fronte a un mio commento sul colore o sul materiale, guardava l'oggetto e diceva, “Ma non è nera, e non è di legno”. Lei pensa che la realta sia superficiale, debole e fugace, siamo molto diverse sotto questo aspetto. A un certo punto arrivò Miles e Carlo Strasser si eclissò, con eleganza, mescolandosi al capannello di otto o nove persone davanti a un tavolo imbandito di frutta, formaggi e vino, quei bordeaux sangue di leone, quelle susine violette e quelle notti nero-azzurre e come sembravano asciutti e falsi i tuoni. Nella cucina di qualcuno, affettando un limone, Klara capì che le sarebbe sfuggito il coltello e si sarebbe tagliata e così fu. Fu uno di quei microsecondi lunghi e lenti e carichi di informazione, e lei sapeva che sarebbe successo ma continuò ad affettare e poi successe, si tagliò il dito e guardò il sangue scorrere lungo la lama e scivolare in un rivolo ineguale sulla nocca. Guardò la gente che prendeva il sole, lo facevano in modo così completo, dominando l'esperienza, una donna scompostamente sdraiata su un cornicione con una coperta, una brocca di tè freddo, un bicchiere da bambino con adesivi di fiori e un tascabile di cui Klara cercò di scorgere il titolo - lo facevano senza concedere niente ai cornicioni di pietra o ai tetti aguzzi o alle opprimenti spianate di catrame, era lo spettacolo della propria presenza, dell'eccomi qui e c'è il carrello vuoto di un lavafinestre lungo la fiancata di una torre levigata. Klara vide una facciata di mattoni inondata di luce color corallo, praticamente incendiata dalla luce, e i mattoni possedevano quella nudita che solo la luce sa dare - argilla cotta di una bellezza più intensa di quanto avesse mai immaginato di vedere. E c'è di nuovo la vecchia signora seduta sulla sua poltroncina di tela con i giornali della domenica sparpagliati intorno, così familiare e incoraggiante - regge uno specchio sotto il mento e tiene il viso rivolto al sole in posa sacrificale, un piatto da portata per una faccia che diventera bruno-mummia nell'intensita di una giornata estiva. Guardò il sangue colare dal taglio e notò le rughe e i ghirigori sul proprio dito e udì la musica nella stanza accanto, è il marito di Esther, Jack, che ascolta uno dei suoi vecchi 45 giri, la musica swing che spinge i suoi ospiti fuori sul tetto. La spazzatura era la sotto, ammassata dentro identici sacchi di plastica neri e tornando a casa Klara passò accanto a una montagna che copriva un idrante antincendio e parte del cartello di un autobus e si accorse di come tutti insistessero nell'ignorarla di comune accordo. Miles Lightman arrivò tardi alla cena su un tetto di uptown, portando una stecca delle sigarette nere che fumava Klara, extra-lunghe, extra-mild e a basso contenuto di catrame, e un sacchetto di marijuana, che gli piaceva chiamare boo, un termine orecchiato in un bar di Harlem una trentina di anni prima. Erano sul tetto di un edificio nuovo, di quaranta piani, che si stagliava sopra il bacino idrico del parco, e rimasero per un po' a guardare la gente che correva nella notte. I corridori giravano intorno al laghetto in numero piuttosto consistente, debolmente illuminati dai lampioni, e
Miles pensò che assomigliavano alle folle in fuga nei film dell'orrore giapponesi. Aveva un debole per le folle in fuga. Voleva fare un libro di fotografie sull'argomento. Collezionava i fotogrammi pubblicitari di oscure produzioni - folle di asiatici in fuga che guardavano qualcosa di terribile in cielo. Rimasero sul tetto a guardare al di la del parco i profili degli edifici che avevano nomi di transatlantici. Beresford, Majestic ed El Dorado. L'Ansonia e il San Remo. Le folle in fuga comprendevano sempre una madre con un bambino in braccio, una donna dai seni prosperosi e un uomo con le braccia alzate a proteggersi da un ignoto terrore nel cielo. Miles guardò i corridori che giravano intorno al laghetto e inventò un nome per l'edificio di quaranta piani che torreggiava sopra il parco, così alto e massiccio da creare un clima tutto suo, correnti discensionali che rischiavano di mandare a gambe all'aria la gente che passava. Avrebbero dovuto chiamarlo Godzilla Towers, pensò. Sono le donne, di solito, a prendersi la briga di recuperare carriere perse. Quando si comincia a sentir parlare di uno scrittore riemergente o di un pittore amorevolmente dissotterrato, di solito è perché le donne hanno mostrato un interesse straordinario nei suoi confronti, anche quando l'artista è un uomo. Quasi sempre si tratta di una donna, ma anche se è un uomo, noi siamo specializzate in vite dimenticate, disse Klara. Stava parlando con Acey Greene. Acey, naturalmente, non aveva bisogno di essere recuperata. Era giovane, intelligente, ambiziosa eccetera, e interessante con il suo atteggiamento dolce-perfido, il gioco delle giustapposizioni come forma di dialogo ironico con se stessa - un espediente che le serviva ad affrontare la prospettiva di essere famosa. Acey era cresciuta a Chicago, dove entrambi i genitori erano insegnanti, e aveva incominciato con gli schizzi a penna e inchiostro, aveva incominciato a fare dei collage di stile caraibico nel modo più trito possibile, stando alle sue parole. Poi aveva avuto un'avventura con un membro dei Blackstone Rangers, una grossa banda di strada, e infine aveva fatto fagotto ed era andata a Los Angeles, dove aveva sposato un professore di sociologia, si era iscritta al Cal Arts, aveva divorziato, e aveva trovato il suo karma come pittrice. La prima volta che Klara aveva visto il suo lavoro aveva detto in giro che era ottimo e Acey era venuta a saperlo. Alla fine Acey aveva seguito i suoi quadri sulla East Coast. Al momento viveva al Chelsea Hotel e divideva uno studio da qualche parte a Brooklyn. - E tu? - chiese. - Be', io ho dovuto crearmi una carriera prima di preoccuparmi di perderla. Non è stato facile. L'ho pagata cara. - La famiglia, - disse Acey. - Sì, ho distrutto la mia famiglia. Me ne sono andata, sono tornata, ho preso mia figlia con me per un po'. Lei però stava meglio con suo padre e io la capivo ma la separazione era un tormento. Ho passato un periodo tremendo, come tutti noi, naturalmente. Mia figlia veniva a trovarmi durante il weekend o quando capitava. Lui l'accompagnava in metropolitana e la lasciava davanti alla porta perché non voleva vedermi.
- Perché, cosa poteva succedergli? - Poi veniva a riprenderla e a me non era concesso scendere le scale fino in fondo. La accompagnavo fino al primo piano. A quell'epoca vivevo in un edificio sgangherato giù in fondo a Manhattan, e comunque ci eravamo accordati che l'avrei accompagnata fino al primo piano e le avrei lasciato fare il resto delle scale da sola perché altrimenti lui avrebbe potuto vedermi. Cosa gli sarebbe successo? Che ne so, qualcosa di catastrofico, probabilmente. - Ma non vi parlavate al telefono? - Sì, ci parlavamo al telefono. A monosillabi. Come le spie con i messaggi in codice. E' stato un periodo tremendo. Ma appena lei è cresciuta tutto questo è finito, le telefonate. Prendevamo accordi da sole, Albert è scomparso per sempre. - E lei? - Teresa non mi odia. Forse è anche peggio. Penso che odi se stessa. In qualche modo si è sentita parte del fallimento. Ma non parliamone, per favore. - Facciamo una passeggiata. - Possiamo attraversare il ponte a piedi. Lo fai mai? - Sono nuova di queste parti, te lo sei dimenticata? Il lavoro migliore di Acey faceva parte di una serie sui Blackstone Rangers. Gli inverni di Chicago, giovani incappucciati nelle felpe, cupi e pigramente violenti, ingobbiti di fronte a finestre sbarrate o seduti su un divano nella neve, e Klara pensava che questi quadri fossero totalmente moderni soprattutto in un senso, che i soggetti sembravano fotografati, apertamente in posa o colti di sorpresa, talvolta goffamente scontrosi, con la massa di un casermone popolare alle spalle, oppure ecco un uomo dalle palpebre pesanti con il berretto di lana da marinaio e uno di quei giubbotti di poliestere tutti gonfi e una mitraglietta con un caricatore a banana - guardate come Acey stravolge l'effetto fotografico superficiale facendo fluttuare ineffabilmente tutto il quadro sull'arco del caricatore. Gente sulla terrazza, gli ospiti di Esther scampati alla musica swing sul giradischi dentro l'appartamento e il marito di Esther che li seguiva, Jack, perché è il tipo d'uomo che si sente morire se lo lasciano solo per venti secondi. A Klara piaceva moltissimo il tempietto dall'altra parte della strada, la facciata dell'ultimo piano con una serie di finestre incassate tra colonne scanalate, e chissa se ci viveva davvero qualcuno? Si sentiva bene. Si sentiva fortunata, una volta tanto. Dormiva bene, risparmiava soldi e rivedeva gli amici. - Cosa stara leggendo? - disse qualcuno riferendosi alla donna sul cornicione con il bicchiere da bambino e il tascabile. - Da qui si direbbe un poliziesco, - disse Jack. - Robaccia, il tipo di roba che la gente legge d'estate. Era un uomo alto e florido, Jack Marshall, un pubblicitario di Broadway perennemente sul punto di restarci secco, avete presente il tipo, fumano e bevono pesantemente, non dormono mai, hanno il cuore malandato e quando tossiscono sollevano tempeste di catarro e il fatto eccitante di conoscerli è, pensava Klara, indovinare quando cascheranno a testa in giù nella minestra. Klara si era messa una benda sul dito e aspettava che Miles arrivasse con le sue sigarette perché era molto più affidabile di
lei. Nel frattempo ne prese una da Jack. E la gente per la strada, quand'è che Klara aveva cominciato ad accorgersi che la gente parlava da sola, parlava ad alta voce, lo facevano in tanti, si mettevano a parlare di punto in bianco o a far minacce, o camminavano gesticolando, di modo che le strade stavano assumendo un aspetto da tardo medioevo, il che probabilmente significava che avremmo dovuto imparare daccapo a vivere in mezzo ai pazzi. - Ti sei fatta la bua, Klara? - Non puoi baciarla, quindi lascia perdere. - Ma io non voglio baciarla. Voglio leccarla, - disse Jack. - Sarei proprio curiosa di sapere se ci abita qualcuno la dentro, in quel coso dall'altra parte della strada. - Dentro il tempietto greco? Penso che sia un ufficio. - Quanto mi piacerebbe lavorare lì dentro. - Import-export. - Potrei fare entrambe le cose. - Anch'io, quanto a questo. Ma voglio leccarti la bua, - disse Jack. Acey aveva un viso ovale e la fronte alta. I suoi capelli avevano una lievissima sfumatura color cannella. Se la guardavi, seduta di fronte a te in autobus, e le lanciavi un'occhiata tra una fermata e l'altra, era probabilmente a causa della bocca. Aveva una bocca forte, una bocca mordace - con una piega che si sarebbe potuta definire un sogghigno, sebbene l'espressione mutasse e si addolcisse continuamente dando al suo sorriso la qualita di un colpo di fortuna, di una notizia inattesa. - Io non ho dovuto lasciare mio marito per dipingere, - disse a Klara. - Ho dovuto lasciarlo perché non volevo più vivere con lui. - Qual era il problema? - E' un uomo, - disse Acey. A meta del ponte, Klara si accorse che la donna più giovane controllava continuamente l'azione umana, i ciclisti e i corridori, e quello che indossavano, e chi erano, e la cosa che avevano in comune, ovvero una personalita studiata. Non come a Chicago, disse Acey, dove l'azione vicino al lago è tutta sudore inconsapevole, gente che corre fino a scoppiare per scuotersi di dosso la pellicola dell'ufficio e del lavoro, l'anormale sudario di materia. Qui la pellicola è quella in cui recitano, l'inquadratura di orizzonte limpido con i profili dei grattacieli, e sembrava pronta per questo, Acey. - E così adesso sei qui. E forse per sempre. Per cui l'effetto di essere passata sull'altra sponda deve essere doppiamente forte. - Probabilmente sono passata sull'altra sponda un sacco di tempo fa. Fondamentalmente all'insaputa di tutti, salvo che di me stessa. - Sei preoccupata per le conseguenze? - Di uscire allo scoperto? No, doveva succedere. Mi sarei preoccupata se non fosse successo. - E tuo marito? - Mio marito cosa? - chiese Acey. - Non so. Cosa ne pensa lui. Lo sa che vai a letto con le donne? - Figurati, le lesbiche lo eccitano. Gli ho detto, James, uno di questi giorni ti mando qualche diapositiva. Piccante. - Sei un gangster.
- La pupa del gangster, la puttana della banda, ecco come mi chiamavano a L'A'. Per via dei quadri dei Blackstone, sai, la groupie borghese dei negri. - Carino. Sai come chiamavano me? La Bag Lady. Risero e passarono sulla sponda di Brooklyn, dove Acey lavorava in un vecchio magazzino poco lontano dal ponte. Non voleva mostrare il suo lavoro prima che fosse finito per cui fecero solo un giro dello studio. C'era un calendario con Marilyn Monroe alla parete, ripresa dall'alto ai tempi in cui era ancora la pinup Miss Sogni d'Oro, un corpo nudo adagiato su un fondo di velluto rosso sangue. - Questa non può essere qui per caso, vero? - D'accordo, è una cosa che guardo, - disse Acey. - E a cui pensi. - E' una cosa che sto elaborando a poco a poco. - Interessante. Ma ho sentito dire che stai lavorando a qualcosa di completamente diverso. - Davvero? E cos'è che hai sentito dire? E Klara allungò un braccio verso la parete in fondo, dove c'erano alcune tele appoggiate su una mensola bassa o su cavalletti, alcune con strisce di carta da imballaggio che Klara aveva adocchiato prima - strisce di carta assicurate con l'adesivo a opere non finite come guide per indicare i vari colori. - Ho sentito dire che stai facendo una serie sulle Pantere Nere. Acey fece il suo sorriso sarcastico, lento ed elaborato. - Ma davvero? Be', sai una cosa, l'ho sentito dire anch'io. E pensare che questa avrebbe dovuto essere l'era postpittorica, rifletté Klara, ed ecco qui una giovane donna che dipingeva con passione, una donna nera che dipingeva generosamente uomini neri ma non senza esercitare un certo rigore critico. La spavalderia frontale delle bande, una cultura di un'audacia quasi principesca, ma carica di presagi, naturalmente, di minaccia non edulcorata, ed era questo che Acey esaminava chirurgicamente, lavorando ai dettagli, cercando le tracce del solitario, del giovane diverso nella propria posa pensierosa. Riattraversarono il ponte. - Ti chiamano ancora così, la Bag Lady? - Di rado ormai, - disse Klara.- Allora eravamo in poche. Prendevamo i rifiuti e li conservavamo come forma d'arte. Il che suona più nobile di quanto non fosse. Era solo un modo di guardare più attentamente alle cose. E lo sto ancora facendo, forse però a un livello più profondo. - Non è il mio genere. Forse diffido del bisogno di un contesto. Sai cosa voglio dire? - Immagino di sì. - Perché io riesco a capire ma solo fino a un certo punto. Prendi il tuo oggetto da uno studio incasinato e lo pianti in un museo dalle pareti bianche con dipinti classici e diventa qualcosa di forte in questo contesto, diventa una specie di provocazione. E che cos'è in realta. Vecchie vetrate di fabbrica e tela da imballaggio. Diventa, non saprei, molto filosofico. Arrivarono sull'altra sponda e Acey voleva camminare ancora un po' ma Klara era esausta. Guardarono una vecchia barca a vela ancorata oltre South Street. Klara stava cercando di cancellare la piccola offesa, la piccola delusione ritardata della casuale osservazione
negativa di Acey sul suo lavoro. Prima ritardò la propria reazione, poi cercò di soffocarla. - Io, - disse Acey - ero il tipo di ragazza che non vedeva l'ora di crescere. Adesso ormai sono qui, ufficialmente. Questa citta è l'orologio che scandisce il tempo. Mi getta nel panico, ma sono pronta. Quello che Klara ammirava di più era l'apparente facilita, il modo casualmente spettacolare in cui Acey stendeva la pittura. Mani di fondo sature di colore e bellissimi marroni carne e pennellate in ogni indefinibile sfumatura e anche molti grigi, cieli glauchi e fumo, perché è sempre inverno a Chicago e i membri della banda appartengono al loro territorio, ai mattoni pallidi e alle finestre ghiacciate, e in questo senso potrebbero essere fratelli di quegli uomini dalla pelle olivastra negli affreschi delle chiese umbre Acey aveva la calma e l'occhio triste di una cinquecentista. Stava parlando al telefono con Esther Winship. Esther disse: - Ma perché, santo cielo? - Perché è più facile e più rapido. - Ma sono trent'anni che non prendo la metropolitana. - Bene. Ho voglia di sentirmi superiore. Presero la linea di Dyre Avenue. Il treno era coperto di graffiti all'interno e all'esterno, approssimativi e deprimenti, pensò Klara. Non le piaceva l'idea di coprire i treni di firme. Era l'avventura dell'ego, ragazzi poveri che rappresentavano le loro fantasie di fama vistosa. - Credevo che sarei morta di caldo, - disse Esther. - Pensavo che sarei soffocata sul sedile. Lo disse in un torvo sussurro, temendo che qualcuno potesse sentirla e in qualche modo offendersi. Sulla metropolitana le parole hanno una carica che non si manifesta altrove. - Si chiama aria condizionata, - rispose Klara in un sussurro. - Sono sbalordita. A Esther piaceva fare la figura della tonta disinformata - la faceva sentire chiusa in un mondo di riferimenti più sicuri. Alla seconda fermata nel Bronx il treno caricò alcuni passeggeri, e ne arrivò un altro diretto dalla parte opposta, e Klara sentì un colpo nelle costole. Era Esther, che cercava di richiamare la sua attenzione con una gomitata perché l'altro treno era uno dei suoi, di Moonman, ogni carrozza dipinta a spray da cima a fondo con il suo nome e il numero della strada. E Klara dovette ammettere che questo ragazzino in particolare era capace di creare un impatto. Il treno entrò sobbalzando nella vecchia stazione squallida come un'araldica giungla delle meraviglie. Le lettere e i numeri ti esplodevano in faccia ed erano in rapporto tra loro, erano intrecciati e annodati, umanoidi da cartone animato, dagli occhi sporgenti, che si svincolavano l'uno dall'altro sudati e scatenati in danze appassionate - argento metallico, azzurro, un esplosivo rosso ciliegia e un gran numero di verdi al neon. Esther sussurrò a denti stretti. - E' lui, è lui, è lui. D'accordo, quello era il suo treno, ma quanto al ragazzo non riuscirono a trovarlo. Cercarono un indirizzo ottenuto da un reporter che aveva fatto un pezzo sugli scrittori di graffiti. Moonman non gli aveva detto né il suo vero nome né dove viveva - solo la sua eta,
sedici anni. L'indirizzo veniva da un altro ragazzo, che affermava di essere nella squadra di Moonman, e le due donne lo cercarono in lungo e in largo, attraversando una zona di edifici bruciati, interi isolati rasi al suolo dall'incendio, e c'erano caseggiati che bruciavano ancora in lontananza. Si fermarono a guardare. Tre o quattro edifici fumavano pigramente. Neanche l'ombra di pompe antincendio o di gente ansiosa raggruppata dietro le transenne. Solo qualche passante, che da qui sembrava intento alle solite occupazioni. Osservarono in silenzio ed era difficile colmare la distanza. Non riuscivano a situare la cosa in un contesto. Sembrava il servizio di un telegiornale su fazioni in guerra in una regione remota, dove i generali cuocevano il fegato dei rivali e lo conservavano dentro sacchetti di plastica. Una cosa totalmente spettrale e aliena. Alla fine Esther si decise a parlare: - E' qui che abitavi una volta? - No. Abitavo circa un miglio più a nord. - Be', comunque meriti maggior rispetto. - Grazie, Esther. Ma non era così allora. - D'accordo, ma devo comunque fare uno sforzo per essere più gentile con te. - Bene, - disse Klara. Sapevano che non era una buona idea restare lì a bighellonare all'infinito e quando arrivarono sulla Centocinquantasettesima strada e cercarono l'indirizzo che aveva dato loro il ragazzo, scoprirono che il numero non esisteva. Entrarono in un paio di bodegas e si informarono alla cassa. La gente diceva: - Mooney, chi è Mooney? - Dicevano, - Che tipo di mormone? Non ci sono mormoni qui. E le donne dicevano: - No, no, no. Moonman. Moonman uno cinco siete -. E mimavano la pittura con una lattina spray dicendo: - Graffiti, graffiti. Esther indossava una giacca da safari come un'inviata speciale alla ricerca di ribelli sulle colline fumose, e del resto non aveva tutti i torti. - Sembri un po' cinese, stasera, - disse Miles. - Jason mi chiamava sempre la cinesina. Lo disse con voce esilissima. Si vedeva e si sentiva piccola. La gente stava diventando sempre più grande, e lei sempre più piccola, stava per diventare più o meno invisibile. Se non ci fosse stato Miles, quanto ci avrebbe messo il cameriere a servirla? - Jason. Conosco questo Jason? - Jason il mio secondo marito. Jason Vanover. Stavano mangiando pesce in Mulberry Street, in un posto che piaceva a Miles perché vi era stato ucciso un malavitoso, gli avevano sparato in testa, un paio di ragazzi di una famiglia rivale, oppure della sua stessa famiglia, o di una famiglia di fuori citta. - Nomini sempre persone che non conosco e di cui non ho mai sentito parlare, - disse Miles, - e insisti a nominarle in modo da farmi credere che dovrei sapere chi sono mentre in realta non ne ho la più pallida idea. - E' vero. Lo faccio sempre. - Crei un andirivieni di persone indistinte. - Hai ragione, ma il fatto è che quando conosco qualcuno, mi sembra
automatico che lo conosca anche la persona con cui sto parlando, grazie a una strana aritmetica umana, - disse Klara. Miles aveva il raffreddore, aveva sempre il raffreddore, e la cosa passava del tutto inosservata, aveva attacchi di tosse e gli occhi leggermente stralunati, e nessuno ci faceva caso tra la gente che lo conosceva - era una conseguenza della vita irregolare, del cattivo stato di salute generale, dei pasti saltati, dei viaggi e del sonno trascurato. Si guardò intorno alla ricerca di personaggi particolari, uomini robusti in completo scuro che potevano essere collegati alla vecchia storia. - Sembravo ancora più cinese quando avevo i capelli corti, - disse Klara. - Cosa faceva lui? - Si occupava di analisi di mercato, e faceva investimenti a rischio col suo denaro e con quello di altra gente, ed era anche un appassionato di vela, andavamo in barca per settimane intere, era un uomo di mare. Questa era la cosa migliore del nostro matrimonio. Quando navigavamo, tutto funzionava a meraviglia. Aveva un ketch chiamato Alta Finanza. - Tu su una barca? - Sapevamo di dover collaborare. Dovevamo vivere in spazi ristretti. Darci il cambio al timone, nella cambusa, condividere il comando, riporre le attrezzature, arrotolare le cime, tenere le cose al loro posto. Sì, io su una barca. Eravamo disciplinati. Rispettavamo la barca e gli elementi. Il nostro matrimonio funzionava fintanto che eravamo a bordo. Tornarono a piedi al loft. In mezzo alla strada c'era un carrello del supermercato e le macchine lo scansavano e un uomo si staccò dall'ombra di una piattaforma da carico mormorando una supplica a Gesù. Si fumarono uno spinello e guardarono un pezzo di telegiornale con Nixon che salutava in televisione. - Acey mi ha detto che è andata a una festa e ha chiesto a un uomo, Cosa vogliono veramente gli uomini dalle donne?, e lui le ha risposto, Pompini, e lei gli ha detto, Ma quelli ve li potete fare anche tra di voi. - Nel giro di sei mesi Acey sara troppo famosa per restare viva, disse Miles. - Verra assassinata mentre esce da una discoteca. Non era ancora ora di ricominciare a lavorare per Klara, ma il momento stava arrivando. Qualcosa nella sua pelle cominciò ad agitarsi ansiosamente, un bisogno di manipolare e modellare, ma più profondo in realta - un bisogno così assoluto che se fosse stata sola nel loft avrebbe potuto preoccuparla un po'. - Sì, mentre esce da una discoteca, - disse Klara. - Così poi tu mi ci porteresti a ballare. Sua madre le portava giù a Manhattan, lei e Rochelle, la sua migliore amica, e pranzavano all'Automat vicino a Times Square, dove la vetrina centrale era di vetro istoriato e il latte usciva dalla bocca di un pesce di bronzo. Osservavano il pubblico delle matinée entrare nei teatri e sua madre faceva commenti sui cappelli delle signore. Guardavano le vetrine dei negozi di lusso. Sua madre le portava all'interno di bellissimi alberghi e palazzi di uffici, le faceva entrare come se niente fosse e mostrava loro le modanature e
le incisioni negli atri, le porte di legno scolpito degli ascensori. E una volta si erano fermate davanti a un grattacielo sulla Quinta Avenue, doveva essere il 1934, con i giapponesi trincerati in Manciuria, e avevano alzato gli occhi sulla facciata dell'edificio per poi attraversarne l'atrio tirato a lucido, ed era il Fred F. French Building, il che aveva incuriosito le ragazze perché chi diavolo era questo Fred F. French, e la madre di Klara, che sapeva un sacco di cose perché lavorava per un'agenzia di assistenza sociale e studiava psicologia infantile, che seguiva la politica internazionale e si preoccupava per la Cina, questa madre che pianificava sistematicamente le loro sortite, non aveva la più pallida idea di chi fosse Fred F. French, il che aveva incuriosito ancora di più le ragazze, le aveva incuriosite e divertite, avevano tredici e quattordici anni, e tutto le divertiva. Erano tornate a casa prendendo la sopraelevata della Terza Avenue, sballottate su per Manhattan e attraverso il Bronx, guardando dai finestrini del treno dentro le case popolari su entrambi i lati, centinaia di istantanee di altre vite che schizzavano via davanti ai loro occhi a una dozzina di metri dal livello stradale, e Rochelle aveva visto un uomo in canottiera tutto arruffato che si sporgeva dalla finestra e aveva detto, Forse quello è Fred F. French che ha avuto un rovescio di fortuna, ah ah, e la cosa era finita lì, raccontò Klara a Miles erano a letto a giocare a carte nel loft - almeno fino a tre o quattro anni dopo, quando le ragazze se n'erano andate da un ballo studentesco con due ragazzi che non erano nemmeno della loro scuola, due imbucati del nord, e si erano infilati tutti e quattro nella macchina di uno di loro parcheggiata in fondo a una strada buia e avevano fumato un paio di sigarette, chiacchierando un po', sbaciucchiandosi e accarezzandosi pesantemente. Klara e uno dei ragazzi erano raggomitolati sul sedile anteriore mentre Rochelle e l'altro ragazzo se ne stavano spaparanzati nella spaziosa parte posteriore della macchina, e Rochelle l'assatanata aveva inscenato un vero teatro di slinguate e sobbalzi sul sedile, sollevando effettivamente la polvere dalle imbottiture, e aveva uno sguardo così torbido che distrasse i due del sedile anteriore inducendoli a smettere di baciarsi e a guardare. C'era quel tanto di luce che bastava per guardare. E la cosa si era spinta fino ai limiti estremi di quello che una ragazza è disposta a concedere, persino un'assatanata come Rochelle. Il ragazzo sul sedile posteriore a quel punto era un groviglio di frenesia, e l'espressione di Rochelle implicava un complicato tradimento, era torbida, letale e fredda, e sembrava dire a Klara che la loro amicizia, la migliore e la più profonda delle amicizie, stava per entrare in una fase strana e inquietante, nella storia intricata degli uomini e del sesso e dei bisogni personali. C'era una grande agitazione di mani e ginocchia, quell'agitazione da sedile posteriore con contorsioni di corpi e complicazioni di indumenti, la vorace esplosione del sesso nell'oscurita. Klara aveva sentito schioccare l'elastico delle mutandine. Le era parso di udire letteralmente il dito del ragazzo entrare nella piega carnosa tra le gambe di Rochelle, un risucchio marino palpatorio, l'umidita tra le gambe, la saliva di lunghi baci inebrianti, per cui ti trovi con una ciocca dei capelli di lui in bocca e non riesci esattamente a collocarla, e all'improvviso era stato brutalmente chiaro che Rochelle l'aveva gia fatto prima, si era spinta fin lì e anche oltre, e che shock per Klara, individuare una
tale esperienza negli occhi della sua migliore amica, ed era rimasta a guardare e ad ascoltare totalmente inebetita - che cosa cruda è un segreto quando appartiene a qualcun altro. Adesso sapeva cosa intendeva la gente per esperienza, il modo in cui usavano la parola esperienza, e la forma che assumeva non era sesso ma conoscenza, e la conoscenza non era sua ma della sua amica una rivelazione che l'aveva sconvolta intimamente e l'aveva fatta sentire infantile e stupida. Aveva udito Rochelle borbottare qualcosa come, E' ora che tu ti tolga il preservativo di tasca, Bob, o forse aveva detto Rob, ma invece di una pallida guaina flessibile il ragazzo aveva tirato fuori il suo affare vivo e duro, pulsante e ultravioletto, eccolo lì, all'improvviso, sbottonato e fuori nel mondo, molto simile a come se l'era immaginato Klara ma non così caldo e reale, carico di vita propria, svincolato dal suo ospite, dal portatore, dal proprietario, e Rochelle era nervosa perché il ragazzo non aveva il preservativo e Klara era nervosa perché i giapponesi forse avrebbero invaso la Cina. Miles mescolava le carte e ascoltava. E nel momento cruciale e decisivo Rochelle Abramowicz aveva lanciato un'occhiata sopra la spalla del ragazzo, aveva guardato Klara Sax negli occhi e le aveva detto pensosa, Secondo te che cosa rappresenta la F? E Klara aveva detto, Quale F? E Rochelle aveva detto, La F di Fred F. French. Questa era la cosa giusta da dire, forse la cosa migliore che chiunque avesse mai detto, allora o adesso, date le circostanze, e le aveva rese di nuovo amiche. Si erano scompisciate, come si suol dire, dalle risate, si erano sciolte, praticamente si erano scisse nei loro elementi costitutivi, in atomi e molecole, un paio di ragazze in una Packard da gangster, proiettate in avanti nel tempo, e Klara era sulla terrazza a sorseggiare vino tiepido e ad ascoltare la gente che diceva, Abbiamo bisogno del teatro, e sapeva che avrebbe raccontato questa storia a Miles e sapeva anche che non avrebbe mai più avuto un'amica come Rochelle o una madre come sua madre, quanto a questo, e guardò al di la di davanzali e parapetti verso il vecchio grattacielo con la sezione centrale massiccia e la decorazione col sole a raggiera, dieci isolati più a nord, e pensò a com'era meraviglioso, che inaspettata meraviglia era imbattersi in un ricordo che galleggiava al livello di un mosaico vetrificato in cima a una torre di midtown - il vecchio sole a raggiera che porta fortuna. NOTE: (*) In italiano nel testo [N'd't']. Capitolo secondo I poeti delle vecchie nazioni del bacino raccontavano storie sul vento. Matt Shay sedeva nel suo cubicolo in un locale di cemento grande circa come un campo da pallacanestro, situato in una regione imprecisata sotto le colline di gesso del New Mexico meridionale. La base si chiamava il Pocket. C'erano persone qui che non sapevano bene se si occupavano o no di armamenti. Si dedicavano a ricerche di base e non sapevano che fine facessero le loro scoperte, le loro simulazioni, i risultati che
ottenevano o che prevedevano. Questo è uno degli elementi costanti che stanno alla base del mondo dei sistemisti, dove tutto il lavoro è collegato in forma coerente a livelli e localita geografiche estremamente lontani dalle scrivanie e dai progetti di laboratorio dei ricercatori. Matt si occupava di analisi degli effetti, calcolando i crudi dati matematici di un incidente nucleare o di uno scontro limitato. Lavorava su dati relativi a fatti concreti. C'era quella cosa precipitata su Albuquerque nel 1957, un'enorme bomba termonucleare sganciata per errore da un B-36 - d'accordo, nessuno è perfetto - e finita in un campo all'interno del perimetro cittadino. L'esplosivo convenzionale era detonato, il pacchetto nucleare no. L'incidente era rimasto segreto fino al momento, diciassette anni dopo, in cui Matty, seduto nel suo cubicolo, leggeva una guida per campeggiatori. Matt era al Pocket da cinque mesi e in effetti si occupava di armi - soprattutto di quello che riguardava i dispositivi di sicurezza, però - sempre con la faccia incollata allo schermo di un computer. Non era sicuro che la cosa gli piacesse. Aveva desiderato occuparsi di armi, aveva desiderato il lavoro di punta, l'identita, la sensazione di affilare i propri contorni, di conoscersi un po' meglio - un'installazione segreta nel deserto. La base era stata battezzata il Pocket, da una bestiola chiamata pocket gopher, che vive dentro gallerie freneticamente scavate tra le dune increspate. Le distese di dune, le spianate di sale, il biancore, tutto un mondo bianco come un fondale marino, le strisce di foschia bianca in lontananza, il bambino mummificato, vecchio di seimila anni, trovato in una grotta vicino a White City, sì, e c'erano animali che nel corso di ere geologiche erano sbiaditi fino a diventare bianchi, e c'era un topo un tempo bruno che per sfuggire allo sguardo dei predatori aveva assunto il colore dei calanchi di gesso. Il vento nasceva dalle Organ Mountains soffiando anche a cinquanta miglia all'ora, rimodellando le dune e colorando il cielo di uno strano grigio minaccioso, simile a una sfumatura di bianco impazzita. E gli uomini e le donne del Pocket, in maggioranza maschi e in maggioranza non sposati - tra loro c'era solo un gruppetto di sposati e, battuta inevitabile, i loro figli albini - vivevano dentro casette bifamiliari, ai margini del poligono missilistico, e ascoltavano il vento di cui parlavano i saggi delle vecchie nazioni, elaborando metafore e filosofie, il vento che alterava il profilo delle dune, soffiando senza tregua, a volte, per giorni e giorni. Lavori sulle onde sonore? Misuri gli effetti dell'esplosione sull'aereo che scarica la bomba? Prepari pacchetti di fisica e sogni una ragazza laggiù in Georgia, quella che ti ha infilato la mano nei pantaloni al drive-in accanto alla palude? Vorresti vedere la palla di fuoco, un vero test nucleare - ora sono proibiti, naturalmente, i test nell'atmosfera, ma ti sarebbe piaciuto vedere una delle esplosioni mostruose che in passato vaporizzavano gli atolli. Faceva colazione alla mensa sotterranea con Eric Deming, un uomo alto e trasandato, poco sopra la trentina, di un paio d'anni più giovane di Matt, e uno dei bombaroli, come venivano chiamati quelli
che si occupavano di bombe. Gli indumenti e le spalle di Eric avevano un'aria cascante. Aveva la tendenza a mangiare con le mani - le patatine fritte, certo, ma anche l'insalata, le barbabietole, il riso bollito, i chicchi di mais, qualunque cosa potesse pinzare e sollevare in piccole quantita. - Quando arriva Janet? - Presto. Stiamo definendo i dettagli, - rispose Matt. - Ce la farai conoscere? Non vediamo mai donne del mondo esterno. - Ma se non fai che andare ad Alamogordo. - Quello non è il mondo esterno. Devi fare almeno mille miglia, per arrivarci. Lo sai vero Matty? In questo stato. - Non verra qui. - Okay, ma lo sai qual è in questo stato la percentuale di persone che ha il lasciapassare della sicurezza? Non è per questo che ci piace? - Dobbiamo incontrarci in qualche posto a ovest di qui, poi andiamo a fare un giro, in tenda. Lontano, lontano, lontano. Se riesco a convincerla. Non è che l'idea la entusiasmi, la mia Janet. Eric lavorava in un settore del laboratorio in cui Matt non era autorizzato a entrare. Trattava materiali radioattivi dentro una scatola sigillata. Indossava guanti protettivi, poi sopraguanti attaccati alle maniche che finivano dentro la scatola, indossava strati e strati di indumenti speciali dotati di tesserini fotosensibili e rivelatori di radiazioni e si occupava di componenti di bombe - l'innesco dei neutroni, i detonatori, i componenti subcritici, il calore viscerale all'interno della testata nucleare. Ora stava facendo qualcosa di diverso e Matt non sapeva di cosa si trattasse. Portava un tesserino bordato di giallo e metteva in giro voci stupefacenti. I bombaroli amavano il loro lavoro ma non erano necessariamente filonucleari, non circolavano con megaerezioni letali. Erano patiti del dettaglio. Erano attratti dalla musica interiore della tecnologia degli ordigni nucleari. Matt li osservava. Andava ai loro party e imparava il loro linguaggio. Emanavano quella specie di debole fulgore residuo dell'incandescenza degli anni Sessanta, la disponibilita a dedicarsi compulsivamente a qualcosa. Credevano che lui stesse manovrando per farsi trasferire, che fosse pronto a diventare uno di loro, a indossare il tesserino codificato, bordato di giallo, che gli avrebbe permesso di superare l'ultimo cancello per entrare nel tunnel che conduceva al progetto della bomba. Ma Matty sbirciava di nascosto le riviste per campeggiatori, i sacchi a pelo e le tende canadesi, perché aveva bisogno di andarsene per un po' a meditare. Aveva molti dubbi sulla correttezza del proprio ruolo. Un po' più giù, lungo la route 70, vicino al cartello del poligono missilistico, in una zona che sulle mappe è segnata in bianco - ecco, era lì che stavano i contestatori, sette o otto tra uomini e donne, ma a volte solo due o tre, con uno striscione teso fra due pali di legno, “La Terza guerra mondiale comincia qui”. Il personale della base li provocava, o sorrideva con affettazione, oppure era lusingato dallo striscione, o si impietosiva per quelli che lo reggevano, perché erano brutti e sbattuti dal vento.
