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NICCI FRENCH UNA STANZA NEL BUIO (Land Of The Living, 2002) A Timmy ed Eve Parte Prima Buio. Buio per tanto tempo. Occhi aperti e poi chiusi. Aperti e chiusi. Non c'è differenza. Buio dentro, buio fuori. Stavo sognando. Sballottata in un mare nero come la pece. Persa su una montagna di notte. Un animale che non riuscivo a vedere annusava rumorosamente intorno a me. Sentivo un naso umido sulla pelle. Quando si sa che si sta sognando, ci si sveglia. A volte ci si sveglia in un altro sogno. Ma quando ci si sveglia e non cambia niente, dev'essere la realtà. Buio e cose là fuori nel buio. Dolore. Lontano, poi più vicino e infine dentro. Dentro di me. Ero piena fino all'orlo di un dolore cocente, liquido. Benché l'oscurità persistesse, riuscivo a vedere il dolore. Lampi di giallo e rosso e blu, fuochi d'artificio che mi esplodevano silenziosamente dietro gli occhi. Cominciai a cercare qualcosa senza sapere veramente che cosa. Non sapevo dove fosse. Né che cosa fosse. Ab...? Abi...? Feci uno sforzo, come per tirar fuori dall'acqua di un profondo lago scuro un macigno. Ecco. Abigail. Lo riconobbi. Era il mio nome. Abigail, Abbie. Tabbie. Abbie Tabbie, la pettegola. Il cognome fu più difficile. C'erano piccole parti nella mia testa che mancavano e sembrava essersi perso tra quei vuoti mentali. Mi ricordai di un registro di classe. Auster, Bishop, Brown, Byrne, Cassini, Cole, Daley, Devereaux, Eve, Finch, Fry. No, alt. Torna indietro. Finch. No. Devereaux. Sì, era quello. Mi venne in mente una poesiola. Una poesiola di tanto tempo fa. Non Deverox come «box», non Deveroo come «shoe», ma Devereaux come «show». Abbie Devereaux. Mi avvinghiai al nome come se fosse un salvagente che mi fosse stato gettato in un mare in burrasca. Quel mare lo sentivo soprattutto in testa. Onde di dolore, una dopo l'altra, rotolavano e si infrangevano dentro il mio cranio. Chiusi di nuovo gli occhi. Lasciai andare il nome. Tutto era parte di tutto il resto. Tutto esisteva contemporaneamente a tutto il resto. Da quanto tempo era così? Minuti. Ore. E poi, come figure che
emergevano da una nebbia, le cose si definirono e separarono. Avevo un gusto metallico in bocca e un odore metallico che mi pungeva le narici, ma l'odore divenne come di muffa e mi fece pensare ai capanni degli attrezzi dei giardini, alle gallerie, agli scantinati, a luoghi umidi, sporchi, dimenticati. Mi misi in ascolto. Solo il rumore del mio respiro, innaturalmente forte. Lo trattenni. Nessun suono. Solo il battito del mio cuore. Era un rumore o solamente il sangue che pulsava dentro il mio corpo, premendo contro le mie orecchie? Stavo scomoda. Avevo un dolore al fondo della schiena, al bacino, alle gambe. Mi girai. No. Non mi girai. Non mi mossi. Non riuscivo a muovermi. Sollevai le braccia come per schivare qualcosa. No. Le braccia non si mossero. Non riuscivo a girarmi. Ero paralizzata? Non mi sentivo le gambe. Le dita dei piedi. Mi concentrai sulle dita dei piedi. Alluce sinistro che strofinava contro il dito accanto. Alluce destro che strofinava contro il dito accanto. Nessun problema. Riuscivo a farlo. Avevo le calze. Niente scarpe. Non avevo scarpe. Le dita delle mani. Le feci tamburellare. Le punte toccarono una superficie scabra. Cemento o mattone. Ero in un ospedale? Ferita. Un incidente. Ero per terra da qualche parte, in attesa di essere portata in salvo. Un incidente ferroviario. Ero tra i rottami di un treno. Macchinari sopra di me. In una galleria. Aiuti in arrivo. Scandagli termici. Cercai di ricordare il treno. Non ci riuscii. O un aereo. O una macchina. Più probabilmente una macchina. Guida notturna, fari che abbagliano, un colpo di sonno. Conoscevo la sensazione, doversi dare pizzicotti per restare svegli, degli schiaffetti sulle guance, parlare ad alta voce, aprire il finestrino in modo che l'aria fredda colpisca gli occhi. Forse questa volta non c'ero riuscita. Ero uscita di strada, finita in un fosso, mi ero capovolta, la macchina era nascosta nel sottobosco. Quando avrebbero denunciato la mia scomparsa? Come si fa a cercare una macchina che scompare? Non dovevo aspettare che arrivassero ad aiutarmi. Avrei potuto morire disidratata o dissanguata a pochi metri di distanza dalla gente che andava al lavoro. Avrei dovuto muovermi. Se solo fossi riuscita a vedere la strada. Niente luna, né stelle. Potevano esserci solo venti metri dalla salvezza. Uscire dal fossato. Se riuscivo a sentire le dita dei piedi, allora potevo muovermi. Prima dovevo girarmi. Non pensare al dolore. Mi girai, ma questa volta avvertii qualcosa che mi tratteneva. Piegai gambe e braccia, tesi e rilasciai i muscoli. C'erano degli impedimenti. Sugli avambracci e appena
sopra i gomiti. Alle caviglie e alle cosce. Al petto. Riuscii a sollevare la testa, come in un debole tentativo di mettermi a sedere. Qualcos'altro. Non solo il buio. Era buio, ma non solo quello. Avevo la testa coperta. Dovevo pensare con lucidità. Doveva esserci una ragione. Pensare. In prigione si viene legati. Non poteva essere. Che altro? I pazienti in ospedale a volte sono legati per impedir loro di farsi male. Su una barella. Ero legata su una barella in attesa di essere portata in sala operatoria. Sì, dovevo aver avuto un incidente. Un incidente d'auto, che era la cosa più probabile. Statisticamente. Grave, ma non mortale. Un qualsiasi movimento improvviso avrebbe potuto causare, e la frase mi venne dal nulla, una grave emorragia interna. Il paziente sarebbe potuto cadere dalla barella. Si trattava solamente di aspettare l'infermiera o l'anestesista. Forse mi era già stata somministrata l'anestesia. O una preanestesia. Il che avrebbe spiegato i vuoti mentali. C'era uno strano silenzio, ma si sentiva dire di persone in ospedale che rimanevano per ore su una barella in attesa che si liberasse una sala operatoria. Questa teoria aveva delle falle. Non mi sembrava di essere su una barella. L'odore era di chiuso, di muffa, di cose vecchie e stantie. L'unica cosa che sentivo con le dita era cemento, o pietra. Il mio corpo giaceva su qualcosa di duro. Cercai di pensare ad altre possibilità. Dopo alcuni disastri i corpi venivano deposti in obitori di fortuna. Palestre scolastiche. Atri di chiese. Forse ero vittima di una catastrofe. I feriti erano stati messi ovunque ci fosse posto. Legati per impedire loro di nuocersi. Sarebbero stati anche incappucciati? I chirurghi avevano un cappuccio. Ma non sugli occhi. Forse per prevenire le infezioni. Sollevai di nuovo il capo. Con il mento sentii una camicia. Avevo indosso dei vestiti. Sì, li sentivo sulla pelle. Una camicia, dei calzoni, le calze. Niente scarpe. Altre cose mi affioravano ai margini della mente, cose che il cervello aveva urgenza di capire. Cose brutte. Ero legata. Al buio. Incappucciata. Ridicolo. Era uno scherzo? Ricordavo storie di studenti. Ti facevano ubriacare fino a quando eri praticamente K.O., ti mettevano su un treno ad Aberdeen e ti svegliavi a Londra con indosso solo le mutande e una moneta da cinquanta pence in mano. Vedrai che tra un minuto tutti salteranno fuori, ti toglieranno le bende dagli occhi e urleranno: «Pesce d'aprile». Poi scoppieremo tutti a ridere. Ma era aprile? Mi ricordavo il freddo. C'era stata l'estate? O doveva ancora venire? Ovviamente c'era sempre stata un'estate e un'altra doveva sempre ancora venire.
Tutte le vie erano senza sbocco. Le avevo percorse tutte e non avevo trovato niente. Era successo qualcosa. Di ciò ero sicura. C'era una possibilità che fosse una cosa divertente. Ma non lo sembrava affatto. C'era un'altra possibilità, la possibilità numero due, che fosse successo qualcosa e che fossero in corso le operazioni di intervento ufficiale. Era un pensiero plausibile. Forse avevo subito una ferita al capo, o un danno agli occhi o alle orecchie e la testa mi era stata fasciata e incappucciata per protezione. Bende e cappuccio mi sarebbero stati tolti. Avrei sentito pizzicare. Sarebbe comparso il viso allegro di un'infermiera. O quello di un dottore che mi guardava accigliato. Non si preoccupi, non c'è nulla di cui preoccuparsi, avrebbero detto. Mi avrebbero chiamata «cara». C'erano altre possibilità. Brutte. Pensai alla pietra sotto le dita. All'aria umida, come in una grotta. Finora c'era stato solo il dolore e la confusione mentale, ma ora sentivo qualcos'altro. Una paura nel cuore simile a melma. Emisi un suono. Un gemito tenue. Riuscivo a parlare. Ma non sapevo chi chiamare o che cosa dire. Emisi un urlo più forte. Pensai che l'eco o l'asprezza del suono potessero dirmi qualcosa su dov'ero, ma il grido uscì smorzato dal cappuccio. Urlai di nuovo al punto che mi dolse la gola. Ci fu un movimento nelle vicinanze. Odori. Sudore e profumo. Un respiro, qualcuno che avanzava carponi. Poi la bocca mi fu riempita con una stoffa. Non riuscivo a respirare. Solo attraverso il naso. Qualcosa mi fu legato stretto intorno al viso. Sentivo un respiro su di me, caldo sulla guancia, e poi dall'oscurità uscì una voce, poco più che un sussurro, roco, forzato, spesso, che riuscii a distinguere a malapena. «No» disse. «Urla ancora e ti tappo anche il naso.» Ebbi dei conati di vomito. Il bavaglio mi riempiva la bocca, sporgeva sulle guance, strofinava contro le gengive. In gola sentii un gusto di grasso e di cavolo rancido. Fui scossa da uno spasmo, percorsa da una nausea montante su come umidità. Non dovevo sentirmi male. Cercai di fare un respiro, di annaspare attraverso la stoffa, ma non ci riuscii. Non ci riuscivo. Ero completamente bloccata. Diedi uno strattone con le braccia e le caviglie a ciò che mi teneva legata e cercai di respirare; il mio corpo si contrasse e fremette sul pavimento ruvido di pietra e rimasi senza fiato; dentro di me non c'era aria, solo uno spazio violento e rosso dietro agli occhi che mi uscivano dalle orbite, un cuore che mi saltava fuori dal petto e uno strano suono secco che proveniva da me, come una tosse repressa. Ero un pesce
fuor d'acqua. Un pesce che si divincolava sul duro pavimento. Ero legata e bloccata, ma dentro stavo sciogliendomi, le mie viscere si stavano disintegrando. È così che avviene? Morire? Essere sepolti vivi. Dovevo respirare. Come si fa a respirare? Attraverso il naso. L'aveva detto lui. La voce aveva detto che poi mi avrebbe tappato anche il naso. Respira attraverso il naso. Respira. Non riuscivo a prendere abbastanza aria in quel modo. Non riuscivo a smettere di annaspare, nel tentativo di riempirmi d'aria. La lingua era troppo grossa per stare nel piccolo spazio lasciato dal bavaglio che avevo in bocca. Continuava a premergli contro. Sentii il corpo sobbalzare di nuovo. Dovevo respirare lentamente. Con calma. Dentro e fuori, dentro e fuori. Respirare così finché non ci fosse stato più niente se non il respiro. Era così che ci si teneva in vita. Respirare. Aria spessa, stantia nelle narici, marciume untuoso che mi colava in gola. Cercai di non inghiottire, ma dovetti e di nuovo la bile mi entrò in circolo, mi riempì la bocca. Non ce la facevo. Sì, invece, dovevo farcela. Respirare dentro e fuori, Abbie. Abbie. Sono Abbie. Abigail Devereaux. Dentro e fuori. Non pensare. Respira. Sei viva. Il dolore dentro il cranio rotolò indietro. Sollevai un po' la testa e il dolore ondeggiò verso gli occhi. Li sbattei, ma che fossero aperti o chiusi c'era sempre la stessa densa oscurità. Le ciglia strofinarono contro il cappuccio. Avevo freddo. Ora lo sentivo. I piedi dentro le calze erano gelati. Erano le mie calze? Mi sembravano troppo grandi e ruvide; poco familiari. Il polpaccio sinistro mi faceva male. Cercai di flettere i muscoli della gamba per alleviare la tensione muscolare. Sentii un prurito sulla guancia, sotto il cappuccio. Rimasi ferma per qualche secondo, concentrata solo sulla sensazione di prurito, poi voltai la testa e cercai di grattarmi contro una spalla sollevata. Niente da fare. Allora mi agitai finché non riuscii a strofinare il viso sul pavimento. Ed ero bagnata. Tra le gambe e sotto le cosce; e la pelle mi pizzicava sotto i calzoni. Erano i miei pantaloni? Ero distesa nella mia urina, al buio, incappucciata, legata, imbavagliata. Respirare dentro e fuori, mi dissi. Continuare a respirare. Cercare di far defluire i pensieri lentamente, un poco alla volta, in modo da non esserne sommersa. Sentii la pressione delle paure racchiuse dentro di me, e il mio corpo mi sembrò un fragile guscio incrinato, pieno di acque tumultuose. Mi costrinsi a pensare solo a respirare, dentro e fuori dalle narici. Dentro e fuori. Qualcuno, un uomo, l'uomo che mi aveva ficcato in bocca il bavaglio,
mi aveva messo in quel luogo. Mi aveva presa e mi aveva legata. Ero sua prigioniera. Perché? Non riuscivo ancora a pensarci. Cercai di percepire un suono, un suono qualsiasi che non fosse quello del mio respiro e del mio cuore e delle mie mani e piedi che grattavano contro il pavimento ruvido quando mi muovevo. Forse era qui con me, nella stanza, rannicchiato da qualche parte. Ma non c'erano altri rumori. Per il momento ero sola. Giacqui ferma, ascoltando il mio cuore. Il silenzio incombeva su di me. Un'immagine mi balenò in testa. Una farfalla gialla su una foglia, le ali tremolanti. Fu come un improvviso raggio di sole. Era un ricordo, un momento del passato che si era preservato ed era rimasto nascosto finora? O era solo il mio cervello che produceva un'immagine, una sorta di riflesso, un corto circuito? Un uomo mi aveva legata in un luogo buio. Doveva avermi rapita e portata qui. Ma non ne avevo alcun ricordo. Rovistai nel cervello, ma trovai il nulla - una stanza vuota, una casa abbandonata, nessuna eco. Niente. Non ricordavo niente. Un singhiozzo mi salì alla gola. Non dovevo piangere. Dovevo pensare, ma con cautela, tenendo a freno la paura. Non dovevo andare in profondità. Dovevo rimanere in superficie. Pensare solo a ciò che sapevo. Ai fatti. Lentamente avrei composto un quadro e poi sarei stata in grado di guardarlo. Mi chiamo Abigail; Abbie. Ho venticinque anni e vivo con il mio ragazzo, Terry, Terence Wilmott, in un appartamentino in Westcott Road. Ecco, Terry. Terry si sarebbe preoccupato. Avrebbe telefonato alla polizia. Avrebbe detto che ero scomparsa. E sarebbero venuti con le macchine con la luce lampeggiante sul tetto e le sirene spiegate, avrebbero buttato giù la porta e avrebbero fatto entrare luce e aria. No, solo i fatti. Lavoro da Jay and Joiner's, progetto interni di uffici. Ho una scrivania con un computer portatile bianco e blu, un piccolo telefono grigio, una pila di carta, un portacenere ovale pieno di graffette ed elastici. Quando c'ero stata l'ultima volta? Sembrava incredibilmente lontano, come un sogno che scompare quando si cerca di trattenerlo; come la vita di un'altra persona. Non mi ricordavo. Da quanto ero qui? Un'ora, un giorno, o una settimana? Era gennaio, lo sapevo. Almeno pensavo di saperlo. Fuori faceva freddo e le giornate erano corte. Forse aveva nevicato. No, non dovevo pensare a cose come la neve, la luce del sole sulla superficie bianca. Dovevo attenermi soltanto a ciò che sapevo: gennaio, ma non potevo
dire se fosse giorno o notte. O forse febbraio ormai. Cercai di pensare all'ultimo giorno che ricordavo con chiarezza, ma era come guardare attraverso una fitta nebbia, con forme indistinte che emergevano. Cominciamo da Capodanno, dalle danze con gli amici e dai baci quando era scoccata la mezzanotte. Baciare sulle labbra, baciare gente che si conosce bene e gente che si è incontrata poche volte e sconosciuti che si avvicinano a braccia aperte e con sorrisi invitanti sul volto è ciò che si fa a Capodanno. Meglio non pensarci, però. Dopo Capodanno, ecco, sì, c'erano dei giorni che mi frullavano per la testa. L'ufficio, il telefono che suonava, moduli nella cassetta dei messaggi in arrivo. Tazze di caffè amaro che si raffreddava. Ma forse era prima, non dopo. O prima e dopo, giorno dopo giorno. Tutto era sfocato e privo di senso. Cercai di cambiare posizione. Le dita dei piedi mi si erano intorpidite per il freddo e il collo mi doleva e la testa mi batteva. Avevo un sapore orribile in bocca. Perché ero lì e che cosa mi sarebbe accaduto? Ero stesa sulla schiena come una vittima sacrificale, braccia e gambe bloccate. Ero pervasa dal terrore. Avrebbe potuto farmi morire di fame. Violentarmi. Torturarmi. Uccidermi. Forse mi aveva già violentata. Mi premetti al pavimento e dal fondo della gola mi uscì un gemito. Due lacrime mi scapparono dagli occhi e le sentii pizzicarmi e farmi il solletico mentre mi colavano verso le orecchie. Non piangere, Abbie. Non devi piangere. Pensa alla farfalla, che non significa nulla ma che è bella. Immaginai la farfalla gialla sulla sua foglia verde. Lasciai che mi riempisse la mente, così leggera sulla foglia che avrebbe potuto essere soffiata via come una piuma. Udii dei passi. Erano sommessi, come se l'uomo fosse a piedi nudi. Arrivarono vicino e si fermarono. Sentii un respiro pesante, quasi un ansito, come se dovesse salire o arrampicarsi per venire da me. Rimasi rigida in silenzio. Era in piedi sopra di me. Ci fu un click e anche da sotto il cappuccio capii che aveva acceso una torcia. Non riuscivo a vedere praticamente nulla, ma attraverso la trama del tessuto percepivo che il buio non era più totale. Doveva essere sopra di me e illuminarmi il corpo con una torcia. «Sei bagnata» sussurrò, o forse mi sembrò un sussurro attraverso il cappuccio. «Che sciocca.» Avvertii che si chinava su di me. Lo sentii respirare e udii il mio respiro farsi più forte e veloce. Sollevò leggermente il cappuccio e, piuttosto deli-
catamente, mi tolse lo straccio dalla bocca. Sentii la punta di un dito sul labbro inferiore. Per qualche secondo non potei far altro che ansimare di sollievo, prendendo aria a pieni polmoni. Mi udii dire «Grazie» con voce leggera e debole. «Acqua.» Mi sciolse i lacci dalle braccia e dal petto, in modo che fossi legata solo alle caviglie. Mi infilò un braccio sotto il collo e mi fece sedere. Nel cranio mi pulsò un dolore di tipo diverso. Non osavo fare nessun movimento da sola. Mi sedetti passivamente e lasciai che mi mettesse le braccia dietro la schiena e mi legasse i polsi insieme, con violenza, tagliandomi la carne con la corda. Ma era corda? Sembrava più dura, come filo per stendere i panni o fil di ferro. «Apri la bocca» disse con il suo mormorio soffocato. Lo feci. Mi infilò una cannuccia su per il cappuccio e tra le labbra. «Bevi.» L'acqua era tiepida e mi lasciò un sapore stantio in bocca. Mi mise una mano sulla nuca e cominciò a massaggiarmi. Rimasi rigida. Non dovevo urlare. Non dovevo emettere alcun suono. Non dovevo vomitare. Le sue dita mi premettero sulla pelle. «Dove ti fa male?» chiese. «Da nessuna parte.» La mia voce era un sussurro. «Da nessuna parte? Non mi dici bugie?» La collera mi montò in testa come un gran vento tumultuoso e fu più forte anche della paura. «Stronzo» urlai con una voce acuta, da pazza. «Fammi uscire da qui, fammi uscire e poi ti ucciderò, vedrai...» Lo straccio mi fu rificcato in bocca. «Mi ucciderai. Bene. Mi fa piacere.» Per un lungo periodo non mi concentrai su nient'altro che il respiro. Avevo sentito dire di persone che avevano sofferto di claustrofobia nel proprio corpo, sentendosi in trappola, come in prigione. Erano tormentate dall'idea che non sarebbero mai state capaci di sfuggirgli. La mia vita era ridotta ai piccoli passaggi d'aria delle narici. Se si fossero bloccati, sarei morta. Poteva succedere. Succedeva che persone venissero legate e imbavagliate senza intenzioni assassine. Poi interveniva un piccolo errore, il bavaglio veniva legato troppo vicino al naso, e le soffocava a morte. Mi impegnai a inspirare contando fino a tre ed espirare contando di nuovo fino a tre. Dentro, fuori. Una volta avevo visto un film, una specie di film di guerra, in cui un soldato super duro si nascondeva dal nemico immergendosi in un fiume e respirando solo attraverso una cannuccia. Ero in
una situazione analoga e il pensiero mi provocò un dolore al petto e mi fece respirare a scatti. Dovevo calmarmi. Invece di pensare al soldato e alla sua cannuccia e a ciò che sarebbe successo se la cannuccia si fosse ostruita, cercai di pensare all'acqua del fiume, fresca e calma e lenta e bella, e al sole che di mattina la faceva brillare. Nella mia mente l'acqua cominciò a scorrere sempre più lentamente, fino a diventare completamente immobile. La immaginai cominciare a ghiacciarsi, un ghiaccio compatto e trasparente come vetro, così che si vedevano i pesci nuotare silenziosamente di sotto. Non riuscivo a fermarmi. Mi vidi sprofondare e rimanere intrappolata sotto il ghiaccio. Avevo letto, o sentito raccontare, che se si cadeva sotto il ghiaccio e non si riusciva a ritrovare il buco per uscire, si poteva respirare il sottile strato d'aria che si formava tra l'acqua e il ghiaccio. E poi che cosa? Non sarebbe stato meglio semplicemente annegare? Avevo sempre avuto paura di annegare più che di qualsiasi altra cosa, ma avevo letto o sentito dire che annegare non era un brutto modo di morire. E ci credevo. Quel che era brutto e terrificante era cercare di evitare di annegare. La paura è nel cercare di evitare la morte. Abbandonarsi a essa è come addormentarsi. Uno due tre, uno due tre. Mi stavo calmando. Ci sono persone, probabilmente circa il due per cento della popolazione, che sarebbero già morte di panico o per asfissia, se avessero dovuto subire quel che stavo subendo io. Così stavo andando già meglio di altri. Ero viva. Respiravo. Adesso ero stesa, con le caviglie e i polsi legati, la bocca imbavagliata e il cappuccio sulla testa. Non ero più legata ad altro. Faticosamente mi accucciai, e poi, molto lentamente, mi issai in piedi. O meglio cercai di issarmi in piedi, ma sbattei la testa contro un soffitto. Ero in un posto poco più alto di un metro e cinquanta. Mi rimisi a sedere, ansimando per lo sforzo. Almeno riuscivo a muovermi. Contorcendomi e strisciando, come un serpente nella polvere. Ma non ne avevo il coraggio. Avevo la sensazione di stare in alto, su qualcosa. Quando lui era entrato nella stanza, era sotto di me. I passi e la voce venivano dal basso. Aveva dovuto salire per avvicinarsi. Allungai i piedi in una direzione e sentii solo il pavimento. Mi girai dolorosamente, con la maglietta che mi saliva sulla schiena e il pavimento ruvido di sotto che mi scorticava la pelle nuda. Allungai di nuovo i piedi. Pavimento. Mi protesi in avanti. Lentamente. Continuai a tastare intorno con i piedi. Non sentii più nulla, nulla di duro. C'era il vuoto. Mi stesi e
avanzai ancora, un pezzetto alla volta. Le gambe mi penzolarono di sotto, piegate al ginocchio. Se mi fossi seduta, sarei stata seduta sull'orlo di un buco, di un precipizio. Mi si mozzò il fiato per il panico. Cominciai a tornare indietro. Mi faceva male la schiena. La testa sbatté contro qualcosa. Continuai a strisciare indietro finché non raggiunsi una parete. Mi sedetti. Premetti le mani legate contro il muro. A contatto con i polpastrelli delle dita sentii mattoni umidi e ruvidi. Mi trascinai lungo il muro in una direzione finché non incontrai un angolo. Poi nell'altra direzione, i muscoli che mi bruciavano per lo sforzo. Il posto in cui ero doveva essere largo circa tre metri e mezzo. Tre metri e mezzo di larghezza e un metro e mezzo di profondità. Era difficile pensare con lucidità perché il dolore alla testa non accennava a diminuire. Era un colpo? Un'escoriazione? Qualcosa al cervello? Tremavo per il freddo. Dovevo continuare a pensare, tenere la mente occupata e non permettermi di cedere. Ero stata rapita in qualche modo. Ero trattenuta contro la mia volontà. Perché si rapisce? Per procurarsi un ostaggio, per soldi o per ragioni politiche. Le mie ricchezze, una volta che si deducevano i debiti della carta di credito e delle varie carte dei negozi, ammontavano a circa duemila sterline, metà delle quali consistenti nella mia vecchia macchina mezzo arrugginita. In quanto alla politica, ero consulente in aziende, non un'ambasciatrice. Ma, a dir la verità, non ricordavo tutto. Forse ero in America del Sud, o in Libano. Solo che la voce era distintamente inglese, inglese meridionale da quel che potevo capire dal sussurro basso e cupo. Allora che altre ragioni c'erano? I pensieri mi avevano portata in una direzione in cui tutto sembrava molto, molto brutto. Sentii le lacrime gonfiarmi gli occhi. Calma. Dovevo restare calma. Non dovevo assolutamente lasciarmi andare. Non mi aveva uccisa. Era già un buon segno. O forse non era poi un segno così buono; a lungo andare poteva essere cattivo in un modo che mi fece star male anche solo a pensarci. Ma era tutto ciò che avevo. Flettei i muscoli molto dolcemente. Non potevo muovermi. Non sapevo dov'ero. Non sapevo dove ero stata rapita, né quando o come. E neppure per quale ragione. Non vedevo niente. Non sapevo nulla della stanza in cui ero. Mi sentivo umidiccia. Forse ero sottoterra o in un capanno. Non sapevo nulla dell'uomo. O degli uomini. O delle persone. Probabilmente era vicino. Non sapevo se lo conoscessi. Non sapevo che aspetto avesse. Ciò avrebbe potuto essere utile. Se fossi riuscita a identificarlo, avrebbe
potuto... Be', avrebbe potuto esser peggio. I rapitori professionisti portano il cappuccio in modo che gli ostaggi non li vedano mai. Mettermi in testa un cappuccio poteva servire allo stesso scopo, in senso contrario. E aveva effetti sulla voce, la modificava in qualche modo, perché non sembrasse umana. Forse progettava di tenermi per un po' e poi di lasciarmi andare. Poteva scaricarmi in qualche altra parte di Londra e mi sarebbe stato impossibile rintracciarlo. Non avrei saputo nulla, assolutamente nulla. Era il primo elemento vagamente positivo. Non avevo idea di quanto fossi stata lì, ma non potevano essere più di tre giorni al massimo, forse solo due. Mi sentivo molto male, ma non ero particolarmente debole. Avevo fame, ma non stavo svenendo per questo. Forse erano due giorni. Terry doveva aver denunciato la mia scomparsa. Non mi ero fatta viva al lavoro. Avevano telefonato a Terry e lui si era preoccupato. Mi aveva cercata sul cellulare. A proposito, dov'era finito? La polizia sarebbe stata chiamata nel giro di qualche ora. A questo punto sarebbe iniziata una ricerca in grande stile. La campagna battuta palmo a palmo. Tutto il personale richiamato in servizio. Cani sguinzagliati. Elicotteri. Questo era un altro pensiero promettente. Non si può semplicemente prendere una persona dalla sua vita normale e nasconderla da qualche parte senza creare dei sospetti. Sarebbero andati in giro a bussare alle porte, sarebbero entrati nelle case, puntando torce nei luoghi oscuri. Da un momento all'altro li avrei sentiti, li avrei visti. Tutto quel che dovevo fare era rimanere viva finché... Solo rimanere viva. Rimanere viva. Gli avevo urlato contro. Gli avevo detto che l'avrei ucciso. Era l'unica cosa che ricordavo di avergli detto, oltre a «Grazie», quando mi aveva dato l'acqua. Odiavo avergli detto grazie. Ma quando avevo urlato, l'avevo fatto arrabbiare. Quali erano state le sue parole? «Mi ucciderai? Bene.» Qualcosa del genere. Non erano promettenti. «Mi ucciderai?» Forse gli sembrava divertente perché in effetti era lui che avrebbe ucciso me. Cercai di trovare qualche altra ragione di conforto. Forse gli sembrava buffo perché ero talmente in sua balìa che l'idea che mi vendicassi era assolutamente ridicola. Avevo rischiato a insultarlo. L'avevo fatto arrabbiare. Avrebbe potuto torturarmi o picchiarmi o qualsiasi cosa. Ma non l'aveva fatto. Poteva essere utile saperlo. Mi aveva rapita, mi aveva legata e io l'avevo minacciato. Forse se gli avessi tenuto testa si sarebbe sentito più debole e non mi avrebbe fatto niente. Non cedere poteva essere il modo migliore per aver ragione di lui. Forse aveva rapito una donna perché aveva paura delle donne e questo era il solo modo per aver controllo almeno su
una di esse. Forse si aspettava che lo pregassi pateticamente di risparmiarmi la vita e che gli concedessi il dominio che voleva. Ma se non avessi ceduto, non sarebbe andata secondo ì suoi piani. O poteva essere il contrario. Forse era sicuro comunque di avere il controllo. Probabilmente non gli importava nulla di quel che dicevo. Lo trovava semplicemente divertente e avrebbe proceduto con il suo piano, qualunque esso fosse. Certamente dovevo mostrarmi forte in modo che trovasse difficile farmi qualcosa. Ma se si fosse sentito minacciato, forse si sarebbe infuriato ancor di più. Non potevo fare nulla. Non potevo lottare, né scappare. Potevo solo rallentarlo. Qual era il modo migliore di farlo? Cercare di esasperarlo? Accontentarlo? Spaventarlo? Mi stesi a terra e fissai la soffocante oscurità del cappuccio. Attraverso il tessuto percepii un cambiamento nell'oscurità intorno a me. Un rumore e un odore. E di nuovo quel sussurro roco, gracchiante. «Sto per toglierti il bavaglio. Se urli ti sgozzo come un maiale. Se hai sentito e capito quel che ho detto, fammi un cenno con il capo.» Annuii freneticamente. Le mani, mani grandi, calde, giocherellarono dietro il mio collo. Il nodo fu slegato, lo straccio tirato fuori violentemente dalla bocca. Non appena ne fui libera, cominciai a tossire e tossire. Una mano mi tenne giù la testa e sentii che mi veniva spinta la cannuccia in bocca. Succhiai l'acqua finché un suono di bolle mi fece capire che era finita. «Ecco» disse. «C'è un secchio qui. Vuoi usarlo?» «Che cosa vuoi dire?» Dovevo farlo parlare. «Lo sai. Toilette.» Era imbarazzato. Era un buon segno? «Voglio andare in un vero bagno.» «O il secchio o addosso, carina.» «D'accordo.» «Ti ci metto vicino. Lo puoi sentire con i piedi. Io rimango dietro di te. Se fai qualcosa di strano, ti faccio a pezzi. Intesi?» «Sì.» Lo udii scendere di qualche scalino e poi sentii le sue braccia sotto le ascelle, e, mentre scivolavo verso di lui, intorno a me. Mani dure, forti. Ero premuta contro di lui. Un odore animalesco, di sudore e di qualcos'altro. Un braccio sotto le cosce. Nausea in gola. Fui sollevata e deposta su un pavimento ruvido, coperto di sabbia. Mi rizzai in piedi. Le gambe e la
schiena mi facevano un male terribile. Mi sentii afferrare i capelli da una mano e avvertii un oggetto duro contro il collo. «Sai che cos'è?» «No.» «Un coltello. Sto per tagliare il filo che ti tiene legate le mani. Fai qualcosa e te lo conficco in corpo.» «Non farò nulla. Voglio che mi lasci sola.» «È buio. Faccio un passo indietro.» Sentii una pressione quando mi sciolse il nodo dietro la schiena. Si allontanò. Per un secondo pensai di tentare qualcosa, poi capii che era assurdo. Ero parzialmente legata, incappucciata, in una stanza buia con un uomo che aveva un coltello. «Avanti» disse. Non ne avevo veramente bisogno. Volevo solo essere spostata. Mi tastai i vestiti: maglietta, calzoni. Non potevo farlo. «Avrai il secchio di nuovo domani mattina.» Domani mattina. Bene. Un'informazione. D'accordo, va bene. Aveva detto che era buio. Mi slacciai i pantaloni, li tirai giù, mi tirai giù le mutande e mi sedetti sul secchio. Nient'altro che una goccia. Mi rialzai e ritirai su i pantaloni. «Posso dire una cosa?» «Che cosa?» «Non so di cosa si tratti. Ma non dovresti farlo. Non riuscirai a cavartela. Forse non ti rendi conto di quel che succederà quando mi troveranno. Ma puoi lasciarmi andare. Portarmi da qualche parte. Liberarmi. Tutto qui. Avranno denunciato la mia scomparsa, mi staranno cercando. So che puoi fare di me quel che vuoi e probabilmente non mi farà piacere, ma ti prenderanno. Se mi lasci andare, possiamo ritornare alla nostra vita. Altrimenti ti prenderanno.» «È quel che dicono tutte. Quando dicono qualcosa.» «Che cosa?» «Stai ferma.» «Tutte?» Lo sentii rifare dei nodi. Poi mi sentii sollevare di nuovo ed essere deposta, come un bambino piccolo, su un alto scaffale. Come una bambola. O un animale morto. «Stai ferma. Qua.» Rimasi ferma, pensando che se ne sarebbe andato.
«Apri la bocca.» Era accanto a me. Mi rificcò in bocca lo straccio, legandomelo stretto intorno al viso. Udii dei passi, poi avvertii una nuova pressione intorno al collo. Forte. Venni trascinata indietro. Sentii il muro dietro la schiena. «Ascoltami bene» disse la voce. «Questo è un filo avvolto a cappio intorno al tuo collo ed è fissato a un bullone nel muro. Capito? Fammi un cenno con la testa.» Annuii. «Sei su una piattaforma. Capito?» Annuii. «Se ti muovi, scivolerai giù, il filo ti strozzerà e morirai. Capito?» Annuii. «Bene.» Ritornò il silenzio. Il silenzio e il cuore che mi batteva come il mare. Il filo mi faceva bruciare il collo. Respirai, dentro, fuori, dentro, fuori. Ero su una banchina di legno e il lago intorno a me era immobile come uno specchio. Non un'increspatura, né un soffio di vento. Vedevo dei sassi lisci lontano sotto di me, rosa, marroni e grigi. Piegavo leggermente le ginocchia e sollevavo le braccia per tuffarmi nell'acqua fresca, calma, e poi improvvisamente qualcosa mi si stringeva al collo, e cadevo con un balzo tremendo, ma nello stesso tempo ero trattenuta indietro, e l'acqua scompariva e diventava un'oscurità d'inchiostro. Il cappio mi penetrava nel collo. Mi misi a sedere. Per un momento fui come obnubilata, poi subentrò la paura, e riempì tutti gli spazi del mio corpo. Il cuore mi batteva forte e avevo la bocca secca. Il sudore mi colava dalla fronte, sotto il cappuccio, e sentivo ciocche di capelli che mi si appiccicavano alle guance. Ero madida per la paura, avevo prurito dappertutto, mi sentivo appiccicaticcia e maleodorante. La paura era così reale che ne sentivo l'odore. Mi ero addormentata. Come avevo fatto? Come facevo a dormire legata come un pollo che aspetta che gli taglino il collo? Mi ero sempre chiesta come facessero i prigionieri a dormire il giorno prima dell'esecuzione, ma avevo dormito. Per quanto tempo? Non ne avevo idea, forse qualche minuto, appisolata sulla piattaforma, prima che il cappio mi svegliasse; o forse per parecchie ore. Non sapevo se fosse ancora notte o mattina. Il tempo si era fermato. Ma no, non si era fermato. Continuava a marciare. Si stava consumando. Il silenzio mi rombava nelle orecchie. Qualcosa sarebbe accaduto; non sa-
pevo che cosa né quando, ma sapevo che qualcosa sarebbe accaduto. Poteva essere ora, non appena avessi smesso di avere questo pensiero, o tra secoli, dopo una serie melmosa di giorni. Le sue parole mi tornarono alla mente e con esse mi si ripresentò una sensazione di bruciore allo stomaco. Era come se avessi un animale dentro, un roditore ripugnante con denti gialli affilati che mi rosicchiava. «È quel che dicono tutte.» Che cosa voleva dire? Lo sapevo. Voleva dire che ce n'erano state altre prima di me. Erano morte e io ero la prossima vittima, relegata lassù su una piattaforma, con un cappio intorno al collo, e poi dopo di me... dopo di me... Dovevo respirare e pensare. Fare dei piani. I piani di fuga erano impensabili. Tutto quel che avevo erano la capacità di pensare e le parole che ci eravamo scambiati quando mi aveva tolto lo straccio lurido dalla bocca. Contai nella mente. Secondi, minuti, ore. Stavo contando troppo velocemente o troppo lentamente? Cercai di rallentare. Avevo sete e l'interno della bocca mi sembrava molle e putrido. Dovevo avere un alito fetido. Avevo bisogno di acqua, acqua ghiacciata. Litri di acqua pulita attinta da un pozzo profondo. Non avevo più fame. Mandar giù del cibo sarebbe stato come inghiottire dei ramoscelli o dei sassi. Ma acqua pulita e fresca in un alto bicchiere di vetro, con il ghiaccio che tintinnava, sarebbe stata piacevole. Continuai a contare. Non dovevo fermarmi. Un'ora, ventotto minuti, trentatré secondi. Quanti secondi in tutto? Cercai di continuare a contare mentre calcolavo la somma mentalmente, ma feci una gran confusione e persi tempo e somma. Le lacrime mi scivolarono giù per le guance. Mi trascinai in avanti e allungai il corpo quanto possibile, piegando indietro il collo finché non fui impedita dal laccio, che mi strinse proprio sotto il mento. Cercai di stare in equilibrio sul bordo della pedana, che mi tagliava le reni, mentre la parte inferiore del corpo era sospesa. Il filo doveva essere lungo un metro circa. Sembravo un'altalena. Potevo ritornare indietro, sedermi e aspettare e contare i secondi, i minuti e le ore, o potevo gettarmi avanti nell'oscurità. Mi avrebbe trovata appesa, il cappio di fil di ferro intorno al collo. Sarebbe stato un modo di batterlo; di battere il tempo. Sarebbe stato facile. Mi trascinai indietro e mi misi seduta. L'intero corpo mi tremava per lo sforzo. Mi concentrai sul respiro, dentro e fuori. Pensai al lago del sogno, con la sua acqua immobile. Pensai al fiume e ai pesci. Pensai alla farfalla gialla sulla foglia verde. Tutta vibrante, leggera quasi quanto l'aria che la
circondava. Un soffio di vento l'avrebbe staccata. Questa è la vita, pensai; ora anche la mia era così fragile. Mi chiamo Abbie. Abigail Devereaux. Abbie. Ripetei il nome tra me e me; cercai di udirne il suono. Ma presto esso perse di significato. Che cosa voleva dire, essere Abbie? Niente. Solo qualche sillaba. Due. Due boccate d'aria. «Ho fatto un sogno» dissi. La mia voce era roca e debole, come se il cappio mi avesse già danneggiato la trachea. «Ho dormito e ho fatto questo sogno. Tu hai sognato? Sogni?» Avevo provato queste frasi mentre lo aspettavo. Non volevo dirgli nulla di personale riguardo a me stessa, perché per qualche motivo mi sembrava rischioso. E non volevo neanche chiedergli nulla di preciso su di lui, perché se avessi saputo qualcosa di lui, non mi avrebbe più lasciata andare. Gli avrei chiesto dei sogni, perché sono intimi, ma astratti; sembrano importanti, ma il loro significato è vago, inconsistente. Ora però, parlando ad alta voce con lui accanto a me, mi sentivo patetica. «A volte. Finisci l'acqua e poi puoi usare il secchio.» «Hai sognato la notte passata?» insistei, anche se sapevo che sarebbe stato inutile. Era a pochi centimetri da me. Se avessi allungato un braccio l'avrei toccato. Resistetti all'impulso improvviso di afferrarlo e piangere, urlare, implorare. «Non si sogna se non si dorme.» «Non hai dormito?» «Bevi.» Bevvi qualche altro sorso, facendo durare l'acqua il più possibile. La gola mi doleva. Era passata la notte e lui non aveva dormito. Che cosa aveva fatto? «Soffri di insonnia?» cercai di sembrare comprensiva; la mia voce risuonò terribilmente falsa. «Stronzate» rispose. «Si lavora e poi si dorme quando se ne ha bisogno. Giorno o notte. Questo è tutto.» Una luce debole, granulosa, passava attraverso il cappuccio. Se avessi sollevato la testa e sbirciato di sotto, forse avrei visto qualcosa; le sue gambe allungate accanto alle mie, le sue mani sul bordo. Non dovevo guardare. Non dovevo vedere niente. Non dovevo sapere niente. Dovevo rimanere all'oscuro.
Feci degli esercizi. Tirai su le ginocchia e poi le riportai giù. Cinquanta volte. Mi stesi e cercai di alzarmi a sedere. Non riuscii a farlo. Neppure una volta. Le persone relegate in posti isolati spesso impazziscono. L'avevo letto. Dovevo aver immaginato brevemente che cosa potesse significare, essere rinchiusi completamente da soli. A volte recitavano delle poesie, ma io non ne sapevo nessuna, o almeno non ne ricordavo nessuna. Sapevo delle filastrocche. Mary had a little lamb. Hickory dickory dock. Il ritmo allegro, insistente mi sembrava osceno e folle, come se qualcuno mi tamburellasse dentro la testa dolente. Avrei potuto comporre una poesia. Che cosa faceva rima con buio? Cuoio, scuoio. Non sapevo comporre poesie, non ne ero mai stata capace. Provai di nuovo a perlustrare la memoria, non in cerca dei ricordi lontani, della mia vita passata, degli amici e della famiglia, delle cose che mi rendevano quella che ero - il passaggio del tempo come anelli di un tronco d'albero - non tutto quello, non volevo pensare a quelle cose. Ma in cerca dei ricordi recenti, che mi aiutassero a capire come ero finita lì, ora. Non trovai nulla. Un muro spesso si ergeva tra l'io di qua e l'io di là. Recitai le tabelline nella mente. Riuscivo a dire la tabellina del due e del tre, ma dopo mi confondevo. Tutto si imbrogliava. Ricominciai a piangere. In silenzio. Mi trascinai in avanti finché non arrivai al vuoto. Mi misi faticosamente a sedere. Non poteva essere molto alto. Mi aveva portato giù stando di sotto. Un metro e mezzo, circa. Certamente non di più. Agitai i piedi nei legacci. Feci un respiro profondo e avanzai di qualche altro centimetro, in modo da pencolare sul bordo. Avrei contato fino a cinque poi sarei saltata giù. Uno, due, tre, quattro... Udii un rumore. Un rumore all'altro capo della stanza. Una risata ansimante. Mi stava guardando. Accucciato nel buio come un rospo, mi guardava mentre mi divincolavo pateticamente sulla piattaforma. Un singulto mi sollevò il petto. «Su, avanti, salta.» Strisciai all'indietro. «Vedrai quel che succede se ti butti.» Ancora un po'. Rimisi le gambe sul piano. Ritornai con la schiena contro il muro e ci crollai addosso. Le lacrime mi colavano sulle guance, sotto il
cappuccio. «A volte mi piace osservarti» disse. «Tu non lo sai, vero? Quando sono qui e quando non ci sono. Sono silenzioso.» Occhi nell'oscurità che mi guardavano. «Che ore sono?» «Bevi la tua acqua.» «Per favore, è ancora mattina? O è pomeriggio?» «Non ha più importanza.» «Posso...?» «Che cosa?» Che cosa? Non lo sapevo neanch'io. Che cosa dovevo chiedergli? «Sono solo una persona qualsiasi. Non sono brava, ma neanche cattiva.» «Tutti hanno un punto in cui si spezzano» disse. «Questo è il fatto.» Nessuno sa che cosa farà, se arriva a quel punto. Nessuno lo sa. Pensai al lago, e al fiume, e alla farfalla gialla sulla foglia verde. Immaginai un albero con la corteccia d'argento e le foglie verdi chiare. Una betulla argentata. La misi in cima a una dolce collina verde. Feci passare una brezzolina tra le foglie, le feci vibrare e brillare come fossero luci tra i rami. Ci misi sopra una nuvoletta bianca. Avevo mai visto un albero del genere? Non mi ricordavo. «Ho molto freddo.» «Sì.» «Potrei avere una coperta? Qualcosa con cui coprirmi?» «Per favore.» «Che cosa?» «Devi dire per favore.» «Per favore. Per favore dammi una coperta.» «No.» Di nuovo fui scossa da una folle collera. Mi sembrava tanto impetuosa da soffocarmi. Deglutii con forza. Sbattei gli occhi sotto il cappuccio, guardai fisso. Lo immaginai che mi osservava, seduta con le braccia dietro la schiena, il collo avvolto in un cappio e la testa in un cappuccio. Dovevo sembrare una di quelle persone che si vedono sui giornali, che vengono portate in una piazza per essere fucilate da una fila di uomini armati. Ma non poteva vedere la mia espressione sotto il cappuccio. Non sapeva che
cosa pensavo. Dissi con voce inespressiva: «D'accordo». Quando sarebbe venuto il momento, mi avrebbe fatto male? O mi avrebbe semplicemente lasciato morire poco alla volta? Non ero molto brava a sopportare il dolore. Se fossi stata torturata, sarei crollata e avrei rivelato qualsiasi cosa, ne ero sicura. Ma questo era molto peggio. Mi avrebbe torturato e non ci sarebbe stato nulla che potessi fare per farlo smettere, nessuna informazione da dare. O forse avrebbe voluto il sesso. Mi sarebbe venuto sopra al buio, mi avrebbe costretta. Mi avrebbe sfilato il cappuccio, scoperto il viso, tolto lo straccio dalla bocca, introdotto la lingua. Ficcato dentro il... Scossi la testa violentemente, e il dolore che provai fu quasi un sollievo. Una volta avevo letto, o sentito, che ai soldati che volevano entrare nella SAS veniva ordinato di correre per un lungo tratto con uno zaino pesante sulla schiena. Correvano e correvano e, quando arrivavano alla meta, erano vicini al collasso. E a quel punto veniva loro ordinato di voltarsi e ritornare indietro di corsa. Pensi di non riuscire a farcela, ma ce la fai. Si riesce sempre a sopportare più di quel che si pensa. Profondità nascoste. È quel che mi dissi. Perché, qual era il punto in cui mi sarei spezzata? Fui svegliata da schiaffi sul viso. Non volevo svegliarmi. Che ragione c'era? Svegliarmi per che cosa? Volevo solo stare accovacciata e dormire. Altri schiaffi. Cappuccio tirato su, bavaglio tolto di bocca. «Sei sveglia?» «Sì. Smettila.» «Ti ho portato da mangiare. Apri la bocca.» «Che cosa mi hai portato?» «Che cosa diavolo ti importa?» «Voglio da bere prima. Ho la bocca secca.» Ci fu un borbottio nel buio. Passi che si allontanavano e scendevano. Bene. Una piccola vittoria. Una minuscola possibilità di controllo. Passi che ritornavano. Cannuccia in bocca. Avevo una sete disperata, ma avevo anche la necessità di sciacquar via la polvere e i pelucchi dell'orribile vecchio straccio che mi soffocava da tanto tempo. «Apri la bocca.» Un cucchiaio di metallo mi fu ficcato in bocca con sopra una sostanza molliccia. Improvvisamente l'idea di mangiare una cosa che non potevo vedere, che mi veniva messa in bocca da quell'uomo che mi avrebbe ucci-
sa, fu così disgustosa che mi parve di masticare carne umana cruda. Mi vennero dei conati di vomito e cominciai a sputacchiare. Altre bestemmie. «Mangia o ti lascio senz'acqua per un giorno.» Un giorno. Bene. Non aveva in mente di uccidermi per oggi. «Aspetta» dissi e feci qualche respiro profondo. «D'accordo.» Il cucchiaio raschiò in una scodella. Poi me lo sentii in bocca. Leccai il cibo e lo inghiottii. Sembrava una specie di porridge, ma aveva un sapore più blando e una consistenza più molle ed era dolciastro. Sembrava una di quelle pappette insipide per neonati. O uno di quegli intrugli che si danno ai convalescenti e che si comprano in farmacia. Pensai a gente farfugliante dagli occhi vitrei, seduta su letti d'ospedale e imboccata da infermiere annoiate. Inghiottii e mi fu ficcata in bocca un'altra cucchiaiata. Quattro in tutto. Non ero all'ingrasso, ero semplicemente tenuta in vita. Quando ebbi finito, succhiai dell'altra acqua dalla cannuccia. «Budino?» dissi. «No.» Mi venne un'idea. Un'idea importante. «Quando ci siamo incontrati?» «Che cosa vuoi dire?» «Da quando mi sono svegliata qui, ho un terribile mal di testa. Sei stato tu? Mi hai colpito?» «Che cosa ti passa in mente? Hai voglia di prendermi per il culo? Non prendermi per il culo. Ti potrei fare qualsiasi cosa.» «No, non ho affatto quest'intenzione. L'ultima cosa che ricordo... non sono neanche sicura. È tutto così confuso. Ricordo di essere stata al lavoro, ricordo...» stavo per dire «il mio ragazzo», ma poi pensai che farlo ingelosire, se così fosse successo, non fosse una buona idea. «Ricordo il mio appartamento. Che stavo facendo qualcosa nell'appartamento. Poi mi sono svegliata qui e non ho idea di come ci sia arrivata o di come ci siamo incontrati. Vorrei che me lo dicessi.» Ci fu una lunga pausa. Mi chiesi se se ne fosse andato, ma poi ci fu una specie di nitrito, che, mi resi conto con uno shock, era una risata sibilante. «Che cosa? Che cosa ho detto? Cosa?» Dovevo continuare a parlare. Mantenere desta una comunicazione. Pensavo senza tregua. Pensavo e ripensavo. Pensavo per rimanere viva e pensavo per smettere di provare emozioni perché sapevo vagamente che abbandonarmi alle emozioni sarebbe stato come buttarmi da una scogliera nel buio.
«Ti ho in mano» disse. «In mano?» «Hai un cappuccio addosso. Non mi vedi in faccia. Stai facendo la furba. Se riesci a farmi credere che non mi hai mai visto, pensi che ti lascerò andare.» Un'altra risata sibilante. «Ci pensi, vero, mentre stai distesa qui? Pensi di ritornare nel mondo?» Provai una tale angoscia che mi venne quasi da ululare. Ma ebbi anche un pensiero. Allora ci eravamo conosciuti. Non mi aveva semplicemente afferrata in un viottolo scuro e dato un colpo in testa. Conoscevo quest'uomo? Se lo avessi visto, avrei riconosciuto il suo volto? Se avesse parlato normalmente, ne avrei riconosciuto la voce? «Se non mi credi, allora non importa che tu me lo dica di nuovo, no?» Lo straccio mi fu ficcato in bocca. Fui portata giù e condotta al secchio. Riportata indietro. Scaricata sulla pedana. Non mi mise il cappio. Pensai volesse dire che non sarebbe uscito dall'edificio. Sentii il suo alito vicino alla faccia, quell'odore. «Stai cercando di capire le cose. Mi piace. Pensi che se riesci a farmi credere che non puoi identificarmi, io mi diverta con te per un po', poi ti lasci andare.» Ascoltai il suo sussurro gracchiante, cercando di ricordare se quella voce mi fosse in qualche modo familiare. «Siete diverse. Come Kelly, per esempio. Prendiamo Kelly.» Fece rotolare il nome in bocca come se fosse una caramella mou. «Piangeva e piangeva in continuazione. Non aveva nessuno stupido piano. Piangeva e basta. È stato un sollievo metterla a tacere.» Non piangere, Abbie. Non innervosirlo. Non seccarlo. Il pensiero mi venne dal nulla. Mi sta tenendo in vita. Non intendevo dire che non mi avrebbe uccisa. Ero in quella stanza ormai da tre o quattro giorni. Si può vivere per settimane senza cibo, ma un essere umano quanto riesce a sopravvivere senz'acqua? Se fossi stata solo rinchiusa in quella stanza e abbandonata, a quest'ora sarei morta o quasi. L'acqua che avevo inghiottito era sua. Il cibo che avevo nello stomaco era suo. Ero come un animale della sua fattoria. Ero sua. Non sapevo nulla di lui. Fuori di quella stanza, nel mondo, quell'uomo probabilmente era stupido, brutto, ripugnante, un fallito. Forse troppo timido per parlare con le donne, forse trattato male dai compagni di lavoro. Forse era l'uomo strambo e silenzioso che sta in un angolo. Ma qui ero sua. Era il mio amante e mio padre e il mio Dio. Se voleva
entrare silenziosamente e strangolarmi, poteva farlo. Dovevo dedicare ogni singolo secondo da sveglia a pensare ai modi di tenerlo a bada. A come riuscire a farmi amare o a piacergli, o a farmi temere. Se la sua intenzione era far crollare una donna prima di ucciderla, allora dovevo rimanere forte. Se odiava le donne perché gli erano ostili, allora dovevo... che cosa? Accettarlo? Qual era la scelta giusta? Non lo sapevo. Sempre e soprattutto dovevo smettere di credere che quel che facevo probabilmente non avesse importanza. Quando non avevo il cappio non contavo il tempo. Non mi sembrava importante. Dopo un po' ritornò. Sentii la sua presenza. Mi mise una mano sulla spalla e mi fece sobbalzare. Stava controllando se fossi ancora viva? Due scelte. Potevo fuggire con la mente. La farfalla gialla. L'acqua fresca. Acqua da bere, acqua in cui immergermi. Cercai di ricreare mentalmente il mio mondo. L'appartamento. Ne attraversai le stanze, guardai i quadri alle pareti, toccai il tappeto, nominai gli oggetti sugli scaffali. Attraversai la casa dei miei genitori. Ogni tanto avevo degli strani vuoti. Il capanno del giardino di mio padre, i cassetti della scrivania di Terry. Ma pazienza. Così tante cose in testa. Così tante. Dentro la testa e fuori. Ma a volte, mentre attraversavo quelle camere immaginarie, mi mancava il pavimento sotto i piedi e cadevo. Questi giochi mentali mi tenevano la mente occupata, ma non dovevo solo tenere la mente occupata. Dovevo anche mantenermi in vita. Dovevo fare dei piani. Avevo voglia di ucciderlo, di fargli del male, di cavargli gli occhi, di ridurlo in poltiglia. Avevo solo bisogno di un'opportunità, ma non riuscivo a vederne nessuna. Cercai di immaginare che non avesse veramente ucciso nessuno. Che avesse mentito solo per spaventarmi. Ma non ci credetti. Non si trattava solo di una telefonata oscena. Io ero lì, in quella stanza. Non aveva bisogno di inventare storie. Non sapevo nulla di quest'uomo, ma sapevo che aveva fatto la stessa cosa in precedenza. Aveva pratica. Aveva il controllo della situazione. Le possibilità di riuscita erano scarse. Quasi inesistenti. Così qualsiasi piano fossi stata in grado di escogitare non doveva avere grandi probabilità di successo. Ma non riuscivo a formulare alcun piano che avesse anche una probabilità di successo minima. L'unica soluzione era cercare di prendere tempo il più possibile. Ma non sapevo neanche se stessi prendendo tempo. Ebbi il pensiero orribile - un altro, giacché erano tutti orribili - che avesse
previsto tutto. Tutte le chiacchiere, i piccoli piani e le strategie erano solo rumore nelle orecchie per lui, una zanzara che gli ronzava intorno alla testa, e che, quando sarebbe stata a tiro, avrebbe ucciso con un colpo. «Perché fai queste cose?» «Che cose?» «Perché io? Che cosa ti ho fatto?» Una risata stridente. Uno straccio che mi veniva ficcato in bocca. Altri esercizi con le ginocchia. Non riuscii a farne più di sedici. Stavo peggiorando. Le gambe mi facevano male. Le braccia mi dolevano. Perché io? Cercai di smetterla di farmi quella domanda, ma non ci riuscii. Ho visto fotografie di donne assassinate, sui giornali e alla televisione. Ma non dopo che erano state uccise. Quasi mai. No. Le avevo viste quando pensavano che la loro vita sarebbe stata normale. Probabilmente, quando la famiglia dava la foto alla televisione sceglieva la più carina, la più sorridente. Quasi sempre erano foto tratte dall'album del liceo. E quasi sempre erano ingrandite più di quel che avrebbero dovuto e prendevano un aspetto un po' sfocato, inquietante. Quelle donne non sapevano quel che sarebbe loro accaduto, mentre noi sì. Non eravamo come loro. Non riuscivo a credere che sarei diventata una di loro. Terry sarebbe andato a rovistare tra la mia roba e avrebbe trovato una fotografia. Probabilmente quella stupida che avevo fatto per il passaporto l'anno passato, in cui sembrava avessi qualcosa in un occhio e che stessi sentendo un cattivo odore nello stesso momento. L'avrebbe data alla polizia che l'avrebbe ingrandita più del dovuto e sarebbe sembrata sfocata; e io sarei diventata famosa per essere morta, ed era così ingiusto. Passai in rassegna le donne sfortunate che conoscevo. C'era Sadie, che era stata lasciata un mese prima di Natale dal suo ragazzo, incinta di quasi otto mesi. Marie che entrava e usciva dall'ospedale per fare la chemioterapia e portava un foulard in testa. Pauline e Liz che erano state licenziate quando Laurence aveva ridotto il personale due anni prima. Gliel'aveva detto un venerdì sera, dopo che tutti erano usciti, e quando eravamo rientrati il lunedì mattina, non c'erano più. Sei mesi dopo Liz non si era ancora ripresa. Erano tutte più fortunate di me. E prima o poi, di lì a pochi giorni, l'avrebbero capito. Sarebbero venute a saperlo e sarebbero diventate tutte delle mini-celebrità. Avrebbero detto ai conoscenti, ai colleghi di lavoro, con eccitazione coperta da un leggero strato di profonda pietà: «Sai, quella
tipa, Abbie Devereaux, quella dei giornali? La conoscevo. Non posso crederci». E sarebbero state scioccate e si sarebbero dette in segreto che avevano i loro problemi, ma almeno non erano Abbie Devereaux. Grazie a Dio il fulmine aveva colpito lei e non loro. Ma io ero Abbie Devereaux e non era giusto. Venne e mi mise il cappio intorno al collo. Questa volta avrei contato. Ci avevo pensato, l'avevo pianificato. Come avrei fatto a non perdere il conto? Avevo escogitato un piano. Sessanta secondi in un minuto, sessanta minuti in un'ora. Fa tremilaseicento secondi. Avrei immaginato di salire su una collina in una città il cui nome cominciava con la A. Una collina con tremilaseicento case, che avrei contato mentre ci passavo davanti. Solo che non riuscivo a trovare una città che cominciasse con la A. Sì, Aberdeen. Salii sulla collina di Aberdeen. Uno, due, tre, quattro... Quando arrivai in cima alla collina di Aberdeen, ricominciai con Bristol. Poi con Cardiff, Dublino, Eastbourne, Folkestone e poi, quando ero a metà della collina di Gillingham, ritornò nella stanza e mi tolse il filo dal collo. Sei ore e mezzo dopo. Se sei in un buco, smetti di scavare. Un punto in tempo ne salva cento. Non attraversare un ponte prima di esserci arrivato. Non bruciarti i ponti alle spalle. Era giusto, due proverbi con i ponti? Quali altri? Pensa e ripensa. Non serve piangere sul latte versato. Non fasciarti la testa prima di essertela rotta. Chi fa da sé fa per tre, e tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e una rondine non fa primavera. Rosso di sera bel tempo si spera. Ma rosso di mattina brutto tempo si avvicina. Quante strade deve percorrere un uomo, prima...? No, era un'altra cosa. Era una canzone. Una canzone, non un proverbio. Come faceva? Cercai di ricordare, di immaginare la musica e di udirne il suono in quel buio denso e silenzioso. Invano. Con le immagini era più facile. Una farfalla gialla su una foglia verde. Non volar via. Un fiume con dei pesci dentro. Un lago con acqua trasparente e pulita. Un albero argenteo su una collina dolce, con le foglie che frusciavano alla brezza. Che altro? Nient'altro. Avevo troppo freddo. «Salve. Speravo che arrivassi presto.» «Non hai finito l'acqua.» «Non c'è fretta, no? Ci sono tante di quelle cose che volevo chiederti.» Emise un leggero suono gutturale. Tremavo, ma forse perché avevo tan-
to freddo. Non riuscivo a immaginare di poter di nuovo stare al caldo, o essere pulita. O libera. «Voglio dire, siamo qui, due persone sole in questo posto. Dobbiamo cercare di conoscerci. Di parlarci.» Non disse nulla. Non capivo se stesse ascoltando o no. Feci un respiro e continuai: «Dopo tutto devi aver scelto me per una ragione. Sembri un uomo che agisce di proposito, vero? Sei logico, penso. Mi fa piacere. Logico». Logico, era una parola? Suonava sbagliata. «Avanti» disse. Avanti. Bene. Che cosa dovevo dire ora? C'era un punto che mi doleva sopra il labbro. Tirai fuori la punta della lingua per toccarlo; sembrava una bolla. Forse il mio corpo si stava riempiendo di piaghe e vesciche. «Già, logico. Dotato di uno scopo.» No, era decisamente una parola sbagliata. Proviamo ancora. «Dotato di uno scopo. Sei forte, vero?» Ci fu silenzio. Lo sentivo respirare distintamente. «Sì, penso di aver ragione. Gli uomini devono essere forti, anche se molti sono deboli. Molti» ripetei. «Ma penso che tu sia anche solo. La gente non riconosce le tue speranze. No, le tue forze, voglio dire forze, non speranze. Soffri di solitudine?» Ma era come gettare sassi in un pozzo senza fondo. Dicevo parole stupide ed esse scomparivano nell'oscurità. «O ti piace stare da solo?» «Forse.» «Abbiamo tutti bisogno di qualcuno che ci ami, però» dissi. «Nessuno può stare sempre da solo.» Avrei fatto qualsiasi cosa per sopravvivere, pensai. Gli avrei permesso di abbracciarmi e di scoparmi e avrei perfino fatto finta che mi piacesse. Qualsiasi cosa, pur di vivere. «E ci deve essere una ragione per cui hai scelto me, invece di un'altra.» «Vuoi sapere che cosa penso? Eh? Lo vuoi sapere?» Mi mise una mano sulla coscia e la fece correre avanti e indietro. «Sì, dimmelo.» Oh, Dio, non farmi star male e non farmi urlare forte. «Penso che tu non abbia idea di come sei in questo momento.» Fece la sua risata stridula. «Pensi di poter civettare con me, eh? Di intrappolarmi in questo modo, come se fossi stupido? Ma non hai idea di come sei, amor mio. Non sembri affatto una persona. Non hai nemmeno una faccia. Sembri una... una... cosa. O un animale. E puzzi. Puzzi di piscio e merda.» Rise un'altra volta e la mano sulla coscia si strinse fino a pizzicarmi con forza e io gridai per il dolore e l'umiliazione. «Abbie, che ha tentato tanto» sussurrò. «Kelly che ha pianto e Abbie che ha tentato. Potrei mettervi in poesia. Pianto, tentato, morto. Per me è tutto
lo stesso, alla fine.» Pianto, tentato, morto. Parole nel buio. Il tempo si stava esaurendo. Lo sapevo. Immaginai una clessidra con la sabbia che cadeva in un flusso continuo. Quando la si guardava, l'ultima sabbia sembrava sempre cadere più velocemente. Mi stava di nuovo portando giù dalla pedana. Avevo le dita dei piedi formicolanti e le gambe che non sembravano più mie. Erano dure come bastoni, o piuttosto come ramoscelli che si sarebbero potuti spezzare da un momento all'altro. Avanzai traballando e incespicando e lui mi sostenne tenendomi per il braccio. Le sue dita mi si conficcarono nella carne. Forse ci lasciarono dei lividi, quattro di sopra e uno di sotto. Capivo che c'era una luce. Dentro il cappuccio era grigio scuro, non nero. Mi trascinò lungo il pavimento, poi disse: «Siediti. Secchio». Non si diede la pena di slegarmi i polsi. Mi tirò giù lui stesso i pantaloni. Sentii le sue mani sulla carne. Non mi importava. Mi sedetti. Sentii il bordo di metallo sotto di me e dietro la schiena. Ci misi le dita intorno e cercai di respirare con calma. Quando ebbi finito, mi alzai e lui mi tirò su di nuovo i pantaloni. Ora mi stavano larghi. Diedi un calcio al secchio e lo mandai all'aria. Lo udii colpirgli le gambe e rovesciarsi. Emise un grugnito e io mi lanciai alla cieca nella direzione del grugnito, urlando quanto più potevo con lo straccio cacciato in bocca. Non sembrò un urlo, ma un gracidio sordo. Andai a sbattere contro di lui, ma fu come sbattere contro un muro. Alzò un braccio per fermarmi e io sollevai la testa e andai a cozzare contro il suo mento. Il dolore mi fece vedere rosso. «Ah» disse lui. Poi mi picchiò. E mi picchiò di nuovo. Mi tenne per le spalle e mi diede un pugno nello stomaco. «Oh, Abbie» disse. Mi misi a sedere sulla pedana. Dov'è che avevo male? Dappertutto. Non riuscivo più a distinguere le parti del mio corpo. A distinguere dove finisse il male alla testa e incominciasse quello al collo; dove il freddo delle gambe diventasse il freddo del corpo; dove finisse il sapore della bocca ulcerata e cominciasse quello della bile in gola o la nausea nello stomaco; dove il ronzio delle orecchie diventasse il silenzio intorno a me. Cercai di piegare le dita dei piedi, ma non ci riuscii. Intrecciai insieme le dita delle mani. Quale dito apparteneva alla mano destra e quale alla sinistra?
Provai di nuovo a dire le tabelline. Non fui in grado neanche di finire quella del due. Com'era possibile? Anche i bimbi la conoscevano. La cantavano in classe. Riuscivo a sentire quella cantilena nella testa ma non aveva alcun senso. Che cosa sapevo? Sapevo che ero Abbie. Sapevo che avevo venticinque anni. Sapevo che fuori era inverno. Sapevo anche altre cose. Che il giallo e il blu facevano il verde, come il mare blu estivo che incontrava la sabbia gialla. Che le conchiglie frantumate formavano la sabbia. La sabbia fusa produceva il vetro; acqua in un bicchiere di vetro, ghiaccio che tintinnava. Dagli alberi si ricavava la carta. Forbici, carta, pietra. In un'ottava c'erano otto note. In un minuto sessanta secondi, in un'ora sessanta minuti, in un giorno ventiquattro ore, in una settimana sette giorni, in un anno cinquantadue settimane. Trenta giorni ha novembre, con aprii giugno e settembre... ma non riuscii a finire. Non dovevo dormire. Eppure mi appisolai, cadendo in un sogno opaco, borbottante. Poi mi svegliai con un sobbalzo perché lui era vicino a me. Questa volta non c'era luce. E neanche acqua. Dapprima non disse nulla, ma lo sentii respirare. Poi cominciò con il mormorio smorzato nell'oscurità. «Kelly. Kath. Fran. Gail. Lauren.» Rimasi immobile. Non mi mossi affatto. Era una cantilena monotona. Continuava a ripetere i cinque nomi e io stavo seduta là sopra, con il capo leggermente in avanti come se fossi ancora addormentata. Le lacrime mi scendevano sulle guance, ma lui non le poteva vedere. Mi pungevano. Immaginai che lasciassero delle tracce sulla pelle, come la scia di una lumaca. D'argento. Poi si alzò e se ne andò e io continuai a piangere in silenzio al buio. «Bevi.» Bevvi. «Mangia.» Altri quattro cucchiai di pappetta dolce. «Secchio.» Mi chiamo Abbie. Abigail Devereaux. Per favore aiutatemi, qualcuno mi aiuti. Per favore. Nessuno mi avrebbe aiutata. Una farfalla gialla. Una foglia verde. Per favore, non volar via.
Mi fece scivolare il cappio intorno al collo quasi con una certa tenerezza. Per la terza volta, o era la quarta? Sentii le sue dita intorno al collo che controllavano la posizione. Se io pensavo a lui in continuazione, anche lui doveva pensare a me. Che cosa provava nei miei confronti? Era una specie d'amore? O era come un contadino con un maiale che doveva tenere chiuso in un recinto e ingrassare prima di ammazzarlo? Lo immaginai venire, tra un giorno o due, e stringermi il cappio intorno al collo, o tagliarmi la gola come un noioso dovere. Quando se ne fu andato, cominciai di nuovo a contare. Questa volta scelsi i Paesi. Camminai lungo una strada calda e assolata dell'Australia contando le case. Pioveva quando mi inerpicai per un viottolo medioevale, serpeggiante in Belgio. Faceva caldo nel Ciad. Freddo in Danimarca. C'era tempesta in Ecuador. Poi, al numero 2351, in un ampio viale costeggiato di alberi in Francia, udii una porta chiudersi di fuori, dei passi. Era stato via per circa cinque ore e quaranta minuti. Un arco di tempo più breve di prima. Era in ansia nei miei confronti. Oppure il suo tempo variava a caso. Che cosa importava? Altra pappetta, che mi venne somministrata con un cucchiaio. Non tanta come prima. Non ero all'ingrasso. Mi teneva in vita, ma facendomi dimagrire. Secchio. Pedana. «Sei stanca» disse. «Che cosa?» «Non parli più tanto.» Decisi di fare uno sforzo per essere brillante e carina e forte. Era come trascinare un sacco immensamente pesante su per una collina ripida. «Ti mancano le mie chiacchiere?» La mia voce sembrava provenire da molto lontano. «Stai svaporando.» «No, non sto svaporando. Ho solo un po' di sonno al momento. Sono stanca. Sai com'è. Molto stanca. Un'eco nella testa.» Cercai di concentrarmi su quello che dicevo, ma le parole non sembravano più aver senso. «Sapresti affrontare una cosa del genere?» dissi inconsultamente. «Tu non sai che cosa sono in grado di affrontare. Non sai niente di me.» «Ci sono cose che so. E cose che non so, naturalmente, e che sono molte di più, la maggior parte. So che mi hai presa. Perché proprio io? Mi piacerebbe sapere perché io. Questo non lo so. Presto ti troveranno. Lo faranno.
Sto aspettando di sentire i passi. Mi salveranno.» Dietro di me udii la risata stridula. Ebbi un brivido. Avevo freddo dappertutto. Avevo freddo, ero sporca, dolorante, spaventata. «Non è uno scherzo» dissi con uno sforzo. «Mi salveranno. Qualcuno mi salverà. Terry. Ho un fidanzato, sai. Terence Wilmott. Verrà. Ho un lavoro. Lavoro da Jay and Joiner's. Dico alla gente che cosa fare. Non mi lasceranno andar via.» Era un errore, dirgli cose del genere. Cercai di forzare le parole in una direzione diversa. Avevo la lingua spessa e la bocca secca. «O la polizia. Mi troveranno. Dovresti lasciarmi andare prima che mi trovino. Non parlerò. Non parlerò e non avrò niente da dire. Non c'è niente da dire, dopo tutto.» «Parli troppo.» «Allora parla tu. Parlami tu adesso.» Tutto quel che sapevo era che non doveva ficcarmi lo straccio in bocca e legarmi il cappio intorno alla gola. «Che cosa pensi?» «Tu non riusciresti a capire quel che penso, anche se te lo dicessi.» «Provaci. Parlami. Possiamo parlare. Cercare una via d'uscita. Trovare un modo per farmi andar via.» No, non dovevo dir quello. Dovevo tenere per me quei pensieri. Dovevo concentrarmi. Un lungo silenzio nell'oscurità. Pensai a lui seduto là, un essere sudicio, ansimante. «Vuoi che ti parli?» «Sì. Puoi dirmi il tuo nome? No, non il tuo vero nome. Un altro nome, con cui ti possa chiamare.» «So che cosa stai cercando di fare. Sai che cosa stai cercando di fare?» «Voglio parlare con te.» «No, carina. Stai cercando di fare la furba. Stai cercando di fare la ragazza intelligente. Stai cercando di fare la psicologa.» «No. No.» «Speri di diventare mia amica.» Fece una risatina soffocata. «Sei legata e sai di non poter scappare. Sai di non poter corrompermi. Sono io ad avere il controllo. L'unica ragione per cui sei viva in questo momento è perché io lo voglio. Così ti stai chiedendo che cosa fare. Pensi che forse sono un uomo triste e solo e che ho paura delle ragazze. E che se solo riuscissi a essere mia amica ti lascerei andare. Ma non capisci un accidenti.» «Voglio solo parlare. C'è troppo silenzio.» «Alcune frignano. Sembrano quegli animali mezzo schiacciati da una macchina che si agitano per strada, aspettando di essere liberati dalla soffe-
renza, di essere calpestati. E altre cercano di contrattare. Come Fran. Mi disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa se l'avessi lasciata andare. Come se avesse qualcosa da offrirmi. Che cosa ne pensi?» Mi sentivo male. «Non lo so.» «Gail pregava. La sentii quando le tolsi il bavaglio. Non le è servito a niente.» «Come fai a saperlo?» «Che cosa vuoi dire?» «Come fai a sapere che non le è servito a niente? Non lo sai.» «Lo so, te lo assicuro. Buffo, no? Qualcuna piagnucola, qualcuna cerca di fare la civetta. Anche tu l'hai fatto un po'. Qualcuna prega. Lauren ha lottato e lottato e non si dava per vinta. L'ho dovuta far fuori in fretta. Alla fine è la stessa cosa.» Avevo voglia di piangere. Di singhiozzare e di essere abbracciata e confortata e sapevo che era la cosa che non dovevo fare, altrimenti sarei diventata l'animale ferito che si dibatteva e lui mi avrebbe calpestata. «È vero?» dissi. «Che cosa?» «Di quelle donne.» La risata tossicchiante. «Sarai con loro tra qualche giorno. Glielo potrai chiedere tu stessa.» Se ne andò, ma le cose sembravano differenti. Ritornò dopo pochi minuti come se non riuscisse a star lontano. Aveva pensato a qualcos'altro. Mi aveva messo il bavaglio e me lo tolse di nuovo. Sentii le sue labbra vicino all'orecchio, lana bagnata e alito dolciastro che sapeva di cipolle e carne. «Un giorno, presto» disse «e non lo saprai prima, verrò qui e ti darò un pezzo di carta e una penna e potrai scrivere una lettera. Una lettera d'addio. Potrai scrivere a chi vorrai. Io la spedirò. Potrai dire quello che vorrai, basta che mi piaccia. Non voglio lagne. Potrà essere un testamento, se vuoi. Potrai lasciare il tuo orsacchiotto preferito a qualcuno o qualcosa del genere. E poi, quando avrai scritto la lettera, compirò l'atto. Hai sentito quel che ho detto? Sì o no?» «Sì.» «Bene.» Mi ficcò il bavaglio in bocca. Se ne andò. Mi chiesi per che cosa avesse pregato Gail. Amavo la vita come le altre?
