Laurell K. Hamilton
Un Soffio di Gelo
Titolo originale A Lick of Frost 2007 Traduzione di Gianluigi Zuddas ISBN 97888...
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Laurell K. Hamilton
Un Soffio di Gelo
Titolo originale A Lick of Frost 2007 Traduzione di Gianluigi Zuddas ISBN 9788842917007
Capitolo 1 † Sedevo in un'elegante sala riunioni, all'ultimo piano di uno degli scintillanti grattacieli del centro di Los Angeles. La parete esterna era quasi interamente in vetro, e offriva un panorama così esteso da far venire un attacco di agorafobia. Dicono che quando Quello Grosso, cioè il terremoto più grosso, colpirà, il centro di L.A. sarà coperto da uno strato di vetri rotti alto da tre a cinque metri. Tutto quello che c'è nelle strade intorno ai grattacieli sarà fatto a brandelli, schiacciato o intrappolato sotto una valanga di vetro. Non era un pensiero divertente, ma quel giorno riuscivo ad avere soltanto pensieri foschi. Mio zio Taranis, il re della Luce e delle Illusioni, aveva sporto denuncia nei confronti di tre delle mie guardie del corpo. Si era rivolto alle autorità umane con l'accusa che Rhys, Galen e Abe avevano violentato una donna della sua Corte. Nella millenaria storia del suo regno alla Corte Seelie, lui non era mai uscito nel mondo umano per questioni di giustizia. Governo di Faerie, leggi di Faerie. O più esattamente: governo dei sidhe, leggi dei sidhe. I sidhe governano Faerie da più tempo di quanto chiunque possa ricordare, e dal momento che questi ricordi risalgono a migliaia d'anni fa può darsi che i sidhe siano al potere da sempre, ma affermarlo potrebbe essere una menzogna. E per il sidhe che mente c'è la cacciata da Faerie, l'esilio. Poiché io sapevo che le tre guardie del corpo in questione erano innocenti, questo sollevava interessanti problemi sulla testimonianza di Lady Caitrin. Ma quel giorno eravamo lì solo per essere ascoltati come persone informate dei fatti e, a seconda di come fossero andate le cose, re Taranis avrebbe partecipato a una conferenza telefonica. Era per questo che Simon Biggs e Thomas Farmer, dello studio legale Biggs, Biggs, Farmer & Farmer, sedevano accanto a me. «La ringrazio per aver accettato di presenziare a questa riunione, principessa Meredith», disse uno dei funzionari di fronte a noi. Erano in sette quelli seduti dall'altra parte del grande tavolo lucidato a specchio, con le spalle rivolte al gradevole panorama esterno. L'ambasciatore Stevens, il funzionario che collegava le due Corti di Faerie al governo americano, si trovava dalla mia stessa parte del tavolo ma lontano da me, oltre Biggs e Farmer. Fu lui a intervenire.
«Mr. Shelby, mi consenta una parola sull'etichetta di Faerie: lei non deve mai ringraziare la gente di Faerie. La principessa Meredith, essendo una dei reali più giovani, probabilmente non ne resta offesa, ma forse le accadrà di trattare con alcuni nobili molto più anziani. Non tutti accoglieranno un ringraziamento senza considerarlo un grave insulto». Stevens sorrideva nel dirlo, con un'espressione sincera sul volto incorniciato dai capelli castani curati alla perfezione. In teoria lui era la nostra voce nel mondo, ma in pratica trascorreva tutto il suo tempo alla Corte Seelie adulando mio zio. La Corte Unseelie, dove regnava mia zia Andais, regina dell'Aria e delle Tenebre, e dove un giorno avrei potuto regnare io, era troppo sgradevole per Stevens. No, quell'uomo non mi piaceva. «Mi scusi, principessa Meredith. Non lo sapevo», disse Michael Shelby, procuratore degli USA per Los Angeles. Sorrisi. «Va bene così. L'ambasciatore dice la verità; un ringraziamento non mi disturba.» «Ma disturberà i suoi uomini?» domandò Shelby. «Alcuni di loro sì.» Mi voltai un momento verso Doyle e Frost. Sembravano le personificazioni del giorno e della notte. Doyle aveva la pelle nera, capelli neri e un completo di sartoria nero. Solo la camicia era di un intenso azzurro reale, e questo lo si doveva a un suggerimento dei nostri avvocati. Loro pensavano che un nero totale poteva dargli un'aria minacciosa, il che avrebbe fatto brutta impressione. Doyle, il cui soprannome era «Tenebra», aveva detto: «Io sono il capitano delle guardie della principessa. È mio dovere apparire minaccioso». Gli avvocati non erano riusciti a dargli una risposta, ma lui aveva accettato la camicia azzurra. Quella tonalità sembrava vibrare a contrasto col nero della sua epidermide, così intenso che con la luce giusta assumeva riflessi blu e purpurei. I suoi occhi erano celati da occhiali da sole con una montatura nera avvolgente. La pelle di Frost era bianca quanto quella di Doyle era nera. Bianca come la mia. Ma i suoi lunghi capelli erano unici, argentei, simili a metallo trafilato. Nella luce morbida della sala riunioni scintillavano come qualcosa di prezioso che avreste potuto acquistare solo in una gioielleria. Quel giorno li portava raccolti dietro la nuca da un cerchietto d'argento, più antico della città di Los Angeles. Indossava un completo grigio di Ferragamo, e il bianco della camicia non era bianco quanto la sua pelle. La cravatta era più scura dell'abito, ma non molto. I suoi occhi grigi scandagliavano il cielo visibile oltre la finestra. Anche Doyle stava facendo lo stesso, dietro le lenti polarizzate. Io avevo delle guardie del corpo per un motivo, e tra quelli che mi volevano morta c'era chi poteva volare. Non pensavamo che re Taranis fosse uno di costoro,
ma perché si era rivolto alla polizia? Perché insisteva con quelle false accuse? Taranis non avrebbe mai fatto una cosa del genere senza un piano preciso. Noi non sapevamo quale fosse questo piano, cosicché, tanto per prudenza, loro due tenevano d'occhio la finestra per cautelarsi da creature che i funzionari umani non potevano neppure immaginare. Lo sguardo di Shelby passava da me alle mie guardie. Non era il solo a scrutarle con un certo nervosismo, ma era l'assistente del procuratore distrettuale, Pamela Nelson, quella che aveva maggiore difficoltà a distogliere gli occhi, e la mente, dal loro aspetto. Gli uomini intorno al tavolo osservavano Doyle e Frost come un uomo guarda qualcuno che probabilmente potrebbe spaccarlo in due con una mano sola. Il procuratore Michael Shelby era alto, atletico e attraente, con una chiostra di denti candidi e l'aria di mirare a cariche più importanti di quella di procuratore degli USA per la sola zona di Los Angeles. Superava il metro e ottanta di statura, e il suo completo non celava il fatto che faceva palestra con impegno. Non doveva capitargli spesso d'incontrare qualcuno che lo facesse sentire fisicamente debole. Il suo assistente Ernesto Bertram era un tipo snello che sembrava troppo giovane per quel lavoro, e troppo serio con quegli occhiali e i capelli tagliati corti. Ma non erano gli occhiali a farlo apparire troppo serio, bensì l'espressione del suo viso, come se avesse assaggiato qualcosa di amaro. C'era anche il procuratore della zona di St. Louis, Albert Veducci. Lui non aveva l'abbronzatura di Shelby. In effetti era un po' sovrappeso, e sembrava stanco. Il suo assistente, Grover, mi aveva stretto la mano presentandosi soltanto come Grover, così non sapevo se quello fosse il suo nome o il cognome. Non lo sapevo, perché mi sorrideva più degli altri e aveva l'aria di chi si presenta a una donna col nome di battesimo per avviare subito un rapporto più intimo. Mi ricordava quei tipi, al college, che si mostravano simpatici con me perché lo erano realmente oppure perché erano degli assoluti bastardi in cerca di sesso, o comunque d'intimità, con una vera principessa di Faerie. Solo da lì a un paio d'ore avrei saputo quale dei due generi di «simpatico» fosse Grover. Se le cose fossero andate bene, forse non l'avrei mai scoperto. Se si fossero messe male avrei avuto molto più di un paio d'ore per imparare a conoscere Grover. Pamela Nelson era l'assistente del procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles. Il suo capo, Miguel Cortez, era basso, di pelle olivastra, e attraente. In TV appariva molto telegenico. Lo avevo visto spesso, nei notiziari. Il guaio era che anche lui, come Shelby, era un ambizioso. Gli piaceva far sfoggio di competenza davanti alle telecamere, e incoraggiava i giornalisti a intervistarlo. L'accusa di violenza carnale contro i miei uomini aveva tutte le carte in regola per essere uno di quei casi che aiutano una