A Matt piaceva vederli. In un certo senso, contava sulla loro presenza. Cominciò a essere importante per lui, sapere che erano lì, quattro, cinque, sei persone, di solito più donne che uomini, o magari solo un paio di figure sparute aggrappate alle aste dello striscione, che non dicevano mai una parola quando passavano i veicoli militari, gli autocarri che portavano oggetti coperti da teloni, i dipendenti civili e le squadre di operai edili, che ogni tanto salutavano alzando il dito. Le parti bianche della mappa comprendono la base aerea, la base dell'esercito, il poligono missilistico, la vasta distesa verso nordovest chiamata Jornada del Muerto e anche le piane tra le dune, bianche sulla mappa come nella realta. Qui sorgevano alcune costruzioni, strutture cintate, con serbatoi di propano per alimentare la base sotterranea del Pocket, dove venivano concepite e progettate le armi. Lavoravano in base a scadenze rigorose. C'erano sempre scadenze da rispettare, e questo era fonte di lamentele per i bombaroli. Loro erano le persone più ragionevoli, quelli che avevano raggiunto una razionale padronanza di sé, che non erano afflitti da ambivalenze morali, che se ne infischiavano di quelle scemenze infantili circa conseguenze e rimorsi. Erano quelli che capivano i duri principŒ del conflitto e non gradivano le pressioni burocratiche esercitate dall'alto. Ma le scadenze persistevano. C'erano sempre delle scadenze. C'era l'urgenza bellica anche senza la guerra. Eric disse: - Hai sentito l'ultimo segreto? Passeggiavano oltre le casette, al tramonto, completamente soli sulla piana di sabbia. Eric si guardava continuamente intorno per controllare che nessuno ascoltasse, con un effetto comico, ovviamente, e si produceva in un mormorio a bocca storta che avrebbe frustrato anche un esperto di lettura delle labbra reclutato per studiare i video della sorveglianza. - E' una vecchia faccenda che emerge solo adesso, - disse, - sotto forma di vaghe dicerie. - Quale vecchia faccenda? - Ti ricordi di quelli che lavoravano al Nevada Test Site ai tempi degli esperimenti nell'atmosfera? - Be', cosa gli è successo? - E ti ricordi della gente che viveva sottovento? Questa gente, tra l'altro, ha un nome che definisce perfettamente la loro esistenza. - Che nome? - I Sottovento, - disse Eric. Si fecero strada tra i bassi cespugli di tamarisco verso il recinto elettrificato. - E allora, cosa gli è successo? - Nessuno dovrebbe saperlo. Ma ormai è una cosa più o meno nota. - Di cosa si tratta? - E' un segreto coperto dal silenzio. - Qual è il segreto? - Mielomi plurimi. Insufficienze renali. Oppure ti svegli una mattina e ti ritrovi più corto di sette centimetri. - Stai parlando di esposizione alle radiazioni. - Oppure un giorno cominci a vomitare e vomiti tutti i santi giorni per sette o otto settimane di seguito.
- Ma non c'è da aspettarselo? Occasionali errori di calcolo. E' un lavoro pericoloso, si sa, no? L'osservazione parve divertire Eric. Anzi, sembrò che se l'aspettasse, che la trovasse incoraggiante. Superarono una grossa duna parabolica dove il calore era così intenso che l'aria sembrava un ostacolo fisico. - Piccole comunita agricole sottovento rispetto alla zona degli esperimenti. Quasi tutti i bambini portano la parrucca. - Fanno la chemio? - Gia. E di tanto in tanto nasce un bambino senza un arto o roba del genere. E una donna sana si fa uno shampoo e si ritrova tutti i capelli in mano. Sai, è una splendida bruna e un minuto dopo si ritrova completamente calva. - Dove? - Principalmente nello Utah meridionale, ho sentito dire, perché è sottovento. Ma anche in altri posti. Adenocarcinomi. Comparsa di grandi bolle rosse da Vecchio Testamento. Chiazze e vesciche enormi. E sputi sangue. Ti guardi le mani dopo un colpo di tosse e ci trovi un litro di sangue contaminato. Camminarono lungo la barriera elettrificata superando un cartello di avvertimento segnato dai graffiti di un contestatore, o di un apostata che lavorava sotto mentite spoglie al Pocket. - Tu credi che queste storie siano vere? - No, - rispose Eric. - E allora perché le metti in giro? - Per darmi tono, ovviamente. - Per il gusto dell'estremo. - Per il gusto dell'estremo. Per il brivido. Il fuoco esistenziale. Matty aveva sei anni quando suo padre era uscito per andare a comprare le sigarette. Otto giorni dopo, quando il padre non era ancora rincasato né aveva telefonato né aveva dato notizie di sé tramite un amico, Matt prese tutte le monetine che riuscì a trovare in casa e si mise in cammino. Non era mai andato da solo oltre la Terza Avenue in quella particolare direzione, ma fu la che si diresse. Poi attraversò la avenue dove i treni correvano nell'ampia corsia sotto il livello stradale, dalla periferia fino alla Grand Central Station. I treni che Nicky un giorno avrebbe preso a sassate. Nicky in piedi perfettamente visibile davanti alla balaustra, a tirare sassi contro i treni in corsa, proprio sotto di lui. Salì le lunghe rampe di scale che portavano alle vie vicino al Concourse. Le aveva gia salite con sua madre per andare al cinema e alla gelateria vicina; ora le salì da solo per andare al Grand Concourse, dove sorgeva il cinema, il Loew's Paradise, e c'erano sessanta o settanta gradini ed edifici issati su trampoli di ferro, come un paese a sé. Da quella distanza, sulla sabbia bianca, vede se stesso fermo sul lato opposto della strada, intento a osservare la grande facciata in stile italiano del Paradise. Si vede alzare lo sguardo sull'orologio, sul cornicione, sulla cupola di pietra decorata. Si vede comprare un biglietto, riuscendo a malapena a raggiungere la cassa, a spingere le monete oltre il vetro, a scorgere la cassiera dare un colpetto a un aggeggio che butta fuori il biglietto da una
fessura. Matt entrò nell'atrio. Avvertì una sorta di tepore avvolgente salire dalla spessa moquette, come quello di un cane appagato che riposa dopo le carezze. Pesci rossi nuotavano dentro vasche di marmo. Guardò i lampadari di vetro molato. C'erano svariate balconate con quadri dentro cornici dorate. Il posto gli sembrò mille volte più sacro di una chiesa. Ora è seduto nella sua mezza casetta nelle vicinanze del poligono missilistico e vede se stesso salire la scala coperta di moquette, perché voleva sedere in alto, vicino al soffitto. Vide la maschera in attesa con una torcia elettrica infilata nella cintura. Aveva le spalline gallonate e una fila di bottoni di ottone di sghimbescio sul petto e fece lampeggiare più volte la pila, solo per sentire il clic dell'interruttore. Matty pensò che si sarebbe sentito dire che non poteva sedersi lì, perché quelli erano posti riservati agli adulti, ai fumatori, o ai ragazzi e alle ragazze che volevano baciarsi. Ma la maschera fece cliccare la torcia e non si mosse, e Matty gli passò accanto. Salì fino alle poltrone sotto il soffitto, dove le stelle ammiccavano e si muovevano. L'intera volta celeste si muoveva sul soffitto, stelle e costellazioni e nebulose azzurre. Sua madre voleva che lui facesse il chierichetto, una volta raggiunta l'eta, ma questa era una cosa ancora più impressionante della chiesa. Vede tutto questo con l'occhio dell'adulto che non ha mai fumato una sigaretta, che sa guidare a malapena l'automobile, che non gioca più a scacchi e che ama una donna che fa l'infermiera a Boston. Si vede seduto nella galleria del Paradise. La luce dello schermo si faceva più intensa o più fioca a seconda della scena. Guardò la parete vicina, poi l'altra, e alla luce discontinua dello schermo, eccola, la straordinaria sala, archi, portici, statue, urne e busti di marmo, rampicanti guidati tra le balaustre, e gli eroi sul piedistallo con gli spadoni, le colonne a forma di figure umane avvolte in un drappo, le due pareti coperte da una massa di anatomie e di strutture, troppo per incamerare tutto, e angeli con l'aureola ritti su piedistalli, e seduto lì attese suo padre, attese che lo spettro e l'anima di suo padre gli facessero visita. Si tolse gli occhiali, se li rimise. Li tolse di nuovo, li sfregò con l'apposito fazzolettino e rimase seduto di fronte al computer, ammiccando a una schermata di dati riguardanti il sistema di innesco di un'arma, il dispositivo per inviare i segnali che caricano e mettono in sicura o rimettono in sicura il sistema di innesco. Udì un'esplosione attenuata chissa dove sopra il deserto, l'onda d'urto delle velocita supersoniche, e ne fu emozionato, commosso. Gli capitava sempre, a prescindere dalla frequenza con cui udiva quel rumore, o dalla distanza della fonte. Spesso lo scoppio lo svegliava al mattino, quando gli aerei gli passavano sopra, e a volte, fermo davanti a casa prima che facesse buio, osservava la simmetria di una mezza dozzina di aerei in formazione serrata; poi gli aerei scomparivano, ma non erano i velivoli a turbarlo ed emozionarlo, bensì la scia e l'onda sonora che si lasciavano dietro, e l'eco che rimbalzava dalle montagne, come se stessero facendo saltare una cucitura del mondo. Qui c'era gente che non sapeva che fine facesse il suo lavoro e
come sarebbe stato impiegato. Non sapevano in che modo i loro numeri e simboli potessero penetrare la natura. Era plausibile che avvenisse con un'esplosione. Ogni cosa si collegava in un punto nascosto, lungo la catena dei sistemi, il che provocava un'inquietudine particolare. In un certo senso, però, era uno splendido mistero, una fonte di meraviglia, il fatto che una breve equazione digitata sperimentalmente sullo schermo potesse alterare il corso di molte vite, accelerare la circolazione del sangue nel corpo di una donna su un tram a miglia e miglia di distanza, e come definire un rapporto del genere? A Matt non piaceva guidare. Aveva imparato soltanto da sei mesi e sapeva che non si sarebbe mai sentito a suo agio al volante. Il massimo che riusciva a fare era imitare un guidatore. Aveva preso in prestito un'auto a quattro ruote motrici da uno dei bombaroli e la guidava con il libretto delle istruzioni aperto sulle ginocchia. Le strade, i cartelli, le altre auto lo intimidivano, come se rivelassero il reato che stava commettendo nel guidare. Però voleva far pratica per il viaggio con Janet e nei giorni liberi andava in giro. C'erano cartelli per le rampe di accesso dei mezzi pesanti, per il pericolo in caso di vento, c'era il cartello “Gesù è il mio Signore” e le fasce di foschia biancastra in lontananza, che, ormai lo sapeva, erano sabbia di fondo marino, e il cartello di divieto di accesso in caso di strada allagata e le ombre oblique proiettate sulle superfici piane dai tralicci dei cavi elettrici tesi fino al Texas. Un giorno tornando da una gita vide i dimostranti, come sempre, fermi nel posto sbagliato. Avrebbero dovuto piazzarsi nelle vicinanze del terzo cancello di accesso alla base aerea, quello senza segnalazioni, perché era lì che gli scienziati del Pocket entravano e uscivano, ed erano loro i soggetti più ricettivi. Gli venne quasi voglia di dirglielo, di spostare la protesta più giù lungo la strada. Matt aveva un aspetto tra l'ebreo e l'ispanico. Poco prima dei vent'anni aveva fatto sollevamento pesi, rimodellando il fisico moscio ed esile abituato a funzionare come un accessorio della testa Univac. Nel Bronx, la gente ne diceva di tutte sul suo aspetto. Messicano, italiano, persino giapponese - il più cordiale dei suoi sorrisi poteva sembrare una smorfia cerimoniosa. Un identikit realizzato in base a sette diverse descrizioni, ecco cos'era Matt. Non smetteva mai di assomigliare allo studente del City College che era stato alla fine degli anni Cinquanta, il secchione, miope, intelligente e povero, che andava a scuola in metropolitana. Era alla mensa in compagnia di Eric Deming. Eric prese tra le dita uno spaghetto e se lo calò lentamente in gola, deglutendo come un serpente. - D'accordo, - disse Matt. - Sono cose che dobbiamo aspettarci. Non siamo ingenui. Gli errori sono inerenti al processo. Il vento cambia improvvisamente direzione e il fallout va dalla parte sbagliata. Oppure l'esplosione e l'onda d'urto sono più forti del previsto. - I placidi anni Cinquanta. Tutti vestivano e parlavano nello stesso modo. Era tutto cucine razionali, automobili e apparecchi tv. Dov'è il Pepsodent, mamma? C'eravamo anche noi, dunque lo sappiamo,
no? - Tu lo sai. Io no, - disse Matt. - C'eri anche tu. C'eravamo tutti e due. - Tu c'eri, io ero da qualche altra parte. - Papa è sul vialetto che lava la macchina. Nello stesso momento, da queste parti, disponevano le truppe nelle trincee per le esercitazioni della guerra nucleare. Con le palle di fuoco proprio sopra la testa. - Vuoi dire che le postazioni erano troppo vicine? - Questa è la storia che ho sentito. Ti guardi il braccio ed è trasparente. Praticamente, il braccio diventa una radiografia del braccio. Vedi dritto attraverso il tessuto dell'uniforme e la pelle, tanto è bianca la luce. Vedi il sangue, le vene e il resto. Ma non basta. Tutto questo lo vedi con gli occhi chiusi. Non devi aprirli. Vedi dritto attraverso le palpebre. Ah! - E' stato riconosciuto ufficialmente? - Ti svegli un giorno qualche anno dopo e tutti gli organi interni sono fusi. Un unico malloppo gelatinoso. - Ma gli uomini sono stati indennizzati? - Non lo so, - rispose Eric. - Questo, le tue voci non lo dicono. Eric infilò un dito nel puré di spinaci di Matt e artigliò un boccone informe portandoselo alla bocca. - A cosa serve una diceria sui dettagli burocratici? Il punto è questo, - disse. - E' successo alla luce del giorno ma continua a essere un grande segreto. Questa almeno è la storia. Alla quale, guarda caso, io non credo. Hanno fatto grossi lanci dalle torri, oppure hanno sganciato ordigni dagli aeroplani e messo le truppe troppo vicine all'esplosione lasciando che il fallout venisse soffiato verso lo Utah, dove i bambini nascono con la vescica retroflessa. Matt voleva farsi piacere Eric. Era un tipo intelligente, cordiale, carismatico, a modo suo, con la sua goffaggine e la statura eccessiva. Ma i moti introversi dei suoi sorrisi confondevano gli osservatori, cui spesso sfuggivano le sue motivazioni. Vedevi il gioco di ombre intorno alla bocca e ti domandavi se non ti stesse strumentalizzando. - Hai saputo di quella scuola non lontano da qui. Questa non è una diceria ma un fatto vero. Sono stato sul posto e l'ho vista. Si chiama Scuola Elementare e Rifugio Antiatomico Abo. Un posto vero, nel sottosuolo. - Proprio come noi. - Noi non siamo veri, - disse Eric. - Loro sono solo bambini di una scuola elementare. Hanno ancora la possibilita di essere veri. Mi hanno mandato la per parlargli. - In qualita di bombarolo. - Come membro giovane e presentabile del complesso militare industriale. Della serie diversivo per l'intervallo di ricreazione. - E cosa gli hai detto? - C'è un serbatoio d'acqua potabile ai margini della cittadina. Con la scritta “State Champs” in vernice fresca e luccicante. E file di casette ordinate. Poi arrivi alla scuola, ma fatichi a trovarla. Alcune strutture che assomigliano a roulotte, un paio di campi da pallacanestro. Finalmente individui un ingresso, apri la porta d'acciaio, scendi le scale e ti trovi in un ambiente con un sacco di
cemento e acciaio e una luce un po' strana e inquietante. Ci sono aule scolastiche, dormitori, cibo in scatola e l'obitorio. Neanche l'interruzione di una sola finestra. Ecco una delle caratteristiche. Perché non ci sono finestre, ovviamente. Ma il punto è. Qual è il punto, Matty? - Non lo so. Dimmelo tu. - Tutto questo l'hanno fatto per proteggere i ragazzi dalle bombe sovietiche, oppure dalle nostre bombe e dal nostro fallout radioattivo? - Non so. Da tutt'e due le cose. Cos'hai raccontato ai bambini? - Ho parlato in gergo, - disse Eric. - Insomma, te lo immagini? Trovarti in un locale sotterraneo al confine settentrionale di un grande deserto, con sistemi di filtraggio contro il fallout e un obitorio completamente attrezzato, e sopra la lavagna sono appesi disegni a pastello di porcellini e mucche? A proposito. - Cosa? - Ho una scacchiera nella mia stanza. Ti va una partita? Il Pocket era una di quelle piacevoli societa ermetiche che sostituiscono il mondo. Era il mondo reso personale e concretamente interessante, perché era quello che facevi tu e altri come te, e perché era chiuso in se stesso e autoreferenziale e si faceva tutto insieme in un luogo e in una lingua inaccessibili agli altri. Janet Urbaniak era la ragazza di Matt. Era un'infermiera diplomata. Il loro era un rapporto serio con alti e bassi, ma per lo più alti. Si scontravano spesso ma erano strettamente legati, il tipo di coppia predestinata, nati per incontrarsi e non andare d'accordo. Matt telefonava a Janet nei giorni in cui era libera e lei gli raccontava dov'era stata e cosa aveva visto o comperato, e con chi, e per quanto tempo, e lui la ascoltava, commentava e chiedeva altri particolari. Ora lavorava in un reparto di traumatologia. Raccontava a Matt dei turni di notte, ma lui non le diceva quasi niente del proprio lavoro e ovviamente lei capiva e non faceva domande. Janet telefonava due volte alla settimana alla madre di Matt per sapere come stava, poi chiamava Matt per ragguagliarlo e Matt telefonava a sua volta alla madre per avere conferma, per chiarire i particolari di un malessere o di un dolore. Gli piacevano queste telefonate, quelle che faceva e quelle che gli venivano riferite gli davano una vita fuori dal Pocket. Sulla jeep in prestito, passò accanto a una dimostrante, sola, che lottava per tenere diritta l'asta del cartello sotto il vento secco e forte che batteva la pianura. Avrebbe voluto fermarsi e parlarle. Stringerle la mano, fare quattro chiacchiere. Avrebbe voluto mostrarle la propria tolleranza, concedersi il lusso di lasciarsi convincere da alcuni dei suoi argomenti, ribadire alcune delle proprie incontestabili opinioni e poi accompagnarla nella stanza anonima dove viveva, alla periferia di questa o di quella citta, con vista parziale delle montagne, e fare sesso con dolcezza, con gemiti e reciproca tolleranza nel suo letto in disordine, ma rallentò appena, mentre le passava accanto. In seguito qualcuno gli disse che i dimostranti vivevano nella carcassa di un autobus scolastico sulle Sacramento Mountains. In un
certo senso la cosa gli piaceva. Gli piaceva l'idea di persone che si lasciavano tutto alle spalle per perseguire un ideale. Pensò a suor Edgar in sesta che parlava di santi nel deserto, di anacoreti, di stiliti, che montava sulla cattedra e incrociava le gambe sotto la tonaca, un santo nella posizione del loto su una colonna nel Sinai, e parlava alla classe a spizzichi di latino e di ebraico, e ricordò che la cosa gli piaceva - gli piaceva pensare a una banda di vagabondi chiamati da Dio che minacciavano i poligoni sperimentali e i silos dell'occidente. Faceva parte del motivo principale per cui era venuto qui. Per gli interrogativi e le sfide. Per la conoscenza di sé che avrebbe potuto trovare in una vita più severa, nell'imporsi volontariamente dei limiti. Hai fatto la tesi sull'energia solare? Hai fatto ricerche sulla fissione nucleare? Vai dal dentista ogni sei mesi per la profilassi e la pulizia dei denti? Sei un fisico che nutre rancori verso sua madre? Sei un ingegnere dei sistemi che si masturba in segreto mentre la moglie guarda una replica di The Honeymooners? Desideri pazzamente vedere un lancio da una torre con tutti gli effetti speciali, con il sole che sale alla rovescia e gli alberi che gettano l'ombra nella direzione sbagliata, lo spettacolo dell'atomo smaterializzato, la nuvola di condensazione che si dispone in una frazione di secondo sul disco dell'onda d'urto, proprio al centro, in posizione cerimoniale, e l'onda d'urto visibile che si avvicina, il vento biblico che trascina con sé salvia selvatica, sabbia, cappelli, gatti, pezzi d'auto, preservativi e serpenti velenosi, tutto che vola via nell'alba sul deserto? Eric continuava a insistere perché giocasse a scacchi. Ma lui non voleva giocare a scacchi. Non parlava dei suoi scacchi. I suoi scacchi erano una storia vecchia, oscura e difficile, soppressa per sempre. La storia di un homunculus degli scacchi. Nessuno sapeva dei suoi scacchi. Janet ne sapeva qualcosa, ma solo Janet e nessun altro eccetto sua madre, suo fratello e Mr. Bronzini, tra coloro che avrebbero potuto ricordare. - Non cogli il punto, - disse Eric sulla jeep. - Metti in giro voci a cui nemmeno credi. Ecco il punto, - disse Matt. - Dovettero organizzare dei blocchi stradali perché la nube si dirigeva verso zone abitate. Neuroblastomi. Ustioni beta. Agnelli a due teste. Oppure intere greggi di pecore morte nei campi. Oppure ti svegli una mattina e cominciano a caderti i denti, senza dolore e senza emorragie. Due o tre denti, diciamo. Espulsi delicatamente con appena un leggerissimo risucchio, disse Eric. E tu li avvolgi in una garza fredda bagnata, salti in macchina e vai allo studio del dentista fiducioso che riuscira a reimpiantarli perché si sa che i medici fanno cose stupefacenti con le parti del corpo recise. Oppure lui non li reimpianta, li manda a un laboratorio del nuovo centro medico dove hanno attrezzature così avanzate che possono sapere di più sul tuo conto con una semplice occhiata di quello che potresti riuscire a sapere tu se vivessi mille anni. Ma al primo semaforo rosso togli la garza dalla tasca e la apri per dare un'occhiata, disse Eric, e non trovi più nulla salvo un
mucchietto di polvere perché i tuoi denti sono andati in briciole. Queste strutture dure, robuste e affidabili, fatte per mordere e per masticare, per lacerare la carne. Queste cose che durano un milione di anni nelle mascelle degli uomini preistorici, nei crani che estraiamo dagli scavi e studiamo. Ridotti in polvere dentro una tasca in sei merdosi minuti. Telefonava a Janet e le parlava. Parlava e ascoltava. Più il discorso era insignificante, meglio si sentiva. Ascoltava con soddisfazione i dettagli della giornata di lei, i piccoli problemi che nel suo amore solitario gli sembravano argomenti degni di un testimone privilegiato. A volte Janet gli parlava del proprio lavoro, del turno di notte in traumatologia. Era molto concreta in queste cose, corpi che cadevano sul pavimento appena lavato, parenti che portavano a braccia la vittima di un accoltellamento o di una overdose, lo zio e la madre che reggevano l'uomo per la testa e per le gambe, con un grappolo di bambini piccoli accanto, due per braccio. Descriveva scene che assomigliavano ai quadri dei maestri europei, quelli che dipingevano miracoli e guerre. La forza di cui dava prova in queste circostanze la rendeva bella ai suoi occhi. Era una donna minuscola, erano ambedue piuttosto bassi di statura, e in più Janet era anche minuta e a Matt piaceva immaginarla in camice mentre infilava una mano nella cavita toracica di qualcuno ed estraeva un proiettile o un osso di pollo. La sua timidezza non nascondeva la forza d'animo e di volonta. Lui la vedeva e la sentiva spesso. Janet non gli dava requie quando voleva averla vinta. Matt pensava che erano entrambi troppo coscienziosi, purtroppo. Volevano una famiglia e volevano stare insieme ma venivano periodicamente sopraffatti dalla complessita dell'impresa, i programmi, i rischi, le citta, l'idea del matrimonio e dei figli, il lavoro e la difficolta di fare le cose per bene, e facevano accordi, trattavano e discutevano, programmavano e litigavano. Matt guardò le foto scattate dal Landsat un paio d'anni prima. Le immagini erano stampe a colori falsi che rivelavano segni di erosione del terreno, fratture geologiche e centinaia di diversi fenomeni e caratteristiche. Mostravano logorio e spostamenti e disastri industriali, miliardi di bit di dati convertiti in immagini. Vide come i sensori estraevano dalla terra significati nascosti. Capì come pennellate e chiazze di colori brillanti, come i toni fucsia del computer o le macchie Rorschach di sfumature senza nome indicassero un cambiamento di temperatura dell'acqua o il luogo dove i grizzly sempre più rari andavano a procurarsi il cibo e ad accoppiarsi. Osservava sottili secche di sabbia a fior d'acqua, che apparivano bianche come ossa calcinate. Trovò citta di una certa grandezza trasformate in pixel nelle pieghe dei monti e vide grandi laghi neri in alto tra le catene montuose, depressioni formate dallo spostamento dei ghiacciai. Non riusciva a smettere di guardare. I mosaici fotografici sembravano rivelare una seconda bellezza nel mondo, una bellezza solitamente invisibile, una traccia allucinatoria di precisione estatica. Ogni esplosione termica di colore era un'emozione complessa che non riusciva a identificare o a nominare.