Kelly, che aveva pianto per la vita che perdeva. Fran, che si era offerta per disperazione. Lauren, che aveva lottato. Gail, che aveva pregato. Per che cosa? Forse solo per avere pace. Per essere liberata. Dubitavo di essere buona come Gail. Se avessi pregato, non sarebbe stato per la pace. Avrei pregato di avere un fucile e le mani slegate. O un coltello, una pietra, un chiodo. Una cosa qualsiasi per fargli male. Un'ultima lettera. Non un ultimo pasto, ma un'ultima lettera. A chi avrei scritto? A Terry? Che cosa gli avrei detto? Se troverai qualcun'altra, sii più gentile di come sei stato con me. Non proprio. Ai miei genitori? Immaginai di scrivere una lettera nobile, piena di pensieri saggi sulla vita, che avrebbe fatto sentire meglio tutti. Quando una persona muore è importante che chi la conosceva trovi dei modi per consolarsi. Non ha sofferto. Oppure, ha sofferto, ma almeno è finita e ora riposa in pace. Oppure, alla fine ha mostrato di che tempra era fatta. Queste cose possono far stare meglio. La vecchia cara Abbie è riuscita a snocciolare un paio di belle battute anche quando stava per essere assassinata. Che lezione per tutti noi. Che grande lezione per tutti noi su come affrontare il problema di essere assassinati. Fate attenzione, bambini. Se mai foste rapiti da uno psicopatico e questi stesse per uccidervi, eccovi una lettera di Abigail Devereaux. Questo è lo spirito con cui essere uccisi. Coraggio e perdono e allo stesso tempo non prendersi troppo sul serio. Ma io non ero saggia e non avevo nessuna intenzione di perdonare; non ero coraggiosa e volevo solamente che tutto questo avesse fine. A volte si parla di quel che si vorrebbe per l'ultimo pranzo, come se fosse un gioco tipo quali dischi si porterebbero su un'isola deserta. Be', se ci dovesse essere un ultimo pasto, non riuscirei a inghiottirlo. E se ci dovesse essere un'ultima lettera, uno scritto brillante in cui riassumere la mia vita, non riuscirei a scriverla. Non potrei scrivere un urlo al buio. Appena arrivata qui, all'inizio, tanto tempo fa, ero tormentata dal pensiero della gente normale forse a soli pochi metri o a un chilometro di distanza. Gente che andava di fretta, che si chiedeva che cosa guardare in televisione quella sera, o che cosa mettersi, o quale tavoletta di cioccolato comprarsi. Ora mi sembrava tutto remoto. Non appartenevo più a quel mondo. Vivevo in una caverna sprofondata nella terra dove la luce non era mai penetrata. Quando ero appena arrivata avevo sognato di essere sepolta viva. Era la cosa più spaventosa a cui potessi pensare. Ero chiusa in una scatola buia.
Spingevo il coperchio della scatola, ma non si apriva perché sopra di esso c'era della terra spessa e pesante e sopra ancora una lastra di pietra. Mi sembrava la cosa più spaventosa che il cervello potesse concepire. Ora ci pensavo e non mi pareva più la cosa peggiore, perché c'ero già, in quella tomba. Il cuore mi batteva, i polmoni respiravano, ma non aveva importanza. Ero morta. Ero nella mia tomba. «Ho lottato?» «Che cosa c'è adesso?» «Non mi ricordo. Voglio che tu me lo dica. Sono venuta spontaneamente? Mi hai dovuta costringere? Mi hai colpita in testa? Non mi ricordo.» La risata. «Ci stai ancora provando? È troppo tardi per questo. Ma se vuoi continuare con questo giochetto, d'accordo, sì, hai lottato. Ho dovuto malmenarti un pochino. Hai lottato più di tutte le altre. Ti ho dovuto dare un paio di pugni, per calmarti.» «Bene.» «Che cosa?» «Niente.» Dovevo continuare con gli esercizi delle ginocchia. Non cedere. Uno, due, tre, quattro, cinque. Dovevo arrivare a dieci. Avanti. Dovevo metterci maggiore impegno. Sei, sette, otto, nove. Ancora uno. Dieci. Fui assalita da una nausea orribile. Non dovevo cedere. Respirare, dentro e fuori. Non cedere mai. D'accordo. La mia ultima lettera. A nessuno. Be', forse a una persona che non esisteva, che avrei potuto incontrare in futuro. Come scrivere un diario. Quando ero adolescente, tenevo un diario, ma aveva sempre un tono imbarazzante. Mi sembrava di essere un'altra, e una ragazza che non mi piaceva particolarmente. Non ho mai saputo per chi fosse, né a chi fosse indirizzato. Dov'ero? Già. La lettera. Quando era stata l'ultima volta che avevo scritto una lettera? Scrivevo molte e-mail, e ogni tanto mandavo una cartolina del tipo «piove» oppure «c'è il sole», e «penso a te». Ma lettere vere e proprie, be', erano secoli. Avevo un'amica che si chiamava Sheila, che, nell'anno sabbatico tra il liceo e l'università, era andata in Kenya a lavorare come volontaria e viveva in una capanna con il tetto di paglia in un piccolo villaggio. Ogni tanto le mandavo delle lettere, ma non sapevo mai se le a-
vrebbe ricevute e, quando ritornò a casa, scoprii che gliene erano arrivate solo un paio. Era strano scrivere a qualcuno senza sapere se avrebbe mai letto la lettera. Come quando si parla a una persona con convinzione e poi, dopo essersi girati un attimo, si scopre che la persona se ne è andata. Che cosa succede a quelle parole e a quei pensieri? Cose che non arrivano mai a destinazione. La bocca era in uno stato orribile, piena di bolle. Le gengive erano dolenti e gonfie. Quando deglutivo, era come inghiottire veleno, sentivo il sapore dello straccio e del mio deterioramento, così cercavo di non farlo, ma era molto difficile. Stavo seduta al buio, tenevo le mani congiunte. Le unghie mi erano diventate più lunghe. Tutti sanno che le unghie continuano a crescere anche dopo che si è morti, ma ho sentito dire o ho letto che non è vero. È solo la pelle che si ritira, o qualcosa del genere. Chi me lo aveva detto? Non ricordavo. La memoria mi tradiva. Era come se le cose svanissero pian piano, le cose che mi legavano alla vita. La lettera. A chi avrei lasciato le mie cose? Ma che cos'avevo da lasciare? Non avevo una casa, né un appartamento. Avevo una macchina mezzo arrugginita. Terry la guardava con disapprovazione, una disapprovazione velata di compiacimento, come a dire: «Donne!». Qualche vestito, non molti. Li poteva prendere Sadie, a parte che, dopo la gravidanza, era diventata più grossa di me. Dei libri. Qualche gioiello, niente di particolarmente prezioso, però. Non molto. Si poteva smistare il tutto in un paio di ore. Chissà che tempo faceva. Forse c'era il sole. Cercai di immaginare il sole sulle strade e sulle case, ma invano. Quelle immagini se ne erano andate: la farfalla, il lago, il fiume, l'albero. Cercai di imprimermele nella mente, ma si dissolsero, non riuscivo a tenerle insieme. Forse fuori c'era la nebbia, che avvolgeva tutte le forme. Sapevo che non era ancora notte. Di notte, per sei ore, cinque ore, mi metteva il cappio intorno al collo e se ne andava. Mi sembrò di udire un rumore. Che cos'era? Lui che veniva da me a passi felpati? Era arrivato il momento? Trattenni il respiro, ma il cuore mi batteva così velocemente e il sangue mi pulsava tanto in testa che per un momento non riuscii a udire nient'altro che il tumulto nel mio corpo. Si poteva morire di paura? No, non c'era nessuno. Ero ancora sola sulla pedana, al buio. Non era ancora il momento. Ma sapevo che sarebbe arrivato presto. Mi teneva d'occhio. Sapeva che stavo andando a pezzi, poco alla volta. Era quello che voleva. Voleva che smettessi di essere io, e allora mi avrebbe
potuto uccidere. E io mi osservavo ciecamente nell'oscurità. Come faceva il cervello a sapere che stava venendo meno, la mente a sentire che si stava disintegrando? Era così che si impazziva? Quando si cedeva e, con una specie di spaventoso sollievo, ci si lasciava cadere nell'abisso? Immaginai un paio di mani afferrate a un bordo, che tenevano duro, e poi, molto lentamente, le dita che si rilassavano, si aprivano. Si cadeva nello spazio e nulla ti poteva fermare. La lettera. Caro non-so-chi, aiutami, aiutami, aiutami. Non ce la faccio più. Per favore. Oh, Gesù, per favore. Gli occhi mi pizzicavano e pungevano. La gola mi doleva, più del solito. Come se ci fossero dei granelli di terra. O di vetro. Forse mi stava venendo un raffreddore. Allora non sarei più stata in grado di respirare. Sarei stata completamente bloccata. «Bevi.» Bevvi. Solo pochi sorsi questa volta. «Mangia.» Quattro cucchiaiate di pappetta. Riuscivo a malapena a inghiottire. «Secchio.» Fui portata giù, riportata su. Mi sentivo come una bambola di plastica malridotta. Per un momento pensai di contorcermi e scalciare, ma sapevo che avrei esaurito tutte le forze. Sentii le sue mani che mi tenevano intorno alla gabbia toracica. Avrebbe potuto spezzarmi. «Cappio.» «Stronzo» dissi. «Che cosa?» «Sei uno stronzo, un pezzo di merda.» Mi colpì sulla bocca. Sentii il gusto del mio sangue. Dolce, metallico. «Spazzatura» continuai. Mi ficcò il bavaglio in bocca. Cinque ore, forse, e qualche minuto. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevo contato? Non mi ricordavo più. Poi era ritornato. Forse avrebbe portato un pezzo di carta e una penna. Fuori doveva essere buio; probabilmente era buio da ore. Forse c'era la luna, le stelle. Immaginai i puntini di luce nel cielo nero. Eccomi qui, sola dentro il mio cappuccio, dentro la mia testa. Ero qui e
null'altro mi sembrava reale ormai. Dapprima mi ero imposta di non pensare alla vita al di fuori di quella stanza, alla vita normale com'era stata prima. Avevo ritenuto che sarebbe stata una tortura, che mi avrebbe fatto diventare pazza. Ora che volevo ricordare non ci riuscivo, non bene almeno. Era come se il sole si fosse nascosto e stesse per scoppiare una tempesta o per giungere la notte. Stava arrivando il momento. Cercai di vedermi nell'appartamento, ma non ci riuscii. Al lavoro, nemmeno. I ricordi giacevano in un'oscurità sempre più fitta. Mi ricordavo di questo, però: di aver nuotato in un braccio di mare in Scozia; non sapevo più quando, anni prima, e l'acqua era così salmastra e scura che non si riusciva a vedervi attraverso. Non ero in grado neanche di vedere bene le mie mani quando le allungavo di fronte a me. Ma quando facevo delle bracciate, scorgevo bolle d'argento nell'acqua scura. Una cascata di bolle d'aria argentata. Perché mi ricordavo quel momento mentre altri erano svaniti? Le luci si stavano spegnendo, una a una. Presto non ci sarebbe rimasto più nulla. Allora lui avrebbe vinto. Sapevo che cosa avrei fatto. Non avrei scritto alcuna lettera. Non avrei atteso che venisse nella stanza con il suo pezzo di carta. Era l'unico potere che mi era rimasto. Il potere di non aspettare che mi uccidesse. Non era molto, ma era tutto ciò che avevo. Non più ricordi, né speranza. Solo quello. Ed era molto semplice, veramente. Se avessi continuato a rimanere seduta lì, prima o poi (probabilmente prima, domani o dopo; sentivo che il momento era vicino) mi avrebbe uccisa. Ogni dubbio in proposito si era dissolto. Ero assolutamente certa che aveva assassinato le altre donne e che avrebbe fatto lo stesso con me. Non sarei riuscita ad aver ragione di lui. Non sarei riuscita a scappare quando mi portava giù. Né a persuaderlo a liberarmi. La polizia non avrebbe fatto irruzione nella stanza e non mi avrebbe liberata. Terry non sarebbe arrivato. Nessuno sarebbe venuto. Non mi sarei svegliata una mattina per scoprire che era stato tutto un brutto sogno. Sarei morta. Mi dissi questo, alla fine. Se avessi aspettato, mi avrebbe uccisa, questo era più che certo. Non avevo alcuna speranza. I patetici tentativi di cambiare la situazione equivalevano a scagliarsi contro un muro. Ma se mi gettavo giù dalla pedana, il cappio mi avrebbe certamente strangolata. Era quello che mi aveva detto e in effetti, se mi piegavo in avanti, sentivo il filo intorno al collo. Doveva sapere che non ci avrei provato. Nessuno sano di mente si ucciderebbe per non morire.
Eppure quello era proprio ciò che avrei fatto. Mi sarei buttata giù. Perché era la sola cosa che mi era rimasta da fare. L'ultima possibilità di essere Abbie. E non avevo molto tempo. Avrei dovuto farlo prima che ritornasse, mentre ancora potevo. Mentre ne avevo la volontà. Inspirai e trattenni il respiro. Perché non ora, prima di perdere il coraggio? Espirai. Perché era impossibile farlo, ecco il perché. Si pensa sempre: ancora solo un secondo in più di vita. Ancora un minuto. Non adesso. In qualsiasi altro momento, ma non adesso. E saltare significava non respirare più e non pensare; non dormire e non sapere che ci si sarebbe svegliati, non avere più paura, né speranza. Allora ci si ferma, come quando si sale sul trampolino più alto e si pensa che ci si tufferà e poi, nel momento in cui si arriva in cima e si percorre la pedana elastica e si guarda l'acqua turchese in basso, che sembra terribilmente lontana, si sa che non lo si farà, dopo tutto. Non ci si riuscirà. Perché è impossibile. Ma poi si salta. Quasi senza saperlo in anticipo, mentre nella mente ci si volta e si ritorna indietro al sicuro, si salta e si cade. Non più attesa. Non più terrore. Basta. E forse sarebbe stato meglio morire in ogni caso. Se dovevo morire, preferivo essere io a uccidermi. E feci quel che pensavo di non poter fare. Saltai. Caddi. Un dolore terribile intorno al collo. Lampi colorati dietro agli occhi. Un angolino vigile del cervello che rimaneva a osservare la scena e si diceva: allora questo è ciò che significa morire. Le ultime boccate d'aria, le pompate finali del cuore prima di cedere alla morte e alla non esistenza. Le luci svanirono, ma il dolore divenne più intenso e localizzato. Il collo. Una scorticatura sulla guancia. Una gamba che sembrava essersi piegata all'indietro. Il volto, il seno, la pancia erano così premuti a terra che per un momento mi sembrò di aver trascinato giù con me il muro e che mi fosse caduto addosso, schiacciandomi. Ma non ero morta. Ero viva. Poi fui trafitta da un pensiero, come da una stilettata. Non ero immobilizzata. Lui non c'era. Da quanto tempo se n'era andato? Dovevo pensarci. Pensare. Questa volta non avevo contato. Da un sacco di tempo. Avevo ancora i polsi legati dietro la schiena. Diedi uno strattone. Invano. Mi misi quasi a singhiozzare. Avevo fatto questo solo per finire in terra inerme? Giurai a me stessa che se non fossi riuscita a fare nient'altro, mi sarei uccisa sbattendo la testa contro il muro. Se non avevo altro potere, gli avrei
almeno negato quel piacere. Mi sentivo dolente ed esausta per la fame. E provavo una nuova paura. Quando mi ero abbandonata all'idea della morte, avevo trovato una sorta di pace. Era stata come una forma di anestetico. Ma ora avevo una possibilità. Questa consapevolezza riportò delle sensazioni ai miei arti. E provai di nuovo una terribile paura. Mi girai. Avevo la schiena appoggiata sulle braccia legate. Se fossi riuscita a farle passare al di là dei piedi, le avrei avute davanti. Era un esercizio di ginnastica e io non sono una gran ginnasta. Sollevai i piedi e li allungai oltre la testa, cercando di toccare terra. Ora la pressione non era più sui polsi. Feci un primo tentativo di far passare le mani in avanti. Non ci riuscii. Continuai a provare. Niente. Emisi un gemito. Poi parlai a me stessa. In silenzio. Mi dissi: molto presto, fra un minuto o tre ore o magari cinque, ritornerà e ti ucciderà. Non ci sarà assolutamente nessun'altra possibilità dopo questa. Sai che si può fare. Hai visto i bambini farlo per gioco. Probabilmente l'hai fatto anche tu da bambina. Ti taglieresti le mani, se ciò servisse a liberarti da questi nodi. Non devi fare una cosa del genere. Devi solo far passare le mani davanti. Se ciò significa slogarti le spalle, non importa. Sforzati. Preparati. Cinque, quattro, tre, due, uno. E spinsi con tutta la forza che avevo in corpo. Pensai che le braccia mi si staccassero dalle spalle, e continuai a spingere con più forza, ma le braccia rimanevano dietro le cosce. Se le caviglie non fossero state legate insieme, sarebbe stato più facile. Mi sembrava di essere un maiale pronto a ricevere un colpo in testa. Ci pensai di proposito mentre stringevo il più possibile le ginocchia al petto, e cercavo di far passare le mani intorno ai piedi. I muscoli della schiena, del collo, delle braccia e delle spalle urlavano, ma improvvisamente mi ritrovai le braccia davanti. Ansimavo e grondavo sudore. Mi misi a sedere e tolsi il cappuccio con le mani legate, pensando, mentre lo facevo, di trovarmi lui davanti che mi guardava. Tolsi il bavaglio dalla bocca e bevvi l'aria come se fosse stata acqua fresca. Era buio. Ma non completamente. C'era una luce molto debole. Mi guardai i polsi. Erano legati da una specie di fil di ferro. Non era annodato. Le due estremità erano attorcigliate insieme. Con i denti fu molto facile slegarle. Ci volle solo del tempo. Dieci orribili secondi per ogni giro e dopo poco le labbra cominciarono a sanguinarmi. Ma infine, con l'ultimo giro, fui libera. Mi sciolsi anche le caviglie in un paio di minuti. Mi alzai in piedi e caddi immediatamente, urlando di dolore. I piedi erano gonfi e mi sembrava stes-
sero per scoppiare. Sfregai e massaggiai le caviglie finché non riuscii a rialzarmi. Mi guardai intorno. Nelle vicinanze vidi i muri di mattoni, il pavimento di cemento sporco. C'erano degli scaffali rozzi, delle assi spezzate sul pavimento. Vidi la pedana su cui avevo passato i giorni precedenti. Poi ricordai. Mi sfilai il cappio dalla testa. Un capo era attaccato a un chiodo che, quando mi ero buttata giù, era uscito dal muro. Ero stata fortunata? Mi tastai il collo con la punta delle dita. Guardai nella direzione da cui l'uomo era sempre venuto. C'era una porta di legno chiusa, senza maniglia all'interno. Cercai di spingerla con le mani, ma non riuscii a far leva. Avevo bisogno di qualcosa, velocemente. Sull'altro lato della stanza c'era un vano scuro. Attraversai la stanza e ci guardai dentro. Non vidi nulla. L'idea di inoltrarmi in quell'oscurità mi sembrava orribile. L'unica via d'uscita di cui ero sicura era la porta chiusa di legno. Forse era l'unica via d'uscita in assoluto. Aveva senso allontanarsi da quella possibilità di scampo? Stavo ansimando, tremando e sudando. Il battito del cuore mi echeggiava nelle orecchie, ma cercai di farlo smettere e mi imposi di pensare. Che cosa potevo fare? Potevo nascondermi da qualche parte al buio. Lui avrebbe pensato che fossi scappata e sarebbe uscito di corsa, lasciando la porta aperta. Sembrava poco plausibile. Avrebbe probabilmente acceso la luce e mi avrebbe subito vista. Avrei potuto cercare un'arma. Poi mi sarei nascosta vicino alla porta e l'avrei colpito non appena fosse entrato. Era un piano allettante. Anche se fosse fallito, e sicuramente sarebbe fallito, avrei avuto la possibilità di fargli del male e ciò era quel che volevo più di qualsiasi cosa. Volevo strappargli la carne dalle ossa. No, la cosa migliore era cercare di uscire attraverso quella porta mentre lui non c'era. Non sapevo se la porta fosse veramente chiusa a chiave. Tastai il pavimento, tutt'intorno, in cerca di qualcosa da usare come leva per aprirla. Trovai dei pezzi di legno inutilizzabili e poi una piccola sbarra di metallo. Se fossi riuscita ad agganciarla alla porta, avrei potuto usarla per far leva. O se ci fosse stato un chiavistello dall'altra parte, forse sarei riuscita a infilare la sbarretta attraverso la fessura e a smuoverlo. Mi avvicinai alla porta e cercai con le mani la fessura. Stavo per infilarvi la sbarra quando udii un rumore. Trattenni il fiato e mi misi in ascolto. Non c'erano dubbi. Udii il rumore di una porta che si apriva, dei passi. Caddi quasi a terra in lacrime. L'idea di stare vicino alla porta e di mettermi a lottare con lui era sem-
plicemente stupida. Attraversai la stanza in punta di piedi e varcai il vano aperto sull'orribile buio. Se fosse stato una specie di stanzino chiuso, sarei rimasta intrappolata come un animale. Mi inoltrai di corsa in quello che sembrava un corridoio. C'erano delle uscite su entrambi i lati. Dovevo allontanarmi il più possibile. Prendere tempo. Sarebbe dovuto venire a cercarmi. Andai di corsa in fondo, dove c'era un muro con un'apertura su entrambi i lati. Guardai in quella di sinistra. Nient'altro che buio. In quella di destra. C'era qualcosa in verità. Una luce. Proveniente dal muro e che si proiettava sul pavimento. Una finestra o qualcosa del genere. Dietro di me, molto dietro di me nell'oscurità, udii un rumore, un urlo, una porta, dei passi, e da quel momento in avanti tutto fu come uno di quegli incubi in cui le cose accadono nell'ordine sbagliato, in cui si cerca di correre più velocemente possibile, ma la terra è molle, si è inseguiti ma non ci si riesce a muovere. Lasciai a qualche parte primitiva, istintiva, del cervello di prendere le decisioni e di salvarmi la vita. Afferrai qualcosa e udii rumore di vetro che andava in frantumi ed ebbi la vaga coscienza di passare attraverso un'apertura troppo piccola per me, da cui uscivo con il corpo che mi doleva come se mi fosse passato sopra un rastrello e avvertendo del bagnato. Da qualche parte ci fu un rumore di qualcosa che sbatteva. Era dietro di me. Le sue urla. Salii alcuni scalini. Sentii il vento. Aria. Capii di essere fuori. C'erano delle luci in distanza. Corsi verso di esse. Correndo come in un sogno. Correndo davanti a oggetti senza vederli. Correndo perché se mi fossi fermata sarei morta. I piedi, nelle calze, incespicavano sul terreno freddo. Sassi e oggetti contundenti li ferivano. Lui doveva essere veloce. Dovevo correre a caso in direzioni diverse. Non riuscivo a vedere bene. Tutti quei giorni sottoterra. Le luci mi ferivano gli occhi come il bagliore di un faro su un vetro ghiacciato. Udii il rumore dei miei passi, innaturalmente forte anche se non avevo scarpe. Dovevo continuare a correre. Non pensare al dolore; non pensare a niente. Correre. Da qualche parte dentro di me sapevo che dovevo trovare qualcosa che si muovesse. Una macchina. Una persona. Non dovevo finire in un luogo deserto. Gente. Arrivare dove c'era gente. Ma non riuscivo a correre e a pensare. Non dovevo fermarmi. Non dovevo. E poi, ecco, una luce da una finestra. Ero in una strada piena di case. Alcune erano sbarrate da assi. Più che assi. Da pesanti sbarre di metallo su porte e finestre. Ma c'era una luce. Ebbi un momento di grande lucidità. Avrei voluto correre alla porta e urla-
re e bussare, ma fui assalita dalla paura - tra tutte le altre - che se lo avessi fatto, la persona dentro avrebbe alzato il volume della televisione, lui sarebbe arrivato e mi avrebbe trovata e riportata indietro. Così premetti il campanello freneticamente e sentii uno scampanellio in distanza all'interno. Rispondete, rispondete, rispondete. Udii dei passi. Lenti, strascicati. Alla fine, dopo un milione di anni, la porta si aprì e io caddi in avanti e mi ritrovai sul pavimento, stremata. «Polizia. Per favore, polizia. Per favore.» E anche se ero là, riversa sul linoleum di uno sconosciuto, mi resi conto che sembrava ripetessi solamente «Per favore, per favore, per favore». Parte Seconda «Vuole che faccia una dichiarazione ufficiale?» «Più tardi» rispose. «Per il momento vorrei soltanto che parlassimo.» Dapprima non riuscii a vederlo bene. Era una sagoma contro la finestra della mia stanza d'ospedale. I miei occhi erano sensibili alla luce e non riuscivo a guardare in quella direzione. Quando si avvicinò al letto, ne distinsi i lineamenti, i capelli castani corti, gli occhi scuri. Era l'ispettore Jack Cross, la persona nelle cui mani avrei potuto lasciare l'intera faccenda. Ma prima gli dovevo spiegare tutto. E c'erano un sacco di cose da spiegare. «Ho già parlato con una persona. Una donna in divisa. Una certa Jackson.» «Jackman. Lo so. Ma volevo sentire anch'io. Qual è la prima cosa che si ricorda?» Fu così che raccontai la storia. Lui mi fece delle domande e io cercai di rispondere; un'ora più tardi, dopo che ebbi risposto a un'ennesima domanda, Cross rimase in silenzio e io sentii di aver detto tutto ciò che avevo da dire. Restò in silenzio per parecchi minuti. Non mi sorrise e non mi guardò nemmeno. Vidi passargli sul viso espressioni differenti. Confusione, frustrazione, perplessità. Si strofinò gli occhi. «Ancora due cose» disse infine. «Sulla memoria. Qual è l'ultima cosa che si ricorda? Di essere al lavoro? A casa?» «Mi dispiace. Sono confusa. Ho passato giorni a pensare e ripensare. Mi ricordo di essere stata al lavoro. Qualcosa dell'appartamento. Non ho un ultimo ricordo preciso.» «Così non ricorda di aver incontrato quell'uomo.» «No.»
Prese un piccolo taccuino e una penna da una tasca laterale. «E gli altri nomi.» «Kelly. Kath. Fran. Gail. Lauren.» Li scrisse mentre li dicevo. «Ricorda qualcosa di loro? Un cognome? Qualche indizio su dove le ha trovate, che cosa ha fatto loro?» «Le ho detto tutto.» Chiuse il taccuino con un sospiro e si alzò. «Aspetti» disse, e se ne andò. Mi ero già abituata ai ritmi della vita di ospedale, andamenti lenti intervallati da lunghe pause, così fui sorpresa quando appena cinque minuti dopo Cross ritornò con un uomo più anziano vestito con un impeccabile completo a righine. Un fazzoletto bianco gli sporgeva dal taschino. Prese la mia cartella clinica dal fondo del letto come se tutto fosse leggermente noioso. Non mi chiese come stavo. Ma mi guardò come se fossi qualcosa su cui avesse inciampato. «Il dottor Richard Burns» disse Cross. «È incaricato del suo caso. La trasferiremo. La metteremo in una camera per conto suo. Con un televisore.» Il dottor Burns rimise a posto la cartella clinica e si tolse gli occhiali. «Signorina Devereaux» disse. «Saremo piuttosto occupati con lei.» L'aria fredda mi colpì in viso, come se qualcuno mi avesse dato uno schiaffo. Respirai affannosamente e il fiato formò una nuvoletta nell'aria. La luce forte e fredda mi pungeva gli occhi. «Va bene» disse Jack Cross. «Può rimontare in macchina se vuole.» «È tutto okay.» Piegai la testa all'indietro e respirai profondamente. Il cielo era completamente blu, senza neanche una nuvola, e il sole era un disco sbiadito che non mandava calore. Il ghiaccio faceva brillare tutto. La vecchia e sporca Londra aveva un aspetto meraviglioso. Eravamo in una strada di case a schiera. Quasi tutte erano sbarrate da assi, alcune addirittura da stanghe di metallo su porte e finestre. I giardinetti davanti erano pieni di ortiche, rovi e spazzatura. «Era qui, vero?» «Al numero quarantadue» disse Cross, indicando l'altro lato della strada. «Qui è dove è approdata e dove ha spaventato quasi a morte Tony Russell. Almeno questo se lo ricorda?» «È tutto un po' confuso» risposi. «Ero in preda al panico. Pensavo che
lui fosse dietro di me. Correvo a caso per cercare di fargli perdere le mie tracce.» Guardai la casa. Sembrava poco meno abbandonata delle altre. Cross salì in macchina a prendere una giacca a vento. Io avevo addosso uno strano assortimento di vestiti altrui che mi erano stati trovati in ospedale. Cercavo di non pensare alle donne che li dovevano aver indossati in precedenza. Le maniere di Cross erano affabili e rilassate. Sembrava stessimo facendo una passeggiata verso il pub. «Speravo di riuscire a ripercorrere i suoi passi» disse. «Da quale direzione veniva?» Quello era facile. Indicai la strada dalla parte opposta da dove eravamo venuti. «È plausibile» commentò. «Andiamoci, allora.» Ci avviammo per la strada. «Quell'uomo...» dissi. «Il signore del numero quarantadue...» «Russell, Tony Russell.» «L'ha visto?» «Il vecchio Tony Russell non è un grande testimone. E poi ha chiuso la porta immediatamente e ha chiamato il 999.» Alla fine della strada mi aspettavo altre file di case a schiera, e invece ci trovammo di fronte l'angolo di un immenso complesso residenziale quasi del tutto abbandonato con finestre dai vetri rotti e porte sbarrate. C'erano due entrate ad arco immediatamente davanti a noi e altre più in fondo. «Che cos'è?» «Il complesso residenziale Browning» rispose Cross. «Ci vive nessuno?» «Lo devono demolire. Sono vent'anni che dicono che lo devono demolire.» «Perché?» «Perché è un cesso.» «È qui che deve avermi tenuta.» «Se lo ricorda?» «So di essere venuta da questa direzione.» Guardai in su e in giù disperatamente. «Sono passata di corsa sotto uno di quegli archi. Devo essere stata in questo posto.» «Lo crede?» «Direi di sì.» «Si ricorda da quale arco è passata?»
Attraversai la strada. Guardai con tanta intensità da provare dolore. «Sono molto simili. Era buio, correvo disperatamente. Mi dispiace molto. Avevo avuto un cappuccio sugli occhi per giorni. Stavo quasi avendo delle allucinazioni. Ero in uno stato pietoso.» Jack Cross fece un respiro profondo. Era palesemente deluso. «Forse riusciamo a restringere le possibilità.» Percorremmo la strada avanti e indietro, ed entrammo nei cortili interni attraverso le porte ad arco. Era un luogo orribile. Riuscivo più o meno a capire che cosa doveva avere in mente l'architetto quando l'aveva progettato. Doveva essere una specie di villaggio italiano, con piazze, spazi aperti dove la gente avrebbe potuto sedersi, camminare e chiacchierare. Numerosi piccoli passaggi per permettere alla gente di andare in ogni direzione. Ma non aveva funzionato. Cross mi fece notare come quei passaggi fossero dei nascondigli perfetti per tendere agguati, derubare e dileguarsi rapidamente. Mi mostrò dove era stato trovato un corpo in una specie di contenitore di metallo. Mi sentivo sempre più angosciata. Gli spazi, le gallerie e le terrazze sembravano tutti uguali. E alla luce del sole mi pareva un luogo totalmente sconosciuto. Cross fu paziente. Aspettava con le mani cacciate nelle tasche e il respiro che si arrotolava in aria. Cominciò a farmi domande sul tempo invece che sulla direzione. Mi ricordavo quanto ci avevo messo ad arrivare alla casa di Tony Russell? Cercai di pensarci, ma non riuscii a trovare una risposta sensata. Insistette. Cinque minuti? Non sapevo. Di più? Di meno? Non sapevo. Avevo fatto la strada tutta di corsa? Sì, naturalmente. Più velocemente che potevo? Sì, pensavo che fosse dietro di me. Avevo corso tanto forte da star male. Allora per quanto sarei stata capace di correre, al massimo delle mie possibilità? Non lo sapevo. Qualche minuto? Non potevo dirlo. Non era una situazione normale. Stavo correndo per salvarmi la vita. Gradualmente il giorno sembrò più freddo, più grigio. «Non sono d'aiuto, vero?» dissi. Cross sembrava distratto e quasi non mi udì. «Che cosa?» chiese. «Avrei voluto far meglio.» «Non c'è fretta.» Jack Cross quasi non parlò nel breve tragitto di ritorno in ospedale. Guardò fuori dal finestrino. Bisbigliò qualche frase di routine all'autista. «Farà delle ricerche nel complesso residenziale?» chiesi. «Non saprei da dove cominciare. Ci sono più di mille appartamenti ab-
bandonati.» «Ero sottoterra, penso. O in uno scantinato. O almeno al pianterreno.» «Signorina Devereaux, il complesso residenziale Browning ha una superficie di circa sessantacinque ettari. O di più. Non ho uomini a sufficienza.» Mi riaccompagnò alla nuova stanza speciale. Ed era effettivamente una cosa speciale avere una camera tutta per me. Si fermò sulla porta. «Mi dispiace» gli dissi. «Pensavo che sarebbe andata meglio.» «Non si preoccupi» rispose con un sorriso che svanì rapidamente. «Dipendiamo da lei. Lei è tutto ciò che abbiamo. Se c'è qualcos'altro...» «Ci sono le altre donne: Kelly, Kath, Fran, Gail e Lauren. Non può fare delle ricerche?» Improvvisamente Cross apparve stanco di tutto ciò. «Ci ho messo un uomo. Ma deve sapere che non è così semplice come immagina.» «Che cosa vuol dire?» «Come pensa che si possano trovare quelle donne? Non abbiamo i cognomi, un luogo, una data, nemmeno approssimativa. Non abbiamo nulla. Solo un gruppo di nomi comuni.» «Allora che cosa può fare?» Si strinse nelle spalle. Un'infermiera mi portò un telefono in camera su un carrello e mi diede una manciata di spiccioli. Aspettai che uscisse e poi ci infilai dentro una moneta da venti pence. «Mamma?» «Abigail, sei tu?» «Sì.» «Tutto bene?» «Mamma, volevo dirti...» «Ho passato dei giorni terribili.» «Mamma, avevo bisogno di parlarti, di raccontarti una cosa.» «Sono i dolori allo stomaco. Non mi fanno dormire.» Feci una pausa un momento. Un profondo respiro. «Mi dispiace» dissi. «Sei stata dal dottore?» «Ci vado in continuazione. Mi ha dato delle pastiglie, ma non mi prende sul serio. Non riesco a dormire.» «È orribile.» La mano mi si strinse intorno al telefono. «Non potresti ve-
nire a Londra per un giorno?» «A Londra?» «Sì.» «Non in questo momento, Abigail. Non quando mi sento così. Non posso andare da nessuna parte.» «Ci vuole meno di un'ora con il treno.» «E nemmeno tuo padre sta molto bene.» «Che cos'ha che non va?» «Il solito. Ma perché non vieni tu a trovarci? Sono secoli che non lo fai.» «Sì.» «Avvertici, però.» «Sì.» «Devo andare. Sto facendo una torta.» «Sì. D'accordo.» «Chiamaci presto.» «Sì.» «Allora ciao.» «Ciao» dissi. «Ciao, mamma.» Fui svegliata da una grossa macchina che veniva spinta attraverso la porta. Era una macchina mostruosa per pulire i pavimenti con un congegno circolare che girava e dei beccucci che facevano uscire acqua saponosa. Sarebbe stato molto meglio usare un secchio e uno straccio, soprattutto nello spazio angusto della mia camera. La macchina non riusciva a raggiungere gli angoli né ad andare sotto il letto e non amava neanche molto i tavoli, così l'uomo che le stava dietro la spinse nei pochi punti senza mobili. Fu seguito da un altro tipo. Quest'ultimo non sembrava un uomo delle pulizie né un infermiere, e neanche un dottore, poiché aveva scarpe nere, calzoni marroni cascanti, una giacca blu scuro che sembrava fatta di tela di sacco e una camicia a quadretti aperta sul collo. Era coperto di peli grigi e ispidi. Aveva una pila di cartelline sotto il braccio. Cercò di dire qualcosa. Vedevo che muoveva la bocca. Ma il rumore della lavapavimenti mi impediva di sentire, così si ritirò piuttosto goffamente accanto al muro e vi rimase finché la macchina non gli passò davanti e proseguì oltre, lungo il reparto. Le lanciò dietro uno sguardo dubbioso. «Un giorno o l'altro qualcuno darà una controllata a quelle macchine e scoprirà che non servono a nulla» sentenziò. «Chi è lei?»
«Mulligan» rispose. «Charles Mulligan. Sono venuto a scambiare due parole con lei.» Mi alzai dal letto. «Ha un documento di identificazione?» «Che cosa?» Gli passai davanti e chiamai ad alta voce un'infermiera. Sembrava riluttante, ma capì che facevo sul serio. Le dissi che uno sconosciuto era entrato nella mia stanza. Ci fu una breve discussione e poi lei lo fece uscire e andò a fare una telefonata. Ritornai a letto. Qualche minuto dopo la porta della camera si aprì e l'uomo fu ricondotto dentro da un'infermiera dall'aria più autorevole. «Questo signore ha il permesso di vederla» disse. «Rimarrà con lei molto brevemente.» Se ne andò lanciando un'occhiata sospettosa a Charles Mulligan. Mulligan tirò fuori dalla tasca della giacca un paio di occhiali cerchiati di corno e se li infilò. «È stata una mossa sensata» disse. «Molto noiosa ma probabilmente sensata. Quel che stavo cercando di dirle era che Dick Burns mi ha telefonato e mi ha chiesto di scambiare due parole con lei.» «È un medico?» Posò le cartelline sul tavolo e portò una sedia verso il letto. «Le spiace se mi siedo?» «Prego.» «Sono un medico. Cioè, ho la qualifica di medico, ma non passo molto tempo in ospedale.» «È psichiatra? O psicologo?» Fece una risatina nervosa, spezzettata, ha-ha. «No, no, no. Sono neurologo, più o meno. Studio il cervello come se fosse un oggetto. Lavoro con i computer e seziono il cervello dei topi, cose del genere. Parlo anche con le persone, naturalmente. Quando è necessario.» «Mi scusi» dissi «ma che cosa ci fa qui?» «Gliel'ho detto. Dick mi ha telefonato. Un caso affascinante.» Un'improvvisa espressione di allarme gli apparve in viso. «So che è stato anche orribile. Mi dispiace moltissimo. Ma Dick mi ha chiesto di venire a darle un'occhiata. Non le spiace?» «Per quale ragione?» Si fregò il viso con le mani e prese un'aria quasi eccessivamente comprensiva. «Dick mi ha raccontato qualcosa di quel che ha passato. È orribi-
le. Sono sicuro che qualcuno verrà a parlarle. Del trauma, intendo, e cose del genere.» La frase si perse nel nulla e lui sembrò a disagio. Si passò le mani nei capelli ricciuti. Non servì molto a metterli in ordine. «Senta, Abigail, la posso chiamare così?» Annuii. «E mi chiami Charlie. Vorrei parlarle dell'amnesia. Pensa di sentirsela?» Annuii di nuovo. «Bene.» Accennò a un sorriso. Era entrato in argomento e il suo modo di parlare, il suo intero atteggiamento, si fece più sicuro. Ciò mi piacque. «Bene, questa sarà l'unica volta in cui mi comporterò da dottore, ma vorrei dare un'occhiata alla sua testa. Non le spiace?» Altro assenso da parte mia. «Ho guardato la sua cartella. Abrasioni in tutto il corpo, ma nessun particolare riferimento al capo, a contusioni in testa, o cose del genere. Vero?» «Il mio primo ricordo dopo il periodo di amnesia, se capisce quel che voglio dire, è di essermi svegliata con un terribile mal di testa.» «Giusto. Non le spiace se prendo degli appunti?» Tirò fuori di tasca un taccuino logoro e cominciò a scrivere. Poi lo posò sul letto e si protese in avanti. «Più tardi la metteranno in una macchina per un rapido controllo del cervello. Ma questo è un test di tipo diverso. Non le spiace?» Mentre diceva così, si protese in avanti e mi tastò delicatamente il viso e tutta la testa. Adoro che mi si tocchi la testa. È il mio vizio segreto. La cosa che mi piace di più quando vado dal parrucchiere, è farmi lavare i capelli da una persona che non conosco, sentire le sue dita sul cuoio capelluto. Mi piace anche quando è Terry a toccarmi. A volte ci sediamo insieme nel bagno e lui mi lava i capelli. Le relazioni sono fatte anche per questo, per piccole cose del genere. Charles Mulligan emetteva un lieve mormorio mentre mi picchiettava con le dita in testa. Quando mi toccò sopra l'orecchio destro emisi un piccolo urlo. «Le ho fatto male?» «Più che altro sento un indolenzimento.» Guardò più attentamente. «C'è qualche problema?» «C'è un punto gonfio e livido, ma non vedo nulla di grave.» Si rimise a sedere. «Ecco, tutto fatto.» Si allungò a prendere una cartellina. Dovette rovistare un po' per trovare quella giusta. «Ora le farò delle domande. Le sembreranno un po' sciocche, ma abbia pazienza. Ci vorrà un po' di tempo. Se la sente? Potrei ritornare più tardi, o domani, se vuole riposare. So che ha avuto una giornata pesante.» Scossi il capo. «Voglio solo fare tutto quel che posso il più velocemente possibile.» «Benone.» Aprì un grosso libro. «Pronta?» «Sì.»
«Come si chiama?» «Fa parte del test?» «È una specie di domanda filosofica. Abbia pazienza.» «Abigail Elizabeth Devereaux.» «Quando è nata?» «Il 21 agosto 1976.» «Come si chiama il primo ministro?» «Sta dicendo sul serio? Non sono così grave.» «Sto esaminando vari tipi di memoria. Diventerà più difficile.» Così gli dissi il nome del primo ministro. Gli dissi che giorno della settimana era e che eravamo al St. Anthony Hospital. Contai all'indietro da venti a zero. Contai in avanti per tre. Indietro per sette da cento. Ero piuttosto fiera di me. Poi cominciò a diventare difficile. Mi mostrò una pagina di forme differenti. Chiacchierò con me per un momento di cose stupide e poi mi mostrò un'altra pagina. Dovevo ricordare quali forme erano in entrambe le pagine. Fu un po' imbarazzato nel leggermi una storia di un ragazzo che portava un maiale al mercato. Dovevo ripetergliela. Mi mostrò stelle e triangoli accoppiati a colori, coppie di parole. Mi mostrò quattro forme gradatamente più complicate. La quarta sembrava un traliccio dell'elettricità distrutto da vandali. Mi dava le vertigini anche solo a guardarla, per non parlare di disegnarla a memoria. «Mi sta venendo un terribile mal di testa» dissi, mentre mi ci stavo applicando con fatica. «Sta bene?» mi chiese preoccupato. «Mi gira la testa.» «So che cosa vuol dire. Io mi blocco già quando devo contare all'indietro. Non si preoccupi, solo un altro paio di cosette.» Cominciò a recitare delle sequenze di numeri. I gruppi di tre e quattro erano una stupidaggine. Si fermò a otto, che ero in grado di ricordare a stento. Poi dovetti recitare le sequenze a ritroso, cosa che mi fece veramente dolere il cervello. Dopo di ciò portò un foglio con dei quadrati colorati. Me li indicò in un certo ordine che dovevo ripetere. Di nuovo fino a otto. E poi all'indietro. «Cavolo» esclamai, quando mise via il foglio. «Ecco» fece lui. «Questo è tutto. Abbiamo finito.» «Allora, sono stata promossa? Sono cerebrolesa?» Sorrise allegramente. «Non so. Non ho test precedenti all'amnesia, ma non credo che potessero essere molto meglio di così. Ha una memoria no-
tevole. La memoria spaziale in particolare è eccellente. La cambierei volentieri con la mia.» Non potei fare a meno di arrossire. «Be', grazie, Charlie, ma...» Assunse un'aria seria per un momento e mi scrutò da vicino. «Che cosa pensa?» mi chiese. «Sto bene. Voglio dire, non sto bene. Faccio brutti sogni e continuo a rimuginare. Ma riesco a pensare con lucidità. È solo quel vuoto di memoria. Continuo a cercare di ricordare, ma è come fissare un buco nero come la pece.» Cominciò a rimettere i fogli nelle cartelline. «Cerchi di esaminare le zone di confine» suggerì. «Immagini un'area scura, immagini che ci sia un'area completamente scura e una interamente illuminata. Potrebbe concentrarsi sul punto dove le due si incontrano.» «L'ho fatto, Charlie. Mio Dio, se l'ho fatto. Non ho problemi con il dopo. Mi sono svegliata e mi sono trovata là, in quel posto. Senza sapere come c'ero arrivata, com'ero stata rapita. Per il prima è diverso. Non riesco a ricordare l'ultima cosa che ho fatto né nulla del genere. Non c'è un punto preciso di rottura. Ho solo dei vaghi ricordi recenti di essere al lavoro. È come se fossi entrata nell'area oscura lentamente, senza accorgermene.» «Capisco» disse Charles, e scrisse qualcos'altro. Mi innervosivo quando lo faceva. «Ma non è ridicolo? Quel che ho bisogno di ricordare è svanito. Non voglio sapere chi sia il dannato primo ministro. Voglio ricordare come sono stata rapita, com'è lui. Non potrebbe essere successo qualcosa di così brutto da indurmi a rimuovere tutto?» Chiuse la penna con un click. Quando rispose, sembrava quasi trattenere un sorrisetto. «E magari potrei farle dondolare l'orologio davanti e tutto le riaffiorerebbe alla mente?» «Sarebbe molto utile.» «Forse. Ma sono sicuro che la sua amnesia non sia collegata a una forma di stress postraumatico. O a sintomi di natura psicologica.» «Quando parlo a Cross, voglio dire alla polizia, mi sento così ridicola.» «È una situazione spiacevole e frustrante. Ma non è ridicola. L'amnesia postraumatica dopo una ferita alla testa come la sua non è insolita. Capita di solito negli incidenti automobilistici. Si batte la testa e quando ci si sveglia, dopo l'incidente, non solo non ci si ricorda di come sia avvenuto, ma neanche delle ore e dei giorni precedenti.» Mi toccai il capo dolcemente. Improvvisamente mi sembrò molto fragi-
le. «Postraumatico» dissi. «Pensavo avesse detto che non era un sintomo psicologico.» «Non lo è. L'amnesia psicogenica, voglio dire l'amnesia causata da fenomeni psicologici, piuttosto che da una ferita alla testa, è più rara nei casi come il suo. E anche, come dire, più dubbia.» «Cosa intende?» Fece un cauto colpetto di tosse. «Non sono uno psicologo, così forse sono prevenuto. Ma, per esempio, una grossa percentuale di assassini sostiene di non ricordare di aver commesso l'omicidio. Queste non sono persone che hanno subito delle ferite fisiche. Ci possono essere diverse spiegazioni. Sono spesso ubriachi, cosa che provoca dei vuoti di memoria. Commettere un omicidio è, presumibilmente, un'azione molto stressante, più di qualsiasi altra che si possa immaginare. Ciò potrebbe influire sulla memoria. Alcuni di noi, più scettici, potrebbero anche dire che spesso un omicida ha un tornaconto a sostenere di non ricordare quel che è successo.» «Ma essere rapiti e minacciati di morte deve essere maledettamente stressante. Non potrebbe essere questa la ragione psicologica del mio vuoto di memoria?» «Secondo me no, ma se fossi in un'aula di tribunale e lei fosse un avvocato, potrebbe farmi ammettere che è possibile. Temo che ci saranno varie altre persone che la punzecchieranno come una cavia perché risponda a domande di questo genere.» Si alzò, raccolse le cartelline e se le mise sotto il braccio con qualche difficoltà. «Abigail» disse. «Abbie.» «Abbie. Lei è un caso affascinante. Non penso che resisterò alla tentazione di ritornare.» «Va bene. A quanto pare ho un sacco di tempo a disposizione. Ma ho una domanda: c'è la possibilità che mi ritorni la memoria?» Rimase un momento in silenzio e assunse un'espressione strana, che probabilmente indicava un'attenta riflessione. «Sì, è possibile.» «Potrei essere ipnotizzata?» Improvvisamente sembrò scioccato e si frugò in tasca, un'operazione particolarmente difficile con le cartelline sotto il braccio. Estrasse un biglietto da visita e me lo diede. «Ci sono diversi numeri sopra. Se qualcuno viene qua e comincia a farle dondolare davanti delle cose o a parlarle con tono suadente, mi chiami immediatamente.»
Con ciò se ne andò e io rimasi a letto con la testa dolorante e vulnerabile. La mia testa con un buco nero. «Ha parlato con il suo ragazzo?» Riuscii solo a mormorare qualcosa. Non ero completamente sveglia e Cross si chinò su di me preoccupato. «Devo chiamare qualcuno?» chiese. «No. E, no, non gli ho parlato.» «Abbiamo qualche difficoltà a rintracciarlo al momento.» «Anch'io. Gli ho lasciato tre messaggi sulla segreteria telefonica. Sarà per via del suo lavoro.» «Va via spesso?» «È un consulente di sistemi informatici, che non so bene cosa significhi. È sempre in giro per il Belgio o l'Australia o qualche altro posto a seguire dei progetti.» «Ma non si ricorda l'ultima volta che l'ha visto?» «No.» «Vuole parlare con i suoi genitori?» «No!» Ci fu un momento di silenzio. Stavo andando molto male. Cercai di pensare a qualcosa da dire a Cross. «Le servirebbe dare un'occhiata al nostro appartamento? Ci ritornerò tra un giorno o due, credo, ma ci potrebbe essere qualcosa. Forse sono stata rapita là. Potrei aver lasciato un messaggio.» L'espressione assente di Cross non si modificò quasi. «Ha una chiave che mi può dare?» «Come sa, non ho nulla se non i vestiti con cui sono fuggita. Ma nel giardinetto di fronte, a sinistra della porta d'ingresso, ci sono due cose che sembrano dei comuni sassi. In realtà sono di quegli aggeggi folli che si ordinano per posta e uno è cavo. Dentro c'è una chiave di riserva. Può usare quella.» «Ha delle allergie, signorina Devereaux?» «Non mi pare. Mi è venuta l'orticaria una volta, dopo aver mangiato non so quale mollusco.» «Soffre di epilessia?» «No.» «È incinta?»
Scossi il capo così violentemente che mi fece male. «Non si spaventi, ma siamo obbligati per legge a dirle che la TAC può avere degli effetti collaterali, anche se le probabilità sono molto scarse, praticamente inesistenti. Potrebbe firmare questo modulo di consenso? Qui e qui.» Improvvisamente l'infermiera assunse l'aria di una hostess. Mi fece pensare a quelle dimostrazioni con i giubbotti salvagente. Nell'improbabile caso in cui si debba atterrare in mare. «Non so neanche che cosa sia una TAC» dissi mentre firmavo. «Non si preoccupi. Il tecnico le spiegherà tutto tra un minuto.» Fui condotta in una stanza ampia, violentemente illuminata. Vidi la barella high-tech in cui avrei dovuto stare, imbottita e concava nel mezzo, e, dietro di essa, un tunnel bianco che conduceva al cuore della macchina. Sembrava un vaso da toilette voltato sul fianco. «Signorina Devereaux, sono Jan Carlton. Perché non si siede un momento?» Una donna alta e sottile con un camice mi indicò una sedia. «Sa che cos'è la TAC?» «È una di quelle sigle che si sentono nominare» dissi cautamente. «Vogliamo che sia preparata. C'è qualcosa in particolare che vuol sapere?» «Tutto, a dir la verità.» «Si tratta veramente solo di una radiografia amplificata da un computer, che si trova in un'altra stanza. Pensi al suo corpo come a un gigantesco filone di pane.» «Un filone di pane?» «Già. La TAC esamina un'area specifica del suo corpo in sezione e poi mette le sezioni insieme in un'immagine tridimensionale.» «Ah, voleva dire un filone di pane a fette?» «È solo un paragone.» «Pensavo che la TAC fosse per il cancro.» «Lo è, tra l'altro. È semplicemente un modo di osservare l'interno del corpo. È un'indagine standard per le ferite, i forti mal di testa, i traumi.» «Che cosa devo fare?» «La metteremo sul tavolo e la faremo scivolare in quella specie di tubo bianco. Sentirà un ronzio e probabilmente vedrà il tunnel roteare. Non durerà a lungo. Lei deve soltanto rimanere immobile.» Dovetti mettermi un camice d'ospedale. Mi sdraiai sul tavolo e fissai il soffitto.
«Le sembrerà un po' freddo.» Mi sfregò del gel sulle tempie, imbrattandomi i capelli che mi ero appena lavati. Mi fece scivolare un casco duro di metallo sotto la testa. «Stringerò queste viti. Potrebbe essere leggermente spiacevole.» Mi allacciò delle cinghie sulle spalle, le braccia e l'addome, e le strinse. «Il tavolo sta per cominciare a muoversi.» «Tavolo?» dissi debolmente, mentre mi allontanavo lentamente da lei e venivo introdotta nel tunnel. Ero dentro una camera di metallo e, sì, sentivo il ronzio. Deglutii con forza. Non era proprio scuro là dentro. Vedevo delle linee girare sopra di me. Di fuori, a pochi metri di distanza, c'era un locale ben illuminato con una donna competente che avrebbe provveduto a che tutto procedesse a dovere. Oltre quel locale c'era un'altra stanza con un computer che mostrava immagini del mio cervello. Di sopra c'erano reparti, pazienti, infermieri, dottori, donne delle pulizie, portieri, visitatori, gente che portava cartelle cliniche e che spingeva carrelli. Fuori c'era un vento proveniente da est e sarebbe potuto nevicare. E io ero là, in un tubo di metallo ronzante. Pensai che qualcuno, dopo aver passato quel che avevo passato io, avrebbe trovato difficile essere incapsulato in quel modo. Chiusi gli occhi. Potevo creare le mie immagini. Potevo pensare al cielo blu che avevo visto la mattina; il blu elettrico che si stendeva splendente da orizzonte a orizzonte. Potevo immaginare la neve che cadeva dolcemente dal cielo cupo, basso e si posava sulle case, sulle macchine, sugli alberi spogli. Ma nell'oscurità il ronzio sembrò cambiare. Si trasformò in una specie di sibilo. E udii dei passi. Passi che venivano verso di me. Passi nell'oscurità. Aprii la bocca per gridare, ma non riuscii a emettere alcun suono, se non un gemito strozzato. Che cosa stava succedendo? Ci provai di nuovo, ma era come se avessi qualcosa che mi bloccava la bocca. Non riuscivo a respirare bene. Non riuscivo a prendere aria con la bocca; stavo boccheggiando, ma non succedeva nulla. Stavo soffocando. Il petto mi doleva. Non riuscivo a prendere fiato come si deve. Ansimavo freneticamente senza provare sollievo. I passi si avvicinarono. Ero intrappolata e stavo annegando. Annegando nell'aria. Sentivo crescere in testa una specie di rimbombo; aprii gli occhi ed era ancora buio; li chiusi di nuovo e vidi rosso dietro le palpebre. Gli occhi mi bruciavano nelle orbite. Poi il rimbombo divenne lacerante, come se la testa mi fosse scoppiata per lasciar uscire tutto l'orrore. Riuscii a urlare alla fine. Il tubo si riempì delle mie urla. Le orecchie mi
pulsavano e la gola mi bruciava, ma non riuscivo a fermarmi. Cercai di trasformare le urla in parole. Cercai di dire «Aiuto!» oppure «Per favore»; qualsiasi cosa, ma i suoni si affastellavano e ingarbugliavano tutti insieme. Mi sembrava che ogni cosa si scuotesse; poi vidi delle luci forti e sentii delle mani che mi toccavano. Mani che mi tenevano giù, che mi impedivano di andare. Urlai di nuovo. Gemetti. Non riuscivo a fermare le urla che mi scaturivano dal petto. Non riuscivo a vedere nonostante la luce. Mi sentivo pungere dappertutto. Mi sentivo schiacciata da un peso. Udii altri rumori, delle voci da qualche parte, qualcuno che mi chiamava per nome. Occhi che affioravano dalla luce accecante e mi guardavano; e io non avevo possibilità di nascondermi perché non mi potevo muovere. Dita che mi toccavano. Metallo freddo sulla pelle. Sul braccio. Qualcosa di bagnato. Qualcosa di affilato. Qualcosa che mi bucava la pelle. Poi improvvisamente fu tutto tranquillo e fu come se la luce accecante e i rumori terribili si allontanassero da me pian piano. Tutto svaniva e diventava grigio e si allontanava, come se sopraggiungesse la notte, anche se desideravo che fosse giorno. Desideravo che nevicasse. Quando mi svegliai, non sapevo se fosse passato un giorno o ne fossero passati tanti. Il mondo era in bianco e nero, ma sapevo che non era il mondo. Ero io. Mi sembrava di avere un filtro grigio sugli occhi, che sbiadiva i colori. Avevo la lingua secca e come coperta di lanugine. Mi sentivo agitata e irritabile. Avevo voglia di graffiarmi o graffiare qualcuno. Avevo voglia di alzarmi e fare qualcosa, ma non sapevo che cosa. La colazione sapeva di cartone e carta assorbente. Ogni rumore mi faceva sobbalzare. Rimasi a letto a rimuginare cupi pensieri e poi a fare dei piani, che comportavano cose come alzarsi e andare a cercare qualcuno, una persona qualsiasi che avesse qualche autorità, per dirgli che era ora che mi rimandassero a casa, e poi trovare Cross e dirgli di decidersi a fare sul serio con le indagini, e a un certo punto, nel mezzo di tutto ciò, entrò una donna. Senza la divisa da infermiera o il camice bianco. Doveva avere circa cinquant'anni. Capelli rossi, carnagione chiara e lentigginosa, occhiali senza montatura. Indossava un maglione color miele e dei pantaloni grigi lucidi. Mi sorrise. «Sono la dottoressa Beddoes» esordì. Fece una pausa. «Irene Beddoes. L'ho vista ieri pomeriggio. Si ricorda della nostra conversazione?» «No.» «Usciva ed entrava dal sonno. Non capivo quanto fosse presente.»
Avevo dormito e tuttavia mi sentivo stanca. Stanca e grigia. «Sono stata visitata da un neurologo» dissi. «Mi ha fatto dei test sulla memoria. Sono stata messa in una macchina. Sono stata esaminata per vedere se avevo subito dei traumi fisici e sono stata un po' rappezzata. Per quale motivo è qui?» Il suo sorriso preoccupato vacillò un momento. «Abbiamo pensato che volesse parlare con qualcuno.» «Ho parlato con la polizia.» «Lo so.» «È una psichiatra?» «Tra le altre cose.» Indicò la sedia. «Le dispiace se mi siedo?» «No, naturalmente no.» La avvicinò al letto e si sedette. Aveva un odore piacevole, sottilmente fragrante. Mi fece pensare a fiori di primavera. «Ho parlato con Jack Cross» disse. «Mi ha raccontato la sua storia. So che ha avuto un'esperienza spaventosa.» «Sono contenta di essere riuscita a fuggire. Non voglio che mi veda come una specie di vittima. Penso di stare abbastanza bene. Per vari giorni sono stata come morta. Potrebbe sembrare stupido, ma era vero. Ero sulla Terra, respiravo e mangiavo, ma sapevo di essere morta. Non esistevo nello stesso mondo in cui esistevano gli altri. Com'è che si chiama? La terra dei viventi, la vita accanto. Il luogo in cui la gente si preoccupa dei soldi, del sesso, dei conti da pagare. Grazie più che altro a un colpo di fortuna, sono riuscita a scappare e sono di nuovo viva e penso che ogni giorno sia un giorno che non credevo più mi sarebbe stato concesso.» «Già» disse la dottoressa Beddoes, ma ancora con l'aria preoccupata per me. «L'altra cosa è che non sono malata. So di essere stata un po' malmenata. So di avere un problema di memoria perché ho ricevuto un colpo in testa. Ma nel complesso mi sento bene. Forse un po' irreale. E non immaginavo che sarebbe stato così.» «Che cosa non immaginava che sarebbe stato così?» «Essere libera. Sono relegata in un letto con addosso una camicia da notte vecchia e logora che non è mia e c'è gente che mi porta del cibo orribile su un carrello e che viene a sedersi accanto al mio letto e a osservarmi con espressione ansiosa e a parlarmi con voce dolce come se volesse convincermi a non gettarmi da una finestra. Quel che voglio davvero è ritornare a casa e riprendere la mia vita. Vedere i miei amici. Andare di nuovo al pub,
al caffè, a passeggio per le strade normali con i miei vestiti, a ballare; stare a letto la domenica mattina con il sole che entra dalle finestre, mangiare quello che voglio quando voglio, andare a fare una passeggiata di notte lungo il fiume... Ma lui è là fuori, nel mondo in cui voglio abitare. Se vuole saperlo, questo è ciò che veramente non mi esce di mente, l'idea che lui sia ancora in giro.» Ci fu silenzio e io provai un po' di imbarazzo per lo sfogo. Ma la dottoressa Beddoes non sembrava troppo sorpresa. «Il suo appartamento» disse. «Dov'è?» «Non è proprio mio. In verità appartiene al mio... alla persona con cui vivo. Terry.» «È venuto a trovarla?» «Non è a Londra. Ho cercato di chiamarlo ma dovrebbe essere da qualche parte per lavoro. Viaggia molto.» «Ha visto qualcun altro? Persone di famiglia o amici?» «No. Ho solo voglia di andarmene da qui e poi li chiamerò.» Mi guardò e sentii il bisogno di spiegarmi. «Probabilmente sto cercando di rimandare il racconto della mia storia» ammisi. «Non so da dove cominciare. Non so come raccontarla perché non è ancora finita. Voglio che abbia una fine vera e propria prima di cominciare a raccontarla, se capisce quel che intendo dire.» «Vuole che lui sia preso prima?» «Sì.» «Ma forse, nel frattempo, potrebbe parlare con me.» «Forse» risposi cautamente. «Quello che veramente voglio fare, però, la cosa di cui so di aver bisogno, è uscire di qui. In questo ospedale mi sento a metà strada tra l'essere in prigione ed essere libera. Mi sento in un limbo.» La dottoressa Beddoes mi contemplò per un momento. «Le è successa una cosa terribile, Abbie. Si stanno occupando di lei specialisti di almeno cinque branche diverse all'ospedale, per non parlare della polizia. È piuttosto complicato organizzare le cose in modo che tutti riescano a comunicare. Ma per quel che so, sono tutti d'accordo sul fatto che lei rimanga qui ancora un paio di giorni. Innanzitutto so che i neurologi vogliono tenerla sotto osservazione per un certo periodo, per precauzione. E la polizia ovviamente è molto preoccupata. L'uomo che lei ha incontrato deve essere eccezionalmente pericoloso e preferiscono che lei rimanga in un ambiente più sicuro mentre prendono alcune decisioni.»
«Pensano che possa essere in pericolo?» «Non posso parlare per loro, ma credo che sia molto difficile valutarlo. Questo è parte del problema. Quel che voglio dire è che vorrei approfittare dei prossimi due o tre giorni per parlare con lei. Ovviamente sta a lei decidere, ma penso di poterle essere utile. E non solo. È possibile che parlando emergano dei dettagli che potrebbero essere utili alla polizia, ma questo non è lo scopo principale. Lei dice di voler solo ritornare alla vita normale.» Ci fu una pausa improvvisa e lunga che trovai sconcertante. «Sto pensando a come dirle questo. Potrebbe trovare che ritornare alla vita di prima non è facile come pensa. Potrebbe portarsi dietro degli strascichi da un'esperienza del genere.» «Pensa che sia stata contaminata?» «Contaminata?» Per un momento sembrò stesse annusando la contaminazione, o cercando di scovarla annusando. «No. Ma lei aveva una vita normale, poi improvvisamente ne è stata privata per essere scaraventata in un incubo. Ora deve ritornare alla normalità. Deve decidere che cosa fare con ciò che le è accaduto. Tutti noi dobbiamo trovare dei modi di dare un senso alle cose che ci succedono. Penso che se parlassimo, potrei aiutarla a far questo.» Distolsi gli occhi da lei e vidi di nuovo il grigiore del mondo. Quando parlai, fu più a me stessa che a lei. «Non so come si possa dare un senso al fatto che c'è una persona che vuole rapirci e ucciderci. Questa è la prima cosa. La seconda è che la mia vita non era poi così tranquilla prima che ciò accadesse. Ma ci proverò.» «Ci incontreremo per una chiacchierata» disse. «E non dovrà star sdraiata su un lettino. Potremo parlare in un ambiente più piacevole, se vuole.» «Benissimo.» «Potrei anche trovare un posto in cui servano del caffè decente.» «Questa sarebbe la terapia migliore.» Sorrise, si alzò, mi diede la mano e se ne andò. Quando era arrivata, avrei voluto voltarle la schiena e chiudere gli occhi. Ora che se ne era andata, fui stupita di sentire la sua mancanza. «Sadie?» «Abbie!» La sua voce era calda e chiara, e mi diede un senso di sollievo. «Da dove chiami? Sei ancora in vacanza?» «Vacanza? No. No, sono in ospedale, Sadie.» «Mio Dio! Che cosa ti è successo?»
«Puoi venire a trovarmi? Non posso parlartene per telefono.» «Come faccio a sapere che non mi ha violentata?» Jack Cross era seduto sulla sedia accanto al letto e stava giocherellando con lo stretto nodo della cravatta. Annuì alla domanda, poi disse: «Non possiamo esserne sicuri, ma non sembra». «Come fa a saperlo?» «Quando è stata ricoverata, è stata visitata, eccetera, eccetera.» «E?» «E non c'erano tracce di violenza sessuale.» «È già qualcosa, almeno.» Mi sentivo stranamente assente. «Allora che cos'altro è successo?» «Ci stiamo facendo un'idea» disse in modo prudente. «Ma...» «Una delle persone a cui vogliamo parlare è ovviamente il suo ragazzo, Terence Wilmott.» «E?» «Come descriverebbe la vostra relazione?» «Perché diavolo dovrei parlarne? Che cosa c'entra Terry con tutto questo?» «Come le ho detto, stiamo cercando di farci un'idea.» «Be', stiamo bene insieme» dissi sulla difensiva. «Abbiamo i nostri alti e bassi, naturalmente.» «Che sorta di bassi?» «Non è stato Terry, se è a questo che sta pensando.» «Che cosa?» «Non è stato Terry. So che quell'uomo ha contraffatto la voce e che non l'ho mai visto, ma non era Terry. Conosco Terry come le mie tasche. Conosco il suo odore. Vedrà che ritornerà presto e gli potrà parlare.» «Non è all'estero.» «Davvero?» Lo guardai. «Perché lo dice?» «Perché il suo passaporto è ancora nell'appartamento.» «Sì? Be', sarà in Inghilterra, allora.» «Già. Da qualche parte.» Mi guardai allo specchio e vidi un'altra. Non ero più io. Ero una donna magra con i capelli arruffati e il volto segnato. La pelle grigiastra e gessosa. Ossa sporgenti. Occhi vitrei, spaventati. Sembravo una morta.
Incontrai la dottoressa Beddoes in un cortile dell'ospedale perché, anche se faceva molto freddo, avevo un forte desiderio di stare all'aperto. Le infermiere mi avevano trovato un gigantesco cappotto imbottito color rosso fragola. Il cortile era stato palesemente progettato con il proposito di essere un luogo tranquillizzante per i pazienti nevrotici. C'era troppa ombra perché ci crescesse l'erba, ma c'erano piante con delle immense fronde verdi e al centro una fontana: una specie di grosso vaso di bronzo pieno da cui l'acqua fuoriusciva in permanenza, scorrendo lungo la superficie esterna. Rimasi sola per qualche minuto, così mi ci avvicinai e la esaminai. Sembrava un congegno per sprecare acqua, ma notai che presso la base c'era un'apertura, così immaginai che l'acqua venisse riciclata. Un circolo perenne. Irene Beddoes portò una grossa tazza di caffè per entrambe e dei biscotti avvolti nel cellophane. Andammo a sederci su una panchina leggermente umida. Lei indicò il gioco d'acqua. «Hanno messo la fontana perché pensavo che sarebbe stata rilassante in un senso giapponese, zen» disse. «Ma la trovo piuttosto inquietante.» «Perché?» «Non c'era qualcuno nell'Inferno che era condannato a passare l'eternità cercando di riempire d'acqua un enorme vaso di coccio, un vaso con un buco sul fondo?» «Non lo sapevo.» «Non avrei dovuto dirglielo. Forse le ho rovinato l'effetto.» «A me piace. Mi piace il rumore. È allegro.» «Era quella l'intenzione.» Mi sentivo benissimo, ma mi sembrava un po' strano star seduta fuori in quella giornata invernale di sole. Bevvi solo qualche sorso dalla tazza di caffè. Dovevo stare attenta. Mi sentivo già i nervi a fior di pelle. Troppa caffeina mi avrebbe mandato K.O. «Come sta?» chiese. Mi sembrò un inizio abbastanza sciocco. «Sa che cosa odio dell'ospedale? Le persone sono gentili e ho la mia camera con la televisione, ma sono comunque in una stanza in cui non si deve bussare per entrare. Persone che non ho mai visto prima entrano a pulire o a portare da mangiare e se sono carine mi fanno un cenno, altrimenti semplicemente continuano a fare quel che devono.» «Ha paura?» Non risposi subito. Bevvi un sorso di caffè e mangiai un pezzetto di bi-
scotto. Poi dissi: «Sì, naturalmente. Voglio dire, ho paure differenti. Quando ripenso all'intera faccenda ho paura a ricordare quel che ho passato, quasi come se rivivessi quei momenti e non fossi riuscita a scappare. Mi sembra di esserne stata travolta, come se mi trovassi sott'acqua, o qualcosa del genere. Come se ci annegassi dentro. Ma quasi sempre cerco di non ricordare. Di scacciare quel pensiero. Forse non dovrei farlo. Pensa che sia più sano parlarne?». Non le diedi il tempo di rispondere. «E l'altra cosa che mi fa paura è l'idea che lui non sia stato preso. E che forse stia aspettando che esca per rapirmi di nuovo. Quando mi abbandono a questo pensiero non riesco più a respirare bene. Ho la sensazione di andare a pezzi per la paura. Così, sì, ho paura. Non sempre, però. A volte mi sento molto, proprio molto fortunata a essere viva. Ma spero che lo prendano. Non credo che starò tranquilla finché non lo arresteranno.» Irene Beddoes era la prima persona che avevo incontrato a cui potevo parlare di quel che mi era capitato in quella stanza, e di ciò che avevo provato. Non era un'amica. Le potevo parlare della sensazione di perdere me stessa, di essere trasformata, poco per volta, in un animale, o in un oggetto. Le parlai di quella risata gutturale, dei mormorii, del secchio. Le dissi che mi ero pisciata addosso. Le dissi che avrei fatto qualsiasi cosa, gli avrei permesso di farmi qualsiasi cosa pur di rimanere in vita. E lei mi ascoltò, senza dire nulla. Continuai a parlare finché non fui stanca. Allora mi interruppi e mi protesi verso di lei. «Pensa di potermi aiutare a ricordare i giorni perduti?» «La mia preoccupazione, l'oggetto del mio lavoro, è ciò che sta accadendo nella sua testa, ciò che ha passato e ciò che sta ancora passando. Se ne risulta qualcosa che possa servire alle indagini, allora tanto meglio. La polizia sta facendo tutto il possibile, Abbie.» «Non credo di aver dato loro molti elementi con cui procedere.» «Il suo compito è rimettersi da questa esperienza.» Mi appoggiai allo schienale della panchina e alzai lo sguardo verso i piani superiori dell'edificio dell'ospedale che ci circondava. Da un piano in alto un ragazzino con una fronte ampia e un volto grave ci stava guardando. Udivo il ronzio del traffico di fuori, il rumore dei clacson. «Sa qual è uno dei miei incubi?» «Quale?» «Ne ho molti, a dir la verità. Come il ritornare in quella stanza. E odio stare in questo limbo, mi sento intrappolata. Ma a volte ho paura di lasciare l'ospedale, di riprendere la mia vita e che tutto ritorni normale; che quel-
l'uomo non venga mai trovato e che l'unica traccia che abbia lasciato siano i brandelli di memoria che ne ho, come un verme che mi striscia nella testa divorandomi pian piano.» Irene Beddoes mi guardò; aveva occhi acuti. «Non era contenta della sua vita?» disse. «Non le piace l'idea di ritornarci?» «Non è quel che intendevo. Volevo dire che non riesco a sopportare l'idea che da tutto questo non venga fuori niente. E che non riuscirò più a liberarmi da questo pensiero finché vivrò. Un po' come quelle persone che soffrono di una specie di sordità, ma che non è sordità. Non è silenzio. Sentono un ronzio nelle orecchie che non va mai via, e che li fa impazzire finché a volte si tolgono la vita semplicemente per sbarazzarsene.» «Mi può parlare di se stessa, Abbie? Prima che tutto ciò accadesse.» Bevvi un sorso di caffè. Era passato dall'essere troppo caldo a essere troppo freddo. «Da dove cominciare? Ho venticinque anni. Ehm...» mi interruppi, non sapendo come continuare. «Dove lavora?» «Negli ultimi due anni ho lavorato come una matta per un'azienda che si occupa di arredamento di uffici.» «Che cosa intende?» «Ci occupiamo di arredare nuovi uffici, intervenendo quel poco o tanto che ci richiedono. A volte dobbiamo solo scegliere la carta da parati, a volte dobbiamo procurare tutto, dalle penne al sistema di computer.» «Le piace?» «Più o meno. Non credo che lo farò ancora tra dieci anni, o forse neanche tra un anno, a pensarci bene. Mi ci sono semplicemente trovata per caso e ho scoperto di essere piuttosto brava. Talvolta c'è poco da fare, ma quando ci sono scadenze ci capita di lavorare tutta la notte. Ci pagano per questo.» «E ha un ragazzo?» «Sì. Ho incontrato Terry attraverso il lavoro. È quel che succede a quasi tutti. Non so in che altro modo potrei fare nuove conoscenze. Lavora in un'azienda di sistemi informatici e mi sono trasferita da lui circa un anno fa.» Rimase in silenzio ad aspettare che continuassi il mio racconto, e io naturalmente proseguii, perché sono una che parla troppo, soprattutto quando cade il silenzio, e perché avevo voglia di parlare di cose che non avevo mai detto prima. Così iniziai a confidarmi. «A dir la verità gli ultimi mesi non sono stati proprio brillanti. Anzi, so-
no stati terribili in molti sensi. Io lavoravo troppo e lui anche, e quando lavora troppo, beve troppo. Non penso che sia alcolista o giù di lì, semplicemente beve quando vuole scaricarsi. Il problema è che non si scarica, o almeno non a lungo. Diventa lamentoso, invece, o collerico.» «Collerico, per che cosa?» «Non saprei, veramente. Tutto. La vita. Io. Si arrabbia con me perché sono lì e... e...» Mi fermai di botto. Era molto difficile da dire. «È violento?» chiese Irene Beddoes. Capii che stavo prendendo una strada scivolosa verso cose che non avevo mai rivelato a nessuno. «A volte» borbottai. «La picchia?» «Un paio di volte è capitato. Già. Ho sempre pensato di essere il tipo di donna che non si sarebbe mai fatta picchiare due volte. Se me l'avesse chiesto qualche mese fa, le avrei risposto che se un uomo mi avesse picchiata, l'avrei lasciato immediatamente. Ma non l'ho fatto. Non so perché. Era sempre così dispiaciuto, e forse anch'io ero dispiaciuta per lui. Le sembra stupido? Mi pareva che gli avrei fatto assai più male di quanto lui ne avesse fatto a me. Quando ne parlo... be', a dir la verità non ne ho mai veramente parlato prima d'ora, ma adesso mi sembra di non stare descrivendo me. Non sono il tipo di donna che rimane con un uomo che la tratta male. Sono più... sono più il tipo di donna che scappa da una cantina e che ora vuole riprendere la sua vita.» «E l'ha fatto benissimo» mi disse con calore. «Non la metterei in quel modo. Davvero. Ho semplicemente fatto come meglio potevo.» «Da quel che ho sentito, è stata veramente molto brava. Ho fatto degli studi su questo genere di psicopatici...» «Non me l'ha detto. Mi ha detto di essere psichiatra e che non era interessata a quel lato del problema.» «Il modo in cui lei si è comportata ha mostrato innanzitutto una sorprendente capacità di recupero e resistenza, finalizzata alla sopravvivenza. Poi c'è la sua incredibile fuga. Non ha quasi precedenti.» «Ha sentito solo la mia versione. Forse ho esagerato per sembrare più eroica.» «Non mi pare possibile. Dopo tutto è qui. Ed è viva.» «È vero. In ogni modo ora sa tutto di me.» «Non direi. Forse nei prossimi giorni ci possiamo incontrare di nuovo.»
«Ne sarei contenta.» «Andrò a prendere il pranzo per tutte e due. Deve avere una fame da morire. Ma prima vorrei chiederle un favore.» «Che cosa?» Non rispose. Prese, invece, a rovistare nella borsa. Mentre lo faceva, pensai a lei. Dovetti fare uno sforzo per impedirmi di pensare che era il tipo di madre che mi sarei inventata: calda quanto mia madre era distaccata, fiduciosa quanto mia madre era nervosa, intelligente quanto mia madre era, ebbene, non proprio un Einstein, e poi profonda e complicata e interessante. Tirò fuori dalla borsa una cartellina. La posò sul tavolo e ne tolse un foglio, un modulo stampato, che mi mise davanti. «Che cos'è?» chiesi. «Sta cercando di vendermi un'assicurazione?» Non sorrise. «Voglio aiutarla» rispose. «E voglio dare una giusta valutazione a lei e ai fatti che la riguardano. Pertanto ho bisogno di avere un quadro il più possibile esatto della situazione. Vorrei guardare la sua documentazione medica, e per farlo è necessario il suo consenso. Dovrebbe firmare questo modulo.» «Sta dicendo sul serio? Si tratta semplicemente di un mucchio di carte sulle vaccinazioni per andare in vacanza e gli antibiotici quando ho avuto una broncopolmonite.» «Potrebbe essere utile» disse, offrendomi una penna. Scrollai le spalle e firmai. «Non la invidio» dissi. «Allora, che cosa facciamo adesso?» «Vorrei parlare. O piuttosto che lei parlasse. Vorrei che lei parlasse e provare a vedere dove ci porta.» E così feci. Con abbandono. Irene Beddoes entrò nell'edificio e ne uscì con dei panini, insalata, acqua frizzante, tè e biscotti. Il sole percorreva il cielo e io parlavo; a volte, quando pensavo alla noia che era stata la mia vita nell'ultimo anno, piangevo, ma soprattutto parlai, parlai e parlai finché non fui esausta e il cortile si fece buio e freddo e Irene Beddoes mi ricondusse alla mia camera attraversando l'eco dei corridoi. Sul letto c'era un grosso mazzo di narcisi e un biglietto scribacchiato sul retro di una busta usata. «Mi dispiace non averti trovata. Ho aspettato quanto ho potuto. Ritornerò appena possibile. Con tanto affetto, ti penso, Sadie.» Mi sedetti sul letto, debole per la delusione.