carriera oppure la distruggono. Cortez e Shelby miravano in alto, e ciò significava che sarebbero stati o molto prudenti, o molto imprudenti. Ancora non sapevo bene quale delle due cose ci avrebbe aiutato di più. Pamela era più alta del suo capo, e anche coi tacchi bassi toccava il metro e ottanta. Aveva capelli di un rosso vibrante e li portava sciolti intorno alle spalle. Era quella rara sfumatura di rosso profondo e intenso che si avvicina di più al rosso vero, tra gli umani. Il suo tailleur nero era di sartoria, severo e conservatore quanto la camicetta bianca abbottonata fino al collo, e giudicavo di buon gusto il suo trucco. Soltanto quella chioma fiammeggiante guastava l'immagine professionale-mascolinizzata che tutto il resto di lei voleva dare. Era come se nascondesse la sua bellezza femminile da un lato, e la mettesse in mostra dall'altro. Perché era bella. E la spruzzata di lentiggini che il trucco leggero lasciava in evidenza le aggiungeva qualcosa. I suoi occhi passavano dal verde all'azzurro, a seconda di come li colpiva la luce. E quegli occhi indecisi non smettevano di tornare su Frost e Doyle. Lei cercava di concentrarsi sul portatile dove probabilmente avrebbe dovuto battere qualche appunto, ma il suo sguardo continuava ad alzarsi e cercarli, come se non potesse impedirselo. Questo m'indusse a chiedermi se lì ci fosse qualcosa di più che uomini attraenti e una donna distratta. Shelby si schiarì la gola. Trasalii e mi voltai verso di lui. «La prego di scusarmi, Mr. Shelby. Mi stava dicendo qualcosa?» «No, non ho detto niente, ma stavo per farlo.» Shelby gettò un'occhiata agli altri funzionari. «Partecipo a questa riunione in modo più neutrale, però vorrei domandare ai miei colleghi se hanno qualche difficoltà nel porre domande alla principessa.» Alcuni dei presenti parvero piuttosto incerti sulla risposta. Veducci si limitò ad alzare la matita. Fu lui a ricevere il cenno d'assenso di Shelby. «Il mio ufficio ha trattato con la principessa e la sua gente più da vicino che il resto di voi, ed è per questo che mi sono portato dietro certi rimedi contro ciò che chiamano glamour, contro gli incantesimi, insomma.» «Che genere di rimedi?» volle sapere Shelby. «Non intendo rivelare quello che ho, ma è risaputo che il ferro freddo, i quadrifogli, l'erba di San Giovanni, il frassino e altre piante servono allo scopo. Alcuni dicono che le campanelle dissolvono il glamour, però io credo che i sidhe d'alto rango non si preoccupino delle campanelle.» «Lei afferma che la principessa sta usando un glamour contro di noi?» Shelby non aveva più un'espressione gradevole. «Dico solo che, quando gli umani trattano con re Taranis o la regina Andais, la loro presenza influisce su di essi», rispose Veducci. «La principessa Meredith, essendo in parte umana, non ha mai incantato
nessuno a quel modo, fuorché con la sua indiscutibile avvenenza, beninteso...» E s'inchinò un attimo nella mia direzione. Accettai il complimento con un cenno del capo. «... ma in questi ultimi tempi sono accadute molte cose alla Corte Unseelie. L'ambasciatore Stevens me lo ha confermato, così come altre fonti. La principessa Meredith e alcune guardie hanno fatto traballare le sedi del potere, per così dire.» Veducci appariva ancora stanco, ma ora i suoi occhi lasciavano trasparire la mente dietro quella maschera da oberato dal lavoro. C'erano altri pericoli oltre l'ambizione. Era astuto, e adesso ci diceva che lui sapeva qualcosa di ciò che accadeva alla Corte Unseelie. Era la verità, o stava solo gettando l'esca? Pensava che noi nascondessimo qualcosa? «È illegale usare il glamour contro di noi», disse Shelby, irritato. Ora guardava me, e non era più neppure lontanamente amichevole. Io sostenni il suo sguardo con tutta la forza dei miei occhi tricolori: oro fuso il cerchio esterno, poi un cerchio verde giada, e l'ultimo verde smeraldo, intorno alla pupilla. Lui distolse lo sguardo, lo abbassò un momento sullo schermo del suo portatile e strinse i denti. La sua voce era irrigidita dall'ira sotto controllo. «Potremmo farla arrestare, principessa, o farla deportare a Faerie con l'accusa di aver usato la magia per alterare questa procedura legale.» «Non vi sto facendo niente, Mr. Shelby, non di proposito. Mr. Veducci, lei ha detto che il semplice fatto di guardare mio zio, o mia zia, mette in difficoltà gli umani. Io vi sto mettendo in difficoltà, adesso?» «Dalle reazioni dei miei colleghi, credo di sì.» «Ed è questa la reazione che re Taranis e la regina Andais provocano negli umani?» «Simile», disse Veducci. Sorrisi. «Qui non c'è nulla di divertente, principessa», disse Cortez con voce piena di rabbia, ma quando io incontrai i suoi occhi castani abbassò subito lo sguardo. Mi voltai verso Pamela, però non ero io a distrarla; il suo problema si trovava alle mie spalle. «Lei chi sta guardando di più?» le domandai. «Frost, o Doyle? Il chiaro o lo scuro?» Lei arrossì nel modo grazioso in cui arrossiscono le umane dai capelli rossi. «Io non...» «Avanti, Ms. Nelson, lo confessi, quale dei due?» «Entrambi», sussurrò. «Lei e le sue guardie sarete accusate di aver usato un'influenza magica in una procedura legale, principessa Meredith», disse Cortez.
«Sono d'accordo», aggiunse Shelby. «Né io, né Frost, né Doyle lo stiamo facendo di proposito.» «Noi non siamo stupidi», ribatté Shelby. «Il glamour è una magia attiva, non passiva.» «Molti glamour sì, ma non tutti.» Mi voltai verso l'estremità del tavolo, dove sedeva Veducci. Gli avevano assegnato il posto più lontano dal centro, come se provenire da St. Louis lo rendesse inferiore. O forse io ero troppo suscettibile per quanto riguardava la mia terra. «Avete mai notato che quando siete davanti alla regina d'Inghilterra si usa dire che siete 'alla sua presenza'?» chiese Veducci. «Io non ho mai incontrato la regina Elisabetta, e non è probabile che accada, perciò non so cosa si provi. Non ho mai parlato a uno di questi grandi personaggi. Ma la frase 'alla sua presenza' significa molto di più quando vi trovate alla presenza della regina della Corte Unseelie. Ed essere alla presenza del re della Corte Seelie è una minaccia altrettanto grande.» «Questo che significa? Una 'minaccia'?» domandò Cortez. «Significa, signore e signori, che essere il re o la regina di Faerie dà a queste persone un'aura di potere, di fascino, di attrazione. Voi che vivete a Los Angeles potete vedere che la cosa funziona con le grandi stelle del cinema, o con gli uomini politici. Trattare con la Corte di Faerie mi ha dimostrato che questo succede anche tra noi, semplici umani. Quando si è vicini a personaggi ricchi, belli e famosi, non è soltanto la loro natura umana a influire su di noi, ma il loro glamour. La gente brama stargli vicino, guardarli, sentirli parlare. Anche gli umani hanno un'ombra di vero glamour. Ma ora pensate alle potenti figure di Faerie. Pensate alla quantità di magia che le circonda.» «Ambasciatore Stevens, non spetterebbe a lei avvertirci di questo?» disse Shelby. Stevens si aggiustò meglio la cravatta, e giocherellò col Rolex che gli aveva regalato Taranis. «Sua maestà re Taranis è un potente personaggio con molti secoli di governo alle spalle. Ha una certa nobiltà che fa impressione. Io non ho trovato questo tipo di fascino nella regina Andais.» «Perché lei parla a quella regina solo a distanza, attraverso gli specchi, e con re Taranis al suo fianco», disse Veducci. Fui colpita dal fatto che lui lo sapesse, perché era assolutamente vero. «Lei è l'ambasciatore di Faerie, non solo della Corte Seelie», aggiunse Shelby. «Non sono l'ambasciatore di Faerie, bensì l'ambasciatore degli Stati Uniti presso le Corti di Faerie», precisò Stevens. «Ma lei non ha mai messo piede alla Corte Unseelie, a quanto mi è sembrato di capire. È così?» volle sapere Shelby. Stevens passava le dita su e giù lungo il cinturino dell'orologio.