E pensò alle vite all'interno delle case, incorporate nei dati di una strada fotografata dallo spazio. E questa è la prossima cosa che i sensori riveleranno, pensò. Le emozioni inespresse della gente nelle stanze. E poi inevitabilmente pensò a Nick. Molte volte aveva provato il desiderio di telefonare a suo fratello. Pensava che gli sarebbe piaciuto parlargli del lavoro che faceva. Sarebbe riuscito a comunicare a Nick il senso generale della situazione, a fargli sapere che il ragazzino faceva un lavoro importante, che però di quando in quando gli dava delle preoccupazioni. Un giorno, forse, si sarebbe trovato a montare un pacchetto di fisica, i componenti esplosivi di un ordigno nucleare - territorio dei bombaroli convinti. Matt non sapeva se sarebbe stato in grado di gestire la cosa da solo. Avrebbe potuto se necessario, e Janet l'avrebbe aiutato, lei avrebbe avuto una posizione chiara da contrapporre ai suoi dubbi, ma voleva discuterne con Nick. Voleva sentire la voce del fratello all'altro capo del filo, quei suoi accenti lievemente distorti che si portavano dietro, letteralmente, tutta una vita di associazioni. Nick possedeva una gravita di tipo europeo. Era modellato e rifatto. Prima disfatto, poi reinventato, rimodellato energicamente e rifatto. Era cupo e controllato a volte, restio a concedere qualcosa senza tornaconto, ma forse avrebbe dato al ragazzino qualche consiglio sugli aspetti etici e morali di questo genere di lavoro. Soprattutto, quello che Matt desiderava era una dimostrazione di interesse. Era più importante di un consiglio vero e proprio, di una raccomandazione o di un giudizio, ma voleva anche quello - un giudizio dalla voce del fratello. Non sapeva cosa avrebbe detto suo fratello. Avrebbe potuto dire è così che si diventa persone serie, tra domande difficili e scelte traumatiche, e se si tiene duro alla fine ci si ritrova più forti. Oppure, Scemo, che marchio lascera sulla tua anima tutto questo quando diventerai padre come me? Pensa al senso di colpa di allevare figli in un mondo come quello creato da te - il tuo talento consacrato a un fine così desolante. Poi a bassa voce. E chi meglio di me capisce il brivido delle armi, fratello? L'ultima osservazione però non l'avrebbe mai fatta, giusto? E Matt non fece la telefonata. Non si parlavano spesso, oppure parlavano della madre, o si irritavano a vicenda, regolarmente, ma forse l'avrebbe chiamato più avanti in caso avesse sentito di nuovo il bisogno di farlo. Quando soffiava dalle montagne, il vento rimodellava le dune, e se eri in superficie, fuori dal Pocket, seduto in casa con una birra e uno snack, vedevi il bucato steso dietro casa disporsi orizzontalmente, tutto quanto - lenzuola, fazzoletti, boxer, calzoni di pigiama, come persone di ogni taglia e forma che schioccavano sotto le raffiche e lasciavano volar via l'anima verso le colline di gesso. - Ma non è questo il punto, - disse Eric. - Co-co-continui a non cogliere il punto. Sulle montagne pioveva.
Eric aveva una finta balbuzie che gli piaceva infilare nella conversazione, un'abitudine che aveva sviluppato per prendere in giro se stesso o l'interlocutore anche se nessuno dei due balbettava, o forse imitava qualche comico da night club, oppure semplicemente un personaggio televisivo - Matt non avrebbe saputo dirlo. Guardò fuori da una finestra della casetta di Eric. La pioggia era un muro lucente e fumoso eretto tra contrafforti di arenaria. Eric era seduto su un divano ancora avvolto nella plastica del negozio tra una confusione di riviste scientifiche, mensili sugli Ufo, rotocalchi da supermercato, mezza dozzina di Playboy e resti di cibo. - Nonostante abbia coinvolto aree enormi esponendo alle radiazioni un gran numero di persone, fino a oggi questa storia è rimasta segretissima. - Così segreta che potrebbe anche non essere vera, - disse Matt. - Tu credi che sia vera? - Io credo che ci siano stati degli errori. La risposta divertì Eric. Il suo sorriso ombra apparve sull'estremita lontana del corpo scomposto sul divano. Andava e veniva, il sorriso, come una specie di dialogo interiore che Eric intratteneva con se stesso, e correva parallelo alle sue parole, come una sfuggente divagazione. - Ma il punto è, puro e semplice. - Qual è il punto, Eric? Eric prese una rivista e la sfogliò senza scopo apparente, parlando con un tono di leggera impazienza, ma soprattutto, ora che finalmente stava arrivando al dunque, un po' stanco e annoiato. - Il punto è che lo fecero deliberatamente, - disse. - Lo sapevano, che gli esperimenti non erano sicuri, ma decisero di farli comunque. Fecero marciare le truppe fino al punto zero dopo le esplosioni. Fecero passare degli aerei con l'equipaggio attraverso le nuvole radioattive. Fecero iniezioni di plutonio alle persone per seguirne il percorso all'interno del corpo. Lo fecero deliberatamente, senza avvertire la gente dei rischi che correva. Esposero i soldati al flash dell'esplosione atomica, e alcuni vennero dotati di filtri protettivi per gli occhi, altri no. Fecero esperimenti su bambini, lattanti, feti e sui malati di mente. Non dissero mai ai Navajo che lavoravano nelle miniere di uranio a quali pericoli andavano incontro. I pericoli erano considerevoli, come poi si è visto. Distrussero i testicoli dei detenuti. Fondamentalmente, ti prendevano per le palle e ti irroravano di raggi X. questa è la storia che ho sentito. Tu ci credi? - E' orribile. Non lo so. - Naturale. E' molto difficile crederci. Ecco perché non ci credo, - disse Eric. - Nemmeno per un decimo di secondo. Sulla pianura, il fronte della pioggia si avvicinò e il vento si fece più intenso. I poeti delle nazioni del deserto raccontavano storie sul vento. Si impenna e rotea, ti fa girare su te stesso e ti sbatte per terra. Ma parla anche in modo così sommesso che solo il tuo spirito interiore riesce a sentirlo, ed è in questo modo che si corregge il proprio cammino. Eric disse: - Non dissero mai ai soggetti degli esperimenti che erano delle ca, ca, ca. - Cavie. - Non ci credo, - disse Eric.- Ma forse tu la pensi diversamente. Matt non sapeva come la pensava. Ma non credeva che la storia fosse
del tutto inventata. Aveva prestato servizio in Vietnam, in definitiva, dove tutte le cose a cui non aveva mai creduto o che non era mai nemmeno riuscito a immaginare, alla fine si erano rivelate vere. Poi un giorno, Matt si fermò a parlarle, a parlare alla donna sola con lo striscione di protesta. Parcheggiò l'auto sul lato opposto della strada e le andò incontro. Lei teneva il sostegno tra le braccia, un'asta verticale di due metri e mezzo, mentre l'altra era piantata nel terreno con una pila di sassi intorno alla base, e lo striscione, un lenzuolo con la scritta in vernice spray, era teso e agitato dal vento. Matt si fermò e le parlò. Le parlò in tono rassicurante, normale e leggermente forzato, come un novellino nervoso in un bar per single. Notò che la donna aveva un polso legato all'asta con un lucchetto. Non se ne era mai reso conto in precedenza e la cosa gli sembrò, come dire, un po' melodrammatica. Oppure fanatica, irrazionale e vittimistica. Lei lo guardò brevemente, mentre parlava. Matt aveva concluso la parte facciamo-conoscenza e stava parlando della necessita di essere preparati e della follia di farsi illusioni sulle intenzioni della parte avversa. Non usò termini come americani e sovietici. In un certo qual modo sembravano provocatori. E nemmeno Nato, Europa, Blocco Orientale e Muro di Berlino. Era prematuro arrivare a un tale grado di intimita. Lei lo guardò per pochi istanti. Non era uno sguardo ostile, solo breve. Aveva un'aria tirata a lucido, come di superfici sfregate, di eliminazione delle normali secrezioni, e Matt pensò che portasse il marchio della poverta contadina. Le disse che l'equilibrio degli armamenti era necessario, anche quando i numeri diventavano assurdi, perché era l'unica salvaguardia apparente contro l'attacco di una delle due parti. La donna aveva la pelle chiara, chiazzata e coriacea, i capelli dritti come spaghi, e Matt pensò che fosse autentica, magnifica e irraggiungibile. Erano su un tratto di strada diritta, bella e solitaria, e lui pensò chi si dedicherebbe a un'impresa del genere, se non fosse fanatico? “La Terza guerra mondiale comincia qui”. Non era esattamente quello che lui voleva da questa gente, una sorta di esaltata testimonianza religiosa? Le disse che era assolutamente disposto ad ascoltarla. Lei rimase immobile, incatenata al palo, con gli occhi fissi su un punto imprecisato della strada. Lui non poteva disprezzare la sua arroganza perché la donna non era arrogante. Non era più intelligente o più sana o meno colpevole. Loro sono armati, le disse, quindi dobbiamo armarci anche noi. La donna si aggrappò al palo e fissò la strada con i suoi occhi azzurri e un cipiglio che ormai era un tratto innato, e Matt tornò al volante e se ne andò. Il bucato di Eric ballonzolava appeso alla corda. Era orizzontale e irrigidito dal vento. - Se ripenso al periodo della scatola coi guanti, - disse Eric. - A maneggiare quel plutonio bollente, devo ammettere che si commettevano errori anche nei confini ristretti della scatola. Te lo assicuro. Nonostante tutte le procedure di sicurezza e i tabulati e i supervisori, la gente continuava a fare errori stupefacenti. E io
infilavo le mani nei guanti e stranamente pensavo a mia madre, che era una signora iperprudente che metteva sempre i guanti di gomma per lavare i piatti della cena, ai tempi pacifici in cui bombardavamo la nostra gente. - Domani parto, - disse Matt. - Lasciami il tuo giubbotto quando te ne vai. Matt indossava sempre un giubbotto di pelle di vitello leggerissima, quel tipo di pelle morbida che prende e perde le pieghe solo a guardarla, ed Eric esprimeva spesso il desiderio di indossarlo, nonostante la taglia molto diversa. - Credo che me lo porterò dietro per le parti meno dure del viaggio. - Secondo i Sottovento il sapore è metallico. Apri la porta di casa, esci a prendere il giornale che il fattorino in bicicletta ha buttato sul portico e avverti una specie di sabbiolina metallica nell'aria, come sale fatto con trucioli di metallo. Vieni al nostro party, stasera? - Non me lo perderei mai, - rispose Matt. - Tuo figlio nasce con gli occhi di un bianco assoluto. Niente pupilla né iride. Solo un grande bulbo oculare bianco. Due, se sei fortunato. Eric prese Playboy dal divano e tenendolo per un lato srotolò il paginone centrale per vedere in tutta la lunghezza la ragazza del mese. - Dove vai esattamente? - chiese. - In qualche posto remoto. - Più remoto di questo? - Ho dato un'occhiata alle mappe. - Ma più remoto di questo? - Dove finiscono le strade asfaltate. - Sei un ragazzo di citta, Matty. - Avevo in mente il sudovest dell'Arizona, forse. - Voglio quel giubbotto, se muori. Quando i bombaroli organizzavano un party non ci si poteva aspettare di emergere nel mondo che si conosceva da sempre. E la storia della sera prima pareva aleggiare sul paesaggio, mentre Matty percorreva la Interstate 10 diretto a ovest, passando per una citta chiamata Deming, che era il cognome di Eric naturalmente. Com'era viscida la mano della coincidenza - Matt aveva la testa piena di volti, luoghi e osservazioni provocatorie. Aveva fumato qualcosa che lo aveva paralizzato, ma non solo nel senso di immobilizzarlo. Matt non usava droghe eccetto ai party, dove si adeguava all'andazzo generale, facendo un tiro da una pipa dal lungo bocchino con un grosso fornello di terracotta caricato di una sostanza erbacea. Ma la varieta che aveva fumato la sera prima o era un tipo di hashish stravolgente oppure roba standard spruzzata con qualche sostanza allucinogena. E non l'aveva solo immobilizzato. C'era qualcuno seduto davanti a lui che gli parlava in faccia con voce impastata e un ridicolo accento cinematografico che voleva essere prussiano. - Non si deve mai sottovalutare la disponibilita dello stato a realizzare le proprie gigantesche fantasie. Era Eric, naturalmente. Ma, anche se la capiva, questa cosa, Matt non riusciva a situarla nel contesto dei bombaroli e dei loro scherzi abituali. Perché non solo era immobile, ma non riusciva nemmeno a
pensare chiaramente. Si vedeva circondato da nemici. Non nemici ma collegamenti, una rete di cose e di persone. Non esattamente persone ma cifre - cose e cifre e livelli di conoscenza nei quali lui non riusciva assolutamente a penetrare. La tisponipilita tello stato. Non zi tefe mai sottofalutare la tisponipilita tello stato. Eric proseguì con quella sua stupida voce, parlando di blocchi di problemi e di soluzioni minimax, tutta la roba da kriegspiel che avevano studiato per il master, teoria dei giochi e modelli di conflitto, testa vinco io, croce perdi tu, mentre Matty stava lì, strafatto e completamente immobile. Era inchiodato alla poltrona, la mente incatenata e intrappolato dalla gravita, consapevole della natura della propria condizione ma incapace di trovare il modo di uscirne. Era piegato sotto il peso della stanza, diffidente verso tutto e tutti. Paranoico. Ora capiva il significato di quella parola che veniva usata così spesso, e avvertiva i contatti che venivano creati intorno a lui, tutti gli oggetti e i contorni delle cose e i livelli di conoscenza - non esattamente conoscenza - ma intenzioni insidiose. Ma neanche questo era esatto - si trattava di un significato più profondo che esisteva solo per impedirgli di capire di cosa si trattava. Ti realizzare le proprie cicantesche fantasie. Eric stava ancora parlando, e mescolava il suo drink con un dito. Il mattino dopo, mentre attraversava Deming, Matt pensò che forse l'accento non intendeva affatto essere prussiano, ma ungherese. Eric rivolgeva un omaggio ai bombaroli originari, tutti quegli emigrati dall'Europa centrale, uomini dalle sopracciglia folte con gli occhi tristi e i calzoni troppo larghi. Erano venuti per fare gli scienziati nel New Mexico durante la guerra, un improvviso germogliare di roulotte e di accampamenti, e mangiavano la sbobba locale, giocavano a poker una volta alla settimana, andavano alla quadriglia del sabato e lavoravano alla cosa senza nome, la bomba che avrebbe ridefinito i limiti della percezione e del terrore dell'uomo. Sedeva in poltrona e fissava le scarpe di qualcuno. Sapeva di non trovarsi in uno di quegli stati mentali superficiali ai quali la gente ama riferirsi quando dice di essere in paranoia. Non era roba di seconda mano. Questa condizione era autentica, profonda e vera. Era, a tutti gli effetti, una di quelle parole che usiamo per dire che c'è poco da scherzare. Era anche una condizione familiare, a modo suo, da mangiatore di radici paleolitico, un residuo dell'esperienza primitiva rimasto nel cervello del serpente. Studiò la scarpa sul piede di qualcuno accanto a lui. Era una scarpa Earth, uno di quegli articoli funzionali, pratici, non sexy, piatta e vagamente scandinava, la scarpa timida, androgina, controculturale, non pericolosa né per l'ambiente né per la specie, e Matt si chiese come mai avesse un'aria così sinistra. Ora Eric parlava balbettando. Matt non sapeva chi indossasse la scarpa. L'idea di collegare la scarpa alla persona che la indossava richiedeva uno sforzo smisurato, la difficolta e la complessita erano tali che non gli restava che chinare il capo sotto il peso della stanza. Forse la scarpa aveva un'aria minacciosa perché tutti i suoi significati, i collegamenti e i contorni erano al di la delle capacita di comprensione di Matt. E magari sembrava minacciosa perché era una scarpa sinistra, sul piede sinistro, e anche questo significava, sinistro - malevolo,
sfavorevole, minaccioso appunto - e la parola stava affermando le sue funeste radici, i suoi tuberi e germogli commestibili, valendosi di una scarpa qualunque. Eric era sempre lì, e parlava con voce normale, interrotta da attacchi di balbuzie. Sembrava trovarsi in un altro spazio temporale, in un'inquadratura tagliata e montata, con le parole in formato stop-start, e in posizione spesso alterata rispetto allo sfondo, e adesso ecco che ricompariva, sul cartello stradale per Deming, il suo nome sbucava fluttuando dall'alba tenue mentre Matt si dirigeva a ovest, addentrandosi nelle parti bianche della mappa, dove avrebbe cercato di trovare una soluzione al proprio futuro.
Capitolo terzo La statua nella nicchia di marmo aveva cosce e caviglie maschili e avambracci dalle fasce muscolari virili, ma in realta era l'Eva biblica, dai seni sodi, con una mela in mano e le spalle spioventi. E perché no. La serata aveva l'atmosfera leggermente dispersiva dell'avvenimento dai molteplici richiami e riferimenti. Klara si aggirava nell'imponente foyer tra i primi arrivati, e che brusio allegro producevano, uomini per lo più, il che era insolito. E che meraviglia le snelle e levigate geometrie e le superfici grigio piombo, gli specchi adorni di drappeggi e i lunghi lampadari, era un palazzo art deco, acciaio brunito e cromo, un'opera in perfetto stile da era delle macchine, di tono piuttosto raffinato, con l'eccezione dell'affresco. Alla folla nell'atrio l'affresco piaceva moltissimo. Un'enorme visione mistica, diciotto metri per dodici, con un tema tipo Orizzonte Perduto, in bella vista sopra lo scalone e inserito in una curva delicata così che i picchi montuosi irregolari del dipinto venivano catturati dagli specchi torreggianti, estendendo l'effetto incantato a quasi tutto l'atrio. Brume ambrate, un vecchio con il bastone, avvolto in un mantello, un gruppo di fenicotteri immobili nella luce rosata di un'alba montana, una visione che trasudava tanto di quel kitsch che si poteva morire solo comperando la cartolina. Sì, questo era il Radio City Music Hall, un posto che Klara non vedeva da quando aveva tredici anni, probabilmente, da circa un anno dopo che aveva aperto i battenti - la vetrina della nazione. Ricordava le pareti incombenti e lo scalone coperto da una guida. Ricordava il bagno delle signore, ecco cosa ricordava, al piano di sotto, nel grande salone. Osservò Miles Lightman farsi strada tra la gente, facendo un paio di piroette mentre si avvicinava, per vedere la scena a 360 gradi, con gli occhi sgranati. - Dove siamo, in una sala prove di Bloomingdale? - Siamo nel 1932, ecco dove siamo. - E' un po', non so come dire, un po', come si dice? - Jazz moderne, - disse Klara. - Non ci crederai, ma è la prima volta che vengo qui. Klara rimase sorpresa nel vedere che Miles si era vestito per l'occasione. L'avevano fatto in molti, e tra questi anche Miles, secondo i suoi standard, naturalmente. Indossava i soliti stivali scalcagnati e i jeans, ma aveva anche una camicia leopardata con
cravatta color senape e una giacca di velluto nero in stile edoardiano. Guardarono un uomo scendere dallo scalone, fingendo di ricevere una pugnalata mentre passava davanti all'affresco. Miles aveva un pacchetto di sigarette per Klara. Nell'attesa le diede ulteriori spiegazioni sull'evento. L'evento consisteva nella proiezione del leggendario film perduto di Sergej Ejzenªstejn intitolato Unterwelt, recentemente ritrovato nella Germania orientale, meticolosamente restaurato e portato a New York sotto l'egida dell'associazione cinematografica di cui Miles faceva parte, un colpo notevole per il gruppo. Dopo un certo periodo di manovre, lotte intestine e mercanteggiamenti, erano riusciti ad accordarsi con vari impresari rock per la sponsorizzazione comune di questa proiezione unica, con accompagnamento d'orchestra, in una sala capace di accomodare quasi seimila persone. - E la composizione del pubblico, come te la spieghi? - chiese Klara.- C'è una moltitudine di gay nell'atrio. - Credo che dovresti vedere il film e scoprirlo da te. Ti dico solo che è corsa voce, fin dal principio, che Ejzenªstejn abbia fatto un film con un soggetto forte e che il materiale girato sia rimasto nascosto per tutti questi decenni perché il soggetto in una certa misura tratta di gente che vive nell'ombra, e il governo, o i governi, la Rdt e i sovietici, hanno vietato il film fino a oggi. Probabilmente girato a meta degli anni Trenta, a varie riprese e in segreto, durante un periodo di acuta depressione di Ejzenªstejn. Palesemente inattivo all'epoca, stimolato dai colleghi sovietici ad abbandonare le sue teorie e le sue concezioni. Definito eccentrico, staccato dalla realta e dominato dal mito, accusato di incertezza politica e di non essere in contatto con il popolo. Girava voce che fosse stato giustiziato. Arrivò anche Esther Winship agitando la borsetta e dicendo: - Non ho nemmeno bisogno di vedere il film. Mi piace gia moltissimo. Questo atrio è una tale meraviglia. Avevo dimenticato che esisteva. Miles, sembri un misto di mod-and-rocker. - Dov'è Jack? - chiese Klara. - Dove potrebbe essere? E' la tua camicia, o la cravatta, a darmi le vertigini? - Grazie, Esther. - Sta bevendo qualcosa dietro l'angolo, - disse Esther a proposito di Jack. C'era un'ambivalenza che vitalizzava la folla. Qualunque predilezione sessuale uno avesse, era lì per gustare le contraddizioni. Bastava pensare al film e alla sala in cui veniva proiettato - l'opera di un affermato maestro del cinema mondiale proiettata nell'ambiente gay delle Rockettes e del possente Wurlitzer. Tuttavia un teatro di una certa maestosita, un posto mozzafiato, nonostante tutte le esagerazioni e le vanita, con placche di ottone smaltato alle pareti esterne e belle vetrine nella biglietteria e corrimano di bronzo nickel nel foyer, uno spazio che assomigliava al salone affondato e silenzioso di un transatlantico. Ed era difficile dimenticare che probabilmente il film era pieno di manierismi, per quanto serio potesse essere. Per lo meno, si sperava. Forse che Ivan il Terribile non conteneva scene così comicamente sovraccariche, nell'innegabile potenza del montaggio, da far ridere e trattenere il respiro più o meno simultaneamente?
- Praticamente fino a oggi nessuno l'ha visto, - disse Miles. L'hanno visto quattro del nostro gruppo, più una mezza dozzina tra sponsor e staff dirigenziale di questo teatro e basta, da questa parte della Cortina di Ferro. Miles conosceva Ejzenªstejn a menadito. Lo conosceva più di quanto non fosse umanamente salutare. Conosceva a memoria la sequenza della gradinata della Corazzata Pot‰mkin. La cadenza mortale degli stivali neri. Le giubbe bianche dei soldati. La madre che si porta debolmente la mano alla vita. Le ruote posteriori della carrozzina che girano uscendo dal quadro. Però nessuno pareva conoscere alcuni fatti di questo film. Dove era stato girato. Come era stato girato - ovviamente non aveva avuto appoggi ufficiali, e per qualche motivo non era stato usato il sonoro. Una teoria sosteneva che era stato girato in Messico. Secondo la stessa teoria, l'enorme quantita di pellicola girata apertamente da Ejzenªstejn per la sua epica messicana era la copertura di un'impresa sovversiva, e questo era tutto. - In realta, non ho visto una sola delle sue opere, - disse Esther.- Ma l'ho conosciuto, sai? Miles girò lentamente la testa e la guardò in faccia. - Hai conosciuto Ejzenªstejn? Uno sguardo che la rivalutava completamente. - E' stato solo un breve incontro. - Dove? - Qui. Ero giovanissima, ovviamente. A New York. Neanche vent'anni, mi pare. Posava per un ritratto e i miei genitori conoscevano il pittore, così andai con loro. - Dobbiamo parlare di questa storia, - disse Miles. - E' tutto quello che ho da dire, temo. Mi chiese di chiamarlo Sergej. - Che altro? - Lo vidi bere una quantita di latte. Disse che era la sua colazione. - Che altro? - chiese Miles. - In realta arrivò con il latte, in bottiglia. Gli procurai un bicchiere e lui mi ringraziò. - Che altro? L'altra cosa che nessuno sapeva era da dove venisse il titolo. Ejzenªstejn conosceva il tedesco e forse aveva un motivo per scegliere un titolo in quella lingua. Ma era più probabile che fosse stato dato al film durante il lungo riposo in un caveau di Berlino Est. - Sembrava un po' uno gnomo a quanto ricordo. - Che altro? - Testa grossa. Fronte molto alta. All'epoca vendevano il latte in bottiglia, ricordi? Diventò il film che bisognava vedere. Si diffuse una piacevole isteria, i biglietti passavano di mano per somme stupefacenti, apparvero biglietti falsi, la gente arrivava di corsa dal Vineyard, dai Pines, dal Cape per procurarsi un biglietto. Era solo un film, per l'amor del cielo, muto oltretutto, del quale probabilmente nessuno aveva mai sentito parlare fino a quando il Times non aveva pubblicato un articolo sul supplemento domenicale. Ma è così che un'aberrazione comportamentale, una volta messa in moto, si trasforma in frenetico fanatismo.