«Come procedono le indagini?» «Non abbiamo elementi a sufficienza.» «Ci sono le donne.» «Cinque nomi di donna.» «Sei, compreso il mio.» «Se lei...» Cross si interruppe e sembrò imbarazzato. «Se ricordassi qualcosa, lei sarebbe la prima persona a saperlo.» «Questo è il suo cervello.» «Il mio cervello.» Guardai la radiografia attaccata alla lavagna luminosa davanti a noi e poi mi toccai le tempie. «Che strano stare a guardare il proprio cervello. Allora, è a posto?» Charlie Mulligan mi sorrise. «Mi sembra proprio di sì.» «È pieno di ombre.» «È così che dev'essere.» «Eppure non riesco ancora a ricordare. C'è un buco nella mia vita.» «Forse ci sarà sempre.» «Un buco dalla forma di un disastro.» «O forse la memoria ritornerà gradualmente e lo riempirà.» «Posso fare qualcosa?» «Non si crucci. Si rilassi.» «Non sa con chi sta parlando.» «Ci sono cose peggiori che dimenticare» disse dolcemente. «In ogni modo, dovrei andare.» «Deve ritornare ai suoi topi.» Mi diede la mano e gliela strinsi. Era calda e ferma. «Già, dai miei topi. Se ha bisogno di qualcosa, mi chiami.» Se ho bisogno di qualcosa che lei possa fare per me, pensai. Ma annuii e cercai di sorridere. «Ho letto da qualche parte che ci si innamora solo due, forse tre volte, nella vita.» «Pensa che sia vero?» «Non lo so. Forse. Ma allora o mi sono innamorata un mucchio di volte, o quasi mai. C'è quel momento in cui non si riesce a dormire e non si riesce a mangiare e si sta male e si rimane senza fiato e non si sa se si è molto felici o molto infelici. Tutto ciò che si vuole è stare con la persona amata e il resto del mondo può andare a farsi benedire.»
«Già.» «Ho provato quelle emozioni molto spesso. Ma non durano a lungo. A volte solo un paio di giorni; a volte fino a poco dopo aver fatto l'amore. Poi ci si calma e bisogna vedere che cosa rimane. Di solito non molto. Come le ceneri quando il fuoco si spegne. Si pensa: Dio, che cosa c'era di tanto importante? A volte si continua a provare affetto, desiderio. Ma è amore? La volta in cui mi sono innamorata di più è stata quando ero all'università. Dio mio, lo adoravo. Ma non è durata.» «L'ha lasciata?» «Sì. Ho pianto per settimane. Pensavo che non mi sarei mai più ripresa.» «E Terry? La relazione con lui è stata più importante delle altre?» «Più lunga, almeno, che dovrebbe significare qualcosa, un qualche impegno. O maggior capacità di resistenza.» Scoppiai in una risata che non sembrava del tutto la mia solita risata. «Voglio dire che credo di conoscerlo veramente bene, ora. Lo conosco come non conosco praticamente nessun altro. Tutte le piccole cose intime, le cose che nasconde agli altri... E più lo conosco e più trovo ragioni per lasciarlo, ma più diventa difficile farlo. Non so se quel che dico ha senso.» «Da come ne parla, sembra sentirsi intrappolata.» «Un mucchio di persone si sentono intrappolate in una relazione a volte, non le pare?» «Quindi lei si sente intrappolata al lavoro e nella sua vita privata?» «La situazione non è così drammatica. Ho solo lasciato che la routine prendesse il sopravvento.» «E poi ha avuto voglia di scappare?» «Ci si trova invischiati nelle cose gradatamente, e non lo si capisce finché non c'è una crisi che ce lo mostra di colpo.» «Così lei sta dicendo...?» «Che questa è la mia crisi.» Il giorno dopo, quando Irene venne nella mia stanza... La mia stanza. Mi sorpresi a pensarlo, come se fosse il luogo in cui avrei passato il resto della vita. Come se non fossi in grado di affrontare il mondo esterno, dove avrei dovuto comprare cose, prendere decisioni. Era calma come sempre. Sorrise e mi chiese come avevo dormito. Nel mondo reale a volte la gente ti domanda come stai, ma non lo vuole veramente sapere. È norma che si risponda «Bene». Ma non ci viene chiesto come abbiamo dormito, come abbiamo mangiato, come stiamo perché si
vuole realmente conoscere la risposta. Irene Beddoes, invece, la voleva sapere. Mi guardò con i suoi occhi intelligenti e aspettò che rispondessi. Così le dissi che avevo dormito bene, ma non era vero. C'era un'altra cosa riguardo agli ospedali. Avevo una stanza privata, naturalmente, ma dato che la stanza non era su un'isola nel mezzo del Pacifico, venivo sempre svegliata più o meno alle due e mezzo del mattino da qualche donna che urlava. Qualcuno arrivava a occuparsi di lei, ma io rimanevo sveglia a fissare il buio, a pensare alla morte, a quella cantina e a quella voce nelle orecchie. «Sì, bene» dissi. «I suoi documenti sono arrivati» mi informò. «Quali documenti?» «Quelli del suo medico curante.» «Oh, Dio. Me ne ero dimenticata. Immagino che siano pieni di roba che sarà usata come prova contro di me.» «Perché dice una cosa del genere?» «Era solo una battuta. Ora mi dirà che una battuta non è mai solo una battuta.» «Non mi ha detto che è stata in cura per depressione.» «Lo sono stata?» Diede una scorsa al suo taccuino. «Le è stato prescritto un antidepressivo nel novembre 1995.» «Non me lo ricordo.» «Ci provi.» Pensai per un momento. 1995. Università. Naufragio. «Doveva essere quando Jules mi ha lasciata. Gliel'ho raccontato ieri. Ero in uno stato terribile; pensavo di avere il cuore a pezzi. Be', forse lo era. Non mi alzavo più la mattina. Piangevo in continuazione. Non riuscivo a smettere. Strano quanta acqua abbiamo dentro. Così un'amica mi fece andare dal medico dell'università, che mi prescrisse delle pillole. Ma non mi ricordo neanche di averle prese.» Mi colsi in fallo e scoppiai a ridere. «Quando dico che non mi ricordo, non intendo dire che ho un'altra amnesia. Solo che non mi è mai sembrato importante.» «Perché non me lo ha detto prima?» «Quando avevo circa otto anni mi fu regalato un coltellino svizzero per il compleanno. È incredibile, ma è proprio vero. Circa otto minuti dopo stavo cercando di intagliare un pezzetto di legno nel giardino e mi sono ferita un dito.» Sollevai la mano sinistra. «Guardi, ho ancora una bella cicatrice. Ha sanguinato come non mai. Forse è immaginazione, ma quando
guardo la cicatrice mi sembra di provare quel che ho provato quando mi è scappato il coltello e mi ha ferito. Neanche di questo le ho parlato.» «Abbie, abbiamo parlato del suo stato d'animo. Abbiamo parlato di come reagisce allo stress. Ma lei non mi ha detto di questo.» «Mi sta dicendo che l'ho dimenticato nello stesso modo in cui ho dimenticato di essere stata rapita da quell'uomo? Ma ne ho parlato. Gliel'ho detto quando abbiamo parlato ieri.» «Sì, ma non mi ha detto che ha ricevuto delle cure mediche.» «Solo perché non l'ho ritenuto importante. Avevo una relazione con una persona all'università, poi, quando è andata male, caddi in depressione. Va bene, d'accordo, forse è importante. Tutto è importante, immagino. Forse non l'ho detto perché era una cosa triste e mi sentivo abbandonata.» «Abbandonata?» «Sì, già, naturalmente. Ero innamorata e lui no.» «Ero interessata, guardando i suoi documenti, a come lei avesse reagito ad altri momenti di stress nella sua vita.» «Se vuole paragonare il fatto che sono stata tenuta prigioniera da un uomo che voleva uccidermi ad altri frammenti della mia vita, tipo quando ho rotto con un ragazzo o quando ho avuto un eczema che ci ha messo due anni a sparire - è arrivata a questo punto della documentazione? - be', allora le posso solo dire che non c'è nulla di paragonabile.» «C'è una cosa che hanno in comune: sono tutti eventi accaduti a lei. E io cerco dei modelli ricorrenti. Questo è diventato un evento nella sua vita. E come tutto ciò che accade nella sua vita, l'ha cambiata, in qualche modo. Spero di poterla aiutare a far sì che non influisca su di lei in maniera negativa.» «Ma ci sono cose che succedono e che sono semplicemente brutte; questa è una di esse. Sarà sempre brutta. Non riuscirò a trasformarla in un'esperienza positiva. L'unica cosa importante a cui posso pensare è che quest'uomo incredibilmente pericoloso sia trovato e rinchiuso in un luogo in cui non possa più fare del male.» Guardai fuori dalla finestra. Sopra gli edifici vidi un cielo blu chiaro. Non sentivo il freddo di fuori, ma in qualche modo riuscivo a vederlo. Anche a guardarla, quella camera odiosa sembrava insopportabilmente opprimente. «C'è un'altra cosa.» «Che cosa?» chiese Irene. «Devo andarmene di qui. Sul serio, o non riuscirò più a farlo. Ho bisogno di ritornare alla vita normale. Immagino di non poter semplicemente alzarmi, mettermi i vestiti che mi hanno prestato... Anche se, a pensarci
bene, perché no? Ma andrò a cercare il dottor Burns, o lascerò un messaggio alla segretaria, e gli dirò che domani me ne vado. Lascerò un indirizzo a Jack Cross. E se lei pensa ancora che sia importante parlare con me, potremo incontrarci in un posto qualsiasi che deciderà lei. Ma non posso più stare qui.» Irene Beddoes reagiva sempre come se si aspettasse che avrei detto proprio quel che dicevo, e che capiva assolutamente. «Potrebbe essere giusto» disse. «Potrebbe farci un favore? Come le ho detto in precedenza, è stata visitata da uno stuolo di specialisti differenti. Mi dispiace per tutti questi ritardi, ma come potrà immaginare è un problema logistico riuscire a mettere insieme tutti allo stesso momento per prendere una decisione. Mi è stato detto che domani mattina si terrà una riunione a cui parteciperemo tutti. Si parlerà di quel che intendiamo fare. Una delle questioni ovvie riguarderà il fatto che lei venga dimessa.» «Posso venire?» «Che cosa?» «Posso venire alla riunione?» Per la prima volta Irene sembrò imbarazzata. «Mi dispiace, ma non è possibile.» «Vuol dire che ci sono cose che potrei non voler sentir dire?» Sorrise in modo rassicurante. «Niente affatto. I pazienti non assistono alle riunioni in cui si parla del loro caso. È semplicemente la prassi.» «È solo che io la vedo più come un'indagine in cui sono coinvolta.» «Non c'è nulla di segreto. Verrò a trovarla non appena avremo finito.» Non la guardai. Ero di nuovo attratta dalla finestra. «Avrò la valigia pronta» dissi. Non riuscii a parlare con Jack Cross quel pomeriggio. Era troppo occupato. Mi mandò un detective meno importante che si chiamava Constable Lavis. Era uno di quegli uomini così alti che si chinano in continuazione come se stessero sempre per sbattere la testa, anche se si trovano in una stanza alta circa tre metri come lo era la mia. Sembrava una controfigura, ma era anche simpatico, con un atteggiamento complice. Si accomodò sulla sedia vicino al letto, che parve ridicolmente piccola sotto di lui. «Ho cercato di mettermi in contatto con Cross» dissi. «È fuori ufficio» rispose Lavis. «È quel che mi hanno detto. Speravo che mi chiamasse.» «È piuttosto occupato. Ha mandato me.»
«Volevo dirgli che sto per lasciare l'ospedale.» «Già» fece Lavis, come se non avesse quasi sentito quel che avevo detto. «Glielo comunicherò. Sono stato mandato per parlarle di un paio di cose.» «Cioè?» «Buone notizie» disse allegramente. «Il suo ragazzo. Terry Wilmott. Eravamo un po' preoccupati per lui. Ma è rispuntato.» «Era fuori per lavoro o a far baldoria?» «Gli piace bere, vero?» «A volte.» «L'ho incontrato ieri. Mi è sembrato un po' pallido, ma stava bene.» «Ha detto dov'è stato?» «Ha spiegato che era malato. Si trovava nel cottage di un suo amico nel Galles.» «Tipico di Terry. Non ha aggiunto altro?» «Non ha dato grandi contributi.» «Allora il mistero è risolto. Che idiota. Gli farò una telefonata.» «Non si è messo in contatto con lei?» «Ovviamente no.» Lavis sembrava a disagio. Mi fece pensare a quegli adolescenti che arrossiscono quando gli si chiede l'ora. «Il capo mi ha mandato a fare delle indagini» disse. «Ho telefonato all'azienda in cui lavora, Jay and Joiner's. Gente simpatica.» «Se lo dice lei.» «Stavamo tentando di stabilire il periodo in cui è scomparsa.» «Davvero?» «Già.» Tirò su con il naso e si guardò intorno come per cercare una via di scampo. «Che progetti ha?» «Gliel'ho detto. Ho intenzione di andarmene domani.» «E per il lavoro?» «Mi rimetterò in contatto con loro. Non me la sono ancora sentita, ma penso che ritornerò tra una settimana o due.» «Ritornerà al lavoro?» Sembrava sorpreso. «Che altro? Devo guadagnarmi da vivere. E non solo. Devo tornare alla vita normale finché ho una vita a cui tornare.» «Sì, certo.» «Mi scusi. So che non deve occuparsi dei miei problemi personali.» «Già.» «Suppongo che sia molto occupato dalle indagini.»
«Parecchio, sì.» «So di non avervi fornito elementi utili per le ricerche.» «Facciamo del nostro meglio.» «Mi dispiace davvero di non essere riuscita a trovare il posto in cui sono stata tenuta prigioniera. Non sono esattamente la miglior testimone della storia criminale. Ma mi sento completamente al buio. Ci sono stati degli sviluppi? Immagino che si siano fatte delle ricerche sui nomi che ho dato a Cross. I nomi delle altre vittime. Speravo che potessero essere un indizio. È stato trovato qualcosa? Suppongo di no, perché altrimenti me l'avrebbero detto. A parte che nessuno mi dice niente. È uno dei problemi dello stare qui, in questo letto, in questa stanza. Se non altro mi sono fatta un'idea di quel che significa essere vecchi e malati. La gente ti tratta come se fossi un po' tonto. Sa che cosa voglio dire? Mi parlano lentamente e mi fanno domande estremamente semplici, come se avessi problemi mentali. E non ritengono di dovermi dire ogni cosa. Credo davvero che se di tanto in tanto non facessi una scenata, mi dimenticherebbero del tutto.» La ragione per cui continuavo a parlare era che Lavis si stava agitando sulla sedia con l'aria di essere in trappola e non rispondeva, e più parlavo più si sentiva intrappolato. Mi sembrava di essere diventata una di quelle persone che borbottano tra sé e sé per strada e ogni tanto fermano qualcuno e lo importunano con i loro problemi, ripetendo che tutti ce l'hanno con loro. «Non sono stata in grado di aiutarvi molto. Voglio dire che ho parlato tanto ma senza essere di grande utilità.» «Non c'è problema» disse Lavis, alzandosi. Stava per congedarsi. «Avevo solo bisogno di controllare un paio di cose. Come ho detto.» «Mi dispiace di aver straparlato. Il lungo periodo di prigionia mi ha fatto diventare un po' matta.» «Non importa» ribadì Lavis, mentre si allontanava verso la salvezza della porta aperta. Ma non mi contraddisse. St. Anthony Hospital 28 gennaio 2002 Verbale della riunione sul caso Abigail Elizabeth Devereaux, Camera 4E, ala Barrington. Cc. Detective capo soprintendente Gordon Lovell, Laurraine Falkner (direttore generale), professor Ian Burke (direttore sanitario).
Verbale redatto da Susan Barton (assistente dell'amministrazione medica). NB: documento riservato Presenti: detective capo soprintendente Lovell, detective ispettore Cross, dottor Burns, dottoressa Beddoes, professor Mulligan. Il detective Cross ha cominciato la riunione con una relazione sul caso e sui progressi delle indagini relative. Il 22 gennaio la signorina Devereaux è stata portata in ospedale in ambulanza da Ferdinand Road. Interrogata il giorno successivo, ha sostenuto di essere stata rapita e minacciata di morte. Le indagini sono state ostacolate dalla mancanza di prove. La signorina Devereaux non è stata in grado di ricordare come sia stata rapita. È stata tenuta legata e incappucciata. L'unico ricordo significativo è un elenco di nomi di donne, nomi che il rapitore menzionò dicendo che appartenevano a vittime precedenti. La signorina Devereaux è fuggita dalla sua prigione ma, pur essendo riaccompagnata nella zona, sfortunatamente non è stata in grado di stabilire quale fosse il luogo da cui era scappata. La dottoressa Beddoes ha domandato se queste fughe fossero insolite. Il detective Cross ha risposto di avere un'esperienza limitata di questi casi. La dottoressa gli ha ancora chiesto se fossero stati fatti progressi nelle indagini, e il detective Cross ha risposto che erano ancora in uno stadio preliminare. Il dottor Burns ha descritto le ferite, in gran parte superficiali, trovate sul corpo della signorina Devereaux. Ha dichiarato che lo stato di disidratazione e di denutrizione in cui versava, pur non essendo grave, era palesemente conseguenza di una qualche dura prova fisica. La dottoressa Beddoes ha chiesto se il corpo della signorina Devereaux presentasse segni di violenza o di tortura. Il dottor Burns ha risposto che i lividi riscontrati intorno al collo e ai polsi facevano supporre fosse stata legata. Il dottor Burns ha riferito che la TAC non mostrava lesioni cerebrali. Il professor Mulligan ha descritto i test da lui sottoposti alla signorina Devereaux e le sue conclusioni. A suo parere il racconto della signorina Devereaux sulla sua amnesia postraumatica era coerente con gli esami da lui effettuati.
La dottoressa Beddoes ha chiesto se avesse trovato qualche prova oggettiva, fisica, di tali traumi e di questa amnesia. Il professor Mulligan ha risposto che le prove fisiche non erano rilevanti. C'è stata una discussione animata tra loro che qui non si riporta nei dettagli. La dottoressa Beddoes ha esposto la sua valutazione sulla signorina Devereaux. Ha riscontrato che la signorina Devereaux è un soggetto articolato, intelligente, attraente. Il racconto da lei fatto delle sue vicende era interessante e convincente. Esami più approfonditi hanno rivelato che la signorina Devereaux ha passato un periodo di notevole stress nei mesi precedenti al presunto rapimento. È stata sottoposta a una considerevole pressione sul lavoro, culminata nel fatto che è stata costretta a prendere un periodo di congedo per ragioni inerenti allo stress. Questo periodo di congedo è cominciato poco prima, secondo le dichiarazioni della signorina Devereaux, del periodo di imprigionamento. Anche la relazione con il suo fidanzato era fonte di notevole tensione, poiché lui beveva eccessivamente e si comportava in modo violento. La dottoressa Beddoes ha riferito che, dopo ulteriori accertamenti, sono emersi altri fattori importanti. Contrariamente a quanto da lei sostenuto, la signorina Devereaux aveva dei precedenti di instabilità mentale, ed era stata in cura nel passato. Di ciò essa non aveva fatto menzione nei primi colloqui. Aveva anche già denunciato in precedenza di aver subito violenza. Alcuni documenti dimostrano che in un'occasione aveva chiamato la polizia per un episodio di violenza domestica, che coinvolgeva il fidanzato. Aveva inoltre un'evidente difficoltà a ricordare questi eventi. Il che era ovviamente paragonabile allo stato attuale di amnesia. La dottoressa Beddoes ha reso noto che quando ha cominciato a nutrire dubbi sui fatti raccontati dalla signorina Devereaux ha svolto ulteriori indagini per avere una conferma qualsiasi, indipendente e oggettiva, di ciò che la paziente sosteneva, e di non averne trovata alcuna. La dottoressa Beddoes ha concluso che, in base alla sua opinione, i disordini della signorina Devereaux sono di origine psicologica e che la miglior linea d'azione sia un trattamento psichiatrico e medico. Il professor Mulligan ha chiesto quale fosse il parere della dottoressa Beddoes riguardo ai segni trovati sul corpo della signorina Devereaux e al fatto che fosse stata rinvenuta in uno stato di denutrizione in un'area di Londra lontana dalla sua casa e dal luogo di lavoro. La dottores-
sa Beddoes ha risposto che tale quesito non era di pertinenza del dottor Mulligan, che era stato chiamato in quanto esperto di alcune limitate questioni neurologiche. Il detective capo Lovell ha domandato se la dottoressa Beddoes sostenesse che non fosse stato commesso alcun crimine. La dottoressa Beddoes ha risposto di non sapere quel che fosse successo tra la signorina Devereaux e il suo fidanzato. Ma si è detta certa del fatto che il rapimento fosse una fantasia. Secondo lei, non un'invenzione, ma piuttosto un grido d'aiuto. Il detective capo Lovell ha parlato della necessità prioritaria di stabilire se la questione immediata fosse accusare o meno la signorina Devereaux di far perdere tempo alla polizia. Ne è seguita una animata discussione. Il detective Cross ha dichiarato di non essere ancora pronto ad abbandonare la versione dei fatti della signorina Devereaux. Il professor Mulligan ha chiesto alla dottoressa Beddoes se fosse consapevole che, nel caso si fosse sbagliata, il risultato sarebbe stato quello di esporre la signorina Devereaux, una volta dimessa dall'ospedale, a un pericolo mortale. Ne è seguita una discussione ancor più accesa della precedente, qui non riassumibile. Il professor Mulligan ha dichiarato che desiderava mettere a verbale il suo dissenso dalla decisione prevalente emersa dalla riunione. Ha commentato che se fosse accaduto qualcosa alla signorina Devereaux, ciò sarebbe stato sulla coscienza di tutti i presenti alla riunione. (Eccetto Susan Barton. Aggiunto su indicazione del professor Mulligan.) Poi il professor Mulligan ha lasciato la sala. I presenti hanno discusso su come procedere. Il detective capo Lovell ha ordinato al detective Cross di interrompere le indagini. La dottoressa Beddoes ha detto che sarebbe andata immediatamente a trovare la signorina Devereaux e avrebbe parlato con lei del regime terapeutico. La dottoressa Beddoes ha ringraziato i presenti alla riunione per la cooperazione, che è stata da lei definita un esempio di come le organizzazioni mediche e legali dovrebbero lavorare insieme. Il dottor Burns ha chiesto quando il letto della signorina Devereaux sarebbe stato libero. Parte Terza Capitolo 1
Cammina. Cammina e basta. Un piede davanti all'altro. Non fermarti, non smettere, non guardarti attorno. Tieni alta la testa e guarda davanti a te. Lascia che i visi siano sfocati. Fa' finta di sapere dove stai andando. Stanno chiamando il tuo nome, ma è l'eco di un'eco, che rimbalza sulle pareti bianche. Stanno chiamando un'altra persona, non te. Non ascoltare. È tutto finito ora; basta ascoltare e parlare e fare ciò che ti dicono. Fa' la brava. Continua a camminare. Non correre, cammina. Attraverso quelle porte, che si aprono silenziosamente e automaticamente quando ti avvicini. Niente lacrime. Non piangere. Non sei pazza, Abbie. Non sei pazza. Supera le ambulanze, le macchine, gli inservienti con i carrelli. Non fermarti. Entra nel grande mondo. Questa è la libertà, solo che non sei libera. Non sei libera e non sei al sicuro. Ma non sei pazza. Non sei pazza. E sei viva. Respira, dentro e fuori, e va' avanti. Il cielo era di un blu sorprendente e il terreno ghiacciato. Il mondo luccicava per il freddo. E per il freddo le guance mi bruciavano, gli occhi mi pungevano e le dita erano intorpidite intorno alla borsa di plastica che portavo. I piedi, nelle stupide scarpe logore, facevano scricchiolare la ghiaia. Mi fermai davanti all'alta casa vittoriana, in cima alla quale c'era il nostro appartamento. L'appartamento di Terry, in verità, ma ci vivevo da quasi due anni. Ero io che avevo dipinto la nostra camera da letto, aperto il caminetto, comprato mobili di seconda mano, grandi specchi, quadri, tappeti e vasi e tutte quelle cose che ci fanno sentire a casa. Piegai il capo con circospezione per guardare in alto. Il movimento mi provocò un dolore che sembrò diffondersi per tutto il cranio. L'appartamento non mi parve familiare in quel momento. Appariva freddo e vuoto. La finestra del bagno era ancora rotta e non c'erano luci accese. Le tende della nostra camera da letto erano chiuse, il che voleva dire che o Terry era ancora a letto a smaltire una sbornia, una di quelle sbornie che lo rendevano pallido e di cattivo umore, o che non si era dato la pena di aprirle quando si era alzato dal letto quella mattina, in ritardo per il lavoro. Sperai si trattasse della seconda ipotesi. Provai a suonare il campanello. Appoggiando l'orecchio alla porta, potevo sentirlo di sopra, un suono gracchiante perché le batterie si stavano scaricando. Si stavano scaricando da mesi. Aspettai, poi provai di nuovo. Spinsi l'aletta metallica della cassetta della posta, ma riuscii a vedere solo una striscia vuota di tappeto marrone.
Recuperai la chiave di riserva nascosta sotto il sasso, ma la feci cadere un paio di volte prima di riuscire a infilarla nella serratura con le dita gelate. Anche all'interno, nell'ingresso, il fiato formava una nuvoletta nell'aria. Sperai che Terry avesse lasciato acceso il riscaldamento o che almeno ci fosse acqua calda per un bagno. Mi sentivo sporca e avevo freddo e mi sembrava ancora che dentro il mio corpo tutto fosse come allentato. Fu un ritorno a casa piuttosto squallido. Molto squallido, a dir la verità. Dovetti fare uno sforzo per salire le scale e superare l'appartamento al primo piano, dove udii il rumore di una televisione. Mi sentivo le gambe pesanti e, quando giunsi alla nostra porta, stavo ansimando. Mentre giravo la chiave, gridai: «Salve. Ciao, sono io. Sono tornata». Niente. «Terry? Ciao.» Silenzio, eccetto che per lo sgocciolio di un rubinetto nel bagno. Improvvisamente, senza preavviso, fui pervasa da un'ondata di paura e dovetti fermarmi e appoggiarmi alla porta per stare in piedi. Respirai profondamente, dentro e fuori, finché non riuscii a calmarmi, poi entrai e diedi una spinta alla porta per chiuderla. Non so che cosa mi saltò prima agli occhi. Probabilmente la confusione: le scarpe sporche di fango sul pavimento del soggiorno, i piatti non lavati impilati nel lavandino, i tulipani con il capo piegato sul tavolo di cucina, vicini a parecchie bottiglie vuote e a un portacenere traboccante. Superfici sudicie, aria che sapeva di chiuso. Ma poi vidi che qua e là c'erano degli strani spazi vuoti, dove ci dovevano essere cose, ma non c'erano. Il mio stereo, tanto per cominciare, che tenevamo su un tavolino basso nel soggiorno, vicino al piccolo televisore. Che non era più un piccolo televisore, ma era grande: era un televisore nuovo. Automaticamente guardai sulla scrivania vicina, nell'angolo della mia camera, per accertarmi che ci fosse il mio computer portatile. E anche quello era sparito. Era vecchio, un dinosauro di computer, ma gemetti pensando alle cose che conteneva e che erano andate perdute: tutti gli indirizzi e-mail, innanzitutto, che non avevo mai segnato da nessun'altra parte. Mi sedetti sul divano, vicino a una pila di vecchi giornali e al soprabito di Terry. Erano venuti i ladri? Sembrava che mancassero anche dei libri, c'erano dei vuoti lungo gli scaffali. Cercai di ricordare che cosa c'era stato: un'enciclopedia gigantesca sullo scaffale più basso; diversi romanzi sullo scaffale di sopra; un'antologia di poesia; forse la guida dei pub. Certamente un paio di libri di cucina. Andai nella nostra camera da letto. Il letto era sfatto; il piumino appallot-
tolato manteneva ancora la forma del corpo di Terry. Sul pavimento c'era un mucchio di vestiti sporchi, insieme a due bottiglie di vino vuote. Aprii le tende per fare entrare il sole abbagliante, e la finestra per sentire l'aria pulita e gelida, e poi mi guardai intorno. È sempre difficile vedere ciò che non c'è; notare l'assenza. Ma la sveglia era scomparsa dal mio lato del letto. E anche la scatola di legno dei miei gioielli da sopra la cassettiera. Non c'era nulla di prezioso, solo qualche orecchino, dei braccialetti, un paio di collane, cose che mi erano state regalate negli anni; ma erano ricordi e regali ed erano insostituibili. Aprii i cassetti. La mia biancheria era sparita, eccetto che per un vecchio paio di mutande nere finite in fondo. Mancavano parecchie delle mie magliette, due paia di jeans, i calzoni più eleganti e almeno tre dei miei maglioni, compreso quello costoso che avevo finito per comprare durante i saldi di gennaio. Aprii le porte del guardaroba. Le cose di Terry c'erano tutte, da quel che vedevo, ma alcuni degli attaccapanni dalla mia parte erano vuoti. Mancavano un paio di vestiti. Non c'era il cappotto nero, né la giacca di pelle. E neppure la maggior parte delle scarpe; sul fondo del guardaroba erano rimaste solo due paia di sandali e delle vecchie scarpe da ginnastica. Quasi tutti i miei vestiti per il lavoro c'erano ancora, però. Mi guardai intorno, sconcertata, e vidi che alcuni degli abiti che mancavano erano stati ficcati in un sacco per la spazzatura al fondo del letto. «Terry» dissi a voce alta. «Sei un bastardo.» Andai in bagno. Il coperchio della toilette era aperto e lo chiusi con un colpo. Niente Tampax, trucchi, crema idratante, profumo, deodorante. Mi aveva cancellata. Perfino il mio spazzolino da denti era scomparso. Aprii il mobiletto. Le medicine di pronto intervento c'erano ancora. Svitai il tappo del flacone dell'aspirina e me ne versai due sul palmo della mano. Le inghiottii senz'acqua. La testa mi batteva. Era un sogno, pensai. Un incubo, in cui venivo depredata della mia vita. Mi sarei presto svegliata. Ma era qui la difficoltà: dov'era cominciato l'incubo e a che punto mi sarei destata? Mi sarei risvegliata nella mia vecchia vita, senza che fosse successo niente e tutto sarebbe stato solo una costruzione febbrile della mia mente? O di nuovo su quella pedana, con uno straccio ficcato in bocca, la mente offuscata, aspettando di morire? O in ospedale, pensando ancora che i medici mi avrebbero curata e che la polizia mi avrebbe salvata? Andai in cucina e accesi il bollitore. Mentre aspettavo che l'acqua bollisse, andai a rovistare nel frigorifero perché improvvisamente sentii di avere
una fame da svenire. Non c'era molto, eccetto parecchie bottiglie di birra e tre o quattro pranzi pronti da scaldare in forno, impilati uno sull'altro. Mi preparai un panino con Marmite e insalata con del pane bianco che sapeva di plastica come quello dell'ospedale, e versai l'acqua bollente su una bustina di tè. Ma in mezzo a un boccone, quando ancora ero vicina al frigorifero e con una striscia di insalata che mi penzolava dal labbro inferiore, fui assalita da un pensiero. Dov'era la mia borsa, con il borsellino, i soldi, le carte di credito e le chiavi? Sollevai cuscini, guardai dietro a cappotti appesi, aprii cassetti. Cercai in posti in cui non ci sarebbe stata e in altri in cui avevo già guardato. Dovevo averla con me quando ero stata rapita. Il che voleva dire che lui aveva il mio indirizzo, le chiavi, tutto, mentre io non avevo niente. Assolutamente niente. Neanche un penny. Ero così furibonda e imbarazzata quando la dottoressa Beddoes mi aveva parlato del «regime di cura» che avrebbe iniziato e che mi avrebbe aiutato ad «andare avanti», che avevo urlato delle frasi incoerenti e le avevo detto che se avesse voluto che ascoltassi un'altra sola parola da lei o da chiunque altro dell'ospedale, avrebbe dovuto legarmi e sedarmi. Poi ero uscita dall'ospedale a passo di marcia con i vestiti con cui ero stata trovata, sperando che non mi si piegassero le ginocchia, cercando di non piangere, non dare in escandescenze, non implorare. Avevo rifiutato tutte le offerte di un passaggio, di denaro, di giuste spiegazioni, di un'ulteriore sessione con uno psichiatra, di aiuto. Non avevo bisogno di aiuto. Avevo bisogno che catturassero quell'individuo per sentirmi di nuovo al sicuro. E avevo bisogno di dare un pugno alla dottoressa Beddoes su quella sua faccia rispettabile. Non dissi nient'altro. Non ce n'era motivo. Le parole erano diventate trappole viziose, che si richiudevano su di me. Tutto ciò che avevo detto alla polizia, ai medici, a quella maledetta Irene Beddoes mi era stato rivolto contro. Avrei dovuto accettare i soldi, però. Non avevo più voglia del panino. Lo buttai nel secchio della spazzatura, che sembrava non fosse mai stato svuotato da quando abitavo ancora lì, e bevvi un sorso del tè che si stava raffreddando. Andai alla finestra e guardai fuori, premendo la fronte sul vetro ghiacciato e aspettandomi quasi di vedere lui sulla strada di sotto, che mi guardava ridendo. Solo che non avrei saputo che era lui. Lui, avrebbe potuto essere chiunque. Avrebbe potuto essere quel vecchio che stava trascinando un bassotto recalcitrante con le gambe rigide, o quel ragazzo con la coda di cavallo, o
quel padre dall'aria carina con un cappello a pompon e un bambino con le guance rosse accanto. Sugli alberi e sui tetti delle case e delle macchine c'era un sottile strato di neve, e la gente che passava era avvolta da sciarpe e cappotti pesanti, e teneva la testa piegata per ripararsi dal freddo. Nessuno alzò gli occhi a guardarmi. Mi sentii persa. Non sapevo nemmeno che cosa pensare. Non sapevo cosa fare, o a chi rivolgermi per avere aiuto. Non sapevo che tipo di aiuto chiedere: ditemi che cosa è successo, che cosa devo fare, chi sono, ditemi dove devo andare, ditemi solo... Chiusi gli occhi e cercai per la millesima volta di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa. Sarebbe bastata anche solo una piccola fessura nel buio. Ma non vidi alcuna luce, e quando riaprii gli occhi mi trovai a fissare di nuovo la strada, resa poco familiare dall'inverno. Andai al telefono e feci il numero di Terry al lavoro. Suonò a vuoto. Provai il numero del suo cellulare e rispose la segreteria telefonica. «Terry» dissi. «Terry, sono io. Abbie. Ho bisogno di parlarti urgentemente.» Poi feci il numero di Sadie, ma mi rispose solo una segreteria telefonica e non volli lasciare un messaggio. Pensai di chiamare Sheila e Guy, ma avrei dovuto spiegare loro tutto e non ne avevo voglia, non in quel momento. Mi ero immaginata di ritornare a casa e raccontare la mia storia. Gli amici sarebbero stati seduti intorno a me con gli occhi spalancati, ad ascoltare. Sarebbe stato un racconto dell'orrore con un lieto fine; una storia di disperazione e poi di speranza; e alla fine un trionfo. Sarei stata una specie di eroina, perché ero sopravvissuta e stavo raccontando loro la vicenda. L'orrore di quel che era successo sarebbe stato riscattato dal finale. Che cosa potevo dire ora? La polizia pensava che stessi mentendo. Pensava che avessi inventato tutto. So come funziona il sospetto: si diffonde. È come una brutta macchia. Che cosa si fa quando ci si sente persi, arrabbiati, depressi, spaventati, malconci e infreddoliti? Preparai un bagno, con acqua molto calda, e mi spogliai. Mi guardai allo specchio. Avevo le guance e le natiche scavate; le ossa del bacino e le costole che sporgevano in maniera vistosa. Mi sembravo un'altra. Salii sulla bilancia che era sotto il lavandino: avevo perso più di sei chili. Mi calai nell'acqua caldissima, tappai le narici con l'indice e il pollice, feci un grosso respiro e mi immersi sotto la superficie. Quando riemersi, sputacchiando nell'aria densa di vapore, qualcuno stava urlando. Stava ur-
lando il mio nome. Sbattei gli occhi e un volto si mise furiosamente a fuoco. «Terry!» esclamai. «Che diavolo stai facendo lì? Sei diventata matta?!» Aveva ancora indosso la giacca pesante e il suo volto era chiazzato per il freddo. Mi tappai il naso e mi immersi di nuovo sott'acqua, per cancellarne la vista, per mettere a tacere la voce che mi aveva dato della matta. Capitolo 2 Uscii dalla vasca da bagno con Terry che mi guardava in cagnesco, mi avvolsi in un asciugamano e andai nella camera da letto. Afferrai i vestiti che riuscii a trovare, un paio di vecchi jeans dal sacco della spazzatura, un maglione blu scuro di lana ruvida dal cassetto, delle vecchie scarpe da ginnastica, quel paio di mutande nere sfilacciate. Almeno erano puliti. Sulla mensola sopra la vasca da bagno trovai una fascia, così riuscii a legarmi i capelli bagnati con mani tremanti. Terry andò a sedersi sulla sedia di vimini nell'angolo del soggiorno. La sedia che avevo comprato io, in un negozio di mobili di seconda mano una domenica mattina di pioggia. L'avevo anche portata a casa da sola, usandola come ombrello. Si protese in avanti e spense la sigaretta nel portacenere. Il portacenere che avevo preso io, come souvenir in un caffè in cui una volta facevo la cameriera. Prese un'altra sigaretta dal pacchetto posato sul tavolo e la accese. Con i capelli color rame, il viso pallido, era bello, era il Terry che avevo incontrato la prima volta. Fu quando cominciò a parlare che iniziarono i problemi. «Non mi domandi se sto bene?» dissi. Anche se, ovviamente, era troppo tardi perché lo facesse. Se dovevo chiedergli di chiedermi, la sua non sarebbe più stata una dimostrazione di interesse. Come quando domandiamo a qualcuno se ci ama; se dobbiamo domandarlo, la risposta è no. O non abbastanza. Non nel modo che vorremmo. «Che cosa?» disse. Ma lo disse più come un'affermazione che come una domanda. «Che cosa succede?» «È quello che vorrei sapere anch'io. Hai un aspetto terribile. E quel taglio... Che cosa ti è successo?» «Sai che sono stata in ospedale?» Tirò una boccata lunga e lenta dalla sigaretta e soffiò fuori il fumo len-
tamente, assaporandolo, come se fosse assai più interessante di me. C'erano due Terry di cattivo umore: il Terry arrabbiato che urlava. Quello a cui avevo lanciato uno sguardo veloce nel bagno. E il Terry tranquillo, calmo, sarcastico. Quello seduto sulla sedia di vimini che fumava la sigaretta. «Sì, me l'hanno detto. Me l'ha detto la polizia. Sono venuti qui.» «Ho cercato di telefonarti, ma non c'eri. Be', saprai che non c'eri, naturalmente.» «Sono stato via.» «Terry, ho passato il periodo più orribile, più tremendo della mia vita. Voglio...» Mi interruppi, non sapendo che cosa volevo né che cosa dire. Certamente non volevo stare seduta in una stanza gelida con un uomo furioso. Un abbraccio, pensai. Desideravo un abbraccio, una tazza di cioccolata, qualcuno che mi dicesse che era contento che fossi a casa, qualcuno che mi dicesse che gli ero mancata, che mi facesse sentire di nuovo al sicuro. Era quello di cui avevo bisogno in quel momento. «Ho dei vuoti di memoria» dissi alla fine. «Sono al buio e ho bisogno del tuo aiuto per rimettere le cose a posto.» Nessuna reazione. «Potrei essere morta» aggiunsi. Un'altra maledetta lenta boccata dalla sigaretta. Era sotto l'effetto di qualche sostanza? C'era uno strano tono in tutto quello che diceva, come se ci fosse un sottinteso ironico che mi sfuggiva. C'è gente che dice di sentire quando sta per arrivare una tempesta. La vecchia ferita di guerra comincia a dolere o qualcosa del genere. Io non ci sono mai riuscita. Le mie ferite di guerra mi dolgono continuamente. Ma quando sta per scoppiare un litigio con Terry, lo sento. Me lo sento sulla pelle, nei capelli, sulla nuca, nella schiena, nello stomaco e dietro gli occhi. E lo sento nell'aria. Ma questa volta anch'io ribollivo di rabbia. «Terry» dissi «hai sentito quel che ho detto?» «C'è qualcosa che non so?» «Che cosa?» «Stai cercando in qualche strano modo di tornare indietro?» «Mi hanno dimessa dall'ospedale. Tutto qui. Che ti hanno detto? Non hai saputo niente? Ho un mucchio di cose da raccontarti. Mio Dio, non ci crederai mai.» Mi spaventai quando mi sentii pronunciare quelle parole e mi affrettai a correggerle. «Eppure è vero, naturalmente.» «Non è un po' tardi?» «Scusa? Suppongo che anche tu abbia un paio di cose da dirmi. Dov'eri?»
Terry scoppiò in una risata che sembrava un latrato, poi si guardò attorno come se fosse preoccupato che qualcun altro lo stesse guardando. Chiusi gli occhi, poi li riaprii. Era ancora là, sulla sedia di vimini, che fumava, e anch'io ero ancora là, in piedi vicino a lui. «Sei ubriaco?» chiesi. «È una specie di messinscena, vero?» «Che cosa vuoi dire?» «Un modo per ritornare con me?» Scossi il capo per cercare di capire, e mi pulsò violentemente. Mi sembrava di vedere tutto attraverso una nube grigia. «Ascolta, Terry, d'accordo? Sono stata rapita da un folle. Mi ha picchiata sulla testa e ho perso conoscenza. Non so che cosa sia successo, non del tutto, solo in parte. Ma avrei potuto morire. Sono quasi morta. Sono stata in ospedale. Tu non c'eri. Ho cercato di chiamarti, ma non hai mai risposto. Probabilmente eri a far baldoria, non è vero? Ma sono ritornata a casa.» L'espressione di Terry cambiò. Sembrò perplesso, scosso. La sigaretta gli bruciava tra le dita come se se ne fosse dimenticato. «Abbie... non capisco.» Mi sedetti sul divano. Il divano era di Terry. Credo che gliel'avesse passato sua madre anni prima. Mi strofinai gli occhi. «So che la polizia ti ha parlato» dissi con cautela. Volevo dirgli il meno possibile. E ciò era parte del problema, no? «Che cosa ti hanno detto?» Fu Terry, questa volta, a essere cauto. «Volevano sapere qual era stata l'ultima volta che ti avevo vista.» «E che cosa gli hai detto?» Un'altra lenta boccata alla sigaretta. «Ho semplicemente risposto alle loro domande.» «Ed erano soddisfatti?» «Gli ho detto dov'ero. Penso che abbiano fatto un paio di telefonate per controllare e questo mi è sembrato gli bastasse.» «Che cosa ti hanno detto di me?» «Mi hanno detto che eri stata ferita.» «Ferita? Hanno detto proprio così?» Scrollò le spalle. «Qualcosa del genere.» «Sono stata assalita.» «Da chi?» «Non lo so. Non l'ho mai visto in faccia.» «Che cosa?» mi fissò stupidamente. «Che cosa è successo?»
«Non lo so. Non me lo ricordo. Sono stata colpita. Forte. Sulla testa. Ho un vuoto di memoria di giorni e giorni.» Ora era attento. E aveva tante domande da farmi che non riusciva quasi a pensare quali pormi per prime. «Se non ricordi niente, come fai a sapere che non sei semplicemente caduta e hai sbattuto la testa?» «Mi ha tenuta prigioniera, Terry. Stava per uccidermi. Sono fuggita.» A questo punto, suppongo pateticamente, pensai che qualsiasi essere umano sarebbe venuto da me e mi avrebbe abbracciata e avrebbe detto: «Che cosa orribile», ma Terry continuò il suo interrogatorio, come se non avesse veramente sentito quel che stavo dicendo. «Pensavo che non l'avessi visto.» «Ero bendata. Era buio.» «Oh» disse. Poi fece una lunga pausa. «Cristo.» «Sì.» «Mi dispiace, Abbie» abbozzò. Era troppo poco ed era arrivato troppo tardi perché significasse qualcosa; e gli si leggeva in faccia che ne era consapevole. Poi chiese: «Allora che cosa sta facendo la polizia?». Era la domanda che temevo. Era la ragione per cui non avevo voluto addentrarmi in una discussione dettagliata. Benché sapessi di avere ragione, ero imbarazzata ad ammettere come stavano le cose, anche se si trattava di Terry, e allo stesso tempo ero furiosa con me stessa per questo. «Non mi credono» ammisi. «Pensano che non sia mai successo.» «Ma le ferite? Quei lividi?» Feci una smorfia. Avevo voglia di piangere, ma assolutamente non sarei scoppiata in lacrime davanti al maledettissimo Terry. Il che era un altro lato del problema. «Da quel che capisco, la gente che sta dalla mia parte pensa che mi sia immaginata tutto. Quelli che non stanno dalla mia parte pensano che l'abbia inventato. E tutti pensano che sto facendo solo perdere tempo alla polizia e che dovrei ringraziare di non essere stata denunciata per questo. Così mi hanno rimessa in libertà. Sono di nuovo fuori, senza protezione.» Aspettai che rni venisse vicino. Non si mosse. Il suo volto aveva un'espressione vuota. Feci un grosso respiro. «Allora, che cosa è successo alla mia roba? Chi l'ha presa?» «Tu.» «Che cosa? Io?» «Due settimane fa.»
«L'ho presa io?» «Sì.» Terry cambiò posizione sulla sedia. Mi guardò attentamente. «È proprio vero? Non ricordi niente?» Scossi il capo. «È tutto confuso. C'è come una nuvola scura sopra le ultime settimane. Ho il ricordo vago di essere al lavoro, di essere qui. Poi tutto svanisce. Ma di che cosa stai parlando? Che vuol dire che l'ho presa io?» Ora era Terry ad avere l'aria imbarazzata. Gli occhi guizzarono, come se stesse pensando velocemente, cercando di trovare qualcosa. Poi ridivenne calmo. «Te ne sei andata» disse. «Che cosa intendi?» «Non è che tu non l'abbia minacciato un milione di volte. E non guardarmi come se fosse colpa mia.» «Non ti sto guardando in nessun modo.» Socchiuse gli occhi. «Davvero non ti ricordi?» «Nulla.» Si accese un'altra sigaretta. «Abbiamo litigato» disse. «Per che cosa?» «Non mi ricordo. Perché si litiga? Per qualcosa di stupido. Forse è stata l'ultima goccia.» «Che luogo comune.» «Eccoti. Forse ho usato un luogo comune che ti ha offesa oppure ho preso il cucchiaio sbagliato. Abbiamo litigato. Tu hai detto che ne avevi abbastanza. Ho pensato che stessi scherzando e, be', sono uscito. Ma quando sono ritornato stavi raccogliendo la tua roba. Quasi tutta, almeno. Hai preso quello che riuscivi a mettere in macchina e poi te ne sei andata.» «È vero?» «Guardati intorno, Abbie. Chi altri vorrebbe il tuo stereo se non tu?» «Allora stai dicendo che è stata una delle nostre litigate.» «Una delle nostre peggiori litigate.» Mi sentivo triste e infreddolita. Non sembravano più esserci ragioni per nascondere nulla ora. «Mi sono dimenticata un mucchio di cose» dissi. «Ma ricordo che i nostri litigi più accesi finivano con te che mi picchiavi.» «Non è vero.» «Mi hai picchiata?» «No» disse Terry. Ma l'espressione sul suo viso era imbarazzata e difen-
siva allo stesso tempo. «Sai, questa è stata una delle ragioni per cui la polizia non mi ha creduto. Sono una vittima. Ho dei precedenti. Sono una donna che è stata picchiata. Avevo chiamato la polizia già una volta. Ti ricordi di quella sera? Magari l'hai dimenticata. Avevi bevuto e c'è stata una specie di lite. Non so per quale motivo. È stato quando ti avevo lavato una camicia che volevi metterti ed era ancora bagnata? E ti ho detto che se era un problema, te la saresti dovuta lavare tu la prossima volta? Era quella volta? O una di quelle in cui dicevi che ti avevo rovinato la vita quando mi ero messa con te? Ce ne sono state tante di quelle. È difficile distinguerle. Ma è finita con te che prendevi il coltello della cucina e io che chiamavo la polizia.» «No, non me lo ricordo» disse Terry. «Stai esagerando.» «No, non sto esagerando. Non me lo sto inventando. Sto dicendo quel che succede quando ti ubriachi. Prima diventi allegro, poi aggressivamente allegro, poi sentimentale e cominci ad autocommiserarti, e alla fine diventi furioso. E se sono in giro, ti sfoghi contro di me. Ma non starò a elencare le cose che ti ho visto fare quando sei ubriaco, come se fossi una di quelle donne vendicative. Comunque per qualche ragione che non sono mai riuscita a capire, alla fine ti smonti. E per un'altra ragione che non sono mai riuscita ad approfondire, io ti credo quando ti metti a piangere e dici che non succederà mai più.» Terry spense la sigaretta e ne accese un'altra. Era la quarta o la quinta? «Abbie, questa è un'imitazione maledettamente fedele della litigata che abbiamo fatto.» «Allora, vorrei ricordarmela, perché mi piace la donna che si è fatta forza e se ne è andata.» «Sì» disse Terry con un tono improvvisamente stanco quasi quanto il mio. «Anche a me piaceva. Sai, mi dispiace non esserti venuto a trovare in ospedale. Stavo per farlo quando me l'hanno detto, ma ho avuto degli impicci e poi improvvisamente ti ho trovata nel mio bagno.» «Va bene, ma dove sono le mie cose?» «Non lo so.» «Che cosa vuoi dire?» «Mi hai lasciato, ricordi?» «Quando ti ho lasciato?» «Quando?» «Che giorno?» «Ehm... Sabato.»
«Che sabato?» Mi lanciò un'occhiata, come se sospettasse che si trattasse di un complicato rompicapo. «Sabato 12 gennaio. Intorno a mezzogiorno» aggiunse. «Ma è sedici giorni fa! Non me lo ricordo.» Di nuovo fui vicina alle lacrime. «Non ho lasciato un indirizzo?» «Sei andata a stare da Sadie, penso. Ma solo per una notte.» «E dopo di allora?» «Non ho idea.» «Oh, mio Dio» dissi e mi presi la testa tra le mani. «Allora dove vado adesso?» «Puoi rimanere qui per un po', se vuoi. Non ci sono problemi. Solo finché non ti rimetti in sesto. Potremmo riparlare di tante cose... No?» Guardai Terry avvolto nella sua nuvola di fumo di sigaretta. E pensai a quella donna, la donna che non ricordavo - io - che aveva preso la decisione di andarsene sedici giorni prima. «No» risposi. «No. Devo meditare su molte cose. Cose di vario genere.» Mi guardai intorno. Non si dice che quando si lascia qualcosa da qualche parte, significa che si vuole tornare? Per una ragione simile, sentii di dover portar via qualcosa. Una cosa qualsiasi. C'era un piccolo mappamondo sul caminetto. Me l'aveva regalato Terry nell'unico mio compleanno che avevamo passato insieme. Lo presi. Lui assunse un'aria beffarda. «È mio» dissi. «Me l'hai regalato. Era per il mio compleanno.» Andai verso la porta e poi mi ricordai di una cosa. «Scusa, Terry, non ho la borsa. Non ho nulla. Non potresti prestarmi dei soldi? Dieci sterline. Venti. Quello che vuoi.» Con un grosso sospiro, Terry si alzò e andò alla sua giacca, posata sullo schienale del divano. Rovistò nel portafogli. «Te ne posso dare quindici. Scusa, ma il resto mi serve stasera.» «Va bene.» Contò il denaro come se stesse pagando il conto del giornale. Una banconota da dieci sterline, tre monete da una sterlina e poi una massa di argento e di rame. Presi tutto. Capitolo 3 Spesi due sterline e ottanta in metropolitana e misi una moneta da venti pence nella custodia aperta del violino di un suonatore che stava ai piedi delle scale mobili e intonava Yesterday, cercando di catturare lo sguardo
delle persone che gli scorrevano davanti ritornando a casa dal lavoro. Spesi altre cinque sterline in una bottiglia di vino rosso quando arrivai a Kennington. Ora mi rimanevano solo sette sterline, che avevo ficcato nella tasca posteriore. Continuavo a toccarmela per essere sicura che ci fossero ancora, una banconota piegata e cinque monete. Avevo un sacchetto di plastica con i vestiti che non riconoscevo con cui ero stata trovata sei giorni fa; solo sei giorni fa. E avevo un mappamondo. Camminando a fatica lungo la strada, la testa abbassata contro il vento e il naso rosso, mi sentii pericolosamente leggera. Senza tutte le cose consuete della vita precedente, mi sembrava di non aver peso, di poter essere spazzata via come una piuma. Per un momento mi abbandonai a questo sogno; camminavo per la strada fredda con una bottiglia di vino per andare a trovare una cara amica. Ma, in verità, continuavo a guardarmi attorno per vedere chi mi camminasse accanto e dietro. Perché non avevo mai notato com'erano strane le persone, specialmente d'inverno quando erano tutte intabarrate e abbottonate? Le mie vecchie scarpe continuavano a scivolare sul ghiaccio. A un certo punto un uomo allungò una mano per sorreggermi, mentre attraversavamo la strada. Io ritrassi il braccio e lui mi guardò sorpreso. «Per favore, sii in casa, sii in casa» dissi tra me e me mentre premevo il campanello dell'appartamento seminterrato di Sadie e aspettavo. Avrei dovuto telefonare prima. E se fosse stata fuori, o via? Ma non era mai fuori a quell'ora. Pippi, la sua bambina, aveva solo sei o sette settimane e Sadie era entusiasticamente relegata in casa. Suonai di nuovo. «Sto arrivando!» esclamò una voce. Vidi la sua silhouette delinearsi attraverso il vetro smerigliato. «Chi è?» «Sono io, Abbie.» «Abbie! Pensavo fossi ancora all'ospedale. Aspetta un momento.» La udii imprecare mentre trafficava con la serratura, poi la porta si spalancò e lei comparve con Pippi in braccio, avvolta in spessi asciugamani. Si vedeva solo una striscia del faccino rosa grinzoso. «Le stavo facendo il bagno» cominciò, poi si interruppe. «Gesù! Guardati!» «Avrei dovuto telefonare prima. Solo... scusa, avevo bisogno di vederti.» «Gesù!» esclamò di nuovo, indietreggiando per farmi entrare. Un calore agrodolce mi colpì quando Sadie chiuse la porta dietro di noi. Senape e borotalco e latte e vomito e sapone. Chiusi gli occhi e feci un profondo respiro.
«Che beatitudine» dissi e avvicinai la faccia a Pippi. «Ciao, bella, ti ricordi di me?» La bambina aprì la bocca e le vidi il canale rosa e pulito della gola fino alle tonsille. Emise solo un gridolino. «No? Be', non mi stupisce. Nemmeno io sono sicura di ricordarmi di me.» «Che diavolo ti è successo?» mi chiese Sadie. Tirò a sé Pippi con maggior fermezza e la dondolò leggermente, in quel modo istintivo che sembra sia una prerogativa di tutte le madri. «Guardati...» «Lo so. Terribile.» Misi il mappamondo sul tavolo di cucina. «Questo è per Pippi.» «Che cosa ti posso offrire? Su, siediti. Sposta quei vestitini.» «Posso avere un biscotto o un pezzetto di pane o qualcosa? Mi sento un po' traballante.» «Certo. Dio, che cosa ti è successo?» Pippi cominciò a piagnucolare e Sadie la sollevò più in alto e se la appoggiò sotto il mento. «Sssh, va bene ora» canticchiò con la nuova voce cantilenante, che nessuno di noi aveva udito prima che Pippi nascesse. «Su, su, piccolina mia.» «Devi occuparti di lei. Ti sono piombata in casa nel momento sbagliato.» «Vuole mangiare.» «Vai. Posso aspettare.» «Sei sicura? Sai dove sono le cose. Prepara un tè per tutte e due. Ci sono dei biscotti da qualche parte. Guarda tu.» «Ho portato del vino.» «Veramente non dovrei, la allatto al seno.» «Ne berrai solo un bicchiere e io finirò il resto.» «Vado a cambiarla e poi la allatto qui. Voglio sapere tutto. Dio, sei così magra. Ma quanti chili hai perso?» «Sadie?» «Sì?» Si voltò sulla soglia. «Posso rimanere?» «Rimanere?» «Solo per un po'.» «Certo. Anche se mi stupisco che tu voglia, davvero. C'è solo il divano, bada, e le molle sono scassate e sai che Pippi si sveglia la notte.» «Non importa.» «L'hai detto anche l'altra volta, prima di provarci.» «L'altra volta?» «Già.» Fece una faccia strana.
«Non mi ricordo.» «Che cosa?» «Non mi ricordo» ripetei. Mi sentivo così stanca che pensai di svenire. «Senti, mettiti comoda» disse Sadie. «Io ritorno subito. Cinque minuti, al massimo.» Aprii la bottiglia di vino e riempii due bicchieri. Bevvi un sorso dal mio e mi venne subito il capogiro. Dovevo mangiare qualcosa. Andai a rovistare nella credenza e trovai un sacchetto di patatine condite con sale e aceto, che mangiai in piedi, ficcandomele in bocca a manciate. Bevvi un altro cauto sorso di vino, poi ritornai a sedermi sul divano. La testa mi pulsava, gli occhi mi bruciavano per la fatica e la ferita mi pizzicava. Mi sentivo così meravigliosamente al caldo e al sicuro lì, in quel seminterrato, con i vestitini da bebè sui termosifoni e un grosso vaso di crisantemi arancione scuro sul tavolo, come una fiammata. «Okay?» Sadie era di ritorno. Si sedette vicino a me, si sbottonò la camicetta e si sfilò il reggiseno. Si portò Pippi al seno, poi sospirò e si distese. «Raccontami, allora. È stato quel maledetto Terry, vero? La tua povera faccia! È ancora piena di lividi. Non saresti dovuta tornare da lui. Pensavo fossi andata a fare una vacanza.» «Vacanza?» ripetei. «Hai detto che volevi prenderti una vacanza.» «Non ci sono state vacanze.» «Che cos'ha fatto questa volta?» «Chi?» «Terry.» Mi diede una sbirciata. «Va tutto bene?» «Perché dici che è stato Terry?» «È ovvio. Soprattutto dopo quel che è successo l'ultima volta. Oh, Abbie.» «Che cosa vuoi dire con "l'ultima volta"?» «Quando ti ha picchiata.» «Allora mi ha picchiata.» «Sì. Forte. Abbie? Devi ricordartelo.» «Dimmelo comunque.» Mi guardò perplessa, chiedendosi se si trattasse di una specie di scherzo. «È strano. Avete litigato, lui ti ha picchiata, tu l'hai lasciato e sei venuta qui. Hai detto che era finita per sempre questa volta. Eri molto decisa. Quasi eccitata, davvero. Felice, anche. Allora sei tornata indietro?» «No» scossi il capo. «Almeno, non lo so. Ma non è stato lui.»
«Non capisco.» Mi guardò fisso, aggrottata, poi si volse di nuovo a Pippi. «Sono stata colpita in testa» spiegai. «Ora non mi ricordo più niente. Non mi ricordo di aver lasciato Terry, né di essere venuta qui, niente, insomma.» Fece una specie di fischio tra i denti. Non riuscii a capire se era di shock o di incredulità. «Vuoi dire che hai avuto una commozione cerebrale o qualcosa del genere?» «Qualcosa del genere.» «E che davvero non ti ricordi più di nulla?» «Davvero.» «Non ti ricordi di aver lasciato Terry?» «No.» «Né di essere venuta qui?» «No.» «E poi di esserti trasferita altrove?» «Mi sono trasferita altrove? Suppongo di sì, visto che qui non c'è nulla di mio, no? Ma dove sono andata?» «Davvero non te lo ricordi?» «No.» Ero stanca di ripeterlo. «Sei andata da Sheila e Guy.» «Allora sono andata da loro la domenica?» «Suppongo di sì. Sì, dev'essere stato così. In questo momento i giorni della settimana per me sono tutti uguali.» «E non mi hai più vista, da allora?» «No. Pensavo fossi via.» «Oh, davvero?» «Abbie, raccontami che cosa è successo. Tutta la storia.» Tutta la storia. Bevvi un sorso di vino e la guardai, mentre sussurrava parole affettuose alla sua bambina. Avevo un gran bisogno di parlare con qualcuno, di sfogarmi, di raccontare tutto quello che era successo: il terrore al buio, la vergogna, l'orribile, estrema solitudine, la sensazione di essere morta. Avevo bisogno di raccontare della polizia e del modo in cui avevano preso tutte quelle emozioni e me le avevano rivolte contro; e avevo bisogno di una persona che avesse una fede in me solida come la roccia. Altrimenti... Scolai il vino nel mio bicchiere e me ne versai dell'altro. Se non Sadie, allora chi? Era la mia migliore amica, la più vecchia. Ero stata io la persona a cui si era rivolta quando Bob l'aveva piantata, incinta di otto me-
si. Se Sadie non mi avesse creduto, chi l'avrebbe fatto? Trassi un profondo respiro. Raccontai tutto a Sadie. La pedana, il cappio, il cappuccio, il secchio, la risata sibilante nel buio. La consapevolezza di dover morire. Mi ascoltò senza interrompermi, anche se di tanto in tanto emetteva dei piccoli suoni di stupore o delle esclamazioni. Non piansi. Avevo immaginato che avrei pianto e che lei mi avrebbe abbracciato e mi avrebbe accarezzato i capelli, come faceva con Pippi. Ma mi sentivo distaccata, e raccontai la storia con calma, fino al momento presente. «Non sto diventando matta, vero?» finii. «Non ti hanno creduto! Come hanno fatto a non crederti? Che bastardi!» «Hanno pensato che fossi in uno stato di vulnerabilità e che stessi fantasticando.» «Ma come si fa a inventare una cosa del genere? E perché poi avresti dovuto, per l'amor del Cielo?» «Non lo so. Per fuggire, per attirare l'attenzione. Una cosa qualsiasi.» «Ma perché? Perché non ti hanno creduto?» insistette. «Perché non ci sono prove» dissi seccamente. «Nessuna?» «No, neanche un brandello.» «Oh.» Rimanemmo in silenzio per qualche secondo. «Allora, che cosa diavolo farai adesso?» «Non lo so. Non so da dove cominciare, Sadie. Voglio dire, letteralmente non so che cosa fare. Quando mi alzerò, domani mattina, non ho idea di dove dovrei andare, chi dovrei vedere, neppure chi dovrei essere. È come se dovessi ripartire da zero. Da un vuoto. Non posso dirti quanto mi sembri strano. È orribile. È come un esperimento progettato per farmi impazzire.» «Sarai furiosa con loro.» «Già.» «E spaventata.» «Giusto.» La stanza calda improvvisamente mi sembrò raffreddarsi. «Perché...» disse Sadie, seguendo i suoi pensieri «perché se ciò che dici è vero, allora lui è ancora là fuori. Ti potrebbe ancora dare la caccia.» «Sì» convenni. «Esattamente.» Ma l'avevamo entrambe sentito dire. Se. Se quel che avevo detto era vero, se non avevo inventato tutta la storia. La guardai e lei abbassò gli occhi e cominciò a parlare a Pippi con la vocina, anche se la bambina si era addormentata, il capo piegato all'indietro come un ubriacone, la piccola bocca semiaperta e una bolla di latte sul labbro superiore.
«Che cosa ti andrebbe per cena?» chiese. «Devi avere una gran fame.» Non volevo lasciar cadere la cosa. «Non sai se credermi o no, vero?» «Non essere ridicola, Abbie. Certo che ti credo. Al cento per cento.» «Grazie.» Ma sapevo, e lei sapeva che sapevo, che nutriva dei dubbi. Dei dubbi erano stati piantati e sarebbero cresciuti e fioriti. E chi poteva darle torto? Era la mia storia isterica, gotica, contro la ragionevolezza, il buon senso di tutti gli altri. Se fossi stata in lei, avrei dubitato anch'io. Preparai la cena mentre Sadie metteva a letto sua figlia. Panini con la pancetta, spesse fette di pane bianco che avevo prima passato nel grasso, salate e appetitose, e grosse tazze di tè. A casa di Sadie avrei dovuto sentirmi al riparo da quel che mi era successo e che mi sarebbe ancora potuto succedere, ma quella notte, sul divano bozzoluto, dormii in modo intermittente e parecchie volte fui svegliata di soprassalto da sogni di fughe, ostacoli, cadute, con il cuore in gola e il sudore che mi colava dalla fronte. Anche Pippi si svegliò spesso, con urla rabbiose. Le pareti dell'appartamento erano sottili ed era come se fossimo nella stessa stanza. La mattina me ne sarei andata. Non sarei riuscita a passare un'altra notte lì. «È quel che hai detto la volta scorsa» commentò Sadie allegramente, quando glielo dissi alle sei del mattino. Sembrava incredibilmente fresca. Aveva il volto roseo sotto la massa arruffata dei soffici capelli castani. «Non so come fai. Io ho bisogno di almeno otto ore di sonno, preferibilmente dieci, dodici la domenica. Andrò da Sheila e Guy; loro hanno posto. Finché non capirò che cosa fare.» «E hai detto anche questo.» «Allora dev'essere una buona idea.» Mi avviai verso la casa di Sheila e Guy all'alba. Aveva nevicato ancora nella notte e tutto, perfino i bidoni della spazzatura e le macchine incendiate, era bello in un modo spettrale alla tenue luce. Andai a piedi, e lungo la via mi fermai da un panettiere a comprare tre croissant come offerta di pace, così rimasi con solo cinque sterline e venti. Dopo avrei telefonato alla banca. Qual era il mio numero di conto corrente? Ebbi un momento di panico pensando che non sarei riuscita a ricordarmelo, e che molte altre parti della mia vita stessero pian piano scomparendo, come se ci fosse un cursore che cancellava a caso informazioni dal mio cervello. Non erano ancora le sette quando bussai alla loro porta. Le tende al piano di sopra erano tutte chiuse. Lasciai passare qualche momento, poi bussai di nuovo, più a lungo e più forte. Mi allontanai di qualche passo dalla
porta e guardai in su. Una tenda si scostò un poco. Un viso e delle spalle nude apparvero alla finestra. Sheila, Sadie e io ci conosciamo da più della metà della nostra vita. Eravamo un gruppetto piuttosto litigioso a scuola, che si rompeva e si ricomponeva in continuazione. Ma abbiamo percorso gli anni dell'adolescenza insieme: esami, mestruazioni, ragazzi, speranze. Ora Sadie aveva una bambina e Sheila un marito, e io... be', non sembrava avessi molto al momento, a parte una storia da raccontare. Feci un cenno frenetico con la mano e sul viso di Sheila l'espressione di cupo malumore si trasformò in sorpresa e preoccupazione. Scomparve e qualche momento dopo ricomparve alla porta avvolta in un voluminoso accappatoio bianco, i capelli neri aggrovigliati intorno al volto assonnato. Le misi il sacchetto dei croissant in mano. «Scusa» dissi. «Era troppo presto per telefonare. Posso entrare?» «Sembri un fantasma» osservò. «Che cosa è successo alla tua faccia?» Questa volta raccontai una versione ridotta della storia, solo i fatti principali. Fui vaga sulla polizia. Sheila e Guy erano palesemente confusi, ma mi diedero tutto il loro sostegno con mille effusioni e profferte di caffè, un bagno, una doccia, soldi, vestiti, l'uso del telefono, della macchina, della camera da letto per gli ospiti per tutto il tempo che mi pareva. «Andremo al lavoro, naturalmente. Ma tu fa' come se fossi a casa tua.» «Ho lasciato qui qualcuna delle mie cose?» «Qui? No. O forse troverai qualcosina in giro.» «Allora quanto sono stata da voi? Solo una notte?» «No. Be', forse, mi pare.» «Cosa vuoi dire con "forse", "mi pare"?» «Sei stata qui domenica e lunedì non sei più ritornata. Hai chiamato per dire che saresti stata da un'altra parte. E poi sei venuta a prendere le tue cose martedì. Ci hai lasciato un biglietto. E due bottiglie di vino molto care.» «Allora, dove sono andata dopo?» Non lo sapevano. Tutto quel che mi dissero fu che ero piuttosto eccitata, li avevo tenuti svegli fino quasi all'alba di lunedì, a parlare e a bere e a fare dei bei progetti per il resto della mia vita, e poi me ne ero andata il giorno successivo. Si scambiarono uno sguardo di sfuggita mentre mi dicevano questo e io mi chiesi che cosa mi stessero tacendo. Mi ero comportata male, avevo vomitato sul tappeto? A un certo punto andai in cucina, proprio mentre si stavano preparando per uscire. Stavano parlando con urgenza a voce bassa, le teste vicine, e quando mi videro si interruppero e mi sorrise-
ro e finsero di stare semplicemente programmando la serata. Anche loro, pensai, e distolsi lo sguardo come se non avessi notato niente. Sarebbe stato così, soprattutto dopo che Sheila e Guy avrebbero parlato con Sadie, e poi con Robin, e poi con Carla e Joey e Sam. Me li immaginai a telefonarsi. Hai sentito? Non è terribile? Che cosa pensi, voglio dire, che cosa pensi veramente, in confidenza? Il problema è che l'amicizia è tutta basata sul tatto. Meglio non sapere che cosa gli amici dicono di noi agli altri amici o ai partner. Meglio non sapere che cosa pensano veramente o quanto siano leali. Bisogna fare molta attenzione prima di metterli alla prova. Quel che scopriremmo, potrebbe non piacerci. Capitolo 4 Non ebbi imbarazzi. Ero ridotta a cinque sterline e dovetti chiedere soldi in prestito a Sheila e Guy. Furono molto carini. Naturalmente, essere «molto carini» volle dire un gran numero di sbuffate e di ricerche in borse e borsellini e di scuse perché non potevano andare in banca se non più tardi. Dapprima fui tentata di dire che non importava e che mi sarei arrangiata anche senza soldi, ma importava e non sarei riuscita ad arrangiarmi senza soldi. Così mi furono fatte cadere nelle mani aperte cinquantadue sterline in banconote assortite e monete. Poi presi in prestito un paio di mutande da Sheila e una maglietta e gettai le mie nel cestino della biancheria sporca. Sheila mi domandò se mi occorresse nient'altro e io le chiesi se avesse un maglione vecchio da prestarmi per un giorno o due. Disse «Certo», e me ne portò uno molto carino che non sembrava affatto vecchio. Sheila era parecchio più grossa di me, soprattutto adesso, ma arrotolai le maniche e non mi parve di essere troppo ridicola. Nonostante ciò, non riuscì a fare una faccia davvero convinta. «Mi dispiace» disse. «Stai bene, ma...» «Sembro una che se la sta passando male.» «No, no» insistette. «Sono abituata a vederti, non so, più grande forse.» Quando uscirono per andare al lavoro, mi parve che fossero leggermente preoccupati all'idea di lasciarmi da sola in casa loro. Non so se pensassero che avrei razziato la scorta di liquori o il frigo o che avrei fatto telefonate internazionali. In realtà presi d'assalto solo l'armadietto dei medicinali in cerca di aspirine e feci quattro telefonate, tutte locali. Chiamai un taxi perché non avevo alcuna intenzione di andare in giro per le strade da sola.
Chiamai Robin al lavoro. Mi disse che non mi poteva incontrare per pranzo. Le risposi che doveva. Mi spiegò che aveva già un appuntamento. Le dissi che mi spiaceva, ma doveva cancellarlo. Ci fu una pausa e rispose «D'accordo» con un sospiro. Stavo chiedendo favori a non finire. Chiamai Carla e le chiesi di incontrarci e prendere un caffè nel pomeriggio. Chiamai Sam e ci mettemmo d'accordo per un altro caffè, quarantacinque minuti dopo il pranzo con Robin. Non mi chiese perché. Né me lo chiese Carla. Era preoccupante. Dovevano sapere qualcosa. Che cosa aveva raccontato loro Sadie? Sapevo quel che si provava. Anch'io avevo sperimentato l'eccitazione di avere un pettegolezzo succulento da raccontare ed ero andata in giro a diffonderlo come un'untrice. Me lo potevo immaginare. Ehi, ascoltate, avete saputo che cos'è successo ad Abbie? O forse una cosa più semplice. Ehi, voi, sapete che Abbie è impazzita? E, a proposito, vi chiederà tutti gli spiccioli. Guardai fuori dalla finestra finché non vidi arrivare il taxi. Cercai la borsa, poi mi ricordai che non l'avevo. Non avevo niente se non la piccola somma di Sadie e quella più consistente di Sheila e di Guy infilate nelle tasche. Dissi al tassista di portarmi alla fermata della metropolitana di Kennington. Il tassista non fu proprio entusiasta. E fu anche stupito. Era probabilmente la prima volta nella sua carriera che portava un passeggero a una fermata di metropolitana a poche strade di distanza. Mi costò tre sterline e mezzo. Presi il treno per Euston, attraversai la banchina e presi la Victoria Line. Uscii a Oxford Circus e andai alla banchina della Bakerloo Line. Lanciai un'occhiata alla piantina. Bene, quella linea metropolitana portava in posti lontani che non avevo mai sentito nominare. Arrivò un treno e ci salii sopra. Poi, quando le porte cominciarono a chiudersi, scesi. Il treno partì e per un secondo o due, finché non arrivarono altre persone, fui sola. Chiunque, guardandomi, avrebbe pensato che fossi lunatica. Ovviamente sapevo che non c'era nessuno che mi seguiva. Nessuno poteva seguirmi. Ma ora ne ero proprio sicura e ciò mi fece stare meglio. Un po' meglio. Andai alla Central Line e presi il treno per Tottenham Court Road. Mi recai presso una filiale della mia banca. Spingendo le porte per entrare, provai una grande stanchezza. Tutte le cose semplici erano diventate difficili. I vestiti. I soldi. Mi sentii una specie di Robinson Crusoe. E la cosa peggiore era che dovevo raccontare a quasi tutti coloro che incontravo una qualche versione della mia storia. All'impiegata dietro il computer feci un resoconto molto abbreviato e lei mi mandò dalla «personal banker»,
una donna corpulenta con una giacca turchese dai bottoni d'ottone, seduta a una scrivania in un angolo. Aspettai un po', mentre apriva un conto corrente a un cliente che a quanto pareva non parlava l'inglese. Quando questi se ne andò, si rivolse a me con un'espressione di sollievo. Non sapeva ciò che l'aspettava. Le spiegai che volevo ritirare del denaro dal mio conto corrente, ma che ero stata vittima di un atto di violenza e non avevo né il libretto degli assegni, né la carta di credito. Nessun problema, rispose. Una qualsiasi forma di identificazione sarebbe stata sufficiente. Feci un profondo respiro. Non avevo alcuna forma di identificazione. Non avevo niente. Mi parve perplessa. Quasi spaventata. «Allora mi dispiace...» cominciò. «Ma ci deve essere un modo per arrivare ai miei soldi» insistetti. «E devo cancellare le mie vecchie carte e farne di nuove. Firmerò tutto quello che vorrà, le darò qualsiasi informazione riterrà necessaria.» Sembrava ancora dubbiosa. Più che dubbiosa. Sembrava quasi paralizzata. Poi mi ricordai di Cross. Di tutte le persone che mi avevano ributtata nel mondo, Cross era sembrata la più dispiaciuta. Aveva mormorato qualcosa riguardo al fatto che se avessi avuto bisogno di aiuto avrei potuto contare su di lui. «C'è un poliziotto» dissi. «Si è occupato del mio caso. Può verificare con lui.» Le scrissi il numero e immediatamente fui assalita dalla preoccupazione. Se Cross avesse spiegato troppo la situazione mi sarei trovata probabilmente in guai peggiori. L'impiegata guardò accigliata il numero e disse che avrebbe dovuto parlare con il vice direttore della filiale. Questi era un uomo leggermente calvo, vestito elegantemente di grigio e anche lui sembrò preoccupato. Pensai che sarebbero stati contenti se fossi uscita imprecando, ma non cedetti. Dovevano lasciarmi riprendere possesso della mia vita. Ci volle molto tempo. Ci furono telefonate. Mi fecero mille domande sulla mia vita, il conto, le bollette pagate di recente, mi chiesero il cognome da nubile di mia madre. Firmai una pila di fogli e la donna continuava a scrivere al computer sulla sua scrivania. Alla fine, con palese riluttanza, mi diedero duecento sterline e mi dissero che mi avrebbero mandato delle nuove carte di credito e un libretto degli assegni entro due giorni lavorativi, forse uno, se fossi stata molto fortunata. Improvvisamente mi resi conto che li avrebbero inviati all'appartamento di Terry. Stavo per dir loro di spedirli da un'altra parte, ma temetti che se avessi detto di aver cambiato anche indirizzo, mi avrebbero buttata in strada. Così mi allontanai con il ro-
tolo di banconote ficcato in due delle tasche dei pantaloni e sentendomi come se stessi uscendo da un'agenzia di scommesse. Robin mi abbracciò forte non appena mi vide. Forse era preoccupata, e certamente era cauta. Potevo capire il perché. Sembravamo creature di una specie differente. Lei era bella, scura di pelle, curata, elegante. Io ero quella che ero, cioè una persona che non aveva un posto in cui vivere e che non doveva andare da nessuna parte con particolare urgenza. Ci incontrammo fuori dall'agenzia di viaggi dove lavorava. Non aveva prenotato da nessuna parte per pranzo. Le dissi che non importava. In effetti era così. Andammo in un bar italiano dove facevano panini e ci sedemmo a un banco. Io ordinai una tazza grande di caffè e un panino che sembrava un'intera salumeria in mezzo a due fette di pane. Avevo una fame da lupi. Lei prese solo un caffè. Cominciò a pagare e io non la fermai. Per il momento dovevo stare attenta ai soldi. Non sapevo che cosa avrei dovuto comprare nell'esistenza randagia che stavo conducendo. «Sadie mi ha chiamata» disse. «Bene» bofonchiai con la bocca piena. «Non ci posso credere. Siamo scioccate. Se posso fare qualcosa, qualsiasi cosa...» «Che cosa ti ha detto Sadie?» «Solo le cose essenziali.» E poi Robin mi diede una versione della mia storia. Fu un sollievo sentirla, invece di raccontarla. «Vedi qualcuno?» chiese, quando ebbe finito. «Vuoi dire un uomo?» «Voglio dire un medico.» «Sono stata in ospedale.» «Ma Sadie mi ha detto che sei stata ferita alla testa.» Avevo di nuovo la bocca piena e rimasi qualche momento in silenzio mentre masticavo e inghiottivo. «È parte delle cose di cui ti volevo parlare, Robin. Come ha detto Sadie, ho avuto questa commozione cerebrale, e quello era il problema con i medici e la polizia. Così una delle cose che sto cercando di fare è ricostruire ciò che è accaduto nell'arco di tempo di cui ho questo vuoto di memoria. Per esempio, e mi sento un po' imbarazzata anche a parlarne con te, non mi ricordavo di aver lasciato Terry. È stupido, no? Sono riuscita a prendere una delle decisioni migliori della mia vita, e poi me ne sono dimenticata.