«Trovo che la regina Andais non sia esattamente propensa alla collaborazione.» «Questo cosa significa?» insistè Shelby. Mi accorsi che c'era della magia sull'orologio di Stevens, oppure dentro. Visto che lui esitava a rispondere, lo feci io. «Significa che, dal punto di vista dell'ambasciatore Stevens, la Corte Unseelie è piena di mostri e di perversioni». Tutti si voltarono a guardare lui, adesso. Se noi avessimo avuto un glamour, questo non avrebbero potuto farlo. Shelby chiese: «È vero che secondo lei la Corte Unseelie è popolata di mostri, ambasciatore?» «Io non direi mai una cosa simile.» «Non la direbbe, ma la pensa», risposi. «Noi ne prendiamo nota, ambasciatore, e stia certo che le autorità federali saranno informate della sua grossolana mancanza ai suoi doveri», disse Shelby. «Io sono fedele a re Taranis e alla sua Corte. Non è colpa mia se la regina Andais è una sadica sessuale malata di mente. Lei e il suo popolo sono pericolosi. È una cosa che sto dicendo da anni, e nessuno mi ascolta. Ora abbiamo queste accuse, a dimostrazione di ciò che ho sempre detto.» «Allora lei ha detto ai suoi superiori che temeva che le guardie della regina violentassero qualcuno?» domandò Veducci. «Be', no, non esattamente.» «Cos'ha detto ai suoi superiori?» domandò Shelby. «Ho detto loro la verità. Ho detto che risiedendo alla Corte Unseelie avrei messo in pericolo la mia sicurezza, e che non mi sarei sentito a mio agio là senza una scorta armata.» Stevens indicò Frost e Doyle. «Guardateli. Sono spaventosi.» «Lei continua a toccarsi l'orologio», dissi. «Cosa?» Batté le palpebre. «Il suo orologio. È stato re Taranis a regalarglielo, vero?» domandai. «Lei ha accettato un Rolex in regalo dal re?» Cortez sembrava oltraggiato, ma non da noi. Stevens deglutì, e scosse il capo. «No, naturalmente. Sarebbe del tutto inappropriato.» «Ho visto io mentre lui glielo dava, ambasciatore», aggiunsi. Lui passò le dita sul metallo. «Questo non è affatto vero. Lei sta mentendo.» «I sidhe non mentono, ambasciatore, lei lo sa bene. Quella è un'abitudine umana.» Le dita di Stevens sembravano intenzionate a scavare un buco nel cinturino. «Gli Unseelie sono capaci di ogni malvagità. Le loro stesse facce li mostrano
per ciò che sono.» Pamela Nelson lo contraddisse: «Le loro facce sono attraenti». «Lei è stata circuita dalla loro magia», disse Stevens. «Re Taranis mi ha dato il potere di vedere i loro inganni.» La voce di Stevens si alzava di più a ogni parola. «Le ha dato l'orologio», dissi io. «Dunque lei afferma che la bellezza di questa signora è un'illusione?» disse Shelby, indicando me. «È così», rispose Stevens. «No», dissi io. «Bugiarda!» gridò lui spingendo via la poltroncina a rotelle, che andò a sbattere nel muro. Poi cominciò ad aggirare Biggs e Farmer, diretto verso di me. Doyle e Frost si mossero all'unisono e in un istante gli furono di fronte, bloccandogli la strada. Non c'era nessuna magia in questo, solo la forza della loro prestanza fisica. Stevens balzò indietro come se fosse stato colpito, e col viso contorto dal terrore cominciò a urlare: «No, no!» Alcuni dei funzionari si alzarono in piedi. Cortez domandò: «Cosa gli stanno facendo?» Veducci dovette alzare la voce per farsi udire sopra le grida di Stevens. «Non vedo niente.» «E infatti non gli stiamo facendo niente», disse Doyle, con una voce profonda che contrastava con quelle dei funzionari, simili a un sottofondo acuto come una cascateli sulla roccia. «All'inferno, se non ci state provando!» sbottò Shelby, indicando Stevens e gli altri che gridavano. Cercai di sovrastare quel chiasso, gridando: «Rovesciate le giacche con l'interno all'esterno!» Nessuno parve avermi sentito. «Silenzio!» La voce di Veducci colpì le altre come un toro che sfondasse un recinto. Tutti smisero di gridare e lo guardarono. Lui continuò, in tono più calmo: «Girate le vostre giacche con l'interno all'esterno. È un modo di contrastare il glamour». Annuì verso di me, quasi un inchino. «Questo me l'ero dimenticato.» Gli altri esitarono per un secondo. Veducci si tolse la giacca e la rivoltò, poi se la rimise. Quel gesto sembrò galvanizzare gli altri. Quasi tutti lo imitarono. Mentre metteva allo scoperto le cuciture interne della sua, Pamela Nelson disse: «Porto una croce al collo. Pensavo che mi proteggesse dal glamour». «La croce e i versetti della Bibbia funzionerebbero solo se noi fossimo servi del diavolo. Noi non abbiamo nessun nesso con la religione cristiana, nel bene o nel male», risposi. Lei abbassò gli occhi, come se sostenere il mio sguardo la imbarazzasse.
«Non volevo fare insinuazioni offensive.» «Naturalmente.» La mia voce suonò inespressiva. Avevo udito troppe volte quel genere d'insinuazioni per prendermela. «Una delle prime cose che ha fatto la Chiesa cristiana è stata di dipingere come demoniaco tutto ciò che non poteva controllare. Faerie era qualcosa che non poteva controllare. Mentre la Corte Seelie diventava sempre più umana e amichevole, le parti di Faerie che non volevano o non potevano diventare troppo umane si riunirono nella Corte Unseelie. Poiché le cose che gli umani percepivano come spaventose si trovavano per lo più alla Corte Unseelie, nel corso dei secoli noi siamo stati dipinti come demoniaci.» «Voi siete demoniaci!» urlò Stevens. Aveva gli occhi strabuzzati, le pulsazioni in folle, ed era pallido, con la fronte imperlata di sudore. «Si sente male?» gli domandò Pamela. «In un certo senso», risposi, a voce così bassa che non fui sicura di essere stata udita dagli altri. Chiunque avesse incantato quell'orologio aveva fatto un lavoro sbagliato, inadatto alla personalità di Stevens. L'incantesimo costringeva l'ambasciatore a vedere degli incubi quando guardava noi, ma la sua mente non percepiva la logica di ciò che i suoi occhi vedevano. Mi rivolsi a Veducci. «Sembra che l'ambasciatore si senta male. Forse è il caso di portarlo da un medico?» «No! Senza di me, questi diavoli vi ruberanno la mente!» Stevens afferrò per le spalle Biggs, che gli era più vicino. «Senza il dono del re, tutti crederete alle loro menzogne!» «Credo che la principessa abbia ragione, ambasciatore Stevens», disse Biggs. «Credo che lei stia male.» «Sicuramente, ora lei li può vedere per ciò che sono in realtà. È così?» «A me sembrano come mi sono sempre sembrati tutti i sidhe. A parte il colore della pelle del capitano Doyle, e la statura minuta della principessa, sono uguali ai nobili della Corte Seelie.» Stevens scrollò l'avvocato. «Tenebra ha le zanne. Killing Frost ha una collana di teschi umani. E lei, la principessa, lei è avvizzita e moribonda. Il suo sangue mortale l'ha contaminata.» «Ambasciatore...» cominciò Biggs. «No, lei deve cercare di vederli come li vedo io!» «Loro non sono cambiati affatto, quando abbiamo rivoltato le giacche.» Pamela sembrava un po'' delusa. «Ve l'ho detto, non stiamo usando nessun glamour attivo su di voi», ripetei. «Bugie! Io vedo che orrori siete.» Stevens nascose il viso contro una delle larghe spalle di Biggs, come se non potesse sopportare la nostra vista, e forse non poteva davvero. «È facile non guardarli, però», disse Shelby.
Cortez annuì. «Io posso metterli meglio a fuoco, ora, ma sembrano uguali a prima.» «Belli», precisò Bertram. Shelby gli lanciò un'occhiata dura, e l'assistente chiese scusa, come se quella parola fosse del tutto fuori luogo. Stevens aveva cominciato a singhiozzare nella giacca di sartoria di Biggs. «Dovreste allontanarlo da noi», disse Doyle. «Perché?» domandò uno degli altri. «L'incantesimo dell'orologio lo costringe a vedere in noi dei mostri. Temo che la sua mente possa cedere sotto la tensione, senza la vicinanza di re Taranis per moderarne gli effetti.» «Voi non potete semplicemente annullare l'incantesimo?» domandò Veducci. «Non è un nostro incantesimo», si limitò a dire Doyle. «Non potete aiutarlo?» volle sapere Pamela. «Penso che, meno l'ambasciatore sta a contatto con noi, meglio sia per lui.» Stevens continuava a immergere la faccia nella giacca di Biggs. Le sue mani stringevano allo spasimo le cuciture e la fodera. «Essere vicino a noi lo fa star male», disse Frost, aprendo bocca per la prima volta dopo le presentazioni. «Fai venire qualcuno della sicurezza», disse Biggs a Farmer, e benché quest'ultimo fosse un uomo influente e un socio alla pari andò all'interfono, presso la porta. Suppongo che quando uno è il più attivo del gruppo, e inoltre suo padre è un socio fondatore, possa avere autorità anche sugli altri partner. Restammo lì ad aspettare in silenzio, mentre il linguaggio corporale e facciale degli umani esprimeva un profondo disagio dinanzi a quello sfoggio di emotività psicotica. Era uno stato mentale patologico, ma noi sidhe avevamo visto di peggio. Noi avevamo visto la follia stessa potenziata dalla magia interna. Il genere di magia che può lasciarvi gementi e pietrificati come idioti. Arrivarono due uomini della sicurezza in uniforme. Uno di loro era la guardia che avevo visto al bancone della reception, al pianterreno. Con loro c'era un medico. Ricordavo di aver letto il nome di parecchi medici sulle targhe, nell'atrio degli ascensori. Evidentemente Farmer era andato oltre i suoi ordini, ma Biggs parve molto sollevato di poter consegnare al medico l'ambasciatore in lacrime. Non mi stupiva che Farmer fosse stato fatto socio. Eseguiva gli ordini alla lettera ma sapeva migliorarli aggiungendoci qualcosa di suo. Nessuno disse una parola finché non ebbero portato fuori l'ambasciatore e chiuso quietamente la porta alle loro spalle. Biggs si esaminò la fodera della giacca, spiegazzata dalle mani di Stevens e bagnata dalle sue lacrime. Fece
per togliersela, poi ci guardò e si fermò. Quando notai la sua espressione distolse lo sguardo, imbarazzato. «Va tutto bene, Mr. Biggs. Non è necessario che lei tenga la giacca rovesciata.» «La mente dell'ambasciatore Stevens sembra piuttosto scossa.» «Forse avrei fatto meglio ad avvisare il medico di chiamare un professionista esperto per esaminare quell'orologio, prima che qualcuno glielo tolga senza precauzioni.» «Perché?» «Lo porta al polso da anni. Può essere diventato parte della sua psiche, della sua mente. Limitarsi a toglierlo potrebbe provocargli dei danni.» Biggs andò all'interfono accanto alla porta. «Perché non lo ha detto prima che lo portassero via?» volle sapere Shelby. «Ci ho pensato soltanto adesso», risposi. «Io ci ho pensato prima che uscissero», disse Doyle. «Perché non ha detto niente?» domandò Cortez. «Il mio compito non è proteggere l'ambasciatore.» «Aiutare un essere umano in quello stato è compito di tutti.» Shelby parve sorpreso, come se avesse udito solo allora le sue stesse parole. Doyle ebbe un sorriso millimetrico. «Ma io non sono umano, e penso che l'ambasciatore sia un individuo debole e senza onore. La regina Andais ha inoltrato al vostro governo diverse proteste su Stevens. È stata ignorata. Ma neppure lei avrebbe potuto sospettare un tradimento di questo genere.» «Tradimento del nostro governo verso di voi?» domandò Veducci. «No. Tradimento di re Taranis ai danni di un uomo che si fidava di lui. L'ambasciatore ha visto quell'orologio come un segno del favore del re, mentre in realtà era una trappola per ingannarlo.» «Questo, lei lo disapprova», disse Pamela. «E lei non la pensa così?» domandò Doyle. Pamela annuì e distolse lo sguardo, arrossendo. Evidentemente, il fascino di Doyle aveva effetto anche con la blusa rovesciata. Lui era molto attraente, ma non mi piacque che la ragazza avesse questo problema. Quella procedura sarebbe stata abbastanza difficile senza che noi facessimo arrossire una degli addetti all'inchiesta. «Cosa potrebbe guadagnarci re Taranis rendendo l'ambasciatore ostile alla vostra Corte?» domandò Cortez. «Cos'hanno sempre guadagnato i Seelie, continuando a macchiare la reputazione degli Unseelie?» domandai a mia volta. «D'accordo, abboccherò all'esca», disse Shelby. «Cosa hanno guadagnato?» «Paura. Hanno indotto la loro stessa gente ad aver paura di noi.»