- Ma riusciremo a rimanere fino alla fine? - domandò Esther. Oppure è una di quelle cose per cui bisogna mostrarsi reverenti perché si è al cospetto del genio, mentre in realta si sta lì seduti decisissimi a infilare la porta e arrivare per primi ai taxi? - Stai pensando al teatro, - disse Miles. - Questo è cinema. Apparve Jack Marshall, marito di Esther, con l'alito che sapeva di noccioline. Entrarono in sala. Ora Klara ricordò, con improvvisa familiarita, la sensazione di lusso e conforto materno, era come la presenza protettiva di sua madre, quello spazio rasserenante, uterino e concavo, il modo in cui l'arco del proscenio si allargava verso il soffitto, circa sette piani al vertice, le file a raggiera di poltrone imbottite, le scalinate del coro che ammorbidivano le pareti laterali, l'eccesso di spazio accettabile, l'unica indulgenza in questo senso, che riduceva gli spettatori a dimensioni infantili, le teste che si alzavano e si giravano mentre un rinnovato senso di sorpresa e delizia aleggiava sulla folla, non ultimo tra le emozioni che il pubblico avrebbe condiviso quella sera. Si scoprì che lo spettacolo aveva un ritmo e un tema e che iniziava con le note di una musica di fondo, fuori scena, una pianola che suonava i familiari motivi ragtime che un tempo accompagnavano i film muti. Poi le luci in sala si spensero, il grande sipario meccanico salì lentamente e apparve l'intera orchestra. Un brusio tra il pubblico. Un attimo dopo che i musicisti avevano cominciato a suonare, l'intera unita cominciò a spostarsi, scivolando sul palchetto mobile verso il proscenio. Meravigliosamente buffo e divertente. La musica si caricò di suspense, una serie di accordi in calando, forse un attimo di attesa e di terrore - poi l'orchestra raggiunse il bordo del palcoscenico e i musicisti piombarono in modo piuttosto teatrale nella buca, scomparendo alla vista, calati giù come altrettanti buffoni in abito da sera, una manovra che rivelava una certa bravura farsesca, accolta dagli applausi. Invisibile ma non inudibile. Ora suonavano musica patriottica, un misto di marce familiari con rulli di tamburi e sousaphone, e il sipario calò a meta, ridisegnato in formato bandiera e decorato a stelle e strisce da proiettori colorati, e proprio mentre il pubblico cominciava a chiedersi cosa significasse, apparvero le Rockettes una sorpresa davvero gustosa - chi lo sapeva che ci sarebbe stato anche uno show teatrale vero e proprio? Indossavano l'uniforme grigia di West Point, ed entrarono in scena facendo il saluto militare, trentasei donne rifatte come pezzi intercambiabili, statura, corporatura, razza e tipo, con cappelli piumati, tettine merlettate e facce coperte da un cerone rosa shocking - ma non è strano che portino collari da schiave? salutando e sgambettando con simultaneita meccanica, e Klara pensò che erano a modo loro magnifiche, e lo stesso pensarono tutti gli altri. Scattarono in formazione serrata, danzando il tip tap in un profluvio di archi iridescenti, tutte simmetria ed esercitazione militare in file serrate, poi si aprirono a ventaglio con un'esplosione caleidoscopica, e Klara fece passare lungo la fila una domanda per Miles, che sedeva in fondo al gruppo. - Come facciamo a essere sicuri che siano davvero le Rockettes e non una troupe di imitatrici? E questa idea buffa parve diffondersi tra il pubblico, perché non era forse improbabile che le autentiche Rockettes indossassero
collari da schiave e che i loro numeri avessero un ritmo sessuale così pulsante? In realta non era affatto improbabile, anzi, probabilmente era quello che facevano sempre. Ma non si poteva esserne certi, no? E se erano le vere Rockettes, quello che si vedeva erano tre dozzine di donne che marciavano in file serrate come cadetti, oppure donne travestite da uomini e non il contrario - ma in entrambi i casi si trattava di un travestimento. Klara si rese conto che il sipario a bandiera era scomparso. E quando una telecamera riprese dall'alto un'immagine delle ballerine dal vivo e la proiettò sullo schermo di sfondo, capì, capirono tutti, come si possa cambiare la configurazione di una folla, come si possa costringerla a rispettare una geometria metodica, a formare nodi scorsoi e serpentine. E ovviamente era divertente, perché i passaggi erano impeccabilmente fluidi e precisi, così anni Trenta nei loro allineamenti dinamici, e non era proprio a quell'epoca che era stato girato il film? Le ballerine si sparpagliarono sul palcoscenico e con un solo abile movimento, come se sfoderassero una pistola, si tolsero i calzoni a strappo e si lanciarono in un finale di sgambettamenti con sfavillio di gambe che suscitò svariate ondate di applausi. Poi ruppero le righe e formarono una stella, chiaramente visibile nell'inquadratura proiettata sullo schermo che le sovrastava, dipinte di rosso acceso dalle luci della ribalta. Marciarono da ferme, mentre l'orchestra emergeva solennemente dalla buca e attaccava, che cosa - qualcosa di russo, pensò Klara. E com'era strano vedere una scena così, una stella rossa di tale pregnanza militare e politica, cadere proprio qui, il severo marchio dell'Unione Sovietica in un Music Hall, addirittura - pensate a tutti gli spettacoli pasquali e ai film di Lassie. Le ballerine erano immobili ora, il volto bianco, trafitte da raggi di luce proiettati da enormi riflettori montati in alto in fondo all'auditorium. Il sipario cominciò a calare, coprendo prima l'immagine video delle ballerine poi le ballerine stesse. La musica si fece lacrimosa e ricercata, poi il sipario salì di nuovo per rivelare il cinemascope sul quale troneggiava una sola parola Unterwelt, e alla fine i bordi laterali dello schermo concavo si ripiegarono per adeguarsi ai piccoli fotogrammi quasi quadrati dei vecchi film, e dalla cabina di proiezione partirono le immagini, rattoppate e chiazzate dall'eta. Ovviamente, all'inizio il film risultava strano, elusivo nei riferimenti, e pieno di apparizioni barocche. Era difficile adeguarsi ma non lo si sarebbe voluto in nessun modo diverso. Primi piani fin troppo compositi, gesti solenni, attori che si trascinavano dietro immense ombre ricurve e in ogni inquadratura qualche cosa da studiare, la posizione della macchina da presa, le forme e i piani e poi le immagini sovrapposte, il senso di contraddizione ritmica, era tutto spazi e volumi, era ritmo, massa e tensione. In Ejzenªstejn si nota che l'occhio della cinepresa propone una sorta di dialettica. Vengono sollevati e sostenuti argomenti, ci sono teorie che attraversano lo schermo solo per andare istantaneamente in frantumi - è tutto una contraddizione e un conflitto. Sembra di guardare un film su uno scienziato pazzo che attraversa l'inquadratura, vestito in bianco e nero ben definiti, indossa abiti sovrapposti e imbraccia un fucile a raggi atomici. Alcune figure
umane attraversano stanze spoglie in uno spazio sotterraneo imprecisato. Sono vittime o prigionieri, forse cavie di esperimenti. La rapida immagine del volto di un prigioniero rivela una brutta deformita che però è più divertente che traumatizzante. Ha la testa sbilenca, la mascella sfuggente e le labbra prominenti di un lombrico - ma un lombrico carico di pathos umano. In una scena al tempo stesso stravagante, sciocca, sbilanciata e tecnicamente straordinaria, lo scienziato spara con il fucile a raggi a una vittima, che comincia a baluginare nel buio, e tra sobbalzi e passi di danza si guarda distrattamente un braccio che svanisce pian piano sciogliendosi. Apparvero altre vittime, dall'ossatura e dalla muscolatura deformi, con fessure al posto degli occhi, barcollanti su moncherini di gambe. Klara pensò ai mostri prodotti dalle radiazioni nei film di fantascienza giapponesi e lanciò un'occhiata a Miles, che era uno studioso della forma. Ejzenªstejn aveva anticipato la minaccia nucleare, o il cinema giapponese? Klara pensò ai rettili preistorici che emergevano mutanti dal fango, e agli insetti con danni cromosomici che si trovavano nel deserto nei pressi di certi poligoni nucleari, formiche grandi come carrelli - questi erano i film da drive-in degli anni Cinquanta, quando ragazzi e ragazze si strappavano a vicenda lacci e cinture mentre sullo schermo si svolgeva la scena della bomba e all'orizzonte apparivano gli scorpioni e le sanguisughe giganti, tutti radioattivi e desiderosi di vendetta, e le folle in fuga, ovviamente, perché alla fine queste creature non solo erano frutto della bomba ma ne diffondevano anche gli effetti, e gli eserciti si mobilitavano, le folle fuggivano e le sirene ululavano come sirene. Le creature di Ejzenªstejn erano completamente umane e questo complicava il divertimento. Si ingobbivano e sgambettavano nell'oscurita, barcollavano curve trascinandosi sulle mani, e ci si può anche convincere che vada bene ridere di storpi e mutanti se tutti gli altri ridono, è un modo di scaricare il ribrezzo che si prova, e a essere ridicoli non erano solo i lineamenti contorti, i gesti elaborati e quel curioso effetto lucidalabbra sulla faccia degli attori maschi del film muto, ma anche la musica, piuttosto ridondante - brani di archi altamente melodrammatici. Ogni tanto una scritta, in russo, senza traduzione, non che importasse - in realta contribuiva a una sorta di capricciosa confusione totale. Jack disse: - Stai diventando claustrofobico per caso? Ed era vero, il film era talmente pregno del punto di vista dei prigionieri che Klara cominciava a sentirsi sulle spine. Jack disse: - Scommetto che daresti cento dollari per essere fuori sotto la pioggia a fumare una sigaretta. - Sta piovendo? - Cosa cambia? La trama era difficile da seguire. Non c'era una trama. Solo solitudine, vuoto, uomini braccati e abbattuti dai raggi, e il tutto accadeva in una spaccatura della terra chissa dove. Non c'era traccia della solidarieta interclassista tipica della tradizione sovietica. Niente scene di massa né senso delle motivazioni sociali - la massa come protagonista, colossali movimenti di folle organizzati e filmati con estrema cura, e Klara lo trovava deludente. Lei amava
l'architettura marziale di masse enormi in movimento, gli eserciti e le folle di altri film di Ejzenªstejn, e aveva la sensazione di trovarsi in un ambiguo paesaggio cinematografico a meta tra il modello sovietico e il paradiso a volta di Hollywood, fatto di amore, sesso, crimine ed eroismo individuale, un paradiso scenografico di lusso e sontuose toilette. Basterebbe pensare all'altro Underworld, un film di gangster del 1927 e un record di incassi. Esther disse: - Voglio essere indennizzata per questa sofferenza. Ammettilo, ti stai annoiando. Klara cercò di trarre un po' di incoraggiamento da Miles. Miles era in uno stato di rapita euforia, quell'abbandono totale al quale cedeva, grazie alla sua capacita di perdersi nella prospettiva e nella mente del film, completamente avvinto e affascinato - affascinato anche quando non gli piaceva quello che stava vedendo. Ma lei sapeva che il film gli piaceva davvero. Era remoto e frammentario e realizzato a basso costo, finanziato privatamente, con ogni probabilita, e aveva una certa suspense nonostante l'estenuante lentezza. Come e quando si sarebbe rivelato? Klara si chiese come mai il film fosse muto. Forse era stato girato prima di quanto non sostenessero gli esperti. D'altro canto, pensò, Ejzenªstejn aveva probabilmente calcolato che avrebbe avuto meno difficolta a girare un film in segreto rinunciando al sonoro. E magari il silenzio andava bene per lo sviluppo dei suoi temi. E la politica? Klara pensò che il film poteva essere una protesta contro il realismo socialista, contro le direttive del Partito di produrre arte utile al progresso della causa sovietica. Era una ribellione segreta, la sua? Era stato condannato per il suo lavoro precedente, secondo Miles, e apparentemente si era arreso. Ma cos'era questo film cupo, questo strano, oscuro e pesante insieme di immagini, se non una dichiarazione di rabbia e di indipendenza? O qualcosa di più. Infatti non sembrava forse anticipare la persecuzione degli artisti russi verso la fine degli anni Trenta? La polizia segreta. Gli arresti, la tortura, le sparizioni, le esecuzioni. Lo scienziato pazzo punta il fucile. Una figura in piedi contro il muro diventa di un bianco iridescente. Lo scienziato sorride a labbra strette. La vittima è trasfigurata, squassata dalla sofferenza, il labbro inferiore gli si stacca dal volto, sul collo si forma un bubbone, un melanoma da radiazioni che si rivelera maligno. Lo scienziato si avvicina e tocca l'uomo, delicatamente, sulla guancia. Improvvisamente lo schermo si oscurò. Un intervallo provvidenziale, di cui Klara pensò di approfittare per portare Esther a fare un giro dei bagni. Ce n'erano diversi, pensò, ai vari livelli, e tutti da vedere, con murali, sculture, mobili, oggetti che aveva ammirato attraverso gli occhi di sua madre, all'improvviso liberi nello spazio, indipendenti dalla memoria. Miles salì in una saletta di proiezione privata al terzo mezzanino per conferire con i colleghi. Le due donne lasciarono Jack in una poltrona nel salone in fondo alla scalinata, una zona coperta di moquette, lunga una sessantina di metri, e andarono alla toilette più vicina.
- Ho una domanda, - disse Esther. Klara accese una sigaretta. Esther, che aveva smesso di fumare, se ne fece dare una, l'accese, aspirò e poi guardò lontano per assaporare l'effetto, difenderlo da ogni distrazione. Udirono un rombo sommesso. Avvertirono un fremito sotto i piedi e Klara fissò la parete color pergamena, ascoltando attentamente. Tirò una boccata e disse: - Tutto a posto, amica mia. E' solo la metropolitana. I trasporti pubblici che avanzano sotto la Sesta Avenue con il loro carico di anime. Salirono ai mezzanini e sbirciarono dentro la sala da fumo degli uomini, tutta noce e pelle di cinghiale. Klara disse: - Allora, qual è la domanda? - Dobbiamo rimanere fino alla fine? - Miles si è dato parecchio da fare. E poi voglio vedere cosa succede. - Cosa vuoi che succeda? - Non lo so. Ma è un film interessante da vedere, una volta tanto. - C'è qualcosa riguardo al tono, - disse Esther. - La fotografia. Gli sguardi che si scambiano. E' tremendamente nebuloso, ovviamente. E il modo in cui lo scienziato. - Toccava la vittima. - Cosa sai tu di Ejzenªstejn? - Era amico tuo, non mio, - disse Klara. Fecero il giro delle toilette e tornarono nel salone da Jack, seduto sopra il rombo di un'altra corsa della metropolitana. Il treno era uno dei suoi, Moonman ne aveva una dozzina che correvano nella rete della metropolitana, a tutta birra, e per caso stasera si trovava su uno di questi, sotto le condutture dell'acqua e delle fogne, sotto il gas, il vapore e l'elettricita, tra i canali di drenaggio e i cavi telefonici, e a ogni fermata cambiava vettura e controllava le persone che salivano, con le loro facce da metropolitana, retrattili, e le porte facevano ding dong prima di chiudersi con uno schianto. Ismael Mu¤oz, scuro e cupo, guardava la gente salire a bordo. Ismael con qualche spunzone di barba che leggeva le labbra e le facce, sperando di cogliere un bravo. Ehi, questo ragazzo sta illuminando la linea. Questa era la sua ultima opera, e ora stava andando uptown sul locale di Washington Heights, ogni carrozza contrassegnata dal suo zoom al neon, con evidenziazioni, lettere sovrapposte ed effetto tridimensionale, quella cosa trasgressiva di fare del proprio nome e del proprio numero di casa una sorta di citta alfabeto dove i colori si bloccano e sanguinano e le lettere si collegano e pulsano di vita, saltano e strillano - anche le sbavature sono intenzionali, superdefinite, per mostrare come le lettere sudino, vivano e respirino e mangino e dormano, danzando e suonando il sax. L'opera non copriva la carrozza solo dai finestrini in giù, ma da cima a fondo. Copriva l'intero treno finestrini compresi, a lettere e numeri più alti di un uomo. Moonman 157. Ismael aveva sedici anni, né troppo vecchio né troppo giovane, ed era deciso a surclassare qualsiasi artista della metropolitana della citta. Nessuno poteva metterlo sotto.
Sedeva con la sua giacca militare, gli occhi sempre in movimento, in attesa che qualcuno dicesse qualcosa che gli desse soddisfazione. Sapeva che la sua fama stava crescendo. Ormai aveva degli imitatori, un paio di frocetti che cercavano di scalzarlo dal trono proprio nel suo territorio. Uno era stato beccato dalla squadra antivandalismo, e condannato a togliere i graffiti dai muri delle stazioni con un liquido a base di succo d'arancia perché nel succo d'arancia c'era un acido che mangiava la vernice. Gli sta bene, a quel chulo che mi copia lo stile. Rimase seduto, con quel volto piuttosto lungo e i denti storti, la faccia di un vecchio preoccupato, studiando a ogni fermata la gente sul marciapiede. Reagivano al treno, la bocca faceva wow. C'era anche chi guardava sgomento, vedeva l'inferno su ruote, ma nella maggior parte dei casi gli occhi dicevano sì e le facce si illuminavano. E studiò i passeggeri che salivano, alcuni con l'ombrello, altri con armi nascoste, e confezioni di chewing gum, numeri di telefono, Kleenex appallottolati e fazzoletti avvolti intorno alle chiavi di casa, tutto pigiato sui loro corpi mulatti, perché è in metropolitana che le razze si mescolano. Gli dava la sensazione di essere l'eroe in incognito della linea, viaggiare su un convoglio che aveva decorato da cima a fondo. Rivelandosi in uno splendore da cartoni animati. Ehi, c'è Moonman tra noi. Una volta un uomo sul marciapiede aveva fotografato uno dei da-cima-a-fondo di Moonman, uno straniero, a giudicare dall'aspetto, e Ismael si era accostato alla porta aperta per entrare nella foto, senza che l'uomo se ne accorgesse. L'uomo fotografava l'opera e l'autore, senza assolutamente saperlo, aveva l'aria di venire da un posto tipo la Svezia. Il senso della firma di Moonman era che lettere e numeri raccontavano la storia di una vita di strada. A Columbus Circle passò sul treno per Broadway perché aveva da fare al capolinea. Salì su un convoglio bombardato dentro e fuori da Skaty 8, uno scrittore tredicenne che firmava freneticamente auto della polizia, carri funebri, camion della spazzatura, portava i suoi colori Krylon satinati dentro i tunnel e firmava pareti e passerelle, marciapiedi, gradini, cancelli girevoli e panchine, avrebbe firmato anche tua sorella se gli capitava a tiro. Non era un re dello stile, diciamolo pure, ma era leggendario tra gli scrittori, per l'energia che ci metteva, riuscendo a mostrare il suo marchio a chissa quanti milioni di persone, e poi due settimane fa, e un autentico dispiacere colmò Ismael al ricordo del momento in cui gli avevano dato la notizia, si accasciò di nuovo al pensiero, provando un'intensa cameratesca tristezza - Skaty 8 era stato investito da un treno mentre camminava sui binari sotto il centro di Brooklyn. La gente si spostava lungo la vettura, si lasciava cadere su un sedile, guardava gli avvisi pubblicitari in alto sul lato opposto del corridoio, il tutto senza che gli occhi tradissero la benché minima reazione. Ismael aveva l'abitudine di camminare sui binari quando si sentiva triste. Ma quelli erano altri tempi. Trovava un tombino di emergenza sul marciapiede, si calava in un tunnel e così, come se andasse a fare una passeggiata, camminava da solo la sotto, tenendo d'occhio la terza rotaia, con l'orecchio teso al rumore del treno, e faceva conoscenza con la gente che viveva nei locali di cablaggio e sulle
passerelle, ed era lì sotto, sotto l'Ottava Avenue, che, forse cinque anni prima, aveva visto, scarabocchiata a vernice, una scritta. Bird Lives. La cosa lo aveva fatto riflettere sui graffiti, su chi si sbatteva e rischiava tanto per scendere nel tunnel a schiaffare una scritta sul muro, e quanti anni erano passati da allora, e chi è Bird, e perché è vivo? E il tizio che andava in giro tendendo la mano e dicendo scusi prego. Arrivò ai confini di Manhattan, diretto al Bronx. Non si faceva arte bombardando marciapiedi e muri. Bisogna firmare i treni. I treni arrivano rombando dalle gallerie, tutti uguali, ne becchi uno e quello diventa tuo, visibile su tutta la rete, così entri nella testa della gente e gli vandalizzi i bulbi oculari. Le porte fecero ding dong prima di chiudersi con uno schianto. Vide un nero magrolino all'altro capo della vettura, con l'aria noncurante di chi ha inventato l'atteggiamento cool, e pensò che fosse un poliziotto in borghese. Questo lo indusse a mantenere un basso profilo nell'atteggiamento mentale, a sforzarsi di passare inosservato sul sedile, perché era convinto che stessero per beccarlo. Il comune aveva organizzato una campagna per spazzare via i graffiti una volta per tutte, per eliminare le bande dei ghetti e i ragazzi bianchi della classe media che si erano messi a imitarle, e gli scrittori dello spray stavano attenti e lavoravano sul sicuro. Ismael non temeva l'arresto, ma solo le complicazioni che ne sarebbero derivate. L'arresto avrebbe contribuito alla sua notorieta. Magari gli avrebbe fruttato un articolo sul Post. D'altra parte però, la questione della famiglia cominciava a contare. Non è che lui non volesse essere padre. Gli piaceva l'idea di paternita e famiglia. Ma c'erano tante altre cose da fare prima. Quando percorreva le gallerie da ragazzino, chiedeva sempre chi era Bird e alla fine era venuto a sapere che era Charlie Parker. Un gigante del jazz. A quei tempi si fermava a chiacchierare con gli uomini che vivevano sulle passerelle e nel tunnel fuori uso sotto il West Side, gente che aveva letti, sedie e carrelli del supermercato e la sera si metteva in pantofole, gente comune per lo più, che lavava i piatti e portava fuori la spazzatura, ed erano stati loro a parlargli di bop, bebop e di come Bird fosse morto a trentaquattro anni. Poi un bel giorno Ismael, a tredici anni, sta facendo un goccio contro il muro, ed ecco arrivare un tizio che gli si mette dietro, e, ci crediate o no, scusandosi, gli prende in mano l'uccello mentre piscia. Morto a trentaquattro anni, quello era Bird - un'eta che nei tunnel era gia vecchiaia avanzata. Ismael sapeva che stava diventando famoso, innanzitutto perché aveva degli imitatori, poi perché gli altri scrittori lo rispettavano e non imbrattavano il suo lavoro, salvo alcuni, e infine perché due donne erano venute a cercarlo nel Bronx. Ma bisogna sapere che in quel particolare momento la sua mente ragionava così. Sta' bello schiscio e non farti vedere. Attento che il tuo nome e la tua faccia non finiscano sui giornali. Non inguaiarti con la polizia dei trasporti pubblici. Perché la donna con cui era stato per un po' era incinta da capo a piedi. Quando vivevano insieme, stavano a casa della madre di lei e del suo uomo del momento, e non è che Ismael Mu¤oz non voglia diventare padre. E' solo che non è il momento di farsi coinvolgere di persona.
Ismael era venuto a sapere che le due donne delle gallerie d'arte avevano fatto il giro dei negozi. Erano andate nelle bodegas, alla chiesa, alla stazione dei pompieri, e le immaginò entrare nella stazione dei pompieri e fare domande sui graffiti a venti uomini in stivaloni di gomma intenti a mangiare pizza capricciosa. Seduto sul treno per Broadway ascoltava i ragionamenti della sua mente. La gente delle gallerie d'arte era sguinzagliata per tutto il Bronx alla ricerca di Moonman, di Momzo Top, di Snak-Bar e Rimester e dell'intera squadra dei Voodoo. Lascia perdere, bello. Non gli era difficile immaginare una situazione per cui tutta la storia delle gallerie d'arte si rivelava una trappola della polizia per attirare gli scrittori fuori dai tunnel e dai depositi delle carrozze, farli uscire allo scoperto e identificarli per nome e per faccia. L'uomo gli aveva preso in mano l'uccello e alla fine, a un certo punto, forse un paio di giorni, o di settimane dopo, gliel'aveva succhiato, ecco la prestazione in cui si era prodotto. E dopo quella volta, Ismael era sceso laggiù, autocommiserandosi, piuttosto spesso, passando attraverso una recinzione vicino alla West Side Highway e poi in un varco nella grata di un'uscita di emergenza per scendere gli stretti gradini che portavano al tunnel in disuso, dove avevano scaffali per i libri, alcuni di loro, e addobbi natalizi, e usavano mezzi nomi e nomi in codice, firme come quelle che gli scrittori avrebbero sviluppato in seguito, e la verita è che lui continua a scendere laggiù per far sesso con gli uomini perché certe abitudini si abbandonano e certe altre cominciano a prendere piede. Il treno superò il City College poi piegò a est. Lo facevano alla disperata, una botta e via, al buio. Oppure andavano in un locale di cablaggio e lo facevano con tanto di lenzuola e asciugamani. Tenevano animali domestici laggiù, tendevano i fili del bucato attraverso il tunnel e rubavano l'elettricita al governo. Bop, bebop. E Bird era morto a trentaquattro anni. E lui se ne stava lì seduto, scomposto nella sua tenuta militare, a guardarsi i piedi, lanciando occhiate ai piedi di fronte, tutte le scarpe segnate e grinzose che non sembravano cose che la gente comperava e indossava, ma pezzi permanenti, parti del corpo, inseparabili dagli uomini e dalle donne seduti lì, perché la metropolitana ti sigilla durevolmente nella pietra del momento. Il treno entrò nel Bronx e Ismael scese quattro fermate dopo, al capolinea, dove la sua squadra lo aspettava fiduciosa. Erano tre, eta dodici, undici e dodici, e avevano passato la giornata a sgraffignare vernice nei negozi di ferramenta, un passatempo, quei furtarelli, che Ismael aveva lasciato perdere ormai da un bel po'. Salirono la ripida collinetta nella Duecentoquarantaduesima strada. - E la pioggia? - chiese Ismael. - Niente pioggia, - risposero gli altri. - E' tutto il giorno che parlano di pioggia alla radio. Mi sa che non si lavora stanotte. Dieci a uno. - Niente pioggia, - dissero gli altri. - Due, tre gocce. Tenevano le bombolette di vernice spray dentro tre sacche da ginnastica e gli schizzi di Ismael in un album da disegno. Avevano pesche e uva dentro un sacchetto di carta infilato in una borsa di
plastica. Avevano l'acqua minerale francese che a lui piaceva bere mentre lavorava, prelevata anche questa durante le scorribande della giornata, Perrier, dentro graziose bottiglie verdi. Ismael ci teneva a procacciarsi il meglio ogni volta che se ne presentava l'occasione. Avevano gli ugelli per le bombolette spray. Avevano i passepartout per aprire le vetture in caso gli fosse venuta voglia di lavorare all'interno, cosa che al momento non gli andava. La sua squadra era composta da apprendisti speranzosi, ovviamente. Scrittori del futuro. Assistevano il maestro. Gli facevano da palo mentre dipingeva. Formavano uno sgabello incrociando le braccia per sostenerlo quando doveva raggiungere la parte superiore di una vettura. Una rete metallica sormontata da filo spinato correva lungo la via. La squadra si fermò all'estremita ovest, dove un pezzo di rete era gia stato tagliato, il buco nascosto da edera orticante. Tennero scostata la rete e Ismael passò saltando direttamente sul tetto adiacente. C'era una serie di magazzini con i tetti dentellati. Andarono sull'ultimo tetto e scivolarono lungo i tubi di gronda fin sulla piattaforma di legno a livello dei binari, cosa che ormai sapevano fare a occhi chiusi, e cominciarono a guardarsi intorno alla ricerca di un treno da firmare. Sapevano con un certo anticipo che non avrebbero avuto fastidi. C'erano troppi treni e troppi scrittori. La citta non poteva permettersi i sorveglianti necessari a pattugliare i depositi e i binari di raccordo per tutta la notte. Videro Rimester vicino a un pilone della luce, uno degli scrittori più anziani, un nero che portava uno zuccotto, e dipingeva le carrozze dai finestrini in giù, graffiti assolutamente stupefacenti, Ismael doveva ammetterlo - lettere decorate con poesie d'amore e sentimenti spezzacuore. Esternarono il rispetto reciproco con il cerimoniale dei saluti, fatto di complicate strette di mano ed espressioni fiorite, parlarono del più e del meno, e infine Rimester raccontò di aver visto sei delle sue carrozze finire sotto il bagno di acido nel grande piazzale più a sud, a circa un miglio e mezzo da lì. Fanno passare le carrozze sotto gli spruzzatori installati sopra i binari. E tutta quella faticaccia gratuita, quella frenesia spray delle due del mattino, viene spazzata via in pochi minuti. Altro che succo di arancia, amico. Era quello il nuovo killer dei graffiti, una merdosa sostanza chimica procurata dalla Cia. E' come quando fai cadere una foto da uno scaffale e muore una persona. Solo che questa volta nella foto ci sei tu. Ecco quello che provavano alcuni scrittori nei confronti delle loro firme. Nel deposito c'erano una dozzina di binari e Ismael e la sua squadra andarono all'estremita opposta, all'ultimo binario, che dava sul campo dove gli irlandesi giocavano a football irlandese. Scelsero una base, cioè un vecchio treno con la superficie adatta alla pittura, molto meglio delle carrozzerie di profilato che cominciavano ad arrivare sul mercato. La squadra preparò i colori e Ismael si mise al lavoro. Cominciò con un giallo Rustoleum, tipo canarino pazzo, e la squadra fissò ugelli differenti alla bomboletta per consentirgli di variare lo spessore e la portata degli spruzzi. - Abbiamo visto Lourdes, - gli dissero.
Lourdes era la donna con cui Ismael aveva vissuto per un po', più vecchia di lui di circa due anni, e adesso più pesante di circa dieci chili. - E chi se ne frega di chi avete visto? - Dice che ti vuole parlare. - Maric¢n, chi vi ha chiesto niente? Ismael si arrabbiava di rado. Non era un ragazzo astioso. Aveva la mente riflessiva di un anziano del barrio, che gioca a domino sotto un tendalino mentre i camion dei pompieri stazionano poco più in la, ma se i ragazzi della squadra si aspettavano di riempire i contorni dopo che lui aveva messo giù lo stile e sfumato i colori, dovevano prima imparare le regole del gioco. - Allora, dov'è la mia Perrier? Se volete lavorare con Ismael Mu¤oz, dategli la sua Perrier e dimenticate i messaggi da parte di chiunque. Lavorarono tutta la notte senza discorsi inutili. Loro gli porgevano le bombolette spray. Prima di dargliele, le agitavano, e lo scatto metallico della sfera dell'aerosol era praticamente l'unico rumore nel deposito, eccettuato quello dello spruzzo stesso, il sibilo liquido della vernice che si spargeva sulle vecchie fiancate di ferro del convoglio. Il tizio che andava in giro tendendo la mano e dicendo scusi prego. Moonman 157. Se sommi le cifre ottieni tredici. Ma quella è la strada dove lui vive, o viveva, adesso vive in un sacco di posti, per cui il 13 fa giustamente parte della sua firma, è il suo marchio di riconoscimento, e la sfortuna è un ego trip su cui puoi contare, pensa a un treno che esce dai tunnel e viaggia sulla sopraelevata pensa alla tua firma alla luce del giorno che fila sopra i terreni bruciacchiati dove sei nato e cresciuto. La squadra agitò le bombolette e la pallina fece clic. Ismael si fermò sulla porta di una carrozza, si sporse verso il convoglio adiacente e lo firmò dai finestrini al tetto. Scendeva la scaletta d'ardesia che si sbriciolava sotto il suo peso, le dita sul tubo arrugginito che faceva da corrimano, e avvertiva l'umore del tunnel in un dato giorno. Poteva essere un umore da coca, Ismael non si drogava, o un umore da anfetamina, a viaggiare nel tunnel, qualcuno ne aveva comprata un po' e la divideva, o un umore da malattia mentale, il che capitava spesso. E sempre un umore da topo di fogna, perché ce n'erano a centinaia, un'inesauribile fonte di storie, le dimensioni, l'impavida audacia, il fatto che mangiassero i cadaveri di quelli che morivano nei tunnel, il fatto che a loro volta venissero mangiati dall'uomo ratto al sesto livello sotto la Grand Central, che uccideva, cucinava e mangiava un topo alla settimana - conigli di rotaia, li chiamavano. In altri termini, per muralizzare un convoglio ci vogliono una notte intera e una parte della notte successiva, senza perdere tempo in cazzeggi. E un umore personale e preciso nella testa giorno dopo giorno, da non rivelare a nessuno al livello stradale, e andare a dormire nel letto di un cugino di notte o nel magazzino di qualche bodega dove conoscevano Ismael Mu¤oz e gli davano un posto decente, e sentire le porte che facevano ding dong e vedere l'uomo di Stoccolma, Svezia, che fotografava le sue opere. Gli piaceva osservare gli occhi della gente sul marciapiede per vedere come reagivano al suo lavoro.