Così, in linea generale, se fossi una poliziotta e indagassi sulla mia scomparsa e ti chiedessi: "Quando hai visto Abbie Devereaux per l'ultima volta?", che cosa risponderesti?» «Che cosa?» «Quando cavolo mi hai vista l'ultima volta, Robin? Non è una domanda tanto difficile.» «No, è vero.» Rifletté un momento. «Sapevo che avevi lasciato Terry. Ci siamo incontrate il giorno successivo. Domenica, nella tarda mattinata.» «Aspetta, domenica 13 gennaio?» «Esatto. Siamo andate a fare spese a Kensington. Dovresti ricordartelo.» «Buio totale. Che cosa ho comprato?» Mi guardò sbalordita. «Fai sul serio? Be', io ho comprato delle scarpe fantastiche. Erano state messe a trentacinque sterline dalle assurde centosessanta che costavano prima.» «Ma... e io?» Robin sorrise. «Ora mi ricordo. Avevamo parlato al telefono la sera prima. Eri un po' maniaca allora. Ma quella mattina eri carina. Molto carina. Come non ti vedevo da secoli. Hai detto che ti sentivi molto ottimista e che ti saresti equipaggiata per la nuova vita. Ti sei comprata un vestito marrone corto, molto bello. Di velluto. Delle calze e degli slip. Delle scarpe che stessero bene con il vestito. E un cappotto spettacolare. Lungo, blu scuro. L'hai pagato una fortuna. Era bello, però. Denaro ben speso. Ridacchiavi per aver speso tanti soldi subito dopo aver lasciato il lavoro.» «Oh, mio Dio! Non dirmi che ho lasciato anche il lavoro!» «Sì. Non lo sapevi? Non apparivi preoccupata, però.» «Allora non ho più un lavoro?» Avevo la sensazione che mi si aprisse il terreno sotto i piedi. Il mondo mi sembrava di nuovo cambiato. Più grigio, più freddo. «Abbie?» Robin aveva un'aria preoccupata. Cercai qualcosa da dire. «Quando è stata l'ultima volta che mi hai vista?» «Abbiamo pranzato e abbiamo deciso di incontrarci per un drink. Mi pare dovesse essere giovedì sera. Ma il giorno prima mi hai chiamata per cancellare l'appuntamento.» «Perché? «Hai detto che era successo qualcosa. Ti sei scusata un sacco.» «Qualcosa di bello? Ti sono sembrata turbata?»
«Sembravi un po'... eccitata, forse. È stata una telefonata molto breve.» «E questo è tutto?» «Sì.» Robin mi guardò, mentre finivo il panino. «Non potrebbe essere tutto una specie di equivoco?» «Vuoi dire essere rapita e tenuta prigioniera da un uomo che minaccia di uccidermi e che ha ammazzato altre donne? Vuoi dire tutto questo?» «Non so.» «Robin» dissi lentamente. «Sei una delle mie più vecchie amiche e voglio che tu sia onesta con me. Mi credi?» A quel punto Robin mi prese la testa tra le dita sottili, mi baciò sulle guance, poi mi spinse indietro e mi guardò. «Il fatto è che» disse «se è vero, e sono sicura che lo sia, non riesco a sopportare l'idea.» «Provaci, allora.» L'incontro con Carla consistette in abbracci e lacrime e assicurazioni di amicizia, ma si riassunse nel fatto che in quei giorni lei era stata via e tutto ciò che poteva dirmi era che avevo lasciato un messaggio sulla sua segreteria telefonica chiedendole di contattarmi e quando mi aveva richiamato, aveva lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica di Terry; questo era tutto. Sam è un altro dei miei più vecchi amici e faccio fatica a credere che il ragazzo che ricordo con una sigaretta di marijuana in mano alle feste di Londra sud sia ora un avvocato che porta completi e cravatta e che deve fare la parte dell'adulto dalle nove alle cinque dei giorni feriali. E tuttavia, al medesimo tempo, ho cominciato a intravedere che cosa quel ventiseienne belloccio e alla moda sarà diventato a quarant'anni. «Sì, ci siamo incontrati» disse. «Abbiamo bevuto qualcosa insieme domenica sera.» Sorrise. «Mi secca un po' che non te lo ricordi. Stavi da Sheila e Guy. Hai parlato di Terry. Ma non tanto quanto mi sarei aspettato. Pensavo che volessi incontrarmi per sfogarti contro quell'ingrato bastardo. Voglio dire, ingrato perché viveva con te. Ma sembravi soprattutto eccitata.» Oh, sì. Mi ricordavo. Non mi ricordavo dell'incontro, ma in un certo senso sapevo che cosa doveva essere successo. Sam e io siamo sempre stati amici, ma non siamo mai usciti insieme. A volte mi chiedevo se gli fosse dispiaciuto e forse aveva visto nella rottura con Terry una possibilità. Era un pensiero che anche a me aveva attraversato la mente. Ma evidentemente
la Abbie che aveva bevuto qualcosa con lui aveva bocciato quella possibilità. Era meglio averlo come amico. Bevvi un sorso dell'ennesimo caffè che avevo preso quel pomeriggio. Ero nervosa per la caffeina e per la stranezza di tutta la faccenda. Non avevo scoperto molto, ma forse era questo a essere interessante. Ora sapevo che avevo scelto di non passare i giorni prima che la tragedia accadesse con i miei più cari amici. Allora con chi li avevo passati? Che cosa avevo fatto? Chi ero stata? «Cosa hai intenzione di fare?» mi chiese Sam, nel suo stile forense. «Che cosa vuoi dire?» «Perché se quel che dici... Cioè, da quel che dici, lui dovrebbe essere fuori da qualche parte, e sa che tu sei fuori da qualche parte... allora che cosa intendi fare?» Bevvi un altro sorso di caffè. Era la domanda che il cervello mi stava urlando e che avevo cercato di ignorare. «Non lo so» dissi. «Nascondermi. Che altro?» Capitolo 5 Non avevo preso appuntamento e mi dissero che avrei dovuto aspettare almeno cinquanta minuti, ma non mi importava. Non dovevo essere da nessun'altra parte e lì faceva caldo. Ed era un posto sicuro. Mi sedetti su una poltrona accanto alla porta e presi a sfogliare le riviste patinate dell'anno passato. Penny, la donna che mi avrebbe tagliato i capelli, mi suggerì di cercare uno stile che mi piacesse, così esaminai le star del cinema e le cantanti e le celebrità ghignanti e cercai di immaginare la mia faccia sotto i loro capelli. Il problema era che avrei continuato a sembrare me stessa. Stava facendosi buio. Fuori dalla finestra vedevo la gente passare, avvolta in cappotti e sciarpe, infreddolita. Passavano anche macchine e camion, rombando e spruzzando neve fangosa. Dentro era ben illuminato e silenzioso, si sentiva solo il rumore delle forbici che tagliavano i capelli, della scopa che spazzava il pavimento, raccogliendo le ciocche in soffici pile, e il ronzio delle chiacchiere. C'erano sei clienti, tutte donne. Erano sedute diritte sulle sedie, avvolte in vestagliette nere, oppure piegate indietro sul lavandino, che si facevano fare lo shampoo e massaggiare i capelli con il balsamo. Sentivo odore di cocco, mela, camomilla. Chiusi gli occhi. Sarei potuta rimanere là tutto il giorno. «Ha deciso?»
«Corti» dissi, aprendo gli occhi di colpo. Penny mi condusse a un sedile davanti a un grosso specchio, si mise dietro di me e cominciò a passarmi le mani nei capelli con la testa piegata di lato in modo meditabondo. «È proprio sicura?» «Sì, molto corti. Non alla maschietta o cose del genere. Semplicemente corti. Non una cosa brutale, però.» «Magari un po' irregolari, sfrangiati. Un po' gonfi qui intorno, forse?» «Sì, mi sembra vada bene. Voglio anche tingermeli prima.» «Ci vorrà un'altra ora o più.» «Va bene. Che colore pensa mi si addica?» «I suoi capelli sono belli come sono.» «Voglio cambiare. Pensavo rossi. Di un rosso vivace.» «Rossi?» Mi sollevò i capelli lunghi e pallidi e se li lasciò cadere tra le dita. «Pensa che il rosso stia bene con la sua carnagione? Che ne dice di qualcosa di più morbido, una specie di caramello scuro forse, con dei colpi di sole?» «Sarebbero molto diversi da come sono?» «Oh, certamente.» Non avevo mai avuto capelli molto corti. Quando ero una ragazzina mi rifiutavo di farmeli tagliare. Volevo essere come la mia amica Chen, che riusciva a sedersi sui suoi capelli nero-blu. Li portava raccolti in un'unica treccia, legata in fondo con un nastro di velluto. Sollevai una mano e mi accarezzai la testa, lanciandomi un'ultima occhiata. «D'accordo» dissi. «Procediamo, prima che cambi idea.» «Tornerò quando avrà fatto la tinta.» Un'altra donna mi tinse i capelli. Prima mi applicò una pasta spessa e marrone che aveva uno spiacevole odore di sostanze chimiche e mi fece sedere sotto una lampada. Poi mise delle piccole quantità di un'altra pasta più chiara su alcune ciocche di capelli e le avvolse in pezzetti di carta d'alluminio. Sembrava che mi preparassero per il forno. Chiusi gli occhi. Non volevo vedere. Delle mani mi passarono nei capelli, acqua tiepida mi scorse sul cuoio capelluto. Sapevo di frutta, di umide foreste tropicali. Mi fu avvolto un asciugamano intorno alla testa come un turbante. Qualcuno mi mise davanti una tazza di caffè. Fuori ricominciava a nevicare. Chiusi gli occhi quando Penny cominciò a tagliare. Udivo le forbici scricchiolare e una ciocca di capelli mi scivolò lungo la guancia. Sentivo la nuca stranamente esposta, come pure i lobi delle orecchie. Penny mi
spruzzò dell'altra acqua sulla testa; tagliava con un ritmo costante, senza parlare se non per dirmi di sedermi in un modo o nell'altro; si piegò in avanti e soffiò via dei frammenti di capelli. Aprii gli occhi e vidi davanti a me un viso piccolo, pallido, nudo. Il naso e la bocca sembravano troppo grandi, il collo troppo sottile. Chiusi di nuovo gli occhi e cercai di pensare ad altro. Al cibo, per esempio. Dopo sarei andata a comprarmi un pasticcino in un posto che avevo visto lungo la strada, un pasticcino dolce e aromatico. Cannella e pera, forse. O una fetta di torta di carote. O forse una mela, una mela grossa, verde e aspra. «Che cosa ne pensa?» Mi costrinsi a guardare. Avevo gli occhi cerchiati e le labbra pallide e secche. Sollevai una mano e toccai le setole soffici che avevo sulla testa. «Bene» dissi. «Grande.» Penny mi mise uno specchio dietro. Da dietro sembravo un ragazzino. «Lei cosa ne dice?» le chiesi. Mi guardò con aria di ammirazione. «Molto punk.» «Proprio quello che volevo.» Mi passarono un pennello sul collo e sul viso, mi misero lo specchio in tutte le angolazioni possibili per farmi vedere ogni variazione del nuovo profilo, mi diedero la giacca e mi rispedirono nel mondo esterno, dove piccoli fiocchi di neve volteggiavano nella crescente oscurità. La testa mi sembrava stranamente leggera. Continuavo a vedermi nelle vetrine dei negozi e a stupirmi. Comprai un gigantesco biscotto con le gocce di cioccolato e lo mangiai mentre mi dirigevo verso i negozi. Negli ultimi tre anni mi ero vestita in modo piuttosto elegante. Faceva parte del lavoro e suppongo che mi ci fossi abituata. Tailleur. Gonne e giacche e calze velate, con un paio di riserva sempre in borsetta nel caso le smagliassi. Abiti di buon taglio, impeccabili. Così usai il resto dei soldi che Sheila mi aveva prestato, e poi molti di più, per un paio di pantaloni larghi e neri, parecchie magliette, degli scarponcini di pelle, una felpa lanosa con il cappuccio, anch'essa nera, una lunga sciarpa a strisce, un cappello di lana nero, e dei guanti caldi. Stavo quasi per comprare un cappotto nero di pelle, solo che non avevo abbastanza soldi, e probabilmente fu una fortuna. Ma mi rimase abbastanza denaro per sei paia di slip, due reggiseni, parecchie paia di calze spesse, uno spazzolino da denti e del dentifricio, un rossetto, mascara, deodorante e shampoo. Andai a fermarmi davanti al lungo specchio del negozio. Mi voltai lentamente, guardandomi da sopra le spalle. Sollevai il mento. Non ero più
Abbie la donna d'affari, capelli tirati su in un lucido chignon e scarpe costose. Ero magra e quasi funerea, con le clavicole sporgenti. I nuovi vestiti neri mi facevano sembrare più pallida che mai, anche se i lividi sul collo erano diventati una macchia di un giallo itterizia. Avevo i capelli irti e del colore del legno di betulla. Somigliavo un po' a una civetta. E a una sedicenne, una studentessa. Sorrisi a me stessa, alla novità che vedevo, e annuii. «Bene» dissi ad alta voce. «Perfetto.» Capitolo 6 «Cristo!» esclamò Sheila, aprendo la porta. «Che cosa ne dici?» «È un bel cambiamento di look. Quasi non ti riconoscevo.» «Era questa l'intenzione. Posso entrare, allora? Sto gelando qui fuori!» Fiocchi gelidi mi si posavano sulle guance e sul naso e poi scorrevano giù per il collo. Il nuovo taglio di capelli si era bagnato ed era diventato piatto. Si tirò indietro e mi fece entrare al caldo. «Certo. Dio, sembri...» «Che cosa?» «Non so. Più giovane.» «È un complimento?» «Sì» disse dubbiosamente. «Sembri anche più piccola, in qualche modo. Un tè? Un drink?» «Un drink. Ho preso della birra.» «Grazie, ma non avresti dovuto.» «Non ringraziarmi. Erano soldi tuoi. Presto sarò in grado di restituirteli, però, quando mi rimanderanno la carta di credito da Terry, tra un giorno o due.» «Non preoccuparti. A proposito, ha telefonato Terry.» «Qui?» «No, da Sadie. Pensava che tu fossi là. Così Sadie mi ha chiamata per informarti che Terry dice che puoi andare a prendere il borsone che si è dimenticato di darti ieri, con tutta la tua posta e roba del genere. E il resto dei vestiti.» «Bene. Ci andrò domani.» «Oppure butterà via tutto.» «Carino. Ci andrò subito.» «Adesso? Non vuoi mangiare qualcosa? Abbiamo degli amici stasera.
Una coppia, molto simpatici, lui lavora con Guy e lei fa qualcosa con i mobili antichi, mi pare. Una cosa semplice, solo noi quattro. O cinque, cioè» disse coraggiosamente. «Non importa, Sheila. Quattro è un numero migliore. Forse sarò di ritorno per il formaggio.» «Niente formaggio. Torta al limone.» «Hai fatto la torta al limone?» «Sì» rispose con aria timida e virtuosa allo stesso tempo. «Mettimene da parte una fetta. Posso usare il telefono per chiamare un taxi?» «Certo. Non devi chiederlo.» La baciai sulle guance. «Sei molto carina con me. Ti prometto che non rimarrò a lungo.» Costa una fortuna attraversare Londra con un taxi, farlo aspettare, e poi ritornare indietro. Guardai il tassametro nervosamente quando scattarono le due cifre. Avevo duecentocinquantasette sterline la mattina - quelle di Sheila e Guy e quelle della banca - ma, dopo il taglio di capelli e le spese e i caffè e i taxi, me ne erano rimaste settantanove. Alla fine della serata ne avrei avute circa sessanta. Nel nostro appartamento le luci erano accese. Cioè nell'appartamento di Terry. Suonai il campanello e aspettai, poi udii dei passi correre giù per le scale e nell'ingresso si accese una luce. «Sì?» «Ciao, Terry.» «Abbie?» Mi scrutò. «Che cosa ti sei fatta? I capelli, sono...» «Andati. Lo so. Posso entrare a prendere la mia roba? Ho una certa fretta. C'è un taxi che mi attende.» «Vado io a prenderla. Ho messo tutto nei sacchetti. Aspetta qui.» Si voltò e si precipitò di nuovo su per le scale. Ma non avevo nessuna intenzione di rimanere lì al gelo, così lo seguii e arrivammo in cima insieme. Dall'appartamento veniva un buon profumo, di aglio e spezie. Sul tavolo c'era una bottiglia di vino, ma bevuta solo a metà, due bicchieri, due piatti di pollo coperti da ramoscelli di rosmarino e interi spicchi d'aglio. Era la mia ricetta, il mio piatto forte. C'erano candele, che avevo comprato io. E c'era una donna, seduta al tavolo, che roteava il bicchiere con la mano, i lunghi capelli biondi che le cadevano in avanti e brillavano alla tenue luce. Aveva un tailleur grigio scuro e dei piccoli orecchini d'oro alle orecchie. Rimasi
sulla soglia con i miei pantaloni larghi, i capelli irti, a fissarla. «Prendo la tua roba» disse Terry. «Non ci presenti?» Bofonchiò qualcosa e scomparve. «Sono Abbie» dissi vivacemente alla donna. «Piacere» rispose debolmente. «Sally.» «Ecco.» Terry arrivò trascinando due sacchi della spazzatura con il resto dei miei vestiti e poi mi mise in mano un sacchetto di plastica rigonfio con la posta. Aveva il viso rosso. «Devo andare» dissi. Poi mi voltai verso la donna. «Sai una cosa strana? Mi assomigli.» Sorrise, educata ma incredula. «Non credo proprio.» Erano ancora al pesce, quando ritornai e andai in cucina, portandomi dietro i sacchi. «Abbie, sei già qua! Ti presento Paul e Izzie. Ti unisci a noi?» «Ciao.» Capii dal modo in cui Paul e Izzie mi guardarono che avevano sentito tutta la storia. «Non preoccuparti, non ho fame. E poi voglio dare una scorsa alla mia posta.» Sollevai il sacchetto di plastica che si stava rompendo. «In cerca di indizi, no?» Risero tutti nervosamente e si scambiarono sguardi. Sheila arrossì e riempì i bicchieri. «Prendo un bicchiere di vino, però.» La maggior parte della posta era spazzatura, cataloghi delle svendite di gennaio e cose del genere. C'erano due cartoline: una di Mary, che era in Australia per l'intero mese; una di Alex dalla Spagna. Doveva essere ritornato ormai. Mi chiesi se avesse saputo. C'erano due inviti a feste. Uno era passato, ma l'altro era per il weekend a venire. Forse ci potevo andare. Pensai a ballare e flirtare, ma che cosa mi sarei messa? E che cosa avrei detto? E chi avrebbe flirtato con una ragazza che sembrava una povera scolaretta? Forse era meglio non andare, dopo tutto. C'era una strana lettera formale da Laurence Joiner di Jay and Joiner's, che confermava che ero in congedo non pagato, ma che la pensione e i contributi per la salute mi sarebbero ancora stati versati. La guardai accigliata e la misi da parte. Ovviamente dovevo andare in ufficio, prima o poi. Magari l'indomani. Poi c'era un resoconto bancario. All'inizio del mese avevo un glorioso e poco interessante credito di 1810 sterline e 49, ma me ne erano rimaste solo 597. Guardai con gli occhi socchiusi la fila di cifre. In che cosa diavolo
avevo speso 890 sterline il 13 gennaio? Cavolo, dovevano essere i vestiti di cui mi aveva parlato Robin. Che cosa mi aveva preso? Dovevo essere ubriaca o qualcosa del genere. E non avevo neanche i vestiti che me lo dimostrassero. Poi, tre giorni dopo, avevo ritirato cinquecento sterline, il che era molto strano. Di solito ne prendevo cinquanta alla volta. Bevvi un po' di vino e aprii una lettera dall'aria ufficiale, che mi informava che il parcheggio era scaduto. Non mi preoccupai molto perché non avevo idea di dove fosse la macchina. Ma lo scoprii subito. Aprendo la busta successiva venni a sapere che era stata rimossa e si trovava in un deposito della polizia a Bow. «Ecco!» esclamai forte. «Finalmente!» Guardai la lettera più attentamente. A quanto pareva era stata rimossa da un parcheggio in Tilbury Road, E1, che non avevo idea di dove fosse. Potevo andarla a prendere tra le nove e le cinque. L'avrei fatto l'indomani mattina, come prima cosa. Mi precipitai in cucina. «Ho trovato la macchina!» annunciai. «Bene» fece Guy, un po' stupito. «Ottimo. Dov'è?» «In un deposito della polizia a Bow, a quanto pare. Andrò a prenderla domattina. Così non avrò più bisogno di tutti quei taxi.» Presi la bottiglia di vino e mi versai un altro bicchiere. «E come farai?» chiese Guy. «In che senso come farò?» «Come farai a prenderla? Non hai la chiave.» «Già.» Rimasi senza fiato per la delusione. «Non ci avevo pensato. Che cosa devo fare?» «Potresti portarti dietro un fabbro» suggerì Izzie gentilmente. «No, ho trovato. Ho messo una seconda chiave da qualche parte da Terry. Dio sa dove, però. In un posto sicuro che ho dimenticato. Dovrò ritornare da lui. Merda. Pensavo che con stasera avessimo finito.» «Almeno riavrai la macchina. È già qualcosa.» «È un inizio.» Stavo cadendo, cadendo da una grande altezza. Niente poteva fermarmi e intorno a me c'era un'aria nera e silenziosa che mi fagocitava. Mi udii gridare, un urlo selvaggio nella notte. Lo sentii echeggiare. Poi mi svegliai con un violento sussulto e rimasi come senza fiato sul cuscino, che era umido di sudore. Sentivo gocce di sudore colarmi giù per le guance e sul collo come fossero lacrime. Aprii gli occhi ma era ancora
buio. Molto buio. Mi sentii pesante, come se mi avessero scaricato un grosso peso sul cuore. Ero intrappolata al buio; udivo il mio respiro, che faceva un rumore roco, come un rantolo. C'era qualcosa che non andava. Non riuscivo a prendere bene l'aria; il respiro mi sembrava come bloccato nel petto e la gola continuava a chiudersi con degli spasmi. Dovevo ricordarmi come si faceva. Dovevo ricordarmi come si respirava. Dovevo contare, sì, dovevo fare così. Respirare, dentro e poi fuori. Lentamente. Uno-due, uno-due. Introdurre aria nei polmoni, trattenerla per un secondo, lasciarla di nuovo uscire. Chi c'era? Sentivo qualcuno vicino a me. Un'asse del pavimento scricchiolò. Volevo mettermi a sedere ma il corpo non si muoveva, e volevo gridare ma la voce era come congelata dentro di me. Un'altra asse scricchiolò. Sentivo un respiro. Appena fuori dalla porta. Mi schiacciai contro il cuscino. Avevo la bocca aperta come per gridare, ma non ne usciva alcun suono, e continuavo a sentire il respiro, dei passi, una tosse silenziosa, smorzata. «No» dissi alla fine. «No.» Urlai più forte. «No, no, no, no.» Quell'unica parola mi riempì la testa. Rimbalzò per la camera, mi entrò nel cranio, mi dilaniò la gola. «No, no, no, no!» La porta della stanza si aprì e nella fessura di luce vidi una silhouette nera. «No!» urlai di nuovo, più forte. Mi sentii una mano sulla spalla, delle dita nei capelli. Mi divincolai sul letto. «No, no, no, no. Per favore, no!» «Abbie. Abbie, svegliati. È tutto a posto. Stai sognando. È solo un sogno.» «Oh, Gesù.» «Abbie.» «Dio, Dio, Dio» gemetti. «Hai avuto un incubo.» Afferrai la mano di Sheila e me la premetti contro la fronte. «Sei bagnata fradicia! Devi avere la febbre.» «Sheila. Oh, Sheila. Ho pensato...» «Hai avuto un incubo.» Mi alzai a sedere. «Era terribile» dissi. «Poverina. Senti, vado a prendere un asciugamano da mettere sul cuscino. Andrà tutto bene ora.» «Sì. Scusa. Ti ho svegliata.» «No. Stavo andando in bagno comunque. Aspetta un momento.»
Andò via e ritornò pochi minuti dopo con un grosso asciugamano. «Va bene ora?» chiese. «Sì.» «Chiamami se hai bisogno.» «Grazie. E, Sheila, lascia la porta aperta, per favore. E la luce del corridoio accesa.» «È molto forte.» «Non importa.» «Buona notte, allora.» «'Notte.» Uscì e io mi distesi di nuovo sul letto. Il cuore mi stava ancora battendo come un tamburo. La gola mi doleva a forza di urlare. Mi sentivo debole e tremolante e sudaticcia e malaticcia. La luce penetrava attraverso la porta. Rimasi a guardarla e aspettai che fosse mattino. «Dove posso averla nascosta?» «Non ne ho idea» disse Terry. Indossava ancora la vestaglia, quella che gli avevo regalato al compleanno, e stava bevendo caffè nero e spesso e fumando una sigaretta dopo l'altra. La stanza era avvolta in un odore di chiuso, che sapeva di cenere e dell'aglio della sera precedente. Non c'era segno dell'altra donna, però. «Non è in nessuno dei cassetti dell'armadietto. Non è nel vassoio di legno in cui finiscono tutte le cianfrusaglie. Non è nel bagno.» «Perché dovrebbe essere nel bagno?» «Non deve esserci. Non ho forse detto che non è nel bagno?» «Ah.» Si accese un'altra sigaretta. «Senti, devo vestirmi e andare. Sono già in ritardo. Ti ci vorrà ancora molto?» «Finché non troverò la chiave. Non preoccuparti, conosco la via di uscita.» «Ma, non direi.» «Scusa?» «Non vivi più qui, Abbie. Mi hai lasciato, ricordi? Non puoi andare e venire in questo modo.» Smisi di rovistare e lo fissai. «Stai dicendo sul serio?» «Mentre cerchi, vado a vestirmi. Ma sì, certo che sto dicendo sul serio.» Aprii tutti i cassetti della cucina e del soggiorno e li richiusi sbattendoli, aprii la credenza e la chiusi con un colpo. Non era con i coltelli; non con le bollette; non con le scatolette; con i pacchetti di farina e di riso, di cereali,
di caffè e di tè, non con la bottiglia di olio, aceto, salsa di soia. Non su uno dei ganci per le tazze. Non sull'architrave della porta tra le due stanze. Non sugli scaffali dei libri, né con gli oggetti di cancelleria, o nel vaso di vetro dove mettevo cose come elastici, graffette, bottoni, fasce per i capelli, francobolli, tamponi. Terry ritornò. Mise le mani nella tasca del cappotto e fece tintinnare gli spiccioli con impazienza. «Senti» dissi «tu non vuoi che stia qui e io non ho nessuna voglia di rimanerci. Vai al lavoro e quando ritornerai non ci sarò più. Non ruberò niente. Non prenderò le mie cose. Puoi tenertele. Posso ricominciare tutto da zero. Non scriverò frasi oscene sullo specchio del bagno con il rossetto. Trovo la chiave e me ne vado. D'accordo?» Fece tintinnare gli spiccioli ancora un momento. «È davvero così che deve finire?» domandò infine, con mia sorpresa. «La donna che c'era qui ieri sera mi sembrava carina» dissi. «Come si chiamava? Sarah?» «Sally» disse lui, cedendo. «D'accordo, ti lascio alla tua ricerca.» «Grazie. Arrivederci, allora.» «Arrivederci, Abbie.» Indugiò sulla porta per qualche secondo, poi scomparve. Mi preparai un ultimo caffè. Con la tazza in mano presi a girovagare per l'appartamento. Parte di me si chiedeva se la chiave non fosse nascosta dentro quella tazza, in quel bel posticino. Parte di me stava guardandosi attorno, cercando di ricordare. Trovai la chiave sotto il vaso di basilico. La terra era secca e le foglie appassite. Lo innaffiai attentamente. Lavai la tazza, la asciugai, la rimisi sul gancio e me ne andai. Bow era lontano. Quando ci arrivai avevo solo quarantotto sterline e qualche spicciolo. Chiesi in un ufficio postale dove fosse il deposito delle auto. Venni a sapere che era a circa un chilometro e mezzo di distanza dalla fermata della metropolitana più vicina. Sarebbe logico che, quando ti rimuovono la macchina, la mettessero almeno in un posto vicino a qualche mezzo pubblico. Avrei preso un taxi se ne avessi visto uno, ma nei paraggi c'erano solo macchine e camioncini che spruzzavano l'acqua delle grosse pozzanghere che costellavano la strada. Così ci andai a piedi, superando garage che vendevano BMW, fabbriche di lampade, di attrezzature per il catering e di tappeti; passando davanti a cantieri con gru immobili, coperte di neve. Vidi il deposito non appena ar-
rivai sulla collina; file e file di macchine dentro un grande recinto con i cancelli chiusi a chiave. Erano quasi tutte vecchie e ammaccate. Forse erano state semplicemente abbandonate. Non vidi la mia auto, anch'essa vecchia e ammaccata, da nessuna parte. Portai la lettera all'ufficio nell'angolo e un uomo rovistò in uno schedario, trovò un foglio stampato, si grattò la testa e sospirò pesantemente. «Allora posso prenderla?» chiesi. «Aspetti, non così in fretta. Deve pagare prima.» «Già, certo, mi scusi. Quanto?» Toccai ansiosamente il rotolo di banconote sempre più sottile. «È quel che sto calcolando. C'è la multa per aver parcheggiato in sosta vietata, poi c'è il costo del carro attrezzi, infine deve aggiungere il tempo che è stata qui.» «Oh, sembra un mucchio di soldi.» «Già. Centotrenta sterline.» «Scusi?» «Centotrenta sterline» ripeté. «Non ho tutti questi soldi.» «Accettiamo gli assegni.» «Non ho il libretto degli assegni.» «Carte di credito.» Scossi il capo. «Peccato» disse. Non sembrava molto dispiaciuto. «Che cosa devo fare?» «Non saprei che dirle.» «Posso prendere la macchina, andare da un amico a recuperare i soldi e poi tornare a portarglieli?» «No.» Non c'era nient'altro da fare che andarsene di nuovo. Ritornai faticosamente a Bow e andai a sedermi in un piccolo caffè con un'altra tazza di caffè amaro e tiepido. Poi andai a un telefono pubblico, chiamai Sam e gli chiesi, lo pregai, a dir la verità, di mandarmi sessanta sterline - no, facciamo ottanta, novanta anche - per corriere al deposito della polizia, dove sarei stata ad aspettare. «Per favore, per favore, per favore» dissi. «Mi dispiace molto, ma è un'emergenza.» Sapevo del servizio di corriere perché una volta si era fatto mandare in quel modo la giacca da un club in cui eravamo stati, perché non poteva tornare a riprenderla. Privilegi del mestiere, aveva detto.
Finalmente ritirai l'automobile. Poco dopo mezzogiorno e mezzo pagai le centotrenta sterline e il tizio mi diede una ricevuta stampata su cui era indicato il luogo della rimozione ed erano elencati i vari costi. Poi mi indicò dov'era parcheggiata e aprì i cancelli. Mi rimanevano diciannove sterline. Salii in macchina e girai la chiavetta d'avviamento. Si mise subito in moto. Accesi il riscaldamento e mi strofinai le mani per liberarmi dall'intorpidimento causato dal freddo. C'era un pacchetto di caramelle sul sedile accanto al mio. Spinsi la cassetta che era nel registratore e non riconobbi la musica che ne uscì. Una cosa un po' jazz, allegra. Alzai il volume e attraversai i cancelli. Poi accostai e guardai la ricevuta. L'auto era stata rimossa da Tilbury Road, E1, il 28 gennaio, che calcolai essere stato il mio ultimo giorno d'ospedale. Lo stradario era nel cassetto portaoggetti. Trovai Tilbury Road e ci andai, attraversando una zona di Londra che non conoscevo bene. Era una strada lunga e squallida con case sbarrate da assi, edicole male illuminate e negozietti aperti ventiquattr'ore su ventiquattro che vendevano succo d'uva e lattine di piselli e pomodori. Parcheggiai davanti al numero 103 e rimasi seduta in macchina per alcuni minuti. Appoggiai la testa sul volante e cercai di ricordare. Non successe nulla, nessuna scintilla nel buio. Rimisi lo stradario nel cassettino e sentii frusciare della carta. Spinte in fondo c'erano tre ricevute. Una per la benzina: ventisei sterline, lunedì 14 gennaio. La seconda per aver cambiato centocinquanta sterline in lire italiane, martedì 15 gennaio. La terza era di un takeaway indiano che aveva consegnato lo stesso giorno due porzioni di riso pilau, un biryani di verdure, un piatto di gamberetti, un naan di spinaci, uno di melanzane e uno di aglio per un totale di sedici sterline e ottanta. L'indirizzo della consegna era 11b Maynard Street, Londra NW1. Non avevo mai sentito nominare Maynard Street e non mi ricordavo di essere mai andata in quell'angolo a nord della città. Rificcai le ricevute nello scompartimento e qualcosa cadde a terra. Mi piegai e raccolsi un paio di occhiali da sole e una chiave legata a un cordino. Non la mia chiave. Una chiave che non avevo mai visto prima. Non erano ancora le quattro. Ripresi la strada attraverso la sterminata periferia di Londra nella crescente oscurità. Al buio tutto sembrava più spaventoso. Mi sentivo a pezzi per la stanchezza, ma avevo ancora cose da fare prima di andare da Sheila e Guy.
Capitolo 7 «Sai di che cosa hai bisogno, no?» «No, Laurence, di che cosa?» «Di riposo.» Laurence non sapeva di che cosa avevo bisogno. Ero nell'ufficio di Jay and Joiner's e guardavo il punto in cui una volta c'era la mia scrivania. Strano: l'ufficio aveva lo stesso aspetto di sempre. Era un posto piuttosto anonimo, il che è buffo per un'azienda che progetta arredamenti. L'unica sua vera attrattiva era trovarsi in un vicolo nascosto nel bel mezzo di Soho, a un paio di minuti a piedi da bei negozietti di ghiottonerie e mercati. Quando dicevo che l'ufficio aveva l'aspetto di sempre, volevo dire che era lo stesso, eccetto che erano sparite tutte le tracce di me. Non nel senso che c'era qualcun altro seduto alla mia scrivania. Sembrava che l'ufficio fosse stato impercettibilmente modificato in modo che lo spazio che una volta occupavo non ci fosse più. Carol mi aveva scortata. Anche questo era strano, essere guidata attraverso il proprio ufficio. Non ricevetti i cenni e i saluti casuali a cui ero abituata. Ci furono delle espressioni di sorpresa, degli sguardi fissi, e delle occhiate di curiosità da parte di una donna nuova, che probabilmente pensava fossi una cliente, finché Andy non si piegò accanto a lei e le sussurrò qualcosa, che la indusse a guardarmi con curiosità ancor maggiore. Carol si scusò a dismisura per il fatto che mancava tutta la mia roba. Mi spiegò che la gente ci inciampava contro e che era stata messa in scatole e ritirata nel magazzino, o qualcosa del genere. La mia posta era stata aperta e ridistribuita in ufficio a persone che se ne occupassero o mi era stata spedita da Terry. Ma in fondo non avevo disposto così io stessa? Quando me n'ero andata. Annuii vagamente. «Stai bene?» mi chiese. Era una bella domanda. Non sapevo se si riferisse solamente al mio aspetto. In effetti aveva fatto un salto indietro quando ero entrata nella reception con i miei vestiti civili. Abiti molto civili. Poi c'erano i capelli. E avevo anche perso più di sei chili da quando mi aveva vista. Inoltre avevo ancora la faccia giallastra per i lividi. «Ho passato un periodo un po' difficile» risposi. «Già» disse Carol, senza guardarmi negli occhi. «La polizia è venuta qui? A chiedere di me?» «Sì.» Ora mi guardava. Prudentemente. «Eravamo preoccupati per te.»
«Che cosa hanno chiesto?» «Volevano sapere del tuo lavoro. E perché te ne eri andata.» «Che cosa hai risposto?» «Non lo hanno chiesto a me. Ne hanno parlato con Laurence.» «Ma tu cosa ne pensi?» «Che cosa vuoi dire?» «Del perché me ne sono andata.» Non le dissi che non avevo la più pallida idea del perché me ne fossi andata, di non avere nessun ricordo di aver lasciato il lavoro. Speravo che ci fosse almeno una persona a cui potevo evitare di raccontare la mia storia. Non riuscivo più a sopportare di vedere un'altra faccia mostrare quei segni di crescente sgomento. Dovevano compatirmi? Credermi? Carol sembrò pensarci su. «Penso che tu abbia fatto bene» disse. «Non potevi continuare in quel modo. Ti stavi distruggendo.» «Quindi pensi che abbia fatto la cosa giusta?» «Ti invidio i sei mesi di congedo. Penso sia molto coraggioso.» Un altro shock. Sei mesi. E notai l'uso della parola «coraggioso», un «coraggioso» che doveva essere un eufemismo per «stupido». «Ma non vedi l'ora che io ritorni» dissi scherzosamente. Assunse di nuovo l'aria prudente e questo mi allarmò. Cosa diavolo mi era saltato in mente? «Ovviamente alla fine la situazione si era un po' deteriorata e sono state dette cose che non si sarebbero dovute dire.» «Sono sempre stata una gran chiacchierona» soggiunsi, quando quel che veramente volevo dire era: «Che cos'è questa storia?». «Penso che tu avessi abbastanza ragione» continuò Carol. «Ma è sempre una questione di tono, non credi? E di trovare il momento giusto. Penso che tu abbia fatto bene a venire e a discutere della faccenda.» Eravamo arrivate alla porta dell'ufficio di Laurence. «A proposito» aggiunse, come casualmente. «Quella faccenda con la polizia. Di che si trattava?» «È troppo complicato» risposi. «Posto sbagliato al momento sbagliato.» «Sei stata... hai capito...?» Ah, allora si trattava di questo. Volevano sapere se fossi stata violentata o no. «No, niente del genere.» Così mi trovai a farmi dire da Laurence Joiner ciò di cui avevo bisogno. Fu piuttosto imbarazzante. Lì per lì decisi di non lanciarmi in un resoconto
dettagliato della mia recente storia medica e psichiatrica. Era ovvio che gli ultimi giorni che avevo passato da Jay and Joiner's non erano stati brillanti, e se volevo avere una qualche speranza di ritornare, dovevo cercare di non peggiorare le cose. «Buona idea» dissi. «In effetti sto cercando di riposarmi il più possibile.» «Non c'è bisogno che ti dica, Abbie, quanto tu sia importante per noi.» «Dillo pure. Fa sempre piacere sentirselo ripetere.» Laurence Joiner aveva quarantadue completi. Una volta c'era stata una festa a casa sua e una delle ragazze dell'ufficio era capitata nella sua camera e li aveva contati. Occupavano tre armadi. E questo era un anno fa, così probabilmente ora ne aveva di più. Ed erano molto belli. Mentre parlava, accarezzava il ginocchio di quello verde scuro, incantevole, che aveva indosso. Sembrava avesse un gatto sulle gambe. «Siamo stati tutti preoccupati per te.» «Anch'io sono stata un po' preoccupata per me.» «Prima c'è stato... be', non c'è bisogno di rivangare tutto quanto.» Su, per favore, rivanga, dissi tra me e me. Se la mela non fosse caduta, avrei dovuto scuotere un po' l'albero. «Una delle cose di cui mi volevo assicurare» dissi con disperazione «era che dal tuo punto di vista le cose andassero ancora bene.» «Siamo tutti dalla stessa parte» disse Laurence. Era tutto molto educato. «Sì, ma voglio sapere, esplicitamente, come la pensi. Voglio dire riguardo al fatto che abbia chiesto un congedo. Voglio sapere il tuo parere.» Laurence si accigliò. «Non so se sia salutare andare di nuovo a scavare nella faccenda. Non sono più in collera, te lo assicuro. Ho capito che da un po' di tempo lavoravi troppo. È colpa mia. Eri così brava, così efficiente, che ti ho dato troppo da fare. Penso che se non avessimo litigato sul progetto Avalanche l'avremmo fatto per qualche altra ragione.» «Tutto qui?» «Se vuoi sapere se ti ho perdonata per aver parlato male dell'azienda ai clienti dopo che te ne sei andata, per aver girato Londra spingendoli a lamentarsi, la risposta è sì. Più o meno. Ora senti, Abbie, non voglio aver l'aria di qualcuno uscito dal Padrino, ma non penso proprio che dovresti schierarti con i clienti contro l'azienda. Se pensi che siano stati mal consigliati o che gli abbiamo fatto spendere troppo, devi venire da me invece di andare a informarli dietro le mie spalle e in privato. Ma credo che questo
sia stato chiarito.» «Quando... ehm - solo per la mia documentazione personale - quando ho fatto quel tipo di critiche?» Non avevo bisogno di chiedere quali erano state le critiche. Mi ricordavo abbastanza bene del progetto Avalanche per saperlo. «Non ricomincerai a rivangare tutto di nuovo, proprio quando le cose si sono appianate?» «No, no. Ma la cronologia mi sfugge, tutto qui. Il mio diario è qui e...» Mi interruppi perché non sapevo come finire la frase. «Vogliamo gettare un velo su quello spiacevole episodio?» suggerì Laurence. «Me ne sono andata venerdì, vero? Venerdì 11.» «Già.» «E ho contattato i clienti... ehm...» Aspettai che fosse lui a riempire il vuoto. «Dopo il weekend. Non conosco neanche io le date. Lo sono venuto a sapere gradatamente, in due occasioni attraverso lettere di avvocati. Puoi immaginare come mi sia sentito tradito.» «Già» feci. «Posso dare un'occhiata alla cartella del progetto Avalanche?» «Perché mai? È tutta acqua passata. Lascia stare i cani che dormono.» «Laurence, ti prometto assolutamente che non ti creerò altri guai. Ma voglio parlare con un paio delle persone coinvolte.» «Dovresti avere i numeri di telefono.» «Sono un po' nel caos, temo. Ho traslocato.» «Vuoi dire che te ne sei andata di casa?» «Sì.» «Mi dispiace. Puoi farti dare da Carol tutte le informazioni che ti occorrono.» Sembrava ancora più preoccupato. «Non voglio immischiarmi. Ma, come ho detto, siamo stati preoccupati. Voglio dire, i problemi qui, ti sei lasciata con Terry, e poi è venuta la polizia. Possiamo fare qualcosa? Vuoi che ci occupiamo di trovarti un posto?» Rimasi un momento perplessa, poi non potei trattenere una risata. «Pensi che si tratti di alcol o droga?» dissi. «Sarebbe bello.» Mi allungai e baciai Laurence sulla fronte. «Grazie, Laurence, devo mettere a posto un paio di cosette e poi ci risentiremo.» Aprii la porta del suo ufficio. «Senti» disse. «Se c'è qualcosa che possiamo fare...»
Scossi il capo. «Solo ascoltandoti ho capito quanto tu abbia già fatto. Spero di non essere stata troppo rompiscatole.» Mi venne in mente una cosa. «Direi che ero una persona diversa allora, anche se così potrebbe sembrare che non voglia prendermi le responsabilità.» Laurence aveva un'aria profondamente perplessa, e non c'era da stupirsene. Prima di uscire chiesi a Carol la documentazione sul progetto Avalanche. «Dici sul serio?» fece. «Perché non dovrei?» Sembrava dubbiosa. «Non sono sicura.» «Il lavoro è finito.» «Sì, ma...» «Solo per pochi giorni. Sarò molto attenta.» Cominciò a cedere. Forse l'idea che me ne sarei andata se me l'avesse data era troppo allettante. «Vuoi anche i disegni?» «Mi basta la corrispondenza.» Prese una grossa cartellina e mi diede una busta di plastica dove infilarla. «Ancora una cosa. Mi ha chiamato qualcuno negli ultimi giorni?» Carol frugò sulla sua scrivania e mi porse due fogli di carta coperti di nomi e numeri. «Solo cinquanta o sessanta persone. Più o meno i soliti noiosi. Vuoi lasciarmi un numero che possa dare in giro?» «No. Non dare a nessuno nessun numero. A nessuno. È importante.» «Bene» disse, piuttosto stupita dal mio tono insistente. «Mi prendo questi numeri, penso. Non ti servono, vero?» Piegai i fogli e me li misi nella tasca posteriore. «Ti chiamerò ogni tanto. E un'ultima cosa ancora.» «Dimmi...» «Che cosa ne pensi dei miei capelli?» «Incredibili. Un po' estremi, ma incredibili.» «Mi fanno sembrare differente?» «Non ti avevo riconosciuta. Be', non subito.» «Bene» dissi e lei assunse di nuovo un'aria preoccupata. Andai a sedermi in macchina per cercare di far chiarezza nei pensieri.
Avalanche. Mi sembrava di essere caduta su un nuovo pianeta. Un nuovo pianeta nebbioso. Che cosa sapevo in verità? Da Jay and Joiner's mi consideravano una pazza traumatizzata. Avevo lasciato il lavoro, temporaneamente almeno, dopo una litigata. E avevo lasciato il mio ragazzo. Nei pochi giorni successivi, in momenti indeterminati, ero andata in giro a cercare persone coinvolte nel progetto, per incoraggiarle, a quanto pareva, a lamentarsi del modo in cui erano state trattate dalla nostra azienda. E avevo incontrato un pazzo assassino. O era qualcuno che già conoscevo? Poteva essere? Mi venne in mente l'immagine di un animale che si sente esposto. Volevo correre in cerca di rifugio, ma non sapevo in quale direzione andare. C'erano persone che non erano a conoscenza di quel che mi era successo e altre che non credevano alla mia versione dei fatti. Ma c'era una persona che sapeva che stavo dicendo la verità. Dov'era? Mi guardai attorno pensosamente e scossi le spalle. Forse sarei potuta scappare in un posto molto lontano e non ritornare mai più indietro. In Australia. Al Polo Nord. No, non c'era speranza. Che cosa dovevo fare, iniziare le pratiche per l'emigrazione? Che cosa comportava? O dovevo semplicemente andare in vacanza in Australia e rifiutarmi di ritornare? Non sembrava molto fattibile. Presi la ricevuta del takeaway indiano dal cassetto portaoggetti: 11b Maynard Street, NW1. Non mi diceva nulla. Alla fine c'era anche la possibilità che fosse stata lasciata lì da qualcuno e non avesse molto a che fare con me. O poteva essere il suo indirizzo. Non appena mi venne quel pensiero, capii che ci dovevo andare. Quello stava diventando il giorno più lungo della mia vita. Guardai nello stradario. La via non era tanto lontana. E avevo un aspetto completamente differente. Potevo fingere di avere un indirizzo sbagliato. Probabilmente non ne avrei cavato nulla. L'appartamento era al primo piano di un edificio elegante vicino a Camden. Trovai un parchimetro e ci infilai abbastanza spiccioli da poter sostare trentasei minuti. Aveva un'entrata laterale separata. Mi ci fermai davanti e respirai profondamente. Presi dal cassetto portaoggetti gli occhiali da sole. La fredda serata invernale era nera come una tomba, ma gli occhiali avrebbero reso ancor più completo il mio mascheramento. Se avesse risposto una donna, avrei iniziato una conversazione. Se avesse risposto un uomo, non avrei corso rischi. Avrei solo detto «Scusi, devo avere l'indirizzo sbagliato», e me ne sarei andata con decisione. Per strada c'era abbastanza
gente da farmi sentire tranquilla. Ma non rispose nessuno. Premetti di nuovo il campanello. E ancora. Lo sentivo suonare in lontananza. In qualche modo si sa quando un campanello suona in una casa vuota. Tirai fuori dalla tasca le chiavi della macchina e presi a giocherellarci. Avrei potuto bussare a un altro degli appartamenti dell'edificio. Ma che cosa avrei chiesto? Ritornai all'automobile. Il parchimetro mostrava che avevo ancora trentun minuti. Che spreco. Aprii il cassetto portaoggetti per rimetterci la ricevuta. Là, tra le altre cose, il libretto di circolazione, un opuscolo, la carta dell'Automobile Club, c'era quella chiave, la chiave che non era della mia vecchia casa. Sentendomi ridicola, la presi e ritornai all'appartamento. Con un senso di totale irrealtà, la spinsi cautamente nella serratura facendola scattare. Mentre aprivo la porta, vidi un mucchio di posta. Presi una lettera. Josephine Hooper. Non avevo mai sentito quel nome. Ovviamente era fuori casa. C'erano delle scale e le salii lentamente. Camminare attraverso i muri non mi sarebbe sembrato molto più strano. Mi guardai attorno. Vidi un pavimento di legno d'abete, dei quadri, delle fotografie appese al muro dell'ingresso, fotografie che non riconoscevo. Colori ricchi. Serrai la porta. Sentivo l'odore di chiuso dell'assenza. Qualcosa era andato a male da qualche parte. Non avevo alcun ricordo della casa, della strada. Conoscevo appena quella zona. Ma avevo la chiave di quella porta nella mia auto, così forse non avrei dovuto stupirmi quando entrai nel soggiorno, accesi le luci e là, insieme alle foto di Josephine Hooper, il tavolo, il tappeto, il divano, c'erano il mio stereo e il mio televisore. Mi sentii svenire. Mi gettai su una poltrona. La mia poltrona. Capitolo 8 Cominciai a girare per il soggiorno, trovando ovunque tracce di me. Dapprima mi limitai a guardarle, magari a toccarle con un dito, come se potessero dissolversi e sparire. Il mio piccolo televisore sul pavimento. Lo stereo e i CD. Il mio computer portatile sul tavolinetto. Lo aprii, premetti il tasto dell'accensione ed esso con un bip si animò. Il vaso verde sul tavolo, con tre rose gialle appassite appoggiate al bordo e petali nerastri sparsi alla base. La mia giacca di pelle buttata sul divano, come se fossi uscita un momento a comprare il latte. E poi, attaccata allo specchio sopra il caminetto, c'era una mia foto. Due, a essere precisi: due foto formato tessera in cui cercavo di reprimere un sorriso. Sembravo contenta.
Ma quello era l'appartamento di un'altra persona, pieno di mobili che non riconoscevo, a parte la mia poltrona, e di libri che non avevo mai letto né sentito nominare, a eccezione di quello di cucina posato sulla mensola del caminetto; c'era tutto l'estraneo disordine di un'altra vita. Su una delle mensole c'era una fotografia incorniciata. La presi e la esaminai: una ragazza con i capelli riccioluti mossi dal vento, le mani nelle tasche della giacca imbottita, un gran sorriso sul volto e sullo sfondo il profilo di un gruppo di colline. Era una bella immagine, spensierata, ma non avevo mai visto quel viso prima. Almeno non mi ricordavo di averlo visto. Raccolsi la posta che giaceva sul pavimento e le diedi una scorsa. Tutte le lettere erano indirizzate a Jo Hooper, o Josephine Hooper, o alla signorina J. Hooper. Le misi sul tavolo della cucina in una pila ordinata. Le avrebbe aperte più tardi. Ma dai fiori appassiti sul tavolo e dalla quantità di posta che si era accumulata sul pavimento, capii che anche lei mancava da casa da parecchio. Andai al computer per controllare la posta elettronica, cliccai sul tasto «invia e ricevi» e aspettai mentre un piccolo orologio pulsava sullo schermo. Udii un suono melodico e vidi che avevo trentadue nuovi messaggi. Li feci scorrere rapidamente. Nient'altro che comunicazioni da organizzazioni che non avevo mai sentito nominare e che mi informavano di cose di cui non volevo sapere. Indugiai qualche momento ancora in quella stanza tranquilla, poi attraversai l'ingresso e aprii la prima porta. Era una camera da letto con le tende aperte e un radiatore caldo. Accesi la luce. Il letto matrimoniale era fatto. Al fondo c'erano tre cuscini di velluto e su un guanciale un pigiama a quadretti rossi. A un gancio della porta era appesa una vestaglia color lavanda e sul pavimento c'erano delle pantofole a mocassino. Sopra il comò c'erano un orsacchiotto antidiluviano e spelacchiato, una bottiglia di profumo, un burro di cacao, un medaglione d'argento e un'altra fotografia, questa volta il viso in primo piano di un uomo con un velo di barba. Sembrava italiano, era scuro di pelle e aveva ciglia assurdamente lunghe. Aveva delle belle rughe intorno agli occhi e sorrideva. Aprii l'armadio. Quel vestito nero, quella morbida camicia, quella sottile giacca di lana grigia erano di un'altra donna. Sollevai il coperchio del cestino della biancheria sporca. Era vuoto, se non per un paio di mutandine bianche e delle calze. La porta successiva si apriva sul bagno. Era pulito, caldo, con le piastrelle bianche. In un bicchiere c'era il mio spazzolino blu e bianco vicino al suo nero; il mio dentifricio, senza il tappo, accanto al suo, con il tappo.
C'erano il mio deodorante, la mia crema idratante, la mia scatoletta del trucco. Sul radiatore c'era il mio asciugamano verde vicino al suo di tanti colori. Mi lavai le mani e le asciugai nella mia salvietta, fissando nello specchio il mio volto che quasi non riconoscevo. Mi aspettavo di vederla apparire da un momento all'altro dietro di me, con quel sorriso. Josephine Hooper. Jo. Quando entrai nella terza camera capii immediatamente che era la mia, non tanto per i singoli oggetti che riconobbi, ma per quella strana, potente sensazione di essere a casa. Forse era dovuta all'odore, o al vago, controllato disordine della stanza. Scarpe sul pavimento. La mia valigia aperta sotto la finestra a ghigliottina, con camicie, maglie e biancheria ancora dentro. Una maglia spessa, rosa scuro, gettata sulla sedia. In un angolo c'era un piccolo mucchio di roba sporca. Un groviglio di gioielli sul comodino. La lunga maglia da rugby che portavo di notte appesa alla testata del letto. Aprii la porta dell'armadio e vidi i miei due tailleur eleganti, i vestiti e le gonne invernali. E c'era il cappotto blu di cui mi aveva parlato Robin, e il vestito marrone di velluto. Mi ci avvicinai e ne annusai le soffici pieghe, chiedendomi se avessi già avuto occasione di indossarlo. Andai a sedermi sul letto e passai qualche momento a guardarmi attorno. La testa mi ronzava leggermente. Poi mi sfilai le scarpe, mi stesi, chiusi gli occhi e rimasi ad ascoltare il ronzio del riscaldamento centralizzato. Era una casa silenziosa. Di tanto in tanto udivo il fruscio di un passo felpato proveniente dall'appartamento di sopra, o una macchina che passava lungo una strada adiacente. Tirai verso di me la maglietta da rugby e ci appoggiai sopra la testa. Da qualche parte la portiera di una macchina sbatté e qualcuno rise. Mi appisolai e quando mi svegliai con un sobbalzo e un gusto strano in bocca, fuori pioveva. I lampioni per strada emanavano una luce arancione e di un bagliore arancione brillavano gli alberi fuori dalla finestra. Ero gelata, così presi la maglia rosa e scoprii che sotto c'era la mia borsa. Eccola là, gonfia e ben chiusa. La aprii, armeggiando con la cerniera lampo. In cima c'era il portafogli. In esso trovai quattro fiammanti banconote da venti sterline e parecchi spiccioli. C'erano anche le carte di credito e la patente, dei francobolli, il mio codice fiscale scritto su un pezzetto di carta, dei biglietti da visita. Mancava solo il telefono cellulare. Ritornai nel soggiorno-cucina con la borsa. Tirai le tende e accesi la lampada grande e la luce sopra i fornelli. Era un luogo carino, accogliente. Trasferirmi in quella casa era stata una buona mossa. Aprii il frigorifero e
ci sbirciai dentro. Era pieno di cibarie: pasta fresca, sacchetti di insalata, un cetriolo, dei cipollotti, latte, burro, formaggio - cheddar, parmigiano e feta -, vasetti di yogurt, uova, un mezzo filone di pane nero, i resti di una bottiglia di vino bianco. Niente carne o pesce; forse questa Jo era vegetariana. La maggior parte delle cose erano scadute da un pezzo; il latte, quando lo annusai, era acido, il pane duro, l'insalata floscia e sbiadita. Quel vino aveva bisogno di essere bevuto, però. Senza pensarci andai alla credenza e presi un calice. Poi, mentre stavo sollevando la bottiglia, mi resi conto di colpo che sapevo dov'erano i bicchieri. Una piccola parte sepolta della mia mente lo sapeva. Rimasi immobile sperando che quel frammento di memoria sepolta affiorasse, ma invano. Mi versai un bicchiere generoso di vino - dopo tutto forse l'avevo comprato io - e misi su della musica. Mi aspettavo di veder entrare Jo dalla porta da un momento all'altro, e il pensiero mi rendeva nervosa ed eccitata allo stesso tempo. Si sarebbe spaventata, vedendomi, o sarebbe stata contenta? Mi avrebbe salutata distrattamente o con disapprovazione e shock? Avrebbe sollevato le sopracciglia o mi avrebbe abbracciata? Ma, a dir la verità, sapevo che non sarebbe venuta. Era andata via, da qualche parte. Erano giorni, ormai, che in questa casa non c'era nessuno. Sul telefono lampeggiava una lucina e dopo qualche esitazione andai a premere il pulsante della segreteria. Il primo messaggio era di una donna: diceva che andava tutto bene e che avrebbe preparato lei la cena, se Jo avesse voluto aspettarla in casa. La voce mi sembrò conosciuta, ma mi ci vollero alcuni momenti per capire che era la mia. Fui scossa da un brivido e riavvolsi il nastro per sentire ancora una volta la mia voce strana in quel posto strano. Avevo un tono allegro. Bevvi un sorso di vino acetoso. C'era un lungo messaggio autoritario di una donna sulla data di consegna di un lavoro, e di come doveva essere eseguito; la voce di un uomo che diceva semplicemente: «Ciao, Jo, sono io. Ci vediamo? Fammi uno squillo». Un'altra donna diceva che sarebbe stata in città l'indomani e proponeva un drink; un'altra ancora diceva solo «Pronto? Pronto?» e poi più niente. Salvai i messaggi e bevvi ancora un sorso dell'aspro vino bianco. Non sapevo bene che cosa fare. Ero un'intrusa o quella era casa mia? Avrei voluto rimanere, fare un bagno caldo, infilarmi nella maglietta da rugby, mangiare un piatto di pasta e guardare la televisione - con il mio televisore - accovacciata sulla mia poltrona. Non volevo più essere ospite di amici che erano molto gentili e carini, ma che pensavano fossi pazza. Volevo stare in questa casa, incontrare Jo e ritrovare quella parte di me che
avevo perduto. Ma qualsiasi cosa avessi fatto in seguito, per il momento dovevo cercare di scoprire più cose che potevo. Con ordine. Mi sedetti sulla poltrona e rovesciai il contenuto della borsa sul tavolinetto. L'oggetto più voluminoso era una busta marrone formato A5 con il mio nome scritto sopra. Dentro c'erano due passaporti, uno vecchio e uno nuovo. Aprii quest'ultimo e vidi la mia fotografia, una replica delle due attaccate allo specchio. Un biglietto aereo: dieci giorni fa sarei dovuta partire per Venezia e sarei dovuta ritornare l'altro ieri. Avevo sempre desiderato andare a Venezia. Un paio di guanti neri, appallottolati l'uno dentro l'altro. La rubrica. Quattro penne nere, una che perdeva. Mascara. Due tamponi. Mezzo pacchetto di mentine Polo. Senza pensarci me ne misi in bocca una, che perlomeno coprì il gusto del vino. Un pacchetto di fazzoletti di carta. Un dolcetto. Un braccialetto di perline. Tre sottili nastri per i capelli, di cui non avrei più avuto bisogno. Un pettine e uno specchietto. E un pezzo di carta d'alluminio che era caduto a terra. Lo raccolsi e vidi che non era un pezzo di carta d'alluminio, ma una striscia argentata contenente due pillole, di cui una era stata estratta. La voltai verso la luce per leggere le parole scritte sul retro. Levonelle, compresse da 750 microgrammi. Ebbi l'assurdo impulso di ficcarmi l'altra pastiglia rotonda e bianca in bocca, per vedere che cosa sarebbe successo. Non lo feci, naturalmente. Mi preparai una tazza di tè, poi chiamai Sheila e Guy e mi rispose la segreteria telefonica. Dissi loro che non sarei ritornata quella sera, che mi sarei rimessa in contatto molto presto e li ringraziai di tutto. Mi infilai la giacca di pelle, misi la chiave e la pastiglia nella tasca interna e uscii. La macchina era ancora lì, ma ora aveva una multa avvolta nel politene, infilata sotto il tergicristallo ghiacciato. Me ne sarei occupata in seguito. Andai di corsa a Camden e continuai a correre finché non trovai una farmacia. Stava per chiudere. Andai al banco, dove un giovane asiatico mi chiese se mi potesse essere d'aiuto. «Lo spero. Mi potrebbe dire per che cosa sono queste pillole?» Tirai fuori la strisciolina argentata e gliela mostrai. Diede uno sguardo veloce e mi chiese un po' cupamente: «Appartiene a lei?». «Sì» dissi. «Cioè, no, no. Perché se fosse mia lo saprei, no? L'ho trovata. L'ho trovata nella camera di mia sorella e volevo sapere se fosse una cosa pericolosa. Perché, vede, una è stata presa.» «Quanti anni ha sua sorella?»
«Nove» risposi sconsideratamente. «Capisco.» Posò la strisciolina sul banco e si tolse gli occhiali. «È un anticoncezionale d'emergenza.» «Che cosa?» «La pillola del giorno dopo.» «Oh.» «E mi ha detto che sua sorella ha solo nove anni?» «Mio Dio.» «Dovrebbe vedere un medico.» «Be', a dir la verità...» cominciai nervosamente senza finire. Dietro di me c'era un altro cliente che stava ascoltando con curiosità. «Quando pensa che l'abbia presa?» «Secoli fa. Dieci giorni o qualcosa del genere.» Mi guardò con un'espressione di disapprovazione e poi gli apparve sul volto un sorriso ironico. Probabilmente capì. «Normalmente» disse «si dovrebbero prendere due pillole. La prima non oltre settantadue ore dopo il rapporto, meglio il prima possibile, e la seconda dodici ore dopo la prima. Così sua sorella potrebbe essere incinta.» Afferrai la strisciolina e la sventolai a mo' di saluto. «Me ne occuperò, glielo prometto, grazie; andrà tutto bene, non si preoccupi.» Uscii in strada. La pioggia fredda mi sembrò meravigliosa sulle guance in fiamme. Capitolo 9 Sapevo che cosa era successo. Lo sapevo maledettamente bene. Era una di quelle cose ridicole che altri, avevo sentito, avevano fatto. Anche amici. Era patetico. Non appena fui di ritorno all'appartamento, chiamai Terry. Dalla voce sembrava stesse dormendo. Gli chiesi se fosse arrivata della posta per me quella mattina. Borbottò che c'erano un paio di cose. «Dovrebbero avermi mandato la nuova carta di credito. Hanno detto che sarebbe potuta arrivare già oggi.» «Te la rispedisco, se vuoi.» «È disperatamente urgente. E sono in zona, così se non ti spiace passo.» «Be', d'accordo, ma...» «Sarò da te fra mezz'ora.» «Hai detto che eri in zona.» Pensai a una spiegazione plausibile, ma non mi venne in mente niente. «Senti, più parliamo, più tardi arrivo.»
Quando lo raggiunsi, aveva una bottiglia di vino aperta. Me ne offrì un bicchiere e accettai. Dovevo essere furba. Farmi strada con cautela. Mi guardò con un'espressione che conoscevo molto bene, come se fossi un mobile antico di origini incerte e mi dovesse valutare. «Hai trovato i vestiti.» «Sì.» «Dov'erano?» Non volevo dirglielo. Non per rancore. Pensavo solo che, per pochi giorni, sarebbe stato meglio creare la massima confusione possibile intorno a me. Se chi sapeva chi ero non sapeva dov'ero e chi sapeva dov'ero non sapeva chi ero, forse sarei stata più sicura per un po'. Almeno sarei stata un bersaglio più mobile. «Li avevo lasciati da amici.» «Chi?» «Non li conosci. Dov'è la mia posta?» «L'ho messa sul tavolo.» Andai al tavolo e guardai le due buste che c'erano. Una era un questionario sulle abitudini nel fare shopping, che buttai immediatamente nella spazzatura, l'altra una busta con su stampato «posta prioritaria». La presi e mi sembrò rigida in modo promettente. La aprii strappandola. C'era una carta di credito nuova di zecca. A.E. Devereaux. Avevo un posto in cui stare, i vestiti, un po' di CD e ora anche la carta di credito. Stavo ritornando alla vita. Mi guardai attorno. «Naturalmente qui c'è ancora un po' della mia roba.» Bevvi il vino a piccoli sorsi, mentre Terry lo trangugiò d'un fiato. Stavo per dirgli qualcosa sul bere, quando mi ricordai con sollievo che non lo dovevo più fare. Ora sarebbe stato compito di Sally. Ma forse con lei non beveva. «Puoi venire a riprenderla quando vuoi» disse. «Non saprei proprio dove metterla in questo momento» risposi. «C'è fretta? Sally viene a vivere qui?» «La conosco da appena un paio di settimane. È solo...» «Sai, Terry, se c'è una cosa che non ho nessuna intenzione di fare è una discussione su quanto lei non significhi niente per te e roba del genere.» «Non è quel che intendevo. Stavo parlando di te. Volevo solo dirti che non sono affatto contento di come mi sono comportato quando te ne sei andata.» Cercò di bere dal bicchiere vuoto. Abbassò gli occhi al pavimen-
to, poi li alzò su di me. «Mi dispiace, Abbie. Mi dispiace di averti picchiata. Davvero. Non ho scuse. È stata tutta colpa mia e mi odio per questo.» Conoscevo molto bene quel Terry. Era il Terry mortificato. Il Terry che ammetteva ogni cosa e diceva che non l'avrebbe fatto mai più e che d'allora in avanti sarebbe stato tutto differente. Avevo creduto a quel Terry fin troppo spesso, ma, dopo tutto, anche lui gli credeva. «Okay» dissi alla fine. «Non devi odiarti.» «Deve essere stato terribile vivere con me.» «Be', probabilmente anch'io ho fatto la mia parte.» Scosse il capo con aria mesta. «No, tu non c'entri per niente. Tu eri felice e generosa e divertente. A parte i primi minuti subito dopo che suonava la sveglia la mattina. Tutti i miei amici pensavano fossi l'uomo più fortunato del mondo. E non ti stancavi di me.» «Ma...» dissi a disagio. «Solo che lo stai facendo ora, no? Ti sei stancata.» «È finita, Terry.» «Abbie...» «No. Per favore, ascolta, Terry, volevo chiederti una cosa.» «Qualsiasi cosa.» Era al secondo bicchiere di vino ora. «Per qualche ragione, per la mia salute mentale soprattutto, sto cercando di ricostruire questo periodo che non riesco a ricordare. Sto facendo delle indagini su me stessa come se fossi un'altra. Ora, da quel che capisco, quel sabato abbiamo avuto una lite terribile e io me ne sono andata.» «Come ho detto, non è stata proprio una lite. Era tutta colpa mia. Non so che cosa mi era preso.» «Terry, non è quello che mi importa. Ciò che voglio sapere è dove sono stata. E qualche altra cosa. Allora, me ne sono andata, e sono andata a stare da Sadie. Ma se sono uscita in fretta e furia, suppongo che non mi sia portata dietro lo stereo e il televisore.» Terry scosse il capo. «No» confermò. «Sei uscita solo con la borsa. Pensavo che saresti ritornata più tardi. Il giorno dopo hai telefonato e ho cercato di farti cambiare idea, ma non ci sono riuscito. Non hai voluto dirmi dov'eri. Poi, un paio di giorni dopo, hai telefonato di nuovo. Hai detto che saresti venuta a prendere un po' di cose. Sei venuta mercoledì e hai portato via parecchia roba.» Stavo arrivando alla parte difficile. «Non c'è stato altro?» «Che cosa vuoi dire?» «Quando abbiamo parlato... quando abbiamo litigato, abbiamo anche...
ehm...?» «Non abbiamo veramente parlato. Abbiamo litigato. Tu te ne sei andata. Ti ho chiesto se volevi ritornare indietro. Ti sei rifiutata. Non mi hai voluto dire dove andavi. Ti ho cercata per telefono, ma non sono riuscito a trovarti.» «E quando sono ritornata a prendere la mia roba? Che cosa è successo allora?» «Non ci siamo visti. Sei venuta mentre ero fuori.» Sentii come un colpo allo stomaco. «Scusami, so che ti sembrerò stupida, ma stai dicendo che dopo che me ne sono andata non abbiamo più avuto contatti?» «Abbiamo parlato al telefono.» «Non intendevo quello. Non ci siamo mai incontrati?» «No, non volevi.» «Allora chi diavolo...?» Avevo cominciato una frase che non potevo finire. «Senti, Abbie, voglio veramente...» In quel momento suonò il campanello, così non seppi mai che cosa Terry volesse veramente, anche se lo intuii piuttosto bene. Vidi che stringeva i denti e che sapeva chi aveva suonato, così lo capii anch'io. «È un po' imbarazzante» disse, mentre si dirigeva alla porta. Non ero nelle condizioni di occuparmi di altro. Riuscivo a malapena a parlare. «Non è affatto imbarazzante. Vai ad aprirle. Io scenderò con te. Me ne vado.» Scendemmo le scale in fila indiana. «Sto andandomene» dissi a Sally sulla soglia. «Sono venuta a prendere la posta.» Sventolai la busta. «Va bene» rispose Sally. «Non diventerà un'abitudine.» «Non ha nessuna importanza.» «Fantastico» dissi, mentre le passavo davanti. «Ti posso dire con tutta onestà che tu e Terry siete una coppia meglio assortita di quanto lo fossimo io e lui.» La sua espressione divenne gelida. «Che cosa stai dicendo? Non mi conosci affatto.» «No» risposi. «Ma conosco me stessa.» Sulla via di casa mi fermai in uno di quei mini supermercati che com-
pensano il fatto di avere frutta e verdura vecchiotte con l'essere sempre aperti. Presi il latte, una bottiglia di vino bianco e gli ingredienti per un'insalata. Di ritorno nell'appartamento di Jo chiusi la porta con la catena e poi mi preparai l'insalata. Ero così stanca che avevo superato il desiderio di dormire. Gli occhi mi facevano male, la testa mi ronzava, gli arti mi dolevano. Inghiottii un paio di pastiglie con un sorso del vino bianco freddo, poi mangiai l'insalata da sola e in silenzio, cercando di fare chiarezza nei pensieri. Guardai la piccola piramide della posta di Jo. Non c'era niente di necessariamente sinistro in quella situazione. Forse mi aveva invitata a badare alla sua casa mentre era in vacanza, o all'estero per lavoro, o una cosa del genere. Diedi una scorsa alla pila delle lettere. Ce n'erano alcune listate di rosso. Non sapevo se fosse un brutto segno. Jo poteva essere il tipo che aspetta l'ultimo minuto a pagare le bollette. O magari se ne era dimenticata. O sarebbe arrivata dalle vacanze da un momento all'altro. Decisi di darle ancora un paio di giorni e poi di indagare. Prima dovevo indagare su di me. Mi sedetti a gambe incrociate sul pavimento di abete di Jo e mi misi intorno le cose che avevo raccolto fino ad allora. La cartellina del progetto Avalanche, la posta che avevo ritirato da Terry. I messaggi telefonici che mi aveva dato Carol, le ricevute che avevo trovato nel cassetto portaoggetti della macchina. Andai allo scrittoio all'angolo della stanza e lo aprii. Presi una penna da una tazza decorata con la mappa della metropolitana di Londra e una manciata di fogli di carta da un cassetto. Che informazioni avevo raccolto sui giorni che non riuscivo a ricordare? Presi uno dei fogli bianchi e scrissi «Giorni perduti» in cima. A destra scrissi «Martedì 22 gennaio». Alla fine di quel giorno, poco prima di mezzanotte, ero crollata sulla porta di Tony Russell. Quanti giorni ero stata tenuta prigioniera? Tre? No, dovevano essere di più. Quattro, cinque, sei, forse di più ancora. L'ultima informazione di cui ero assolutamente certa era la cena ordinata martedì 15 gennaio al takeaway indiano e che era stata consegnata a questo indirizzo. Dovevo riempire quei giorni. Che cosa avevo fatto? Sapevo che non avevo visto i miei amici. Fui assalita da un pensiero. Andai in cucina. Dovetti aprire diversi sportelli prima di trovare il secchio della spazzatura. Quando mi ci chinai sopra, fui investita da un odore orribile, dolciastro e di marcio. Mi feci forza e ci guardai dentro. C'erano cose disgustose, resti ammuffiti, rancidi, viscidi, ma non c'era nessuna vaschetta di alluminio con resti di cibo indiano. Questo voleva dire che il secchio era stato svuotato almeno una volta da
allora e che c'era stato anche il tempo perché fosse di nuovo riempito. E questo voleva dire che o Jo o io, oppure tutte e due, o qualcun altro era stato qui per qualche tempo dopo quel martedì. A meno che i resti della cena indiana fossero stati buttati via direttamente in un bidone fuori. Ma era un'ipotesi molto improbabile. Mi faceva male la testa. Robin non mi aveva detto che le avevo telefonato per cancellare il nostro drink? Scrissi «mercoledì» sul margine del foglio e ci misi accanto un punto interrogativo. Cominciai con l'elenco dei messaggi telefonici di Carol. Quelle note buttate giù in fretta, quelle comunicazioni urgenti e quelle brevi risposte, mi riportarono indietro alla vecchia vita più di ogni altra cosa. Uno dopo l'altro cancellai con un segno di penna i messaggi che riconoscevo. Alla fine ne rimasero tre misteriosi. Uno senza nome, ma con un numero di telefono accanto. Uno che diceva: «Ha chiamato Pat». Pat, chi? Conoscevo dodici persone che si chiamavano Pat, tra maschi e femmine. Con una di loro ero stata all'asilo. Aveva l'urlo più forte che avessi mai udito. L'altro diceva: «Ha chiamato un tizio». Grazie, Carol. Mi sedetti di nuovo e presi un altro foglio bianco. Scrissi «Cose da fare» in cima alla pagina. Il motto della mia vita era: quando sei in dubbio, fai un elenco. Per prima cosa scrissi «Richiamare i numeri» e, subito sotto, «Avalanche». Laurence aveva detto che dopo essermene andata via infuriata, avevo cercato, per mio conto, le persone coinvolte nel progetto, e le avevo incoraggiate a lamentarsi. Era uno dei pochi indizi di quel che avevo fatto nei giorni perduti. Aprii la cartellina della documentazione Avalanche e tirai fuori il foglio con i nomi delle persone che avevamo contattato e che si trovava all'inizio. Erano tutti nomi noti, gente con cui avevo avuto a che fare quotidianamente o quasi in quei giorni frenetici all'inizio di gennaio. Scorsi i fogli. Appuntai dei nomi, mettendone alcuni tra parentesi e sottolineandone altri. Mi sentii stanca solo al pensiero di quanto lavoro avevo fatto. Arrivai all'elenco dei conti alla fine della cartellina. Guardai fisso le cifre, finché non cominciarono a traballarmi davanti. Come forme che scivolavano fuori da una nebbia fitta, mi riaffiorarono alla mente alcune delle discussioni che avevo avuto con Laurence. O, almeno, i motivi che le avevano causate: il comportamento pretenzioso e poco limpido della nostra azienda nei confronti dei subappaltatori, le spese fantasiose che mi erano passate sotto il naso. E poi mi ricordai di Todd. A dir la verità Todd era una parte della mia vita che non avevo mai di-
menticato, ma solo spinto in fondo alla mente. In seguito mi chiesi se non avessi dovuto scorgerne i segni prima. Era stato Todd a dirigere il progetto Avalanche, in primo luogo. Era un compito immensamente complicato che richiedeva un misto di laisser faire e di autorità. Avevo imparato molto velocemente che in un lavoro tutti hanno qualche motivo di lagnanza contro qualcun altro e tutti hanno una scusa per i propri errori. Se si va troppo oltre in una direzione, si provoca una rivolta; nell'altra, nessuno fa niente. Poiché alcune persone che lavoravano per Todd erano le stesse che lavoravano per me, cominciai a sentir dire che il lavoro procedeva lentamente. Il lavoro procede sempre lentamente. Ma se ì costruttori dicono che sta andando lentamente, vuol dire che sta andando indietro. Ne accennai un paio di volte a Todd e lui disse che non c'erano problemi. Cominciai a sospettare che ci fosse realmente qualcosa che non funzionava e ne parlai a Laurence. Immediatamente dopo mi fu detto che Todd era stato licenziato e che io ero incaricata di dirigere il progetto Avalanche. Laurence mi spiegò che, a quanto pareva, Todd aveva avuto un esaurimento nervoso di cui non aveva fatto parola con nessuno, a seguito del quale non era stato in grado di lavorare e che l'azienda stava contemplando l'idea di fargli causa. Ne fui costernata e dissi che non avevo avuto l'intenzione di tradire Todd. Laurence rispose che Todd era uno psicotico, che aveva bisogno di uno psichiatra o qualcosa del genere, ma che il problema immediato era di salvare la Jay and Joiner's. Così occupai l'ufficio di Todd e lavorai sodo per quaranta ore e poi, per una settimana ancora, non dormii mai più di quattro ore per notte. Allora, se ero stata in parte responsabile di ciò che era successo a Todd, Todd era stato in parte responsabile di ciò che era successo a me. Scrissi il suo nome sul foglio. Riflettei un momento, poi aggiunsi un punto interrogativo. Avrei considerato la questione. Tracciai un quadrato intorno al punto interrogativo. E poi altre linee in modo che sembrasse che il punto interrogativo fosse dentro un cubo. Riempii con la penna i lati del cubo e ci disegnai dei raggi tutt'intorno perché sembrasse che stesse scintillando o esplodendo. Fui assalita da un altro pensiero. Maledizione, maledizione, maledizione. Sotto «Todd» scrissi «Test di gravidanza» e lo sottolineai. Avevo fatto l'amore con qualcuno senza evidentemente prendere precauzioni. Con chi? Cominciai a pensare a un altro elenco di candidati potenziali, ma non avevo nessuno da metterci. Chi avevo visto nella settimana perduta? Forse Guy. Poi il tipo che ci aveva portato la cena indiana e che quasi sicuramen-
te era un uomo. E, naturalmente, lui. Iniziai a scrivere «Che cosa» e mi interruppi. Stavo pensando: che cosa stai facendo? e lo stavo scrivendo automaticamente. Ma che cosa stavo facendo? L'idea di quei giorni neri, dimenticati, era orribile, e mi ronzava costantemente per il cervello, tormentandomi ogni secondo del giorno e della notte. A volte pensavo che fosse questo a causarmi il mal di testa. Se fossi riuscita a riempire i vuoti, a scoprire quel che avevo fatto, il dolore se ne sarebbe andato. Valeva la pena correre dei rischi, però? E stavo correndo dei rischi? Lui era nascosto a Londra da qualche parte e mi stava cercando? Forse mi aveva già ritrovata. Forse in questo momento era fuori dall'appartamento di Jo, ad aspettare che uscissi. O forse mi sbagliavo. Forse era svanito nel nulla. Sapeva che non ricordavo come ci fossimo incontrati. Che non lo avevo visto. Se non si fosse mosso, non avrebbe corso rischi. Se fosse andato da un'altra parte a uccidere altre donne e si fosse dimenticato di me, probabilmente non gli sarebbe successo nulla. Ma poteva esserne sicuro? Tracciai un grosso punto interrogativo intorno a «Che cosa». Lo trasformai in un punto interrogativo tridimensionale, poi lo riempii di tratti di penna. Se fossi riuscita a dimostrare che ero stata veramente rapita... Era la cosa migliore che potessi sperare. Se fossi riuscita a trovare una prova, la polizia mi avrebbe creduta e mi avrebbe protetta; sarebbero andati a cercare quell'uomo e io avrei di nuovo avuto una vita. Ma che tipo di prova? Dove andare a cercarla? Decorai il gigantesco punto interrogativo con un reticolo di mini punti interrogativi che gli correvano lungo la schiena, intorno alla coda, per lo stomaco e poi ritornavano al capo, finché non fu interamente circondato da una nuvola di quesiti svolazzanti. Capitolo 10 Mi svegliai di soprassalto e per un momento non riuscii a ricordare dove fossi. La camera era buia e non c'era alcun rumore. Rimasi a letto nell'attesa che la memoria ritornasse. Aspettai di udire qualcosa, un suono nell'oscurità. Il cuore mi martellava forte e la bocca mi era improvvisamente diventata secca. Poi lo udii, come un passo leggero, fuori. Forse era ciò che mi aveva svegliata. Ma chi c'era là, fuori dalla mia finestra? Mi voltai e lanciai un'occhiata alla sveglia sul comodino. Mancavano dieci minuti alle cinque e faceva freddo.