«E, in questo, che guadagno c'è per loro?» domandò Shelby. Fu Frost a rispondergli. «La punizione più grave tra loro è di essere esiliati dalla Corte Seelie, la Corte Dorata. E questa è una punizione che fa paura, perché Taranis e i suoi nobili hanno convinto gli altri che unendosi alla Corte Unseelie diventerebbero dei mostri. Non solo nelle azioni, ma anche nel corpo. Dicono alla loro gente che diventerebbero deformi, se si unissero alla Corte Seelie.» «Lei ne parla come per esperienza diretta», osservò Pamela. «Una volta vivevo tra i dorati, molto, molto tempo fa», disse Frost. «Cos'ha fatto per meritarsi di essere esiliato?» domandò Shelby. «Il tenente Frost non è obbligato a risponderle.» Biggs aveva smesso di arrabattarsi con la giacca ed era tornato a essere uno dei migliori avvocati della costa occidentale. «La sua risposta può essere pregiudizievole circa l'accusa fatta alle altre guardie?» domandò Shelby. «No. Ma, dal momento che il tenente Frost non è oggetto di quell'accusa, la questione esula dallo scopo dell'indagine.» Biggs aveva mentito, serenamente e senza sforzo, come se quella fosse la più palese delle verità. In realtà non poteva sapere se la risposta fosse pregiudizievole, perché non aveva idea del motivo per cui le tre guardie accusate di violenza carnale avevano alle spalle una condanna all'esilio dalla Corte Seelie. (Benché, nel caso di Galen, l'esilio si dovesse al fatto che era nato alla Corte Unseelie; e non si poteva definire esiliato da un posto qualcuno che non era mai stato là.) Biggs era molto cauto nel non permettere domande che potevano interferire con una difesa lineare dei suoi clienti. «Questa è una procedura molto informale.» Veducci sorrise. Irradiava una cordialità da qui-siamo-tutti-bravi-ragazzi. Era un trucco, molto vicino alla menzogna. Lui si era informato su di noi. Aveva trattato con le Corti più di ogni altro avvocato. Poteva diventare il maggiore dei nostri alleati come il maggiore dei nostri avversari. «Oggi siamo qui per vedere se le accuse di re Taranis circa i fatti accaduti a Lady Caitrin dovranno essere seguite da una procedura più formale. La collaborazione può soltanto rafforzare la posizione delle guardie della principessa.» «Poiché tutte le guardie godono d'immunità diplomatica, i miei clienti sono qui per pura Cortesia», disse Biggs. «Noi lo apprezziamo», fece Veducci. «Non dimentichiamo, però, che re Taranis ha dichiarato che tutte le guardie della regina, e dunque anche le attuali guardie della principessa, sono un pericolo per gli altri, specialmente per le donne», disse Shelby. «Il re ha affermato che questa violenza carnale non lo sorprende. Sembrava
pensare che ciò fosse l'inevitabile conseguenza del fatto che i Corvi della regina hanno accesso illimitato all'interno di Faerie. Una delle ragioni per cui ha inoltrato alle autorità umane queste accuse, senza precedenti nella storia di Faerie, è che lui teme per le nostre donne. Se una nobile sidhe coi poteri magici di Lady Caitrin può essere sopraffatta così facilmente, quale difesa hanno delle semplici donne umane contro la loro... lussuria?» «Stava per dire 'mostruosa lussuria'?» domandai. Shelby girò su di me i suoi occhi grigi. «Io non ho usato questo aggettivo.» «No, non l'ha usato, ma scommetto che mio zio Taranis l'ha fatto.» Shelby scrollò le spalle. «Questo è vero. Sembra che non gli piacciano molto le vostre guardie.» «Non gli piaccio neppure io.» Shelby assunse un'espressione sorpresa, e avrei voluto sapere se fosse genuina o no. «Il re ha avuto solo parole gentili verso di lei, principessa. Sembra dell'opinione che lei sia stata...», parve alla ricerca di un eufemismo che addolcisse le sue parole, «allontanata dalla retta via, a opera di sua zia la regina e delle sue guardie.» «Allontanata dalla retta via?» Lui annuì. «Non è questo che lui ha detto, giusto?» «Non con queste parole, no.» «Dev'essere stato alquanto più offensivo, perché lei abbia preferito parafrasare le sue parole», dissi. Shelby parve a disagio. «Dopo aver visto come l'ambasciatore Stevens ha reagito a voi, e saputo dell'esistenza di un incantesimo sul suo orologio, devo ammettere che le parole del re sono state un po' offensive verso di voi, sì.» Mi guardò dritto negli occhi. «Diciamo che Stevens mi ha fatto riflettere sulla veemenza con cui re Taranis detesta le vostre guardie.» «Tutte le mie guardie?» Guardai Veducci. «Ha accusato tutti i miei uomini di atti criminosi?» «No, soltanto i tre menzionati, ma Mr. Shelby ha ragione. Re Taranis pensa che i vostri Corvi della regina siano un pericolo per tutte le donne. Sembra convinto che essere rimasti celibi per tanto tempo li abbia fatti diventare pazzi.» La faccia di Veducci non cambiò, mentre spiattellava quello che avrebbe dovuto essere uno dei più gelosi segreti delle Corti di Faerie. Stavo per esclamare: Taranis non le avrebbe mai detto questo, ma una mano di Doyle su una spalla mi fermò. Alzai lo sguardo alla sua figura nera. Anche seminascosta dagli occhiali, conoscevo quell'espressione. Mi stava dicendo: Attenta. Era nel giusto. Veducci aveva lasciato intendere di
avere fonti attendibili alla Corte Unseelie. E non aveva detto che fosse stato Taranis in persona a pronunciare le parole da lui riferite. «Questa è la prima volta che sentiamo dire che il re accusa i Corvi della regina di essere celibi.» Biggs aveva guardato Doyle, ma ora riportò la sua attenzione su Shelby e Veducci. Quest'ultimo disse: «Il re pensa che la ragione dell'aggressione sia il celibato cui sono stati costretti per molto tempo». Biggs si piegò verso di me, e sussurrò: «È vero? Sono stati costretti al celibato?» Io sussurrai contro il suo colletto bianco: «Sì». «Perché?» volle sapere. «È stata la volontà della regina.» Era vero, in effetti, ma ero obbligata a tacere sui segreti che la regina non voleva divulgare. Taranis poteva sopravvivere alla sua ira, io no. Biggs si voltò verso lo schieramento dei funzionari governativi. «Noi non ammettiamo che il celibato conduca un uomo alla violenza carnale. Ma, anche se questa affermazione avesse un qualche peso, gli uomini in questione non sono più celibi. Da tempo sono al servizio della principessa, non della regina. La principessa ha già rivelato che tre di loro sono suoi amanti. Non può esserci nessuna... pazzia indotta dal celibato», concluse, con un'enfasi e un'espressione facciale che ridicolizzavano la parola. Era un acconto di come si sarebbe comportato in tribunale. Senza dubbio valeva i soldi che mia zia stava pagando al suo studio. Shelby disse: «La dichiarazione del re, e le sue accuse, sono sufficienti per consentire al governo degli Stati Uniti di confinare tutte le guardie della principessa all'interno di Faerie». «Conosco la legge cui si sta riferendo», disse Biggs. «Molti membri del governo di Jefferson non erano d'accordo con lui, quando ha consentito ai fey di stabilirsi qui, dopo che erano stati esiliati dall'Europa. Essi hanno insistito per far votare una legge che permettesse di confinare all'interno di Faerie i cittadini di quella nazione ritenuti troppo pericolosi per vivere nel civile consesso umano. Ma è una legge molto generica, e non è mai stata invocata.» «Non ce n'è mai stato bisogno, prima d'oggi», disse Cortez. Doyle era rimasto dietro di me, con una mano su una mia spalla. O sapeva che io avevo bisogno di sostegno, o ne aveva bisogno lui. Posai una mano sulla sua, per avere un contatto pelle a pelle. Lui era così caldo, così solido. Bastava questo per farmi sentire che sarebbe andato tutto bene. Noi ce l'avremmo fatta. Biggs scosse il capo verso di loro. «Non ce n'è nessun bisogno, e tutti voi lo sapete. Voi cercate di spaventare la mia cliente, minacciandola di rimandare tutte le sue guardie a Faerie. È vergognoso da parte vostra.»