Le sue lettere e le sue cifre raccontavano una storia di vita di ghetto, di casa popolare, buona e cattiva ma più che altro buona. Le verticali della lettera N potevano essere due spacciatori che facevano la guardia a una partita di crack, un lungo mucchio di cristalli disposto in diagonale, oppure scolarette sullo scivolo di un campo da gioco, o una coppia di minuscoli giocatori di baseball con la mazza per traverso. Nessuno poteva detronizzarlo. Era il re di tutti gli artisti della citta. I ragazzi avevano gia dozzine di bombolette pronte per l'uso, secondo un ordine prestabilito, e quando Ismael chiedeva un colore, agitavano la bomboletta e la sfera faceva clic. - Dov'è la mia Perrier? - chiese il capo. Ma bisogna stare su un marciapiede e vederlo arrivare, altrimenti non si può capire la sensazione dello scrittore, bisogna vederlo, il convoglio numero 5, arrivare rombando lungo i vicoli dei ratti e sbucare fuori dal tunnel passando come una ventata sui binari sopraelevati, e all'improvviso eccolo, Moonman, eccolo sfrecciare in cielo nel cuore del Bronx, sopra l'intero territorio bruciato e arrugginito, e questa è l'arte di cui si parla nei vicoli, fin dai tempi di Bird, e voi non potete più non vederci, non potete non sapere chi siamo, ormai abbiamo una notorieta totale, Momzo Tops e Rimester e io, abbiamo la fama e non più la vergogna, e il treno passa sferragliando sulle strade piene di spazzatura e passa davanti alle finestre cieche di tutti quei caseggiati vuoti ma abitati anche se non si vede nessuno, ma dovete vedere le nostre firme e i fumetti e le poesie luminose e in rima, questa è l'arte che non può stare ferma, che ti attraversa i bulbi oculari giorno e notte, l'arte guizzante degli slum e delle discariche, che ti fa lampeggiare quei colori in faccia - tipo sono io il tuo film, rotto in culo. Uscirono incanalati dalla lobby, percorsero i corridoi e trovarono le loro poltrone, l'aspettativa dell'inizio serata ormai ampiamente esaurita, e si sistemarono in fretta, tutti praticita, mentre cominciava il secondo tempo. Klara si guardò intorno cercando Miles. Miles però non si vedeva. Evidentemente aveva avvertito l'impazienza dei suoi ospiti e aveva deciso di rimanere con i cineasti nel salottino privato di sopra. - Significa forse che non siamo degni? - chiese Esther. A quanto pare si assiste a una fuga. Figure umane che risalgono le gallerie per sbucare in una buia notte di pioggia. Una lunga scena di figure appena delineate con occasionali primi piani, occhi che scrutano il buio. Poi un riflettore attraversò la buca dell'orchestra per fermarsi su un sipario laterale lungo la parete nord, leggermente rialzato rispetto al palcoscenico, e staccato di qualche metro. Il pubblico capì che cosa avrebbe visto mezzo secondo prima di vederlo e la cosa migliorò decisamente l'umore generale. Il sipario si aprì e la console a ferro di cavallo dell'ultimo grande organo teatrale di New York, il possente Wurlitzer, apparve in un'inquadratura luminosa nella sala buia. L'organista era un uomo minuto, bianco di capelli, che sembrava fluttuare nella nicchia, la schiena rivolta al pubblico, un po' stregonesco nella sua stessa piccolezza. Premette il pedale dei bassi proprio mentre una figura sullo schermo si ritraeva per evitare un
pericolo che la sovrastava e il pubblico scoppiò in una risata. I prigionieri continuarono la loro faticosa salita, avanzando in lugubri file serrate. L'organista produsse una sequenza di note stranamente familiari. Il tipo di musica che ti riporta alla radio accanto al letto, agli odori della cucina e all'increspatura del linoleum vicino alla ghiacciaia. Era una marcia, briosa è l'aggettivo giusto, che faceva da ironico contrappunto alle figure in primo piano sullo schermo, figure che salivano arrancando con automatica acquiescenza, e Klara sentiva la musica nella pelle, ne sentiva praticamente il sapore sulla lingua, ma non riusciva a ricordare il nome del brano o a riconoscere il compositore. Diede un colpetto sul braccio al vecchio Jack. - Che cosa sta suonando? - Prokof§ev. - Prokof§ev. Naturalmente. Prokof§ev ha fatto colonne sonore per Ejzenªstejn. Lo sapevo. Ma cos'è questa marcia? - E' quel pezzo delle Tre Arance o come diavolo si chiamavano. L'avrai sentito mille volte. - Naturalmente, sì. Ma perché l'ho sentito mille volte? - Perché era la sigla di un vecchio spettacolo radiofonico. Offerto dal sapone Lava. Te lo ricordi il sapone Lava? - Sì, sì, naturalmente. E Jack intonò in sintonia sacramentale con l'organo. - Elle-aa-vi-aa. Elle-aa-vi-aa. - Naturalmente, sì. Adesso mi è del tutto chiaro. Ma non ricordo il programma, - disse Klara. E Jack continuò a canticchiare, perché si stava divertendo un mondo a questa trovata, e come lui anche il resto del pubblico, gli occhi che passavano dallo schermo alla console e le menti concentrate sui ricordi radiofonici, quelle dei più vecchi almeno, e da qualche parte nel retroscena, in una dozzina di abitacoli, le enormi canne dell'organo generavano i toni - canne, mantici, valvole e ugelli che riportavano questa musica memorabile, presa a prestito da un'opera russa, in patria e nel passato. E Jack smise di canticchiare per adottare il tono declamatorio dell'annunciatore consumato che presenta lo spettacolo. - “L'Fbi in Guerra e Pace”, - annunciò con voce sonora. Era piacevole avere degli amici. Klara adesso ricordava tutto. I bambini dei vicini ascoltavano regolarmente la trasmissione verso la fine della guerra, e le sembrava quasi di sentire la voce dell'attore che impersonava l'agente speciale dell'Fbi. Il sipario si chiuse sull'organista proprio mentre appariva il sole. - Finalmente, - disse Esther. Sì, il film è risalito in superficie, in un paesaggio sconvolto dalla luce, dilagante e sovraesposta. Gli evasi si muovono su un terreno pianeggiante, alcuni incappucciati, i più sfigurati, e si vedono fuochi in lontananza, la linea dell'orizzonte pulsa di fuoco e di cenere. Chissa se le ha girate in Messico, queste scene, o forse in Kazakistan, come quelle di Ivan il Terribile, successivamente, durante la guerra. Molti campi lunghi, cielo e pianura, inframezzati da figure in primo piano, teste e torsi che affollano il paesaggio, proprio quell'eccesso di formalismo che aveva messo il regista in contrasto
con l'apparato. L'orchestra era in versione invisibile, nascosta da qualche parte nella buca, e inizialmente suonò con delicatezza, un motivo dolce in contrasto con la forza delle immagini. Ed ecco che le vittime abbassano i cappucci. Un ciclope. Un uomo con la mascella sbilenca. Un uomo lucertola. Una donna con un brandello di pelle al posto del naso e della bocca. Una serie di eloquenti passaggi musicali riempie la sala. Il pubblico si concentrò. Ora si vedevano le cose in modo diverso. Se esisteva una politica del montaggio, qui era più intima - i temi non erano quelli delle radiazioni atomiche o della scienza irresponsabile e nemmeno del terrore di stato, l'artista indipendente irregimentato e sovietizzato. Quelle facce deformi, quelle persone, esistevano al di fuori della nazionalita e del contesto storico contingente. Il metodo di caratterizzazione immediata di Ejzenªstejn, qui si rivelava come una parodia intenzionale di se stesso. Poiché le caratteristiche esteriori di uomini e donne non raccontavano nulla della loro classe o del loro ruolo sociale. Erano persone perseguitate e deteriorate, questa era la loro tipologia - erano uno scomodo segreto della societa circostante. Ora c'è un gruppo all'inseguimento, uomini a cavallo sparpagliati sulla pianura. Catturano alcuni dei fuggitivi, li mettono in ceppi e li fanno marciare a passo cadenzato in tristi file serrate, in stanche versioni distratte delle coreografie da rivista, e Klara capì retrospettivamente che le Rockettes avevano prefigurato la scena, solo che adesso non era più divertente. Poi gli aguzzini scoprono il volto di quelli ancora incappucciati, e le inquadrature si susseguono con un ritmo preciso, campo lungo e primo piano, paesaggio e faccia, ondate di ripetizione ipnotica, e la musica racconta una sorta di destino, un fato brutale che si ripete al cupo rullo dei tamburi di decennio in decennio. Klara era commossa dalla bellezza e dalla durezza della scena. Si intuiva la complessita del personaggio emergere da ogni scappucciamento, tutta una vita negli occhi, un fitto intreccio di esperienze, e una sorta di intesa parve serpeggiare tra il pubblico, trasmessa fila per fila dalla misteriosa telemetria delle folle. Neppure tanto misteriosa, forse. Questo è un film che parla di Noi e di Loro, non è vero? Loro possono dire chi sono, tu devi mentire. Loro controllano il linguaggio, tu devi improvvisare e dissimulare. Loro fissano i limiti della tua esistenza. E l'ambigua stravaganza di alcuni elementi del programma, la coreografia e parte della musica, ora tendevano ad assomigliare a sottili attacchi alla cultura dominante. Cerchi di immaginare Ejzenªstejn nel sottobosco della Berlino bisessuale, quarantacinque anni fa, con il suo testone rotondo e gli arti un po' rachitici, i capelli che gli spuntano sulla testa a ciuffi da clown, un uomo con scrupoli borghesi e il dono della sublimazione, ed eccolo al Kit Kat o al Bow Wow, sordide cantine surriscaldate, impensabili a Mosca, a scambiare pettegolezzi hollywoodiani con i travestiti. Mi piace moltissimo Judy Garland, aveva detto Ejzenªstejn una volta. Ma tu non vuoi sembrare troppo saccente, no? Quell'uomo era una dinamo di idee e progetti ambiziosi ma non risulta che avesse una
chiara propensione sessuale verso uomini o donne. Guardate le figure in campo lungo sulla linea bassa e fumosa della pianura. Tutto quello che Ejzenªstejn vuole farti capire, alla fine, sono le contraddizioni dell'essere. Guardi le facce sullo schermo e vedi desideri mutilati, le divisioni interne di persone e di sistemi, il modo in cui le forze si contrappongono e si fondono, provocando quell'allontanamento dalla norma che marchia per sempre una cosa. Ti rendi conto che l'orchestra tace da un po'. Dopo essersi tolti tutti i cappucci, i membri della spedizione arrancano a passi interminabilmente cadenzati, inseguiti da cani sfiancati dagli occhi lacrimosi. Poi ecco di nuovo la melodia, la marcia familiare di Prokof§ev, e a eseguirla adesso non è più l'organo finto-eroico ma l'intera orchestra, e il tono è molto diverso, non ha più niente della divertente reminiscenza della trasmissione radiofonica, è tutto vigilanza e repressione, l'Fbi in guerra e pace e giorno e notte, la tua schiera personale di colletti bianchi della legge. La marcia durò solo un minuto e mezzo ma com'era fosca e potente, che senso di fatalita negli ottoni, poi ci fu un lungo silenzio a schermo bianco e infine un volto che si trasfigurava in una serie di inquadrature sovrapposte, perdendo gozzi e piaghe, aprendo un occhio cucito, ed era orribile e disgustoso, d'accordo, ma anche meraviglioso, una sequenza estranea all'azione del film, un desiderio preciso e visibile che ti collegava direttamente al concetto alla base del film, e l'uomo nasconde i suoi segni e le sue cicatrici e sembra ringiovanire, poi il viso comincia a impallidire fino a dissolversi nel paesaggio. L'orchestra cominciò a risalire dalla buca e ora la musica era ªsostakoviªc, su questo non hai alcun dubbio, così ariosa e celestiale, con i suoi voli lirici, un volo d'uccello sulla vasta pianura. Poi la musica finì, o meglio, si interruppe di colpo. Un paesaggio popolato da primi piani di cani, e sullo sfondo figure lontane in marcia. Klara rimase seduta, come tutti, avvertendo un curioso senso di perdita, come quello che si provava da bambini quando si usciva dal cinema in pieno giorno e le strade sembravano troppo animate, la luce sgradevole, e tutte le superfici erano intense e discordanti e la gente portava abiti volgari e malfatti. Miles ricomparve e andarono in un bar scelto da Jack. Jack conosceva tutti i bar di midtown e tutte le steak house e sapeva qual era il miglior cheesecake e dove facevano una zuppa di cipolle che ti dava l'illusione di trovarti a Les Halles e raccontava storielle divertenti sui suoi primi anni nel quartiere dei teatri, a promuovere spettacoli su e giù per la strada, ma Klara non lo ascoltava. Il film era stampato nella sua mente come un tessuto, trama e ordito. Aveva la sensazione di indossare il film invece di una gonna e una camicetta. Udì Esther ridere e le parve la risata di una persona tre stanze più in la. Miles raccontò una storia che richiedeva la sua partecipazione ma lei non riuscì ad afferrare i particolari. Sorrideva e beveva il suo vino. La conversazione procedeva da qualche parte, laggiù. Continuava a vedere brani del film. Vedeva i volti segnati nella vastita del paesaggio. Era circondata dal film, seduta in un bar sotto pareti di neon bianco pulsante nel calore di Broadway.
Capitolo quarto In citta, ti costruisci un linguaggio pieno di circospezione e di tatto, di mille piccole implicazioni, di sfumature che hanno il baluginio del bronzo lucidato. Poi vai nel deserto e dimentichi tutto, ricadi in un balbettio confuso, mangi cappelle di fungo che implodono nel cervello, che ti danno una coscienza e un timore soprannaturali, trasformandoti in un uccello azteco. Matt Shay sedeva nel terminal dell'aeroporto di Tucson e ascoltava gli annunci echeggiare dalle pareti. Stava pensando all'episodio di paranoia al party dei bombaroli, la sera prima. Aveva avuto la sensazione di intravedere un orribile sistema di collegamenti in cui era impossibile stabilire la differenza tra una cosa e l'altra, tra una lattina di minestra e un'autobomba, perché erano fatte dalla stessa gente nello stesso modo e in ultima analisi si riferivano alla stessa cosa. A New York c'era lo sciopero degli spazzini. C'era un uomo che veniva chiamato ripetutamente all'altoparlante, con il semplice nome di Jack. Una donna con un accento straniero disse alla persona seduta accanto a lei: - Io mi sono come si suol dire, perdutamente innamorata di lui il giorno che mi ha dipinto le pareti. C'era un uomo su una sedia a rotelle che mangiava un burrito. Era seduto ad aspettare che annunciassero l'aereo di Janet. Si chiese se fosse l'ora giusta per chiamare suo fratello. Nick viveva a Phoenix adesso, dove aveva un imprecisato lavoro di consulenza e insegnava latino una volta la settimana in un junior college. Quando Nick morira, una squadra di metafisici esaminera la scatola nera, la personale registrazione di volo progettata per rivelare come funzionava la sua mente e perché faceva quello che faceva e cosa pensava in generale, ma non c'era alcuna garanzia che avrebbero trovato la minima spiegazione. Al fatto di recitare epigrammi latini ai laureandi in economia in un posto chiamato Paradise Valley, per esempio. Matt si tolse gli occhiali e soffiò sulle lenti, la bocca atteggiata all'ellisse di un sussurro, poi passò il fazzoletto sulla superficie appannata e guardò gli occhiali controluce. Ogni volta che la voce dell'altoparlante chiedeva a qualcuno di rispondere al telefono bianco di servizio, una ragazzina chiudeva la mano a pugno e ci parlava dentro. Si rimise gli occhiali. Quando vide Janet uscire dal cancello rise. Rise di pura e sana contentezza. Sollevato che fosse finalmente arrivata e anche felice di poterla toccare, e rise all'idea dei disastri che sarebbero successi durante il giro in tenda che stavano per fare e alla fine rise perché proprio non poteva farne a meno. Era stravolto dalla lunga giornata al volante e non aveva la forza di trattenersi. Janet gli andò incontro con passo deciso e un sorriso un po' tirato, che significava non so bene cosa ci faccio qui. - Il capitano ha detto che ci sono quarantun gradi. - Devo chiamare Nick? - E perché? A Boston ce n'erano ventitré. - E' proprio qui a due passi. Mi sembra brutto non chiamarlo. - C'è lo sciopero degli spazzini a New York, - disse Janet. Lui era intontito dalle lunghe ore al volante e lei era intorpidita
dall'immobilita forzata e dal rumore dei motori. Andarono al parcheggio e ammassarono i bagagli nella jeep. La jeep era stracolma, sembrava la caricatura dell'auto del consumista, straripante di attrezzature, vestiti, bagagli e libri. - Dimmi di nuovo dove stiamo andando, - disse Janet. Passarono la notte nelle vicinanze di una riserva indiana, in una vecchia locanda di adobe dove una ragazzina adolescente mangiava pop corn dietro il bancone, e dal loro letto si vedeva la cupola bianca di un osservatorio. Era una bella stanza con travi a vista, ma arredata con mobili orrendi da periferia urbana, ed erano entrambi timidi perché non si vedevano e non si toccavano da un bel pezzo e Janet doveva ambientarsi. Avevano passato insieme poche notti, sempre progettate in anticipo. Non avevano quel mutuo bagaglio di intesa, il ritmo e l'occhiata giusta, tutto il silenzioso protocollo di desideri e sottintesi, di corpi che si sfiorano sull'ascensore. Qui non c'erano ascensori. E Janet si sentiva insicura nella stanza sconosciuta. Non era veramente lei quella, vero? Un'altra donna avrebbe sentito il fascino dell'anonimato. Incontrare un uomo in una stanza che aveva ospitato mille altri uomini e donne. Spogliarsi del passato in una specie di anonimo abbandono da motel. Ma quello non era un motel, grazie al cielo, pensò Janet. Era nervosa, ferma davanti alla finestra in jeans e reggiseno. Erano arrivati fino al reggiseno. E a quel punto lei si era fermata per parlare, per spiegargli quello che sentiva. Non era sessualmente ansiosa. Oppure, sì, era sessualmente ansiosa, ma era soprattutto insicura in generale, disse, perché non si sentiva completamente a suo agio, a incontrare un uomo in una situazione carica di aspettative precise - un letto estraneo nel mezzo del nulla. Era abituata a guardare se stessa dall'esterno e diffidava delle situazioni che sentiva sbagliate. Tanto per cominciare, il posto non era particolarmente pulito. E poi c'era la ragazza di sotto, strabica, o affetta da glaucoma, o da chissa che altro. Gli parlò in tutta onesta, con la sua vocina esile e un po' lamentosa, e lui ascoltò, sdraiato a letto, in attesa che lei si abituasse all'idea, un volo attraverso il paese per finire in una camera qualsiasi, isolata da tutto ciò che le era familiare. Ascoltò, attese, e alla fine capì che alcune delle cose che Janet stava dicendo di sé erano vere anche per lui. Lo capì con quell'immediatezza con cui saltano all'occhio cose che, in un modo o nell'altro, si sono sempre sapute. Lei rimase accanto alla finestra. Sopra la sua spalla, lui vedeva la cupola dell'osservatorio inondata dall'ultima luce in cima alla montagna. Un centinaio di anni prima c'erano uomini che attraversavano questi deserti, i penitenti, cantando inni sacri e digiunando, fustigandosi con fruste di canapa, o fruste fatte con la fibra intrecciata della jucca, o fruste di corda, la cuerda, un frustino di lana fittamente annodata. Janet non sapeva come reagire al deserto. Sembrava irritarla, per qualche strano e oscuro motivo personale. Era troppo grande, troppo vuoto, aveva l'audacia di essere reale.
Guidavano e parlavano. - Dimmi di nuovo cosa ci andiamo a fare in questo posto. - E' una riserva naturale e un campo di tiro. - Così se non ci ammazza una cosa, ci ammazza l'altra. Lui allungò una mano e gliela posò sulla gamba. - Vogliamo stare soli, - le disse. - Potevamo stare soli anche a Boston. - La non ci sono le pecore delle Montagne Rocciose. Noi vogliamo vederle nel loro ambiente naturale. - E cosa succede quando le vediamo? - Niente di speciale. Ma è difficilissimo vederle. Ed è un posto molto sperduto, quello in cui stiamo andando. Ci piacera molto, ne sono sicuro. Sono animali bellissimi che nessuno vede mai. Janet gli si avvicinò. Non le piacevano le effusioni in pubblico e anche se erano soli sulla strada quello non era il suo appartamento, e nemmeno la stanza di una locanda con la porta chiusa a chiave e le tende tirate, una volta si era alzata apposta per tirare le tende, tuttavia gli si avvicinò un po' e gli disse che se avesse saputo che le avrebbe accarezzato la coscia non si sarebbe messa quei jeans spessi e ruvidi, no? A Matt sembrava di non essere mai stato così felice. Si sentì felice quando lei gli si appoggiò contro e ancora più felice quando cominciò a leggere ad alta voce brani della piccola biblioteca che aveva messo insieme in vista del viaggio. Videro alcuni falchi appollaiati sui pali della luce e Janet controllò sul libro degli uccelli e disse che erano gheppi - falconi, non falchi, e questo li rese ancora più felici. Il paesaggio lo rendeva felice. Era una sfida a un'intera vita passata in citta ma più ancora il realizzarsi di una visione quasi da sogno, l'alterita del West, quella strana cosa grandiosa che era un tutt'uno con nazione e spazio, con coraggio e storia, con la tua essenza e con quello in cui credevi e con i film che avevi visto crescendo. Dopo un po' Matt disse a Janet di smetterla di guardare il libro e di guardare invece il paesaggio, ma il paesaggio era spazio vuoto e strade solitarie e questo la rendeva molto nervosa. Quando Nick era tornato dal Minnesota, Matty l'aveva soprannominato il gesuita. I giorni del catechismo erano ormai molto lontani, per Matty, i giorni di fede cieca, e gli piaceva beffarsi della goffa correttezza del fratello, dei suoi tentativi di analizzare se stesso. Qualunque esperienza Nick avesse fatto al riformatorio, e per quanto abilmente i gesuiti se lo fossero lavorato in seguito con la loro nordica e salda pretesa di coniare intelletti e anime luminose, un fratello aveva sempre il diritto di fare domande imbarazzanti e commenti beffardi. Anche la loro madre lo chiamava il gesuita ma mai quando Nick era a portata d'orecchio. Riempirono il serbatoio e comprarono carbone, cibo e bottiglie di acqua. Trovarono l'ufficio del manager della riserva in fondo al paese e Matt entrò e si fece dare un permesso, firmando un documento in cui si assumeva tutte le responsabilita e impegnandosi a non rivalersi sulla controparte. Tale documento veniva chiamato
liberatoria e fondamentalmente diceva che se fossero rimasti uccisi e/o feriti durante un'esercitazione di tiro mentre si trovavano nella riserva, sarebbe stata la più stupida delle illusioni infantili da parte di uno di loro o di entrambi e/o dei loro eredi pensare anche per un solo minuto di poter ricevere un risarcimento. Veniva loro concesso di entrare nella riserva ma veniva anche detto esplicitamente che il programma di esercitazioni aeree sarebbe incominciato esattamente tre giorni dopo. Sparatorie amichevoli. Un po' di brivido nel loro programma. Matt riferì tutto questo a Janet, coscienziosamente. Le disse che non era loro permesso maneggiare o impadronirsi di alcun articolo militare trovato in loco, come bidoni di carburante, casse di esplosivi, bersagli mobili, missili dotati di testate nucleari vere o finte. Le disse che non c'erano abitanti nella riserva. Le disse che non c'erano né gas né cibo né alloggi né altri servizi. Aveva il diritto di saperlo. Le disse che non c'erano strade asfaltate né acqua potabile. Ma non le disse perché questo lo eccitava tanto. Non gliene parlò perché lui stesso non lo capiva, quella sorta di brivido primordiale, la priorita assoluta, sapere di essere diretto nel cuore del remoto deserto di Sonora, dove l'interazione di terreno e armi era una specie di processo neurale riprodotto nel mondo, una sorta di vuota brama estirpata dalla base del cervello, o da chissa dove, e ridipinta con parole, cielo e deserto dal dorso di diamante. Janet disse: - D'accordo. Vai, vai, vai. - Ecco, questo è lo spirito giusto. - Se vogliamo farlo, facciamolo. - Ecco quello che volevo sentirti dire. Puntarono verso sud attraverso uno spazio bianco sulla mappa, diretti all'entrata della riserva, e Matt ricordò qualcosa che gli aveva raccontato una volta Eric Deming su questa parte dell'Arizona, una diceria, una specie di storia della serie ai confini della realta a proposito dei cosiddetti sensitivi, uomini e donne psichicamente dotati, telepatici, chiaroveggenti, gente che piegava il metallo. C'era un laboratorio segreto vicino al confine messicano dove si analizzavano e si facevano esperimenti con i sensitivi. L'idea era di usare dei commandos di sensitivi per far saltare la rete informatica e gli armamenti del nemico, e magari arrivare a leggere nella mente del ministro della Difesa mentre girava per Mosca sulla sua macchina con autista. In effetti i russi dovevano essere molto più avanti di noi in questo tipo di ricerca, aveva detto Eric, spirituali e mistici com'erano, e noi cercavamo disperatamente di metterci al passo con loro. Janet disse: - C'è qualcos'altro, naturalmente. - Cosa vuoi dire? - Oltre alle pecore. Non stiamo facendo tutta questa strada per guardare qualche pecora. - Pecore delle Montagne Rocciose. Vogliamo stare soli. Senza distrazioni. Così possiamo parlare. Prenderci un bel po' di tempo. Così possiamo decidere alcune cose. - Quali cose? - Lo sai quali. - Quali?