Lo udii di nuovo, un rumore come di un passo che grattava per terra. Non riuscii a muovermi; rimasi premuta contro il guanciale. Respiravo con difficoltà e la testa mi martellava implacabilmente. Mi ritornarono alla mente il cappuccio e il bavaglio, ma poi cacciai via quel pensiero. Mi costrinsi a scendere dal letto e andare alla finestra. Aprii una fessura nelle tende e guardai sotto, attraverso le ghirlande di ghiaccio sul vetro. La neve caduta da poco rendeva ogni cosa più chiara e alla luce del lampione per strada riuscii a scorgere una sagoma scura sotto di me. Un grasso gatto striato si stava strofinando contro il cespuglio vicino alla porta d'ingresso, avvolgendo la coda spessa alle foglie morte. Mi misi quasi a ridere per il sollievo, ma poi alzò la testa e mi fissò con gli occhi gialli e fermi e fui assalita da un senso di terrore. Guardai la strada in basso, scura tra le macchie di luce arancione. Era deserta. Poi a qualche metro di distanza spuntò una macchina; i fari illuminarono la strada e scorsi di sfuggita una sagoma in lontananza. Sulla neve fresca c'erano delle impronte. Lasciai cadere le tende e mi voltai. Mi stavo comportando in modo ridicolo, mi dissi con severità. Da paranoica. A Londra c'è sempre qualcuno che non dorme. Ci sono sempre macchine e gatti e gente per strada. In qualsiasi ora della notte mi fossi svegliata e avessi premuto il viso contro la finestra, avrei visto qualcuno. Tornai a letto e mi rannicchiai, stringendomi con le braccia. Avevo i piedi gelati e cercai di riscaldarli, infilandoli dentro la maglia da rugby, ma continuavano a scivolarmi fuori. Dopo qualche minuto, mi alzai di nuovo e andai in bagno. Avevo visto una boule dell'acqua calda appesa alla porta. Scaldai il bollitore, la riempii, presi due pastiglie per il mal di testa, e ritornai a letto. Rimasi a lungo stretta alla boule, cercando di addormentarmi. Mi frullavano per la testa un mucchio di pensieri, come fiocchi in una tempesta di neve, e continuavo a ripassare la montagna di cose che dovevo fare: le telefonate, le persone che dovevo incontrare; e dovevo cercare di scoprire dov'era Jo, sapere qualcosa di più di lei; e capire che cosa significava quella maledetta pillola del giorno dopo. Qualcuno doveva sapere che cosa diavolo mi fosse venuto in mente; e poi dovevo cercare un uomo o, forse, due; e che cosa avrei fatto se fossi stata incinta? Ripensai alla vecchia vita e mi sembrò molto lontana, come una fotografia dietro un vetro, mentre questa nuova vita era sinistra e invadente, e mi sfuggiva quando la osservavo. Il radiatore si mise a scricchiolare e borbottare e dopo qualche minuto il freddo si mitigò. Fuori, attraverso la fessura nella tenda, vedevo che l'oscu-
rità cominciava a diradarsi. Niente da fare, non sarei più riuscita ad addormentarmi. Il terrore mi si era accovacciato nel petto come un grosso rospo. Per mandarlo via dovevo muovermi, cominciare a metter ordine. Era l'unica cosa da fare. Feci un bagno quasi insopportabilmente caldo, tanto che quando uscii avevo la pelle arrossata e le dita grinzose. Mi misi i pantaloni larghi e la felpa nera con il cappuccio e due paia di calze. Preparai una tazza di caffè e scaldai il latte da metterci dentro. Bollii un uovo, tostai una fetta di pane vecchio e la imburrai generosamente. Dovevo trattarmi bene. Mi costrinsi a far colazione seduta a tavola, immergendo il pane tostato nel tuorlo e masticandolo lentamente tra sorsate di caffellatte. Poi andai in bagno e sostai davanti allo specchio. Ebbi ancora un leggero shock nel vedere il mio volto nudo e bianco. Mi inumidii i capelli e li pettinai, perché non mi stessero troppo dritti e mi spazzolai i denti vigorosamente, guardandomi mentre lo facevo. Niente trucco. Niente gioielli. Pronta per l'azione. Erano solo le sette e qualche minuto; la maggior parte della gente probabilmente era ancora a letto. Era certamente troppo presto per andare a comprare un test di gravidanza. L'avrei fatto più tardi. Mi sedetti con i fogli di carta davanti e riesaminai gli elenchi che avevo prodotto la sera precedente, aggiungendo note. Andai a frugare nei cassetti in cerca di quella gomma per attaccare i fogli sul muro. Non ne trovai, ma scovai del nastro adesivo in un cassetto pieno di cacciaviti, cordini, fusibili e pile. Appiccicai i fogli sul muro, lasciando dei vuoti che speravo di riempire in seguito. Mi diede una strana soddisfazione, un po' come riordinare la scrivania e fare la punta alle matite prima di iniziare a lavorare sul serio. Scrissi i nomi e gli indirizzi degli uomini che avevo intenzione di incontrare quel giorno. Erano tutti nomi che conoscevo bene e presumevo fossero le persone che ero andata a trovare dopo aver lasciato Jay and Joiner's. Avevo parlato al telefono quotidianamente con loro o con i loro collaboratori nelle ultime settimane di lavoro e sapevo che non li avevamo trattati bene. Alcuni dovevo averli incontrati, ma quel periodo frenetico appariva confuso, caotico e astratto, come se mi fossi mossa troppo velocemente per vedere bene, o come se l'amnesia si fosse espansa all'indietro e l'avesse intaccato. Forse, pensai, la mia perdita di memoria era come una macchia di inchiostro sulla carta assorbente. Aveva un punto centrale più scuro, e poi si schiariva allargandosi, fino a diventare impercettibile. Cercai gli indirizzi sullo stradario, organizzando il giro e decidendo chi contattare prima. Sollevai il telefono e cominciai a comporre il primo nu-
mero dell'elenco, poi riagganciai. Dovevo arrivare senza essere annunciata. Il mio unico vantaggio era la sorpresa. Infilai il cappello di lana e me lo tirai sulla fronte, mi avvolsi la sciarpa a strisce sulla parte inferiore del viso, poi spensi tutte le luci e tirai le tende della camera da letto, in modo che fossero com'erano prima che arrivassi. La lunga giornata precedente e la notte breve e insoddisfacente mi avevano resa più nervosa del solito. Non c'era un'uscita sul retro, così dovetti usare la porta principale. Prima di uscire mi misi gli occhiali da sole. Praticamente non avevo neanche una striscia di viso scoperta. Trassi un profondo respiro e mi incamminai a passo di marcia nel vento impetuoso. Era uno dei giorni più freddi di quel periodo, un freddo che faceva accapponare la pelle e arrivava dolorosamente fino alle ossa. La multa era ancora sotto i tergicristalli ghiacciati, ma non importava. Per quel giorno avrei usato i mezzi pubblici. Il negozio di Ken Lofting non era ancora aperto, ma quando premetti il viso sulla porta di vetro vidi che nel retro le luci erano accese. Non mi parve di scorgere campanelli, così bussai con il pugno e aspettai. Alla fine vidi apparire una sagoma. Le luci del negozio si accesero con tale intensità e profusione che mi sembrò di nuovo Natale, e la figura massiccia di Ken mi venne incontro camminando pesantemente e scuotendo il capo alla mia impazienza. Non aprì subito la porta. Mi guardò attraverso il vetro, poi sul suo volto pesante e florido apparve lentamente un sorriso di riconoscimento. Manovrò una serie di chiavistelli e aprì la porta. Avevo la bocca secca per l'apprensione, ma continuai a sorridergli senza esitazioni. «Abbie?» «Mi sono solo fatta tagliare i capelli, tutto qui. Posso parlarti un minuto?» Si fece indietro, continuando a fissarmi finché non mi sentii imbarazzata. «Speravo di vederti» disse. Prestai attenzione alla voce. Aveva l'accento giusto? «Ti ho pensata.» «Credevo che il negozio fosse aperto a quest'ora» dissi, guardandomi intorno nervosamente. Le lampade, i candelieri e i riflettori erano accesi, ma sembrava non ci fosse nessun altro oltre a noi. «Tra cinque o dieci minuti.» «Possiamo parlare?» Si fece da parte ed entrai nel negozio. Lui richiuse la porta con chiave e chiavistelli e io non potei fare a meno di rabbrividire. Non riuscii a tratte-
nermi. Ken non è solo un vecchio elettricista che mette fili dietro agli zoccolini; è un maestro. Se ne intende di fili elettrici, ma è un vero maniaco della luce, di come cade, della sua profondità di campo, della qualità del contrasto. Nel suo negozio di Stockwell si possono trovare strane lampadine norvegesi non più in commercio ed è capace di passare ore a discutere di luce diretta e indiretta; diffusa o concentrata. Le luci che abbiamo messo nell'ufficio di Avalanche erano opere d'arte. Le scrivanie e gli uffici individuali erano illuminati vivacemente, ma tra questi c'erano zone più in ombra. «Contrasto» continuava a ripetere. «Ci deve essere contrasto per dar forma e spessore a una stanza, per portarla alla vita. La regola d'oro è mai produrre una luce piatta e abbagliante. Chi potrebbe viverci?» I direttori di Avalanche amavano quel tipo di discorsi. «Perché speravi di vedermi, Ken?» «Facciamo le cose con ordine. Tè?» «Benissimo.» Preparò il tè nell'ufficio sul retro, che era pieno di scatole di cartone. Mi fece sedere sulla sedia e lui si sistemò su una scatola. Faceva molto freddo là dentro e io tenni indosso il cappotto, benché lui fosse in maniche di camicia. «Perché volevi vedermi?» «Cracker? Biscotti allo zenzero?» «No, grazie.» «Per ringraziarti.» «Ringraziarmi per che cosa?» «Perché è merito tuo se ho evitato di perdere tremila sterline, ecco perché.» «Ho fatto una cosa del genere?» «Sì.» «E come?» «Che cosa?» «Scusa, Ken. Abbi pazienza con me. Ci sono delle cose al lavoro che dobbiamo chiarire.» La risposta sembrò soddisfarlo. «Mi hai detto che ero stato sottopagato e che dovevo protestare.» «E tu l'hai fatto?» «Oh, sì.» «Quando te l'ho detto, Ken?»
«Dev'essere stato lunedì mattina. Presto come oggi.» «Che lunedì?» «Be', quello di tre settimane fa, più o meno.» «Lunedì 14?» Ci pensò su un momento, poi annuì. «Doveva esser quello.» «E da allora non ti ho più visto?» «No, perché? Avresti dovuto?» Una lucina comparve sul viso pesante. «Vorresti avermi visto per comunicarlo alla ditta, per il conteggio delle ore, è così? Ti devo un favore, così dimmi quando mi hai visto e per quanto tempo.» «Non è questo. Ho solo bisogno di fare chiarezza in un pasticcio. Davvero non sono più venuta da te dopo di allora?» Sembrò deluso. «No. Anche se volevo ringraziarti.» Si protese in avanti e mi mise una mano sulla spalla. «Ti sei messa nei guai per me, vero?» Scrollai le spalle e poi insistetti: «Allora, sei sicuro? Lunedì 14. Te lo ricordi chiaramente?». «Mi ricordo che non riuscivi a stare ferma per più di un secondo, eri così arrabbiata.» Fece una risata un po' cavernosa. «Devi aprire ora. E io devo andare. Mi sei stato molto d'aiuto, Ken.» «Già» disse. Non si mosse dalla sua scatola, ma forse solo perché era un uomo grande e lento. E mi guardò in un modo che sembrava assolutamente amichevole. Ma come esserne sicura? Il dubbio mi si insinuò nelle viscere. «Mi potresti aprire la porta, per favore?» Si alzò e attraversammo molto lentamente il negozio abbagliante. Aprì e uscii nel freddo di quella giornata. Avevo la fronte imperlata di sudore e le mani che mi tremavano. «Oh no! Che cosa c'è adesso? Qualcosa che non funziona? Qualcosa che è andato storto, che non va? Qualche idiota che non sa come far funzionare il sistema? Le dico una cosa.» Mi cacciò praticamente l'indice nel petto. «Non farò mai più niente per la vostra azienda. L'ho già detto anche ai suoi colleghi. Mai più. Neanche se me lo chiedete in ginocchio. Non ne vale la pena. Prima quell'uomo che sembrava sempre sul punto di scoppiare a piangere quando mi vedeva, poi quella donna bionda che sembrava avesse un missile nel culo, mi scusi il linguaggio, anche se alla fine non era poi tanto male. Probabilmente l'avrete liquidata, no? Solo perché aveva il senso della giustizia.» Era un uomo magro e dal sangue caldo. Mi piacque subito.
«Sono stata io a dirle che la pagavano troppo poco, signor Khan» lo interruppi. «No, no, no. Non me la bevo. Era un'altra, una con i capelli lunghi, biondi. Una certa Abbie, si chiamava così. Lei non l'ho mai vista.» Davvero non mi riconosceva? Mi tolsi il cappello nero di lana. La sua espressione non cambiò. Allora non insistetti e finsi di essere un'altra. Un'amica di Abbie. «Quando è stata l'ultima volta che l'ha vista?» chiesi, cercando di avere un tono professionale. «L'11 gennaio, un venerdì» rispose con prontezza. «No, voglio dire, l'ultimissima volta?» «Gliel'ho detto.» «Non la metterà in guai maggiori di quelli in cui si trova già, signor Khan.» «Allora è nei guai? Lo sapevo. Gliel'ho anche detto. Non sembrava che le importasse.» «L'ha vista dopo?» Scrollò le spalle e mi lanciò un'occhiata di fuoco. Avrei voluto abbracciarlo. «Sono un'amica di Abbie» insistetti. Mi avrebbe riconosciuta da un momento all'altro e avrebbe pensato che ero una bugiarda, una persona infida o semplicemente matta. «Sono dalla sua parte.» «È quel che dicono anche altre persone.» Che cosa voleva dire? Lo fissai sconcertata, e lui continuò: «D'accordo, allora. L'ho vista il lunedì successivo. E poi sono andato direttamente dai miei avvocati. Mi ha fatto un grosso favore». «Lunedì 14?» «Sì. Se la vede, la ringrazi da parte mia.» «Lo farò. E, signor Khan...» «Che cosa?» «Grazie.» Per un istante la sua espressione vacillò. Mi guardò più attentamente e io mi voltai, mi rimisi gli occhiali da sole sugli occhi e il cappello in testa. «Arrivederci.» Pranzai in un ristorante italiano di Soho, caldo e dalle luci smorzate. Mi diedero un tavolo nascosto in un angolo in fondo. Vedevo tutti coloro che entravano, ma mi sembrava di essere invisibile. Il ristorante era pieno di turisti. Sentivo parlare spagnolo, francese e tedesco intorno a me. Fui percorsa da un brivido di piacere. Mi tolsi cappotto, cappello, sciarpa, occhiali
neri e ordinai un piatto di spaghetti con le vongole e un bicchiere di vino rosso. Mangiai lentamente e passai in quel posto quasi un'ora, ascoltando frammenti di conversazioni, aspirando l'odore delle sigarette, del caffè, del sugo al pomodoro e delle erbe. Ordinai ancora un cappuccino e una fetta di cheesecake al limone. Le dita dei piedi mi si sgelarono e la testa smise di farmi male. Lo posso fare, pensai. Se riesco a scoprire che cosa mi è successo, a farmi credere, se riesco a sentirmi di nuovo al sicuro, allora posso venire in posti come questo e star seduta in mezzo alla gente ed essere felice. Sorseggiare una tazza di caffè, mangiare una fetta di torta, stare al caldo e sentirsi al sicuro, questo è essere felici. Mi ero dimenticata di cose del genere. Uscii dal ristorante e andai a comprare un test di gravidanza. Non ricordavo di aver mai incontrato Ben Brody prima, anche se ero stata al suo laboratorio di Highbury una volta. Mi feci strada attraverso una pioggerella gelata. Sentivo che il naso, l'unica parte di me esposta, stava diventando di nuovo rosso. Il laboratorio era in una viuzza vicino a una grossa arteria. Sulla porta c'era il suo nome: «Ben Brody, product designer». Come si fa a diventare product designer? Mi chiesi. Poi mi sentii stupida. Come si faceva a diventare consulente di arredamento per uffici, per l'amor del Cielo? Fui colpita dalla ridicolaggine del lavoro che facevo. Se fossi mai riuscita a venir fuori da questo pasticcio, avrei cambiato lavoro; avrei fatto la giardiniera, la pasticcera o il falegname. Avrei fatto cose. Solo che ero una frana con le mani. Ben Brody faceva cose. O, almeno, faceva prototipi. Aveva progettato le scrivanie e le sedie per Avalanche, e i tramezzi che rendevano l'ampio open space meno intimidatorio. E noi l'avevamo sottopagato e ci eravamo fatti strapagare dai nostri clienti. Non bussai. Aprii la porta ed entrai. L'ampia stanza aveva banchi di lavoro tutt'intorno. Due uomini stavano vicini al telaio di una bicicletta. Dal fondo proveniva il rumore di un trapano. C'era odore di segatura. Mi fece pensare all'odore di Pippi quando si svegliava e il suo faccino rosa grinzoso si allungava in uno sbadiglio. Dolce e legnoso. «Posso fare qualcosa per lei?» «Signor Brody?» «No. Ben è in fondo.» Fece un segno con il pollice verso una porta. «Sta facendo i conti. Devo andare a chiamarlo?» «Ci vado io.»
Aprii la porta e l'uomo seduto alla scrivania alzò gli occhi. Tenni il cappello di lana in testa, ma mi tolsi gli occhiali scuri. Nella stanzetta buia non riuscivo quasi a vedere, altrimenti. «Sì?» disse. Mi guardò fisso. Aveva l'aria di chi ha appena succhiato un limone. Si tolse gli occhiali e li posò sulla scrivania. Aveva un viso sottile, ma notai che le mani erano grandi e forti. «Sì?» ripeté. «Probabilmente non si ricorda di me. Ci siamo visti solo un paio di volte. Sono Abbie Devereaux di Jay and Joiner's.» Mi guardò senza espressione. «Non l'ho dimenticata» disse. «Che cosa ci fa qui?» I suoi modi erano quasi rudi. Presi una sedia e mi sedetti davanti a lui. «Non le farò perdere molto tempo. Sto solo cercando di far chiarezza in un guazzabuglio in ufficio.» «Non capisco» rispose. In effetti sembrava piuttosto sconcertato. «Perché è qui?» «Voglio solo sistemare alcune cose.» Mi guardò senza dir nulla. Continuai: «Ci sono delle date che non capisco... le ragioni sono troppo complicate perché gliele spieghi». «Troppo complicate?» «Non mi faccia domande. Non sono cose che le possono interessare, glielo assicuro. Volevo solo chiederle quando ci siamo incontrati. L'ultima volta che ci siamo visti.» Il telefono dietro di lui squillò, e si girò a rispondere. «Assolutamente no» disse con fermezza. «Gomma. No. No. Giusto.» Mise giù il telefono e si voltò di nuovo verso di me. «È venuta qui lunedì, tre settimane fa, per parlarmi di certi problemi con il contratto Avalanche.» «Grazie» dissi. La nuca prese a pizzicarmi, perché ebbi l'impressione di riconoscere la voce. Non il tono, qualcosa nell'intonazione, forse. Mi conficcai le unghie nelle palme delle mani. «È sicuro del giorno?» «Sì» rispose, imitandomi. «È troppo complicato perché le spieghi le ragioni, ma ne sono sicuro.» Mi sentii arrossire. Mi alzai e lo fece anche lui. «Mi dispiace averle fatto perdere tempo» dissi in modo formale. «Nessun problema» rispose. «Arrivederci. E spero che si rimetta in sesto presto.» «Rimettermi in sesto?» «Sì. È stata malata, no?» «Sto bene, ora» risposi in fretta e me ne andai.
Non avevo visto Molte Schmidt, l'idraulico, il 14, ma gli avevo telefonato. Gli ero stata molto utile, disse. Dovevo aver avuto un giorno piuttosto intenso, quel lunedì, pensai, e poi pensai ancora che oggi in effetti lo stavo replicando, stavo giocando a undue-tre stella con me stessa. Passai i venti minuti con Molte molto piacevolmente, perché era giovane, bello e simpatico, con i lunghi capelli legati a coda di cavallo e degli incredibili occhi blu. E perché, come mi disse, era mezzo finlandese e mezzo tedesco e aveva un accento molto marcato. Infine, quasi al crepuscolo, feci l'ultima tappa della giornata. La pioggerella era diventata neve che veniva giù leggera dal cielo grigio. Ma le luci erano tutte accese nelle serre e quando entrai sentii odore di resina e udii un gorgoglio d'acqua. Di tanto in tanto un colpo d'aria faceva tintinnare un sonaglio. Mi sembrò di uscire dal mio mondo ed entrare in un'altra dimensione. La serra non era grande, tuttavia mi parve di avere davanti un ampio panorama, come se la mia vista si stendesse per chilometri e chilometri. C'erano bonsai dappertutto, vecchi e belli, con tronchi contorti e rami protesi. Mi piegai a toccarne uno delicatamente. «Olmo cinese» disse una voce dietro di me. «Ha più di cent'anni.» Mi raddrizzai. Gordon Lockhart era massiccio e quasi calvo. Portava delle bretelle di un rosso vivo su una spessa maglia blu. «È una pianta da interni» continuò. «Questo invece» indicò un alberello sottile con le foglie fiammeggianti «è un acero giapponese. Da esterni, solo che l'abbiamo portato dentro per l'inverno.» «Molto bello» dissi. «Come si sta bene qui dentro. Si respira la pace.» «Già. Quando vengo qui dalla strada sporca e rumorosa, sono in un altro mondo. Una foresta antica nel mezzo di Londra. Guardi, è un fico del Banian. Osservi quelle radici aeree.» «Incantevole» ripetei. «Sembra un sogno.» «Ci pensi su con calma. Non è facile scegliere l'albero giusto. O deve fare un regalo? È un regalo che ha molto successo, soprattutto per i matrimoni e gli anniversari.» «A dir la verità sono venuta a chiederle una cosa. Penso che ci siamo già incontrati.» «Incontro molte persone.» «Vengo da Jay and Joiner's. Lei ha fornito venti bonsai agli uffici Ava-
lanche di Canary Wharf. Credo di essere venuta qui a dirle che doveva chiedere di più per il suo lavoro.» «Abbie? Abbie Devereaux? Ha tagliato tutti i suoi bei capelli.» «Sì.» «Mi hanno pagato di più. E le ho fatto un regalo, si ricorda?» «Sì» risposi, non ricordando, ma non volendo offenderlo. La testa mi ronzava. Dietro di me, l'acqua gorgogliava come una risata. «Un olmo cinese, vero?» «Un olmo, perché voleva un albero da tenere all'interno. Di dieci anni, mi pare. Con un bel tronco. Ha detto che era per un regalo.» «Un regalo» ripetei. «Sì, è stato un regalo perfetto. Be', ero venuta a chiederle se si ricordasse quando ci eravamo visti. La data, voglio dire.» Scoprii che ci eravamo visti due volte, il lunedì e poi mercoledì 16. Fui stupita ed eccitata nello stesso tempo. Avevo fatto un salto di due giorni nel mio calendario. Lo ringraziai e poi, d'impulso, comprai il fico del Banian. L'avrei regalato a Jo quando ci saremmo incontrate. Capitolo 11 Quando arrivai all'appartamento di Jo, con il fico del Banian in braccio, vidi che la macchina mi era stata bloccata con le ganasce. Oltre alla multa originaria, sul parabrezza c'era un grosso sticker che diceva di non cercare di muoverla. Recava anche un numero di telefono che dovevo chiamare per farmela liberare, dietro pagamento di una grossa somma di denaro. Mi tastai le tasche, ma non trovai penne. La mia macchina non sembrava valere tutta quella spesa. Me ne sarei occupata in seguito. Almeno sapevo dov'era, per il momento. Avevo cose più importanti da fare. Il test di gravidanza, comprato, fortunatamente, in offerta speciale. Al quindici per cento in meno. Per prima cosa dovetti armeggiare parecchio con le dita infreddolite e tremanti per riuscire a togliere l'involucro di politene. Guardai il fondo della scatola. La data di scadenza era 20.04.01. Ecco perché me l'avevano dato scontato, era scaduto da nove mesi. Aveva importanza? Avrebbe dato risultati sbagliati? Andai nel bagno di Jo e strappai l'involucro interno per aprirlo. Sfilai un oggetto che sembrava un pennarello con una punta gigantesca. Lessi le istruzioni sulla scatola. «Tenere la punta dello stick rosa nel flusso dell'urina per almeno un secondo.» Nessun problema. Rimisi lo stick nella cartuccia. Guardai di nuovo le istruzioni. «Aspettare quattro minuti prima di leg-
gere il risultato.» Quattro minuti. Una quantità di tempo irritante. Dopo essermi tirata su le mutande e i calzoni, non sapevo che cosa fare. C'era troppo poco tempo per iniziare qualsiasi cosa. Fissai le tre finestre di controllo. Diventarono puntualmente rosa. Ora dovevo solo aspettare che il rosa svanisse da quella di mezzo. Chi è che progetta cose come questa? Un uomo, probabilmente. Qualche product designer tipo quel Ben. Che modo di guadagnarsi da vivere. Mi immaginai tutte le riunioni che dovevano aver fatto per decidere la forma ottimale. Avevo passato gli ultimi due anni ad andare a riunioni del genere. Mi voltai in modo da non vedere le finestrine rosa. Era ovvio, scientificamente provato, che se avessi continuato a guardarle la macchia rosa nel mezzo non si sarebbe scolorita e sarei stata incinta. Sarebbe stato possibile. Avevo guardato nel diario e avevo scoperto che le mestruazioni mi sarebbero dovute venire intorno al 24 gennaio, quando ero in ospedale. Oggi era giovedì 31 gennaio, così erano in ritardo di una settimana. Ovviamente ci potevano essere altre ragioni: ero stata praticamente digiuna per parecchi giorni, e avevo provato una paura mortale. Il corpo è molto saggio. Ma se fossi stata incinta? Feci un immenso sforzo per cercare di non immaginare che cosa avrebbe comportato esserlo. Ovviamente, fare uno sforzo per non pensare a qualcosa è come avere un ippopotamo in soggiorno e cercare di non guardarlo, ma dovetti resistere solo per circa due minuti, o forse uno. Probabilmente non occorreva lasciar passare tutti i quattro minuti, così girai la cartuccia e scoprii di non essere incinta. Controllai di nuovo le istruzioni per essere assolutamente certa del risultato. Era proprio così. Aprii la bottiglia del vino di Jo per celebrare. Con il primo sorso mi chiesi se fosse andato a male. Avrei comprato un'altra bottiglia il giorno dopo. Mi sentivo in colpa e pensai a quelle bollette contornate di rosso. Presto sarebbero venuti a tagliare il gas, l'elettricità e il telefono. Vivevo in casa sua. Dovevo prendermi delle responsabilità. Forse ero d'accordo con Jo che durante la sua assenza avrei pagato le bollette. Mi immaginai di vederla arrivare dalla porta e trovare una pila di bollette non pagate e me in cucina che finivo il suo vino. Mi riempii il bicchiere quasi fino all'orlo e andai a prendermi le mie responsabilità occupandomi della posta di Jo. Alla fine non ci fu molto da fare. Dopo aver buttato via le buste, separato riviste, cataloghi, offerte di assicurazioni, inviti a eventi che erano già passati, non rimase che una manciata di lettere personali. E poi le bollette: telefono, gas, elettricità, carta di credito. Le passai rapidamente in rassegna. Erano importi molto bassi. Nessun problema. Feci un calcolo mentale
approssimativo e arrivai alla conclusione che la somma totale fosse meno di cento sterline. Avrei anche pagato il conto della sua carta di credito, dato che ammontava a ventuno miserevoli sterline. Tra i vari talenti, Jo aveva evidentemente un controllo zen, buddista sulle sue finanze. Non aveva conti su carte di credito di negozi. Rimasero tre lettere con l'indirizzo scritto a mano e due cartoline. Non le guardai e le misi sulla mensola del caminetto. Squillò il telefono. Non risposi. Ci avevo pensato e alla fine avevo deciso di far passare ancora due giorni. Se Jo non fosse ritornata per allora, avrei cominciato a prendere le telefonate. Nel frattempo lasciai la segreteria telefonica inserita e ascoltavo i messaggi degli amici, che arrivavano a intervalli abbastanza regolari. Ciao, sono Jeff o Paul o Wendy, chiamami. Andai a dormire pensando a chi dovevo vedere ancora. Si trattava dell'ultima persona che avrei voluto incontrare, o quasi. Quasi. Todd Benson fu palesemente sorpreso di vedermi sui gradini di casa sua. Non gli avevo telefonato prima, ma pensavo che fosse in casa. «Abbie» disse, come per avere conferma che fossi io, o sperando che non lo fossi. «Carol mi ha dato il tuo indirizzo» spiegai. «Le ho telefonato e le ho detto che sarei venuta a trovarti a casa. Per sapere se andasse tutto bene.» Non era vero. «Ero in zona e ho pensato di fare un salto per scambiare due parole.» Anche questo non era vero. Todd viveva in un seminterrato in una piazza elegante a sud del fiume. Avevo fatto un viaggio in metropolitana e una camminata piuttosto lunga per arrivarci. Avevo ricavato l'indirizzo di Todd dalla cartellina dei documenti e non avevo detto a Carol che sarei andata a trovarlo. Ma fingere di averlo fatto mi fece sentire un po' più sicura. Todd si strinse nelle spalle e mi invitò a entrare. Avevo pensato che mi avrebbe trattata male, o che sarebbe stato depresso, ma fu solo gentile. Mi chiese se gradissi un caffè e poi lo preparò mentre lo guardavo. In maglietta grigia, pantaloni di tuta rossastri e mocassini non era esattamente vestito per l'ufficio. L'ultima traccia di Jay and Joiner's erano gli occhiali di design, dalla montatura così spessa che sembravano occhiali da saldatore. Mi porse la tazza di caffè e rimanemmo a berla in cucina, piuttosto imbarazzati. La tenni stretta in tutte e due le mani, che erano ancora fredde per il vento del nord di fuori. «Hai un aspetto peggiore del mio» disse. «Ho passato un periodo piuttosto brutto. Sono in congedo.»
«Come me.» Non sapevo fino a che punto stesse dicendo sul serio. «Più o meno» dissi cautamente. «Ma non sono qui per questo. Sono stata assalita.» «Da chi?» «Non lo so. Non hanno preso nessuno. Sono stata malmenata piuttosto brutalmente e di conseguenza ho dei ricordi molto vaghi delle ultime settimane.» Bevve un sorso di caffè. «Non mi fa piacere» disse. «Be', lo credo» risposi, allarmata più che rassicurata. «Non sono assolutamente in collera con te.» «Mi dispiace per quel che è accaduto...» «No» mi interruppe. «Mi hai fatto un favore. Stavo diventando matto.» «Non so se...» «Nelle ultime settimane mi sembrava quasi di essere fuori dal mio corpo e di guardarmi mentre mi distruggevo la vita. Vedi, ho sempre voluto essere una persona di successo, e lo sono stato fino a un certo punto. Ci ho riflettuto nelle ultime settimane e sono arrivato a una risposta. Volevo il successo per essere amato. L'amore era il premio del successo. Quell'incidente mi è servito per separare la vita lavorativa da quella emotiva. Sono io che devo scusarmi con te. Ti ho messa nella posizione di dover fare il mio lavoro sporco. Mi dispiace molto, Abbie.» E là, nella sua cucina, Todd si mise a piangere finché la faccia non gli divenne lucida di lacrime. Posai la tazza di caffè sul tavolo. Non avevo nessuna intenzione di andare ad abbracciarlo. Sarebbe stato ipocrita. D'altro canto non potevo rimanere ferma a guardarlo. Così mi avvicinai a lui e gli misi una mano sulla spalla. Il problema si risolse rapidamente, perché mi gettò le braccia al collo e mi strinse, continuando a singhiozzare e bagnandomi un lato del collo. Mi fu impossibile evitare un qualche tipo di abbraccio reciproco. Evitai l'abbraccio pieno, ma gli misi le braccia intorno alle spalle e gli diedi un leggero colpetto. «Todd» sussurrai. «Mi dispiace.» «No, no, Abbie. Sei proprio una brava persona.» Aumentai leggermente la pressione dell'abbraccio, poi mi liberai. Andai al lavandino, staccai un pezzo di scottex e glielo porsi perché si soffiasse il naso e si tamponasse il viso. «Ho pensato molto» disse. «È stato un periodo positivo.» «Bene. Ne sono contenta. Ma se non ti spiace, vorrei parlarti dei ricordi vaghi delle ultime settimane, come ti stavo dicendo. Per esempio, non mi
ricordavo di aver preso un'aspettativa da Jay and Joiner's. Sto facendo un giro delle persone che conosco per farmi dire qualcosa di quel periodo. Cose che ho dimenticato.» Guardai Todd negli occhi. «Alcuni direbbero che ci siamo lasciati molto male. Mi chiedevo se abbiamo avuto dei contatti dopo che tu... be', te ne sei andato.» Todd si strofinò gli occhi. Aveva il volto gonfio e arrossato. «Per qualche giorno sono stato piuttosto male. Ero amareggiato. Mi pareva di esser stato tradito. Ma poi, pian piano, mi è passata. Quando ti sei messa in contatto stavo bene.» «Messa in contatto? Che cosa vuoi dire?» «Mi hai telefonato.» «Quando?» «Due, tre settimane fa.» «Mi sapresti dire la data esatta?» Todd si fermò a pensare. Si passò la mano sui capelli stopposi. «Era uno dei giorni in cui vado in palestra. Mi hanno permesso di rimanere socio, cosa che mi fa piacere. Così doveva essere un mercoledì. Di pomeriggio.» «Mercoledì pomeriggio, giusto? Che cosa ti ho detto?» «Non molto. Sei stata carina. Mi hai chiamato per chiedermi come andava.» «Perché?» «Perché eri carina. Hai detto che avevi delle cose sulla coscienza e che volevi metterle a posto. Io ero una di queste.» «Ho detto nient'altro?» «Hai parlato del congedo. Mi hai raccontato del progetto Avalanche. Sembravi contenta. In un modo molto positivo.» Mi fermai un momento, a pensare, a riandare ai giorni perduti nella mente. Poi alzai gli occhi su Todd. «Vuoi dire che c'è un modo non positivo di essere contenti?» Riscrissi i miei «Giorni perduti» con ordine, sottolineando le date. L'elenco risultò più o meno il seguente. VENERDÌ 11 GENNAIO: resa dei conti da Jay and Joiner's. Uscita furiosa. SABATO 12 GENNAIO: lite con Terry. Uscita furiosa. Notte passata da Sadie. DOMENICA 13 GENNAIO: lasciata Sadie di mattina. Andata da
Sheila e Guy. Incontrato Robin per compere e spesi troppi soldi. Incontrato Sam per un drink. Ritornata da Sheila e Guy. LUNEDÌ 14 GENNAIO: visto Ken Lofting, signor Khan, Ben Brody e Gordon Lockhart. Telefonato a Molte Schmidt. Fatto benzina. Telefonato a Sheila e Guy per dire che non sarei ritornata da loro a dormire. MARTEDÌ 15 GENNAIO: andata da Sheila e Guy e lasciato un biglietto che diceva che avevo trovato un posto in cui stare. Presa la mia roba. Telefonato a Terry e stabilito di andare a prendere la mia roba il giorno successivo. Prenotato una vacanza a Venezia. Ordinato una cena da un takeaway indiano. MERCOLEDÌ 16 GENNAIO: preso il bonsai. Telefonato a Robin. Preso la roba da Terry. Telefonato a Todd. GIOVEDÌ 17 GENNAIO: Giovedì era vuoto. Scrissi a lettere maiuscole «PILLOLA DEL GIORNO DOPO» e poi «Jo»; mi preparai il caffè e rimasi a fissare il foglio di carta, finché la bevanda non si fu raffreddata. Capitolo 12 Finché avevo cose da fare, andava tutto bene. Dovevo solo tenermi occupata, evitare di pensare, di ricordare, altrimenti i ricordi mi inghiottivano come acque gelide e ritornavo in quel buio, dove occhi mi fissavano, dita mi toccavano. No. Non dovevo ritornarci. Per prima cosa affrontai il frigorifero; gettai via le cibarie vecchie e pulii i ripiani. Poi, ovviamente, dovetti andare a fare la spesa per riempirlo di nuovo. Andai a Camden, dove ritirai dalla banca duecentocinquanta sterline dal mio conto, che si stava rapidamente assottigliando con nessuna prospettiva immediata di essere rimpinguato. Poi comprai dei frutti di satsuma, mele, insalata, caffè e tè, latte, pane, burro, uova, yogurt, miele, due bottiglie di vino, uno rosso e l'altro bianco, sei bottiglie di birra di frumento, patatine e olive. Non comprai carne perché forse Jo era vegetariana. Presi anche del sapone in polvere e della carta igienica. Benché nell'appartamento di Jo mi sentissi precaria e strana, tante piccole cose stavano cominciando a renderlo casa mia: fare il bagno, lavare la biancheria, regolare il riscaldamento, cucinare dei pasti confortanti, accendere delle candele quando si faceva buio. Ma ero sempre in attesa che una chiave girasse nel-
la serratura e Jo entrasse dalla porta. Ed ero sempre in preda a una sorta di timore che ciò non avvenisse. Jo era come un fantasma in casa sua e mi perseguitava. Ritornai a casa barcollando, con i pesanti sacchetti di plastica che mi mordevano le dita senza guanti. Ogni tanto dovevo fermarmi per riposare e afferrarli meglio. A un certo punto, mentre ero piegata sulle borse a riprendere fiato, un tizio si offerse di aiutarmi. «Non importa» gli risposi seccamente e vidi l'espressione benevola sul suo volto scomparire. A casa presi tre buste dalla scrivania di Jo e misi quindici sterline in una, per Terry, cinquantadue in un'altra, per Sheila e Guy, e novanta nella terza, per Sam. In seguito promisi a me stessa che avrei fatto un pellegrinaggio e sarei andata a pagare i miei debiti e a ringraziare. Mi venne in mente che sarei dovuta andare a denunciare la scomparsa del cellulare; avrei dovuto farlo subito. Cominciai a digitare un numero, poi un pensiero mi fece accapponare la pelle e posare in fretta il telefono, come se potesse mordermi. Uscii e scesi lungo Maynard Street, poi svoltai in un'altra strada e avanzai finché non trovai una cabina telefonica con un telefono funzionante. Dentro c'era odore di urina e le pareti erano coperte di bigliettini che offrivano massaggi e lezioni di francese. Inserii venti pence e composi il numero. Dopo tre squilli qualcuno prese la telefonata. «Pronto?» dissi. Non ci fu risposta, ma udii un respiro all'altro capo. «Pronto? Chi parla? Pronto. Pronto.» Udivo ancora il respiro. Pensai alla risata sibilante nell'oscurità, al cappuccio, alle mani che mi sollevavano da una pedana e mi portavano a un secchio. Improvvisamente la consapevolezza di quel che stavo facendo mi mozzò il fiato. Ebbi la forza di balbettare: «Potrei parlare con Abbie, per favore?». La voce all'altro capo, una voce che non capii se riconobbi o no, rispose: «Non c'è in questo momento». Il sudore mi colava dalla fronte e la cornetta mi sembrò viscida in mano. La voce continuò: «Le dirò che ha chiamato. Chi parla?». «Jo» mi sentii rispondere. Stavo per vomitare. La bile mi salì in gola. La linea divenne muta. Rimasi per alcuni secondi con il telefono in mano. Un tizio con le stampelle si fermò fuori dalla cabina e diede un colpetto al vetro con la punta di una di esse. Riattaccai, aprii la porta con una
spinta e corsi a casa come se fossi inseguita. Avevo messo la borsa di roba che mi ero portata dall'ospedale - i vestiti con cui ero stata trovata e le poche sciocchezze che avevo rimediato mentre ero là - nel guardaroba. Andai a rovistarci dentro e con sollievo trovai il biglietto da visita che mi aveva dato l'ispettore Cross. Composi il numero e lui rispose subito. Non fu molto divertente parlare di nuovo con Cross. Nell'ultima visita in ospedale era imbarazzato e comprensivo. O forse la parola giusta era compassionevole, ma era una compassione che allora mi aveva fatto star male per la rabbia, la vergogna e il terrore, e che anche ora mi dava un senso di nausea. Gli dissi che avevo una cosa urgente da riferirgli, ma che non avevo nessuna intenzione di metter piede in una stazione di polizia, perciò gli chiesi se potesse venire da me. Mi rispose che per lui sarebbe stato meglio incontrarmi dopo il lavoro, dandomi l'impressione che io rappresentassi una faccenda illecita. Stabilimmo di vederci poco dopo le cinque del pomeriggio. La conversazione durò uno spiacevole minuto e quando riagganciai il telefono mi sentii così strana che presi due pillole, bevvi un bicchiere d'acqua e andai in camera a sdraiarmi sul letto per qualche momento, a faccia in giù e occhi chiusi. Avevo parlato con lui? Non lo sapevo, ma la sensazione che avevo provato nella cabina telefonica - quella sensazione di cadere, di volteggiare nell'oscurità che si prova in un incubo, appena prima di svegliarsi di soprassalto - era stata così forte da lasciarmi ancora stordita e terrorizzata. Mancavano due ore all'arrivo di Cross. Due ore sono tante quando si è in preda a terrore e solitudine. Mi versai un bicchiere di vino, poi, senza averlo bevuto, lo rovesciai nel lavandino. Tostai una fetta di pane e ci spalmai sopra del Marmite. Quando l'ebbi mangiata, versai dello yogurt in una tazza e ci misi dentro del miele. Mi calmò. Finii con una grossa tazza di tè. Decisi di cambiarmi. Dovevo vestirmi in maniera rispettabile e poco vistosa, in modo da apparire razionale e sana di mente, non una donna che andava in giro a raccontare di essere stata rapita e tenuta sottoterra da un assassino. Scelsi dei calzoni beige e un maglioncino di cashmere con la scollatura a V, i vestiti che mi mettevo alle riunioni con il settore finanziario. Il problema era che non ero più la stessa. Gli abiti mi stavano come appesi addosso, mi facevano sembrare un po' come un bambino che si mette la roba degli adulti. I capelli erano esageratamente corti e irti e non si adattavano, né come colore né come stile, al cashmere e ai pantaloni beige con la piega. Mi guardai allo specchio, insoddisfatta. Alla fine indossai un vec-
chio paio di jeans con una cintura e una maglietta rossa di flanella che avevo trovato appesa nel guardaroba, anche se non avevo alcun ricordo di averla comprata. Pensai al cellulare. Dovevo disdirlo o tenerlo, sapendo che forse la persona che ne era in possesso era lui? Non sapevo quale decisione prendere. Nella mente mi sembrava come un filo invisibile che si stendeva tra di noi. Potevo spezzarlo oppure cercare di seguirlo; ma lo stavo seguendo per uscire dal labirinto o per rientrarci? Esaminai i fogli che avevo attaccato alla parete. Non potevo esser stata rapita prima di mercoledì nel tardo pomeriggio o in serata. A cosa mi serviva saperlo? A niente. Chiamai Sadie, solo per salutarla, per sentire una voce amica proveniente da una vita che mi sembrava scomparsa, ma era fuori e lasciai un messaggio. Pensai di chiamare Sam, o Sheila e Guy, ma non lo feci. Domani; l'avrei fatto domani. Andai alla finestra e ci rimasi per qualche minuto, a guardare la gente che passava. Forse lui sapeva dove cercarmi, perché era qui che stavo prima. Mi stavo nascondendo nell'unico posto in cui sapeva di potermi trovare? Dovevo fare qualcosa fino a quando Cross non fosse arrivato. Dovevo tenermi occupata, muovermi, darmi dei compiti urgenti e delle scadenze improrogabili per persuadermi di essere un passo davanti a lui. Andai nella camera di Jo. Era molto ordinata. Aprii la cassettiera e tutto era piegato con cura. Anche le mutande erano in ordine, riposte una sull'altra. Aprii la scatola di pelle sul comò ed esaminai gli orecchini, la collana sottile d'oro, la spilla a forma di pesce. C'era anche un cartoncino bianco quadrato, e quando lo voltai vidi un quadrifoglio attaccato con lo scotch. Guardai i libri sul comodino: un libro di cucina tailandese, un romanzo di un autore che non conoscevo, e un'antologia, 101 poesie gioiose. C'era anche una videocassetta, senza etichette. Ritornai nel soggiorno e la infilai nel videoregistratore. Niente. La feci scorrere avanti. Apparve una spalla sfocata, poi la videocamera passò con un sobbalzo a una gamba. Doveva essere un video fatto in casa da un principiante. Mi piegai in avanti e aspettai. Vidi la faccia di Jo con un mezzo sorriso sulle labbra. Provai una sensazione molto strana. Poi la videocamera si allontanò e la mostrò tutt'intera, in cucina, vicino ai fornelli, mentre stava mescolando qualcosa, e intanto guardava indietro e faceva una smorfia a chi si trovava dietro la videocamera. Aveva indosso la vestaglia appesa dietro la porta della sua camera e le pantofole a mocassino. Forse era mattina, o sera tardi, era impossibile
capirlo. Lo schermo divenne di nuovo grigio, infine picchiettato. Fu attraversato da delle linee verticali e poi, improvvisamente, vidi me stessa. Me prima di quel che era accaduto. Ero seduta a gambe incrociate sulla poltrona, un bicchiere di vino in mano. Avevo dei pantaloni di tuta, non ero truccata e i capelli, i vecchi capelli lunghi, erano raccolti in cima alla testa. Sorridevo. Sollevai il bicchiere per fare un brindisi e mandai un bacio. La telecamera mi si avvicinò finché il mio viso non divenne sfocato. Lo schermo fu di nuovo grigio per alcuni minuti e poi apparve un film in bianco e nero con una donna con un cappello piumato che cavalcava con entrambe le gambe da un lato della sella. Lo feci scorrere in avanti velocemente, ma fino alla fine non c'era altro che il film. Riavvolsi la cassetta e guardai di nuovo il viso sorridente di Jo. Poi il mio. Ero più allegra di come non ricordavo fossi da tempo. Mi portai le dita alle guance e scoprii che stavo piangendo. Spensi il televisore, estrassi la videocassetta e la riportai in camera di Jo, sul suo libro di poesie gioiose. Vidi che sopra il guardaroba c'era una videocamera, oltre a un binocolo e a un registratore. Nel soggiorno il telefono squillò due volte prima che rispondesse la segreteria telefonica. Dopo una pausa una voce disse: «Ciao Jo, sono io. Volevo una conferma per stasera. Se non sento niente, vuol dire che va bene». Non lasciò il nome. Da qualche parte qualcuno avrebbe aspettato Jo; un amico o un amante. D'impulso feci il 1471, ma non riuscii a sapere il numero di chi aveva chiamato. Probabilmente telefonava da un ufficio. Qualche minuto dopo il telefono squillò di nuovo e questa volta alzai il ricevitore. «Pronto?» dissi. «Jo?» fece la voce dall'altro capo. Poi, prima che avessi il tempo di rispondere, si lanciò in una sorta di invettiva. «Jo, sono Claire Benedict. Come probabilmente sai, ho lasciato dozzine di messaggi e non hai mai risposto, ma...» «No, sono...» «Ti rendi conto che il tuo lavoro dovrebbe già essere stato mandato in tipografia?» «Senti, non sono Jo, sono un'amica. Abbie. Mi dispiace.» «Oh, mi puoi dire allora dov'è Jo? Come forse avrai capito, ho urgente bisogno di mettermi in contatto con lei.» «Non so dove sia.» «Ah. Be', quando la vedi, puoi dirle che ho chiamato? Claire Benedict
dell'ISP. Lei sa di che cosa si tratta.» «Sì, ma il problema è che sembra essere sparita. Quando avrebbe dovuto consegnare il lavoro?» «Sparita?» «Be', forse.» «Doveva darci il testo pronto entro lunedì 21 gennaio al più tardi. Non ha mai detto di aver problemi per finire. Semplicemente non si è più fatta viva.» «Di solito era puntuale?» «Sì, molto. Senti, davvero potrebbe essere scomparsa?» «Ti farò sapere che cosa è successo, d'accordo? Lasciami il tuo numero.» Lo scrissi sul retro di una delle buste non aperte e misi giù il telefono. Fu allora che suonò il campanello. Per un istante pensai con sbigottimento che Cross fosse qualcun altro. L'avevo visto solo con gli abiti da lavoro, i capelli in ordine e un non so che di impenetrabile. Ora portava dei pantaloni di velluto a coste marroni piuttosto frusti, un maglione pesante e una giacca a vento con il cappuccio tirato sulla testa. Sembrava fosse pronto per andare in giardino a fare un falò. O a giocare con i bambini. Aveva figli? Ma il cipiglio era quello che gli conoscevo. «Salve» salutai. Mi feci indietro per lasciarlo entrare. «Le sono grata di essere venuto.» «Abbie?» «Il mio nuovo look. Non le piace?» «È audace.» «È il modo in cui cerco di non farmi riconoscere.» «Capisco» disse a disagio. «Ha un aspetto migliore, comunque. Più sano.» «Vuole una tazza di tè?» «D'accordo.» Si guardò intorno. «È un posto carino.» «Non so bene come ci sia finita.» Cross sembrò perplesso, ma non fece domande. «Come se l'è passata?» mi chiese invece. «Con una paura da morire.» Versai l'acqua sulle bustine del tè, dandogli la schiena. «Tra le altre cose, naturalmente. Ma non le ho chiesto di venire per questo. Ho delle nuove informazioni. Vuole zucchero?»
«Un cucchiaino, grazie.» «Dovrei offrirle dei biscotti, ma non mi pare ce ne siano. Posso farle del pane tostato.» «Non importa. Ha ricordato qualcosa?» «Non è questo.» Gli porsi il tè e mi sedetti davanti a lui, sulla poltrona. «La cosa è che, be'... a dir la verità ci sono due cose. La prima è che credo di aver parlato con lui.» La sua espressione non cambiò. «Con lui?» disse gentilmente. «Con l'uomo che mi ha rapita. Lui.» «Ha detto che ha parlato con lui?» «Al telefono.» «Le ha telefonato?» «No. Sono io che gli ho telefonato. Voglio dire, ho chiamato il mio cellulare, perché è scomparso, e qualcuno ha risposto. L'ho riconosciuto subito. E lui ha capito che avevo capito.» «Aspetti un momento, ricapitoliamo. Lei ha fatto il numero del suo cellulare che ha perso, qualcuno ha risposto e lei dice che quella persona è la stessa che lei sostiene l'abbia rapita.» «Non lo sostengo» dissi. Cross bevve un sorso di tè. Sembrava piuttosto stanco. «Come si chiama, l'uomo che ha risposto?» «Non lo so. Non gliel'ho domandato, e comunque non me l'avrebbe detto, e poi sono stata assalita improvvisamente dal terrore. Ho temuto di cadere a terra. Gli ho chiesto di poter parlare con me stessa.» Cross si strofinò gli occhi. «Oh» fu tutto quel che riuscì a dire. «Non volevo che sapesse che ero io, ma penso l'abbia capito ugualmente.» «Abbie, i cellulari vengono rubati in continuazione. È un'epidemia.» «E poi mi ha chiesto chi fossi, e io gli ho risposto che ero Jo.» «Jo» ripeté. «Sì. Vede, questo appartamento appartiene a una persona che si chiama Jo. Josephine Hooper. Dovrei conoscerla, ma non me lo ricordo. So solo che mi sono trasferita qui quando c'era anche lei. In quella settimana, subito prima che quell'uomo mi rapisse e mi tenesse prigioniera.» Dissi quest'ultima cosa con una specie di ferocia. Cross si limitò ad annuire e abbassò gli occhi sul tè. «E poi c'è la seconda cosa: Jo è scomparsa.» «Scomparsa?» «Sì. È scomparsa e credo che la polizia dovrebbe occuparsene seriamen-
te. Penso che la sua scomparsa potrebbe essere collegata a ciò che è successo a me.» Cross posò la tazza di tè sul tavolo, tra di noi. Si portò la mano alla tasca e ne trasse un grosso fazzoletto bianco. Si soffiò il naso sonoramente, ripiegò il fazzoletto e se lo rimise in tasca. «Vuole denunciare la sua scomparsa?» «Non è qui, no?» «Non ha detto che non si ricorda di averla conosciuta?» «Già.» «Eppure vive nel suo appartamento.» «Vero.» «Presumibilmente questa donna ha parenti, amici, colleghi di lavoro.» «Continuano a chiamarla. Ho appena parlato con una tizia per cui Jo lavorava. Doveva essere redattrice o qualcosa del genere.» «Abbie, Abbie» disse con enfasi, come se volesse calmarmi. «In che senso questa donna è scomparsa?» «Nel senso che non è qui e ci dovrebbe essere.» «Perché?» «Non ha pagato le bollette, tanto per cominciare.» «Se non l'ha mai incontrata, come diavolo ha fatto a finire qui?» Così glielo dissi. Gli raccontai di Terry, della macchina al deposito, della ricevuta e della chiave; della spazzatura che puzzava di marcio, dei fiori appassiti, dell'editor arrabbiata che urlava al telefono. La mia storia non sembrava avere quell'autorevolezza che mi ero aspettata, ma non vacillai. Finii con la videocassetta con Jo e me. «Forse sta badando alla casa di questa donna che non ricorda, mentre lei è via» commentò Cross alla fine. «Forse.» «Forse le ha chiesto di occuparsi della spazzatura e delle bollette.» «Me ne sono occupata.» «Ecco, vede?» «Non mi crede.» «Che cosa c'è da credere?» «È scomparsa.» «Nessuno ha denunciato la sua scomparsa.» «La sto denunciando io ora.» «Ma... ma...» Sembrava sconcertato e incapace di trovare la parola giusta. «Abbie, non può denunciare la scomparsa di una persona di cui non sa
niente, né chi sia né dove dovrebbe essere.» «Lo so» insistetti. «Ma so che c'è qualcosa che non quadra.» «Abbie» disse gentilmente, e provai un tuffo al cuore. Mi forzai a guardarlo negli occhi. Non sembrava irritato o in collera, era solo serio. «Dapprima ha denunciato la sua, di scomparsa, senza prove. Ora sta denunciando quella di Josephine Hooper.» Fece una pausa. «Senza prove. Non sta facendo del bene a se stessa.» «Allora, questo è tutto, vero? E se avessi ragione e Jo fosse in pericolo, o peggio?» «Le dico una cosa. Perché non mi lascia fare un paio di telefonate per vedere se è stata denunciata la sua scomparsa? D'accordo?» «D'accordo.» «Posso usare il suo telefono?» «Il telefono di Jo. Faccia pure.» Uscii mentre telefonava; andai di nuovo nella camera di Jo e mi sedetti sul suo letto. Avevo un gran bisogno di un alleato, di qualcuno che mi credesse. Avevo chiamato Cross perché pensavo che nonostante quel che era successo, potesse essere dalla mia parte. Non potevo far tutto da sola. Lo udii metter giù il telefono e ritornai da lui. «Allora?» «Qualcuno ha già denunciato la scomparsa di Josephine Hooper» mi informò. «Ha visto? È stato un amico?» «Lei.» «Scusi?» «L'ha fatto lei. Giovedì 17 gennaio, alle undici e mezzo della mattina. Ha telefonato alla sede di Milton Green.» «Ha visto?» ripetei con aria di sfida. «A quanto pare, allora non se n'era andata neanche da un giorno.» «Capisco.» Effettivamente capivo; vedevo parecchie cose simultaneamente: che Cross non sarebbe stato il mio alleato, per quanto cercasse di essere carino con me; che ai suoi occhi, e forse agli occhi del mondo, ero una pazza isterica; e che ero ancora libera giovedì 17 gennaio. Jack Cross si stava morsicando il labbro. Sembrava preoccupato, ma penso fosse soprattutto preoccupato per me. «Vorrei aiutarla» disse. «Ma... senta, probabilmente questa Jo si trova a Ibiza.» «Già» feci amaramente. «Grazie.»
«È ritornata al lavoro?» chiese. «Non veramente. È un po' complicato.» «Dovrebbe. Deve avere uno scopo nella vita.» «Il mio scopo è rimanere viva.» Fece un sospiro. «Sì, giusto. Se trova qualcosa su cui possa veramente indagare, mi chiami.» «Non sono pazza. Potrei sembrarlo, ma non lo sono.» «Non sono pazza» dissi a me stessa sdraiata nella vasca da bagno, con un panno sul viso. «Non sono pazza.» Mi rimisi i jeans larghi e la maglietta rossa, mi avvolsi un asciugamano intorno ai capelli e andai a sedermi a gambe incrociate sul divano, con la televisione accesa ad alto volume. Saltai da un canale all'altro. Non volevo il silenzio quella sera. Volevo altri visi e altre voci nella stanza con me, facce e voci amiche, che non mi facessero sentire completamente sola. Poi il campanello suonò di nuovo. Capitolo 13 Non c'era ragione di aver paura. Nessuno sapeva che ero qui se non Cross. Aprii la porta. Mi sembrò un viso noto, ma non riuscii subito a pensare a dove diavolo l'avessi visto prima. «Ciao» disse. «C'è Jo?» Fu allora che mi riconobbe, vide che anch'io lo riconoscevo e sembrò profondamente sconcertato. «Che cosa diavolo ci fai qui?» Risposi sbattendogli la porta in faccia. Fece un debole tentativo per impedire che la porta si chiudesse, ma io la spinsi finché non si bloccò con un click. Udii un grido dall'altra parte. Tirai la catenella e mi appoggiai contro la porta, ansimando. Mi ricordavo dove l'avevo incontrato. Era Ben Brody, il product designer. Come aveva fatto a rintracciarmi? Avevano solo il mio numero di ufficio e quello del cellulare. Avevo detto a Carol di non dare assolutamente il mio indirizzo a nessuno. E comunque non aveva questo recapito. Neanche Terry lo conosceva. Nessuno lo conosceva. Ero stata seguita? Mi ero lasciata dietro qualche indizio che poteva portare qui? Stava bussando alla porta. «Abbie» disse. «Apri.» «Vai via» urlai. «O chiamo la polizia.» «Voglio parlarti.»
La catenella sembrava abbastanza solida. Che cosa mi poteva fare attraverso una fessura di una quindicina di centimetri? Aveva un vestito scuro e una camicia bianca e non portava la cravatta. Sopra aveva un lungo soprabito grigio che gli arrivava sotto le ginocchia. «Come hai fatto a trovarmi?» «Che cosa vuoi dire? Sono venuto per Jo.» «Jo?» «Sono un suo amico.» «Non c'è.» «Dov'è?» «Non lo so.» Sembrò sempre più confuso. «Abiti qui?» «Ovviamente.» «Allora come mai non sai dov'è?» Aprii la bocca, ma non riuscii a pensare a cosa dire. Poi: «È una storia complicata. E probabilmente non ci crederesti in ogni caso. Avevi un appuntamento con Jo?». Fece una risata breve e aspra e si guardò da entrambi i lati come se non credesse di essere lì a fare quella conversazione. «Sei la sua segretaria? Sarei tentato di dire che non sono affari tuoi, ma...» Fece un grosso respiro. «Un paio di giorni fa dovevo incontrare Jo per un drink e lei non si è fatta viva. Le ho lasciato vari messaggi e non mi ha mai ritelefonato.» «Esattamente. È quello che ho detto alla polizia.» «Che cosa?» «Ho cercato di denunciare la sua scomparsa, ma non mi hanno creduta.» «Che cosa sta succedendo qui?» «Potrebbe essere in vacanza» continuai in modo incoerente. «Senti, Abbie, non so di che cosa tu abbia paura, ma non potresti farmi entrare?» «Non possiamo continuare a parlare così?» «Suppongo di sì, ma perché?» «D'accordo» dissi. «Ma dobbiamo fare presto. Aspetto un detective da un momento all'altro.» Era un altro dei miei deboli tentativi di autoprotezione. «Per quale motivo?» «Perché devo rilasciargli una dichiarazione.» Tolsi la catenella e lo feci entrare. Sembrava molto a suo agio nell'appartamento di Jo. Si sfilò il cappotto e lo gettò su una poltrona. Io mi tolsi l'a-
sciugamano dalla testa e me lo strofinai sui capelli. «Tu e Jo siete... hai capito?» dissi. «Di che cosa stai parlando?» «Sembri di casa qui.» «Non come te.» «Io ho solo bisogno di un nido in cui posarmi.» Mi guardò. «Stai bene?» Feci un grugnito silenzioso dentro di me. «So che normalmente alla domanda "stai bene?" si risponde "sì, sto bene". Ma la mia risposta breve è: no, non sto bene. E quella meno breve è: si tratta di una storia lunga che non vorresti sentire.» Ben andò nella zona cucina, riempì il bollitore e lo attaccò alla spina. Tirò fuori dalla credenza due tazze e le mise sul bancone. «Penso di meritarmi la versione lunga» rispose. «È veramente lunga.» «Credi di avere il tempo?» «Che cosa vuoi dire?» «Prima che arrivi il tuo detective.» Borbottai qualcosa di incomprensibile. «Stai male?» chiese. Ciò mi fece venire in mente le pastiglie. Estrassi un paio di pillole dalla scatoletta che avevo in tasca e le inghiottii con un sorso di acqua del rubinetto. «Ho ancora forti mal di testa. Ma non si tratta di questo, veramente.» «Allora di che cosa si tratta, veramente?» Mi sedetti al tavolo e mi presi la testa fra le mani per un momento. A volte, se trovavo la posizione giusta, il male si calmava un po'. Udii un rumore di stoviglie. Ben stava preparando il tè. Portò le due tazze sul tavolo. Non si sedette. Si appoggiò al bracciolo della grande sedia di Jo. Io presi a sorseggiare il tè. «Sono diventata una specie di versione del Vecchio Marinaio. Intrappolo le persone in un angolo e racconto loro la mia storia. Sto cominciando a chiedermi se abbia poi senso. La polizia non mi ha creduta. Più la racconto, meno ci credo io stessa.» Ben non rispose. Si limitò a guardarmi. «Sicuro di non avere altri impegni?» dissi. «Ho tutto il tempo che voglio.» Così gli diedi una versione incerta e frammentaria della mia storia. Gli parlai dei problemi che avevo avuto con Jay and Joiner's, e che in parte
conosceva perché ne era stato al margine. Gli dissi che avevo lasciato il lavoro e avevo lasciato Terry. Poi feci un profondo respiro e gli raccontai di quando mi ero svegliata in quella cantina, dovunque fosse, dei giorni passati sottoterra e della fuga, dell'ospedale, del non essere creduta ed essere ributtata di nuovo fuori, nel mondo. «Per anticipare la tua prima domanda, l'unica cosa di cui sono veramente sicura è il colpo in testa.» Toccai molto delicatamente il bozzo, appena sopra l'orecchio. Mi faceva ancora sussultare. «Quindi, se il colpo ha potuto cancellare dei pezzetti della mia vita, forse ha potuto anche aggiungerne. Sai, non ho mai detto prima una cosa del genere. Di tanto in tanto lo penso, di notte, quando mi sveglio e il livello dello zucchero è basso e penso di morire. Forse se si ha un incidente e si batte la testa molto forte, si potrebbero avere allucinazioni come quella. Forse si potrebbe fantasticare di essere intrappolati sottoterra con una voce che ci parla nel buio. Non ti pare?» «Non lo so» rispose Ben. Sembrava intontito. «Che incubo.» «Forse mi hanno assalita per derubarmi o mi hanno investita e sono rimasta a terra da qualche parte per diverse ore. Hai mai avuto sogni di questo genere? Ti sembra di aver vissuto anni e anni, di esser diventato vecchio, poi ti svegli ed è passata solo una notte. Non hai mai avuto sogni così?» «Non ricordo i miei sogni.» «È probabilmente segno di buona salute mentale. Ma io sì. Sai che quando ero là, se ci sono mai stata, dormivo e sognavo, e mi ricordo anche i sogni che facevo? Laghi, sognavo di galleggiare nell'acqua, e di una farfalla su una foglia. Ma dimostrano qualcosa? È possibile andare a dormire e sognare e poi in quel sogno andare a dormire e sognare un'altra cosa? È possibile?» «Io disegno rubinetti e portamatite. Non so molto di psicologia.» «Neurologia. Lo so. Sono stata vista da una psicologa e da un neurologo. Il neurologo è quello che mi ha creduto. Allora, questa è la mia storia. Mi mancano frammenti del mio passato e vado in giro a vedere persone, che probabilmente pensano sia pazza, per cercare di riempire i vuoti. Nello stesso tempo prendo delle complicate precauzioni per nascondermi da un uomo che probabilmente non mi sta cercando. Ti è mai successo da bambino? Quando giochi a nascondino e trovi un nascondiglio bellissimo. Stai lì per secoli, e prima ti senti trionfante, poi annoiato e poi capisci che gli altri hanno abbandonato il gioco. E adesso ho l'impressione di star blate-
rando a vanvera come una lunatica mentre tu resisti in silenzio. Ti stavi chiedendo dov'è Jo e che cosa ci faccio qui. Be', non so dove sia Jo e non so che cosa ci faccio qui, così puoi ritornare al tuo laboratorio ora.» Ben si avvicinò, prese la mia tazza e la portò al lavandino. La lavò, insieme alla sua, e le depose entrambe capovolte sullo scolapiatti. Si guardò intorno in cerca di uno strofinaccio e, non trovandolo, agitò le mani per asciugarle. «Penso di sapere che cosa ci fai qui» disse. «O almeno so come hai conosciuto Jo.» «Come?» «Sono io che ti ho presentata a lei.» Capitolo 14 Per un momento fui scossa da un'ondata di eccitazione, poiché potevo riempire un altro spazio della mia terra incognita, ma rapidamente l'eccitazione si trasformò in un senso di nausea. «Di che stai parlando? Perché dici una cosa del genere? Quando sei arrivato, non mi è parso che lo sapessi. Eri stupito quanto me.» «Già. Ma è quello che è successo.» Fece una pausa. «Stai dicendo sul serio? Davvero non ti ricordi di averla incontrata?» «Ho appena visto un video che dobbiamo aver fatto insieme, dove ci siamo io e lei. Sembravamo andare d'accordo. Apparivo felice. Mi piacerebbe ricordarmene. Avrei bisogno di ricordi felici. Ma, no, mi dispiace, non ricordo nulla. Come ci hai presentate? Perché?» Ben cominciò a rispondere, poi ebbe un'esitazione. «Ti stai chiedendo se credermi o no, vero? Pazzesco. La polizia e i medici non credono che sia stata rapita. Tu non credi che possa aver perso la memoria. Presto incontrerò qualcuno che non crederà che sono veramente Abbie Devereaux. E forse non lo sono. Forse ne sto solo facendo la parte. Potrebbe essere un'illusione. Forse sono Jo e questa Abbie è una mia allucinazione.» Ben fece un tentativo di sorriso, ma poi distolse gli occhi da me come se fosse imbarazzato. «Allora l'ho incontrata lunedì?» «Martedì» rispose. «Martedì mattina.» «Mi pare che tu abbia detto che ci siamo visti lunedì. Anzi, ne sono sicura.» «Sei ritornata martedì» rispose vagamente. «Con altre questioni.»
«Ah. E Jo era al tuo laboratorio?» «Siamo andati a prendere un caffè in un posto non molto lontano da qui che lei frequenta abitualmente. Aveva un appuntamento poco dopo, mi pare. Vi ho presentate. Abbiamo parlato per un po', poi io sono dovuto scappare. Se vuoi che ricostruisca la vostra conversazione, mi pare che tu le abbia detto che avevi bisogno di un posto in cui stare. Deve averti proposto di venire qui. Quindi non ci sono misteri, niente di sinistro.» «Capisco.» «E pensi che sia scomparsa?» «L'ho detto a questo detective che... conosco, più o meno. Pensa che io sia matta. Be', non proprio pazza, naturalmente, ma che mi sbagli. Lo spero anch'io, d'altra parte. Non so che cosa fare. E per qualche ragione mi sento responsabile. Tutte le volte che alzo gli occhi e vedo la sua fotografia, mi sento male perché non sto facendo di più. Quando ero in quel posto, prigioniera, continuavo a pensare che le persone che conoscevo, i miei amici, mi stessero cercando e si dessero un gran daffare per trovarmi e fossero preoccupati, e questo pensiero mi aiutava ad andare avanti. Dovevo crederci, era molto importante per me sentire di essere viva nei pensieri altrui; e una delle cose peggiori, quando sono tornata, è stata vedere che nessuno si era accorto della mia assenza.» «Penso che...» Cercò di interrompermi. «Nessuno aveva notato che non ero in giro, o se lo aveva notato, non se ne era curato. Era come se fossi invisibile. O morta. Voglio dire, non era colpa di nessuno, lo so; sono cari amici e penso che mi vogliano bene, davvero, e io avrei fatto la stessa cosa al posto loro. Non avrei notato la mancanza di uno di loro per qualche giorno, perché avrei dovuto? Andiamo e veniamo nella vita altrui. Ma non devo fare la stessa cosa con Jo. Perché io so che cosa si prova. Ma non so che cosa fare per evitarlo, se capisci quel che dico. E sto parlando troppo e ho l'orribile sensazione che se smettessi di parlare potrei scoppiare a piangere.» Mi fermai e Ben si protese in avanti e mi poggiò una mano sul braccio. Istintivamente la scrollai via con uno strattone. «Scusa» disse in tono sincero. «Ti deve rendere nervosa avere un uomo che non conosci in casa tua. Avrei dovuto pensarci.» «In un certo senso, voglio dire, sono sicura che... Senti, sono come una persona che brancola nel buio, se capisci quello che voglio dire, con le mani allungate in avanti per cercare di non cadere fuori dal bordo. Se c'è un bordo da cui cadere. A volte mi pare di scorgere un bagliore al margine
della mia visione, mi guardo attorno e scompare. Continuo a sperare di ritrovare la luce, ma finora non è successo. Senza memoria, è come se avessi perso la bussola, mi muovo alla cieca e sbatto contro le cose, e non solo non so dove mi trovo, ma non so neanche chi sono. Che cosa mi resta di me? Soprattutto quando le altre persone non sanno se...» Mi interruppi bruscamente. «Sto di nuovo blaterando, vero?» Non rispose. Mi fissava in un modo che mi rendeva nervosa. «Com'ero quando ci siamo incontrati prima?» «Com'eri?» Sembrò non capire la domanda. «Sì.» «Avevi i capelli più lunghi.» «Be', questo lo so. Sono io che me li sono voluti tagliare. Ma che impressione ti ho fatto? In che stato ero?» «Ehm.» Apparve incerto e in imbarazzo per un momento. «Sembravi molto vivace.» «Di che cosa abbiamo parlato?» «Lavoro. Problemi di lavoro.» «Tutto qui?» «Mi hai detto che avevi lasciato il tuo ragazzo.» «Ti ho detto una cosa del genere?» «Mi hai spiegato che non avevi un indirizzo fisso, così avevi solo un cellulare se dovevo chiamarti per lavoro.» «Nient'altro? Ho parlato di persone che avevo conosciuto da poco? Ti ho detto se avevo incontrato un altro?» «Non proprio. Ma ho pensato di sì. Almeno ho avuto quell'impressione.» «Vedi, sto già pensando che forse la persona che ho incontrato era lui.» «Lui?» «L'uomo che mi ha rapita.» «Capisco» disse, alzandosi. «Senti, hai voglia di andare al pub? Forse ti sentirai più a tuo agio con me se c'è altra gente.» «D'accordo.» «Andiamo, allora.» Prese il cappotto dalla poltrona. «Un bel cappotto.» Lo guardò quasi con sorpresa, come se non l'avesse mai visto e gli fosse stato infilato a sua insaputa. «È nuovo.» «Mi piacciono i cappotti lunghi e larghi.» «Sembrano dei mantelli» disse Ben. «Come quelli che si portavano duecento anni fa.»