«La principessa non sembra spaventata», disse Pamela Nelson. Le rivolsi tutta la forza del mio sguardo tricolore, e lei non potè sostenerlo. «In effetti, mi state minacciando di allontanare da me gli uomini che amo. Questo non dovrebbe spaventarmi?» «Dovrebbe. Ma sembra che non sia così», replicò lei. Farmer mi toccò un braccio. Mi appoggiai allo schienale, con Doyle alle mie spalle, e lasciai parlare l'avvocato. «Questo ci riporta alla legge in questione. I reali di ogni Corte sono esenti dalla legge che Mr. Shelby ha menzionato.» «Noi non stiamo proponendo di confinare in Faerie la principessa Meredith», disse Shelby. «Lei sa che la minaccia di mettere al confino tutte le sue guardie è oltraggiosa», fece Farmer. Shelby annuì. «Bene. Allora soltanto le tre guardie accusate di violenza carnale. Mr. Cortez e io siamo pubblici ufficiali della procura degli Stati Uniti. Rientra nei nostri doveri e nostri diritti isolare le tre guardie all'interno della terra di Faerie, finché le accuse non saranno discusse in tribunale.» «Ripeto che la legge, così com'è scritta, non si applica ai personaggi reali di nessuna Corte di Faerie», ribatté Farmer. «E io ripeto che non stiamo minacciando nessuna azione nei confronti della principessa Meredith.» «Ma noi non ci stiamo riferendo a questo personaggio reale.» Shelby guardò la fila dei funzionari che lo affiancavano. «Non sono sicuro di seguire la sua argomentazione.» «Le guardie della principessa Meredith sono reali, per ora.» «Cosa significa 'per ora'?» domandò Cortez. «Significa che alla Corte Unseelie essi hanno un trono, presso quelli della regina e della principessa, sul quale siedono a turno. Sono consorti reali», rispose Farmer. «Essere suoi amanti non li rende reali», obiettò Cortez. «Il principe Filippo è il consorte della regina Elisabetta, e quindi un membro della famiglia reale», disse Farmer. «Ma loro sono sposati», disse Cortez. «Nelle due Corti di Faerie, però, non è permesso sposarsi prima che ci sia un figlio», fece notare Farmer. «Mr. Farmer, poiché questa è una riunione informale, forse faremmo prima se io spiegassi», dissi. Farmer e Biggs si scambiarono alcuni sussurri, ma alla fine ebbi il loro cenno d'assenso. Mi veniva permesso di parlare. Oh, bene. Sorrisi a quelli schierati di fronte a noi e mi piegai un po' in avanti, con le mani unite sul tavolo.
«Le mie guardie sono i miei amanti. Questo le rende consorti reali finché una di loro non mi metterà incinta. Poi quella sarà destinata a diventare re. Fino a quel momento tutti sono considerati consorti reali, alla Corte Unseelie.» «Le tre guardie accusate da re Taranis dovranno essere rimandate a Faerie», insistè Shelby. «Re Taranis ha tanta paura che l'ambasciatore Stevens giudichi attraente la Corte Unseelie da mettere un incantesimo su questo funzionario americano. Un incantesimo che lo costringe a vederci come dei mostri. Un individuo che mette in atto una manovra così disperata è capace di metterne in atto altre, non meno illecite.» «Cosa intende dire, principessa?» «Chi mente viene esiliato da Faerie, ma un re talvolta si mette sopra questa legge.» «Sta dicendo che le sue accuse sono menzognere?» domandò Cortez. «Sono indubbiamente false.» «Lei direbbe qualsiasi cosa pur di salvare i suoi amanti», disse Shelby. «Io sono sidhe, e non sono al di sopra della legge. Non posso mentire.» «Questo è vero?» domandò Shelby, girandosi verso Veducci. Lui annuì. «Teoricamente sì. Ma, in tal caso, o sta mentendo la principessa, oppure mente Lady Caitrin.» Shelby guardò me. «Lei non può mentire?» «Ho la capacità di farlo, ma correrei il rischio di essere esiliata da Faerie.» Strinsi più forte la mano di Doyle. «Sono tornata a Faerie poco tempo fa. Non voglio perdere tutto di nuovo.» «Perché lei ha lasciato Faerie la prima volta, principessa?» domandò Shelby. Biggs intervenne: «È una domanda troppo personale, e non riguarda l'indagine in corso». Probabilmente la regina gli aveva dato un elenco di questioni su cui non voleva che io aprissi bocca. Shelby sorrise. «Molto bene. Principessa, è vero che i Corvi della regina sono stati costretti a secoli di celibato?» «Posso farle io una domanda, prima di rispondere?» «Può chiedere tutto ciò che vuole, principessa, ma ho la facoltà di non rispondere.» Gli sorrisi. La mano di Doyle si strinse sulla mia spalla. Il suo messaggio era giusto: non dovevo flirtare, salvo che non sapessi esattamente come la cosa veniva percepita. Spensi il sorriso e feci la mia domanda. «È stato re Taranis in persona a dire che i Corvi hanno sopportato secoli di celibato coatto?» «È quello che ho detto», rispose Shelby. «Mr. Shelby, le chiedo se queste parole precise sono uscite dalla bocca di re
Taranis. Ci sono cose riservate di cui neppure io posso parlare. La prego di tenere in mente che perfino una principessa può essere torturata se va contro gli ordini della regina.» «Dunque lei ammette che alla Corte Unseelie si tortura la gente», disse Cortez. «Si tortura la gente in entrambe le Corti, Mr. Cortez. Solo che la regina Andais non lo nasconde, perché lei non se ne vergogna.» «Lo sta dicendo per la registrazione?» cominciò Cortez. «La registrazione di questa seduta resterà riservata, salvo che non si vada in tribunale», gli ricordò Biggs. Cortez annuì. «Sì, sì. Ma lei sta dicendo per la registrazione che re Taranis consente che sia usata la tortura come punizione, alla Corte Seelie?» «Rispondete con la verità alla mia domanda, e io risponderò alla vostra.» Cortez interrogò con lo sguardo Shelby, poi entrambi si voltarono verso di me. «Sì», dissero insieme. Esitarono, imbarazzati, quindi Cortez lasciò parlare Shelby, che proseguì: «Sì, re Taranis ha affermato che i Corvi della regina sono stati costretti a secoli di celibato, e che perciò sono un pericolo per le donne. Ha inoltre detto che essere liberati dal celibato in tanti per una sola donna, riferendosi a lei, principessa, è mostruoso. Perché nessuna donna potrebbe esaudire le necessità di tutti loro, in specie dopo secoli di astinenza». «Dunque il celibato sarebbe il motivo della violenza carnale», dissi. «Questo sembra essere il ragionamento del re», disse Shelby. «Noi non abbiamo cercato un motivo diverso da quello solito, per la violenza.» Quello solito, pensai. «Io ho risposto alla sua domanda, principessa. Ora torniamo alla nostra. Lei è disposta a dire, per la registrazione, che la Corte Seelie tortura i suoi prigionieri?» Frost si accostò di più a Doyle. «Meredith, pensaci bene prima di rispondere.» Voltandomi incontrai il suo sguardo preoccupato, grigio come il cielo invernale. «Taranis ha esposto in pubblico gli scheletri che ci sono nel nostro armadio. E giusto che io ne esponga uno dei suoi.» Frost corrugò le sopracciglia. «Non capisco questa faccenda degli scheletri di Taranis, ma ho paura della sua rabbia.» Dovetti sorridere, anche se ero d'accordo con lui. «E un modo di dire, Frost. Significa che è stato lui il primo a spiattellare i nostri segreti.» Lui mi strinse una mano, e Doyle mi strinse l'altra, cosicché io restai lì con le
braccia incrociate sul petto. Continuavo a stringerle, quando dissi: «Mr. Shelby, Mr. Cortez, ascoltatemi. Voi mi avete chiesto se dichiaro per la registrazione che alla Corte Dorata di re Taranis la tortura è una punizione? Sì, questo è ciò che io dichiaro». La registrazione era, teoricamente, riservata, ma se uno di quei segreti fosse finito in mano alla stampa... quella piccola lite di famiglia sarebbe diventata molto più brutta, e molto presto.