- Vogliamo sposarci? Fare dei bambini, avere dei figli? O vogliamo aspettare un po'? Vogliamo vivere qui, o la o da qualche altra parte? - E cos'altro? - disse Janet.- Perché so che c'è qualcos'altro. Matt poteva benissimo credere alla storia di una base segreta dove i sensitivi raffinavano le loro capacita paranormali. Trasmissione del pensiero e visione a distanza. Perché non crederci? Lui stesso aveva letto nella mente di molti nemici a dieci anni, spostando pezzi su una scacchiera. Questo era il risvolto soprannaturale della corsa agli armamenti. Miracoli e visioni. E alla fine l'arma più preziosa è una signora di mezza eta di Decatur che riesce ad appuntare sulla mappa la posizione dei sottomarini sovietici al largo della East Coast. Irreale. Questa era la cosa che lo disturbava. Era una delle cose di cui voleva parlare con Janet. C'erano montagne simili a navi, grandi navi di roccia con la prua sollevata verso l'alto. E c'erano colline simili a mucchi di detriti. La terra sembrava in formazione, aspra e sfregiata, e vi si potevano quasi leggere smottamenti e sovrapposizioni. Sembrava il mondo dei dinosauri. Videro montagne bianche e montagne color carne e scorie di materiale vitreo che si rivelarono montagne quando le raggiunsero in macchina. Ci voleva moltissimo tempo per andare in qualunque posto. C'era quell'unica strada, una pista, che in alcuni punti sprofondava nella sabbia e in altri era fatta di solchi e scarpate. Il sole batteva con una specie di densita formicolante. Arrivarono a un tratto di strada allagato, e dovettero abbandonare la pista e aggirare attentamente con la jeep i cactus palo verde e cholla. Matt cercava i nomi di ogni cosa. Consultava continuamente i libri. Guidava con uno o due libri in grembo, o chiedeva a Janet di cercare un nome, o le chiedeva di guidare per poter leggere. La polvere copriva il cofano e il parabrezza e il sole incombeva su di loro, così enorme e implacabile che Matt aveva voglia di ridere, alla faccia della paura. - So che non puoi parlarmi del tuo lavoro. - Alcune cose posso dirtele. Lavoro sui meccanismi di sicurezza, almeno così li chiamano. Timer, batterie, interruttori, sistemi di innesco. Serrature elettromeccaniche. Faccio interminabili controlli al computer. Bevo caffè solubile e guardo sullo schermo dettagli di sezioni trasversali di missili enormi. Poi un gruppo di specialisti in California o in Nevada o non so dove, prende una testata nucleare e la lancia con un razzo su un bersaglio rinforzato a millecinquecento miglia all'ora. - Per verificare i tuoi calcoli. - E badabang! Non soltanto i miei, naturalmente. Ma tutto sommato l'idea è quella. - Quindi tu rendi le armi più sicure. Più sicure da maneggiare e più sicure da usare. - Esatto. - E allora qual è il problema? Non mi sembra un'attivita criminale. - No, ma è un lavoro che ha a che fare con gli armamenti. E' quello che volevo. Volevo questo e altro. Ma adesso non ne sono più così sicuro. - Ma è un lavoro importante, Matthew. E abbiamo bisogno della gente
migliore per fare un lavoro simile. Erano accampati a pochi metri dalla pista. Matt preparò un fuoco di carbone e versarono in una pentola due lattine di fagioli e carne di maiale. Si infilarono i maglioni e si misero a sedere su una coperta. - Cosa faresti se te ne andassi? - chiese Janet. - Non so bene. Forse prenderei un dottorato. Conosco gente che lavora nei pensatoi. Mi piacerebbe parlare con loro. Saperne di più. Lei lo guardò con amarezza. La parola la intristiva - pensatoio - e lui non poteva darle torto. Faceva pensare a qualcosa di passivo, di moderato, a una cosa da mezza eta, da torre d'avorio. Gente che sfogliava documenti nei ridotti della strategia sociale. Rapporti sulla situazione, politiche alternative, controlli statistici. Matt prese la pila e guidò Janet verso un punto in cui poteva fare pipì. La luna era quasi piena. Aspettò che si calasse i jeans e si acquattasse, più o meno con un unico movimento, e Janet lo guardò e sorrise, una sorta di smorfia allusiva, una bambina dalla faccia maliziosa con le braghette sporche - non l'avevamo gia fatto un'altra volta, in un'altra vita? Matt girò la pila sul terreno circostante e si mise a canticchiare piano i nomi dei cespugli e degli arbusti al ritmo dell'evacuazione di Janet. Lei rideva e pisciava a spruzzi. A un certo punto credettero di sentire un coyote e Janet lottò ridendo coi jeans per richiuderli in fretta. Montarono la tenda canadese e si infilarono nei sacchi a pelo da mummia, foderati di flanella, e si resero conto che il coyote era Wolfman Jack alla radio a transistor, un disk jockey ululante trasmesso nel deserto da una stazione pirata oltre il confine. Non mettermi il broncio baby, che stasera si fa il rock. Wolfman ti sta sparando Little Richard dritto in faccia fresco dei giorni gloriosi delle cotonature e del vestito di vetro. A Richard non serve la lavanderia. Si porta dietro il suo Vetril. Il sacco a pelo aveva degli inserti elasticizzati che ti permettevano di girarti sul fianco, se quella era la tua posizione preferita, e quando Little Richard cominciò a storpiare le note col suo falsetto primitivo, Matty pensò di essere nel suo letto del Bronx, un quindicenne capace di scambiare il vecchio guanto da baseball del fratello con tre o quattro dischi di rock-and-roll, 45 giri in condizioni pietose, che ascoltava quando sua madre era fuori. Janet lo chiamava Matthew. Era il suo modo di separarlo dalla storia di famiglia, dall'epopea del giovane Matt, il fratello minore, il figlio abbandonato, il mago degli scacchi, insomma tutti gli ingredienti della solita minestra di famiglia. Lui aveva raccontato la storia a Janet, le aveva spiegato che Nick credeva che il padre fosse stato trascinato a forza negli acquitrini e poi ucciso, e che questo era l'unico complotto, l'unica cospirazione in cui credesse. Nick non poteva permettersi di soccombere a una sfiducia generalizzata. Doveva proteggere la propria convinzione su quanto era successo a Jimmy. L'omicidio di Jimmy era isolato e puro, non contaminato da altre segrete alleanze e azioni criminali, da altri sospetti. La cultura indulgesse pure in scadenti teorie della cospirazione. Nick aveva il suo solido pezzo di storia, il racconto che non doveva essere suffragato da vaghe ipotesi e dicerie. Naturalmente Matt pensava che suo fratello peccasse di allucinazione emotiva. Ma quando Janet si dimostrò un po' troppo
precipitosa nel condividere il suo giudizio, scartando la versione di Nick, Matt la interruppe bruscamente e si mise a difendere il fratello. Le disse che lui stesso, all'inizio, aveva pensato che suo padre fosse morto, che non fosse un fuggiasco, uno sbandato, un individuo penosamente debole capace solo di tagliare la corda. Morto chissa dove, in una zona imprecisata. Anche se all'epoca lui era solo un bambino. Anche se aveva fatto quella cosa balorda, buffa e triste di andare al Loew's Paradise a vedere l'anima del padre fedele e defunto aleggiare sul soffitto stellato. Anche se era incapace di formulare un giudizio articolato, le disse, bastava considerare quell'episodio, il lungo viaggio fino a un cinema attraverso quartieri sconosciuti, tutto solo, all'eta di sei anni. Il potere di un evento può traboccare dal profondo del proprio nocciolo insolubile, con tutti gli elementi crudeli e sfuggenti che non quadrano, il che ti induce a fare cose strane, a raccontare storie a te stesso, a costruire mondi credibili. E chi diavolo era Janet per ridicolizzare suo fratello? C'erano segni di ferite nella terra in lontananza, letti di torrente in fondo a gole profonde, e sfilze di alti cactus sulle pendici meridionali delle montagne. La pista era di sabbia bianca, poi di terra rossa, era il fondo screpolato di uno specchio d'acqua, prosciugato e cotto dal sole, e poi diventava bruscamente polvere minerale verde e poi ancora sabbia e infine pietrisco. A Janet piaceva guidare in modo aggressivo, a prescindere dal fondo stradale. La jeep si impennava e sobbalzava, inclinandosi pericolosamente, a tratti, e quando la pista diventava stretta nella fitta boscaglia, doveva dire a Matt di ritrarre il braccio che lasciava ciondolare fuori dalla portiera prima che le spine dell'acacia glielo tagliuzzassero. - Non credo che dovresti lasciare il lavoro per problemi di coscienza. La coscienza funziona a doppio senso, - disse Janet. - Hai dei doveri e degli obblighi. Se tu non sei disposto a fare questo lavoro, chi prendera il tuo posto potrebbe essere meno qualificato. - Fa caldo. Quanti gradi ci saranno? - Lascia perdere il caldo. Fa comunque troppo caldo per stare qui. Tu hai un addestramento speciale e un certo tipo di capacita. - A un certo punto dovremo decidere se tornare indietro e rifare la strada per cui siamo venuti. - Oppure? - Oppure continuare ad addentrarci nel territorio delle pecore delle Montagne Rocciose e uscire dalla riserva in qualche punto del settore nordovest prima che cominci l'esercitazione. Dieci minuti dopo, videro degli oggetti in lontananza e Matt li guardò col binocolo. Erano carri armati e jeep, e anche qualche camion, ma erano stranamente inconsistenti, privi di corposita e di spessore, con contorni troppo squadrati e un luccichio fasullo bersagli tattici simulati. - Voglio vivere con te, - disse Janet. - Sai quanto desideri una casa e una famiglia. Voglio avere un bambino. Ho sempre desiderato queste cose. Voglio la sicurezza, Matthew. Matt allungò una mano e giocherellò con le ciocche di capelli sulla nuca di Janet. - Vuoi la sicurezza, vuoi sentirti al sicuro. E sei proprio tu a
dirlo, la donna che lavora anche di notte per curare i feriti, disse lui. - Traumi. Un caso grave dopo l'altro. - Non c'è niente di poco sicuro in questo. Per me è assolutamente sicuro. E' la cosa che so fare meglio e voglio continuare a farla. Bisogna fare la cosa che si sa fare meglio. Questa è la sicurezza. - Se continuo con questo lavoro, come facciamo a vivere insieme? - Ce la faremo. Troveremo un modo, - disse lei. L'aria si fece tesa, la luce livida e di colpo cominciò a diluviare. Non riuscivano a vedere niente e si fermarono su un dosso. Sembrava che l'origine della tempesta fosse tre metri sopra di loro. Rimasero lì ad aspettare e parlarono. Matt poteva dirle qualsiasi cosa. Era completamente a suo agio con Janet. Era come se lei lo conoscesse da sempre. Riusciva a completare un pensiero che lui aveva appena cominciato a formulare. Non aveva spazi d'ombra dentro, nessuno di quei silenzi e di quelle finzioni che possono essere affascinanti, certo, ma non per uno come lui, pensò Matt. Sentirono il verso di uccelli dal nome onomatopeico, whippoorwills e phoebes (*). Dopo la pioggia il calore tornò come una ventata bollente e Matt cercò con il binocolo gli uccelli da preda. Planavano nell'aria bruciante, con la coda a ventaglio, librati in volo e grandi, e Matt stava armeggiando alla ricerca del libro quando vide un grosso uccello scuro annidato nella piega di una diramazione di un altissimo cactus. Era un'aquila fulva giovane, e Matt passò il binocolo a Janet, poi lo riprese, e non riusciva a smettere di parlare. Parlava, rideva e guardava i libri. Parlava più agli uccelli che a Janet. Consultò il libro più volte, per confermare, a beneficio dell'uccello, che si trattava di un'aquila, un aquilotto, con una spruzzata d'oro sulle ali e una cascata di miele dorato sul retro del collo. Janet non era altrettanto affascinata. Matt le lanciò un'occhiata e scorse una preghiera complessa nei suoi occhi. Gli stava chiedendo qualcosa, ma lui non riusciva a capire bene cosa. Puntò di nuovo il binocolo sull'uccello. Per lei l'uccello era un colpo al tasto del telecomando. Bastava accendere il televisore nel salottino delle infermiere per vedere teste di giraffa ciondolare nel veldt. Era quella la sua riserva naturale, una stanza affollata con un paio di divani e poltrone, dove sedeva con lo staff del turno di notte a chiacchierare dei prezzi del caffè e dei pericoli delle strade, degli ustionati con quell'odore indescrivibile - era quella la presa, l'appiglio sicuro di cui aveva bisogno per vivere. Ma l'occhiata che gli aveva lanciato non aveva niente a che fare con i suoi bisogni o le sue preferenze. Voleva che lui capisse qualcosa di se stesso. Ogni sconfitta era una morte dentro il petto, dentro il suo piccolo torace dall'ossatura d'uccello. Lui era praticamente morto a undici anni, ecco la verita. Al diavolo le piccole torri di legno. Quanti anni gli ci erano voluti per riprendersi dal gioco? Era stato l'incontro Fisher-Spasskij a riportarlo al passato, e solo per poco, quanto a questo, due anni prima, in Islanda, a meta strada tra Washington e Mosca, dove avevano giocato ventun partite, Bobby e Boris, un'intera estate di eccitante teatro in bianco e nero. Matt seguiva l'incontro sui giornali e guardava la tv. Faceva il
tifo per Bobby, il rozzo spilungone che ormai stava arrivando alla trentina. Si identificava con gli scoppi d'ira in pubblico, le richieste villane, i colpi bassi che Bobby tirava costantemente, l'aperta manifestazione di amarezza quando perdeva. Se la vittoria finale dell'americano non riuscì a riscattare la cupa giovinezza di Matt, riuscì perlomeno a trasferire il gioco dall'emicrania privata di un'introversione anormale alla mescolanza delle cose la fuori, alla mischia quotidiana di stati e forze materiali in competizione. Bisognerebbe inventare una parola per descrivere il processo. De-egoizzazione. Ecco l'effetto del gioco su Matt. Quindi lasciamo che si sfoghi, il nostro Bobby. Stava solo mostrando cosa c'era in realta sotto l'estetica e il rigore del gioco, sotto la bellezza e il progresso della mente, sotto gli sprazzi di intuito preveggente - un mondo personale di dolore e di perdita. Le parlò delle montagne svuotate nel New Mexico. Erano siti di deposito per armi nucleari. Le disse della montagna sventrata nel Colorado dove enormi schermi a parete mostravano la traiettoria di volo di un missile lanciato da una base in Siberia. Sapeva parecchie cose su Ob§ekt, l'Installazione, costruita dai condannati ai lavori forzati in una parte remota dell'Unione Sovietica, e le disse cos'era - un centro per la progettazione di bombe. La gente andava volontariamente in questi posti. Scienziati ansiosi di soddisfare un bisogno fondamentale. O era solo dovere patriottico, o la prospettiva stimolante di svolgere un lavoro serio in fisica o matematica? Matt pensava che ci andassero in esplorazione, d'impulso, quasi avventatamente, per verificare la possibilita di una condizione più elevata. - Sembra che tu stia parlando di Dio. Le raccontò quello che poteva del Pocket. Il Pocket era solo una nicchia accogliente in un vasto sistema nascosto. Un sistema che predicava la morte dal cielo. Le disse dei network di emergenza. Rifugi sotteranei scavati nelle montagne della Virginia e del Maryland, dove i leader avrebbero potuto mandare avanti il governo durante una guerra di vaste dimensioni. Le parlò degli incidenti nell'Unione Sovietica, delle voci su esplosioni e incendi nelle centrali nucleari, e le disse dell'eccitazione che aveva provato, il brivido elettrizzante di fronte alla devastazione nelle lande nemiche, e della vergogna che ne era derivata. Sembra che tu stia parlando di Dio, o di una sua variante più potente. Andare nel deserto o nella tundra e aspettare il visionario lampo di luce, la massa critica che aprira i paradisi indù, rivelando Kali e Shiva e tutte le divinita minori con le loro smorfie. - Forse sono rimasto cattolico troppo a lungo. Avrei dovuto lasciar perdere a dieci anni. Pensò ai sensitivi, che si preparavano alla guerra psichica, e pensò ai penitenti, uomini col cappuccio nero che trascinavano pesanti croci di legno attraverso il deserto, cento o cinquant'anni prima, e si fustigavano con sisal e canapa, tutte le storie di suor Edgar, e parlavano con parole inventate - i vaneggiamenti di santi pellegrini. - Non so a cosa alludi quando dici che sei rimasto cattolico. Ti ho gia detto cosa intendo io per coscienza, - disse lei. - Questa è solo una piccola parte del problema. Il fatto è che ho
la sensazione di partecipare a qualcosa di irreale. Il succo di qualsiasi allucinazione è che ti fa credere reale una percezione falsa. Ma qui è tutto il contrario. Questo è reale. Il lavoro, le armi, i missili che decollano dai campi di erba medica. E' tutto reale. Ma io la percepisco sempre di più come un'invenzione. E' un sogno che sta facendo un altro, con me dentro. Forse Janet era un po' irritata da questo discorso. Forse lo trovava pieno di autocompiacimento, o poco convincente o fuori luogo. - Ho sentito una storia non molto tempo fa, - disse Matt. - Negli anni Cinquanta, durante un esperimento nucleare, vestirono un centinaio di maiali con giubbotti militari confezionati appositamente e li posizionarono a varia distanza dal luogo dell'esplosione. Cento e undici maiali, per essere precisi, stando alla storia che mi hanno raccontato. Poi fecero esplodere il congegno. E alla fine esaminarono le divise sui maiali arrostiti per valutare la resistenza della stoffa al calore. Perché quello era lo scopo dell'esperimento. Janet non disse niente perché, quale che fosse lo scopo del test e quale che fosse lo scopo della storia, la stava solo facendo arrabbiare. - Prova a immaginartelo. Chester bianchi. Una razza di porci grassi con le orecchie spioventi. In divisa militare con tanto di cerniere, impunture e tutto il resto, e con i cordini dei giubbotti tirati perché così vuole il regolamento. E una voce all'altoparlante che dice, Dieci, nove, otto, sette. Janet gli disse di tenere il braccio dentro la jeep. - E' allora che la storia è diventata romanzo? - disse Matt. Lei gli lanciò una rapida occhiata. - Non è questa la domanda che stai facendo. - E qual è allora? - Non credo che sia questa la domanda che stai facendo. Questa è una grossa domanda e io credo che tu stia facendo una domanda più piccola che non ha niente a che vedere con i maiali in divisa. Stai parlando di qualcosa di completamente diverso. Matt non la guardò. - Di cosa starei parlando, Janet? - Dimmelo tu, - rispose lei. Matt tenne gli occhi fissi sui solchi della pista e non disse una parola. Le acacie sbattevano contro la jeep graffiando il parabrezza e le portiere. Entrambi tenevano gli occhi fissi sulla pista. Circa duecento metri più in la c'era una struttura di cemento, simile a un bunker, striata di sabbia, con finestre a feritoia e cespugli di rovi che crescevano lungo i muri. Era quasi il tramonto e decisero di accamparsi nelle vicinanze. C'era qualcosa di irresistibile nell'edificio, ovviamente, anche in una rovina incrollabile come questa, squadrata e inaccessibile. Se ne stava lì, isolata, con le montagne dietro, e trasmetteva la poesia contorta dell'oggetto nel posto sbagliato, tipo un drive-in nella prateria, chiuso da anni, con gli attacchi per gli altoparlanti sbilenchi e lo schermo enorme e vuoto girato verso un campo di granoturco. E' il tipo di traccia lasciata dall'uomo che conferisce profondita al paesaggio, lo rende più triste e solitario e provoca una vaga reazione di rimpianto soggettivo - ma non è tanto un rimpianto quanto l'estetica del tempo, a far apparire strano e bello nella sua immobilita anche un edificio di cemento, popolato
fugacemente e abbandonato, l'anima del deserto segnata dal passaggio di uomini e donne. - Preferirei dormire lì dentro, - disse Janet, - piuttosto che rimontare la tenda. C'erano due porte massicce ben sigillate e le finestre erano alte e strette, ma quando andarono sul retro trovarono un'apertura all'altezza della cintola e si arrampicarono dentro. Dopo tutte le ore spaccaossa passate nella jeep, sballottati su un terreno di pietrisco e di sabbia, quel posto sembrava addirittura accogliente. Un tavolo, qualche seggiola, alcuni calendari con donne nude alle pareti e un paio di mensole piene di cibo in scatola, utensili, fiammiferi antivento e vecchie riviste. Matt pensò che il bunker probabilmente era stato costruito per ospitare i ricognitori durante le esercitazioni, un paio di militari trasportati in elicottero per controllare la precisione delle sparatorie, recuperare i bersagli mobili e forse anche contrassegnare la posizione di razzi e bombe inesplosi. Tornato fuori, Matt preparò un fuoco di carbone e mangiarono in fretta senza parlare, poi scrostarono gli utensili e gettarono i resti in un sacchetto di plastica che misero sulla jeep perché non sapevano come altro liberarsene. Portarono i sacchi a pelo nel bunker e si spogliarono al chiaro di luna. Janet si sedette sull'involucro di nylon, con una gamba allungata e una piegata, e si appoggiò all'indietro, come una studentessa al sole sui gradini della biblioteca durante l'intervallo di pranzo. Matt si avvicinò e si piegò su di lei, sentì il sole sul suo corpo, il residuo di calore intenso sulle proprie mani e sulla bocca, e sentì che i loro corpi si scambiavano il senso della giornata e del paesaggio, tutto il calore e la polvere turbinante che appesantiva il fiato di entrambi, assaporata di nuovo, toccata con la punta delle dita, tastata e annusata. Ma il sesso fu melanconico e lievemente strano, fu calmo, dolce e amorevole ma anche insolito e leggermente rassegnato, e dopo rimasero a lungo sdraiati uno accanto all'altra senza parlare. - Penso che dovremmo tornare indietro domattina. - Perché? - disse lei. - Siamo arrivati fin qui. - Penso che abbiamo visto tutto quello che c'è da vedere, più o meno. - Non hai visto le pecore delle Montagne Rocciose. - Non ho bisogno di vedere le pecore e nemmeno le antilocapre. Ci sono anche le antilocapre la fuori. - Hai visto a malapena un'aquila. - No, l'aquila l'ho vista bene. - Da lontano, l'hai appena intravista. Nel suo nido, - disse Janet. - L'aquila era fantastica. Ha soddisfatto tutte le mie aspettative. Janet dormì, lui no. Alla fine ammise la verita, cioè che voleva che lei lo convincesse a lasciare il lavoro. Questa era la domanda che le aveva rivolto per tutto il tempo. Non hai intenzione di dirmi che non vuoi che faccia questo tipo di lavoro, per amor tuo, e del bambino che avremo, e della casa che un giorno sara nostra? Ma Janet non collaborava. Finalmente lo capì, capì che avrebbe voluto farle credere che per lui sarebbe stato un sacrificio, lasciare il Pocket per moglie e figlio. Avrebbe voluto che lei gli dicesse, Vieni a Boston e sposami.
Ma Janet non l'aveva detto. Lui non era tagliato per questo tipo di lavoro. Voleva lasciarlo, ma non voleva essere lui a decidere. Voleva che Janet decidesse al suo posto. Ma Janet non l'aveva fatto. E sapeva fin dall'inizio cosa lui avesse in animo. E la irritavano le sue sviolinate sul senso di irrealta. Qualunque cosa noi stiamo facendo di nascosto, avrebbe detto Janet, loro stanno combinando di peggio. Di tanto in tanto il vento arrivava da est, e Matt udì un animale vicino alla jeep, attratto dalla spazzatura. No, lui non era un patito delle armi. Ma non era questo il punto. Avrebbe voluto che lei si sentisse responsabile, e colpevole, per averlo indotto a cambiare vita. Gli avrebbe dato un bel vantaggio negli anni a venire. All'Intelligence School dell'esercito, Matt faceva doppi turni di lezioni, circondato in ogni frenetico istante da esperti di strategia, esperti di linguaggio, agenti del controspionaggio che controllavano l'uso di droghe, agenti da addestrare in missioni simulate, una spia per ogni funzione corporale. Lo mandarono in Vietnam, a Phu Bai, e la prima cosa che vide quando arrivò all'accampamento fu uno svolazzo di graffiti dipinto a spray sul muro di un capanno degli approvvigionamenti. Om mani padme um. Matt sapeva che si trattava di una specie di mantra, una cosa che gli hippy cantilenavano a Central Park, ma possibile che fosse anche il motto della 131a Compagnia di Aviazione? Da quel momento in poi ebbe qualche problema con le informazioni che immagazzinava. Lavorava in una quonset hut, faceva passare rotoli di pellicola attraverso un visore. Erano le riprese della ricognizione aerea, una serie interminabile di immagini risucchiate da cineprese situate nella pancia degli aerei della sorveglianza. Si trattava di recuperare informazioni perdute, ricostruire il dato più minuto e identificarlo come un camion guidato da un uomo che fuma una sigaretta francese mentre percorre il sentiero di Ho Chi Minh. Lanciò un frisbee a un cane muso giallo e aspettò di vedere l'animale saltare e contorcersi. Circolavano voci su una guerra segreta, innumerevoli tonnellate di bombe sganciate dai B-52. Laos, Caos, Cambogia. Salvo che le tonnellate non erano innumerevoli, erano state invece coscienziosamente contate, perché è così che ci guadagniamo i galloni, quantificando il prodotto. Matt era uno spec 5, con la stessa paga di un sergente, ma con minore autorita di comando. Il che gli stava bene. Gli attacchi di razzi invece non gli stavano bene, o le granate che piovevano ad arco dal cielo insieme alla pioggia. Arrivarono le piogge, e quando le sirene fischiavano lui andava nella trincea più vicina, un rifugio allestito alla bell'e meglio con sacchi di sabbia e detriti di cantiere, con una fogna a cielo aperto che scorreva nel mezzo. Arrivarono il caldo e l'eroina, e ci fu lo strano ritrovamento di un cadavere a faccia in giù nel fango della strada. Una vittima dello smack, come veniva chiamata l'eroina. Qualcuno appese una foto di Nixon nella baracca, con due uomini al fianco, due facce in qualche modo familiari, ma impossibili da
ricordare, e circolavano strane voci su una sostanza conservata dentro bidoni neri vicino al perimetro dell'accampamento. Nella versione cinematografica ci sarebbe stato un fermo-immagine dell'inquadratura col cane a mezz'aria, pronto ad azzannare il frisbee. Un parco in una giornata di sole da qualche parte in America - questa sarebbe stata l'ironia della sequenza, con un assolo di chitarra per rendere l'amaro stridore del feedback. Questo è quello che succede quando una parte dell'output di un sistema viene restituito all'input. Sì, qualcuno aveva attaccato alla parete la pagina di una rivista, e Matt non riusciva a identificare i due uomini al fianco del presidente, ma non erano capitani d'industria. Un uomo dai capelli ricci, bello e sorridente. E un tipo dagli occhi tristi, con il naso schiacciato e l'aspetto plumbeo di un immigrato col vestito preso a prestito. Girava la pellicola nel visore. Quando scopriva un puntino sulla pellicola tirava a indovinare. Era un camion o una stazione di camion o l'entrata di una galleria o una piazzuola d'armi oppure una famiglia che cuoceva hamburger alla griglia durante un picnic. L'atmosfera era calda e monotona e gli aerei andavano e venivano in continuazione, fortezze volanti, aerei da trasporto, bombardieri medi, aerocisterne, jet da combattimento, jet di funzionari governativi, un piccolo piper rosa con a bordo un istruttore e un allievo e alla fine aerei da carico trasformati, che spruzzavano la giungla di erbicidi conservati dentro bidoni neri con strisce di riconoscimento arancioni. Giravano voci di altre guerre su altri fronti, immediatamente a est, o era a ovest? I bidoni sembravano lattine di Minute Maid surgelato ingrandite da un fattore impazzito del Dna. E la sostanza dentro i bidoni conteneva, stando alle voci, un agente cancerogeno. Matt sentiva le dicerie e i mortai e il caldo del monsone e ascoltava lo slogan universale della guerra. Resta strafatto, amico. Era venuto volontariamente in Vietnam. Aveva avuto molti tentennamenti a proposito della guerra, ma alla fine aveva pensato che era una cosa da fare, per rispetto di sé - rigare dritto, essere coraggioso, rispondere quando il paese chiamava. Ma c'era anche qualcos'altro, la forza più antica, trasmessa dal sangue, nota come famiglia. Non poteva sottrarsi al senso di responsabilita. Doveva affrontarlo. Non voleva svignarsela, trovare una via d'uscita, cavarsela a buon mercato, farsi riformare, disertare, opporre resistenza, sottrarsi per paura, tagliare la corda, scappare in Canada, in Svezia o a San Francisco, come aveva fatto il suo vecchio. Quando scopriva un puntino sulla pellicola lo traduceva in lettere, numeri, coordinate, griglie e interi sistemi di pensiero. Om mani padme um. In realta il cane si guardò bene dal saltare, rimase invece a guardare il frisbee volare via, con aria più o meno sprezzante. Un puntino era un mantra visivo, un oggetto che non aveva proprieta eccetto la posizione. Il gioiello nel cuore del loto. Era infilato nel sacco a pelo ma non dormiva. Voleva compagnia e
svegliò Janet. Tirò fuori un braccio dal sacco a pelo e la scosse per svegliarla. - Voglio la stessa cosa che vuoi tu. - D'accordo, Matthew. - Voglio che stiamo insieme circondati da cose familiari. L'idea mi eccita. Vorrei incominciare immediatamente. - Invece dovresti aspettare. Resta dove sei. Fai questo lavoro per un altro anno. Vedi cosa succede, - gli disse. - Voglio pensare ai vezzeggiativi per i nostri figli. Capisci cosa voglio dire? Voglio che stiamo insieme circondati da un ambiente familiare. Voglio fotografie, argenteria, oggetti che un giorno lasceremo a qualcuno. Voglio parlare di cosa mangeremo per cena. Ti piacciono i molluschi gratinati? Non abbiamo quasi mai parlato di cibo, tu e io. - Resta dove sei, - gli disse lei. - Non prendere decisioni affrettate. - L'idea mi eccita. Vorrei che non ci volesse tanto tempo per andar via di qui. Mi piacerebbe mettermi in strada immediatamente. - Cerca di dormire, - gli disse lei. - Ci sono tante cose di cui parlare. Janet si riaddormentò nel giro di un minuto. Matt restò sveglio, impotente contro l'accavallarsi dei pensieri. Alla fine capì che non sarebbe riuscito a dormire e decise di guardare il sole sorgere sul deserto. Si mise i pantaloni e un maglione e uscì sul retro del bunker, e dopo circa cinquanta metri spense la pila. Poi si sedette per terra ad aspettare. Si ricordò come si era sentito, seduto in poltrona al party dei bombaroli, incastrato in un campo gravitazionale, con la testa ossessionata dai sospetti. Pensò alla fotografia di Nixon e si chiese se lo stato avesse fatto sua la paranoia dell'individuo o se fosse successo il contrario. Ricordò come si sentiva mentre esaminava la pellicola attraverso il visore chiedendosi dove si collegavano i puntini. Perché alla fine, tutto è collegato, o sembra solo che lo sia, o sembra che lo sia solo perché lo è. Al lavoro sul visore luminoso, Matt era la parodia della figura tradizionale nella stanza del seminterrato, l'inventore solitario chino sul suo tavolo da lavoro, a montare le puntine, le molle e i cavi di qualche eccentrico marchingegno, l'idea fulminante che avrebbe cambiato il mondo. E la voce con l'accento ungherese, Eric Deming che gli parlava in faccia nella stanza affollata. I puntini sulla pellicola avrebbero potuto essere camion che scendevano lungo la strada dei rifornimenti o nuovi modelli di macchine che uscivano dalla catena di montaggio o preservativi simili alle dita di un guanto di latex. E alla fine qualcuno nella baracca dovette dirgli chi erano. Nixon fiancheggiato da un paio di giocatori di baseball, gente d'altri tempi, una cosa tipo vincitore-vinto, attaccati per il fianco come siamesi. Sedeva nella polvere con gli occhi chiusi e sentì l'odore di resina bagnata di un cespuglio di creosote e incominciò a percepire la luce sul punto di esplodere da qualche parte.
La gente si nasconde in cantina. Si rifugia dentro bunker e gallerie quando le armi schizzano via sistematicamente dalle loro sedi e cominciano a illuminare il cielo. E come si fa a capire la differenza tra il succo d'arancia e l'agente arancione se lo stesso imponente sistema li collega a livelli al di la della nostra comprensione? E come si fa a capire se questo è vero, dal momento che siamo gia influenzati dal sistema, preparati a semicredere a tutto, perché questa è la sola reazione intelligente? La gente si nasconde in posti bui e umidi, dove i funghi crescono, propagandosi rapidamente. Le macchioline che lui sottolineava con l'evidenziatore diventavano bit di computer a Da Nang, brunch domenicali a Saigon e istruzioni per missioni in Tailandia, immaginava Matt, o a Guam. Quando si altera un singolo componente minore, il sistema si adatta immediatamente. Qualcuno dovette dirgli i nomi. Il presidente fiancheggiato da Thomson e Branca, Bobby e Ralph, la combinazione binaria eroe-vinto, inseparabili fino alla fine. Un fungo con la cappella carnosa che potrebbe essere velenoso o magico. Da qualche parte in Siberia gli sciamani mangiavano la cappella e rinascevano. Cosa vedevano in stato di trance? Una nube a forma di fungo, forse? Era nel Pocket anche allora, a esaminare pellicole per tutta la notte in attesa che ricominciassero a piovere i proiettili dei mortai. Facevano un rumore che ricordava un bambino che sgranocchia cereali alla tv. E come si fa a capire la differenza tra siringhe e missili se si è diventati così malleabili, pronti a semicredere a tutto e a non lasciarsi convincere da niente? E come si fa a sapere se l'immagine esisteva prima che fosse inventata la bomba? Potrebbe esserci stato un mondo sotterraneo di immagini note soltanto a sacerdoti tribali, medium tra la realta visibile e il mondo dello spirito che mangiavano funghi magici e vedevano una nube infuocata che anticipava l'immagine del film per le reclute dell'esercito statunitense. Osservata a distanza di sicurezza, dice il narratore, questa esplosione è uno degli spettacoli più belli mai visti dall'uomo. Persino allora era nel Pocket, in un certo senso, ma non seguiva il percorso dei sistemi fino alla conclusione del suo tedioso lavoro. Le bombe da mezza tonnellata che cadevano a grappoli dagli sportelli dei B-52 come pallottole di escrementi pinnati, riempiendo di crateri il sentiero nella giungla. Ma si trattava del nemico, quindi chi se ne frega. Ed è ancora il nemico, o c'è sempre un nemico, e Matt aprì gli occhi e vide il cielo farsi di uno strano grigio vecchietta. Le idee un tempo venivano dal basso. Adesso sono dappertutto sopra di noi, a collegare universalmente cose e griglie. Le combinazioni binarie bianco-nero sì-no zero-uno eroe-vinto. E i due uomini di fianco al presidente nella foto appesa alla parete della baracca. Quello alto e bello, e l'immigrato dalle sopracciglia cespugliose. Avrebbe benissimo potuto essere una foto di Oppenheimer e Teller con il corpo unto di olio solare che citano vicendevolmente brani di scritture indù. Om non fa rima con bomb. E' solo un'impressione.