Mi accigliai. «Perché sentirtelo dire mi dà una strana sensazione?» «Forse perché anche tu la pensi così.» Il pub era affollato in modo rassicurante e pieno di fumo di sigaretta. «Vado io a prendere da bere» dissi e mi diressi verso il bancone con una certa difficoltà. Qualche minuto dopo eravamo seduti a un tavolo con la birra e un pacchetto di patatine tra di noi. «Non so da dove cominciare. Sei amico di Jo, giusto?» «Giusto.» «Va via spesso?» «Dipende. Si occupa di lavori diversi per editori diversi, riviste e cose del genere, e qualche volta deve fare delle ricerche. Ce n'era una che mi ricordo, per un'enciclopedia per bambini; doveva scrivere un paragrafo sugli alberi inglesi, così è andata in giro a vedere trecento tassi, e cose del genere.» «Ed è puntuale e affidabile?» «Di solito molto. Si guadagna da vivere con questo lavoro.» «Le capita spesso di non presentarsi agli appuntamenti?» Rimase un momento soprappensiero. «Come ho detto, di solito è puntuale e affidabile.» «Allora, non c'è e ci dovrebbe essere. Non è in vacanza né niente del genere. C'è qualcosa che non va.» «Forse no» disse Ben con calma, fissando la birra. «Forse è andata via per finire un lavoro. Le capita a volte. I suoi genitori hanno un cottage nel Dorset. È molto tranquillo, non ci sono distrazioni...» «La puoi chiamare là? Hai un cellulare con te?» «Nessuna distrazione significa che non c'è neanche il telefono.» «Ma non ha un cellulare?» «L'ho già chiamata al cellulare parecchie volte.» «Oh.» «O potrebbe essere dai suoi. Suo padre è malato. Cancro. Forse è peggiorato. Hai provato da loro?» «Non sapevo di loro.» «E poi ha questo ragazzo che va e viene, Carlo. So che ultimamente non si vedevano, ma forse si sono rimessi insieme ed è da lui. L'hai cercata là?» Feci un profondo respiro. Stavo bene? «No» risposi. «Non sapevo di lui.
O, almeno, non mi ricordo di averlo mai sentito nominare. Ma te l'avrebbe detto, visto che dovevate vedervi.» Si strinse nelle spalle. «Sono solo un amico. Gli amici a volte sono l'ultima ruota del carro.» «A volte.» «Jo soffre di depressione» disse lentamente, con aria cupa. «Voglio dire, le capita di essere depressa sul serio, non solo giù di morale. Pensavo che ne stesse uscendo.» Finì la birra e si asciugò la bocca con il dorso della mano. «Ritorno con te all'appartamento e chiamiamo le persone che le sono vicine, Carlo, i suoi genitori, e cerchiamo di scoprire cosa sanno di lei.» Infilò la mano nella tasca del cappotto e mi porse un telefono. «Usalo. Chiama qualcuno, un amico, un collega, la polizia, chiunque. Di' che sei con me. Poi andiamo a fare quelle telefonate.» «Sei gentile...» cominciai. «Non è gentilezza. Jo è mia amica.» «Non ho bisogno di fare quella telefonata» risposi, mentre una voce dentro di me diceva: «Sì che devi farla, stupida che non sei altro». «Vedi tu.» Sulla via del ritorno gli raccontai di come avevo trovato l'appartamento di Jo, della ricevuta del takeaway indiano e della chiave nel cassetto portaoggetti della macchina. «Era in un deposito della polizia» dissi. «Ho dovuto pagare più di cento sterline per riprenderla e ora me l'hanno bloccata con quelle maledette ganasce. Guarda.» Indicai il punto dov'era, ma rimasi a bocca aperta. Non c'era più. C'era solo uno spazio vuoto nel posto in cui l'avevo lasciata. «Non c'è. È di nuovo sparita. Com'è possibile? Pensavo che lo scopo delle ganasce fosse di impedire che la si muovesse.» «Probabilmente è di nuovo al deposito» disse Ben, cercando di non sorridere. «Merda.» Aprii una bottiglia di vino. Le mani mi tremavano di nuovo, così mi ci volle un secolo a stapparla. Ben fece un numero, ascoltò, poi parlò. Non mi pareva la madre di Jo. Riagganciò il telefono e si voltò verso di me. «Era la donna che bada al loro cane. Sono in vacanza e non ritorneranno prima di dopodomani.» Gli versai un bicchiere di vino, ma non lo toccò. Si mise gli occhiali, aprì l'elenco telefonico e cominciò a scorrerlo.
«Carlo? Ciao, sono Ben, Ben Brody... Sì, giusto. L'amico di Jo... Che cosa? No, non l'ho vista di recente, e mi stavo chiedendo se tu... No, no, non glielo dirò da parte tua. No.» Posò il telefono e si voltò verso di me. «A quanto pare con Carlo è finita. Non era molto di buon umore.» «Allora che cosa facciamo adesso?» dissi, poi notai il «noi» e ingurgitai un grosso sorso di vino. «Non hai niente da mangiare? Sto morendo di fame. Dovevo andare a cena con Jo stasera.» Aprii il frigo. «Uova, pane, formaggio. Insalata. Pasta, mi pare.» «Faccio delle uova strapazzate?» «Benissimo.» Si tolse cappotto e giacca, trovò una padella nella credenza, un cucchiaio di legno nel cassetto in alto. Sapeva dove trovare tutto. Io tornai a sedermi e lo guardai. Ci mise parecchio tempo; era molto metodico. Bevvi un altro bicchiere di vino. Mi sentivo esausta, fragile e un po' brilla. Ed ero stanca di aver sempre paura, di stare sempre in guardia. Non lo potevo più fare. «Dimmi com'è Jo.» «Aspetta, una fetta di pane tostato o due?» «Una, con tanto burro.» «È pronto.» Mi sedetti al tavolo di cucina con lui e mangiammo le uova strapazzate in silenzio. Bevvi altro vino. «È molto timida finché non la si conosce bene» disse dopo l'ultimo boccone. «Ha fiducia in se stessa. È frugale. Compra solo ciò di cui ha bisogno. Non andar mai per negozi con lei. Ci mette secoli a scegliere la più piccola cosa, poi deve paragonare i prezzi di diversi posti. È ordinata. Odia il disordine. È più brava ad ascoltare che a parlare. Che altro? È cresciuta in campagna, ha un fratello minore che vive in America ed è un ingegnere affermato, è vicina ai genitori, ha molti amici, ma di solito li vede uno alla volta. Non le piacciono i grossi gruppi.» «E la relazione con Carlo?» «Senza speranze, veramente. Lui è solo un idiota» lo liquidò aspramente, e dovevo aver fatto una faccia sorpresa, perché aggiunse: «Potrebbe avere di meglio. Dovrebbe incontrare una persona che la adori». «Tutti dovremmo» dissi allegramente. «E soffre di depressione, come ho detto. Ha dei momenti in cui è così giù che quasi non riesce ad alzarsi dal letto. È per questo che sono preoc-
cupato.» Era tardi. Sentivo quella giornata dietro di me come un viaggio lungo e faticoso: Todd, quella telefonata da incubo, l'ispettore Cross, ora questo. Ben mi vide fare uno sbadiglio gigantesco. Si alzò e prese il cappotto dal bracciolo del divano. «Devo andare» disse. «Ti chiamo.» «Tutto qui?» «Che cosa vuoi dire?» «Be', è ancora scomparsa, no? Più scomparsa che mai. Allora qual è la prossima mossa? Non puoi lasciare le cose a questo punto, no?» «No, naturalmente no. Ho pensato di andare a dare un'occhiata al cottage nel Dorset. Ci sono già stato e credo di ricordarmi la strada. Se non c'è, farò un giro di telefonate ai suoi amici. Poi, se non ne cavo niente, andrò a trovare i genitori. Dopo di ciò, be', suppongo che andrò alla polizia.» «Vorrei venire con te al cottage. Se non ti spiace.» Lo dissi d'impulso, senza aspettarmelo, e lui si voltò a guardarmi con aria sorpresa. «Quando pensi di andare?» «Be', adesso.» «Vuoi dire subito, in questo momento? Guidare di notte?» «Perché no? Non sono stanco e non ho bevuto molto. E domani pomeriggio ho una riunione importante, così non ci potrei andare. E poi mi hai fatto venire una certa ansia.» «Non sei uno che indugia.» «Non sentirti in dovere di venire.» Rabbrividii e lanciai un'occhiata fuori, alla gelida oscurità. Non ne avevo voglia, ma non volevo neanche rimanere a casa, andare a letto con il cuore che mi martellava in petto, la bocca secca, a sudare e aspettare che si facesse di nuovo giorno, in modo che la paura insopportabile diventasse un po' più governabile. Continuare a guardare l'orologio. Appisolarmi per poi svegliarmi di soprassalto qualche minuto dopo. Ascoltare i rumori, aver paura del vento. Pensare a Jo. Pensare a me. A lui nel buio che mi guardava. «Vengo» dissi. «Dove hai la macchina?» «Fuori di casa mia.» «E dov'è casa tua?» «A Belsize Park. Un paio di fermate di metropolitana.» «Prendiamo un taxi.» Non sopportavo l'idea di stare sottoterra quella sera. Mi ero spaventata a sufficienza per quel giorno.
«D'accordo.» «Vado a mettermi qualcosa di più caldo addosso. E questa volta telefonerò a qualcuno, per dirgli con chi sono, eccetera. Scusa.» Capitolo 15 Da quel che potevo capire al buio, Ben Brody viveva in una casa carina, proprio accanto al parco. La strada era ampia e fiancheggiata da alti alberi i cui rami spogli ondeggiavano alla luce dei lampioni. «Perché non mi aspetti in macchina mentre vado a prendere un paio di cose? Così la puoi perlustrare.» Aprì l'auto e ci salii. Era freddissima e i finestrini erano gelati. Era una macchina molto vuota e ordinata, solo una scatola di fazzoletti di carta e una mappa stradale tra i sedili. Mi raggomitolai nel giaccone spesso, soffiai volute di fiato nell'aria gelida e aspettai. Una luce si accese nelle camere in alto della casa di Ben, poi, dopo pochi minuti, si spense di nuovo. Guardai l'orologio del cruscotto; erano quasi le due. Mi chiesi che cosa stessi facendo là, a notte fonda, in una parte di Londra in cui non avevo mai messo piede prima, nella macchina di un uomo che non conoscevo. Non riuscii a trovare una risposta che avesse un po' di senso, se non che avevo raggiunto il punto di rottura. «Possiamo andare ora.» Ben aveva aperto la portiera. Si era messo dei jeans, un maglione pesante screziato e una vecchia giacca di pelle. «Che cos'hai lì?» «Una pila, una coperta, delle arance e del cioccolato per il viaggio. La coperta è per te. Mettiti dietro che ti copro.» Non protestai. Mi spostai a fatica sui sedili posteriori e mi stesi e lui mi avvolse in una coperta pesante. Avviò il motore e accese il riscaldamento. Rimasi un po' con gli occhi aperti e vidi passare lampioni e palazzi. Poi stelle, alberi, un aeroplano lontano nel cielo. Infine chiusi gli occhi. Durante il lungo viaggio un po' dormii, un po' rimasi sveglia. A un certo punto emersi dal sonno e udii Ben che canticchiava una canzone che non riconobbi. Un'altra volta mi sollevai a sedere con una certa difficoltà e guardai fuori dal finestrino. Era ancora buio e non vidi luci in nessuna direzione. Non passò neanche una macchina. Ben non parlò, ma mi porse un paio di quadretti di cioccolato che sgranocchiai lentamente. Poi mi stesi di
nuovo. Non avevo voglia di conversare. Alle cinque e mezzo ci fermammo a fare benzina. Era ancora buio, ma all'orizzonte si vedeva un grigiore sporco. Sembrava facesse più freddo che mai, e sulla cima delle colline si intravedeva la neve. Ben tornò con due bicchieri di plastica pieni di caffè. Ritornai sul sedile anteriore, portandomi dietro la coperta, e lui me ne offrì uno. Avvolsi le mani intorno al suo calore. «Latte e niente zucchero» disse. «Come hai fatto a indovinarlo?» «Abbiamo già preso il caffè insieme.» «Ah. Quanto è ancora lontano?» «Non molto. Il cottage è a circa un chilometro e mezzo da un villaggio che si chiama Castleton, sulla costa. Da' un'occhiata alla cartina se ti va. È per terra, vicino ai tuoi piedi. Avrò bisogno del tuo aiuto per le indicazioni.» «Pensi che sia là?» Si strinse nelle spalle. «Si fanno sempre dei brutti pensieri la mattina presto.» «Si sta facendo giorno. Sarai stanco.» «Non poi così tanto. Temo che la stanchezza la sentirò più tardi.» «A metà della riunione.» «Probabilmente.» «Se vuoi posso guidare un po' io.» «La mia assicurazione non lo consente. Dovrai parlare per tenermi sveglio.» «Farò del mio meglio.» «Abbiamo passato Stonehenge. Stavo quasi per svegliarti. Ma ci ripasseremo al ritorno.» «Non l'ho mai visto.» «Davvero?» «È incredibile quante cose non abbia visto. Non sono mai stata a Stonehenge, né a Stratford, né a Hampton Court, o alla Torre di Londra, o a Brighton. Non sono mai stata in Scozia e neppure al Lake District. Stavo per andare a Venezia. Avevo comprato il biglietto e tutto. Invece di essere in una cantina con un bavaglio sulla bocca, avrei dovuto essere a Venezia.» «Ci andrai un giorno o l'altro.» «Probabilmente.» «Qual è stata la cosa peggiore?» mi chiese dopo una pausa.
Lo osservai. Guardava davanti a sé, la strada e le colline ondulate. Bevvi un sorso di caffè. Stavo per dirgli che non riuscivo a parlarne, ma poi pensai che Ben era la prima persona che incontravo da quando ero scappata dalla prigione senza scarpe che non mi guardava con un'espressione diffidente o allarmata. Non mi trattava come se fossi da compatire o mezza matta. Così cercai di rispondere. «Non lo so. Non saprei che cosa dire. Sentirlo respirare ansimando e sapere che era lì, vicino a me. Pensare di non riuscire a respirare e di soffocare, di annegare dentro me stessa. Era...» cercai di trovare la parola giusta «... osceno. O forse aspettare al buio e sapere di dover morire. Cercavo di attaccarmi a qualcosa per non perdere il senno; non a qualcosa della mia vita, perché pensavo che fosse un ulteriore modo di tormentarmi, di impazzire di solitudine e terrore. Piuttosto mi attaccavo a immagini, come ti ho detto prima. Immagini belle del mondo esterno. Ci ripenso ancora, a volte, quando mi sveglio la notte. Ma sapevo di venir spogliata di me, un pezzetto alla volta. Di perdermi. Forse era questa una delle cose peggiori o, almeno, quel che penso fosse una delle cose peggiori. Perdere tutti i pezzi che costituivano il mio essere fino a divenire un oggetto spettrale che borbottava su una pedana, mezza nuda, sporca e umiliata.» Mi interruppi bruscamente. «Perché non sbucci un'arancia per tutti e due? Sono nel sacchetto in mezzo a noi.» Sbucciai due arance e il loro aroma riempì la macchina. Con le dita appiccicose di succo gli diedi la sua, spicchio per spicchio. «Guarda» disse. «Il mare.» Era argenteo, vuoto e immobile. Non si riusciva quasi a distinguere dove finiva l'acqua e iniziava il cielo mattutino, eccetto che a est, dove il sole mandava una pallida luce. «Dimmi dove dobbiamo girare. Dovrebbe essere più o meno qui.» Svoltammo a destra, dando le spalle al sole, lungo una stradina che scendeva verso la costa. Poi di nuovo a sinistra, lungo una strada ancor più piccola. «È da queste parti, penso» disse Ben, scrutando davanti a sé. Arrivammo a un cancello chiuso e un viottolo. Scesi dall'auto e aprii il cancello, aspettai che Ben lo attraversasse con la macchina, poi lo richiusi. «Vengono qui spesso i genitori di Jo?» «Quasi mai. Lui è troppo malato e qui non ci sono comodità. Così a loro fa sempre piacere se qualcuno lo usa. È abbastanza primitivo, non c'è riscaldamento e sta cominciando ad andare in rovina. Ma dalla camera da
letto si vede il mare. Eccolo.» Il cottage era minuscolo e di pietra grigia. Aveva muri spessi e finestre piccole. Intorno alla porta d'ingresso c'erano delle tegole rotte, cadute dal tetto. Aveva un'aria malridotta e trascurata. «Non ci sono automobili qui» disse Ben. «Non c'è nessuno.» «Andiamo a vedere comunque.» «D'accordo.» Sembrava scoraggiato. Aprii la portiera e uscii; Ben mi seguì. I nostri piedi fecero scricchiolare l'erba ghiacciata. Andai a una finestra e premetti la faccia contro il vetro, ma non riuscii a vedere molto. Provai ad aprire la porta, ma ovviamente era chiusa a chiave. «Dobbiamo cercare di entrare.» «Che senso ha? Si vede che non c'è stato nessuno.» «Hai guidato per quattro ore per arrivare fin qui. Che cosa facciamo? Rompiamo un vetro?» «Posso cercare di entrare dalla finestra in alto» propose dubbiosamente. «In che modo? E poi, anche quella sembra chiusa. Perché non rompiamo la finestra che è già crepata? Poi la faremo riparare.» Prima che avesse tempo di obiettare, mi tolsi la sciarpa, me la avvolsi intorno al pugno, e colpii con forza il vetro crepato, ritirando velocemente la mano subito dopo, per non tagliarmi il polso. Fui piuttosto fiera di me, era proprio come facevano nei film. Raccolsi i frammenti di vetro e li impilai sull'erba. Quindi aprii la finestra dall'interno. «Se ti salgo sulla schiena, posso entrare» dissi a Ben. Invece mi mise le sue grandi mani intorno alla vita e mi sollevò fino alla finestra. Il ricordo di essere in cantina, afferrata e deposta giù dalla pedana, mi sopraffece per un momento e temetti di star male o di cominciare a urlare istericamente. Ma poi con una scalata poco dignitosa attraversai la finestra e mi trovai dentro la cucina. Accesi le luci, notai che il caminetto era pieno di ceneri bagnate, e feci entrare Ben dalla porta d'ingresso. In silenzio controllammo tutta la casa. Non ci volle molto: c'erano solo una camera da letto e uno sgabuzzino al piano superiore, un soggiorno con angolo cucina e un bagno con una doccia di sotto. Il letto non era fatto. Lo scaldabagno non era acceso. Il luogo era gelido e deserto. «Siamo entrati per niente» disse Ben cupamente. «Abbiamo dovuto farlo.» «Forse.» Toccò le ceneri con la punta di uno scarpone. «Spero che non le sia successo niente.» «Ti offro la colazione» dissi. «Ci sarà un posto, sul mare, dove fanno
qualcosa di caldo. Hai bisogno di riposarti e di mangiare prima di rimetterti al volante.» Risalimmo in macchina, attraversammo Castleton, che aveva solo un ufficio postale e un pub, e proseguimmo per la cittadina vicina. Trovammo un piccolo caffè che nei mesi estivi doveva essere pieno di turisti, ma che ora era vuoto. Era aperto, però, e servivano la colazione inglese. Ordinai lo «Special» per tutti e due: salsicce, uova, bacon, funghi, pomodori alla griglia e pane fritto, e un grosso bricco di caffè. Mangiammo quella colazione pesante e confortante in silenzio. «Dobbiamo andare se vuoi arrivare in tempo alla tua riunione» dissi, dopo l'ultimo boccone. Non parlammo molto durante il viaggio di ritorno. Per strada il traffico era più intenso, e man mano che ci avvicinavamo a Londra aumentò fino a diventare una lunga e lenta coda di automobili. Ben continuava a lanciare occhiate preoccupate all'orologio. «Puoi lasciarmi a una fermata della metropolitana» dissi, ma mi portò fin davanti a casa e scese perfino dalla macchina per accompagnarmi alla porta. «Ciao» dissi goffamente. Il nostro lungo viaggio insieme sembrava già irreale. «Fammi sapere che cosa succede, d'accordo?» «Naturalmente» rispose. Aveva l'aria stanca e abbattuta. «Chiamerò i suoi genitori appena saranno tornati dalla vacanza. Non posso fare nient'altro prima di allora, no? E magari è con loro.» «Spero che la riunione vada bene.» Si guardò i vestiti e cercò di sorridere. «Non ho l'aspetto giusto, non ti pare? Ma non importa. Arrivederci.» Indugiò un momento, come se volesse dire qualcos'altro, poi cambiò idea, si voltò e risalì in macchina. Capitolo 16 Non sapevo che cosa fare per il resto della giornata. Avevo esaurito tutti i piani e non mi sembrava di avere altre piste da seguire. Feci un bagno, mi lavai i capelli, feci il bucato. Sentii un'altra volta i messaggi sulla segreteria telefonica. Ce n'era solo uno nuovo. Aprii il computer e controllai la posta. C'era un unico messaggio, che mi avvertiva di un virus informatico. Vagai per il soggiorno, diedi un'occhiata all'elenco attaccato al muro e cercai di concentrarmi su quel che ero riuscita a sapere. Ero stata rapita
giovedì pomeriggio o nei giorni successivi: venerdì, sabato o domenica. Al mio cellulare rispondeva un uomo. Avevo avuto rapporti sessuali con qualcuno. Arrivai a una decisione: avrei risposto a tutte le telefonate. Avrei aperto tutte le lettere che arrivavano. Avrei cercato di mettermi in contatto con gli amici di Jo. Cominciai con la posta. Presi le lettere che avevo lasciato sulla mensola del caminetto e le aprii una dopo l'altra. Jo era invitata a condividere una multiproprietà in Spagna. Le veniva chiesto di scrivere un libro per bambini sulla Congiura delle polveri. Era invitata a una riunione scolastica. Un'amica che non vedeva da anni voleva rimettersi in contatto. Un'altra le mandava un ritaglio di giornale sui pro e contro del Prozac; un tizio le inviava il preventivo per un nuovo boiler. Appuntai nome e numero di telefono di questi ultimi due su un pezzetto di carta. Guardai le cartoline, ma contenevano solo saluti da vacanze all'estero o ringraziamenti. Poi passai in rassegna tutti i messaggi sulla segreteria telefonica. Avevo già parlato con l'editor. Pochi avevano lasciato il cognome o il numero telefonico. Chiamai una certa Iris, che si rivelò la cugina di Jo, ed ebbi con lei una conversazione piuttosto confusa sulle date. L'ultima volta che aveva visto Jo era stato sei mesi prima. Telefonai alla tizia che le aveva mandato l'articolo sul Prozac. Si chiamava Lucy, conosceva Jo da anni e sapeva dei suoi alti e bassi. L'aveva vista a Capodanno, e aveva pensato che Jo fosse un po' sotto tono, ma che avesse ripreso il controllo della sua vita. Non l'aveva sentita da allora e non aveva idea di quali fossero i suoi programmi. Cominciava a dar segni di preoccupazione e le dissi che probabilmente stava bene e che non c'era nulla da temere. Il tizio del boiler era fuori e gli lasciai un messaggio alla segreteria telefonica. Andai al computer di Jo, sulla sua scrivania in un angolo del soggiorno, e lo accesi. Esaminai i file e mi chiesi se telefonare o no all'editor, per dirle che ero abbastanza sicura che il progetto su cui Jo stava lavorando si trovasse lì. Feci un click sulla casella postale e diedi una scorsa ai messaggi più recenti. Pensai di mandare a tutti i nomi del suo indirizzario un messaggio standard, chiedendo se avessero sue notizie, ma decisi di aspettare ancora un giorno o due. Ben aveva detto che Jo era riservata, e per ora avevo già invaso la sua privacy fin troppo. Speravo che avrebbe capito. Aveva anche detto che era ordinata. Decisi di dare una bella pulita alla casa. Lavai i piatti che avevamo usato la sera precedente, pulii il bagno, riordinai il soggiorno. Cercai l'aspirapolvere e lo trovai nell'armadietto alto vicino al bagno, insieme a
una cassetta per gatti, cibo per gatti e un sacchetto nero della spazzatura che conteneva una tuta da sci. Passai l'aspirapolvere nella mia camera e nella sua. La lavatrice aveva finito, così stesi i panni sui termosifoni. Mi preparai un'altra tazza di caffè, anche se sentivo già i nervi a fior di pelle per la caffeina e la stranezza della situazione. Misi su della musica e andai a sedermi sul divano, ma ero inquieta. Poi udii qualcuno di sotto, una porta che si chiudeva, e mi accorsi di non aver fatto una cosa ovvia: di non aver chiesto ai vicini di Jo quando l'avessero vista l'ultima volta. Finii il caffè, uscii dall'appartamento e andai all'ingresso principale della casa. Suonai il campanello e aspettai. Si aprì uno spiraglio nella porta e un occhio mi scrutò. «Salve, sono la compagna di appartamento di Jo, Abbie, e...» La porta si spalancò. «Ti conosco, mia cara. Jo ci ha presentati, non ti ricordi? Peter. Avevi detto che saresti venuta a trovarmi, ma non l'hai mai fatto.» Era un ometto anziano, molto più piccolo di me. Mi chiesi se fosse rimpicciolito con l'età o fosse sempre stato non più grande di uno studentello preadolescente. Indossava un maglione giallo con una manica che si stava sfilacciando, una sciarpa a scacchi e le pantofole. Aveva pochi capelli grigi e il viso raggrinzito e scavato. «Vieni dentro» disse. Indugiai. «Avanti, non rimanere là fuori, entra. Preparo il tè. Accomodati. Non badare al gatto e mettiti seduta. Vorrai anche qualche biscotto, no? Ti ho vista andare e venire. Ho il tempo di notare queste cose.» La stanza era molto calda e scrupolosamente in ordine. Le pareti erano coperte di libri. Aveva tutto Charles Dickens rilegato in pelle. Mi sedetti sul divano di pelle mezzo sfondato e presi il tè che mi porgeva. Il gatto fremette nel sonno; sembrava il grasso micio che avevo visto dalla finestra. «Grazie, Peter. Sei molto gentile. Ma ricordami quando ci siamo conosciuti.» «Mercoledì» rispose prontamente. «Il giorno in cui sei arrivata. Ero uscito un momento sul marciapiede, a prendere una boccata d'aria, proprio mentre tu stavi portando dentro le tue cose, e Jo ci ha presentati. Ti ho detto di venire a trovarmi quando eri libera. Ma non l'hai fatto. E poi siete andate via, naturalmente.» «Quando? Quando siamo andate via?» «Hai perso la memoria?» Fece una risatina allegra. «Non vi ho viste in giro. Siete state in vacanza insieme?» «Non proprio.»
«E Jo? È ritornata anche lei? È una ragazza carina, Jo. Sempre servizievole. Mi ha portato all'ospedale quando sono caduto e mi sono rotto la gamba. Ed è venuta a trovarmi. Nessuno è venuto, se non lei, e mi ha portato dei fiori.» «Non è ancora tornata» dissi vagamente. «Ho ottantasei anni. L'avresti detto?» «No» mentii. «Mia madre è morta a novantacinque. Novantacinque anni e poi un giorno, improvvisamente, boom, morta. Sento ancora la sua mancanza. Sciocco, no? Sono un uomo vecchio e penso a mia mamma tutti i giorni. Ho ancora le sue spazzole, delle belle spazzole d'argento e avorio e setole di crine. Non si trovano più adesso. E il suo portatovagliolo, d'argento con il nome inciso all'interno. Carino.» «Il tè mi ci voleva proprio. Grazie mille.» «Te ne vai già? Senza un biscotto?» «Ritornerò presto.» «Mi troverai qui. Di solito non mi muovo.» Ero profondamente addormentata e sognavo un allarme antincendio che suonava. Non vedevo dove fosse l'incendio né l'uscita d'emergenza. Ero come paralizzata. Se avessi saputo dov'era l'uscita d'emergenza, ci sarei andata. Se avessi saputo dov'era l'incendio, sarei scappata dalla parte opposta. Il campanello d'allarme suonò di nuovo e mi svegliò. Vagamente capii che si trattava del campanello di casa. Presi a tentoni la vestaglia. Gli occhi non mi si volevano aprire. Quello era il primo problema. Sembravano come incollati. Separai le palpebre di uno dei due e fu come sbucciare un chicco d'uva, ma anche così dovetti andare alla porta con le mani allungate in avanti come una cieca. Nonostante non fossi del tutto cosciente, mi accertai che la catenella fosse agganciata. Aprii la porta e nella fessura apparve la faccia di un giovane poliziotto. «Signorina Devereaux?» disse. «Che ore sono?» Guardò l'orologio. «Le tre e quarantacinque» rispose. «Del mattino?» Si guardò alle spalle. Era grigio e nuvoloso, ma palesemente giorno. La mente cominciò a schiarirmisi. «Se è per la macchina» dissi «pensavo di venire a ritirarla. Ho preso una multa e poi me l'hanno bloccata con le ganasce. Avevo intenzione di far qualcosa, ma sono stata molto occupata.
Troppo.» Mi guardò con un'espressione assente. «Non sono qui per una macchina. Possiamo entrare?» «Voglio vedere un documento di identificazione.» Sospirò e fece passare un sottile portafogli di pelle attraverso la porta. Come se fossi in grado di distinguere un documento autentico della polizia. «Probabilmente si può comprare via Internet» dissi. «Se vuole, posso darle un numero di telefono da chiamare.» «Di qualche suo amico che aspetta la telefonata seduto su un letto da qualche parte.» «Senta, signorina Devereaux, è l'ispettore Cross che mi ha mandato. Vuole parlarle. Se ha dei problemi, non potrebbe discuterne con lui personalmente?» Aprii la porta. Erano in due. Si pulirono i piedi rumorosamente sullo zerbino e si tolsero il cappello. «Se Cross vuole parlarmi, perché non è venuto lui?» «Siamo venuti a prenderla.» Ebbi l'impulso di dare una rispostaccia, ma mi sentii sollevata. Finalmente Cross si rivolgeva a me. Non ero io a creare guai. Cinque minuti dopo ero nella macchina della polizia, diretta verso sud. Quando ci fermavamo ai semafori, vedevo che la gente mi fissava. Chi era quella donna seduta in un'auto della polizia? Era una criminale o una detective? Cercai di sembrare una detective. Quando attraversammo il fiume, guardai fuori dal finestrino e mi allarmai. «Non è questa la strada» dissi. «L'ispettore Cross è alla sede di Castle Road.» «Perché?» Non ci fu risposta. La sede della polizia di Castle Road era nuova di zecca, un edificio in vetro e tubi di acciaio colorato. Le girammo intorno e ci fermammo sul retro, in un parcheggio, da dove fui velocemente accompagnata per una porticina e poi su per le scale. Cross era in un piccolo ufficio con un altro investigatore, un uomo di mezza età leggermente calvo che mi strinse la mano e si presentò come Jim Burrows. «Grazie di essere venuta» disse Cross. «Come sta?» «Si tratta di Jo?» «Che cosa?»
«Perché sono andata nel Dorset e non era nel cottage dove di solito va. E poi ho parlato con un uomo che la conosce e lui ha telefonato ad altre persone che la conoscono e nessuno sa dove sia.» «Giusto» disse Jack Cross, lanciando a Burrows uno sguardo imbarazzato. Era quel tipo di sguardo che significa vedi-che-cosa-ti-dicevo. «Ma c'è un'altra cosa che volevo chiederle. Si sieda, prego.» Mi indicò la sedia davanti alla scrivania. «Conosce una donna che si chiama Sally Adamson?» «No.» «Ne è sicura?» «Chi è?» «Ha avuto contatti con Terence Wilmott?» Improvvisamente mi sentii percorsa da una corrente di nausea fredda. Cominciò dalla cima della testa e scese giù fino alla punta delle dita dei piedi. Doveva essere successo qualcosa di brutto. «Sono andata a casa sua un paio di volte a ritirare della posta.» Fui assalita da un pensiero. «Sally. È la sua ragazza?» «La sua ragazza?» «Non so bene quale sia la situazione. L'ho incontrata per caso un paio di volte. Lei arrivava mentre io uscivo. Non so come si chiami di cognome. E non so se stiano insieme, a dir la verità. Ma penso che Terry sia una di quelle persone psicologicamente incapaci di non stare con qualcuno. Voglio dire che quando ci siamo incontrati la prima volta...» E mi fermai. «È successo qualcosa?» I due uomini si guardarono, poi Burrows si fece avanti. «È morta» disse. «Sally Adamson è stata trovata morta la notte scorsa.» Guardai prima l'uno poi l'altro. Avevo almeno cinquanta domande da fare, così cominciai con la più stupida. «Morta?» «Già» fece Cross. «E c'è un'altra cosa. Il suo corpo è stato trovato sotto una siepe nel giardinetto davanti al numero cinquantaquattro di Westcott Street. Strangolata. Non è morta per cause naturali.» Rabbrividii. Improvvisamente sentii un gran freddo. «Terry vive al sessantadue» dissi. «Sì.» «Oh, Dio» esclamai. «Mio Dio.» «Possiamo portarle qualcosa?» mi chiese Cross. «Un caffè?» Scossi il capo. «È un incubo» mormorai. «Che sta diventando sempre più orrendo. Mio Dio! Povera Sally. Ma per quale ragione volete parlare con me?» Cross non rispose. Si limitò a guardarmi e fu allora che il mio
cervello stanco fu colpito da altri orribili pensieri. «No» dissi. «No e no e no. Da quelle parti c'è molta violenza. Una donna da sola, di notte, che esce da una casa. È facile che venga assalita e derubata.» Cross attraversò l'ufficio e andò a un tavolo in un angolo. Ritornò portando qualcosa in una borsa di plastica trasparente, che depose sulla scrivania di Burrows. «Il borsellino della donna» disse. «Che abbiamo trovato nella borsa a tracolla della donna, vicino al suo corpo. Contiene quarantacinque sterline. Due carte di credito. Varie carte di negozi. Non è stato toccato.» «No» dissi a me stessa più che ai due detective. «No. Non ha alcun senso. Terry lo sa?» «Terence Wilmott è al piano di sotto» mi informò Jim Burrows. «Lo stanno interrogando in questo momento.» «Che cosa ha detto?» «Non molto. È con il suo avvocato.» «Non penserete seriamente...? Non potete...» Mi presi la testa tra le mani, chiusi gli occhi. Forse potevo mettermi a dormire e quando mi fossi svegliata quell'incubo sarebbe svanito, come un sogno che si frammenta in immagini vaghe, semidimenticate. Burrows si schiarì la gola, io alzai la testa e lo osservai. Prese un foglio di carta scritto a macchina dalla sua scrivania e lo guardò. «In almeno tre occasioni a novembre e dicembre dell'anno scorso lei ha telefonato alla polizia riguardo al suo ragazzo.» «È vero» risposi. «E nessuno è mai intervenuto. Non mi hanno creduta.» «Che cosa aveva fatto?» «Non c'è niente di complicato. Terry si immalinconisce, poi si stizzisce. Beve. A volte alza le mani.» «L'ha picchiata?» «Senta, se pensa anche per un solo minuto che Terry possa assassinare una donna...» «Per favore, signorina Devereaux, parleremo dopo delle sue opinioni, prima risponda alle nostre domande.» Chiusi la bocca in un modo che voleva essere ostentatamente sdegnoso. «D'accordo.» «L'ha picchiata?» «Sì, ma...» «Le ha dato degli schiaffi?»
«Sì.» «L'ha colpita con la mano chiusa?» «Vuol dire con il pugno? Una volta o due.» «Significa che le ha dato solo un pugno o due o che ci sono state una o due occasioni in cui l'ha colpita con il pugno?» Feci un profondo respiro. «La seconda ipotesi. È successo un paio di volte.» «Ha mai usato un'arma di qualche tipo?» Gettai in alto le braccia in un gesto selvaggio. «È tutto sbagliato» dissi. «Queste domande a cui si deve rispondere con un sì o un no sono ingiuste. Era tutto molto più complicato di così.» Burrows mi venne più vicino e parlò con calma. «L'ha mai minacciata con qualcosa? Tipo un coltello?» «Mi pare di sì.» «Le pare di sì?» «Sì, lo ha fatto.» «L'ha mai afferrata al collo con le mani o con il braccio?» E allora feci una cosa che sorprese anche me. Cominciai a piangere e piangere, senza controllo. Cercai un fazzoletto ma non riuscivo quasi a usare le mani. Non sapevo neanche perché stessi piangendo. Non sapevo se fosse a causa del naufragio della mia vita con Terry. O per la paura che avevo per me stessa. E poi c'era Sally. Sally di cui non conoscevo il cognome. Cercai di ricordarmi il suo viso, ma non ci riuscii. Era una donna a cui probabilmente non avrei augurato niente di buono, se mi fosse capitato di pensare a lei, e ora che le era successo questo, non ero un po' responsabile anch'io? Quando mi calmai da quello sfogo di pianto, vidi che Cross aveva un bicchiere di carta in ciascuna mano. Me ne porse uno. Era acqua e la bevvi d'un sorso. L'altro era caffè, caldo e forte, e lo sorseggiai un po' alla volta. «Voglio da lei una deposizione» disse. «Se se la sente.» Annuii. «Bene. Facciamo venire un agente e procediamo.» Così per due ore e mezzo bevvi una tazza di caffè dopo l'altra e parlai di tutto quel che era accaduto durante la convivenza con Terry e che avevo voluto dimenticare. Si dice che parlare delle brutte esperienze sia terapeutico. Per me fu l'opposto. Ho dei buoni amici, ma non avevo mai parlato loro di Terry, del peggio della nostra relazione. Non avevo mai menzionato prima quelle cose, non le avevo mai messe in parole. Per qualche ragione, quando lo feci, esse tornarono in vita nell'ufficio di Jim Burrows e mi
spaventarono. Per molti mesi avevo semplicemente pensato di avere una relazione problematica, in cui ogni tanto si perdeva il controllo della situazione, in cui avevamo difficoltà a comunicare. Quando esternai quel che avevo passato, la situazione mi apparve in una luce molto diversa. La donna che batteva a macchina ciò che dicevo era una giovane poliziotta in divisa. Ma quando descrissi la sera in cui Terry, ubriaco fradicio, prese un coltello dalla cucina e me lo sventolò davanti e poi me lo spinse contro la gola, smise di scrivere e mi guardò con gli occhi spalancati. Non aveva intenzione di uccidermi, dissi. Non mi avrebbe mai fatto del male. La poliziotta Hawkins, Burrows e Cross mi osservarono, poi si scambiarono uno sguardo senza prendersi la briga di dire la cosa ovvia, cioè che mi aveva fatto del male, chi stavo cercando di imbrogliare? Avevo dei problemi? Ero una vittima nata? Raccontando la mia storia, cominciai a chiedermi chi fosse quella che aveva sopportato quegli abusi così a lungo. E pensai alla donna che non ricordavo, quella che aveva detto basta e che se ne era andata. Cercai di immaginarmi Sally Adamson, che mi aveva detto che non ci somigliavamo, stesa a terra in un giardinetto gelido. E poi la immaginai morta con il seme di Terry dentro, e provai una tale vergogna che arrossii e temetti che Cross sapesse le cose terribili che mi passavano per la mente. Chiesi chi avesse rinvenuto il cadavere. Era stato il postino. Pensai a lei che veniva trovata da uno sconosciuto mentre le persone che la conoscevano e la amavano non sapevano che fosse morta. Fui sfiorata anche da un altro pensiero: Terry avrebbe potuto fare una cosa del genere? E se fosse stato lui, che cosa significava questo per me e per la mia storia? Nessun altro mi aveva creduto, ma finora io avevo creduto a me stessa. Era tutto quel che avevo per non cadere in preda alla follia. Capitolo 17 Quando ebbi finito la deposizione, mi sentii come se fossi stata scorticata. La storia che avevo raccontato era vera in ogni particolare e tuttavia, confusamente, sentivo che non era la storia che avevo avuto intenzione di raccontare. Sentivo di dovervi aggiungere qualcosa di importante, ma ero troppo stanca. Cross diede una scorsa alle pagine battute a macchina, annuendo ogni tanto, come un maestro che corregge un compito e lo trova appena sufficiente. Firmai la deposizione tre volte, poi la poliziotta Hawkins portò via il piccolo fascio di fogli. Stavo pensando a quel che avrei
fatto, quando Cross mi disse che mi avrebbe riaccompagnata a casa. Protestai, dicendo che non si doveva scomodare, ma mi rispose che doveva comunque andare in quella direzione e non riuscii a raccogliere l'energia per oppormi. Nella prima parte del viaggio, per ampie strade che non riconobbi, mi limitai a guardare davanti a me e a cercare di non pensare. Invano. Non riuscivo a evitare un pensiero fisso che in breve mi ritrovai inevitabilmente davanti. «Si fermi» dissi. «Che cosa c'è?» «Sto per sentirmi male.» «Oh, per l'amor del Cielo» disse, guardandosi intorno disperatamente. «Aspetti, non possiamo fermarci qui. Resista, che trovo un posto.» «È un poliziotto, no?» «Resista. E se le viene da vomitare, lo faccia fuori dal finestrino.» Uscì dalla strada principale, si infilò in una via secondaria e accostò al marciapiede. Aprii la porta e mi precipitai fuori. C'era un alto muro di mattoni. Doveva essere il fianco di una fabbrica o di un magazzino. Appoggiai le mani alla superficie scabrosa, che era meravigliosamente fredda al tatto. Mi piegai in avanti e mi ci appoggiai con la fronte. Sentii una mano sulla schiena. «Come va?» Un liquido caldo e acido mi salì in gola, ma lo inghiottii e feci alcuni respiri profondi. «È stata una giornata difficile» disse Cross. «No, no. Cioè, sì, ma non è questo.» «Che cosa vuol dire?» Feci qualche passo sul marciapiede, fregandomi le braccia nel tentativo di scaldarmi. Era buio e il respiro formava una nuvoletta davanti al mio viso. Eravamo ai bordi di un complesso industriale. Dietro il filo spinato c'erano degli edifici moderni che stavano già diventando neri per la sporcizia. Frazer Glass e Glazing Co. Centro industriale della pelle. Tippin Memorial Masons. «È tutto sbagliato» dissi. «Ritorni in macchina.» «Aspetti. Sa che non nutro sentimenti di particolare simpatia nei confronti di Terry al momento.» «Lo posso immaginare.»
«È un uomo che ha grossi problemi e probabilmente ha molto bisogno di aiuto, ma non è stato lui.» «Signorina Devereaux, Abbie, ritorni in macchina. Sto gelando qui fuori.» «Se ritorniamo in macchina, risponderà a delle domande?» «Qualsiasi cosa. Pur di rientrare.» Ci sedemmo in macchina e rimanemmo in silenzio per un po'. «La sto trattenendo mentre ha altro da fare?» chiesi. «No, non si preoccupi.» «Ho queste domande che continuano a ronzarmi per la testa e non riesco a fermarle. So che lei è l'esperto e io sono solo una che consiglia le aziende su dove mettere la fotocopiatrice e la macchina per il caffè. Ma non ha senso. Innanzitutto, Terry non è un assassino. E se lo fosse, non penso che sceglierebbe una donna che ha appena cominciato a vedere. E se avesse deciso di ucciderla, l'avrebbe fatto nel suo appartamento o in quello di lei. Infine, se avesse voluto nascondere il corpo, non l'avrebbe buttato in un giardinetto vicino a dove abita.» La prima risposta di Cross, se si può chiamare risposta, fu di accendere il motore e partire. «Penso di riuscire a rispondere mentre guido» disse. «Innanzitutto devo dirle che Terence Wilmott non è stato accusato dell'assassinio di Sally Adamson. Ma è l'ovvio sospettato e temo di doverle anche dire che l'ovvio sospettato di solito si rivela il colpevole. Prenderò in considerazione quel che ha detto di Terry...» «Che significa che non lo farà» lo interruppi. «Ma il fatto è che la maggior parte degli omicidi non sono commessi da sconosciuti che assalgono la loro vittima in un viottolo oscuro, ma da persone che la conoscono. Per le donne il rischio viene soprattutto dai loro partner sessuali. I precedenti violenti di Terry nei confronti delle sue partner, cioè nei suoi confronti, sono solo un'ulteriore prova. Una prova convincente, direi. Riguardo al dove abbia commesso il reato, e al perché, e che cosa abbia fatto del corpo - se è stato lui - tutto quel che posso dirle è che non ci sono regole precise. C'è gente che premedita un assassinio e altri che lo commettono d'impulso. A volte il corpo non viene occultato, a volte viene occultato così bene che non si trova mai, altre viene nascosto a metà. Magari l'ha uccisa e poi ha gettato il cadavere lungo la strada per far credere che fosse stata assalita poco dopo essersene andata da casa sua.» «Ma allora perché le avrebbe lasciato la borsa? E non sarebbe stato as-
surdamente rischioso trasportare il corpo per la strada?» «Ha mai commesso un omicidio, Abbie?» «No. E lei?» «No» rispose con un sorrisetto forzato. «Ma conosco persone che l'hanno fatto. Immagini lo stress più grande che abbia mai provato e lo moltiplichi per cento. Non si riesce a respirare, né a pensare. Si fanno le cose più strane. Gli errori più incredibili.» «C'è un'altra possibilità.» «Ci sono molte altre possibilità.» «No, questo è ciò che è accaduto veramente.» «E cioè?» chiese con una pazienza esagerata. Non osavo quasi dire ad alta voce ciò che stavo pensando. Dovetti fare uno sforzo per riuscirci. «Sa che ho cambiato aspetto da quando mi è successa quella cosa.» «Ho notato.» «Da quando mi ha buttata fuori senza nessuna protezione, sto prendendo enormi precauzioni per non essere seguita. E quasi nessuno sa dove abito. Penso che una delle poche cose che quell'uomo - l'uomo che mi ha rapita sappia di me è dove lavoravo e dove vivevo. Gliene avevo parlato. Gli avevo fatto il nome di Terry. Me lo ricordo.» «Sì?» «Ha mai notato che quando due si lasciano e uno dei due si mette con qualcun altro subito dopo, il nuovo partner spesso sembra un clone del vecchio?» «No, non lo avevo notato.» «È vero. Questo mi aveva colpito subito quando avevo visto Sally la prima volta. Lo chieda a Terry. Gliel'avevo anche detto.» «Non è una cosa molto delicata da dire.» «Lei non era d'accordo. Be', suppongo che non le facesse piacere. Ma, in ogni caso, non avrebbe potuto confermarlo. Avevo già cambiato look e apparivo completamente diversa. Quel che sto cercando di dire è che l'uomo che mi ha rapita sa che sono in giro. Ovviamente non è stato arrestato, ma comunque non sa che cosa so di lui. Per lui rappresento un rischio. Se riuscisse a uccidermi, si sentirebbe più tranquillo. Uno dei pochi modi per trovarmi sarebbe appostarsi nei pressi dell'appartamento di Terry. Se ha visto Sally uscire di là a notte fonda, ovviamente avrà pensato si trattasse di me.» «Vada avanti.»
«L'ha strangolata, pensando che fossi io. Pensava che fosse il mio collo. È l'unica spiegazione sensata.» Guardai Cross. Non rispose. Sembrava assorto nella guida. E poi mi venne un'idea. «Pensa di aver ucciso me.» «Che cosa?» «Quell'uomo. Pensa che io sia morta. Pensa di essere al sicuro. Probabilmente non sa di aver fatto uno sbaglio. Se lei potesse non annunciare subito l'assassinio, o almeno non rivelare l'identità della vittima, mi darebbe qualche giorno per fare qualcosa.» «È una buona idea» disse Cross. «Ma sfortunatamente c'è un inconveniente.» «E sarebbe?» «Sarebbe che io vivo nel mondo reale. Siamo legati ad alcune noiose norme procedurali. Quando c'è un omicidio, non possiamo tenerlo nascosto. Dobbiamo comunicarlo alla famiglia. E poi dobbiamo scoprire chi è stato.» Rimanemmo in silenzio alcuni minuti, mentre ci avvicinavamo all'appartamento di Jo. La macchina si fermò. «Sa una cosa buffa?» dissi. «No.» «Lei non mi crede. Pensa che abbia una fantasia molto fervida o forse che sia una bugiarda cronica. È molto gentile e so che si è sentito un po' peggio degli altri a sbattermi fuori, ma tutto qui. Se però avesse trovato me nel giardinetto, invece di Sally, non avrebbe avuto dubbi sul fatto che fosse stato Terry e quell'uomo l'avrebbe fatta franca.» Cross mi si avvicinò e mi appoggiò una mano sul braccio. «Abbie, come ho detto prima, se ci sono altre prove, riapriremo il suo caso. Ovviamente. E se la sua amica...» «Jo.» «Se Jo non salta fuori nei prossimi giorni, me lo comunicherà. Lo sa. Non sto abbandonandola. Non l'abbiamo buttata fuori, come dice lei; non avevamo assolutamente prove di nessun genere, se non che il suo ragazzo, Terry Wilmott, l'ha picchiata nel passato e l'ha fatto poco prima che lei perdesse conoscenza. Era tutto quello che avevamo. Se fosse stata lei, la persona che abbiamo trovato la notte passata - e grazie a Dio non è stato così - allora forse sarebbe stato Terry a ucciderla. Non le è mai passato per la mente? Secondo me lei è stata fortunata a lasciarlo.» «E il mio rapimento? Vuole dar la colpa a lui anche di questo? Ha un a-
libi, ricorda?» L'espressione di Cross si fece più dura. «Ha una storia che sta in piedi, nient'altro. È tutto quel che abbiamo in questa faccenda, un mucchio di storie. Solo che ora c'è una donna morta, trovata a pochi metri dalla porta d'ingresso dell'uomo che picchiava lei, Abbie.» Aprii la portiera e scesi. Mi piegai e guardai il suo viso, che appariva indistinto al bagliore dei lampioni. «Domani il nome di Sally sarà sui giornali e lui lo vedrà e mi darà di nuovo la caccia. Ma alla fine lei verrà a sapere che dicevo la verità. Ho un modo per dimostrarglielo.» «E cioè?» «Lo saprà quando mi troverà morta. Mi troverà strangolata in un fosso da qualche parte e Terry sarà ancora dentro e lei sarà dispiaciuto.» «Ha ragione» disse. «Che cosa vuol dire?» «Che sarò dispiaciuto.» Sbattei la portiera così forte che la macchina tremò. Capitolo 18 Alzai gli occhi alle finestre di Jo. Non c'erano luci e il posto sembrava vuoto e buio. Infilai la chiave nella serratura. Mi immaginai lassù, sola per tutta la sera e la notte, a pensare a Sally e ad aspettare che si facesse mattina. Forse sarei dovuta andare di nuovo da Sadie, o da Sam, o da Sheila. Ma il pensiero mi riempì di disperazione. Avrei dovuto raccontare loro tutto ciò che era successo nel frattempo ed era successo troppo. Anche se li avevo visti solo pochi giorni prima, mi sembravano lontanissimi. Ero uscita dal loro mondo ed ero diventata un'estranea, chi mi sarebbe stato amico adesso? Non potevo rimanere sulla strada, come un bersaglio immobile. Girai la chiave nella serratura e aprii la porta con una spinta. Guardai le scale che portavano alle camere senza luce, e fui assalita dalla paura. Richiusi la porta e rimasi un momento appoggiata contro di essa, cercando di respirare con calma. Una parte di me avrebbe voluto scivolare fuori e cadere sul vialetto di ingresso. Mi sarei acciambellata lì come un animale morente. Qualcuno sarebbe venuto e si sarebbe fatto carico di tutto. Mi avrebbe sollevata e portata in un posto sicuro e caldo e io non avrei dovuto continuare in quel modo, giorno dopo giorno. Non mi acciambellai sul vialetto. Ritornai sulla strada, dove fermai un
taxi e mi feci portare a Belsize Park. Non sapevo il numero, ma pensavo di riconoscere la casa, quando ci fossi arrivata. Probabilmente non l'avrei trovato, o non avrei saputo che cosa dirgli. Individuai la casa facilmente. Mi ricordavo dell'albero, fuori sul marciapiede, e vagamente della recinzione di ferro battuto. C'erano luci sia al piano inferiore sia a quello superiore. Porsi al tassista un biglietto da dieci sterline e gli dissi di tenere il resto. Mi avviai verso la porta con le gambe che sembravano di gelatina e il respiro che mi si mozzava in gola. Forse era nel bel mezzo di una cenetta con amici. O a letto con qualcuna. Picchiai forte con il battaglio e arretrai. Lo sentii scendere e mi lasciai sfuggire un piccolo sospiro. «Abbie?» «Hai qualcuno in casa? Stai facendo qualcosa?» Scosse il capo. «Scusami» dissi. «Scusa se ti disturbo in questo modo, ma non sapevo che cos'altro fare. Sei l'unica persona che conosco che sa tutto. Se capisci ciò che voglio dire. Scusa.» «Che cosa è successo?» «Ho paura.» «Vieni dentro. Starai morendo di freddo.» Aprì la porta ed entrai nell'ampio ingresso. «Scusa.» «Smettila di scusarti, per l'amor del Cielo. Dai, vieni in cucina a scaldarti. Dammi il cappotto.» «Grazie.» Mi condusse in una piccola cucina. Il davanzale era tutto coperto di piante e sul tavolo c'erano dei narcisi. C'era odore di colla, segatura, vernice. «Siediti. Sposta quella roba. Ti preparo qualcosa da bere. Cosa vuoi, del tè? Una cioccolata calda?» «Sarebbe meraviglioso.» Versò del latte in un pentolino e lo mise sul fuoco. «Che ne dici di mettere qualcosa sotto i denti? Quando hai mangiato l'ultima volta?» «Questa mattina. A colazione. Non ti ricordi?» «Era questa mattina? Mio Dio.» «È andata bene la riunione?» «È andata. Cosa posso prepararti?»
«Solo la cioccolata calda. Sarà confortante.» «Confortante» ripeté con un sorriso. Mise dei granuli di cioccolato nel latte bollente e mescolò vigorosamente, poi versò il tutto in una grossa tazza verde. «Bevi, Abbie, e raccontami che cosa è successo.» «Sally è morta» risposi. «Sally? E chi è Sally?» «La nuova ragazza di Terry.» Aspettai che mi chiedesse chi fosse Terry, ma non lo fece. Si limitò ad annuire e si scurì in volto. «Mi dispiace, ma la conoscevi bene? Era un'amica?» «Non la conoscevo quasi. Ma è stata uccisa.» «Uccisa? L'hanno uccisa?» «Fuori dall'appartamento di Terry. La polizia è convinta che sia stato lui.» «Capisco» disse molto lentamente. «Ma non è vero. So che non è stato lui. Naturalmente, però, pensano che io sia in preda a qualche fantasia paranoica. Per loro il fatto che Terry mi picchiava è una prova sufficiente, e io ho trasformato una squallida vicenda di abusi domestici nella storia eroica di un rapimento. Poi lui si mette con un'altra e fa le stesse cose, anzi arriva a ucciderla.» «Ma non l'ha fatto?» «No. Terry non ucciderebbe nessuno.» «Un mucchio di persone che non ucciderebbero nessuno ammazzano qualcuno.» «È quello che continua a dire la polizia. Ma io lo conosco. E poi, se l'avesse uccisa, si sarebbe sentito così in colpa che sarebbe crollato e avrebbe telefonato subito al 999. Certamente non avrebbe trascinato il corpo fuori e non l'avrebbe lasciato davanti a una porta poco lontano da casa sua. E se avesse voluto nasconderlo, cosa che non avrebbe fatto, perché tanto per cominciare non avrebbe commesso un omicidio, allora avrebbe...» «Non sono un poliziotto, sai.» «No. Certo. Scusa. È solo che... tutto. Continuo a pensare a quel povero e stupido di un Terry. E a Sally, naturalmente. Ma c'è qualcos'altro. Sally mi somigliava. Voglio dire, mi somigliava prima che mi facessi tagliare i capelli.» Vidi la sua espressione cambiare. «Ho quest'orribile sensazione che avrei dovuto esserci io al suo posto.» «Oh» fece. «Capisco.» «Lui è là fuori, che mi sta cercando. E mi troverà. Lo so.»
«E la polizia non ti prende sul serio?» «No. Non li biasimo, veramente. Se non si trattasse di me, non so se mi prenderei sul serio. Se capisci ciò che voglio dire.» «Capisco ciò che vuoi dire.» «Mi credi?» «Sì.» «Profondamente, intendo. Su tutta la linea.» «Sì.» «Davvero? Non lo stai solo dicendo?» «Non lo sto solo dicendo.» Lo guardai. Non abbassò gli occhi. «Grazie» dissi. Presi la cioccolata calda e la finii. Mi sentii meglio, tutto a un tratto. «Posso usare il bagno? Poi me ne andrò. Non ti sarei dovuta piombare in casa in questo modo, sono stata una stupida.» «Di sopra, la prima porta che vedi.» Mi alzai. Salendo le scale, mi sentii le gambe molli. Andai in bagno e mi spruzzai dell'acqua sul viso chiazzato. Sembravo una scolaretta esausta. Uscii e tornai alle scale. Era una casa carina: mi chiesi se ci vivesse una donna. C'erano quadri alle pareti e pile di libri. E una grossa pianta nel vano della scala. Mi fermai di colpo e la osservai; aveva un tronco vecchio e nodoso e foglie verde scuro. Mi accovacciai e premetti un dito sulla terra coperta di muschio. Mi ci sedetti accanto e mi presi la testa tra le mani. Non sapevo se piangere, ridere o urlare. Non feci nulla del genere. Mi rialzai e scesi molto lentamente il resto delle scale. Tornai in cucina. Ben era ancora seduto al tavolo. Non stava facendo niente, stava solo fissando nel vuoto. Aveva l'aria stanca. Stanca e un po' giù, forse. Come in un sogno - il mio sogno, il sogno di una vita che una volta avevo vissuto, un sogno che non riuscivo a ricordare - girai intorno al tavolo e gli misi una mano sul viso. Vidi la sua espressione addolcirsi. «Era così?» dissi. Mi chinai su di lui e lo baciai sul lato della bocca. Chiuse gli occhi e lo baciai sulle palpebre. Lo baciai sulla bocca finché non la schiuse. Era morbida e sconosciuta. «È stato così?» «No, non è stato così.» «Allora com'è stato?» «Mi hai detto che ti sentivi brutta. Hai parlato di Terry. Così ti ho presa per mano.» Mi prese per mano e mi accompagnò dall'altra parte della stanza, dove c'era un grande specchio appeso al muro. Mi ci mise davanti e mi fece guardare me stessa, una Abigail sbattuta, pallida, persa, disfatta. Si
mise dietro di me e i nostri sguardi si incontrarono nello specchio. «Ti ho portata qui perché ti guardassi. Ti ho detto che eri bellissima.» «Sembro una pecorella smarrita.» «Smettila, Abbie. Parlo io. Eri bella allora e sei bella ora. Ti ho detto che eri incantevole e poi non ho resistito. Ti ho baciata qui, sul collo morbido. Sì, tu hai piegato la testa in questo modo.» «E poi?» dissi. Mi sentivo svenire. «Ti ho baciata così e ti ho accarezzato il viso e il collo. Poi ho continuato in questo modo.» Mi baciava il collo e allo stesso tempo mi sbottonava la camicia. «Davvero?» mormorai, non molto coerentemente. Infilò una mano sotto la camicia, mi slacciò il reggiseno e me lo scostò, poi posò le mani sul seno. Le sue labbra morbide erano ancora sul mio collo, ma più che baciarlo, lo accarezzavano. «Così» disse. Volevo dire qualcosa, ma non riuscii a parlare. La sua mano destra mi accarezzava dolcemente il ventre, e scendeva. Con abilità mi slacciò il bottone dei pantaloni e tirò giù la cerniera lampo. Si inginocchiò dietro di me, e mentre mi baciava lungo la spina dorsale, infilò le mani nei pantaloni, alla vita, e me li tirò giù fino alle caviglie, insieme alle mutande. Si alzò di nuovo. Era dietro di me, le braccia intorno a me. «Guarda» disse, e io guardai nello specchio il mio corpo e lui che guardava me, e mi vidi con i suoi occhi. E pensai al mio corpo nudo nello specchio, quando era stato? Due settimane prima? Quando gli parlai avevo la voce roca per l'eccitazione. «Non sono molto dignitosa.» «Sei bellissima.» «E non posso scappare.» «Non puoi scappare.» «Che cosa ho fatto dopo?» E allora me lo mostrò. Andai in camera da letto, saltellando in maniera ridicola, e mi buttai sul letto. Tolsi le scarpe con un calcio e mi sfilai i vestiti. Erano già praticamente tolti. Poi si svestì lui, con calma. Andò a un cassetto e prese un preservativo, aprendo il pacchetto con i denti. Lo aiutai a metterlo. «Questo lo so» dissi. «Ho trovato la pillola del giorno dopo tra la mia roba.» «Oh, Dio. Scusa. Non abbiamo avuto il tempo.» «Sono sicura che è stata anche colpa mia.»
«Sì» rispose, ansimando. «È vero.» Ci guardammo. Sollevò una mano e mi accarezzò il viso, il collo, il seno. «Pensavo che non ti avrei mai più toccata» disse. «È stato così?» «Sì.» «Questo?» «Sì. Non fermarti.» Non ci fermammo. Ci guardammo negli occhi per tutto il tempo, a volte sorridendoci. Quando venne, urlò come un uomo in pena. Lo presi tra le braccia e lo tenni stretto. Gli baciai i capelli umidi. «Non può essere stato più bello di così» dissi. Appoggiò le labbra sulla mia gola pulsante e mormorò qualcosa. «Che cosa?» «Ho detto che non è passata un'ora in cui non abbia sentito la tua mancanza.» «Forse anch'io ho sentito la tua mancanza, ma non lo sapevo.» «Come hai fatto a capirlo?» «Il bonsai.» Mi scostai e lo guardai fisso. «Allora perché diavolo non me l'hai detto?» «Scusa, non sapevo che cosa fare. Volevo che tu sentissi qualcosa, non che ti fosse raccontato quel che avevi provato. Se capisci ciò che voglio dire.» «Non so. C'è una piccola parte di me che sta aspettando di montare su tutte le furie contro di te. Veramente. Dico sul serio. Ero alla ricerca disperata di pezzetti di me che avevo perso, brancolavo nel buio come una donna cieca e terrorizzata, e tu sapevi e avresti potuto aiutarmi. Ma non l'hai fatto. Hai scelto di non farlo. Sapevi cose di me che io non conoscevo. E ancora ne sai. Puoi ricordarti di me, mentre io no. Conosci l'altra Abbie, la parte di me che tengo nascosta, e io non conosco quella parte di te. Che cos'altro sai di me? Come farò a essere sicura che mi hai detto tutto? Non lo saprò mai. Possiedi dei pezzetti della mia vita. Non è giusto, non credi?» «No.» «È tutto quello che hai da dire?» «Scusa. Non sapevo che cosa fare» rispose debolmente. «Volevo dirtelo, ma che cosa ti avrei raccontato?» «La verità. Sarebbe stato un bel modo di cominciare.» «Scusami.» Gli accarezzai il petto dolcemente. Prima di essere stata rapita e rinchiu-
sa in una cantina, ero stata felice. L'avevano detto tutti. Ero stata felice perché avevo lasciato un uomo che mi picchiava, un lavoro che non mi piaceva, e avevo incontrato Ben. Da quando ero uscita dall'ospedale ero stata ossessionata dal fatto che i giorni che avevo perso fossero stati pieni di bei ricordi. Avevo perso proprio le parti della mia vita che volevo conservare; e ricordavo ciò di cui avrei voluto disfarmi. Per la mente mi ronzavano dei pensieri, o frammenti di pensieri del tipo: dire di sì alla vita, non passare il resto dei miei giorni in preda al terrore. Più tardi facemmo un bagno insieme. Poi lui scese a preparare dei panini per tutti e due, che portò di sopra su un vassoio con una bottiglia di vino rosso. Mi misi a sedere contro i guanciali. «Stai sempre a prepararmi delle cenette» dissi. «Abbiamo mangiato le ostriche prima.» «Davvero? Le adoro.» «Lo so. È per questo che le abbiamo comprate. Le compreremo ancora.» Gli presi la mano e gliela baciai, poi staccai un boccone dal panino. «Allora è stato mercoledì pomeriggio, giusto?» «Lunedì.» «Lunedì! Ne sei sicuro? Il giorno in cui ci siamo incontrati?» «Sicuro.» Mi rabbuiai. «Ma non ti sei messo un preservativo?» «Sì, me lo sono messo.» «Non capisco. Prima hai detto...» «Sei ritornata.» «Mercoledì?» «Sì.» «Potevi dirmelo.» «Lo so.» «Ma non l'hai fatto...» «No.» «Perché?» «Sei venuta senza preavviso. Con l'albero. Eravamo d'accordo di vederci la sera successiva, giovedì, perché mercoledì avevo gente. Dei clienti. C'erano già e tu hai bussato alla porta e mi hai dato l'albero. Ti ho baciata.» «Sì?» «E poi ti ho baciata ancora.» «Continua.»
«Mi hai slacciato i bottoni della camicia. Sentivamo i clienti parlare fra loro nella camera accanto.» «E?» «Siamo andati in bagno, abbiamo chiuso la porta a chiave e abbiamo scopato.» «In piedi?» «Sì. Ci abbiamo messo più o meno trenta secondi.» «Fammelo vedere» dissi. Passai la notte con Ben. Nonostante tutto, dormii pesantemente e quando mi svegliai, la mattina, sentii l'aroma del caffè e del pane tostato. Attraverso le tende il cielo sembrava blu. Ero spaventata dall'improvvisa felicità. Era come l'arrivo della primavera. Capitolo 19 Mangiammo il pane tostato a letto. Le briciole si sparsero sulle lenzuola, ma Ben si appoggiò ai cuscini e si portò il piumino sotto il mento con l'aria di star molto comodo. «Non hai lavoro da fare?» dissi. Ben mi si allungò sopra per guardare l'orologio accanto al letto. È buffo quanto velocemente ci si senta a proprio agio con il corpo di un'altra persona. «Tra diciotto minuti» rispose. «Non farai tardi?» «Sono già in ritardo. Ma c'è un tizio che viene per vedermi. Viene da Amsterdam e se non ci sono a incontrarlo, oltre a essere in ritardo sarò anche maleducato.» Lo baciai. Voleva essere solo un bacetto frettoloso. «Devi smetterla o non riuscirò ad andare.» «Vedi» dissi, bisbigliando, perché avevo la faccia quasi contro la sua «se fossi stata al posto tuo e tu al mio, avrei pensato che tu fossi pazzo. O che lo fossi io. Se capisci quel che voglio dire.» «Mi sono perso.» «Se una persona che conosco scomparisse e poi rispuntasse dopo una quindicina di giorni e sembrasse non ricordare più di avermi visto, penserei che fosse diventata completamente matta. O che fosse una bugiarda. Come sai, la polizia è combattuta tra le due teorie.» «Ho pensato di essere matto. Poi che lo fossi tu. Poi non ci ho capito più
nulla.» Mi accarezzò i capelli, facendomi rabbrividire per il piacere. «Non sapevo che cosa fare» disse. «Sembrava una cosa impossibile da spiegare. Credo di aver pensato di doverti fare innamorare di me nuovamente. In ogni caso l'idea di dirti: "Sei innamorata di me, o perlomeno lo sei stata, solo che non te lo ricordi" non mi pareva molto sensata.» «Non hai mani da designer.» «Vuoi dire che sono ruvide e piene di ammaccature?» «Mi piacciono.» Si guardò le mani con curiosità. «Costruisco io stesso molte delle cose che creo. Le mani mi si imbrattano. Me le graffio, me le ammacco con il martello, me le strofino, ma mi piace così. Mio padre è un saldatore. Ha un laboratorio a casa e passa tutti i weekend a smontare oggetti e poi a rimetterli insieme. Quando ero più giovane, se volevo dirgli qualcosa, l'unico modo era andare là dentro e passargli il cacciavite, o quel che fosse. Sporcandomi le mani. È ciò che faccio ancora, in generale. Ho trovato il modo di essere pagato per ciò che mio padre faceva come hobby.» «Per me non è stato così. Né con mio padre né con il lavoro.» «Sei fantastica nel lavoro. Sei riuscita a far funzionare tutto. Ci hai lasciati di stucco.» «A volte non riesco a credere a quel che faccio, o facevo. Per esempio, l'accertamento dei rischi in un ufficio. Sembra logico dover fare una valutazione dei rischi negli impianti per l'estrazione del petrolio o in una spedizione polare, ma l'assicurazione voleva una valutazione dei possibili rischi in ufficio, così l'ho fatta. In questo momento sono un'esperta mondiale di tutti i possibili incidenti che possono capitare in un ufficio. Sapevi che lo scorso anno novantuno impiegati del Regno Unito hanno subito dei danni a causa del liquido correttivo per la macchina per scrivere? Voglio dire, come si fa a infortunarsi con il bianchetto?» «Lo so benissimo. Si usa il bianchetto, ci si sporca le mani, poi ci si tocca gli occhi.» «Trentasette persone si sono ferite con le calcolatrici. Come avranno fatto? Non pesano più di un contenitore per le uova. Potrei spiegar loro una cosa o due sui rischi.» Quel discorso non mi sembrò più molto divertente. Mi sollevai a sedere e lanciai un'occhiata all'orologio. «Credo che dobbiamo tutti e due darci una mossa» dissi. Facemmo una doccia insieme in modo molto disciplinato. Ci lavammo e asciugammo a vicenda. Ci aiutammo a vestirci. Mettere i vestiti a Ben fu
quasi altrettanto eccitante che toglierglieli. A lui andò meglio, però. Aveva dei vestiti puliti da mettersi. Io avevo gli stessi della sera precedente. Dovevo tornare a casa per cambiarmi. Mi venne vicino, mi scompigliò i capelli e mi baciò sulla fronte. «È un po' strano vederti con i vestiti di Jo, però» disse. Scossi il capo. «Dobbiamo avere gli stessi gusti» risposi. «Questi vestiti sono miei. In effetti questa è la camicia che avevo addosso quando sono stata rapita. Avevo intenzione di buttarla nella spazzatura o di bruciarla, ma è bella e non credo che smetterei di pensare a quelle cose solo perché ho dato fuoco a dei vestiti...» «Quella camicia era di Jo. L'ha comprata a Barcellona. A meno che anche tu non abbia comprato dei vestiti a Barcellona.» «Ne sei sicuro?» «Sì.» Rimasi in silenzio. Cominciai a pensare febbrilmente. Questo fatto doveva avere un significato. Ma quale? In piedi, sui gradini dell'ingresso di casa sua, ci baciammo di nuovo. Per un momento mi sembrò di non riuscire a staccarmi. Se fossi rimasta aggrappata a lui sarei stata al sicuro. Poi mi dissi di non fare la stupida. «Devo ritornare nell'orribile mondo.» «Che cosa farai?» mi chiese. «Andrò a casa, cioè a casa di Jo, a cambiarmi. Non posso andare in giro con questa roba.» «Non intendevo quello.» «Non so bene. Oggi o domani quell'uomo scoprirà di aver ucciso la donna sbagliata e ricomincerà a cercarmi. Forse tenterò di scoprire dov'è andata Jo. Anche se non so se mi servirà a qualcosa.» Il sollievo che avevo provato prima, quando ero a letto con Ben e mangiavamo pane tostato, stava di nuovo svanendo. Ben giocherellava con le chiavi dell'auto, profondamente assorto nei suoi pensieri. «Oggi chiamerò i genitori di Jo» disse. «Dovrebbero essere tornati. Poi vedremo.» Lo baciai. Dovetti mettermi in punta di piedi per farlo. «Questo per dirti grazie. E che non devi rischiare per me.» «Non essere stupida, Abbie. Ti chiamo più tardi.» Mi porse un biglietto da visita ed entrambi scoppiammo a ridere della formalità del gesto. «Mi puoi sempre trovare a uno di questi numeri.»
Ci baciammo e mi posò la mano sul seno. E io la coprii con la mia. «Sto pensando al tizio che viene da Amsterdam» dissi. Mi infilai nel bagno con un panno sul viso e cercai di pensare a ciò che avrebbe pensato lui. Stava per scoprire che ero ancora viva. Forse lo sapeva già. E c'era anche un'altra cosa. C'era stata quella incauta telefonata al mio cellulare. L'aveva tenuta. Era il suo trofeo. E sostenevo di essere Jo. Pensava che gli stessi dando la caccia? Indossai degli abiti di Jo. Deliberatamente scelsi dei pantaloni di velluto a coste grigi e un maglione spesso, color crema, che erano molto lontani da ciò che di solito mi mettevo. Abbie Devereaux doveva essere morta e sepolta per il momento. Sarei stata una dei milioni di persone che passano per Londra. Come avrebbe fatto a trovarmi? E come avrei fatto io? In seguito feci quel che avrei dovuto fare prima: sollevai il telefono, digitai un numero che ricordavo a memoria e udii la voce del padre di Terry rispondere: «Sì?». «Richard, sono Abbie.» «Abbie.» La sua voce era gentile ma gelida. «Sì, senti, so che state passando dei momenti terribili...» «Lo sai?» «Sì, e mi dispiace per Terry.» «È assurdo che sia proprio tu a dirmelo.» «È stato rilasciato?» «No, non ancora.» «Volevo solo dire che so che non è stato lui e che farò di tutto per aiutarlo. Puoi dirlo al suo avvocato.» «Molto bene.» «Ti do il mio numero. Anzi, ti ritelefonerò io, o telefonerò a Terry quando sarà uscito. D'accordo?» «Molto bene.» Ci fu un silenzio, poi ci salutammo. Andai a mettermi al centro del soggiorno di Jo e mi guardai attorno. Ero più o meno a quell'orribile stadio delle ricerche di qualcosa che non si trova, in cui si devono ricontrollare i posti già controllati. Sarebbe stato utile avere un diario. Avrei scoperto se avesse dei progetti. Ma avevo già rovistato nella sua scrivania e non avevo trovato nulla del genere. Gironzolai per la stanza prendendo oggetti dagli scaffali e rimettendoli a posto. C'era
un vaso con una pianta sulla mensola accanto alla finestra. Mia madre avrebbe saputo che cos'era. Ne avrebbe saputo il nome latino. Ma perfino io vedevo che stava ingiallendo. La terra era dura e crepata. Riempii un bicchiere d'acqua in cucina e lo rovesciai sulla piantina triste. L'acqua penetrò nelle crepe. C'era un'altra cosa. Una giovane donna responsabile come Jo sarebbe partita per una vacanza lasciando morire la sua pianta? Innaffiai anche il fico del Banian. Tutte le prove che avevo trovato erano come miraggi. Luccicavano nell'aria, ma quando cercavo di afferrarle, scomparivano. Vivevo con lei, forse era partita per una vacanza e mi aveva incaricata di badare a queste cose. Forse aveva dato per scontato che avrei bagnato le piante. Lanciai un'occhiata alla pila di lettere. Le avevo già spulciate in cerca di qualcosa di utile, ma le ripassai in rassegna, sperando che mi saltasse all'occhio qualcos'altro. Una busta attirò la mia attenzione. Era la bolletta del gas che non avevo ancora pagato; i miei soldi erano finiti. Aveva una di quelle finestrine trasparenti che fanno vedere il nome e l'indirizzo stampati dentro. Feci un piccolo grugnito di sorpresa quando vidi il nome: L.J. Hooper. Quasi come in sogno cercai il biglietto da visita di Ben e lo chiamai sul cellulare. Rispose con tono indaffarato e distratto, ma quando udì la mia voce, si addolcì. La cosa mi fece sorridere. Più che sorridere, mi diede un senso di calore. Mi sentii ridicola, come una quattordicenne con una cotta. Si poteva avere una cotta per una persona con cui si era passata la notte? «Qual è il primo nome di Jo?» «Che cosa?» «So che è una domanda stupida. Ma stavo guardando una delle sue bollette e ho visto che sull'indirizzo c'erano le iniziali. E la prima è una L. Dopo c'è la J. A che nome corrisponde la L?» Udii una risata soffocata all'altro capo del telefono. «Lauren» disse. «Come Lauren Bacall. La prendevano in giro per questo.» «Lauren» ripetei come intontita e sentii che le gambe mi tremavano. Dovetti appoggiarmi al muro per tenermi in piedi. «Kelly, Kath, Fran, Gail, Lauren.» «Che cosa?» «Quell'uomo, mi ripeteva l'elenco dei nomi delle donne che aveva ucciso. Lauren era l'ultimo.» «Ma...» Ci fu una lunga pausa. «Potrebbe essere una coincidenza...» «Lauren? Non è proprio tra i primi dieci nomi più comuni.»