Capitolo 2 † Gli avvocati decisero che Doyle e Frost avrebbero potuto rispondere a certe domande generiche su cosa significava far parte del mio personale, per dare un'idea dell'atmosfera in cui vivevano Rhys, Galen e Abe. Non ero sicura che questo sarebbe stato molto utile, ma non ero un avvocato, perciò chi ero io per discutere? Doyle sedette alla mia destra, Frost a sinistra. Gli avvocati Farmer e Biggs si spostarono di qualche sedia per far loro spazio. Fu Shelby a porre la prima domanda. «Dunque, se ho ben capito voi siete in sedici, e tutti avete... mmm, accesso alla principessa Meredith per le vostre necessità.» «Se lei sta parlando di sesso, sì», disse Doyle. Shelby tossicchiò e annuì. «Sì, sto parlando di sesso.» «Allora dica chiaramente ciò che intende», precisò Doyle. Shelby si alzò. «Immagino che condividere tra tutti la principessa non sia semplice.» «Non sono certo di aver capito la domanda.» «Be', non per essere indelicato, ma aspettare il vostro turno dev'essere duro, dopo anni di astinenza.» «No, aspettare non è duro.» «Ma certo che lo è», disse Shelby. «Lei sta mettendo le parole in bocca al testimone», obiettò Biggs. «Scusate. Quello che volevo dire, capitano Doyle, è che dopo tanti anni di necessità non soddisfatte dev'essere difficile limitarsi a fare sesso solo ogni settimana o due.» Frost scoppiò a ridere, poi si controllò e cercò di mascherare la risata con un accesso di tosse. Doyle sorrise. Era il primo vero sorriso che faceva dall'inizio della seduta. Il candido lampo dei denti sul suo viso nero poteva sorprendere chi non ci era abituato. Era come vedere d'improvviso sorridere una statua. «Non vedo cosa ci sia di divertente nel dover aspettare settimane per fare sesso, capitano Doyle, tenente Frost.» «Neppure io ci vedrei qualcosa di divertente, ma quando il numero dei membri cresce la principessa Meredith cambia alcuni dei parametri per tutti noi», rispose Doyle. «Non la seguo», disse Pamela. «Parametri?» Doyle guardò me. «Forse tu lo puoi spiegare meglio, principessa.» «Quando avevo soltanto cinque amanti, mi sembrava giusto che tutti aspettassero il loro turno. Ma, come lei ha osservato, un'attesa di una
settimana o due dopo secoli di celibato può sembrare un'altra forma di tortura. Così, quando il numero degli uomini è passato a doppia cifra, ho aumentato il numero delle volte in cui faccio l'amore in determinati giorni.» Non è facile vedere imbarazzati funzionari di quel genere e costosi avvocati, ma fu quanto accadde. Si scambiarono qualche sguardo; Pamela alzò la mano. «Lo domanderò io, se nessuno lo fa.» Gli uomini la lasciarono parlare. «Quante volte al giorno lei fa l'amore?» «Il numero varia, ma di solito almeno tre volte.» «Tre volte al giorno», ripetè lei. «Sì», dissi, offrendole un'espressione del tutto serena. Lei arrossì fino alla radice dei suoi capelli rossi. Ero abbastanza sidhe da non capire come potevano gli americani essere totalmente affascinati dal sesso e totalmente a disagio con quell'argomento. Veducci fu il primo a riprendersi, come avevo immaginato. «Anche se sono tre volte al giorno, principessa, questo lascia un intervallo medio di cinque giorni per ogni uomo fra l'uno e l'altro dei loro turni. Cinque giorni sono molti quando uno è stato a stecchetto per secoli. Non può darsi che le sue tre guardie abbiano pensato a qualcos'altro per occupare il loro tempo, nell'attesa?» «Un intervallo di cinque giorni sarebbe un buon calcolo se io andassi a letto ogni volta con un uomo soltanto, Mr. Veducci, e la maggior parte delle volte non è così.» Veducci mi sorrise. Era un sorriso simpatico. Gli arrivava su fino agli occhi, e le rughette che si formavano intorno a essi dicevano che a quell'uomo piaceva godersi la vita, o gli era piaciuto. Fu come uno sguardo a una sua versione più giovane, meno stanca. Gli restituii il sorriso, divertita dal suo divertimento. «Lei è del tutto a suo agio con questo genere di domande, principessa Meredith, è così?» disse. «Non mi vergogno di ciò che faccio coi miei amanti, Mr. Veducci. I fey, salvo alcuni della Corte Seelie, non si vergognano del sesso, finché è consensuale.» «Va bene. Passerò alla domanda successiva. Con quanti uomini alla volta lei dorme, secondo questa routine?» volle sapere lui, e nel dirlo scosse il capo come se non credesse a ciò che osava chiedermi. «Non credo che sia una domanda delicata», intervenne Biggs. «Risponderò comunque», dissi. «È sicura che...?» «È sesso. Non c'è niente di male.» Sostenni lo sguardo di Biggs finché lui non lo distolse, poi mi rivolsi a Veducci. «La media è probabilmente due alla volta. Credo che il massimo in certe occasioni sia stato quattro.» Guardai Doyle e Frost. «Quattro?»
«Così credo», disse Doyle. Frost annuì. Tornai a rivolgermi ai funzionari. «Quattro, ma la media è due.» L'avvocato Biggs si riprese un poco. «Perciò vedete, signori, un paio di giorni di attesa per il sesso, circa. Ci sono uomini sposati che devono aspettare di più.» «Principessa Meredith», disse Cortez. «Sì, Mr. Cortez?» Lui si schiarì la gola. «Ci sta dicendo la verità? Lei fa sesso tre volte al giorno con una media di due uomini, e talvolta quattro. È questo che lei dichiara per la registrazione?» «La registrazione è riservata», ripetè Biggs. «Ma, se andassimo in tribunale, potrebbe non esserlo più. È davvero questo che la principessa vuole rendere pubblico?» Aggrottai le sopracciglia. «È la verità, Mr. Cortez. Perché la verità dovrebbe preoccuparmi?» «Sinceramente, lei non capisce cosa quest'informazione potrebbe fare alla sua reputazione, se arrivasse alla stampa?» «Non mi è chiara la domanda.» Lui guardò Biggs e Farmer. «Non è una cosa che dico spesso, ma la vostra cliente sa per cosa potrebbe essere usata questa registrazione, pur essendo riservata?» «Ne ho discusso con lei, ma... Mr. Cortez, la Corte Unseelie non vede il sesso come il resto del mondo. O, comunque, non lo vede come il resto dell'America. Il mio collega e io ce ne siamo resi conto quando abbiamo preparato la principessa e le sue guardie a questo colloquio. Se lei sta suggerendo che la principessa dovrebbe essere più cauta su ciò che ammette di fare coi suoi uomini, può risparmiarsi il fiato. Lei non è assolutamente preoccupata di ciò che ha fatto con chiunque tra loro.» «Non per toccare un tasto delicato, ma la principessa non sembrava molto felice davanti alle telecamere, quando il suo ex fidanzato, Griffin, ha venduto quelle polaroid ai giornali scandalistici, alcuni mesi fa», disse Cortez. Annuii. «Questo mi ha ferito. Ma mi ha ferito perché Griffin ha infranto la mia fiducia, non perché mi vergognavo di ciò che avevo fatto con lui. Credevo che ci fosse ancora affetto tra noi, finché non sono state pubblicate quelle foto. Non è vergognoso voler bene a un uomo, Mr. Cortez.» «Lei è molto coraggiosa, principessa, o molto ingenua, se è possibile usare la parola 'ingenua' per una donna che fa regolarmente sesso con una ventina di uomini.» «Non sono ingenua, Mr. Cortez. Semplicemente non penso come una donna umana.» L'avvocato Farmer disse: «La supposizione di re Taranis, secondo cui le tre guardie accusate di questo crimine lo avrebbero commesso per esaudire le loro necessità sessuali, è una falsa supposizione. Essa deriva dal
fatto che Taranis non capisce la Corte di Andais». «La Corte Seelie è così diversa dalla Corte Unseelie, in materia di sesso?» volle sapere Pamela Nelson. «Posso rispondere a questa domanda, Mr. Farmer?» domandai. «Sì.» «I Seelie cercano di scimmiottare il comportamento umano. La loro società è ferma da qualche parte tra il XV e il XVIII secolo. Molti di quelli che si sono rifugiati alla nostra Corte erano stati esiliati soltanto perché volevano restare fedeli alla loro natura originale, invece di lasciarsi civilizzare alla maniera umana.» «Sembra che lei stia tenendo una conferenza», disse Pamela. Sorrisi. «Al college, ho scritto un saggio sulla differenza tra le due Corti. Pensavo che avrebbe aiutato gli insegnanti e gli altri studenti a capire che la Corte Unseelie non era quella cattiva.» «Lei è stata la prima fey ad andare al college, in questa nazione.» Cortez scartabellò tra i documenti che aveva davanti. «Ma non l'ultima. Alcuni cosiddetti 'fey minori' si sono diplomati, da allora.» «Mio padre, il principe Essus, pensava che se uno dei reali avesse dato l'esempio altri lo avrebbero seguito. Diceva che studiare e capire la terra in cui si vive sono parte necessaria dell'adattamento dei fey alla nostra società moderna.» «Suo padre, però, non ha fatto in tempo a vederla frequentare il college», disse Cortez. «No.» Quella parola mi si bloccò in gola. Doyle e Frost reagirono al mio tono nello stesso tempo. Le loro mani s'incontrarono dietro le mie spalle. Il braccio di Doyle restò lì. La mano di Frost si spostò a coprire una delle mie, ancora posate sul tavolo. Stavano reagendo alla tensione salita in me, ma questo consentì ai presenti di vedere quanto erano preoccupati per me con la svolta che aveva preso il discorso. Non avevano avuto nessuna reazione quand'era stato menzionato il mio ex fidanzato, Griffin. Credo che i miei uomini pensassero di aver spazzato via da me il suo ricordo coi loro corpi. Io stessa avevo quella sensazione, perciò avevano letto bene in me. Doyle era solitamente un buon giudice del mio umore. Frost, che aveva i suoi alti e bassi, stava imparando. «Credo che sia meglio passare a un altro argomento», disse l'avvocato Biggs. «Mi spiace aver urtato la sensibilità della principessa.» Cortez non sembrava dispiaciuto. Mi chiesi perché avesse alluso all'assassinio di mio padre: non mi sembrava tipo da fare le cose senza una ragione. Di Pamela e degli altri non ero sicura.