Morte e magia, ecco cos'è il fungo. O morte e vita immortale. La psilocibina è un composto ottenuto da un fungo messicano che può trasformare l'anima in materiale da fissione, secondo gli studiosi del fenomeno. Loro sono dappertutto allo stesso tempo, collegati all'infinito, e si finisce col semicredere alle cose più improbabili perché sarebbe stupido non farlo. Tutta la tecnologia fa riferimento alla bomba. Seduto nella polvere con gli occhi aperti, Matt si rese conto che il sole stava sorgendo dietro di lui e si chiese cosa volesse dire. Voleva dire che per tutto quel tempo era stato girato dalla parte sbagliata. Matt guidava la jeep mentre Janet sonnecchiava al suo fianco. Sonnecchiava un po', poi si svegliava per un sobbalzo della macchina e si riappisolava di nuovo. Matt si sentiva bene, con la mente lucida, guidava e pensava, vedeva tutto, identificava le piante senza l'aiuto dei libri. Il sole era ancora molto basso e per un po' la pista ne avrebbe seguito il corso, prima di piegare gradualmente a nord. Vide il pietrisco trasformarsi in sabbia. Vide il greto fangoso di ruscelli prosciugati che correvano paralleli alla pista. Udì un frullo d'ali di lamentose colombe levarsi dalla boscaglia. Vide un turbine di polvere su un tratto pianeggiante di deserto formare spirali al rallentatore. Ci fu una strana pausa carica di tensione. Poi il boato scese su di loro, così vicino che gli raggelò il sangue, e Janet gli si attaccò a un braccio. No, prima gli crollò addosso, spinta di lato dalla potenza del rumore, un vero e proprio scoppio, poi cercò di aggrapparsi al suo braccio, lo mancò, e infine riuscì ad afferrarlo. Matt teneva la testa incassata tra le spalle. La jeep uscì di strada ma lui liberò il braccio dalla presa di Janet e la riportò in pista. Si accorse di aver alzato l'altro braccio sopra la testa, piegato in posizione di difesa. Il rumore esplose sopra di loro e si allontanò, trascinandoli praticamente con sé, e Janet lo guardò con tanto d'occhi. La sua bocca formò un piccolo, perfetto ovale malinconico. Matt stava assimilando attentamente quel diversivo, stava esaminando le diverse possibilita. Guardava verso le montagne, pronto a essere felice. Poi vide il luccichio gemello, appena prima che sparissero, un paio di Phantom F-4 d'argento metallizzato che arrivarono all'apice del loro arco prima di portarsi in assetto orizzontale - una bella volata sul deserto in una mattinata tranquilla. Si sentì felice, udendo l'eco che adesso rimbalzava dalle catene montuose, un tuono residuo che echeggiava come un richiamo dalle Little Ajo Mountains, alle Growler Mountains, alle Granites e alle Mohawks e poi fino alle piccole citta e alle stazioni di servizio. Sì, amava quel potere, capace di sorgere dalle pieghe intime di un segreto per diventare un boato nel cielo. Immaginò le onde sonore sorvolare il territorio e avanzare sciabordando nel tempo, per settimane e mesi, fino in fondo al paese, per trasformarsi alla fine nella più dolce delle ninnananne in una piccola stanza sicura dove una madre allatta un bambino e un uomo si tiene un braccio sopra la
testa, un ricercatore, non per paura dei pezzi di intonaco o delle schegge di vetro, ma solo per abbassare la tapparella - il cielo si sta incupendo, e un aroma stuzzicante arriva dalla cucina, e c'è musica in casa. Ma era una scarica di adrenalina quella che stava sperimentando adesso, la pelle d'oca, il formicolio di eccitazione che lo percorreva mentre sedevano tremanti nella piccola jeep. Non erano ancora pronti a rivolgersi la parola. Avevano bisogno di un momento per raccappezzarsi, ridotti al silenzio nella scia di un potere e di una forza d'urto strappati alla grandezza propria della natura, ovvero così gli uomini piegano il cielo ai propri metodi. NOTE: (*) Caprimulghi, pavoncelle [N'd't']. Capitolo quinto Prima c'era una stanza vuota. Poi comparve qualcuno che cominciò a mettere oggetti sulla tavola, a spostare riviste e libri di fotografia e a portare via ciotole, vasi di coccio e fiori recisi, per poi rimettere al loro posto alcuni libri di fotografia, ma solo quelli che denotavano uno stato sociale elevato. Poi la gente prese ad arrivare a spizzichi e bocconi e partì qualche sporadica conversazione, a volte un po' imbarazzata perché non tutti si conoscevano fra loro. Quindi la stanza si riempì lentamente, la conversazione si fece più sciolta e le maschere cominciarono a calare. Klara parlava con qualcuno in un angolo, rendendosi vagamente conto che l'atmosfera si stava scaldando e che cominciavano a prevalere la cordialita, l'umorismo, l'allegria di ritrovarsi, e non è forse una di quelle cose a cui non si pensa ma che a ben pensarci è stupefacente, il modo in cui i particolari del contatto, i movimenti degli occhi e i gesti di saluto, i sorrisi di riconoscimento, gli aggiornamenti reciproci che carburano il dialogo iniziale - il modo in cui tutto questo si trasforma in energia e circola fra gli ospiti come un angelo ispirando racconti e chiacchiere, corteggiamenti e osservazioni fuori luogo, fondamentalmente il farsi della storia umana, anche se la gente non beve più come una volta, per cui non si può dire che sia il gin a renderla allegra e spontanea. E' soprattutto l'incoraggiamento degli altri. Era l'estate delle terrazze sui tetti, l'estate dei fulmini a ciel sereno, e Klara guardava i tuoni trasformarsi in lampi bianchi. Possibili piogge, diceva il meteo, ma le piogge erano rare. Klara aspettava che Miles arrivasse con le sigarette e pensava che non si era mai sentita tanto fortunata di essere viva nonostante il nervosismo per il lavoro che non funzionava proprio. Si mise a parlare in un angolo con un tizio che si lamentava perché la gente tiene grossi cani dentro piccoli appartamenti, e quando gli ospiti cominciarono ad andarsene prese l'ascensore fino al tetto e una ragazza disse: - Ho semiperso la testa - e c'era un uomo, un pittore che Klara conosceva, con una fantastica cravatta, e pensò che tenere grossi cani dentro piccoli appartamenti era uno di quegli argomenti di cui non si parla mai, finché all'improvviso ne parlano tutti, sbuca da porte e finestre, si deve o non si deve, per poi finire di botto, come è cominciato, infischiandosene dei cani, di rare razze siberiane dentro monolocali senza ascensore.
Osservò la donna che correva su una pista in cima al tetto di una torre d'uffici, in tuta fosforescente, sullo sfondo delle ciminiere. Tre o quattro persone stavano sul bordo della terrazza con il bicchiere in mano e guardavano altrettanto compiaciuti la donna che correva sola sulla pista, a trenta piani da terra, ed era una bella cosa da vedere, quella falcata leggera e il gran giorno che svaniva ardendo sulle lastre di vetro mentre le ciminiere delle centrali giù, vicino al fiume, bruciavano i loro splendidi veleni. Attraversò Times Square con Miles, che la costrinse a fermarsi per ammirare una macchina da pappone parcheggiata in una zona di rimozione forzata, davanti a una sala giochi con ragazze in topless. L'auto era dipinta di rosa e mauve, con i finestrini laterali protetti da una griglia di ferro - umorismo metropolitano. I turisti scattavano foto mettendosi in posa a turno davanti alla macchina, e c'erano gli Hare Krishna rapati a zero con i loro tamburelli, giovani e pallidi nelle tuniche arancioni, che saltellavano devotamente su e giù con gli scarponcini da ginnastica. Acey Greene assumeva un tono da vecchia zia, apostrofando Klara come una nipotina, quando voleva rimetterla in riga. Per favore, piccola, non fare la scema. Erano in un bar di Soho. - Impossibile, - disse Klara. - A nessuna donna verrebbe in mente di sposare uno come Miles. - Anche se ti venisse in mente non lo sposeresti comunque. - Dagli un po' di credito. - E' tutto quello che gli concedo, - disse Acey. - No, Miles è fantastico. Ma bisognerebbe essere matte per pensare a qualcosa di stabile o minimamente impegnativo con lui. Non è possibile, né dal suo punto di vista né dal mio. - Basterebbe buttar lì la parola convivenza per fargli alzare i tacchi. - Esatto -. E Klara rise. - Basterebbe la parola. - Insomma è un po' sfuggente, per dirla tutta. - Non è ancora pronto, - disse Klara, e più parlava dell'irresponsabilita di Miles più provava affetto per lui. - C'è sempre il potenziale per una storia, capisci -. Rise di nuovo. Quando si sente assillato da una situazione, si chiude, si difende. Ma non è un problema. Non ci sono problemi fra noi. Stiamo benissimo insieme. Le cose le sfuggivano di mano. La tazza di caffè le sfuggì di mano e si rovesciò sul banco della cucina. Non riusciva a trovare le cotolette di vitello che aveva appena comperato. Poi cercò la chiave di scorta della porta di sotto, che poteva trovarsi solo in un paio di posti, non c'erano altre possibilita sulla faccia della terra, ma non era in nessuno dei due posti e Klara si ritrovò a un'estremita del loft a guardare fuori dai finestroni chiedendosi se le scale antincendio, quelle linee nere che si intersecavano in profondita nei vicoli, potessero dirle qualcosa sul suo lavoro. - Stai dicendo stronzate, piccola, - le disse Acey al bar. Per un po' usò normale vernice da pareti e da radiatori. Le piacevano le superfici ruvide, la vernice che si squamava sul metallo, le piacevano gli infissi granulosi, la consistenza del gesso, i gessi collosi e l'olio di lino che si mescola e si spalma,
slap slap, sulla superficie del legno stagionato. Le ci erano voluti anni per capire come tutto questo fosse collegato alla sua vita, alla grana della classe operaia, ai marciapiedi butterati, belle lastre azzurre in realta, incrinate e consumate agli angoli, ai tetti incatramati e, naturalmente, alle scale antincendio dipinte di verde e poi di nero, e le piaceva lo stillicidio delle gocce e i rivoletti che diventano elementi della memoria, e la vernice all'alluminio sui radiatori e la pittura che suo padre portava a casa per riverniciare le sedie della cucina, una sedia posata sopra una pagina di giornale e la vernice bianca che sgocciolava sull'inchiostro e la pagina macchiata sul vecchio linoleum. Da Esther e Jack, prese un bicchiere di vino e ascoltò Jack parlare con la sua voce cordiale e rasposa. Le piaceva la sua voce e le piacevano le sue battute. Il vecchio rubicondo Jack dai capelli grigi, miracolosamente ancora vivo, che agitava la sigaretta sempre prossimo a dimenticare il nome dell'interlocutore. Jack adorava le barzellette sporche che Esther odiava, e a Klara invece piacevano, il tipo di barzelletta che ti piace tuo malgrado, vecchie barzellette con stupidi stereotipi e una gran varieta di espressioni vernacolari, ma maliziose nel loro accattivarsi la complicita di chi ascolta Jack raccontava storielle in cui non cambiava mai niente. A un certo punto Klara si rese conto che stendeva la vernice soprattutto per poi grattarla via, con un utensile da cucina - le piaceva la venatura residua. E la portata della sua impresa, la sua scarsa ambizione, il lavoro che le sembrava provinciale, un tratto di famiglia, la modestia voluta. Klara cominciava solo ora a chiedersi se voleva assicurarsi una vita senza allori, come quella di suo padre. Albert soleva dirle, nel suo modo vagamente didattico, che gli italiani che aveva conosciuto grazie all'infanzia a Harlem e nel Bronx, e all'eredita calabrese, tendevano a diffidare di certi tipi di talento, in quanto emigranti, gente che aveva bisogno di protezione contro la fredda mano della cultura, che aveva bisogno di figli e figlie, di fratelli e sorelle e di altri ancora, altrimenti di chi si sarebbero potuti fidare con il loro inglese stentato, i loro diecimila racconti sradicati? E un giorno era tornato a casa, il figlio tredicenne, e aveva visto i genitori sul divano in preda a uno di quei loro dolorosi umori meridionali, gli occhi della madre cerchiati e prosciugati dal tradimento, il padre curvo e impotente, un quarantenne che riusciva a raddoppiare la propria eta in un baleno grazie all'appartenenza a una speciale cooperativa del dolore, e stavano guardando la pagella di Albert appena spedita dalla scuola, e lui aveva creduto di essere stato bocciato, espulso, di aver fatto il pieno di D e di funeree F, e invece era proprio il contrario, guarda caso, la pagella era una sfilza di A con la stellina d'oro accanto, e finalmente il giovane Bronzini aveva compreso la natura della loro pena, non volevano perderlo, il bottegaio e la moglie del bottegaio non volevano vedere il figlio svanire nel grande mondo brillante che cominciava in un punto vago pochi isolati più in la. Soltanto in quel momento, mentre sedeva tutta sola nel loft, Klara capì di aver condiviso, assimilato, quel modo di sentire, le fu chiara la propria diffidenza verso il raggiungimento di certe mete, non quelle degli altri ma le proprie - le fu chiaro quanto ne diffidasse e quasi se ne vergognasse. Doveva essere fedele al
passato, anche se questo significava, anzi soprattutto se significava far proprie le delusioni del padre, confondersi con tutti i piccoli fallimenti che aveva accumulato come sbiaditi souvenir. Pensò alle sue diapositive View-Master del Grand Canyon e dello sconfinato West, agli spazi irraggiungibili che suo padre sistemava ordinatamente nel visore, e ricordò con estrema chiarezza l'immagine della guida Hopi in posa sul bordo della parete rocciosa, e sullo sfondo, a perdita d'occhio, il panorama tridimensionale del Painted Desert o dello Zion Park, o quello che era, e capì che la propria piccolezza, la propria invisibilita, era esattamente il destino che si era scelta. Acey stava bevendo tequila e Klara prese la sua solita noiosa razione di vino bianco perché le piaceva il bianco di pomeriggio, nei giorni in cui cominciava a bere prima delle sei, e il rosso a cena, e un pomeriggio morto in un bar buio non era poi il peggiore dei destini. - Di' un po', cosa stai combinando, sul versante lavoro? - chiese Acey. - Sto andando a nascondermi a Sagaponack. - A nasconderti. Non ci si nasconde laggiù. E' qui che ci si nasconde. - Dipende da cosa vuoi nasconderti. - Comincia a lavorare. Comincia a lavorare e basta. Cosa ci fai seduta qui? - disse Acey. - Non è guardando me che farai la storia. Era così umido che bisognava chiudere la porta dandole una spallata. Klara sentì quegli spari su una terrazza vicina, poi vide il tendone a strisce, Cinzano, e capì che era soltanto la tela che sbatteva nel vento. Klara parlò dei primi tempi in cui dipingeva, tentava di dipingere, e di come fosse un inferno in scala ridotta per molti aspetti, e di come ormai cominciasse a sembrarle una storia tardo bohémienne dai toni pastello, finché non si costringeva a ricordare più rigorosamente. - Gli uomini, i pittori maschi, diciamolo pure, i grossi nomi, ci trattavano come povere sceme, piccole aspiranti artiste. Eterne studentesse con i calzini corti. Quando andava bene, - disse. - Ma, tornando al lavoro? - Cosa? - L'altro giorno ti ho lodata in pubblico, parlando con una giornalista che faceva un pezzo sui giovani artisti. Le ho detto chi doveva tener d'occhio. In cambio tu. - E non è la prima volta e devi sapere che significa parecchio per me. - Dacci un taglio. In cambio tu, - proseguì Klara, - devi concedermi un'anteprima verbale, perché se devo starmene qui seduta a invidiare qualcuno che sta lavorando, voglio almeno sapere cosa sta facendo. La bocca di Acey si piegò nel solito sorriso sprezzante. Guardò Klara, finì di bere ed emise una specie di sospiro strozzato. - D'accordo. Ti ricordi il calendario con Marilyn Monroe che hai visto nel mio studio? - Certo. - E sai com'è, ogni volta che inizi un lavoro, sai che ogni tanto devi cominciare con una serie di malintesi. - Comincio sempre così.
- Io ci ho pensato, ho lavorato, ho fatto schizzi e bozzetti a olio e grandi tavole a carboncino e alla fine ho capito. Non è Marilyn che voglio, è una finta Marilyn. Una Marilyn confezionata, esteriore. Non volevo la Monroe, volevo la Mansfield. Tutta labbroni tumidi e tettone. Insomma, era così evidente! Eppure hai visto quanto cazzo di tempo ci ho messo a capirlo. - Chissa se l'ho visto, qualche film con Jayne Mansfield? - Non l'ha mai visto nessuno. Non importa. Sullo schermo era incontenibile, - disse Acey. - Poi c'erano tutte le altre Marilyn. Da un lato le Marilyn non sono mai abbastanza. Dall'altro appena l'originale è morta sono morte con lei tutte le altre bambole sexy. Sono state per così dire filosoficamente bandite dall'esistenza. Jayne le è sopravvissuta di soli cinque anni, e per quattro e mezzo di quei cinque anni si è fatta sfruttare, annullare, picchiare dall'ennesimo marito, girando solo film trash e bevendo come una spugna. - Stai decisamente cambiando genere. Sei passata alle donne bianche, - disse Klara. - Jayne era una balena bianca. Ho dovuto spazzare via un sacco di stronzate intellettuali prima di arrivare al punto in cui sono con questo lavoro. E sto facendo degli esperimenti con il colore su cui vorrei la tua opinione. - Quando vuoi. - Perché sei l'unica di cui mi fido. - Fare complimenti falsi è una faticaccia, - disse Klara. - Ecco perché lo evito. Era l'estate in cui Nixon gesticolava in tv, afferrando Ike per il polso nei filmati degli anni Cinquanta, o lo scatto della mano sopra la testa, improvviso e patologicamente strano, o il saluto finale dall'elicottero sopra il prato, le braccia che schizzavano in fuori mentre le dita formavano un triste paio di V, o le sequenze fine anni Sessanta in cui lo si vedeva agitare le braccia freneticamente nel gesto alato della vittoria, di un trionfo convulso e risentito eccomi qui, bastardi, ancora vivo e vegeto. Miles la convinse ad andare da Bloomingdale's per aiutarlo a comprare un regalo per sua madre, la quale, alla periferia di Toledo, si sarebbe eccitata e un po' vergognata di possedere qualcosa che veniva da Bloomingdale's. Passarono attraverso un'ampia zona di specchi e bottigliette gibbose, con il profumo di centinaia di essenze tentatrici nell'aria, poi finalmente Klara trovò qualcosa, una camicetta di batik e un paio di pantofole vagamente persiane. Alla fine, uscendo, mentre attraversavano il reparto di indumenti maschili, decorato con i colori dell'autunno, con maglie e camicie stese sui tavoli e intere rastrelliere di giacconi e giubbotti imbottiti di pelliccia, Miles disse:- Sta' a vedere. Cosa c'è adesso, si chiese Klara mentre lui le posava una mano sul braccio - sta' zitta e guarda. Poi vide e capì. Otto o nove ragazzini neri si aggiravano per il reparto, forse adesso erano addirittura una dozzina, quasi tutti adolescenti ma alcuni non avevano più di dieci anni. Klara vide una guardia avvicinarsi, chiamata con il walkie-talkie, mentre i ragazzini più piccoli cercavano di non farsi notare, aggirandosi quasi comicamente fra gli specchi e guardandosi furtivamente intorno con gli occhi sgranati, e ormai dovevano sentire tutta la pressione, tutto il peso della sorveglianza. Uno di loro
arraffò un giubbotto con una certa fretta, e un altro disse qualcosa e scattarono tutti insieme, dirigendosi verso una rastrelliera. Prendevano e scappavano, i giubbotti si staccavano dalle grucce e le grucce cadevano per terra, arraffavano tutto quello che potevano, due o tre giubbotti o soltanto uno, e due ragazzini presero lo stesso capo, poi corsero verso uscite diverse. Due guardie si stavano avvicinando in fretta e un'altra aspettava al varco, vicino all'ingresso principale. I clienti osservavano la scena immobili e attenti, impalati in zone neutrali, poi un ragazzino venne preso da una guardia e Klara ebbe la sensazione che un'altra mezza dozzina di discoli corresse via per il negozio in varie direzioni, gesticolando e facendo sberleffi, con le maniche dei giubbotti che svolazzavano. E Miles disse: - Cuoio, - in un tono colmo di gioia. Disse: - Scendono nel metro alla Cinquantanovesima e salgono le scale che portano direttamente qua dentro, invadono un reparto e arraffano quello che possono, poi via di qui, ragazzi, in tutte le direzioni. Disse: - Le guardie riescono a prenderne due, al massimo tre. Disse: - Hai notato, non hanno preso i piumini o i giubbotti imbottiti o quelli con il cappuccio. Solo quelli di cuoio. Volevano cuoio e pelle, - e la sua voce era carica di ammirazione. Acey si chinò sul bicchiere vuoto. - Quanti anni aveva? - Non so. Diciassette, diciotto. Non volevo saperlo, credo. - A diciassette anni si è gia uomini. - Davo lezioni di disegno, part-time. E avevo una bambina di due o tre anni, e questo gia bastava a incutere un certo rispetto, e c'era la madre di mio marito, costretta a letto, o forse era gia morta, e poi mio marito, naturalmente. - E quel delinquente minorile con indosso, cosa? Portavano i pantaloni a tubo allora? Ti è saltato addosso. - Non so chi sia saltato addosso all'altro. L'unica cosa che so, è che ci trovavamo nella stanza degli ospiti, vicino a quella dove era appena morta mia suocera. Acey spalancò gli occhi divertita e restò a bocca aperta. - Forse hai ragione, a diciassette anni si è gia uomini, - disse Klara. - Perché se c'è una cosa certa è che non fu un caso di iniziazione sessuale. Non era affatto una cosa tenera e lui non aveva particolarmente bisogno di istruzioni. E hai ragione anche a proposito del delinquente minorile. Solo che il termine non rende giustizia a quello che finì per fare. Klara guardò giù per la fila di cornicioni di Park Avenue fino al New York Central Building, con i suoi cavalcavia trafficati, il grande orologio e la cima illuminata. Ultimamente non dormiva bene e qualcuno le stava accanto e guardava la stessa cosa che guardava lei, e alla fine rientrò a guardare Nixon che gesticolava. L'appartamento di Esther Winship era lussuosamente sottotono, beige, tutte le sfumature del bianco, con grandi divani solidi che non sprofondavano quando ti sedevi, e grandi distese di moquette bruno-grigiastra, spessa, e pochi, pochissimi quadri. Le rare immagini che Esther aveva deciso di appendere alle pareti erano talmente anonime da riuscire indifferenti, e il posto era così personalizzato, tutto tensione e spigoli, che Jack si sentiva
sperduto la dentro. - Non ho rinunciato, sai, - disse Esther. - Ho mandato in giro i miei agenti. - Per cosa? - Moonman. - Credevo che avessimo lasciato perdere. Comunque, qualcuno non ha forse allestito una mostra di graffiti? - Non ci hanno messo Moonman. - Secondo me è meglio se non lo trovi. - Perché dici così, tesoro? - Perché prendi lui e molli me. La cosa piacque a Esther, che aveva una risata vecchia di duemila anni, roca e piccante. Klara trovava strane le proprie sensazioni nei confronti degli scrittori di graffiti. Avrebbe dovuto essere Esther a denigrare i treni pieni di scritte - brutti, sfigurati, simili a discariche viaggianti. Esther con i tailleur impeccabili, la cipria e i bracciali tintinnanti. Esther, pensò, e non per la prima volta, la mia gallerista, la mia amica e la mia nemica. - E' un'assurdita, te ne rendi conto? - Dimmi solo quando partiamo, - disse Klara. - Per la campagna? - Così posso avvertire il postino. - Sei invitata, lo sai, andiamo tutti. E' ufficiale, venerdì. - Mi piace bloccare la posta, - disse Klara. E avrebbe dovuto essere lei a difendere gli scrittori di graffiti, quei ragazzini diabolici che mettevano fegato e colore nella confusione sismica dell'ora di punta di un lunedì. Probabilita di pioggia, diceva il meteo, ma non pioveva. La spazzatura era giù nella strada dentro identici sacchi neri di plastica, e cominciava a colare, a corrodere i sacchi fino a logorarli, e Klara, passando davanti al gran mucchio, diretta in palestra, li sbirciò senza guardarli per paura dei topi. All'inizio andava a nuotare quasi tutti i giorni allo Ymca, poi non più tanto spesso, e alla fine solo una volta alla settimana, perché nuotare serviva ad allentare la tensione del lavoro, a restituirla a ritmi rilassati, alla piacevole monotonia di quello che resta dopo una lunga tirata di lavoro e isolamento. Era l'estate delle prugne succose e bluastre, e a Klara piacevano le torri delle cisterne sospese nel crepuscolo, sui loro alti pali e trampoli, simili a rimanenze dei lavori di falegnameria della citta, cose con una minima probabilita di sopravvivere, chiodi di legno e doghe, il vecchio legno screziato e la delicata mole tenuta insieme dai cerchioni. In un piccolo giardino pensile con una copia di pessimo gusto di una statua dell'acropoli, una figura maschile senza braccia, senza testa, con un moncone di gamba, un cazzo devastato e sterco d'uccello sul pettorale sinistro, e come mai era tanto sexy, si chiedeva Klara - fu qui che vide quell'uomo per la terza volta in sette settimane, Carlo Strasser, il collezionista dilettante di arte e chissa cos'altro, con le sue splendide scarpe italiane, e una fattoria, se ricordava bene, vicino ad Arles. Si scoprì che il padrone di casa aveva intenzione di invitarli tutti e due a cena da moltissimo tempo. E risultò che Carlo si occupava di strumenti elettronici, viaggiava da Hong Kong a Taiwan
per affari e una volta aveva preso un aereo per Citta del Messico per vedere una partita di calcio. - Veramente oggi avrei dovuto essere a D•s-sel-dorf, - lo pronunciò in modo comico, - ma ho pensato che la vita è troppo breve e che ultimamente sto prendendo troppi aerei e inoltre. - Inoltre puoi alzare la cornetta del telefono. - Certo, posso alzare la cornetta, dall'altra parte del filo c'è sempre qualcuno. Intorno a loro, sui tetti delle case, c'erano lucernari e alti sfiatatoi dal cappuccio a spirale e nuove recinzioni di ferro più alte del tetto per scoraggiare i ladri. E quella notte Klara si svegliò nel loft pensando di essere da un'altra parte - non in un altro posto, ma in un posto che non le apparteneva, perché anche dopo anni non riusciva a svegliarsi nel loft senza sentirsi in uno spazio alieno, in uno spazio da sogno. L'altezza e l'ampiezza del locale, le colonne e gli alti finestroni venivano da un sogno dell'alba, non proprio un incubo, il sogno di una bambina che si trovava ai limiti della stanza, una bambina che sognava la stanza senza esserci dentro - una stanza surrealmente aperta a un'estremita, dove si trovava la bambina o dove cominciava il sogno, una stanza in cui le cose, gli oggetti venivano chiamati sedie e tende e letti ma erano anche cose completamente diverse, prive del sostegno delle solite garanzie, e si spostò nel letto e svegliò Miles. Andarono al mercato del pesce di Fulton Street e Miles scattò qualche foto, alle quattro del mattino, a una fila di enormi pesci spada distesi a terra, che epica assurdita, quelle grandi creature marine arenate in una via di New York. Poi trovarono un locale aperto tutta la notte e si fecero servire uova al bacon e caffè. Miles voleva parlare di Acey Greene. - Quella roba che fa. Sai cosa sta facendo, no? Una serie di quadri sulle Pantere Nere. Altra merda da scaricare sui maschi di colore. Lei lo lasciò parlare. - La sopravvaluti del duecento per cento. Il suo lavoro è tutta una messa in scena. Una bella vernice sopra la merda totale. Devi guardarlo bene. E' tutto fumo. Sta dando alla gente quello che vuole, asseconda le idee dei bianchi sui neri cattivi. Klara si accorse che si era sempre aspettata che qualcuno non fosse d'accordo con lei, quando lodava il lavoro di Acey. E adesso era successo. Quel momento le formò un grumo nello stomaco, insieme al tuorlo d'uovo e al pane di segale tostato. - Sai come vanno queste cose. Ha avuto da te quello che voleva. Approvazione, pubblicita e tutto il resto. Adesso va a ungere altre ruote. Klara sedeva in uno strano silenzio pensoso. Voleva che lui continuasse a parlare, che andasse fino in fondo, fosse o meno la verita. Si sentì assolutamente ingenerosa, ma pensò che forse in parte lui aveva ragione sull'opera di Acey. Miles aveva intuizioni utili sull'arte. Era una delle cose buone del loro rapporto, ovviamente, il fatto che lui si piazzasse davanti a un pezzo di Klara e le dimostrasse, con poche parole concise, arrendendosi al potere dell'oggetto, che capiva cosa lei stesse facendo. - E' entusiasta delle pantofole, - disse. - E' entusiasta delle pantofole. Di cosa stiamo parlando? Ah, di
tua madre. - Sì, è entusiasta delle pantofole. - Entusiasta. Bene. Sono contenta. O forse le cose stavano così. Miles si sbagliava totalmente nel giudicare il lavoro di Acey, ma lei avrebbe voluto che avesse ragione. A Sagaponack mollò la valigia nella camera degli ospiti e andò a fare il giro dei pittori locali. Dipingevano dentro baracche, dentro studi dipinti a calce e dentro granai ristrutturati, e Klara andò a trovarli quasi sempre da sola, prendendo a prestito la macchina di Esther, mentre quest'ultima stava al telefono con padroni di casa e avvocati. A cena Jack si sentì male e si sdraiò sul divano, così la serata ruotò più o meno intorno a lui. Klara si fermò sulla spiaggia e guardò le onde montare e rannicchiarsi lente verso riva. Telefonò a Miles, che il giorno seguente partiva per Normal, Illinois. Incontrò uno scultore con la faccia piena di capillari scoppiati, inglese, la moglie stava morendo, e parlò a lungo con lui, una conversazione intensissima sul modo in cui il loro lavoro li esponeva, uno strato dopo l'altro, in tutta la loro inadeguatezza, e si consolarono a vicenda, scoprendo come cose del genere, apparentemente uniche, potessero essere condivise. Quando lei se ne andò si abbracciarono. Esther disse: - Sei sexy ultimamente, lo sai? - Chi lo dice? - Il vecchio Jack. Klara si stancò come al solito del vecchio Jack, ma poi si schierò dalla sua parte, simpatizzando con lui, dandogli ragione e trovandolo divertente e poi di nuovo noioso, a volte perfino patetico, ma lui amava Esther in un modo dolcissimo di cui parlava apertamente senza badare a chi stesse a sentire, raccontando a camerieri e portieri com'era brava sua moglie a letto, ed Esther sapeva che era impossibile fermarlo e probabilmente non lo desiderava nemmeno. Avevano tutti e due bisogno di ovazioni pubbliche, altrimenti come sarebbe sopravvissuta la loro vitalita? Le cose le sfuggivano di mano. Un bicchiere le sfuggì di mano sulla terrazza di qualcuno. Sola sulla macchina di Esther, dava ordini a se stessa, ad alta voce, gira a destra, a sinistra, fermati al rosso. Miles le disse al telefono: - Sai, la gente non trova poi così strano che una donna possa ammalarsi ogni volta che Henry Kissinger si ammala a mille miglia di distanza. Noi comuni mortali dobbiamo procurarci i nostri malanni in tutti i modi possibili. Si levò un vento ostinato, che non voleva smettere di soffiare e portava il debole profumo della fine dell'estate, ed Esther disse: - E' come la tramontana (*) -. E stranamente Klara pensò ad Albert, ma forse non era poi così strano - a lui piacevano i nomi italiani dei venti che scendevano dalle Alpi o salivano dal litorale africano. E a lei non piaceva veramente l'opera dello scultore inglese, se doveva essere sincera, nonostante la comune ansia pessimista. - No, davvero, sei splendida, - disse Esther. Era una notte così fresca e limpida. Ombre, bisbigli, la linea della mascella di un uomo, i suoi capelli, il modo in cui teneva il
bicchiere di vino. Esther disse: - Naturalmente Jack è un bambino, ecco perché l'altra sera, quando si sentiva tagliato fuori, si è sdraiato sul divano. - Voleva compagnia. - E' proprio un bambinone, ma se dovesse morirmi cadrei a pezzi in un decimo di secondo. Klara voleva bene a tutti e due, e lo disse quando se ne andò, e parlava sul serio, nel modo in cui si parla sul serio dopo quattro giorni e quattro notti ventose di buon cibo, di chiacchiere e i campi di patate che arrivano fino alle dune della spiaggia, sotto un cielo alto e sgombro. Che fortuna essere viva, pensò, e prese il treno del ritorno, umanamente invisibile nel sedile spazioso, dove fumò una sigaretta nell'attesa spasmodica di arrivare a casa - a casa da sola, circondata dalle cose e dai materiali che ti restituiscono a te stesso. Suo padre soleva dire, La parte più bella di un viaggio è il ritorno a casa. Ma quando mai si allontanavano da casa? Solo raramente, per pochi giorni, per andare in un bungalow in affitto in riva a un lago, con un'altra famiglia, perché diononvoglia che non siamo circondati da una folla di gente, diceva sua madre, e sbrighiamoci a tornare prima che qualcuno rubi il messaggio lasciato sulla porta per il lattaio. E una volta la madre di Klara trovò un biglietto da visita nella tasca della giacca del padre - la stava portando in lavanderia e trovò il biglietto con il nome del marito, ma senza quello della societa, e il nome era Sax, con la x finale, e naturalmente gli chiese perché. Lui rispose che gli sarebbe servito per i viaggi futuri. Voleva un biglietto da visita da dare a chi poteva capitargli di conoscere in treno. Non è questo che ti sto chiedendo, disse sua madre. Non è il viaggio che m'interessa. Allora cosa mi stai chiedendo? Perché l'hai scritto così, disse sua madre, Sachs non è un nome difficile. E lui disse, Non è questione di facile o difficile. Cosa sarebbe questo s-a-x, disse sua madre. Cos'è, stai cambiando mestiere, è questo che significa? Adesso abbiamo in casa un musicista jazz? Lui disse, E' una sciocchezza, lascia perdere. Non è affatto una sciocchezza, disse sua madre. Si pronuncia allo stesso modo, disse lui. E' veramente una sciocchezza. L'ho scritto così perché è più facile da pronunciare in treno, per gente abituata a nomi facili. Se ci fai caso, tutti i nomi sono semplici, in affari. Sachs è un nome facile, disse sua madre. Non è un nome difficile, a meno che il treno di cui parli non sia pieno di gente, diciamo, debole di comprendonio. Il nome da ragazza di sua madre era Soloveichik. Non c'entra che il nome sia facile o difficile, insisté lui. E' quello che dicono le lettere, tutta la questione sta nel c-h. Quale questione? disse sua madre. E suo padre emise un suono che Klara non avrebbe più dimenticato e
a cui ripensò molte volte negli anni successivi. Emise un suono duro e gutturale, dal fondo della bocca, forte e metallico, colmo di rancore, e in un primo momento lei pensò che avesse fatto stampare quel biglietto perché non voleva che la gente facesse l'errore di scambiarlo per un tedesco, ma poi pensò che l'aveva fatto perché non voleva che la gente sapesse che era ebreo. La gente che si incontra in treno. Uomini d'affari con i loro biglietti da visita, i loro rasoi portatili e i loro scompartimenti privati sui convogli più importanti che partono dalla Grand Central Station. E com'era curioso, quanta distanza cercava di percorrere dal suono rasposo di quel c-h, con tutta la sua ampiezza di riferimenti, la sua storia e la sua cultura gutturali, tutti quei pesanti odori e accenti nel corridoio - da tutto questo alla x di ignoto, al simbolo di mister anonimo. E il cambiamento suscitò la solidarieta di Klara proprio perché non aveva senso alcuno, perché metteva a nudo le spirali mentali di un certo tipo di tormento. Suo padre faceva il cassiere in un grande magazzino. Poi diventò agente assicurativo, lavorando su commissione, nelle zone più desolate del Bronx. Gli assegnarono i quartieri dei negri e le lavanderie cinesi e gli immigrati appena sbarcati da ogni angolo della terra. Per qualche tempo dipinse insegne, i nomi delle ditte sulle porte di vetro smerigliato, applicando l'oro con un pennello di zibellino, una cosa che sapeva fare benissimo ma che odiava. E' solo un biglietto da visita, disse. Non sono andato in tribunale a farmi cambiare nome. Sulla mia tomba potrete scriverlo correttamente e sarete tutti contenti. Perché non ho mai saputo che suonavi uno strumento? disse sua madre. Quando il divorzio da Albert divenne definitivo, Klara smise di farsi chiamare Bronzini e tornò a essere una Sachs, ma si assicurò di scriverlo con la x, almeno in pubblico, nella sua emergente identita di artista - era così che firmava le sue opere. - Be', sì, forse è vero, a diciassette anni si è gia uomini, disse Klara. - Mi sono anche chiesta se la cosa non fosse più importante di quanto volessi ammettere. - In altre parole, ti ha indicato una via d'uscita? - Mi ha indicato una via d'uscita? - A cui tu all'epoca non volevi pensare. Acey non voleva bere altro e Klara aveva ancora mezzo bicchiere di vino, così passarono il pomeriggio chiacchierando, uno di quei morti pomeriggi estivi nel bar buio e vuoto. - Nemmeno lui sembrava dare molta importanza alla cosa. Credo che avesse le idee chiarissime e sapesse, come dire, tenere l'onda. Il mio secondo marito aveva una barca, ma non sapeva tenere l'onda altrettanto bene, e non so perché sto rievocando questa storia. Rise sorseggiando il vino. - Beveva martini Tanqueray, Jason. Si comprava una bottiglia di Tanqueray ogni volta che andavamo nel Maine, anche un paio di bottiglie, forse. Potevamo dimenticarci il vermouth ma non il gin, comunque non dimenticavamo nemmeno il vermouth, e a me piaceva andare lassù, anche se a volte mi chiedevo come mai, in modo molto distaccato.