«Non so. Tra i primi dieci ora ci sono nomi buffi. L'altro problema è che non usava quel nome. Lo odiava.» Cominciai a mormorare qualcosa, più a me stessa che a lui, tanto che Ben dovette chiedermi che cosa stessi dicendo. «Scusa, stavo dicendo che so quel che potrebbe aver provato. Magari gli ha dato quel nome, perché era il suo modo di non cedergli. Non era lei, Jo, che lui umiliava e terrorizzava, ma un'altra persona, il suo alter ego ufficiale.» Misi giù il telefono e mi sforzai di ricordare. Che cosa aveva detto di Lauren? Kelly aveva pianto. Gail aveva pregato. Che cosa aveva fatto Lauren? Lauren aveva lottato. Lauren non era durata a lungo. Mi sentii male. Capii che era morta. Il tono di Jack Cross non si addolcì quando udì la mia voce. Divenne più cupo. E stanco. «Oh, Abbie» disse. «Come sta?» «Si chiamava Lauren» dissi, cercando di non piangere. «Che cosa?» «Jo. Il suo primo nome era Lauren. Non si ricorda? Lauren era uno dei nomi dell'elenco di donne che aveva ucciso.» «Me ne ero dimenticato.» «Non le sembra significativo?» «Prenderò nota.» Gli raccontai anche dei vestiti, dei vestiti di Jo che avevo addosso. Sembrava perplesso. «Non è necessariamente un elemento significativo. Sappiamo che lei viveva nell'appartamento di Jo. Perché non avrebbe potuto avere indosso i suoi vestiti?» Abbassai gli occhi e diedi uno sguardo ai pantaloni di velluto a coste grigi di Jo che mi ero messa, poi urlai: «Per l'amor del Cielo, che genere di prova vuole?». Udii un sospiro. «Abbie, mi creda, sono dalla sua parte, e a dir la verità stavo proprio sfogliando la sua cartella pochi minuti fa. Ho perfino incaricato uno dei miei colleghi di seguire la faccenda. Non l'abbiamo dimenticata. Ma per rispondere alla sua domanda, voglio il genere di prova che riesca a convincere una persona che non le creda già.» «Bene, l'avrà, maledizione. Deve solo aspettare.» Avrei voluto sbattergli il telefono in faccia, ma era uno di quei telefoni senza filo che non si possono sbattere, così mi limitai a schiacciare violen-
temente il pulsante per chiudere la comunicazione. «Oh, Abbie, Abbie, Abbie, che stupida sei» piagnucolai tra me e me per consolarmi. Capitolo 20 Sapevo che Jo era morta. Non badai a quel che aveva detto Cross, lo sapevo. Ripensai alla voce sibilante nel buio che ripeteva: «Kelly, Kath, Fran, Gail, Lauren». Lauren era Jo. Non gli aveva mai detto il nome con cui la chiamavano le persone che amava. Gli aveva dato il nome di una sconosciuta. Era stato il suo modo di rimanere umana, di non diventare pazza. Ora poteva aggiungere un altro nome alla sua litania, Sally. Anche se forse Sally non contava per lui. Era un errore. Dovevo esserci io al suo posto. Rabbrividii. Nessuno sapeva dov'ero a parte Carol di Jay and Joiner's e Peter di sotto. E Cross e Ben, naturalmente. Ero al sicuro, mi dissi. Ma non mi sentivo per niente tranquilla. Chiusi le tende del soggiorno e ascoltai i nuovi messaggi alla segreteria telefonica di Jo. Non c'era molto; solo una chiamata da parte di una tizia che diceva che le tende erano pronte e Jo poteva andarle a ritirare; e un altro da un certo Alexis che la salutava, le diceva che era tornato, e che dovevano vedersi presto. Aprii la lettera che era arrivata quella mattina, un invito a rinnovare l'abbonamento al «National Geographic». Lo feci per lei. Poi telefonai a Sadie, già sapendo che non l'avrei trovata, e lasciai un messaggio in cui le dicevo che volevo vederla presto e che mi mancava, e mentre lo dicevo, scoprii che era vero. Lasciai un messaggio simile sulla segreteria di Sheila e Guy. Mandai una e-mail allegra e vaga a Sam. Non volevo ancora né vedere né parlare con nessuno di loro, ma volevo costruire dei ponti. Mi preparai un panino con avocado, bacon e mozzarella. Non avevo veramente fame, ma mi fu di conforto mettere insieme metodicamente il panino, poi andare a mangiarlo seduta sul divano, masticare il pane morbido e salato senza pensare a nulla, cercando di svuotare la mente. Mi trovai a ripensare alle immagini che avevo creato quando ero prigioniera nel buio: la farfalla, il fiume, il lago, l'albero. Le opposi a tutto l'orrore e il terrore. Chiusi gli occhi e lasciai che quelle belle immagini di libertà mi riempissero la mente. Poi mi udii dire: «Ma dov'è il gatto?». Non capii da dove fosse venuta quella domanda. Rimase come sospesa nella stanza silenziosa, mentre la prendevo in esame. Jo non aveva un gat-
to. L'unico che avevo visto in giro era quello di Peter, al piano di sotto, il micio con gli occhi d'ambra che mi aveva svegliata una notte e mi aveva tanto spaventata. Ma quella domanda che mi era saltata in testa mi dava una strana sensazione, una sorta di pizzicore al cervello. Come se un vago ricordo stesse grattando alla soglia della mia coscienza. Perché avevo pensato a un gatto? Perché Jo aveva cose per gatti. Cose che avevo visto senza badarci. Dove? Andai nella zona cucina e aprii sportelli e cassetti. Niente. Poi mi ricordai e andai all'armadio alto vicino al bagno, dove avevo trovato l'aspirapolvere e la tuta da sci. Là, vicino al sacco della spazzatura pieno di vestiti, c'era una vaschetta per i bisogni dei gatti, che sembrava nuova, ma poteva semplicemente esser stata lavata con cura, e un pacco ancora sigillato contenente sei scatolette di cibo per gatti. Chiusi la porta e ritornai al divano. Presi il panino, poi lo posai di nuovo. E allora? Jo doveva aver avuto un gatto. O forse aveva un gatto e se ne era andato dopo la scomparsa di lei perché non c'era più nessuno a dargli da mangiare né ad accarezzarlo. Forse era morto, pensai, come... Non finii la frase. O forse Jo aveva solo intenzione di prendere un gatto. Ritornai all'armadio e diedi un'occhiata alle sei scatolette. Erano per dei gattini. Così sembrava che Jo avesse intenzione di prendere un gatto piccolo. Ma che importanza aveva, se non per il fatto che era un altro triste dettaglio? Non sapevo. Mi misi giacca e cappello e uscii di corsa sulla strada. Suonai il campanello di Peter e lui aprì la porta come se mi avesse vista arrivare dalla finestra. Il gatto dormiva sul divano, con la coda che fremeva leggermente. «Che bella sorpresa» disse e io mi sentii pungere da un leggero senso di colpa. «Tè? Caffè? Un goccio di sherry? Lo sherry riscalda con questo tempo.» «Tè, grazie.» «L'ho appena fatto, è nella teiera. Come se sapessi che saresti venuta. Niente zucchero, giusto?» «Giusto.» «Questa volta prenderai un biscotto, vero? Anche se vai sempre di fretta. Ti vedo uscire di casa di corsa, ritornare di corsa. Dovresti rallentare, sai.» Presi un biscotto dalla scatola che mi porgeva. Era diventato molle. Lo immersi nel tè e lo mangiai in tre bocconi. «Volevo chiederti se hai bisogno di qualcosa» dissi. «Probabilmente non uscirai molto con questo tempo.» «È l'inizio della fine» rispose.
«Scusa?» «Quando si smette di uscire. Io esco tre volte al giorno. Di mattina vado all'edicola per il giornale. Poco prima di pranzo vado a fare una passeggiata, anche se piove, come oggi, o se fa molto freddo. Di pomeriggio vado a fare la spesa per la cena.» «Se avessi bisogno di qualcosa...» «È molto gentile da parte tua pensare a me.» «Come si chiama il tuo gatto?» Lo accarezzai sulla schiena tigrata, e lui fremette di piacere. Aprì un occhio dorato. «Patience. Ha quasi quattordici anni. È vecchia per essere un gatto. Sei una vecchia signora» disse alla micia. «Mi chiedevo se anche Jo avesse un gatto.» «Ne voleva uno. Aveva detto che le avrebbe fatto compagnia. Ci sono persone che amano i cani e persone che amano i gatti. Lei era per i gatti. E tu?» «Non lo so. Allora stava per prenderne uno?» «Venne a chiedermi dove poteva trovarne; sapeva che sono un amante dei gatti. Ne ho sempre avuti, fin da quando ero bambino.» «Quando è venuta a trovarti?» «Un paio di settimane fa. Poco prima che tu arrivassi, mi pare. Dovresti saperlo, però.» «Perché dovrei saperlo?» «Ne abbiamo parlato insieme, quando ci siamo incontrati, il giorno in cui ti sei trasferita con tutta la tua roba.» «Mercoledì?» «Se lo dici tu. In ogni caso, non ti ricordi? Ha detto che stava per prenderne uno.» «Quando?» «Quel pomeriggio, se lo avesse trovato. Sembrava molto contenta dell'idea. Ha detto qualcosa sul fatto che aveva bisogno di fare dei cambiamenti nella sua vita, e che avrebbe cominciato con un gattino.» «E tu che cosa le hai detto, quando ti ha chiesto dove andare a cercarlo?» «Ci sono tanti modi di trovare un micio. Tanto per cominciare si possono andare a vedere i bigliettini attaccati all'edicola e all'ufficio postale. La maggior parte della gente fa così, no? C'è sempre qualcosa. Oggi ho notato un biglietto, quando sono andato a prendere il giornale.» Il telefono sul tavolino vicino a lui cominciò a squillare e Peter disse: «Scusami, cara. Dev'essere mia figlia. Vive in Australia».
Prese la comunicazione e io mi alzai e andai a mettere la tazza nel lavandino. Lo salutai con un cenno della mano, e lui alzò appena gli occhi. Avrei voluto chiamare Ben e udire la sua voce. Mi ero sentita sicura a casa sua, avvolta dal suo calore. Ma stava lavorando e non avevo nulla di particolare da dirgli, se non che non riuscivo a smettere di pensare a lui. Stava già facendosi buio, anche se erano solo le quattro. Era stata una di quelle giornate cupe, piovigginose, in cui sembra che non ci sia mai abbastanza luce. Guardai la strada, fuori dalla finestra, che qualche giorno prima era coperta di neve. I colori sembravano essere svaniti. Tutto era di una tonalità seppia, nera e grigia. I passanti sembravano personaggi di un film in bianco e nero, con il capo chino. Riscrissi l'elenco dei «Giorni perduti». VENERDÌ 11 GENNAIO: resa dei conti da Jay and Joiner's. Furiosa uscita. SABATO 12 GENNAIO: lite con Terry. Furiosa uscita. Passata la notte da Sadie. DOMENICA 13 GENNAIO: lasciata Sadie di mattina. Andata da Sheila e Guy. Incontrato Robin per compere e spesi troppi soldi. Incontrato Sam per un drink. Ritornata da Sheila e Guy. LUNEDÌ 14 GENNAIO: visto Ken Lofting, signor Khan, Ben Brody e Gordon Lockhart. Telefonato a Molte Schmidt. Fatto benzina. Incontrato Ben per un drink e poi cena con lui. Sesso con Ben. Telefonato a Sheila e Guy per dire che non sarei ritornata da loro a dormire. Passata la notte da Ben. MARTEDÌ 15 GENNAIO: andata al caffè con Ben. Incontrata Jo. Ben se ne va. Parlato con Jo e deciso di trasferirmi nel suo appartamento. Andata da Sheila e Guy e lasciato un biglietto dicendo che avevo trovato un posto in cui stare. Presa la mia roba. Andata all'appartamento di Jo. Prenotato una vacanza a Venezia. Telefonato a Terry e stabilito di andare a prendere la mia roba il giorno successivo. Ordinato una cena da un takeaway indiano. Girato un video? MERCOLEDÌ 16 GENNAIO: presa la roba da Terry e portata da Jo. Incontrato Peter e parlato del desiderio di Jo di prendere un gatto. Telefonato a Todd. Preso il bonsai. Andata a casa di Ben. Sesso senza preservativo. Ritornata da Jo. GIOVEDÌ 17 GENNAIO: telefonato alla stazione di polizia di Camden per denunciare la scomparsa di Jo. Presa la prima pillola del
giorno dopo. Fissai l'elenco. Jo doveva essere scomparsa mercoledì. Mentre era in cerca di un gattino. Scrissi «GATTO» in stampatello in fondo all'elenco e lo fissai senza speranze. Squillò il telefono. Era Carol di Jay and Joiner's. «Ciao, Abbie» disse con calore. «Scusa se ti disturbo.» «Non c'è problema.» «Ho appena ricevuto una strana telefonata da un uomo che voleva che ti passassi un messaggio.» «Sì?» la bocca mi diventò secca. «Il suo nome era... aspetta, l'ho scritto da qualche parte. Ecco, Gordon Lockhart.» Provai un moto di sollievo. «Voleva il tuo indirizzo e numero di telefono.» «Non glieli hai dati, vero?» «No, mi hai detto di non farlo.» «Grazie. Continua pure.» «Gli ho risposto che poteva scrivere a noi e che ti avremmo inoltrato la posta. Ma ha detto che voleva solo ringraziarti di nuovo.» «Ah. Bene.» «E ha detto che devi tagliare le radici ogni due anni per impedirgli di crescere. Ci capisci qualcosa? E ha continuato. Non la smetteva più. A primavera, ha detto. A marzo o aprile.» «Grazie, Carol. Si tratta di un albero. Continua a tenermi informata, per favore.» «Certo. E tuo padre si è messo in contatto con te?» «Mio padre?» «Sta probabilmente cercando di telefonarti in questo momento.» «Papà?» «Mi ha detto che ti stava cercando. Vuole mandarti non so che regalo, ma non trova più il tuo nuovo indirizzo.» «Gliel'hai dato?» «Be', era tuo padre.» «Bene» riuscii a dire. «Ci sentiamo più avanti. Ciao.» Riagganciai, feci un paio di respiri profondi, poi ripresi il telefono e composi un numero. «Pronto?» «Papà? Ciao, sono Abbie. Sei tu?» «Certo che sono io.
«Hai chiamato l'ufficio?» «Che ufficio?» «Un minuto o due fa. Hai telefonato da Jay and Joiner's?» «Perché avrei dovuto? Stavo lavorando in giardino. La neve ha buttato giù la rosa rampicante. Penso di riuscire a rimetterla in sesto, però.» Mi sentii improvvisamente gelata, come se il sole si fosse nascosto dietro una nuvola e si fosse alzato un vento gelido. «Vuoi dire che non li hai chiamati?» «No. Te l'ho detto. Sono settimane che non telefoni. Come te la passi?» Aprii la bocca per rispondere, poi il campanello di casa suonò, uno squillo lungo e forte. Annaspai. «Devo andare» dissi e saltai in piedi. Sentivo la vocina di mio padre attraverso il telefono. Andai di corsa nella camera di Jo, afferrando la borsa e le chiavi mentre scappavo. Il campanello suonò di nuovo: due colpi brevi. Armeggiai con il fermo, poi alzai il vetro della finestra e mi sporsi fuori. C'erano solo tre o quattro metri per arrivare al piccolo giardino incolto di Peter, ma mi sembrava terribilmente lontano e sarei atterrata sul cemento. Pensai di ritornare in soggiorno e di chiamare la polizia, ma tutto mi diceva di scappare. Mi inerpicai sul davanzale e mi girai, in modo da essere rivolta verso la casa. Feci un respiro profondo e mi spinsi giù. Caddi violentemente a terra e sentii l'impatto scuotermi le viscere. Atterrai con le mani in avanti e avvertii il freddo del cemento. Mi alzai e presi a correre. Mi sembrò di sentire un rumore provenire dall'appartamento. Attraversai il giardinetto dall'erba alta e fradicia. Le gambe mi sembravano di piombo mentre le trascinavo sopra la poltiglia marcia delle foglie; riuscivo a malapena a sollevarle e mi sembrava di correre come in un sogno. Un incubo, in cui si continua a correre e non si arriva mai da nessuna parte. In fondo al giardino c'era un alto muro. Era pieno di crepe e in alcuni punti i mattoni si erano sgretolati e staccati. Era semicoperto da un rovo con rami color porpora spessi come una canna per annaffiare. Trovai un appiglio per le mani e per i piedi e mi issai. Scivolai, sentii il mattone ruvido scorticarmi la guancia; ritentai. Mi sentivo ansimare, o singhiozzare; non sapevo neanch'io che cosa. Arrivai con le mani in cima al muro e poi ci fui sopra. Lo scavalcai con una gamba, poi con l'altra. Mi lasciai cadere e finii nel giardino adiacente, atterrando dolorosamente e storcendomi una caviglia. Vidi il viso di una donna che mi sbirciava da una finestra del pianterreno, mentre mi rimettevo faticosamente in piedi e prendevo, zoppicando, il vialetto che portava sulla strada.
Non sapevo quale direzione prendere. Ma non aveva alcuna importanza, purché andassi da qualche parte. Cominciai a correre lungo la strada, con la caviglia che mi doleva a ogni passo. Sentii il sangue colarmi sulla guancia. Un autobus si accostò a una fermata a pochi metri di distanza. Mi ci avvicinai con fatica e salii proprio mentre stava ripartendo. Andai a sedermi vicino a una donna di mezza età con una borsa della spesa, anche se c'erano altri posti liberi, e mi guardai alle spalle. Non c'era nessuno. L'autobus andava fino a Vauxhall. Scesi a Russell Square e andai al British Museum. Non c'ero più stata da quando ero bambina ed era tutto differente. C'era un grande tetto di vetro che copriva il cortile e fui inondata dalla luce. Attraversai sale ricolme di vasi antichi e altre piene di sculture di pietra senza vedere nulla. Arrivai in una sala tappezzata di grandi libri rilegati in pelle; alcuni di essi poggiavano su leggii, aperti su pagine miniate. Il luogo era tranquillo e sobriamente illuminato. La gente, quando parlava, lo faceva a bassa voce. Ci rimasi per un'ora, fissando le file di libri con lo sguardo vuoto. Me ne andai al momento della chiusura, sapendo di non poter ritornare a casa. Capitolo 21 Quando uscii sui gradini del museo, mi resi conto che stavo gelando. Ero fuggita dall'appartamento con solo un maglioncino leggero. Allora andai a Oxford Street ed entrai più o meno nel primo negozio di abbigliamento che incontrai. Spesi cinquanta sterline per un giaccone. Un giaccone rosso, imbottito, che mi faceva sembrare come se fossi sul marciapiede di una stazione ad annotare i numeri dei treni, ma era caldo. Presi la metropolitana verso nord e andai a casa di Ben. Non c'era, maledizione. Entrai in un caffè di Haverstock Hill, ordinai un costoso espresso e mi concessi di pensare. L'appartamento di Jo ora mi era proibito. Lui mi aveva ritrovata, e mi aveva di nuovo persa. Cercai di pensare a un'altra possibilità, ma non ne trovai. Una persona aveva ottenuto il mio indirizzo da Carol, spacciandosi per mio padre. Mi misi nei panni di un poliziotto scettico. Cercai di immaginare un cliente arrabbiato, o qualcuno che avevo assunto, che fosse così disperatamente ansioso di contattarmi personalmente da tentare questo complicato sotterfugio. Non aveva senso. Era lui. Allora che cosa avrebbe fatto adesso? Aveva trovato il posto dove stavo. Non sapeva che sapevo. Avrebbe pensato che fossi fuori e che dovesse semplicemente aspettarmi. Se le cose stavano così, avrei potuto chiamare la polizia e sarebbero venuti
ad arrestarlo e tutto sarebbe finito. Quell'idea era così allettante che quasi non riuscii a trattenermi. L'inconveniente era che mi trovavo a un millimetro circa dal far perdere completamente la pazienza a Jack Cross. Se avessi chiamato i poliziotti per un semplice sospetto, forse non sarebbero neanche venuti. E che cosa chiedevo loro di fare? Avvicinarsi a un tizio qualsiasi, un tizio assolutamente qualsiasi, e fermarlo perché lo sospettavo di essere il mio rapitore? Finii il caffè e ritornai all'appartamento di Ben. Le luci erano ancora spente. Non sapevo che cosa fare, così decisi di aspettarlo là fuori, battendo i piedi e strofinandomi le mani. E se Ben fosse stato in riunione? O se avesse deciso improvvisamente di prendere un drink con qualcuno, o di andare fuori a cena o al cinema? Cercai di pensare a un altro posto in cui rifugiarmi. Cominciai a passare in rassegna gli amici da cui avrei potuto recarmi. Abigail Devereaux, la nave fantasma che passa di casa in casa in cerca di cibo e di un letto per la notte. Gli amici sarebbero andati a nascondersi dietro il divano, se mi avessero sentita arrivare. Quando Ben salì i gradini di casa sua, ero al culmine dell'autocommiserazione. Fu sorpreso nel vedermi uscire dall'ombra. Cominciai subito a scusarmi e poi, nel mezzo delle scuse, scoppiai a piangere e mi arrabbiai con me stessa per essere così patetica e ricominciai a scusarmi perché piangevo. Così ora Ben era in piedi sui gradini del suo appartamento con una donna in lacrime. Di male in peggio. Nel mezzo di tutto questo, Ben riuscì a mettermi un braccio sulle spalle, tirar fuori dalla tasca le chiavi e aprire la porta. Provai a spiegargli quel che era successo all'appartamento di Jo ma, forse perché stavo tremando per il freddo, o perché, raccontando il fatto ad alta voce, mi resi conto di quanto fossi spaventata, non riuscii a parlare in modo coerente. Ben mi mormorò qualcosa nell'orecchio e mi condusse in bagno di sopra. Aprì i rubinetti della vasca e cominciò a tirar giù cerniere lampo e a slacciare bottoni dei miei vestiti. «Mi piace il giaccone» disse. «Avevo freddo.» «No, dico davvero.» Mi sfilò i vestiti dalla testa e i calzoni dalle gambe. Mi intravidi nello specchio. Viso arrossato per il freddo, occhi rossi per il pianto. Sembrava che mi avessero scorticata, che mi avessero tolto la pelle insieme ai vestiti. L'acqua bollente del bagno dapprima mi bruciò, poi mi sembrò meravigliosa. Avrei voluto vivere perennemente in una vasca da bagno, come un animale primitivo delle paludi. Ben scomparve e ritornò con due tazze di
tè, che piazzò sul bordo della vasca. Cominciò a spogliarsi anche lui, poi entrò nella vasca con me, intrecciando le gambe con le mie, e comportandosi da gentiluomo: si sedette infatti dal lato in cui c'erano i rubinetti. Vi stese sopra un panno in modo da potercisi appoggiare senza stare troppo scomodo. La mia bocca riprese a funzionare e riuscii a fargli un resoconto abbastanza accurato della mia fuga, se di fuga si era trattato. Apparve sinceramente stupito. «Maledizione» disse, trovando la nota giusta. «Ti sei calata dalla finestra sul retro?» «Non gli ho aperto la porta per invitarlo a prendere una tazza di tè.» «Sei proprio sicura che si trattasse di lui?» «Ho cercato disperatamente di pensare a un'altra possibile spiegazione. Se riesci a trovarne una, ti sono molto grata.» «È un peccato che tu non gli abbia dato neanche un'occhiatina.» «La porta d'ingresso di Jo non ha uno spioncino. Inoltre stavo per avere un infarto per la paura. Devo ammettere che una parte di me avrebbe quasi voluto rimanere ad aspettare che mi prendesse, così tutto sarebbe finito.» Ben prese un altro panno e se lo stese sul viso. Udii una sorta di mormorio di sotto. «Scusami» dissi. Si tolse il panno. «Di che cosa?» «Di tutto questo. È già abbastanza brutto per me, ma non posso farci niente. Mi dispiace che sia caduto addosso anche a te. Forse ci siamo incontrati al momento sbagliato.» «Non dovresti scusarti.» «Sì che dovrei. E lo sto anche facendo in anticipo.» «Che cosa vuoi dire?» «Perché sto per chiederti un favore.» «Dimmi.» «Stavo per chiederti di andare all'appartamento di Jo a prendermi un po' di roba.» Ben sembrò così poco felice di quella prospettiva che mi lanciai subito in una disperata spiegazione. «Perché ovviamente non ci posso andare io. Non potrò andarci mai più. Potrebbe essere là fuori ad attendermi. Ma a te non succederà niente. Sta cercando me. Potrebbe pensare di avere l'indirizzo sbagliato.» «Giusto» disse Ben con l'aria sempre più afflitta. «Sì, certo, lo farò.» L'atmosfera era decisamente cambiata. Non parlammo per un po'. «Stai bene?» chiesi, ansiosa di rompere il silenzio. «Non è quel che avevo in mente» rispose.
«Lo so, lo so. Sarebbe stato meglio per te incontrare una donna che non si trovasse in questi pasticci.» «Non è quel che volevo dire. Parlavo di qui, adesso, in questo bagno. Avevo in mente di lavarti. Di strofinarti le spalle e poi il seno. Di andare a letto. E invece devo rivestirmi e uscire e magari venire assassinato. O torturato per farmi dire dove sei.» «Non devi farlo, se non vuoi.» Alla fine Ben telefonò a un suo amico, Scud. «Non è il suo vero nome» mi spiegò. Scud lavorava come grafico, ma nel tempo libero giocava a rugby. «Pesa cento chili ed è un po' matto» disse Ben. Riuscì a persuaderlo a raggiungerci subito. «Sì, subito» lo sentii dire al telefono. Scud arrivò dopo un quarto d'ora ed era, come mi era stato preannunciato, imponente. Sembrò divertito di incontrare una donna con indosso la vestaglia di Ben e rimase palesemente sconcertato a sentire la versione ridotta della mia storia che Ben gli raccontò. Ma scrollò le spalle e disse che non c'erano problemi. Spiegai brevemente dov'era la mia roba. «E quando uscite, accertatevi di non essere seguiti» li avvertii. Scud mi guardò allarmato. Mi ero dimenticata che molto di quello che dicevo sembrava folle alla gente normale, non preparata. Ben fece una smorfia. «Hai detto che non c'erano problemi.» «Non per voi, ma potrebbe pensare che abbiate qualche rapporto con me e seguirvi. Tenete solo gli occhi aperti.» I due uomini si scambiarono uno sguardo. Ben fu di ritorno in meno di un'ora, un'ora che passai a bere un bicchiere di whisky e a sfogliare le sue riviste patinate. Quando entrò, sembrò fosse andato a fare le compere di Natale. Lasciò cadere i borsoni gonfi sul pavimento. «Sono in debito con Scud» disse. «Per quale motivo? È successo qualcosa?» «Innanzitutto per averlo portato via dalla moglie e dai bambini per andare a frugare nell'appartamento di una persona che non conosce. E poi per averlo forse coinvolto in un'attività criminosa.» «Che cosa vuoi dire?» «La porta d'ingresso di Jo era aperta. Era stata forzata.» «Ma c'è una catena.» «Deve essere stata presa a calci. L'intelaiatura era rotta.»
«Gesù.» «Già. Non sapevamo che cosa fare. Probabilmente non è legale andare sul luogo di un crimine a prelevare cose che non ti appartengono.» «È entrato» mormorai, quasi a me stessa. «Penso di aver preso tutto» disse Ben. «Vestiti, soprattutto. E un po' delle cianfrusaglie che mi hai chiesto. I fogli di carta, la roba dalla mensola del bagno. Non posso garantire che non ci siano delle cose di Jo. In effetti, più ci penso, più mi sembra assurdo quel che ho fatto.» «Bene» risposi, quasi senza ascoltare. «E la foto di Jo, come mi hai chiesto.» La posò sul tavolo e la guardammo entrambi per un momento. «Volevo fare un commento» disse. «Anzi, più di uno. Presumo che tu non abbia un posto in cui stare, così, anche se non voglio dare alla cosa chissà quale significato o aspettarmi chissà che cosa, sei la benvenuta qui e puoi starci quanto ti pare.» Non riuscii a trattenermi. Lo abbracciai. «Ne sei sicuro? Non sei obbligato, solo perché sono in questo pasticcio. Potrei trovarmi un altro posto.» «Non essere stupida.» «Non voglio essere la donna triste e bisognosa d'aiuto che si impone a un uomo troppo gentile per sbatterla fuori.» Alzò una mano. «Smettila. Chiudi il becco. Dobbiamo trovare un posto per tutta questa roba.» Cominciammo a smistare tutto quello che avevo accumulato nei giorni passati. «L'altra cosa che volevo dire» continuò, mentre separava la biancheria intima «o perlomeno sollevare come una possibilità, è che si sia trattato di un normale tentativo di furto.» «E quel tizio che ha telefonato in ufficio, spacciandosi per mio padre?» «Non so. Potrebbe esserci stato un equivoco. Forse ciò che hai sentito alla porta era qualcuno che cercava di forzarla. Suonano il campanello per controllare che l'appartamento sia deserto. Tu non hai risposto, come tuo solito. Questi delinquenti presumono che l'appartamento sia deserto e sfondano la porta. Succede tutti i giorni. Proprio pochi giorni fa questi miei amici che abitano all'angolo hanno sentito un gran fracasso nel mezzo della notte. Sono andati di sotto ed era successa esattamente la stessa cosa. Qualcuno aveva sfondato la porta a calci e aveva rubato una borsa e una macchina fotografica. Forse è accaduto questo anche da te.» «È stato rubato niente?»
«Non saprei. C'erano un paio di cassetti aperti. Il videoregistratore c'era ancora.» «Hmmm» feci scetticamente. Ben sembrò assorto nei suoi pensieri per un momento. «Che cosa vuoi per cena?» chiese infine. Questo mi piacque. Molto. Nel bel mezzo di tutto quel che stava succedendo, faceva quella domanda, come se fossimo una coppia che vive insieme. E in fondo lo eravamo. «Qualsiasi cosa» risposi. «Un avanzo qualunque. Ma, senti, Jo è scomparsa; qualcuno si fa dare il mio indirizzo da Carol in modo pretestuoso; bussano alla porta. Fuggo da dietro e la porta viene sfondata. Mi sembra un po' troppo.» Ben rimase immobile come una statua, solo che era una statua con un paio di mie mutande in mano. Gliele presi. «Domani chiamerò la polizia» disse. «I genitori di Jo dovrebbero essere di ritorno stasera. Parleremo con loro e poi, a meno che non abbiano buone notizie, denunceremo la sua scomparsa.» Gli presi la mano. «Grazie, Ben.» «È whisky?» chiese, lanciando uno sguardo al mio bicchiere. Be', il suo bicchiere, in verità. «Sì, scusa. Avevo bisogno urgente di qualcosa.» Prese il bicchiere e ne bevve un sorso. Vidi che gli tremava la mano. «Stai bene?» Scosse il capo. «Ti ricordi quella cosa che hai detto? Che pensavi ci fossimo incontrati al momento sbagliato? Spero che non sia vero. Le cose mi sembrano giuste sotto tanti aspetti. Ma temo proprio di non essere la persona capace di fare a pugni con qualcuno o di prendersi un colpo di pistola per te. Penso di aver paura, per essere onesti.» Lo baciai e le nostre mani si cercarono. «Molti non direbbero una cosa del genere. Troverebbero una scusa per non ospitarmi. Ma al momento il tuo piano mi interessa.» «Quale piano?» «Quello che è cominciato con te che mi lavavi le spalle. Possiamo saltare la parte del lavaggio.» «Oh, quel piano» disse. Capitolo 22
«Senti. Mi sono svegliata, stanotte, e non riuscivo a riaddormentarmi, così mi sono messa a pensare. Sai com'è quando si sta sdraiati al buio e cominciano a passarti per la testa un sacco di pensieri. In ogni caso, le cose stanno così. Lui mi sta dando la caccia, ma anch'io. Devo riuscire a trovarlo, prima che lui trovi me. Non ti pare?» Ero seduta al tavolo della cucina di Ben con una delle sue camicie addosso, e inzuppavo una brioche nel caffè. Fuori l'erba era ghiacciata. La cucina profumava di pane fresco e giacinti. «Forse» disse. «Allora, che cosa sa di me? Sa come mi chiamo, che aspetto ho, più o meno, dove vivevo fino a tre settimane fa, dove stavo fino a ieri, dove lavoro. O lavoravo. Bene, e che cosa so io di lui?» Feci una pausa per bere un sorso di caffè. «Niente.» «Niente?» «Niente. Vuoto totale. Ho solo una cosa dalla mia parte. Lui non sa che so che mi sta dando la caccia. Pensa di potermi cogliere alla sprovvista, ma di fatto siamo come quei bambini che corrono intorno a un albero, ognuno insegue ed è inseguito dall'altro nello stesso tempo. Ma lui crede che io non sappia che mi sta cercando. Se capisci ciò che voglio dire.» «Abbie...» «E c'è ancora una cosa. Io non sto semplicemente seguendo lui, o almeno non intendo soltanto seguire lui, una volta che avrò capito da dove iniziare. Sto anche seguendo me stessa, la me stessa di allora che non riesco a ricordare. Come in un-due-tre stella.» «Aspetta...» «Forse un-due-tre stella non è un esempio giusto. Ma presumibilmente la me stessa che non riesco a ricordare potrebbe aver cercato di scoprire dov'era Jo. Devo averlo fatto, se lo sto facendo ora. Non credi sia una possibilità? Questo è ciò a cui stavo pensando.» «A che ora ti sei svegliata questa mattina?» «Alle cinque circa, mi pare.» La mia mente marciava a tutta velocità. «Ciò di cui ho bisogno è una prova concreta da portare a Cross. Allora inizierà a fare indagini e mi proteggerà e tutto andrà bene. Così se riesco a tornare sui miei passi, quando cercavo di seguire le tracce di Jo, potrei finire dov'ero finita allora.» «Cosa che, se ricordi quel che ti è successo, non sembra una gran bell'idea.» «Il problema, naturalmente, è che non posso ritornare sui miei passi,
perché non me li ricordo.» «Vuoi ancora del caffè?» «Sì, grazie. E non so neanche quali fossero i passi di Jo. Ma in ogni caso non è trascorso molto tempo tra la scomparsa di Jo e il mio rapimento. Di questo sono sicura, perché so da Peter che Jo era in giro mercoledì mattina e io sono scomparsa giovedì sera.» «Abbie.» Ben mi prese le mani e le tenne tra le sue. «Calmati.» «Sto parlando troppo?» «Sono le sette e dieci e siamo andati a letto tardi. Non sono nel momento di maggior acume intellettuale.» «Jo stava per prendere un gattino. Me l'ha detto il vicino dell'appartamento di sotto. Aveva comprato tutto l'occorrente e suppongo che stesse andando a cercarne uno. Se riuscissi a scoprire dove pensava di andare, be', non saprei veramente che cosa fare. Ma devo pur cominciare da qualche parte.» «Allora adesso hai intenzione anche di trovare un gatto?» «Andrò a chiedere al negozio di animali e all'ufficio postale, dove espongono degli avvisi. E anche dal veterinario. Spesso hanno degli annunci, no? Probabilmente non verrò a capo di niente, ma se hai un'idea migliore, mi piacerebbe molto sentirla.» Ben mi guardò a lungo. Immaginai che pensasse: ne vale veramente la pena? Perché io un'idea della mia situazione ce l'avevo: stavo parlando in modo sconclusionato, ma almeno ne ero consapevole. «Senti, Abbie» disse «devo andare a prendere delle lettere in ufficio. Darò delle istruzioni ai ragazzi, tornerò qui a metà mattina e ci andremo insieme.» «Davvero?» «Non mi piace il pensiero di te che vai in giro da sola.» «Non sei obbligato a farlo, lo sai. Non devi sentirti responsabile per me e cose del genere.» «Ne abbiamo parlato ieri sera. Ricordi?» «Grazie mille.» «Allora, che cosa hai intenzione di fare mentre sono via?» «Chiamerò di nuovo Cross, anche se non credo sarà molto contento di sentirmi.» «Devi farlo, però.» «Lo so.» «Io chiamerò i genitori di Jo dal lavoro. Ieri sera non mi hanno risposto.
Dobbiamo andare a trovarli prima che mi metta in contatto con la polizia.» «Sì. Purtroppo.» «Già.» Ben uscì prima delle otto. Feci una doccia bollente e mi preparai un'altra tazza di caffè. Poi chiamai Cross, ma mi dissero che non sarebbe ritornato in ufficio prima del pomeriggio. Fui quasi tentata di urlare per l'impazienza. Mezza giornata è un periodo lungo quando si ha la sensazione che ogni minuto conti. Avevo un paio d'ore prima che ritornasse Ben. Riordinai la cucina e cambiai le lenzuola al letto. La sua casa era più da adulti di quelle a cui ero abituata. Mi accorsi che Terry e io avevamo vissuto un po' da studenti. Nelle nostre vite tutto sembrava temporaneo, il posto e il modo in cui vivevamo non erano che sistemazioni casuali. Ci arrangiavamo, ma in modo confuso e, alla fine, violento. La vita di Ben era stabile e regolata. Faceva il lavoro che voleva fare; viveva in una bella casa, dove ogni stanza era dipinta con colori differenti ed era piena di oggetti scelti con cura. Aprii il suo armadio. Aveva solo due completi, ma avevano l'aria di essere costosi. Le camicie erano appese con ordine agli attaccapanni, sopra a tre paia di scarpe di pelle. Le cose non si limitavano ad accadergli, pensai. Le sceglieva. E aveva scelto me e gli ero mancata, quando ero sparita. Fui scossa da un brivido di piacere. Ritornò poco dopo le dieci. Lo stavo aspettando, vestita di abiti pesanti e con un taccuino nella borsa. Avevo anche la fotografia di Jo, che credevo potesse rinfrescare la memoria alla gente. «I genitori di Jo non ritorneranno prima di domani» mi informò. «Ho parlato di nuovo con la donna che bada al cane. Hanno passato una notte in più a Parigi. Dovremmo andare a trovarli domani pomeriggio. Non sono lontani, solo dall'altra parte dell'M25.» «Sarà piuttosto triste.» «Già.» Per un momento il suo viso fu privo di espressione. Poi disse, con allegria forzata: «D'accordo, è ora di andare a cercare il gatto». «Sei sicuro di voler venire? Voglio dire, probabilmente sarà come cercare un ago in un pagliaio.» «Almeno ci sarai tu a farmi compagnia.» Mi circondò con il braccio e andammo a prendere la sua macchina. Pensai brevemente alla mia, di macchina, bloccata in un maledetto deposito da qualche parte, ma scacciai il pensiero. Mi sarei occupata di tutte quelle cose in seguito. Amicizia, fami-
glia, lavoro, denaro (mancanza cronica di denaro), moduli delle tasse, multe da pagare, libri della biblioteca da restituire, sarebbe venuto tutto dopo. Parcheggiammo in una stradina a pochi metri di distanza dall'appartamento di Jo. Avevamo deciso di fare un giro della zona, fermandoci a ogni edicola che avesse dei messaggi alle vetrine. Era una faccenda noiosa e frustrante. Il veterinario si rivelò un buco nell'acqua. Nessuno nei negozi riconobbe la foto di Jo e solo pochi avevano dei bigliettini in cui si offrivano bestiole. Dopo circa due ore avevo appuntato tre numeri telefonici. Quando ritornammo alla macchina, Ben telefonò dal suo cellulare. Scoprimmo che due dei biglietti erano stati messi negli ultimi giorni, quindi non ci interessavano. L'altro era rimasto attaccato più a lungo e, quando Ben fece il numero, la donna disse che c'era ancora un gattino senza una casa, ma che probabilmente non ci sarebbe piaciuto. Viveva in un complesso residenziale dietro l'angolo, così andammo a trovarla. Il gatto era striato e ancora piccolino. La donna, che era molto alta e massiccia, spiegò che era l'ultimo della nidiata e che sarebbe rimasto deboluccio. Dovette anche ammettere che sembrava avere qualcosa che non andava agli occhi. Sbatteva contro le cose, disse, e metteva le zampe nella ciotola del cibo. Lo prese e lo tenne nella mano grossa e callosa e lui miagolò pateticamente. Tirai fuori dalla borsa la foto di Jo e gliela mostrai. «La nostra amica per caso è venuta a chiedere un gattino?» chiesi. «Che cosa?» Posò il micio a terra e scrutò la foto. «No, non che io sappia. La ricorderei, ne sono sicura. Perché?» «Oh, è una storia troppo lunga» dissi e lei non insistette. «Allora noi andiamo. Spero che riesca a trovare una casa per il suo gattino.» «Non credo» rispose. «Nessuno vuole un gatto cieco, no? Dovrò portarlo a Betty.» «Betty?» «Sì, è una tipa che va matta per i gatti. È un po' folle. Vive per i gatti; sono la sua unica ragione di vita. Raccoglie tutti i randagi. Deve averne una cinquantina, e continuano a riprodursi. E inoltre ha una casa piccola. Dovreste vederla, davvero. Farà impazzire i vicini. Forse dovreste andare da lei se volete un gatto.» «Dove vive?» mi informai, tirando fuori il taccuino. «Su Lewin Crescent. Non so il numero, ma non potete sbagliarvi. Una casetta piccola e le finestre del piano di sopra sono tutte sbarrate da assi.
Sembra disabitata.» «Grazie.» Ritornammo alla macchina. «Lewin Crescent?» chiese Ben. «Perché no, ormai siamo qui.» Trovammo il posto sullo stradario e ci andammo. Era meravigliosamente confortevole stare in macchina, ma fuori faceva freddo e il vento tagliava come un coltello. Il fiato si alzava come una piuma nell'aria. Ben mi prese per mano e mi sorrise; aveva le dita calde e forti. La casa era effettivamente decrepita. Accanto alla porta d'ingresso c'erano delle erbacce e dei girasole neri e ghiacciati e il secchio della spazzatura traboccava. Sul muro c'era una grossa crepa e la tinta della cornice delle finestre si stava staccando. Premetti il campanello, ma non lo sentii suonare, così bussai con forza. «Senti» disse Ben. Attraverso la porta si udivano miagolii, sibili e uno strano grattare. «Ti ho detto che sono allergico ai gatti? Mi viene l'asma e gli occhi mi diventano rossi.» La porta si aprì di una fessura, fermata con la catenella, e il rumore divenne più forte. Spuntò una faccia. «Salve» dissi. «Mi scusi se la disturbo.» «È il consiglio di zona?» «No. Siamo venuti perché ci hanno detto che ha molti gatti.» La porta si aprì un po' di più. «Entrate, allora. Ma fate attenzione che non scappino. Svelti!» Non so che cosa ci colpì prima, se il muro di calore o l'odore di cibo per gatti, di ammoniaca e di sterco. C'erano gatti dappertutto, sul divano e sulle sedie, acciambellati vicino alla stufetta elettrica, distesi in soffici mucchi marroni sul pavimento. Alcuni si stavano dedicando alla toilette, altri facevano le fusa, un paio si soffiavano contro, schiena arcuata e coda contratta. Presso la porta della cucina c'erano delle ciotole di cibo e vicino delle vaschette per i bisogni. Sembrava di essere in una versione grottesca di un film di Walt Disney. Ben rimase accanto alla porta con aria spaventata. «Lei è Betty, vero?» chiesi, cercando di non indietreggiare. Un gatto mi si stava avvolgendo intorno alle gambe. «Giusto.» Betty era vecchia. Il suo viso era coperto di rughe, il collo floscio, le dita e i polsi blu. Aveva addosso uno spesso camicione blu da cui mancavano vari bottoni, ed era coperta di peli di gatto. Aveva astuti occhi marroni che
scrutavano attenti da sotto le rughe. «Ci hanno detto che lei prende gatti randagi e che a volte li dà a persone che cercano una bestiola da tenere in casa» dissi. «Devo essere sicura che si tratti di brava gente» rispose aspramente. «Non mi accontento facilmente. Non li do a chiunque, lo continuo a dire.» «Pensiamo che una nostra amica possa essere venuta da lei» dissi e le mostrai la foto di Jo. «Certo che è venuta.» «Quando?» Feci un passo avanti. «Lei continua a girare e girare in tondo, vero? Ma non era adatta. Pensava che i gatti si possano lasciare entrare e uscire di casa. Sa quanti gatti vengono uccisi dalle macchine ogni anno?» «No, non lo so. Così non ha voluto darle uno dei suoi gatti?» «Non sembrava poi così desiderosa. Non appena le ho detto che nutrivo dei dubbi nei suoi riguardi, ha aperto la porta e se ne è andata.» «E non si ricorda quando è stato?» «Lo dica lei.» «A metà settimana? Durante il weekend?» «Era il giorno in cui passano a ritirare la spazzatura. Stavano facendo un gran baccano proprio mentre era qui.» «E che giorno passano?» «Di mercoledì.» «Allora un mercoledì» disse Ben, ancora contro la porta d'ingresso. «Si ricorda a che ora?» «Non capisco perché siate così insistenti.» «È che...» cominciai. «Mattina o pomeriggio?» chiese Ben. «Pomeriggio» rispose a malincuore. «Di solito vengono quando do da mangiare ai gatti, vero, micini?» aggiunse, rivolgendosi alla stanza in generale, che sembrava ondeggiare con il movimento degli animali. «Grazie» dissi. «Ci è stata di grande aiuto.» «È quel che ha detto anche la volta scorsa.» Rimasi come raggelata, con la mano sulla maniglia della porta. «Sono già venuta qui?» «Certo. Da sola, però.» «Betty, mi può dire quando sono venuta?» «Non c'è bisogno che alzi la voce, non sono sorda. Né stupida. Il giorno dopo, è venuta il giorno dopo. Ha perso la memoria?»
«A casa?» disse Ben. «A casa» acconsentii, poi arrossii violentemente alla parola. Lui se ne accorse e mi posò una mano sul ginocchio. Mi voltai e ci baciammo molto delicatamente, con le labbra che quasi non si sfiorarono. Tenemmo gli occhi aperti e mi vidi riflessa nelle sue pupille. «A casa» ripeté. «A casa dal tè e dal pane tostato.» Tè e pane tostato, e far l'amore a luce spenta, mentre fuori si faceva più scuro e freddo e noi ci tenevamo stretti per darci conforto. E per un po' non parlammo di cose cupe, ma facemmo quel che fanno tutti gli amanti novelli: ci chiedemmo del nostro passato. Almeno, io glielo chiesi. «Te l'ho già detto.» «Davvero? Vuoi dire, prima?» «Sì.» «Non è strano, pensare che mi porto dentro tutte queste cose - che mi sono state fatte, che mi hai detto, segreti, regali - e non so che cosa siano? Se non me le ricordo, è come se non mi fossero mai accadute, non credi?» «Non lo so» disse. Gli passai un dito sulla bocca. Sorrise al buio. «Dovrai dirmelo di nuovo. Chi c'è stata prima di me?» «Leah. Un'interior designer.» «Era bella?» «Non lo so. In un certo senso. Mezza marocchina, un tipo.» «Viveva qui?» «No. Be', non veramente.» «Per quanto siete stati insieme?» «Due anni.» «Due anni. È un sacco di tempo. Che cosa è successo?» «Circa un anno fa si è innamorata di un altro e mi ha lasciato.» «Che donna stupida. Chi potrebbe mai lasciarti?» Gli accarezzai i capelli morbidi. Era ancora solo pomeriggio, e noi eravamo là, distesi sotto il piumino come se fossimo in una piccola caverna, mentre fuori la giornata si stava concludendo. «Ci sei rimasto male?» «Sì, credo di sì.» «Ma adesso stai bene, vero?» «Adesso sì.» «Dobbiamo parlare di Jo» dissi dopo un po'. «Lo so. Mi sembra brutto essere così felice.» Si allungò ad accendere la lampada sul comodino ed entrambi sbattemmo gli occhi alla luce improv-
visa. «Allora, cercava un gatto mercoledì pomeriggio e tu cercavi lei giovedì.» «Già.» «Stai seguendo te stessa.» «Come ha detto quella matta della signora dei gatti, continuo a girare e girare in tondo.» Capitolo 23 Ben uscì a fare la spesa per la cena e io chiamai Sadie in preda a un impulso improvviso. «Ciao» dissi. «Indovina chi è.» «Abbie? Mio Dio, Abbie, dove sei scomparsa? Ti rendi conto che non ho un tuo numero di telefono? Ero da Sam ieri sera, ha fatto una festicciola di compleanno, e abbiamo tutti notato quanto fosse strano che tu non ci fossi. Abbiamo fatto anche un brindisi in tuo onore. Be', un brindisi per gli assenti, e questo significava soprattutto per te. Ma nessuno sapeva come rintracciarti. È come se fossi scomparsa dalla faccia della Terra.» «Lo so, lo so, e mi dispiace. Mi mancate tutti, ma non ti posso spiegare ora. Mi sarei dovuta ricordare del suo compleanno; non me ne ero mai dimenticata, prima. Ma le cose sono piuttosto drammatiche.» «Stai bene?» «Più o meno. Per un verso sì e per un altro no.» «Molto misterioso. Quando posso vederti? Dove stai?» «Da un amico» risposi vagamente. «E ci vedremo presto. Ho solo bisogno di risolvere alcune cose prima.» Quel che volevo dire, in verità, era: devo solo salvarmi la vita, prima. Ma le sarebbe sembrato folle. Sembrava folle anche a me stando lì, a casa di Ben, con le luci accese, il brontolio dei termosifoni e il rumore della lavastoviglie in cucina. «Sì, ma senti, Abbie, ho parlato a Terry.» «Davvero? Come sta? La polizia l'ha lasciato andare?» «Sì, finalmente. Penso che l'abbiano trattenuto per il tempo consentito dalla legge.» «Grazie al Cielo è fuori. Sarà incasinato.» «Puoi ben dirlo. Ha cercato di contattarti.» «Lo chiamerò. Subito. Ma è ancora sospettato?» «Non lo so. Non era molto razionale quando gli ho parlato. Penso che fosse piuttosto incavolato.»
«Sadie, adesso ti lascio. Chiamo subito Terry. E verrò a trovarti presto, molto presto.» «D'accordo.» «Pippi sta bene?» «È una meraviglia.» «Be', lo so. Anche tu lo sei, Sadie.» «Che cosa?» «Una meraviglia. Sei una meraviglia. Sono fortunata ad avere un'amica come te. Di' a tutti che vi voglio bene.» «Abbie?» «A tutti. Dillo a Sheila e Guy, a Sam e a Robin e, insomma, a tutti. Quando li vedi, di' che io...» Improvvisamente mi scorsi allo specchio sopra il caminetto. Stavo gesticolando istericamente, come una cantante d'opera. «Be', vi voglio bene.» «Sei sicura di star bene?» «È tutto così strano, Sadie.» «Senti...» «Devo andare. Ti richiamo.» Chiamai Terry. Il telefono continuò a suonare a vuoto e proprio quando stavo per desistere, Terry rispose. «Pronto?» disse con voce impastata. «Terry? Sono io, Abbie.» «Abbie, oh, Abbie.» «Ti hanno lasciato andare.» «Abbie» ripeté. «Mi dispiace tanto, Terry. Ho detto alla polizia che non potevi essere stato tu. Ti ha chiamato tuo padre? E mi dispiace tanto per Sally. Non sai quanto.» «Sally» disse. «Pensavano che avessi ucciso Sally.» «Lo so.» «Per favore» disse. «Che cosa? Che cosa posso fare per te?» «Ho bisogno di vederti. Per favore, Abbie.» «Be', adesso è difficile.» Non potevo andare a casa sua, lui poteva essere ancora appostato lì vicino. La porta d'ingresso si aprì e Ben entrò con due sacchetti. «Ti richiamo» promisi. «Tra qualche minuto. Non uscire.» Mettendo giù
il telefono, mi voltai verso Ben e gli dissi: «Devo vedere Terry. Aveva una voce terribile e tutto per causa mia. Glielo devo». Sospirò e posò i sacchetti sul pavimento. «E io che pensavo a una cenetta romantica a due. Che stupido.» «Devo. Non capisci?» «Dove?» «Dove che cosa?» «Dove vuoi incontrarlo?» «Di certo non a casa sua.» «No. Qui?» «Sarebbe troppo strano.» «Strano? Be', la stranezza è il nostro forte, non ti pare?» «Forse in un caffè o qualcosa del genere sarebbe meglio. Non in un pub, mi sembrava che avesse già bevuto parecchio. Indicami un posto qui vicino.» «Ce n'è uno su Belmont Avenue, non lontano dal parco. Il Diner qualcosa.» «Ben?» «Che cosa?» «Verresti con me?» «Ti ci accompagno e ti aspetto in macchina.» «Ben?» «Sì, Abbie?» «Te ne sono grata.» «Allora ne vale la pena» rispose seccamente. Quarantacinque minuti dopo ero seduta al Diner (si chiamava solamente Diner), con un cappuccino davanti e gli occhi sulla porta. Terry arrivò con dieci minuti di ritardo, imbacuccato in un vecchio cappotto e con un cappello di lana in testa. Aveva un'andatura un po' incerta e un'espressione stralunata in volto. Venne al mio tavolo e si sedette fin troppo rumorosamente. Si tolse il cappello. Aveva i capelli unticci e le guance scavate e rosse per il freddo o l'alcol. «Ciao Terry» dissi e gli presi le mani nelle mie. «I capelli ti stanno ricrescendo.» «Davvero?» «Oh, mio Dio.» Chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale. «Mio Dio,
sono esausto. Potrei dormire per un centinaio d'ore.» «Che cosa prendi?» «Caffè.» Chiamai la cameriera. «Un espresso doppio, per favore, e un altro cappuccino.» Terry tirò fuori il pacchetto delle sigarette e ne estrasse una. Le mani gli tremavano. La accese e la fumò avidamente, e il viso gli si fece ancor più scavato. «Ho detto alla polizia che non potevi essere stato tu, Terry. E se ce n'è bisogno, vado a parlare con il tuo avvocato. È tutto un errore.» «Continuavano a dire che sono un uomo violento.» La cameriera posò il caffè sul tavolo, ma lui non se ne accorse. «Mi saliva il sangue alla testa, ma non ti avrei mai fatto del male. Mi hanno fatto sentire un bastardo. Hanno detto che ti facevo impazzire...» «Davvero?» «E Sally... Sally... Oh, merda.» «Terry, smettila.» Cominciò a piangere. Grosse lacrime gli colarono lungo le guance e gli arrivarono in bocca. Cercò di prendere la tazza di caffè, ma le mani gli tremavano tanto che ne rovesciò una parte sul tavolo. «Non so che cosa sia successo» disse, asciugando senza molto successo la macchia con un tovagliolo. «Tutto stava procedendo normalmente, poi ogni cosa è andata storta. Continuo a pensare che mi sveglierò scoprendo che è stato un brutto sogno e tu ci sarai, o ci sarà Sally. Qualcuno ci sarà, comunque. E invece tu sei qui e Sally è morta e la polizia pensa ancora che sia stato io. Lo so che lo pensano.» «La cosa più importante è che ti abbiano fatto uscire. Non sei stato tu e loro non possono dimostrare il contrario. Vedrai che adesso si sistemerà tutto.» Ma non mi stava ascoltando. «Mi sento così maledettamente solo» disse. «Perché io?» La sua autocommiserazione mi provocò un moto di stizza. «E allora perché Sally?» ribattei. La mattina successiva Ben telefonò ai genitori di Jo. Erano tornati dalla vacanza e udii la voce della madre. No, non avevano visto la figlia da prima della vacanza; non era andata con loro. E sì, sarebbero stati molto contenti di vedere Ben se fosse passato dalle loro parti, e naturalmente non ci
sarebbero stati problemi se avesse portato con sé un'amica. Ben aveva il volto tirato, la bocca contorta, come se avesse mangiato qualcosa di aspro. Disse che sarebbe passato da loro verso le undici. Viaggiammo in silenzio verso Londra nord e fino alla loro casa nello Hertfordshire. Era una giornata nebbiosa e umida; le sagome degli alberi e delle case apparivano indistinte quando ci passavamo davanti. Vivevano poco fuori da un villaggio, in una casa bassa, bianca, in fondo a un vialetto di ghiaia. Ben si fermò all'ingresso del viale per alcuni secondi. «Mi sento male» disse con rabbia, come se fosse colpa mia. Poi continuammo. La madre di Jo si chiamava Pam ed era una bella donna robusta, con una stretta di mano vigorosa. Il padre era, invece, magro come uno scheletro e aveva il volto segnato da rughe. Sembrava più vecchio della moglie di decenni e quando gli strinsi la mano mi sembrò di stringere un mucchietto d'ossa. Andammo a sederci in cucina e Pam ci offrì tè e biscotti. «Allora Ben, dimmi come vanno le cose. Sono passati secoli da quando Jo ti ha portato a trovarci.» «Sono venuto per una ragione» disse Ben brusco. La donna posò la tazza e lo guardò. «Jo?» disse. «Sì. Sono preoccupato.» «Che cosa c'è che non va?» «Non sappiamo dove sia. È scomparsa. Non l'hai sentita?» «No» disse lei in un sussurro. Poi, più forte: «Ma sai com'è lei, va sempre in giro senza dirci niente. A volte passano settimane senza che ci sentiamo». «Lo so. Ma Abbie divideva con lei l'appartamento e a un certo punto Jo è semplicemente sparita.» «Sparita?» ripeté. «Non hai idea di dove potrebbe essere?» «Al cottage?» suggerì, e il volto le si illuminò di speranza. «A volte ci va.» «Ci siamo già stati.» «O da quel suo ragazzo.» «No.» «Non capisco» disse il padre di Jo. «Da quanto tempo è scomparsa?» «Dal 16 gennaio circa» dissi. «Pensiamo.» «E oggi quanti ne abbiamo? 5 febbraio? Sono passate tre settimane!» Pam si alzò. Ci guardò intensamente e disse: «Dobbiamo cominciare a cercarla! Immediatamente!».
«Andrò dalla polizia» disse Ben, alzandosi a sua volta. «Non appena sarò uscito di qui. Abbiamo già segnalato la sua scomparsa. Perlomeno, Abbie l'ha fatto, ma, a meno che non si tratti di un bambino, non prendono la cosa sul serio se l'assenza è di una settimana o poco più.» «Che cosa posso fare? Non riesco a stare seduta ad aspettare. Telefonerò in giro. Ci sarà una spiegazione. Con chi avete parlato?» «Probabilmente non c'è niente di strano e Jo starà benissimo» disse Ben debolmente. «Succede in continuazione che gente sparisca e poi rispunti fuori.» «Sì, certo» convenne Pam. «È vero. Non bisogna farsi prendere dal panico.» «Andremo subito dalla polizia» promise Ben. «Le telefonerò più tardi. D'accordo?» Posò le mani sulle spalle di Pam e la baciò su entrambe le guance. Lei lo strinse a sé brevemente e poi lo lasciò andare. Il padre di Jo era ancora seduto al tavolo. Osservai la sua pelle di pergamena, le macchie sulle mani fragili. «Arrivederci» dissi. Non sapevo cosa aggiungere. Non c'era altro. «Ben, ti presento l'ispettore di polizia Jack Cross. Cross, Ben Brody. È un amico di Josephine Hooper, la ragazza di cui le ho parlato la scorsa...» «Lo so. Sono stato nel suo appartamento, ricorda? E mi ha detto di essersi messa i suoi vestiti e che il suo nome è Lauren.» «Sono contenta che abbia fatto uscire Terry» dissi. «Ora che sa che non è colpevole, dovrebbe anche sapere che c'è qualcun altro, là fuori, e che forse Jo...» «Non posso fare commenti» rispose Cross cautamente. «Possiamo cominciare a dire all'ispettore Cross quello di cui siamo sicuri, Abbie?» Cross gli rivolse uno sguardo leggermente stupito. Forse aveva pensato che una persona collegata a me dovesse necessariamente essere matta: contaminata per associazione. Molto di ciò che Ben gli disse, gliel'avevo già raccontato io, naturalmente, ma allora le mie parole erano sembrate un'ulteriore conferma della mia paranoia. Ora che non ero più io a pronunciarle, sembravano più plausibili. Riesaminammo tutto, parecchie volte. Fu una faccenda molto tecnica, come riempire un complicato modulo per le tasse. Scrissi la ricostruzione che avevo fatto, comprensiva di date e ore, della settimana mancante. Gli consegnai una fotografia di Jo. Ben gli fornì i numeri di telefono dei geni-
tori e dell'ex fidanzato e gli disse per quali case editrici lavorava regolarmente. «Che cosa pensa?» chiesi. «Vedrò» rispose Cross. «Ma non...» «Il fatto è che...» Mi interruppi e guardai Ben, poi ripresi. «Temo che, se avessi ragione nel pensare che Jo sia stata rapita dallo stesso uomo che ha rapito me, allora... be', molto probabilmente temo che sia... probabilmente... sia...» Non riuscii a pronunciare la parola, non con Ben seduto vicino a me. Non riuscivo neanche a ricordarmi di aver incontrato Jo; lui la conosceva da metà della sua vita. Una serie di espressioni passarono sul volto di Cross. Quando mi aveva incontrata la prima volta, aveva creduto alla mia storia senza esitazioni. Ero una vittima. Poi era stato convinto a non credermi, ed ero diventata una vittima delle mie illusioni, un oggetto di pietà. Ora era assalito da nuovi dubbi. «Procederemo un passo alla volta» disse. «Ci metteremo in contatto con i genitori della signorina Hooper. Nel frattempo dove posso trovarla?» «Da me» rispose Ben. Cross lo guardò per qualche secondo, poi annuì. «Bene» disse, alzandosi. «Vi farò sapere.» «Sta cominciando a credermi, non ti pare?» Ben mi prese la mano e fece girare l'anello che avevo al mignolo. «Vuoi dire riguardo a te o riguardo a Jo?» «Fa differenza?» «Non lo so.» «Mi dispiace per Jo, Ben. Mi dispiace tantissimo. Non so come dirlo.» «Ti dispiace? Io spero ancora che il telefono squilli e sia lei.» «Sarebbe bello.» Versò dell'altro vino a tutti e due. «Pensi spesso ai giorni in cui eri sua prigioniera?» «A volte mi sembra un incubo terribile e allora mi viene quasi da credere che forse si trattava di un sogno, dopo tutto. Ma poi, in altri momenti - di solito la notte, o quando sono sola e mi sento particolarmente vulnerabile mi pare quasi di rivivere tutta l'esperienza. Come se fossi di nuovo in quel posto e non fossi scappata, e tutto questo» feci un gesto con la mano indicando la cucina illuminata vivacemente, i piatti e i bicchieri di vino sul tavolo «fosse il sogno. Mi sembra tutto mescolato, ciò che ricordo, ciò che
immagino e ciò che mi terrorizza. Sai a che cosa penso qualche volta, quando mi sveglio la mattina presto, quando tutto sembra cupo e triste? Penso di essere su una ruota che gira all'infinito. E che continuo a rifare le stesse cose, perché in un certo senso è così, non ti pare? Cercare Jo, innamorarmi di te. E mi succederà di nuovo di scomparire in quell'oscurità.» «Presto sarà tutto finito.» «Lo pensi veramente?» «Sì. Se ne occuperà la polizia, e questa volta non vorranno sbagliare. Tu devi solo startene tranquilla ad aspettare per qualche giorno, qui con me, e poi l'incubo sarà finito. Ne sono sicuro. Potrai scendere dalla tua ruota.» Capitolo 24 A metà della mattina Ben era al lavoro e io nella sua doccia. Questa era una delle molte qualità della casa di Ben. Era moderna e tecnologica e le cose funzionavano in un modo che quasi non mi sarei immaginata prima. La cosiddetta doccia di Terry era come un rubinetto che gocciola un paio di metri sopra la vasca da bagno. Ti ci mettevi sotto e ti prendevi le gocce, una dopo l'altra. Anche quando l'acqua era calda, le gocce ti arrivavano fredde. La doccia di Ben, al contrario, era una vera e propria macchina, con una scorta d'acqua calda che sembrava inesauribile e la potenza e l'impatto di un idrante. E non era sulla vasca. Era a sé stante, con una porta. Mi accucciai in un angolo e immaginai di essere su un pianeta perpetuamente bombardato da una pioggia bollente. Naturalmente un pianeta del genere aveva degli svantaggi, quando si voleva mangiare, per esempio, o dormire, o leggere un libro, ma per il momento andava benissimo. Un getto di acqua calda piuttosto violento sulla testa era un buon metodo per non pensare. Mi sarebbe piaciuto rimanere là sotto fino alla primavera, o finché quell'uomo non fosse stato preso, ma alla fine chiusi l'acqua e mi asciugai con la lentezza e l'attenzione ai particolari di una donna senza appuntamenti urgenti. Poi andai nella camera da letto di Ben e mi vestii quasi completamente con vestiti suoi: dei calzoni di tuta e una maglietta floscia blu di parecchie taglie troppo grande per me. Delle enormi calze da football e un paio di pantofole che trovai in fondo all'armadio. In cucina misi il bollitore sul fornello e mi preparai un bricco di caffè. Un giorno avrei dovuto cominciare a pensare di riprendere il lavoro, ma per ora questo doveva aspettare. Tutto doveva aspettare.
Bevvi il caffè, poi feci qualche debole tentativo di pulire e riordinare. Non conoscevo la casa di Ben così bene da poter fare molto. Non sapevo quale attrezzo andasse in quale cassetto o a che gancio e non avevo molta voglia di lavare i pavimenti o di fare qualche altro lavoro pesante, così mi accontentai di lavare i piatti, pulire le superfici, sistemare il piumino sul letto e mettere le cose in pile ordinate. Mi ci volle meno di un'ora, e avevo ancora davanti a me una giornata vuota, prima che Ben ritornasse. Avevo la possibilità di passare qualche ora facendo quel che avevo sempre desiderato, ma mai avuto il tempo di fare. Potevo gettarmi sul divano a bere caffè, ascoltare musica, leggere e fare la signora. Le signore non sentivano la stridente musica pop che costituiva il grosso della mia raccolta. Avrebbero voluto musica più sofisticata. Andai a curiosare tra i CD di Ben, finché non ne trovai uno leggero e allegro. Lo ascoltai. Mi sembrava una cosa molto da adulti. Più una colonna sonora che musica che si voglia veramente ascoltare, ma non era male. Volevo leggere e sorseggiare caffè con qualcosa in sottofondo. Il problema nell'avere un giorno intero libero era scegliere il libro da leggere. Non ero dell'umore giusto per affrontare un testo serio, e non aveva senso iniziare un giallo corposo. In effetti, man mano che prendevo libri dagli scaffali e li ispezionavo, mi rendevo conto di non essere dell'umore giusto per fare la vera signora. Non riuscivo a smettere di pensare all'unica cosa da cui volevo distogliermi. Ben aveva una pila di libri di fotografia e cominciai a sfogliarli, incapace di sceglierne uno in particolare. Il libro che guardai più a lungo fu una raccolta di fotografie del diciannovesimo secolo. C'erano dei paesaggi esotici ed eventi drammatici, battaglie, rivoluzioni e catastrofi, ma a me interessavano i volti. C'erano uomini, donne e bambini. Alcuni erano distratti, altri terrorizzati. Altri ancora allegri in occasione di festività e fiere. A volte un viso guardava la macchina fotografica con un sorriso complice. Fu ciò che mi colpì maggiormente. L'estraneità di quei volti. Pensai, senza riuscire a smettere, che tutte quelle persone, i belli e i brutti, i ricchi e i poveri, i fortunati e gli sfortunati, i cattivi e i virtuosi, i religiosi e gli atei, ora avevano una cosa in comune: erano morti. Ognuno di loro, individualmente, completamente da solo, per strada o in un campo di battaglia, era morto. Tutte le persone di quel mondo erano scomparse. Ci pensai, ma non solo. Lo sentii, come una fitta, un mal di denti. Questo era in parte ciò che dovevo superare. Guardai i dorsi dei libri più piccoli sulle mensole più alte, libri che non avrebbero avuto immagini. Poesia. Era ciò di cui avevo
bisogno. Avevo probabilmente letto non più di otto poesie da quando avevo lasciato la scuola, ma sentii improvvisamente il bisogno di leggerne una. Avrebbe anche avuto il vantaggio di essere breve. Mi sembrava che neanche Ben fosse un gran lettore di poesia, ma aveva alcune di quelle antologie che i nonni o i padrini regalano quando sono a corto di idee. La maggior parte di esse aveva troppo l'aria da libro scolastico, oppure conteneva raccolte di poesie su argomenti che non mi interessavano, come la campagna, o il mare, o la natura in generale. Ma poi l'occhio mi cadde su un volume che si intitolava Poesie di desiderio e abbandono, e anche se mi sembrava di essere un'alcolista che allunga la mano verso una bottiglia di vodka, non resistetti. Mi sedetti con il caffè e mi immersi nel libro. Non ero quasi cosciente del significato delle singole poesie, ma mi sentii avvolta in una nebbia composta di dolore, rimpianto, assenza e paesaggi grigi. Era come essere a un party di depressi, ma in un senso buono. Cercare di fingere di essere felice e rilassata era stato un errore. Era molto meglio scoprire che c'erano altre anime perse che avevano provato quel che provavo io. Ero tra amici e dopo un po' mi ritrovai a sorridere, riconoscendomi. Mi piacque quel libro e ritornai all'inizio per vedere chi avesse compilato quell'antologia meravigliosamente malinconica; vidi che sul frontespizio era stata scribacchiata una dedica. Per un secondo pensai che fosse sbagliato leggerla. Ma non ci badai. Non era come aver frugato tra le cose della scrivania di Ben e aver trovato il suo diario o delle vecchie lettere d'amore. Una dedica su un libro è come una cartolina appesa al muro. Anche se è indirizzata a una persona in particolare, è pur sempre una sorta di dichiarazione pubblica. Almeno, questo è quel che mi dissi in quella frazione di secondo, ma quando lessi le prime tre parole, che erano «Carissimo, amatissimo Ben», cominciai a sospettare che non si trattasse di una dichiarazione pubblica. Ma a quel punto la stavo leggendo, e diceva: «Carissimo, amatissimo Ben. Ecco delle parole tristi che dicono meglio di me ciò che provo. Mi dispiace molto di tutto e tu hai probabilmente ragione, ma mi sento lacerata e sto molto male. E questa è una dedica assurda da scrivere su un libro. Tutto il mio amore, Jo». Era datata novembre 2001. Non ci fu neppure la più piccola particella di me che fece il minimo tentativo di credere che potesse trattarsi di un'altra Jo. Avevo vissuto nell'appartamento di Jo per giorni e la sua scrittura era dappertutto, su liste della spesa, messaggi, sulla custodia dei video, e la conoscevo bene quasi quanto la mia. Mi sentii avvampare, dalle mani ai piedi, poi cominciai a tremare
senza controllo. Maledetto Ben. Maledettissimo Ben. Mi aveva raccontato tutto di quella maledetta Leah. Era sembrato tanto sensibile e aveva detto di com'era stata bella e così via, e aveva semplicemente omesso di menzionare un piccolo dettaglio, che dopo essersi lasciato con lei, aveva scopato con la donna nel cui appartamento vivevo, la donna che era scomparsa. Pensai a lui che casualmente suonava alla sua porta. Erano amici, niente di strano. Avevamo passato un'enorme quantità di tempo a chiederci dove fosse Jo. O, almeno, io me l'ero chiesto. E lui che cosa pensava? Ripassai febbrilmente nella memoria le conversazioni che avevo avuto con lui. Che cosa aveva detto di lei? L'aveva scopata nello stesso letto in cui aveva scopato me. Non aveva pensato di dirmelo. Ma, in verità, non mi aveva neanche detto di aver già scopato con me. Che altri segreti nascondeva? Cercai di pensare alle ragioni innocenti che poteva aver avuto per non dirmi niente. Non voleva turbarmi. Poteva essere una cosa imbarazzante. Ma continuavano ad affiorare altre ragioni. Avevo bisogno di rifletterci. Di cercare di capire. Ma non lì. Stavo cominciando a rappresentarmi versioni differenti, e tutte decisamente mi inducevano a pensare che fosse meglio andarmene dalla casa di Ben il prima possibile. Guardai l'orologio. Il giorno non sembrava più così lungo. Mi precipitai nella sua camera da letto e mi tolsi i vestiti - i suoi vestiti - come se fossero contaminati. Cominciai a mormorare tra me e me come una pazza. Non ero sicura che avesse alcun senso, ma la sola cosa che Jo e io avevamo in comune era che eravamo state a letto con Ben. Non c'erano dubbi. E non solo questo, eravamo state a letto con lui poco prima di scomparire. Velocemente indossai i miei vestiti. Non riuscivo a capirci niente. Dovevo fermarmi a riflettere da qualche altra parte, in un posto sicuro e tranquillo. Perché lì non mi sentivo più al sicuro. Il silenzio della casa si chiuse intorno a me. Una volta vestita, girai velocemente per l'appartamento a raccogliere ciò che assolutamente mi sarebbe servito. Scarpe, borsa, maglione, borsellino, l'orribile e caldo giaccone rosso. A che gioco giocava? Mi aveva mentito, in un certo senso, o aveva omesso di dirmi l'intera verità, e io non avevo alcuna intenzione di rimanere lì ad aspettare che ritornasse a casa. Cercai di ricordare la voce che mi arrivava dal buio. Avevo sentito anche la voce di Ben al buio, vicina a me nel letto, che mi mormorava nell'orecchio, gemeva, diceva di adorarmi. Poteva essere la stessa voce? Andai alla scrivania di Ben e cominciai a frugare nei cassetti. Spostai cartelline e taccuini con impazienza finché non trovai ciò che cercavo. Una striscia di foto formato tessera di Ben. Le osservai per un momento. Mio
Dio, com'era bello. Avevo chiesto in giro se avessero visto Jo. Ma non avevo mai chiesto - non avevo mai pensato di farlo - se avessero visto Ben. Avevo seguito me stessa che inseguiva Jo. Dovevo prendere in considerazione l'ipotesi di seguire Ben. Ebbi un momento di esitazione, poi presi il suo cellulare. Ne avevo più bisogno io di lui. Aprii la porta d'ingresso e prima di andarmene mi voltai a guardarmi indietro, come per dire addio a un luogo dove ero stata brevemente felice. Non potevo più contare su nessuno ora. Dovevo essere veloce. Stavo esaurendo i posti sicuri. Capitolo 25 Iniziai a correre. Percorsi la strada sfrecciando, con il vento pungente sulle guance e i piedi che scivolavano sul selciato ghiacciato. Dove andavo? Non lo sapevo, sapevo solo che stavo andando, lasciando, trasferendomi da un'altra parte, verso qualcos'altro. Mi ero chiusa dietro la porta della casa calda che sapeva di segatura e non avevo neanche preso la chiave. Ero di nuovo sola, fuori in pieno inverno. Mi resi conto di essere molto visibile con quel giaccone rosso addosso, ma il pensiero mi volteggiò vagamente per la testa come un fiocco di neve, e poi si dissolse. Continuavo a correre, con il cuore che mi martellava in petto e il respiro affannoso, e le case, gli alberi, le macchine, i volti della gente mi passavano davanti confusamente. Alla fine della strada mi costrinsi a fermarmi e a guardarmi attorno. Il cuore rallentò i suoi battiti. Nessuno sembrava accorgersi di me, anche se non si poteva mai dire. Pensa, Abbie, mi dissi, pensa. Pensa per salvarti. Ma non riuscivo a pensare, almeno non ci riuscii subito. Riuscivo solo a sentire e vedere. Mi passavano immagini per la mente. Ben e Jo insieme, che si abbracciavano. Chiusi gli occhi e vidi il buio, e mi sembrò il buio del tempo perduto, che si chiudeva su di me. Occhi nel buio pesto; occhi che guardavano Jo, che guardavano me. Una farfalla su una foglia verde, un albero su una collina, un ruscello, poi acqua limpida e profonda. Aprii gli occhi e il duro mondo grigio tornò a mettersi a fuoco. Mi rimisi in cammino, questa volta non più di corsa, senza sapere veramente dove andare. Superai il parco e scesi giù per la collina. Andavo verso l'appartamento di Jo, anche se sapevo di non dovermici avvicinare. Sulla strada principale, piena di traffico e con una fila di negozi che vendevano dolci, cappelli, candele, pesci, vidi il volto di Jo. Sbattei gli occhi e
guardai meglio. Ovviamente non era lei, ma solo una donna che andava per i fatti suoi, senza avere la più pallida idea di quanto fosse fortunata. Sapevo di avere trovato tracce di Jo fino alle sue due ultime ore di libertà: fino a mercoledì pomeriggio, quando stava cercando un gattino. Era sparita mercoledì pomeriggio, e il giorno dopo ero scomparsa anch'io. Dopo tutto quel tempo passato ad andare in giro alla cieca in cerca di indizi, ciò che avevo era solo quello. Pateticamente poco. Ripresi il cammino e continuai per la via principale, finché non la abbandonai per una stradina che portava a Lewin Crescent. La percorsi fino ad arrivare alla squallida casa con le finestre sbarrate. Bussai alla porta. Mi misi in ascolto e udii i miagolii; mi sembrò anche di cogliere una vaga zaffata di urina. Poi udii i passi strascicati dall'altro lato della porta. La porta si aprì di uno spiraglio, con la catenella agganciata, e due occhi mi scrutarono sospettosamente. «Sì?» «Betty?» «Sì?» «Sono Abbie. Sono venuta a trovarla due giorni fa. Le ho chiesto di un'amica.» «Sì?» ripeté. «Posso entrare?» La catena fu tolta e la porta aperta. Entrai nella stanza calda e fetida con il suo tappeto mobile di gatti. L'odore mi trafisse le narici. Betty aveva indosso lo stesso camicione blu senza bottoni, coperto di peli di gatto, le stesse pantofole cenciose e le stesse calze marroni spesse. Pensai che un po' dell'odore di ammoniaca provenisse da lei. Era così magra che le braccia sembravano degli stecchi e le dita dei ramoscelli. La pelle era floscia sul viso minuto. «Allora sei di nuovo tu. Non riesci a stare lontana, eh?» «C'è una cosa che mi sono dimenticata di chiederle.» «Che cosa?» «Ha detto di aver visto la mia amica, Jo, vero?» Non rispose. «Quella ragazza che è venuta per prendere un gatto e che lei non riteneva adatta per...» «So a chi si riferisce.» «Non le ho chiesto dell'uomo con cui ero. Aspetti un momento.» Rovistai nella borsa e tirai fuori la striscia di foto formato tessera di Ben. «Lui.» Gli diede una breve occhiata. «Allora?» «Lo riconosce?»
«Mi pare di sì.» «No, voglio dire, l'ha visto, prima?» «Sei una ragazza molto confusa» disse. Stese una mano verso il gatto rossiccio che le era andato a sbattere contro le gambe, questo fece un piccolo balzo e sfregò il muso contro le sue dita, facendo le fusa come un trattore. «Quel che voglio sapere è se lo ha visto prima che venisse qui con me.» «Prima?» «Ha visto quell'uomo più di una volta?» chiesi disperatamente. «Quando l'ho visto?» «Sì.» «Che cosa?» «Voglio dire, sì, quando l'ha visto?» Stavo cominciando a sentirmi male. «Te l'ho detto. Ho detto: "Quando l'ho visto?". "Sì" non è una risposta.» Mi fregai gli occhi. «Volevo solo sapere se l'avesse visto prima di due giorni fa. Tutto qui.» «Qui vengono persone di ogni genere. È del consiglio?» «No, è...» «Perché se è del consiglio, non gli permetto di entrare a casa mia.» «No, non è del consiglio.» «I gatti sono degli animali puliti, sai.» «Sì» dissi meccanicamente. «C'è gente che pensa che non sia carino... il modo in cui cacciano, voglio dire. Ma è solo la loro natura.» «Lo so.» «Non do i miei gatti a persone che li fanno uscire. Questo è ciò che ho spiegato alla tua amica. Quando mi ha detto che l'avrebbe fatto uscire, le ho risposto che la sua non era una casa adatta. Sarebbe stato investito da una macchina.» «Sì, grazie. Mi scusi se l'ho disturbata.» Mi voltai per andare. «Non come gli hippy, bada bene.» «Gli hippy?» «Sì, loro non controllano bene.» Tirò su con il naso in segno di disapprovazione. «Questi, ehm, questi hippy hanno tanti gatti come lei?» «Non come me. No.» «Ne ha parlato a Jo?» «Forse.»