Contavo sulla fredda capacità calcolatrice di Biggs e Farmer. Ma cosa sperava di guadagnare Cortez dall'aver menzionato mio padre? «Mi spiace averla disturbata, come ho detto, ma ho un motivo per intavolare l'argomento», disse Cortez. «Non vedo quale rilevanza possa avere in questo procedimento», obiettò Biggs. «L'assassinio del principe Essus non è mai stato chiarito. In effetti, nessuno è mai stato seriamente sospettato. È corretto?» «Noi abbiamo deluso le aspettative del principe e della principessa sotto ogni aspetto», disse Doyle. «Ma voi non fungevate da guardie del corpo per nessuno dei due, giusto?» «Non al tempo di quell'omicidio.» «Tenente Frost, lei faceva parte dei Corvi della regina quando il principe Essus è morto. Nessuna delle attuali guardie della principessa era membro delle guardie del principe Essus. È così?» «Questo non è vero.». Cortez lo guardò. «Mi scusi?» Frost guardò Doyle, che fece un breve cenno d'assenso. La mano di Frost si strinse sulla mia. Parlare in pubblico non gli piaceva; era una sua fobia. «Qui a Los Angeles abbiamo una mezza dozzina di guardie che un tempo appartenevano alle guardie del principe Essus.» «Re Taranis sembra sicuro che nessuna delle guardie del principe stia ora lavorando per la principessa», disse Cortez. «Si tratta d'incarichi abbastanza recenti», fece notare Frost. «Ancora non vedo la ragione di questa linea d'indagine», ripetè Biggs. «Mi associo all'obiezione. Se avete altre domande collegate alle accuse in oggetto, possiamo passare a esse», fece Farmer. Cortez mi guardò, facendomi pesare addosso tutta la forza del suo sguardo scuro. «Il re pensa che il motivo per cui gli assassini di suo padre non sono mai stati presi è che costoro erano proprio gli uomini che hanno indagato sul delitto.» Doyle, Frost e io ci irrigidimmo. Il funzionario aveva tutta la nostra attenzione, ora. «Parli chiaro, Mr. Cortez», dissi. «Re Taranis accusa i Corvi della regina di aver assassinato il principe Essus.» «Ha visto cos'ha fatto il re all'ambasciatore. Penso che la paura che spinge mio zio a manipolazioni così gravi riveli il suo attuale stato mentale.» Shelby disse: «Ci informeremo sulle... condizioni dell'ambasciatore Stevens. Ma non le sembra sensato che il motivo per cui non si trovarono indizi sia che gli uomini incaricati dell'indagine li hanno nascosti?» «Il nostro giuramento alla regina ci proibisce di fare del male alla sua
famiglia», rispose Doyle. «Voi avete giurato di proteggere la regina, giusto?» domandò Cortez. «Ora apparteniamo alla principessa, ma il giuramento resta valido, sì.» «Re Taranis afferma che voi avete ucciso il principe Essus per impedirgli di assassinare la regina Andais e di salire sul trono della Corte Unseelie.» Noi tre guardammo Cortez e Shelby. Lavare i nostri panni sporchi in pubblico, e specialmente sporchi come quelli, era così grave che la regina aveva fatto torturare gente colpevole di aver appena accennato all'argomento. Io non chiesi se fosse stato Taranis a dire quelle cose, perché sapevo che nessun altro alla sua Corte avrebbe osato affrontare l'ira della regina Andais. Lei avrebbe sfidato a duello chiunque, fuorché lo stesso re, per aver messo in giro quelle voci. Andais aveva molti difetti, e io li conoscevo, ma aveva amato suo fratello. Ed Essus aveva amato lei. Era per questo che lui non aveva mai tramato per ucciderla e usurpare il trono, anche se sapeva di poter essere un governante migliore. Se fosse vissuto, e se mio cugino il principe Cel avesse cercato di salire al trono, non escludo però che mio padre sarebbe arrivato a ucciderlo per impedirglielo. Cel era pazzo, lo intendo alla lettera, e sessualmente così sadico da far apparire normale sua madre Andais. Mio padre aveva nutrito forti preoccupazioni per il destino della Corte Unseelie, se Cel avesse ereditato il trono. Le stesse che io continuavo ad avere. D'altra parte Andais era stata chiara: lei avrebbe abdicato a favore del primo tra i due eredi più diretti, Cel e io, che le avrebbe dato un nipote. E Cel, dopo la sua condanna a sei mesi di detenzione a causa dei suoi precedenti attentati, aveva giurato di uccidermi. Proteggere la mia vita e quella delle persone che amavo, e impedire a Cel di salire al potere, erano i motivi per cui stavo cercando di diventare regina. Ma io non ero ancora riuscita a restare incinta, e così restava aperta anche un'altra questione: chiunque mi avesse dato un figlio sarebbe diventato re al mio fianco. Soltanto da un paio di giorni avevo capito che pur di vivere con Frost e Doyle avrei rinunciato a tutto, perfino al trono, ma c'era un «ma»: ritirarmi a vivere con loro da qualche parte significava rinunciare al mio diritto di successione, e io ero troppo figlia di mio padre per lasciare che Cel regnasse sulla nostra gente. «Principessa Meredith, ha qualcosa da replicare all'accusa di re Taranis?» «Mia zia ha i suoi difetti, ma amava suo fratello Essus. Ne sono convinta sino in fondo al cuore. Se lei avesse scoperto chi l'aveva ucciso, la sua vendetta sarebbe stata qualcosa da dare gli incubi. Nessuna delle guardie avrebbe mai osato affrontare una cosa simile.» «È sicura di questo, principessa?» «Credo che dovreste chiedervi, Mr. Cortez, Mr. Shelby, cosa spera di guadagnare re Taranis da questa accusa. In effetti, dovreste anche chiedervi
cosa potrebbe aver guadagnato dalla morte di mio padre.» «Lei sta accusando il re dell'assassinio di suo padre?» domandò Shelby. «No, sto semplicemente dicendo che la Corte Seelie non è mai stata amichevole verso mio padre. Una guardia della regina Andais, uccidendo mio padre, ci avrebbe guadagnato soltanto un'orrenda morte sotto tortura. Per contro, una delle guardie di re Taranis avrebbe avuto la certezza di ricevere un lauto premio dal suo sovrano per questo omicidio.» «Perché re Taranis avrebbe voluto la morte del principe Essus?» «Non lo so.» «Crede che ci fosse lui dietro l'omicidio?» domandò Veducci. Nei suoi occhi vedevo al lavoro una mente sottile. «Prima d'ora non l'ho mai creduto.» «Cosa vuol dire con questo, principessa?» domandò lui. «Voglio dire che non riesco a capire cosa il re pensi di guadagnarci dall'accusa di violenza carnale contro le mie guardie. Non ha senso, e m'induce a chiedermi quale sia il vero motivo.» «Sta cercando di dividerti da noi», disse Frost. Studiai il suo bel viso arrogante. Ora sapevo che l'espressione arrogante era una maschera che celava il suo disagio. «Dividermi da voi in che modo?» «Se un dubbio così spiacevole nascesse nella tua mente, avresti ancora fiducia in noi?» Abbassai lo sguardo sul tavolo, sulla sua mano candida, sulle mie dita che la toccavano. «No.» «Se ci pensi bene, anche l'accusa di violenza carnale è qualcosa che può indurti a dubitare di noi», disse Frost. Annuii. «Forse, ma a che scopo?» «Non lo so.» «Se non ha finito per uscire di senno, Taranis ha uno scopo. Ma confesso che non vedo cosa possa guadagnarci. Non mi piace trovarmi fino al collo in questa partita, e non sapere a che gioco stiamo giocando.» Doyle guardò i funzionari dall'altra parte del tavolo. «Scusateci. Per un momento abbiamo dimenticato dove ci troviamo.» «Voi credete che questa sia una manovra politica tra le vostre Corti?» domandò Veducci. «Sì», disse Doyle. Veducci guardò Frost. «Tenente Frost?» «Io sono d'accordo col mio capitano.» Da ultimo si volse verso di me. «Principessa Meredith?» «Oh, sì, Mr. Veducci. Qualunque cosa stia accadendo è certamente una manovra politica fra le nostre Corti.»