- Com'era successo? - Com'era successo che avessi sposato un uomo che diceva quello che diceva e pensava quello che pensava? - E beveva martini, - aggiunse Acey. Si misero a parlare d'altro. Di lavoro. - Vedi, Marilyn odiava essere Marilyn. Invece a Jayne piaceva, disse Acey. - Lei era nata per essere Marilyn. Viveva in un palazzo rosa, con uno zoo di notevoli dimensioni. E sai come vanno queste cose, la regina del sesso a buon mercato diventò sempre più famosa e alla fine la donna più fotografata del mondo. - Come morì? Acey abbassò il capo sul petto, facendosi venire il doppio mento e un vocione da sceriffo del Sud. - In un orribile incidente d'auto, come Jimmah Dean. - Stai dipingendo il disastro? - No, io voglio una Jayne che sia una presenza viva e minacciosa. Una bionda ossigenata e lucida, che emette secrezioni da ogni poro. Una donna dal flusso abbondante. Una Jayne atomica. - Quando vuoi farmela vedere sono pronta, - disse Klara. Il sole era sbucato da dietro un edificio vicino e inondava la strada. - Tu ti preoccupi troppo, - sentenziò Acey. - Ti preoccupi troppo perché non stai lavorando e ti senti profondamente obbligata a giustificarti. Credo che tu sia perennemente intenta a giustificarti, in segreto. E ti preoccupi troppo anche del lavoro che hai fatto perché, considerato quello a cui hai rinunciato e che hai tolto ad altri, considerato il danno che hai causato, se vogliamo dire pane al pane, bambina, hai bisogno di convincere te stessa che il tuo lavoro sia abbastanza importante da giustificare tutto il resto. Pagarono il conto. Acey posò le mani sulle spalle della donna più anziana e le strinse forte, un gesto insieme macho e materno, mentre il barista portava il resto. A Sagaponack, Esther si metteva in tenuta da safari e parlava sempre al telefono. A colazione disse a Klara: - Chi è che ti taglia i capelli? L'hanno arrestato, quel serial killer che ti taglia i capelli? A casa di qualcuno Klara si mise a parlare con una donna e scoprirono di conoscersi. Era una pittrice di tanto tempo prima, della zona industriale sull'East River, vicino al terminal del ferry, dove Klara era andata a vivere dopo il divorzio, con una doccia di fortuna e senza fornello, cinquanta dollari al mese, e frequentava pittori e scultori, gente che lavorava con i materiali che trovava, e le strade erano pavimentate con vecchi blocchi di pietra, forse usati un tempo come zavorra, e a volte si riunivano tutti sulla terrazza, tre o quattro pittori e una moglie o un marito e un paio di ragazzini e un cane che qualcuno stava tenendo per qualcun altro, e le due donne ricordarono come Klara non sedesse mai sulla parte spiovente del tetto, sulla superficie di catrame che scendeva verso il bordo, perché aveva paura dei bordi, e c'era un'atmosfera di viaggio per mare e di lavoro nuovo, e lontano, a nord, situata oltre il colmo del tetto, fra il colmo del tetto e il grande ponte, c'era la massa poliedrica dei grattacieli. Il vento soffiava notte e giorno e Jack disse: - Sono ragionevolmente certo che quel tizio laggiù, come-si-chiama, una
volta era sposato con la signora dei sacchetti di carta. Fu un grande scandalo. Lei era l'ereditiera dei sacchetti di carta e io le sedevo accanto a cena... questo succedeva, Dio santo, venticinque anni fa. Esther sa di chi parlo. Fu uno scandalo enorme. Esther, dai, aiutami. Il problema con Jack era che sembrava ubriaco quando non lo era, ma assolutamente sobrio e deliziosamente galante quando era ciucco perso. Erano in uno scantinato di Chinatown a mangiare grossi noodle molto saporiti, chow fun o chow fon, il menu era macchiato - un posto con i tavoli di formica, i menu macchiati, niente licenza per gli alcolici e Mike con uno stuzzicadenti alla menta in bocca. - Devo mostrarti un film, ma mi odierai dopo averlo visto. - Non starai parlando di Normal, - disse lei. - Abbiamo girato circa undici ore a Normal. Quella donna era instancabile, è nata così. Una vera forza della natura, ma non so ancora cosa ne sia venuto fuori. Potrebbe essere uno schifo. - E nel frattempo. - Odierai quest'altra cosa, ma non c'è verso, devi assolutamente vederla. Si rimetteva all'opinione di Klara in molti modi, a volte sottili, a volte no, e la costringeva a piccole discussioni che sapeva di non poter vincere, e usava certi argomenti per mettere alla prova la sua forza, cosa che avrebbe dovuto infastidire Klara, ma non la infastidiva, e a parte questo era premuroso, le portava le sigarette e cercava di aiutarla a superare quel periodo di blocco nel lavoro, un periodo esasperante. Miles aveva il solito raffreddore, ce l'aveva sempre, voce un po' alterata, occhi offuscati dalle medicine, e dopo la mostra di Acey andarono tutti in discoteca, e lei guardò Miles e Acey ballare, ed erano assolutamente fantastici insieme, e com'era strano, perché i due non si sopportavano, o forse non era tanto strano - le luci lampeggiavano e la musica scuoteva le pareti. Era ancora l'estate delle terrazze e Klara sedeva all'ombra fitta di un pergolato su un tetto di Chelsea, pali e travi in legno di sequoia e tralicci di cedro ingrigiti dal sole e dalla pioggia. Un poeta attraversò la terrazza dal fondo, arrivò verso di lei sulla sottile superficie d'ardesia. - Stanno scrivendo il nome Marie, - disse. E Klara guardò fuori dal pergolato, orlato di grandi foglie increspate, foglie di vite di qualunque varieta fossero, e vide la scia dell'aereo scrivere in cielo il nome Marie. E il World Trade Center che si levava all'orizzonte, verso sud, due torri siamesi viste da quell'angolatura, unite al centro da una gru. Ed era veramente un conforto che qualcuno avesse costruito quella terrazza, trascinando tanto legno e tanta terra su per i cinque stretti piani di scale, innalzando pali e travi e facendo crescere rampicanti dentro barilotti tagliati a meta, vecchi barilotti di whiskey panciuti e macchiati. Klara sedeva a tavola con altre tre persone che mangiavano nachos e bevevano sangria. Gli altri bevevano sangria, a lei il vino piaceva liscio. Era l'estate delle notti neroazzurre, dei tuoni ambigui che scoppiavano rochi e falsi a oriente, del reticolo della citta giù in strada - un tizio decapita l'amante, mette la testa in una scatola e
se la porta sul treno per Queens. E non bisogna dimenticare il poeta ubriaco su una panchina di ghisa e la strana donna minuta che lo fotografava ossessivamente. Klara osservò la scritta dell'aereo che cominciava a sfaldarsi, finché scomparve. Un gatto camminava lontano, sul bordo del tetto, un randagio venuto dai vicoli e dai giardini sul retro delle case, e Klara non capì perché, non lo si capisce mai, ma sua madre entrò a far parte di quel momento, arrabbiata per qualcosa, e anche un vicino con una scarpa speciale, un uomo con una scarpa alta, una scarpa ortopedica, cose, forme, masse, ricordi, tutto l'intreccio di stati d'animo contradditori. Perfino l'aria inquinata tiene a galla un nome di donna. Miles la portò nello studio di un videoartista di sua conoscenza. Be', non era proprio uno studio, d'accordo, ma una sfilza di stanze piene zeppe di attrezzature e di televisori, dove l'artista viveva e lavorava. Incominciò ad arrivare gente. Alcuni erano gia lì e altri cominciarono ad arrivare, e nell'aria aleggiava la scia di un odore pungente, l'aroma tipico della marijuana rollata e fumata collettivamente, e la sensazione di un evento non dissimile dalla proiezione di un film a mezzanotte, solo che il gruppo non era così sciolto - aveva gli occhi un po' a spillo, questa gente, dubbiosa sulla propria aspettativa. Per lo più sedevano sul pavimento. C'era qualche sedia pieghevole e un divano in una stanza e un po' di gente in piedi, ammassata negli angoli, ma la maggior parte sedeva sul pavimento coperto da macchie di bibite e non meglio identificate porcherie. C'erano televisori sistemati l'uno sopra l'altro dappertutto nell'appartamento e altri apparecchi erano parcheggiati individualmente su appositi tavolini con copie di guide tv, e c'erano televisori con orecchie da coniglio e alcune vecchie console di mogano e schermi di ogni dimensione dal più piccolo congegno d'importazione alla grande faccia da proscenio della divinita della casa. E un'intera parete in una stanza - c'era una parete di televisori, almeno un centinaio di apparecchi identici gli uni sopra gli altri dal pavimento al soffitto. Klara e Miles rimasero in piedi in un angolo. Lei aveva cominciato a prendere le distanze dall'evento molto prima di arrivare lì perché a un certo punto le era stato detto di cosa si trattava, ma doveva vederlo comunque, al di la dei cattivi presentimenti. L'evento era raro e strano. Si trattava della proiezione della copia pirata di un filmino amatoriale otto millimetri che durava circa venti secondi. Forse un po' più di venti secondi. Il filmato era noto come il film di Zapruder e praticamente nessuno che non facesse parte del governo l'aveva visto. Naturalmente l'evento aveva il marchio dell'autenticita e un'intensita speciale. Ma gli astanti, pur considerandosi fortunati di essere lì, sperimentavano anche una specie di paura fluttuante, una lettura del termometro degli anni Sessanta, con un taglio decisamente allucinatorio. Il filmato cominciò a passare sugli schermi in una stanza ma non nelle altre ed era pieno di sobbalzi e immagini sfocate, era un filmato assolutamente irregolare, un filmetto amatoriale fatto con una superotto, e la limousine scese lungo la strada, l'immagine macchiata dalla luce del sole, la testa si chinò uscendo
dall'inquadratura e quando riapparve ecco la potenza del colpo assassino, inaspettatamente, lo sparo alla testa, e la gente nella stanza esclamò ohh, e poi ancora ohh, e cinque secondi dopo la stanza sul retro era tutta un ohh, ogni volta la stessa emissione di fiato, un'espressione incontrollabile di incredulita, e una donna seduta sul pavimento si girò dall'altra parte coprendosi la faccia perché era una cosa del tutto nuova, capite, tenuta nascosta per tutti quegli anni, quello era il famoso sparo alla testa e la gente dovette fare i conti con l'impatto - a parte il fatto che era il presidente la vittima, al di la dei limiti estremi di questo fatto, dovettero tutti fare i conti con l'impatto che qualunque proiettile ad alta velocita progettato per essere letale crea con qualsiasi testa umana, e la lacerazione dei tessuti e della scatola cranica fu una tremenda rivelazione. E, oh merda, oddio, lo ha colpito frontalmente, vero? E questo era l'altro elemento, tutte queste cose nella sequenza che inizia con l'inquadratura 313, e non c'era forse da aspettarselo, avrebbe detto Miles più tardi, che ci fosse un tredici da qualche parte in questo caso? NOTE: (*) In italiano nel testo [N'd't'].
Klara era di nuovo afflitta dal mal di schiena e dal sonno irregolare e talvolta non riusciva a restare seduta su una seggiola. Le dissero di andare a lezione di yoga. Le parlarono di tisane speciali e massaggi olistici. Andò in ospedale a trovare Jack Marshall, che si stava riprendendo da un'operazione al cuore, e ci andò con Esther, che riteneva una visita in ospedale un avvenimento da era faraonica, per il quale bisognava assumere un aspetto tranquillo truccandosi e vestendosi in modo adeguato e portare libri, puzzle e fiori e magari un prete che pronunciasse formule speciali. Esther sembrava non sapere niente di quello che succede negli ospedali e camminava tutta rannicchiata, tenendosi lontana dalle porte delle stanze dei pazienti, per paura di intravedere qualcosa o di buscarsi qualche malanno, prendendo la cosa come un fatto personale - una sfida alla sua estrema distanza da simili faccende. Jack disse che catetere era la parola più brutta della loro lingua. Le dissero di mangiare riso integrale, fare bagni caldi, farsi vedere da un tale in Finlandia che risolveva problemi di lombaggine. Andò all'inaugurazione della mostra di Acey, naturalmente, in una galleria nuova di zecca, uptown, all'inizio dell'autunno, e Acey era sensazionale in un tailleur di lino bianco con un bandeau di paillettes, e il suo lavoro era tutto seni e culi a forma di cuore, un assalto osceno in cui le parti del corpo femminile, il vestito a guaina che aderiva alle cosce, la bocca piena e le tette a testata nucleare diventavano politica. Non c'era nessuna consolazione in quel lavoro, pensò Klara. Se è vero che le donne sono afflitte da una condizione definita incompletezza, e alcune si riprendono bene e altre no, allora questi
quadri la sventolavano, con gusto, questa condizione, te la sbattevano in faccia. E Acey faceva valere i suoi argomenti grazie alla composizione e alla prospettiva, alla strana corposita, il culo massiccio sbilanciato, le sproporzioni, il rapporto dei seni col corpo, il modo provocante in cui Jayne scendeva dalla Jaguar, tutta avidi eccessi, le ginocchia e la piega dell'inguine che scoppiavano dall'imballaggio. Era questione di linee di forza. Ecco una donna che viveva al di fuori dei bisogni burocratici del desiderio maschile, al di fuori delle cerimonie minuziose e delle mani arrapate. Acey usava sfumature di colore, toni color carne, assolutamente non-pop, un sacco di sabbia e ambra e un bellissimo rosa bruciato, una striscia scottata dal sole che attraversava la parte superiore di ogni tela, un po' triste e logora, e il tutto leggermente confuso e sdoppiato, come una fotocopia a colori, e questo era il tocco rivelatore - hai di fronte una copycat Jayne, una riproduzione della dea, ancora più potente perché non originale. Andarono in una discoteca da qualche parte e Klara guardò Miles e Acey ballare, ed erano assolutamente fantastici insieme, tanto che si sentì un po' gelosa naturalmente, e si sentì gelosa anche mezzo minuto dopo - non gelosa, ma rancorosa - quando Acey si mise a ballare con una donna. Le guardò ondeggiare e mandare bagliori riflessi sotto le luci stroboscopiche ed era a un tempo piena di ammirazione e di rancore, mentre le osservava affascinata, l'altra donna in jeans e sandali di pelle intrecciata, la figlia di qualche diplomatico, pensò Klara, con lunghi riccioli sciolti, e com'era disinvolto il loro portamento, la grazia di un certo abbandono passeggero, gli occhi che si cercavano sotto le luci febbrili, e la propria reazione la punse sul vivo. L'ascesa di Acey, il nome di Acey nell'aria, il suo talento di pittrice, il suo senso di liberta, i suoi modi perentori, il suo volere tutto - e probabilmente lo otterra - Acey che balla e sembra a strisce sotto le luci, con la giacca aperta e svolazzante e la musica che scuote le pareti. La cosa buffa è che Esther non stava scherzando. Un prete arrivò davvero, dalla cappella privata di un attore, grazie all'intervento di Esther, sebbene Jack non andasse in chiesa da quarant'anni a eccezione della messa di mezzanotte a Natale, alla quale assisteva, come si suol dire, religiosamente. Si sedettero a chiacchierare di canzoni dei musical di Broadway. Jack era troppo debole per cantare o raccontare barzellette. Era una grande massa scomposta di carne di vitello. Esther gli tenne la mano finché non dovette uscire a fumare una sigaretta. Aveva smesso e ricominciato, e il prete andò con lei, mentre Klara sistemava il cuscino di Jack. E quando alla fine della serata abbracciò Acey - era la fine della serata per Klara perché in quel posto la musica era una sorta di attacco epilettico e doveva andarsene via in fretta e quando abbracciò Acey e le disse che la mostra era molto bella e le augurò ogni bene, fu un'esperienza di sfumature e di allusioni, un sentimento orribile, quello di manifestare il proprio affetto a un'amica, ma con riluttanza.
Decise di andare a Los Angeles con Miles. Lui aveva finito i soldi per Normal, Illinois, e stava cercando di ottenere un finanziamento da un gangster israeliano che viveva a L'A'. O forse erano due, gli uomini, non sapeva bene, un israeliano e un gangster. Comunque, decise che sarebbe andata anche lei. L'idea non le piaceva, ma pensò che se non altro si sarebbe allontanata da quel senso di inanita o qualunque fosse esattamente il suo stato mentale - neanche di questo era sicura. E il poeta ubriaco su una panchina di ghisa, il rumeno in visita sul terrazzo, e una donna, una perfetta sconosciuta, che aveva scattato sette rullini di pellicola e se n'era andata senza una parola. I tre giorni li trascorse a Los Angeles. Aveva ben poco da fare per cui non avrebbe dovuto importarle quello che vedeva o che sentiva, ma durante quei tre giorni a un certo punto qualcuno accennò alle Watts Towers e Klara pensò che forse avrebbe dovuto andare a vederle perché ne sentiva parlare da anni e pensava forse se avrò tempo e poi se ne dimenticava. A un certo punto ricevette una telefonata da New York, e guarda caso era una persona ansiosa di leggerle le recensioni della mostra di Acey, uscite di fresco, recensioni negative, pungenti e acide, e Klara chiamò un po' di gente e venne a sapere che in citta si diceva anche di peggio. Parlavano controllando l'eccitazione, con quel tono neutro che tradisce il piacere nelle pause di rito. Si aspettavano che lei rispondesse sullo stesso tono. Questo la fece sentire orribilmente squallida. Si aspettavano che anche lei fosse contenta, con la dovuta osservanza del protocollo. Era il penultimo giorno. L'ultimo andò a vedere le Watts Towers. Miles l'accompagnò in macchina e disse che sarebbe tornato di lì a un'ora. Klara non aveva la minima idea di quello che l'aspettava. Non immaginava che una cosa così intrisa di vernacolo potesse avere una qualita tanto epica. Tutto quello che sapeva delle torri era che l'autore aveva lavorato da solo, un immigrato, per molti anni, un numero inimmaginabile di anni, e che aveva usato tutti gli oggetti che era riuscito a procurarsi e a recuperare. Andò in giro toccando le cose, passando il palmo delle mani sulle superfici brillanti. Le piacquero molto i disegni degli zerbini di juta pressati nel cemento. Le piacquero il vetro verde frantumato e i fondi di bottiglia che decoravano un arco. E una delle torri più alte, con il suo disegno di atomi roteanti. E la parete sud tutta candita di ciottoli e gusci di molluschi. Non riusciva a capire bene di cosa si trattasse. Era un parco di divertimenti, la sede di un tempio, e chissa cos'altro. Un bazar di Delhi e una festa italiana di paese, forse. Un luogo carico di epifanie, ecco cos'era. C'erano gatti dappertutto, addormentati sotto il sole o in cerca di una carezza rubata, randagi delle strade calde, gatti di ghetto, e Klara si sentì addosso una sorta di elettricita statica, vedendo le colonne tempestate di vetri rotti, di schegge di vecchi specchi buttati via, e un assurdo patchwork di piastrelle e l'arco che il costruttore aveva eretto sopra il cancello principale con lattine di Canada Dry. Avvertiva una carica elettrica, un'anima profonda, avvertiva un
divertimento che sfiorava la resa. Come quando da ragazzine si è prese da un riso sfrenato e si crolla sulla spalla della migliore amica. Avvertiva una debolezza causata dalle troppe sensazioni, dal troppo vedere e sentire. Accarezzava e tastava. Guardò in alto, l'imponenza della torre più alta. Che splendida indipendenza aveva quest'uomo, o forse lottava per averla, e ora lei voleva andar via. Non aveva bisogno di rimanere più a lungo. Un'ora era anche troppo, per cui si fermò accanto all'ingresso, con la testa in fermento, in attesa dell'arrivo di Miles. Quella sera prese il telefono e cercò di contattare Acey, telefonò per un'ora, svegliando un sacco di gente, poi arrivò Miles, stanco morto, e si tolse immediatamente gli stivali, allargando le mani con un movimento fluido, ripetuto. - Guarda, - disse Klara, - hai le calze dello stesso colore del tappeto. Forse significa che è arrivato il momento di andarsene. Lui le raccontò del suo pomeriggio, trascorso ai bordi di una piscina prosciugata, e a proposito - c'era un tipo che aveva raccontato com'era riuscito a fingere il suicidio per annegamento e a scomparire senza problemi. - Parli a velocita supersonica, - gli disse Klara. E c'era la battuta di Yankel, l'israeliano con i soldi a palate, C'è gente che finge di morire, io fingo di vivere. Klara chiamò di nuovo New York e scoprì che Acey era andata da qualche parte o che forse semplicemente non aveva voglia di parlare. Miles aveva voglia di parlare. Miles era sbattuto, si trascinava a fatica, ma era anche sovraeccitato, caricato dalla caffeina e dal traffico dell'autostrada e da qualunque altra cosa avesse inalato nell'ambito delle sostanze proibite. Tre giorni di chissa cos'altro ai margini del lavoro. Stavano in un appartamento preso a prestito e Miles doveva alzarsi presto per andare a Normal e c'era uno spazio tra la sua stanchezza e le sue terminazioni nervose cariche di elettricita, spazio che riempirono in modo convincente con il sesso. Lo fecero, lo rifecero, parlarono e lo fecero di nuovo. Fu bellissimo, per lei almeno - non sapeva bene cosa provasse lui. Miles era appassionato e un po' febbrile, aveva il solito raffreddore endemico, e quando parlava lo faceva su un piano polifonico, ripido e disperato, e quando scopava era forte e distaccato - non distaccato ma sradicato, una sorta di scopata impersonale, nel senso che non c'era nulla al di fuori dell'atto, che vivevano per gli affondi, per il continuo rumore nasale, e finalmente lui si addormentò, poi si addormentò anche lei, e il mattino dopo riuscirono a prendere l'aereo per un pelo. Com'era, dall'alto? Il grande West battuto dal vento, bacini e catene montuose, si poteva quasi riconoscere la composizione minerale, lo schisto del terreno arido e argilloso - era quel genere di bellezza immensa e inesorabile che ti intimidiva leggermente perché non conoscevi il linguaggio della natura, i nomi delle formazioni e le pieghe delle montagne. E suo padre con la guida Hopi, Hopi o Navajo - le diapositive View-Master di una guida con la fascia intorno alla fronte sull'orlo di un canyon. Seduto in cucina a guardare le diapositive schiacciando il pulsante del congegno manuale. Si era specializzato in diapositive del grande West. Lo chiamava il grande West e lo era, lo è, eccolo
lì, le diapositive tridimensionali della discesa nel canyon a dorso di mulo, ovvero, Il Canyon Indossa il Manto Vellutato del Crepuscolo, ed era esattamente questo, che faceva, quel suo West completamente irraggiungibile, e lui stava in cucina perché lì la luce era migliore. Klara non conosceva il West e non l'aveva mai sorvolato con un cielo così limpido. Sembrava giovane e intatto, aveva l'aspetto alieno dei mondi che non abbiamo mai veduto, non era nostro visto dall'alto, era troppo fluido, nuovo e alieno - non l'avevamo ancora colonizzato. Klara si ricordò chi era. Si staccò dal finestrino ed era una scultrice, sebbene non ne fosse sempre convinta, un'artista - a volte ci credeva, quando le dicevano che non lo era. Pensò al proprio lavoro, alla metrica sbilenca di rimasugli e rottami, al gioco delle rime, pensò al cancro della ruggine e all'imbottitura di cotone pressato. Voleva sentire di nuovo l'impulso di lavorare. Voleva precipitarsi fuori dall'aeroporto e prendere un taxi fino a casa. Aveva bisogno di sentire quella cosa cominciare a concretizzarsi, all'improvviso, quella sensazione di fiducia, di novita, un'inondazione di vita dietro gli occhi. Fece un giro di telefonate alla ricerca di Acey e riuscì a trovarla qualche giorno dopo, amareggiata e tesa e per niente desiderosa di parlare. Ma Klara riuscì a parlarle. In questo era brava. Aveva parlato mille