«Betty, dove vivono?» Non so perché sentissi di avere tutta quella fretta. Era come se temessi che la pista si raffreddasse. Sapevo dov'era andata Jo dopo Betty o, almeno, sapevo dove poteva essere andata e ciò mi bastava. Ero arrivata all'ultima ora, o due, del suo ultimo giorno. Tutto il resto era svanito e vedevo solo la sagoma di Jo che retrocedeva e me che andavo avanti incespicando sulle sue tracce. Ma chi c'era dietro di me? Chi mi stava seguendo? Betty li aveva chiamati hippy, ma immaginai da ciò che aveva detto di loro - dai capelli rasta e dai vestiti rattoppati - che fossero viaggiatori New Age. Mi aveva detto che vivevano in una chiesa sconsacrata a Islington e io pregai che non se ne fossero andati. Ritornai di corsa sulla strada principale e fermai un taxi. Poiché non sapevo l'indirizzo esatto, anche se conoscevo la zona, dissi alla conduttrice di portarmi all'Angel. Da lì sarei potuta andare a piedi. Continuavo a guardarmi alle spalle. A cercare un viso che non avevo mai visto prima. Non vidi nessuno, ma continuavo a provare l'orribile sensazione di non avere più molto tempo. Mi sedetti sull'orlo del sedile, impaziente per gli ingorghi del traffico e i semafori rossi. Quando raggiungemmo l'Angel stava facendosi buio, o, almeno, il giorno stava scolorendosi. Avevo perso il senso del tempo e non riuscivo neanche a ricordare che giorno fosse. Era un giorno feriale, questo lo sapevo. La maggior parte della gente era al lavoro, seduta in uffici riscaldati, a bere caffè delle macchinette e fare riunioni che amava credere fossero importanti. Pagai la tassista e scesi, evitando una pozzanghera mezzo ghiacciata. Dal cielo basso e fosco cadeva qualche fiocco di neve. Tirai su il colletto del giaccone e cominciai a camminare. Parte della chiesa era stata dipinta a colori brillanti e sull'ampia porta di legno risaltava un arcobaleno asimmetrico. Contro il muro c'era una bicicletta arrugginita, dipinta di rosa, e accanto una vecchia carrozzina piena di legna e un'altra piena di lattine. Su un lato della chiesa era parcheggiato un furgone decorato con ghirigori e fiori e con le tendine abbassate su tutti i finestrini. Un grosso cane d'un color grigio sporco ne annusava le ruote. Sollevai il battaglio e lo feci cadere pesantemente sulla porta, che era già semiaperta. «Spingi ed entra» urlò una voce femminile. L'interno della chiesa era poco illuminato e pieno di fumo proveniente da un fuoco che bruciava sul pavimento, in un focolare improvvisato di mattoni. Intorno c'era un gruppo di persone, sedute o accovacciate, avvolte
in coperte o raggomitolate dentro sacchi a pelo. Una di esse aveva in mano una chitarra, ma non faceva alcun tentativo di suonarla. Vidi altre sagome in fondo alla chiesa, dove c'erano ancora dei banchi. A terra giacevano dei materassi e delle borse. Una lunga crepa percorreva la finestra di vetro colorato. «Salve» dissi titubante. «Scusate se mi intrometto.» «Sei la benvenuta qui» disse una donna con i capelli rasati e piercing sulle sopracciglia, sul naso, sulle labbra e sul mento. Si piegò in avanti e degli spessi bracciali di rame le cascarono dal braccio. «Sono Abbie» dissi e le strinsi la mano coperta da una manopola. «Volevo solo chiedere...» «Be', sappiamo che sei Abbie, perlomeno io lo so. Alcuni di noi sono qui solo da pochi giorni. Sono Crystal, ricordi? Ti sei tagliata i capelli, vero? In ogni modo, siediti» disse Crystal. «Vuoi del tè? Boby l'ha appena fatto. Boby! Un altro tè, abbiamo un'ospite. Non metti zucchero, vero? Vedi, mi ricordo tutto.» Boby arrivò con del tè del colore del fango in una tazza di peltro. Era un ragazzo piccolo e magro con un viso bianco e nervoso. Portava dei pantaloni militari cascanti e un maglione di lana spessa da cui usciva un collo molto esile. «Grazie» dissi. «Sono già stata qui, vero?» «Ci sono rimasti dei fagioli. Ne vuoi?» «No, grazie, sto bene così.» L'uomo con la chitarra passò le dita sul manico dello strumento, traendone qualche accordo. Mi sorrise e vidi che aveva denti neri e rovinati. «Sono Ramsay» si presentò. «Ram, in breve. Sono arrivato ieri dalla manifestazione di protesta. È la prima notte che passo sulla terraferma. Tu da dove vieni?» Mi resi conto che avevo l'aspetto di una fuggiasca. Ero diventata una di loro. Non dovevo faticare a dare spiegazioni lì. Scivolai accanto al fuoco e bevvi un sorso del tè, tiepido e amaro. Il fumo del fuoco mi irritò gli occhi. «Non so da dove vengo, veramente» risposi. «Ma Betty mi ha parlato di voi.» «Betty?» «La vecchia dei gatti» disse Crystal. «Ce l'hai detto la volta scorsa.» Annuii, sentendomi stranamente pervasa da un senso di pace. Non avevo più voglia di lottare. Forse non importava, essere morti. «Probabilmente. Probabilmente vi ho chiesto della mia amica Jo.»
«Giusto. Jo.» «Vi ho chiesto se fosse venuta qui.» «Vuoi una sigaretta?» «D'accordo.» Presi la sigaretta sottile, arrotolata a mano, che mi porgeva, e Ram me l'accese. Aspirai e cominciai a tossire. Fui inondata dalla nausea. Aspirai un'altra boccata. «È venuta qui?» «Sì» rispose Crystal. «Tutto bene?» «Sì.» «Mangia dei fagioli.» Prese una scatoletta di fagioli da vicino al fuoco, ci ficcò dentro un cucchiaio di plastica e me la porse. Ne mangiai un boccone, erano disgustosi. Poi un altro. Intanto continuavo ad aspirare il fumo acre della sigaretta. «Favoloso» dissi. «Grazie. Allora Jo è venuta qui?» «Sì, ma te l'ho detto.» «Non riesco a ricordare le cose.» «Succede anche a me» disse Ram e accennò un altro accordo. Un uomo aprì la porta della chiesa ed entrò spingendo la carrozzina. Gettò dell'altra legna sul fuoco, poi si chinò a baciare Crystal. Si baciarono a lungo. «Allora è venuta qui a cercare un gattino?» chiesi alla fine. «Perché quella matta di Betty pensa che noi teniamo dei gatti.» «Non è così?» «Vedi dei gatti?» «No.» «Be', abbiamo avuto dei trovatelli; gli diamo del latte e da mangiare. E qualcuno di noi ha partecipato a un'azione per liberare dei gatti da un laboratorio il mese scorso. «Non so come abbia fatto a sapere di noi, però.» «Neanch'io» dissi. «Allora, se ne è semplicemente andata?» «Jo?» «Sì.» «Ci ha dato dei soldi per le nostre attività. Cinque sterline, mi pare.» «Tutto qui?» «Sì.» «Bene.» Mi guardai attorno. Forse avrei potuto unirmi a loro e diventare una viaggiatrice; mangiare fagioli in scatola e dormire su pavimenti di pietra o sugli alberi e arrotolare sigarette finché le dita non mi fossero diventate gialle. Sarebbe stato diverso dal progettare uffici. «Solo che le ho detto di provare ad andare da Arnold Slater.»
«Arnold Slater?» «È l'uomo a cui abbiamo dato alcuni dei nostri bastardini. Quando i cani hanno cominciato a dar loro la caccia. Sta su una sedia a rotelle, ma riesce a badare ai gatti comunque.» «Allora, ci è andata?» «Ha detto che forse ci sarebbe andata. Così hai fatto anche tu, la volta scorsa, intendo dire. Strano, eh? Come un déjà vu. Credi nel déjà vu?» «Naturalmente. Girare, girare in tondo» risposi. Gettai il mozzicone di sigaretta nel fuoco e finii il tè. «Grazie» dissi. Mi voltai improvvisamente verso Boby. «Hai un grosso tatuaggio di un ragno, vero?» Arrossì violentemente, poi si tirò su il maglione spesso e sul ventre piatto e bianco comparve il tatuaggio di una ragnatela che si estendeva fino alla schiena. «Eccolo» disse. «Ma dov'è andato il ragno?» «È quel che hai detto l'altra volta.» «Evidentemente sono una persona coerente.» Era molto buio quando lasciai la chiesa, benché non fosse ancora sera. Dietro le nuvole si scorgeva il fantasma di una luna. Arnold Slater viveva a due minuti da lì, era vecchio, stava su una sedia a rotelle, Jo aveva pensato di andarlo a trovare, e io avevo pensato di seguire Jo e recarmi da lui a mia volta... Misi i piedi sulla strada e in quell'istante il cellulare che avevo afferrato lasciando l'appartamento di Ben cominciò a suonare, facendomi sobbalzare violentemente. Ritornai sul marciapiede e lo tolsi dalla tasca. Senza pensare, schiacciai il pulsante e risposi. «Pronto?» «Abbie! Dove diavolo sei, Abbie? Che cosa stai combinando? Ero fuori di me per la preoccupazione. Ho chiamato a casa tutto il giorno e tu non rispondevi, così sono tornato e non c'eri...» «Ben» dissi. «Ho aspettato e aspettato. Ho pensato che fossi andata a far spese o qualcosa del genere, poi ho visto che il cellulare non c'era più e l'ho chiamato così, tanto per provare. Quand'è che torni a casa?» «A casa?» «Abbie, quando torni?» «Non torno.» «Che cosa?» «Tu e Jo. So di Jo. So che stavi con lei.» «Ascoltami, Abbie...»
«Perché non me l'hai detto? Perché, Ben?» «Avevo paura che...» «Avevi paura, tu avevi paura?» «Cristo, Abbie...» disse, ma io interruppi la comunicazione. Tenni il telefono in mano e lo fissai come se potesse mordermi. Poi andai a guardare i nomi della rubrica. Non ne conoscevo nessuno, finché non arrivai a Jo Hooper. Riconobbi il numero, perché era quello del suo appartamento. Ma ce n'era anche un altro, quello del cellulare. Premetti il tasto di chiamata e lo udii squillare, e proprio mentre stavo per spegnerlo qualcuno rispose sussurrando: «Pronto». A voce così bassa che riuscii a malapena a sentire; comunque, i mormorii al buio sembrano tutti uguali. Non pronunciai neanche una parola. Rimasi con il cellulare premuto contro la guancia, cercando di trattenere il fiato. Lo udii respirare molto piano. Dentro e fuori, dentro e fuori. Sentii un brivido freddo nelle vene. Chiusi gli occhi e ascoltai. Non disse nient'altro. Ebbi la netta sensazione che sapesse chi fossi e che l'avevo riconosciuto. Potei percepire il suo sorriso. Capitolo 26 Mi sentivo come in un sogno, come se stessi correndo giù per un dirupo che diventava sempre più ripido, tanto da non riuscire più a fermarmi. Non c'era niente per strada che riconoscessi, non l'albero rachitico con un ramo spezzato che penzolava, non l'enorme contrafforte di legno che sosteneva una fila di case in rovina. C'era solo un odore. Avevo l'impressione di sentire dei passi davanti a me. I passi di Jo. I miei. Se avessi camminato più in fretta, li avrei raggiunti. Mi ero scritta il numero di Arnold Slater sul dorso della mano. Dodici. In fondo a quella strada malsana. Ma stavo andando a casa di un uomo anziano su una sedia a rotelle. Non poteva essere lui. E comunque non mi potevo fermare adesso che ero tanto vicina a Jo. Pensai a lei che camminava per la stessa strada, con impazienza. Era così difficile trovare un maledettissimo gatto? La strada mostrava quel miscuglio familiare di abitazioni restaurate, abbandonate e trascurate. Il numero dodici non era tanto male. Doveva essere di proprietà comunale perché era stato fatto un lavoro piuttosto elaborato per permettere l'accesso a una sedia a rotelle. C'erano una rampa di cemento e delle ringhiere particolarmente robuste. Suonai il campanello.
Arnold Slater non era sulla sedia a rotelle. La vidi piegata nell'ingresso, dietro di lui. Ma l'uomo non costituiva alcuna minaccia per chiunque riuscisse a muoversi più velocemente di una tartaruga. Era anziano, aveva indosso un cappotto e sbatteva gli occhi alla luce tenendosi alla maniglia della porta come se dovesse sostenervisi. Stava cercando di ricordarsi di me? «Salve» dissi vivacemente. «Lei è Arnold Slater? Mi hanno detto che forse ha un gatto da vendere.» «Maledizione» rispose. «Mi scusi, non ha gatti?» Si trascinò di lato per far spazio. «Qualcuno» disse con un risolino roco. «Entri.» Osservai i suoi polsi sottili e percorsi da vene. Mi resi conto che quell'uomo non poteva nuocermi ed entrai. «Ho dei gatti» disse. «C'è Merry. E Poppy. E Cassie e, guardi, c'è Prospero.» Una sagoma color senape entrò sfrecciando nell'ingresso e scomparve nel buio. Mi venne improvvisamente in mente una società segreta, una massoneria, di amanti dei gatti un po' folli, disseminati per tutta Londra, collegati dalla loro ossessione come i fiumi segreti che scorrono sotto la città. «Bei nomi» dissi. «I gatti hanno i loro nomi. Bisogna solo riconoscerli.» Ero febbricitante. Le sue parole mi sembravano provenire da molto lontano e impiegare molto tempo ad arrivare a me. Ero come quegli ubriachi che cercano di non darlo a vedere. Feci del mio meglio per sembrargli una ragazza allegra, terribilmente desiderosa di discutere di gatti. «Come i bambini, immagino.» Sembrò offeso. «Non sono come bambini. Non come i miei bambini. Questi sanno badare a se stessi.» La testa mi ronzava e saltellavo da un piede all'altro per l'impazienza. «Mi hanno mandata le persone della chiesa. Mi hanno detto che aveva dei gatti in vendita.» Un'altra risata stridente, come se avesse qualcosa incastrato in gola. «Non ho gatti in vendita. Perché dovrei voler vendere un gatto? Perché la gente continua a pensare una cosa del genere?» «Questo fa parte di ciò di cui le volevo parlare. Sono venute altre persone da lei a cercare di comprare un gatto?» «Sono matti. Ho preso i gatti che non volevano e poi hanno cominciato a
mandare la gente da me come se avessi un negozio di animali.» «Che tipo di gente?» «Donne stupide che vogliono un gatto.» Mi sforzai di ridere. «Vuol dire che delle donne sono venute fin qui per cercare di comprare un gatto? Quante?» «Un paio. Ho detto a entrambe che non erano in vendita.» «Buffo» dissi il più casualmente possibile «perché credo che una delle persone che le sono state mandate sia una mia amica. Potrebbe essere lei?» Stavo toccando la fotografia di Jo nella tasca del mio giaccone. La tirai fuori e la mostrai ad Arnold. Immediatamente assunse un'aria perplessa e sospettosa. «Che cos'è questo? Per quale motivo lo vuole sapere?» «Mi stavo chiedendo se fosse una delle donne che sono venute da lei in cerca di un gatto.» «Perché lo vuole sapere? Pensavo volesse un gatto. Che cos'è questo? Lei è della polizia o qualcosa del genere?» Avevo la mente sottosopra. Riuscivo quasi a sentire il cervello che mi ronzava in testa. Mi pareva di avere una gran fretta, di star fuggendo da qualcosa e inseguendo qualcos'altro contemporaneamente, e ora dovevo trovare una spiegazione più o meno plausibile di quel che stavo facendo. «Sto anch'io cercando un gatto» dissi. «Volevo solo accertarmi di essere venuta nello stesso posto in cui si era recata anche lei.» «Perché non lo chiede alla sua amica?» Avrei voluto urlare. Che importanza aveva? Non ero a un posto di blocco ai confini con l'Iraq. Ero in una casa di Hackney con quattro gatti rognosi. Dovevo solo procedere alla prossima casella del ridicolo gioco a cui stavo giocando e lui era l'unica persona che mi poteva aiutare. Cercai di pensare. Era difficile. La povera Jo non aveva ottenuto il suo gatto qui, era ovvio. «Mi scusi, signor Slater, Arnold. Ho solo bisogno di un gatto.» «È quel che dicono tutti.» «Chi?» «Quella donna della fotografia.» Grazie al Cielo, dissi a me stessa. «Devono tutte avere un gatto e devono tutte averlo subito. Non possono aspettare fino all'indomani.» «So come ci si sente. Ci si mette un'idea in testa, come un hamburger, e non si riesce più a scacciarla. Non ci si dà pace.»
«Un hamburger?» «Senta, signor Slater, se venissi da lei a chiederle un gatto, cosa che ho fatto, e lei mi dicesse che i suoi non sono in vendita, poiché non lo sono, che cosa mi consiglierebbe? Dove mi suggerirebbe di andare?» L'attenzione di Arnold Slater era ancora sulla fotografia di Jo. La rimisi in tasca. «Arnold» dissi con più calma e urgenza «dove l'ha mandata?» «Chi era l'altra?» Mi stava guardando con un'espressione più acuta. Forse stava cominciando a ricordarsi di me. Rimasi un momento in silenzio, ma non servì a niente. Non riuscivo a pensare a nessun modo di raccontargli la verità. «Non importa. Non ha alcuna importanza, Arnold. Si tratta solo di un gatto. Voglio soltanto sapere dove l'ha mandata.» «Ci sono negozi di animali. Annunci sui giornali. È il modo migliore.» «Ah» feci. Era la fine? Il vicolo cieco. «Le ho mandate qui dietro l'angolo.» Mi morsicai il labbro e cercai di rimanere calma come se non fosse così maledettamente importante. «Mi sembra interessante» dissi. «Ha saputo più niente di lei?» «Ce l'ho solo mandata.» «Allora probabilmente ha preso il gatto.» «Non lo so. Non ho più saputo niente.» «Be', mi sembra il posto per me. Mi sembra un buon posto per gatti.» «Non so. È solo un posto dietro l'angolo. Vendono sempre cose diverse. Alberi di Natale a Natale. Ho comprato della legna per il caminetto. La consegnavano a domicilio. Avevano dei gattini. Non so se li hanno ancora.» «Come si chiama questo posto?» «Non ha un nome. Una volta era un fruttivendolo, poi hanno alzato l'affitto e ci sono stati negozi diversi; poi è arrivato Vic Murphy.» «Vic Murphy?» ripetei. «Già. Le ho mandate da Vic. Ma sull'insegna c'è ancora scritto fruttivendolo. Be', non proprio fruttivendolo. "Da Buckley, Frutta e Verdura".» «Come si fa ad arrivarci?» «È a un paio di minuti a piedi.» Ma ad Arnold occorsero più di due minuti per spiegarmi la strada, poi lo lasciai con i suoi gatti e un'espressione confusa. Probabilmente stava ancora pensando alla fotografia e chiedendosi che cosa avessi in mente. Diedi un'occhiata all'orologio. Erano da poco passate le sei e mezzo. Non avrei
fatto nulla di avventato. Sarei semplicemente andata a dare un'occhiata a distanza di sicurezza. Sembravo un'altra persona. Sarebbe andato tutto bene. Ma facevo fatica a respirare. Sentivo il petto come stretto in una morsa. Per arrivare al negozio, dovetti percorrere una lunga strada tetra, piena di case sbarrate. La conoscevo. Dapprima pensai che una parte della memoria che avevo perso mi stesse ritornando, ma poi vidi il nome della strada. Tilbury Road. Era da qui che la mia macchina era stata rimossa. Stavo avanzando in una sorta di stupore irreale e terrificante. C'era una fila di negozietti squallidi in una via prevalentemente residenziale. Una lavanderia, un negozio di alimentari con frutta e verdura esposte su rastrelliere all'esterno, una ricevitoria di scommesse e poi «Da Buckley, Frutta e Verdura». Era chiuso. Completamente chiuso da una saracinesca di metallo verde che aveva l'aria di non essere stata aperta da settimane. Sopra erano stati incollati dei poster ed erano stati tracciati con la vernice spray dei nomi e delle sigle. Mi ci avvicinai e la spinsi invano. C'era una cassetta della posta. Ci guardai dentro e vidi una grossa pila di lettere sul pavimento. Entrai nel negozio di alimentari vicino. Dietro il banco c'erano due uomini asiatici. Il più giovane stava riempiendo lo scaffale delle sigarette. L'altro aveva la barba bianca e stava leggendo il giornale della sera. «Sto cercando Vic Murphy» gli dissi. Scosse il capo. «Non lo conosco.» «Il proprietario del negozio qua vicino. Quello che vende legna e alberi di Natale.» L'uomo scrollò le spalle. «Se n'è andato. Ha chiuso.» «Sa dove?» «No. È un cesso di negozio. C'è venuta gente diversa, ma hanno finito tutti per chiudere.» «Devo assolutamente trovare Vic Murphy.» Gli uomini si sorrisero. «Le deve del denaro?» «No.» «Penso che se ne sia andato senza pagare vari conti. Sono venuti a cercarlo, ma se l'era squagliata.» «Allora non c'è modo di rintracciarlo?» Un'altra scrollata di spalle. «No, a meno che non voglia andarlo a chiedere al tipo che gli ha trasportato la roba.» «Chi è?» «Sarebbe George.» «Ha il suo numero?»
«No, ma so dove vive.» «Me lo può dire?» «Baylham Road. Numero trentanove, mi pare.» «Che tipo era Vic Murphy?» «Abbastanza strano» disse l'uomo. «Ma bisogna essere piuttosto strani per metter su un negozio del genere. Voglio dire, legna e alberi di Natale. Suppongo che avesse una partita di legname e volesse liberarsene per poi andar via.» «Aveva dei gatti?» «Gatti?» «Voglio comprare un gatto.» «Allora lei ha bisogno di un negozio di animali, cara.» «Mi hanno detto che Vic Murphy vende dei gatti.» «Non lo so. Forse aveva un gatto. Ci sono sempre gatti in giro. Ma non si sa mai a chi appartengano, no?» «Non ci ho mai veramente pensato.» «Si affezionano a chiunque dia loro da mangiare, i gatti.» «Davvero?» «Non come i cani. Si troverebbe meglio con un cane. I cani sono dei veri amici.» «Lo terrò a mente.» «E sono anche una protezione.» «Sì.» «Non credo che riavrà i suoi soldi.» «Che cosa?» «Da quel Vic Murphy.» «Gliel'ho già detto, non mi deve del denaro.» «È quel che hanno detto anche gli altri. Dicono che sono amici. Non vogliono spaventarlo e farlo scappare.» Tirai fuori dalla tasca la fotografia di Jo. «Questa ragazza era una delle persone che sono venute a cercare Vic Murphy?» L'uomo guardò la fotografia. «È una donna» osservò. «Già.» «Erano tutti uomini. Tranne lei, signorina.» Capitolo 27
Mi rimisi in cammino. La gente ora aveva lasciato gli uffici e stava faticosamente ritornando a casa per le strade fredde e buie. Uomini e donne con il capo abbassato per ripararsi dal vento, che pensavano al luogo in cui sarebbero stati al caldo. Io non riuscivo a pensare a nulla se non ad andare a quell'indirizzo. Sapevo che non stavo più seguendo le tracce di Jo, né le mie. Ma tutto mi era stato così incredibilmente vicino ed ero fermamente decisa a seguire l'ultima pista. Un furgone mi passò accanto rombando e spruzzandomi addosso il fango ghiacciato delle pozzanghere. Lo maledissi e mi asciugai il viso. Forse dovevo semplicemente ritornare a casa. Ma dov'era casa? Sarei dovuta andare da Sadie. Solo che non sopportavo l'idea di farmi viva di nuovo, completando il cerchio e ritornando all'angoscioso inizio, senza aver ottenuto niente se non paura, terrore, pericolo, tradimento. Tirai fuori dalla tasca il cellulare di Ben e lo tenni in mano per un minuto, stando immobile in mezzo al marciapiede, mentre la gente mi fluttuava intorno. Lo accesi. C'erano dodici nuovi messaggi e li ascoltai. Tre erano per Ben, da persone che non avevo mai sentito nominare. Otto di Ben a me, uno più affannato dell'altro. L'ottavo diceva solamente: «Abbie». Tutto qui. «Abbie.» Come se mi chiamasse da una grande distanza. C'era un altro messaggio per me, da Cross. «Abbie» diceva con voce ferma. «Mi ascolti. Ho appena parlato con il signor Brody, che sembra molto preoccupato per lei. Le posso chiedere di farci sapere dove si trova e di assicurarci che non è in pericolo? Per favore, mi chiami non appena sente questo messaggio.» Faceva una pausa e poi aggiungeva: «Lo dico seriamente, Abbie. Si metta in contatto, subito». Spensi il cellulare e me lo rimisi in tasca. Jack Cross aveva ragione. Dovevo chiamarlo subito e dirgli quel che avevo scoperto. Dall'altro lato della strada c'era un pub, il Three Kings. Sarebbe stato caldo, pieno di fumo e risate, di birra rovesciata e chiacchiere. Sarei velocemente andata da questa persona con il furgone e mi sarei fatta dire dov'era finito Vic Murphy. Poi sarei entrata nel pub, avrei ordinato da bere e delle patatine e avrei chiamato Cross per dirgli quel che avevo trovato. Avrebbe proseguito lui le ricerche da quel punto in poi. Avrei anche chiamato Ben. Dovevo restituirgli il cellulare, perlomeno. E dopo... ma non volevo pensare a quel che avrei fatto dopo, perché era come fissare una distesa di acqua morta, marrone. Mi sentii rincuorata da questa decisione. Un indirizzo e poi basta. Ma faceva un freddo così intenso. Le dita dei piedi mi dolevano, quelle delle mani mi si stavano intorpidendo, mi sentivo il volto teso e infiammato,
come se nel vento ci fosse della sabbia che mi raschiava la pelle. Il marciapiede luccicava per il ghiaccio e anche sulle macchine parcheggiate se ne stava formando un sottile strato. Presi a camminare più velocemente; il fiato mi usciva a volute dalla bocca. Sentivo pungermi il naso. Avrei potuto dormire sul divano di Sadie per stanotte e poi andare a cercare un appartamento domani mattina. Dovevo trovarmi un lavoro, ricominciare. Avevo urgente bisogno di soldi e, ancor più, di uno scopo e di sentirmi nuovamente normale. Avrei comprato una sveglia, l'indomani, e l'avrei puntata alle sette e mezzo. Sarei dovuta andare a riprendere i vestiti da Ben e chiedere a Cross di accompagnarmi all'appartamento di Jo a prendere il resto delle mie cose. La mia vita era sparpagliata per Londra in piccoli frammenti. Dovevo ricomporla. Svoltai a sinistra, su una stradina più stretta e buia. Il cielo era sereno, punteggiato da una luna sottile e fredda e da stelle bianche e luccicanti. Nelle case davanti a cui passavo le tende erano abbassate e lasciavano filtrare le luci vivaci della vita altrui. Avevo fatto tutto quel che avevo potuto, pensai. Avevo cercato Jo e avevo cercato me stessa, senza trovare nessuna delle due. Eravamo perse e non credevo più che Cross ci avrebbe trovate, ma forse avrebbe scovato il mio rapitore e io sarei potuta tornare a stare tranquilla. Non credevo più a nulla, non veramente. Non riuscivo più neanche a immaginare di esser stata in pericolo, di esser stata rapita e tenuta prigioniera in un posto buio, e di essere scappata. Il tempo che ricordavo e quello che avevo perduto sembravano fondersi nella mia mente. Il Ben che avevo conosciuto e dimenticato sembrava inseparabile dal Ben che avevo riscoperto e poi perso di nuovo. La Jo che avevo conosciuto e con cui avevo riso se ne era andata, anche dalla mia memoria. Tutto ciò mi sembrava inconsistente, come ogni altra cosa. Continuavo a mettere un piede davanti all'altro, perché era quel che mi ero proposta di fare. Con dita che mi sembravano stecchi ghiacciati, tirai fuori dalla tasca le istruzioni e le esaminai. Presi la seconda via a destra: Baylham Road, che aveva dei dossi artificiali e alte siepi di ligustro. La strada conduceva a una collinetta, poi ridiscendeva, costeggiata da case. Le finestre erano illuminate e da alcuni camini si levava il fumo, pezzetti felici di vita altrui. Avanzai faticosamente. Al negozio mi avevano detto che era il numero trentanove, che si trovava sul lato sinistro della strada, ai piedi della collinetta. A distanza non si vedevano luci accese e sebbene non mi fossi aspettata nulla veramente,
sentii crescere la deprimente sensazione di essermi persa. Scesi giù per la collina e mi fermai davanti al numero trentanove. Era diversa dalle altre case, perché era scostata dalla strada e accessibile attraverso un cancello cadente, che stava a malapena in piedi sui cardini e cigolava a ogni folata di vento. Lo spinsi per aprirlo. Questo sarebbe stato il mio ultimo compito. Tra qualche minuto avrei chiuso con questa faccenda, avendo fatto tutto quello che potevo. Dentro c'era un cortile pieno di buche ghiacciate. Era cosparso di oggetti che incombevano nell'oscurità: un mucchio di segatura, una carriola, una roulotte arrugginita, una pila di pneumatici, un paio di sagome che sembravano boiler, una sedia capovolta a cui mancava una gamba. La casa era a sinistra del cortile, a due piani, un edificio di mattoni rossi con un piccolo portico alla porta d'ingresso. Sotto il portico c'erano un vaso di terracotta rotto e un paio di grossi stivali di gomma, che per un momento mi fecero sperare che l'uomo fosse in casa, dopo tutto. Premetti il campanello di fianco alla porta, ma non riuscii a sentirne il suono, così bussai con il pugno e aspettai, battendo i piedi perché non si congelassero. Nulla. Non venne nessuno. Premetti l'orecchio alla porta e mi misi in ascolto. Non si udiva nulla. Allora questa era la fine. Mi voltai di nuovo verso il cortile e per la prima volta lo osservai con attenzione. Mi accorsi che si trattava di una vecchia scuderia. Sotto il cielo sereno riuscii a distinguere i box e, guardando più da vicino, vidi che c'erano ancora i nomi dei cavalli scritti sopra ciascuna entrata, a lettere maiuscole ormai sbiadite. Spider, Bonnie, Douglas, Bungle, Caspian, Twinkle. Ma non c'erano più cavalli e non ce ne dovevano essere stati da parecchio tempo. Molte porte mancavano. Invece di paglia e letame si sentiva odore di olio, vernice, cose meccaniche. La porta superiore di uno dei box era aperta; dentro era umido, pieno di oggetti: barattoli di vernice, assi, lastre di vetro. Invece dei nitriti e degli sbuffi dei cavalli, c'era un denso silenzio. Poi udii un rumore. Mi sembrò provenire dall'edificio basso sull'altro lato del cortile, di fronte alla casa. Forse il proprietario era là, dopo tutto. Feci qualche passo nella direzione del rumore. Non ero ancora spaventata, non veramente. «Salve!» dissi ad alta voce. «Salve, c'è nessuno?» Nessuno rispose. Rimasi immobile in ascolto. Sentivo il rumore delle automobili in lontananza; una musica da qualche parte, il debole pulsare dei bassi che vibrava nell'aria notturna. «Salve?»
Andai davanti all'edificio con una certa esitazione. Era costruito con blocchi di scorie di coke e di legno e non aveva finestre. L'alta porta era tenuta chiusa da un pesante chiavistello. Udii un altro rumore, come un lungo mormorio o un lamento. Trattenni il respiro e lo udii di nuovo. «C'è qualcuno?» urlai. Sollevai il chiavistello e spinsi la porta pesante finché non si aprì di quel tanto che mi permise di sbirciare dentro. Ma era freddo e buio, un nero denso quasi come la pece, poiché il chiaro di luna non vi penetrava. Non c'era nessuno dentro, comunque, se non forse un animale. Pensai a pipistrelli e topi e poi pensai ai ratti, sempre in giro, gonfi di rifiuti e di carogne, che correvano sotto le assi dei pavimenti con i loro denti gialli e affilati e le grosse code... Udii di nuovo il rumore, quando la porta cigolò, smossa dal vento. Pian piano cominciai a distinguere delle vaghe sagome all'interno: balle di paglia ammucchiate sul fondo, una sorta di vecchio aratro vicino a me. Qualcosa di non identificabile sulla parete opposta. Che cos'era? Mi feci più vicino. La porta si chiuse dietro di me e io allungai le braccia in avanti. Sotto i piedi sentivo della paglia umida. «Salve» ripetei con voce debole ed esitante, che sembrò galleggiare nell'aria. Ora percepivo un odore nelle narici, un odore di feci e urina. «Sono qui» dissi. «Sono qui.» Feci qualche altro passo in avanti su gambe deboli come pezzi di spago e oppresse dal peso del terrore che mi cresceva in petto. «Jo?» dissi. «Jo? Sono io, Abbie.» Era seduta su balle di paglia al fondo dell'edificio, una silhouette scura nell'aria buia. La tastai, sentii le sue spalle sottili sotto le mani. Mandava un odore acre, di paura, merda e sudore stantio. Sollevai le mani e sentii il cappuccio ruvido dove avrebbe dovuto esserci la testa. Stava emettendo dei deboli lamenti attraverso il cappuccio e il suo corpo sobbalzò, quando lo toccai. Le tastai la gola e sentii il cappio. Dietro la sua schiena avvertii una corda rigida e fredda, arrotolata intorno ai polsi e che proseguiva alle sue spalle, verso il muro. Quando la scossi violentemente, si tese, ma non cedette. Era stata legata come un cavallo. «Ssh» mormorai. «Non preoccuparti.» Un forte gemito provenne dal suo volto velato. «Non dibatterti, non fare niente. Farò tutto io. Ti libererò. Per favore, stai ferma.» Le tolsi il cappuccio. Le dita mi tremavano tanto che non riuscii a farlo subito, ma alla fine potei sfilarglielo da sopra la testa. Non fui in grado di vedere il suo viso al buio e i suoi capelli mi sembrarono un groviglio unto
sotto le dita. Aveva le guance ghiacciate e bagnate di lacrime. Continuava a produrre quella specie di suono acuto, da animale in trappola. «Sssh» sussurrai. «Stai zitta, per favore. Zitta. Sto cercando di liberarti.» Sciolsi il filo che aveva intorno alla gola. Sembrava attaccato al soffitto o qualcosa del genere, tanto che doveva tenere la testa piegata indietro. Poiché non riuscivo a vedere ciò che facevo, mi ci vollero secoli, e in un primo momento invece di slegarlo, lo strinsi di più. Sentivo distintamente il battito della sua gola. Continuavo a sussurrarle che sarebbe andato tutto bene, ma entrambe percepivamo il terrore trapelare dalla mia voce. Aveva le caviglie legate insieme, con molti giri di corda, così che i polpacci ne erano quasi del tutto avvolti. Ma slegarla fu più facile di quel che mi aspettassi. Le sue gambe furono presto libere e lei prese a dibatterle come una persona che sta per annegare e che cerca disperatamente di rimanere a galla. Il suo piede sinistro mi colpì allo stomaco e il destro mi arrivò sul gomito. Le misi le braccia intorno alle ginocchia, come un giocatore di rugby, e la tenni stretta. «Stai ferma» la pregai. «Sto facendo del mio meglio.» Poi trovai il nodo dietro la sua schiena. Da quel che potevo sentire, era molto stretto. Lo tirai e strattonai invano, spezzandomi le unghie, ma non cedette. Mi misi in ginocchio e affondai i denti nella corda, che sapeva di olio. Mi ritornò in mente il gusto oleoso, l'odore di piscio e merda, che ora sentivo nella stanza, sulla sua pelle, nelle mie narici. E l'odore della paura. E il modo in cui il cuore mi batteva contro il costato e il respiro che mi usciva ansimante e la bile che mi saliva in gola e il buio in ogni direzione... «Aspetta» dissi. «Voglio provare a sciogliere la corda dall'altro capo. Non preoccuparti, non me ne vado. Per favore, per favore, non fare quel rumore. Per l'amor del Cielo.» Seguii la corda dai suoi polsi al muro, dove era legata a ciò che sembrava un anello di ferro. Se solo avessi potuto vedere qualcosa. Mi tastai la tasca, nel caso vi fossero miracolosamente dei fiammiferi, un accendino, una cosa qualsiasi. Niente, ma ne trassi le vecchie chiavi della macchina. Affondai la punta della chiave nel rigonfiamento del nodo e cercai di mandarla sempre più in fondo, torcendola finché non avvertii che la corda dava un vago segno di cedimento. Avevo le dita rigide per il freddo. A un certo punto la chiave mi cadde e dovetti tastare il pavimento coperto di paglia per recuperarla; le dita rasparono sulla superficie scabra. La ragazza cominciò a emettere urla smorzate dal bavaglio e poi si alzò a metà e ricadde sulle balle.
«Sta' zitta» sibilai. «Zitta, zitta, zitta! Oh, merda, non tirare così la corda, non farai che stringere di più il nodo. Stai ferma! Lascia la corda molle. Oh, Cristo, per favore. Per favore!» Continuai a lavorare con la chiave. Sentivo il nodo allentarsi, pian piano, ma, mio Dio, ci volle molto tempo; moltissimo tempo. Il sudore mi imperlava la fronte e la rendeva appiccicosa. Avrei potuto scappare, pensai. Subito. Scappare e andare a chiamare aiuto. Perché diavolo non correvo in strada e non cominciavo a urlare? Potevo andare a martellare alle porte e cercare di fermare le automobili. Dovevo andarmene, immediatamente. Non dovevo assolutamente rimanere. La corda cedette un altro po'. «Ci siamo quasi» ansimai. «Ancora qualche minuto e sarai libera. Sssh, per favore.» Fatto! Mi alzai e le tolsi il bavaglio dalla bocca e le sfuggì un terribile gemito. «Jo?» sussurrai. «Sei Jo?» «Sono Sarah. Sarah. Aiutami, per favore. Oh, mio Dio, mio Dio, Dio. Diodiodiodio.» Rimasi senza fiato per la delusione, solo che non c'era tempo per questo. Non c'era altro da fare che fuggire. «Alzati!» La afferrai per gli avambracci. Si sollevò a metà, ricadendomi addosso per la debolezza. «Senti! Che cos'è?» dissi, ansimando. Fuori c'era qualcuno. Si sentivano dei passi per il cortile. Un rumore metallico in distanza. Spinsi Sarah sulle balle. Le rificcai il bavaglio in bocca, soffocando i gorgoglii che stava emettendo. Cominciò a lottare, ma debolmente. «Sarah! La nostra unica possibilità. Lasciami. Maledizione, lasciami. Sono qui, Sarah. Ti salverò. D'accordo?» I suoi occhi mi guardarono esitanti, terrorizzati. Trovai il cappio che mi penzolava sopra, come una gigantesca ragnatela, e glielo infilai sulla testa, stringendolo. I passi si avvicinavano. Le avvolsi la corda goffamente intorno alle gambe. I polsi. Dovevo trovare la corda. Mi chinai e la cercai con le mani sul pavimento sporco, finché non la trovai. Ora i passi erano più vicini. Una tosse sibilante. In fondo alla gola mi salì un urlo, che riuscii a inghiottire. Nausea. Il sangue che mi martellava i timpani. Cercai il cappuccio per terra e poi sulle balle accanto alla figura seduta, tremante, e quando lo trovai glielo infilai a forza sulla testa, sentendo il suo collo sussultare.
«Aspetta» sibilai, e mi precipitai sul lato opposto della stanza, dietro un oggetto metallico che mi si ficcò in uno stinco, il cuore che mi martellava così violentemente che di certo l'avrebbe udito, il respiro che mi usciva come singulti che avrebbe sentito non appena avesse sollevato il catenaccio, aperto la porta, messo il piede dentro l'edificio. Capitolo 28 Mi ero ritirata in un angolo in fondo, lontano dalla porta. Ero in ombra, dietro una macchina incomprensibile e arrugginita, un assemblaggio di ruote, catene e bulloni, che non sembravano collegati a nulla. Anche se avesse guardato nella mia direzione probabilmente non sarebbe riuscito a vedermi. Probabilmente. Questo era il problema. Mi tirai indietro il più possibile. Sentii il freddo umido del muro sul collo e sul cranio, attraverso i capelli corti. Era dentro. L'avevo trovato per caso. Provai un'opprimente, soffocante sensazione di nausea, mentre ripiombavo nel mio incubo. E poi, quando lo vidi, il mio primo pensiero fu: deve esserci un errore. Quando non era stato che una voce proveniente dall'oscurità, l'avevo immaginato enorme e potente, un mostro. Era stato il dio abominevole che mi puniva e mi premiava, mi nutriva e mi affamava e decideva se dovessi vivere o morire. Ora ne vedevo dei barlumi quando passava davanti alla luce. Un dettaglio di quando in quando, un cappotto rozzo, capelli grigi incolti, pettinati in modo da coprire il cranio quasi calvo. Potei vedergli il viso a malapena. Era in gran parte coperto da una sciarpa a fiori da donna. A un estraneo sarebbe potuta sembrare una protezione contro la polvere. Ma io sapevo che cos'era. Un modo per mascherare la voce. Entrò borbottando tra sé e sé, trasportando un secchio zincato, che sbatté a terra rumorosamente. Non riuscivo a mettere in relazione i miei ricordi con quell'uomo dinoccolato, male in arnese, insignificante. Sembrava il tizio che non si nota, quello che viene a lavare i vetri o a spazzare il pavimento. Si rivolse a Sarah come se fosse un maiale un po' fastidioso che bisognava pulire. «Come va?» disse, sistemando cose intorno a lei in modi che non riuscivo a vedere. «Scusa se sono stato via a lungo. Ho avuto da fare. Ma ora rimarrò qui un po'. Mi sono preso del tempo per te.» Uscì e per un folle momento pensai di fuggire. Ma quasi subito ritornò con qualcosa che mise a terra rumorosamente. Sembrava una scatola di attrezzi. Andava e veniva, andava e veniva, portando e trascinando dentro
oggetti dal cortile. Molti di essi erano celati dal buio, ma riuscii a intravedere una lanterna spenta, una saldatrice e dei sacchetti vuoti di vinile, del tipo che si usa per riporci le attrezzature sportive. E io non potevo che rimanere accucciata al buio, cercando di non muovermi, di non respirare. La paglia frusciava contro i miei piedi quando cambiavo posizione. Inghiottivo la saliva rumorosamente. Riusciva a sentire i battiti tonanti del mio cuore, il frenetico scorrere del mio sangue, l'urlo che mi premeva in gola? In una delle sue brevi assenze misi la mano in tasca e la chiusi intorno al cellulare di Ben. Silenziosamente, molto lentamente, lo tirai fuori e me lo portai vicino al viso. Lo avvolsi con la mano e premetti un tasto per illuminare il piccolo schermo. Ci fu un minuscolo bip, come uno scampanellio. L'aveva sentito? Non avevo alcuna possibilità di parlare, ma sarei riuscita a mandare un messaggio o a fare il 999? Guardai lo schermo. Come faceva a non vedere quella lucina nel buio? In alto, sul lato destro, c'erano tre lineette spezzate, che indicavano che la batteria era quasi completamente carica. Sul lato sinistro ci sarebbero dovuti essere quattro fiori, o quattro coppe, una sull'altra, per indicare la ricezione. Ma ce n'era solo una: non c'era ricezione. Non avevo possibilità né di fare né di ricevere una chiamata. Feci scivolare il telefono di nuovo in tasca. Avrei voluto piangere, maledire, strofinare le unghie sulla pietra. Non appena avevo trovato Sarah, sarei dovuta uscire e andare a chiedere aiuto. Sarebbe stato molto semplice. Invece, avevo seguito me stessa e mi ero cacciata di nuovo in trappola. Ero una incosciente e una sventurata. Gli lanciai uno sguardo, una sagoma disegnata sulla debole luce proveniente dall'esterno. Passai in rassegna le opzioni che avevo. Avrei potuto raggiungere la porta di corsa e cercare di fuggire per andare a chiedere aiuto. Ma non avrei avuto molte speranze di riuscita. Lui stava accanto alla porta. Anche con il vantaggio della sorpresa, non sarebbe stato facile. Avrei potuto attaccarlo, colpirlo forte alla testa. Ma sarei riuscita ad avvicinarmi senza che mi sentisse? Sarei riuscita a coglierlo di sorpresa? Non mi sembrava probabile. No, la mia unica possibilità era aspettare e sperare che se ne andasse e mi lasciasse il campo libero. Questo pensiero, di dover rimanere in silenzio nell'ombra, mi fece venir voglia di stendermi sul freddo pavimento e mettermi a piangere. Mi sentivo così stanca. Avevo voglia di dormire. Forse non volevo morire, ma ero vicina a provare il desiderio di essere morta. Almeno i morti sono liberi dal dolore e dalla paura. Che senso aveva cercare di combatterla?
E poi, quasi senza che me ne rendessi conto, cominciai a provare dei sentimenti diversi. Guardandolo mentre si dava da fare con indifferenza intorno a quella povera ragazza legata sulle balle di paglia, mi sembrò di vedere me stessa. Mi ricordai dei giorni in cui ero stata io con il cappio intorno al collo e il cappuccio sul viso. Ero stata là, con le dita dei piedi sull'orlo dell'abisso, ad aspettare di essere macellata, e mi ricordavo che cosa avevo provato. Avevo abbandonato tutte le speranze di sopravvivere. Ciò che avevo chiesto in preghiera era la possibilità di avventarmi contro di lui, di cavargli un occhio, di graffiarlo, di fargli male in qualche modo, prima di morire. Ora mi veniva data quell'opportunità. Non sarei riuscita a batterlo. Sarebbe stato chiedere troppo. Ma se mi avesse trovata, perlomeno gli avrei fatto del male. Avevo bisogno di un'arma. Provai una punta di rammarico. Avrei dato qualsiasi cosa per un coltello da cucina o una bomboletta spray. Poi decisi di non pensarci. Ero lì. Non avevo niente. Qualsiasi oggetto avessi trovato, sarebbe già stato qualcosa. Mi accucciai e cominciai a tastare tutt'intorno al buio, muovendomi molto piano e pregando di non far cadere nulla. Con la mano destra toccai una cosa fredda. Un barattolo che, dalle dimensioni, sembrava di vernice. Lo spinsi per prova. Era vuoto, non mi sarebbe servito a niente. Lì vicino le dita mi si chiusero intorno a un manico. Era più promettente, ma si rivelò un pennello con le setole rigide, appiccicate. Non c'era nient'altro. Non uno scalpello, un cacciavite, un'asta d'acciaio. Niente da poter usare come arma. Mi alzai di nuovo, sentendo le ginocchia scricchiolare. Come faceva a non udirmi? Dovevo aspettare che se ne andasse. Poi sarei uscita e avrei chiamato la polizia. Per liberare Sarah. L'uomo stava sistemando alcuni oggetti. Non riuscivo a vedere esattamente che cosa stesse facendo, ma lo sentivo borbottare tra sé e sé. Mi fece pensare a mio padre nel fine settimana, l'unico momento felice della sua vita, quando riparava lo steccato del giardino, dipingeva il telaio di una finestra, montava una mensola. L'uomo stava slegando il cappio intorno al collo di Sarah. Ah, ecco, il secchio. La figura incappucciata fu spinta in avanti, i pantaloni tirati giù; si accovacciò sul secchio, le mani di lui intorno al collo. Udii il rumore di schizzi nel secchio. «Ben fatto, bellezza» mormorò l'uomo, ritirandole su i pantaloni. Con l'indifferenza di una lunga esperienza le riavvolse il cappio intorno al collo, rendendola nuovamente impotente, ma con una sorta di tenerezza. Mi sembrava che Sarah gli piacesse più di me. Non mi aveva mai chiamata
bellezza. Il suo linguaggio era sempre stato ostile nei miei confronti, distruttivo. «Sei dimagrita» disse. «Penso che siamo pronti. Sei incantevole, Sarah. Incantevole. Non come le altre.» Si tirò indietro per contemplarla. Udii un rumore metallico, stridente, e un barlume di luce. Aveva acceso la lanterna. La luce si diffuse per la stanza e io mi appiattii dietro il macchinario. Continuava a esaminare Sarah con mormoni di approvazione, tastandole le braccia nude, passandoci sopra le dita, nello stesso modo in cui si tasterebbe un cavallo per controllare che gli sia passata la febbre. Posò la lanterna sul pavimento. Sollevò le braccia e si portò le mani dietro la testa. Sembrava che si fosse appena svegliato, che stesse sbadigliando e stiracchiandosi, poi vidi che si slacciava la sciarpa. Gli ci vollero alcune manovre complicate per disfare il nodo stretto, poi se la levò e, per la prima volta, alla tremolante luce arancione, lo vidi in viso. Un viso per me insignificante. Non lo riconobbi. Non lo conoscevo. Infine, improvvisamente e stranamente, fu come se l'obiettivo ruotasse leggermente, mettendo tutto a fuoco. I bordi divennero netti e precisi, anche alla luce tremolante della lanterna. Sentii che la febbre mi abbandonava. E anche la paura. Ciò che avevo desiderato era sapere, e ora sapevo. Anche i pensieri mi si schiarirono, divennero nitidi. Non ricordavo. La memoria non mi era ritornata. La vista del suo volto scialbo non mi diceva nulla. Ma sapevo quel che mi occorreva sapere. Avevo pensato che fosse colpa mia. Mi ero sentita fottuta, con quello stupido lavoro, quella relazione disastrosa, e avevo creduto e immaginato e temuto che lui - l'uomo che mi stava davanti - avesse riconosciuto in me tutto questo. Stavo andando verso il disastro e avevo pensato di essermelo cercato io stessa. Avevo supposto che lui l'avesse capito, che fossimo fatti l'uno per l'altra, che avessimo avuto bisogno l'uno dell'altra. Mi ero immaginata di aver voluto essere distrutta. Ora sapevo che non era vero. Forse ero stata sconsiderata, un po' folle, sconvolta, ma nelle sue grinfie c'ero finita per caso. O forse no. Non l'avrei mai saputo per certo, ma immaginavo che fosse stata Jo a incontrarlo, Jo che era ansiosa, vulnerabile, disperata, una vittima perfetta per lui. Io mi ero preoccupata per lei e avevo cercato di rintracciarla e l'avevo incontrato a mia volta. Quell'omuncolo patetico non aveva niente a che fare con la mia vita. Era la meteora che mi era caduta sulla testa. Il terremoto che aveva aperto uno squarcio sotto i miei piedi. E la cosa più strana era proprio
questa: che là, rannicchiata al buio e sapendo di trovarmi in trappola, sentivo di essermi liberata di lui. Non ricordavo quel che era accaduto. Non ci sarei mai riuscita. Ma ora sapevo a grandi linee quel che era successo in quelle settimane passate. Ero stata là fuori, nella vita accanto, e poi, per errore, ero capitata nel suo territorio, ero diventata parte del suo hobby. Che cosa si dice del combattimento? Avevo letto, o sentito dire, che il vincitore era colui che sferrava il primo colpo. Intuivo quel che poteva essere avvenuto. Stavo cercando Jo. Quest'uomo, quest'essere assai poco memorabile, faceva parte dello sfondo, del mobilio. Poi improvvisamente era balzato in primo piano. Mi aveva trascinata fuori dal mio mondo e portata nel suo. Che non aveva nulla a che fare con il mio, se non che lui mi ci avrebbe fatta morire. Immaginai di essere stata presa di sorpresa da questo tizio che non avevo quasi notato e di aver reagito troppo tardi. Di essere stata sbattuta con la testa contro il muro o presa a bastonate. Mi sforzai di pensare: se dovesse vedermi, che cosa potrei fare? Cercai di ricordare quel che mi aveva fatto. Mi si ripresentarono tutti i terribili ricordi che per settimane avevo tentato di sopprimere. Erano come un dente irreparabilmente infiammato, marcio, infetto, intorno al quale spingevo la lingua con forza per richiamare alla mente il dolore. E poi guardai quell'uomo, che si dava da fare intorno a Sarah come se fosse una pecora da mettere nell'ovile; le dava delle pacche, le mormorava frasi affettuose, preparava gli strumenti. Era allo stesso tempo l'amante paziente e attento e il macellaio indaffarato e freddo. A quanto pareva lei oppose resistenza, perché le diede un piccolo schiaffo. «Che cosa c'è, amor mio?» disse. Dal cappuccio dovette uscire un gemito, ma non riuscii a udirlo. «Ti faccio male? Che cosa c'è? Che cosa? Aspetta un momento, amore.» Udii il suo respiro. Sì, ricordavo quel respiro roco, mentre cercava di sciogliere il bavaglio. «Che cosa c'è? Hai cercato di liberarti?» Lei tossì, quando venne liberata dal bavaglio; tossì ed emise un sospiro di sollievo. «Ecco, cara, attenta al collo.» «Stavo soffocando» disse. «Pensavo di morire.» «Tutto qui?» «No, no.»
Cominciai ad avere un sospetto, che si allargò come una macchia. Sapevo che cosa sarebbe successo e non avevo paura. Ero già morta. Non mi importava. «Allora, che cosa c'è?» «Non voglio morire. Farò qualsiasi cosa pur di rimanere in vita.» «Stupida puttanella. Te l'ho detto. Non voglio niente. Non hanno pagato il riscatto. Te l'ho detto? Non hanno pagato il riscatto. E sai perché? Perché non l'ho chiesto. Ah, ah, ah.» Rise alla propria battuta. «Se ti dico una cosa... una cosa molto importante, mi lascerai andare?» «Che cosa?» «Ma mi lascerai?» Ci furono alcuni secondi di silenzio. Sembrava preoccupato. «Dimmela prima» rispose con un tono più dolce. Sarah non parlò. Emise solo un singulto. «Maledizione, dimmela.» «Prometti? Prometti di lasciarmi vivere?» «Dimmela prima. Poi ti lascerò andare.» Una lunga pausa. Potevo contare gli ansiti di Sarah, mentre aspettavo di sentire quel che sapevo avrebbe detto. «C'è qualcuno qui. Ora lasciami andare.» «Che diavolo?» Si alzò e si guardò intorno nello stesso momento in cui mi alzai anch'io e avanzai verso di lui, fuori dall'ombra. Avevo pensato di andargli contro a precipizio, ma non sarebbe servito. Era a circa dieci metri di distanza. Aveva troppo tempo. Guardai la porta, dietro di lui. Sembrava fosse sulla luna. Socchiuse gli occhi nello sforzo di distinguermi nell'oscurità del fondo della stanza, lontano dalla porta. «Tu?» disse, la bocca aperta per lo stupore. «Abbie. Come diavolo...» Feci un passo verso di lui. Non guardai Sarah. Guardavo lui diritto negli occhi. «Ti ho trovato. Volevo trovarti. Non riuscivo a stare lontana.» «Ti stavo cercando, maledizione» disse. Si guardò intorno, palesemente sconcertato. C'era qualcun altro? «Sono da sola.» Gli mostrai le mani. «Guarda, non ho niente.» «Che cosa diavolo ci fai qui? Ti ho presa, adesso. Sei scappata, maledizione, ma ti ho presa.» Sorrisi. Mi sentivo calma. Non mi importava di nulla. Ripensai ai giorni passati al buio. La lingua batté sul dente marcio. Ricordare. Rivivere.
«Che cosa significa "ti ho presa"?» dissi. «Sono ritornata. Volevo ritornare.» «Te ne pentirai. Te ne pentirai amaramente.» Feci un altro passo in avanti. «Che cosa vuoi da lei? Vi ho sentiti.» Ancora un passo. Ora eravamo solo a pochi metri di distanza. «Ti ho sentito chiamarla amore. Avrei voluto essere al suo posto. Non è buffo?» Sembrò sospettoso. «Non è buffo» ribatté. Un passo ancora. «Mi sei mancato.» «Te ne sei andata via.» «Avevo paura. Ma dopo ci ho ripensato. Mi capivi. Mi dominavi. Nessuno mi ha mai capita come te. Voglio capirti anch'io.» Sorrise. «Sei pazza.» «Non importa. Sono qui, nelle tue mani. C'è solo una cosa.» Un altro passo in avanti. Eravamo molto vicini ora. «Che cosa?» «Tutto quel tempo, in cui siamo stati insieme, eri solo una voce nel buio, che badava a me, che mi nutriva. Pensavo a te in continuazione, mi chiedevo come fossi. Mi permetti di baciarti solo una volta?» Portai il viso vicino al suo. Aveva un odore cattivo. Qualcosa di dolce e chimico. «Soltanto una volta. Non avrà importanza.» Da vicino era un volto così ordinario. Non aveva nulla di spaventoso. Nulla di speciale. «Guardami» dissi, tendendo le mani, aperte e vuote. «Sono qui, davanti a te. Solo una volta.» Mentre mi piegavo, pensai a lui non come a un uomo, ma come a un muso di pecora. Questo fu importante. Immaginai il muso di una pecora morta tagliato dal corpo. «Solo un bacio. Siamo due persone sole. Così sole. Soltanto uno.» Appoggiai dolcemente le labbra sulle sue. Quasi. Quasi. Lentamente. «Ho aspettato tanto questo momento.» Un altro bacio. Gli misi le mani sul viso, toccandoglielo leggermente di lato con le palme. Aspetta. Aspetta. Il muso di una pecora morta. La lingua sul dente marcio. Il mio viso si spostò indietro. Lo guardai pensosamente e poi gli infilai i pollici negli occhi. Erano solo gli occhi nel cranio di una pecora morta. Una pecora morta che mi aveva tenuta chiusa al buio e mi aveva torturata. Sapevo di avere le unghie lunghe ai pollici. Mi afferrai ai lati del suo viso con le altre dita, come artigli, e gli affondai le unghie negli occhi, guardando con interesse i pollici che si bagnavano di un liquido acquoso striato di giallo, come pus. Pensai che mi afferrasse, che mi uccidesse. Che mi facesse a pezzi. Non mi toccò neppure. Riuscii a indietreggiare e a tirar fuori i pollici bagnati.
Uno strano urlo gli uscì dal profondo, un ululato, si portò le mani al viso, e intanto si piegava e si accasciava sul pavimento, dibattendosi, farfugliando e gemendo. Feci un passo indietro, fuori dalla portata di quella creatura simile a una larva, che si contorceva e gridava a terra. Presi un fazzoletto di carta dalla tasca e mi pulii i pollici. Feci qualche respiro profondo, riempiendomi i polmoni. Mi sembrava di essere un nuotatore sul punto di annegare che era riuscito a emergere in superficie e stava respirando la meravigliosa aria portatrice di vita. Capitolo 29 C'era ancora la luna, e c'erano le stelle. E c'era ghiaccio su tutte le superfici, che mandava bagliori nella semioscurità. Un mondo di ghiaccio, neve e immobilità. Il freddo mi colpì il viso. Inspirai profondamente, e sentii l'aria pulita entrarmi in bocca e scendermi in gola. Espirai e guardai il mio fiato avvolgersi nell'aria. «Oh-oh-ohhh, nu-nu.» Sarah emise un suono animalesco, un pietoso e acuto intrico di sillabe. Non riuscii a distinguere le parole. Le cinsi fermamente le spalle con un braccio per sorreggerla, e lei si aggrappò a me, gemendo. Il suo corpo sembrava minuscolo contro il mio e mi chiesi quanti anni avesse. Sembrava una bimba piagnucolosa e sporca. Mi appoggiò la testa sul petto e io sentii l'odore acre dei capelli unti e del sudore. Misi la mano nella tasca della giacca e tirai fuori il cellulare di Ben. Il campo era appena sufficiente. Chiamai il 999. «Che servizio desidera?» mi domandò una voce femminile. Per un momento rimasi sconcertata. Mi servivano tutti, a dir la verità, a eccezione dei vigili del fuoco. Risposi che c'erano dei feriti ed era stato commesso un grave reato. Avremmo avuto bisogno di due ambulanze e anche della polizia. Rimisi in tasca il telefono e guardai Sarah; il suo volto piccolo, leggermente piatto, era bianco come uno spettro, con delle macchie sulla fronte e la bocca gonfia. Aveva le labbra tirate indietro in un ringhio silenzioso, terrorizzato. Sembrava un animale in trappola. Le vidi un livido sul collo, dove c'era stato il cappio. Tremava in tutto il corpo. Aveva addosso solo una maglietta e dei pantaloni di cotone, calze spesse ma niente scarpe. «Tieni.» Mi tolsi la giacca imbottita e gliela avvolsi intorno alle spalle. Tirai su il colletto in modo da proteggerle il viso dall'aria. «Hai addosso la
mia maglietta» dissi, e la cinsi con un braccio. Un suono uscì dal suo corpo tremante. Non riuscii a capire che cosa stesse dicendo. «Arriveranno presto» la rincuorai. «Ora sei al sicuro.» «Scusascusascusa.» «Oh, stai tranquilla.» «Non ero io. Non io. Pazza. Pensavo che sarei morta.» Cominciò a piangere. «Sapevo che stavo per morire. Ero pazza.» «Sì» dissi. «Anch'io sono stata pazza in quel modo. Ma non lo sono più.» Le luci blu e le sirene arrivarono dalla collinetta. Due ambulanze e due macchine della polizia. Portiere si aprirono. Gente saltò giù e ci venne incontro di corsa. Visi ci guardarono, mani ci separarono. Barelle furono posate a terra. Mandai un paio di persone dentro l'edificio. Sentivo Sarah accanto a me che non faceva che singhiozzare, finché i singhiozzi non si trasformarono in un suono gutturale, come un conato di vomito. Udii delle voci confortanti. La parola «mamma» emerse nel balbettio. «Dov'è la mamma?» Una coperta mi fu avvolta sulle spalle. «Sto benissimo» dissi. «Si stenda qua.» «Posso camminare.» Si sentirono delle urla provenire dall'interno. Uno degli uomini in camice verde venne fuori di corsa e bisbigliò qualcosa a un giovane poliziotto. «Gesù Cristo» disse questi e mi lanciò uno sguardo severo. «È un assassino» spiegai. «Un assassino?» «Ma non corriamo pericoli. Non può vedere. Non è più pericoloso.» «Salga sull'ambulanza, cara» mi disse una voce con tono suadente, come se fossi isterica per lo shock. «Dovreste chiamare l'ispettore Jack Cross» continuai. «Sono Abigail Devereaux. Abbie. Gli ho cavato gli occhi. Non mi potrà mai più guardare.» Portarono via Sarah per prima. Io salii sulla seconda ambulanza, ancora avvolta nella coperta. Due persone salirono con me, un infermiere e una poliziotta. Da qualche parte alle mie spalle udii un clamore crescente, voci
che urlavano con urgenza, il suono di una terza ambulanza in arrivo. Ma non dovevo più occuparmene. Mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi, non perché fossi stanca - non lo ero, mi sentivo molto lucida, come dopo aver dormito a lungo - ma per non vedere né sentire le luci e il rumore intorno a me e per bloccare tutte le domande. Finalmente, ero pulita e calda. Mi ero fatta lo shampoo e strigliata ben bene la pelle, mi ero tagliata le unghie delle mani e dei piedi molto corte. Mi ero lavata i denti tre volte, poi me li ero sciacquati con un collutorio verde che mi aveva profumato l'alito di menta fino ai polmoni. Mi sedetti sul letto, con addosso un'assurda camicia da notte rosa, coperta da rigide lenzuola pulite e strati di coperte ruvide, bevvi tè e mangiai pane tostato. Tre tazze di tè zuccherato bollente e un pezzo di pane tostato, bianco e molliccio, con sopra del burro. O più probabilmente margarina. In ospedale non hanno il burro. Sul mio armadietto c'erano dei narcisi in una brocca di plastica. Ospedale diverso, camera diversa, vista diversa, infermiere diverse che andavano e venivano con termometri, padelle e carrelli, medici differenti con le cartelle cliniche e i volti stanchi, nuovi poliziotti che mi lanciavano occhiate nervose e poi guardavano altrove. Lo stesso, vecchio Jack Cross, però, ingobbito sulla sedia come un invalido, con la mano sulla guancia come se avesse mal di denti, e lo sguardo fisso su di me come se gli facessi paura. «Salve» dissi. «Abbie...» cominciò, e si interruppe, spostando la mano in modo da coprirsi la bocca con le dita. Aspettai e alla fine fece un altro tentativo. «Sta bene?» «Sì.» «I medici hanno detto...» «Sto bene. Vogliono solo tenermi sotto osservazione per un paio di giorni.» «Non mi sorprende. Non so da dove cominciare. Io...» Cambiò posizione sulla sedia e si fregò gli occhi. Poi si raddrizzò e fece un profondo respiro. Mi guardò dritto negli occhi. «Abbiamo sbagliato. Non ci sono giustificazioni.» Vidi che pensava di elencare tutte le ragioni e le scuse, ma si trattenne. Bene. «Non riesco a credere che abbia fatto una cosa del genere.» Si accasciò di nuovo sulla sedia e si riprese il viso tra le mani. «Che maledetto casino dal principio alla fine. Ci può mandare tutti in tribunale e
farci uscire in brache di tela, lo sa?» «È morto?» «È in camera di rianimazione.» «Oh.» «Sa che cosa gli ha fatto?» «Sì.» «Gli occhi.» Lo disse in un sussurro. Non capii se mi guardasse con ammirazione od orrore e disgusto. «Glieli ha conficcati nel cervello, maledizione.» «Con i pollici.» «Ma, Gesù, Abbie, deve essere...» «Non avevo nient'altro.» «Farà una deposizione ufficiale in seguito.» «Naturalmente. Come sta Sarah?» «Sarah Maginnis è sotto shock, denutrita. Come era lei. Si riprenderà. Vuole vederla?» Riflettei un istante. «No.» «È molto dispiaciuta, Abbie.» «Gliel'ha detto?» «Non riesce a parlare d'altro.» Scrollai le spalle. «Forse sono stata fortunata. Stava per ucciderla. Si era tolto la sciarpa dal volto. Non so che cosa avrei fatto al suo posto. Non so se sarei rimasta lì a guardarlo mentre lo faceva. Nessuno mi avrebbe biasimata, vero? La povera Abbie traumatizzata.» «Non credo che sarebbe rimasta lì.» «Ci sono notizie di Jo? Ha detto niente?» «Credo che non sarà in grado di parlare per un pezzo. Stiamo cominciando le indagini sulla scomparsa della signorina Hooper.» «Siete arrivati troppo tardi.» Sollevò le mani, ma poi le lasciò ricadere sulle ginocchia. Rimanemmo in silenzio per alcuni minuti. Un'infermiera entrò a dire che avevano lasciato dei fiori per me all'ingresso. Posò un mazzo umido di anemoni sul mio comodino. Li presi e li annusai. Sapevano di fresco; i petali erano cosparsi di goccioline d'acqua. Li rimisi sul comodino. Il volto di Cross era grigio per la fatica. «Mi dica quel che sa di lui.» «Abbiamo appena cominciato. Si chiama George Ronald Sheppy. Cin-
quantun anni. L'unica condanna che ha avuto è stata per crudeltà verso gli animali, anni fa. È stato solo ammonito. Non sappiamo molto di più. Abbiamo parlato con qualche vicino. Faceva dei lavoretti occasionali, qui e là. Sgomberi, riparazioni, guidava il camion. Non sembra un granché, a dir la verità.» «E le altre donne?» «Gli altri nomi» disse Cross. «Continueremo a indagare, naturalmente, soprattutto ora. Controlleremo le persone scomparse nelle zone in cui lavorava. Forse quando sapremo di più...» Scrollò le spalle con aria poco ottimista. «Quel che sto cercando di dire è che non ci si deve aspettare molto.» Così i nomi erano ancora solo sillabe che mi erano state ripetute al buio. «Vede qualcuno?» mi chiese. «Vari medici, ma sto bene.» «No, voglio dire, qualcuno che la aiuti. Con cui parlare. Dopo quel che ha passato.» «Non ho bisogno di aiuto.» «Abbie, sono stato là dentro, ho visto com'era ridotto quell'uomo.» «Si aspetta che sia traumatizzata?» «Be'...» «Gli ho cavato gli occhi.» Allungai le mani davanti a me e mi guardai le dita. «Gli ho messo i pollici contro gli occhi e glieli ho ficcati dentro. Non è un trauma. Il trauma è stato essere rapita. Il trauma è stato essere tenuta prigioniera in una cantina con un cappuccio sulla testa e un bavaglio in bocca, con occhi che mi guardavano nel buio, mani che mi toccavano nel buio. Questo è stato un trauma. Sapere che sarei morta e che nessuno sarebbe venuto ad aiutarmi. Questo è stato un trauma. Scappare e scoprire che nessuno mi credeva. Questo è stato un trauma. Essere di nuovo in pericolo, quando avrei dovuto sentirmi al sicuro. Questo è stato un trauma. Non quello. Quello è stato un atto di sopravvivenza. È stata la voglia di vivere. No, non penso di aver ancora bisogno di aiuto. Grazie.» Si era piegato all'indietro, mentre parlavo, come se lo stessi prendendo a pugni. Quando finii il mio discorso, annuì e se ne andò. Ben venne all'ora di pranzo, la sua ora di pranzo, cioè. Il pranzo all'ospedale era servito alle undici e mezzo circa. La cena alle cinque. Poi il pomeriggio si stiracchiava fino alla sera e la notte fino al mattino successivo. Si piegò su di me per baciarmi goffamente sulla guancia con le labbra fredde. Aveva il suo bel cappotto floscio.
Mi porse una scatola di cioccolatini, che io presi e misi sul cuscino. Si sedette e ci guardammo. «Ho portato anche questo» disse e tirò fuori dalla tasca un oggetto ovale, liscio, di legno. Era color miele, con venature più scure. «Carpino. Un legno speciale. L'ho fatto per te la notte scorsa al laboratorio, quando ti aspettavo e speravo che ritornassi.» Lo racchiusi nel pugno. «È bellissimo. Grazie.» «Vuoi parlarne?» «Veramente no.» «Hai ricordato niente?» «No.» Ci fu silenzio tra noi. «Mi dispiace per Jo» aggiunsi. «È morta.» «Non è detto. Non è certo.» «È morta, Ben.» Si alzò e andò a guardare il cielo blu sopra i tetti dalla piccola finestra chiusa. Ci rimase per parecchi minuti. Probabilmente a piangere. «Abbie» disse alla fine, voltandosi di nuovo verso il letto. «Ero fuori di me per la preoccupazione. Volevo aiutarti. Non volevo lasciarti sola. Qualsiasi cosa tu abbia pensato di me e Jo, non dovevi scappare in quel modo, come se pensassi che fossi io l'assassino o qualcosa del genere. So che eri arrabbiata con me. Lo capisco. Ma avresti potuto morire. E non era giusto, Abbie. Non hai fatto bene.» «Ben...» «D'accordo, d'accordo... Mi dispiace per me e Jo, perlomeno mi dispiace che tu l'abbia scoperto in questo modo. Non sto dicendo che mi spiace di aver avuto una relazione con lei. È una cosa diversa e, se vorrai, un giorno te ne parlerò. Abbiamo iniziato dalla fine, noi due, abbiamo fatto le cose a rovescio. Il nostro rapporto non è proceduto nell'ordine consueto, vero? Nel normale corso delle cose, ci saremmo conosciuti e pian piano ci saremmo fatti le nostre confessioni. Invece noi quasi non ci conoscevamo ancora e tu già stavi a casa mia e temevi per la tua vita, e tutto era terribilmente importante e fragile. Non volevo cominciare la relazione mettendo subito tutte le carte in tavola. Avevo paura di perderti di nuovo.» «Così invece hai cominciato la nostra relazione con una menzogna.» «Non era una menzogna.» «Non tecnicamente. Moralmente.» «Mi dispiace averti mentito.» Si sedette di nuovo accanto a me e sollevai
la mano per accarezzargli i bei capelli soffici. «E a me dispiace tanto di esser fuggita via in quel modo» risposi. «Prendi un cioccolatino.» «No, grazie.» Io ne mangiai uno. Al caramello. «Ci sono parole, ora, che per me hanno un significato diverso che per te. Buio. Silenzio. Inverno.» Presi un altro cioccolatino. «Memoria» aggiunsi e misi il cioccolatino in bocca. Ben mi prese la mano, quella che non teneva chiuso in pugno il suo uovo di legno. Se la portò al viso. «Ti amo» disse. «Penso di essere stata matta per un po'. Ma ora è finita.» «Sembri diversa. Sei bellissima.» «Mi sento diversa.» «Che cosa farai adesso?» «Devo guadagnare dei soldi. Mi farò ricrescere i capelli. Andrò a Venezia.» «Vuoi ritornare da me?» «Ben...» «Mi farebbe piacere.» «No. Voglio dire, no, non penso che ti farebbe piacere anche se sei gentile a chiedermelo. E no, non verrò.» «Capisco.» Mi rimise la mano sul letto e mi lisciò le dita, una per una, senza guardarmi. «Puoi chiedermi di uscire con te. Possiamo andare al cinema. A prendere un aperitivo. A mangiare buone cenette al ristorante.» Cominciò a sorridermi, ansioso e incerto. E questo conferì un'espressione particolare ai suoi occhi. Era un uomo carino, veramente. Avevo inventato tutto il resto. «Sta arrivando la primavera» osservai. «Non si sa mai che cosa possa succedere.» Un'altra persona venne a trovarmi. Be', ovviamente ne vennero molte. Gli amici, singolarmente o in gruppi, portando fiori, imbarazzati, in lacrime, o ridacchiando. Strinsi a me tante di quelle persone che alla fine mi dolevano le costole. Era come se nella mia camera ci fosse un party continuo. Come quello che avevo pensato di organizzare la prima volta che ero ritornata dalla morte, solo per entrare di nuovo in un mondo di silenzio e vergogna.
Ma ora scoprivo di essere un'estranea alla mia festa, un'estranea che stava a osservare, rideva, ma non si divertiva veramente alle battute. Venne, dunque, anche un'altra persona. Bussò alla porta, benché fosse semiaperta, e rimase sulla soglia finché non gli dissi di entrare. «Non so se si ricorda di me» disse. «Sono...» «Certo che mi ricordo di lei. Mi ha detto che avevo un cervello che funzionava molto bene. Lei è il professor Mulligan, l'uomo della memoria, l'unica persona che veramente voglio vedere.» «Non ho portato fiori.» «Ha fatto bene, perché esco questo pomeriggio.» «Come sta?» «Ottimamente.» «Bene.» Mi ricordai dalla volta precedente il senso di approvazione che manifestava. Mi fece sentire bene. «Jack Cross mi ha detto che lei era dalla mia parte.» «Be'...» fece un gesto vago nell'aria con la mano. «Ha lasciato la riunione.» «Non è servito a molto. Mi dica, le è tornata la memoria?» «No. Non proprio. A volte avverto qualcosa, ai margini della coscienza, ma non riesco a catturare quella sensazione e appena mi giro svanisce. E a volte ho l'impressione che il tempo perduto sia come una marea che mi abbia sommerso e che ora stia ritirandosi. Ma lo fa così lentamente che non riesco quasi a percepirlo e forse lo sto solo immaginando. Magari, pian piano, la memoria ritornerà. Pensa che sia possibile?» Si protese in avanti e mi guardò. «Non ci conti. Tutto è possibile, ma è un mistero.» «A lungo ho creduto che alla fine ci sarebbe stata una risposta. Ho pensato che se l'avessi visto avrei ricordato. Ho pensato che avrei ritrovato le cose perdute. Ma non succederà, vero?» «Che cosa voleva trovare?» «Volevo trovare me stessa.» «Ah. Bene, allora.» «Non recupererò più quella parte di me che ho perso, vero?» Il professor Mulligan prese uno dei fiori e lo annusò. Poi spezzò il gambo e se lo mise all'occhiello. «Le spiace?» disse. Sorrisi e scossi il capo. «Cerchi di non soffermarsi su ciò che non ricorda. Pensi a ciò che ricorda.»
Le cose che non ricordo. Le conto sulle dita: aver lasciato Terry, aver incontrato Jo, l'inizio della mia relazione con Ben, aver incontrato l'assassino. Penso ancora a lui come a un essere senza nome, solo un «lui», un tizio, una sagoma indistinta, una voce nel buio. Non ricordo di essermi innamorata. Non ricordo quei giorni di intensa felicità, né di essere stata strappata alla mia vita. Non ricordo di essermi persa. Le cose che ricordo: un cappuccio sulla testa, un cappio al collo, un bavaglio alla bocca, un singhiozzo in gola, una voce nella notte, una risata al buio, mani invisibili che mi toccavano, occhi che mi guardavano, terrore, solitudine, pazzia, vergogna. Mi ricordo di morire e di essere morta. E ricordo il martellare del mio cuore, il rumore del mio respiro, la farfalla gialla sulla foglia verde, l'albero d'argento sulla collinetta, il fiume calmo, il lago limpido: cose che non ho visto e che non dimenticherò mai. Di essere viva. Questo lo ricordo. FINE