«Il modo in cui è stato trattato l'ambasciatore Stevens mi costringe a chiedermi se non si stia facendo uso di noi, qui», disse Veducci. «Mr. Veducci, lei sta dicendo che comincia a dubitare della validità delle accuse fatte ai miei clienti?» domandò Biggs. «Se dovessi scoprire che i vostri clienti hanno fatto ciò di cui sono accusati, farei il possibile per punirli con tutto il rigore concesso dalla legge. Ma se le accuse si rivelassero false, e il re avesse cercato di usare la legge per colpire degli innocenti, farei del mio meglio per dimostrargli che in questa nazione nessuno è al di sopra della legge.» Veducci sorrise ancora, ma stavolta non era un sorriso allegro. Aveva qualcosa di predatorio. Quel sorriso mi bastò. Veducci non dava l'impressione di essere ambizioso come Shelby e Cortez, e probabilmente aveva dei principi morali: la fiducia nella legge, la convinzione che l'innocente doveva essere risparmiato e il colpevole punito. Non è facile vedere quella semplice fede in procuratori e avvocati che hanno trascorso più di vent'anni sul campo. Per sopravvivere in quella professione la si perde, un pezzo dopo l'altro. Ma in qualche modo Veducci sembrava averla mantenuta. E forse, soltanto forse, stava cominciando a credere in noi.
Capitolo 3 † Aggiornammo la seduta in un'altra stanza, più piccola della sala riunioni e arredata come uno studio privato. A una parete era appeso un largo specchio, la cui argentatura aveva piccole imperfezioni e bolle in un angolo. Il vetro appariva qua e là offuscato, e la pesante cornice in legno dorato era corrosa, scurita dal tempo. Era appartenuto alla bisnonna di Mr. Biggs, e lui lo teneva nel suo sancta sanctorum come ornamento. Eravamo lì per una sorta di conferenza telefonica nella quale non sarebbe stato usato nessun genere di telefono. Galen, Rhys e Abeloec erano già stati ascoltati in sala riunioni. Non avevano potuto dire molto fuorché respingere le accuse. Abe aveva sostenuto l'interrogatorio dignitosamente eretto, coi lunghi capelli a strisce nere, bianche e grigie sciolti lungo la schiena, così perfetti da sembrare un pezzo di moderna arte Goth; solo che non erano artificiali, ma del tutto veri. La sua pelle chiara e gli occhi grigi s'intonavano a essi. Il completo grigio cenere gli dava un aspetto insolito. Il suo abbigliamento abituale era assai meno sobrio, poiché per secoli non aveva fatto che partecipare a feste e bagordi. E non aveva alibi, perché al momento della violenza carnale si stava ubriacando da solo nel suo alloggio. Era lucido soltanto da un paio di giorni. In realtà noi sidhe non possiamo diventare alcolisti né schiavi della droga, come accade per gli umani. I fey non soccombono a questo genere di dipendenza fisica; e non hanno la possibilità di usare l'alcol o le sostanze chimiche per sfuggire ai loro problemi personali. Tuttavia possiamo ubriacarci fino a un certo punto. Galen aveva un'aria elegante e giovanile nel suo completo marrone. Gli avvocati non avevano voluto farlo vestire di verde, come sempre usava, perché pensavano che avrebbe accentuato lo strano tono verdolino della sua pelle. Secondo me questo aveva invece evidenziato agli occhi dei funzionari governativi il suo colore non troppo umano. I suoi riccioli verdi erano tagliati corti, con solo una sottile treccia posteriore a ricordarmi che un tempo gli ricadevano splendidamente sino ai fianchi. Dei tre, era lui ad avere l'alibi migliore, poiché quando la supposta aggressione aveva avuto luogo stava facendo l'amore con me. Una volta avrei definito fanciullesca la bellezza di Rhys, ma non quel giorno. Quel giorno sembrava adulto da capo a piedi per tutta la sua altezza, tutt'altro che comune per un sidhe. Era l'unica delle mie guardie del corpo a essere alta soltanto un paio di dita più di me, neppure un metro e sessanta.
Rhys era bello, ma di recente aveva perso quel suo non so che di fanciullesco, o forse guadagnato qualcos'altro. Un uomo nato più di mille anni prima, e che un tempo lontano era il temibile dio chiamato Cromm Cruach, non poteva maturare... oppure sì? Se fosse stato umano, avrei detto che gli avvenimenti degli ultimi giorni l'avevano finalmente aiutato a crescere. Ma mi sembrava presuntuoso supporre che le mie piccole vicissitudini facessero tanto effetto a qualcuno adorato per secoli come una divinità. I riccioli bianchi gli ricadevano sulle spalle e giù lungo la larga schiena. Essere la più bassa delle mie guardie non gli impediva di avere la muscolatura più scolpita. E prendeva molto sul serio il suo lavoro, benché fosse ostacolato dalla pezza nera che gli copriva l'occhio destro, circondato da cicatrici che tuttavia non lo rendevano meno bello. L'iride del sinistro era composta da tre circoli in diverse tonalità di azzurro. Aveva una bocca tumida, sensuale, con labbra che sembravano chiedere di essere baciate. Io non avevo ancora capito cosa l'avesse reso così improvvisamente serio, ma quell'espressione gli dava una profondità nuova, come se in lui ci fosse qualcosa di più. Lui era l'unico dei tre che si trovava fuori dai tumuli di Faerie al momento in cui era avvenuta la supposta violenza carnale. Ed era stato attaccato da tre guerrieri sidhe che gli avevano subito gridato in faccia quell'accusa. I tre erano sbucati dalla boscaglia coperta di neve con armi d'acciaio e ferro freddo, due delle poche cose che potevano ferire gravemente un sidhe. Nella maggior parte dei duelli avvenuti in passato tra membri delle due Corti non erano state usate armi capaci di procurare vere ferite, o la morte vera. Erano duelli estremamente duri i cui partecipanti potevano ridursi male, ma non giungere a una conclusione così drammatica. L'acciaio e il ferro freddo invece erano armi mortali. Questo solo fatto era bastato a mettere fine alla pace tra le due Corti. Gli avvocati stavano discutendo. «Lady Caitrin afferma che l'aggressione è avvenuta in una data in cui i miei clienti si trovavano a Los Angeles», disse Biggs. «Non è possibile che i miei clienti abbiano fatto qualcosa nell'Illinois mentre si trovavano in California. Nel giorno in questione, inoltre, uno degli accusati stava lavorando per la Grey Detective Agency, ed è rimasto per l'intera giornata in presenza di vari testimoni.» Stava parlando di Rhys. A lui piaceva il lavoro di detective. Amava operare sotto falsa identità, e aveva abbastanza glamour per riuscire a mascherarsi meglio di qualsiasi detective umano. Anche Galen aveva glamour sufficiente, ma non sapeva farne uso. Assumere una falsa identità o mascherarsi con un glamour era soltanto metà del lavoro. La cosa più importante consisteva nell'entrare nella parte che uno stava recitando. Io lo avevo fatto in più occasioni negli ultimi anni.
Da quando avevo rivelato all'agenzia la mia vera identità, non mi veniva più permesso di svolgere incarichi pericolosi. Ma per quale motivo si poteva pensare che Lady Caitrin fosse stata aggredita da tre delle mie guardie prima che noi rientrassimo a Faerie? La risposta era semplice. Dopo secoli di quiete, il tempo di Faerie aveva ricominciato a scorrere in modo diverso che all'esterno. Io stessa mi ero accorta che il tempo del sithen Unseelie faceva degli strani scherzi. Doyle aveva osservato: «Per la prima volta da centinaia d'anni il tempo di Faerie scorre in modo bizzarro, Meredith, ma questo accade soprattutto nelle tue immediate vicinanze. Ora che tu hai lasciato Faerie il tempo ha un andamento irregolare, tuttavia le irregolarità sono uguali sia in una Corte sia nell'altra». Era interessante, e anche inquietante, che il sithen reagisse alla mia presenza alterando la velocità del tempo, che rispetto al mondo esterno aveva alquanto accelerato. Per entrambe le Corti correva il mese di gennaio, ma la loro data non era la stessa. In ogni modo, il ballo natalizio cui mio zio aveva cercato d'invitarmi con tanta insistenza era ormai passato. Io e le mie guardie avevamo deciso che per me sarebbe stato troppo pericoloso accettare. L'accusa di violenza carnale era giunta dopo il mio rifiuto di partecipare al ballo, e questo confermava che Taranis continuava a portare avanti il suo piano per un'altra strada. Ma a cosa stava mirando? Per il momento era chiaro soltanto che il suo piano sarebbe stato assai dannoso per qualche membro della Corte Unseelie. «Re Taranis ha spiegato che il tempo scorre diversamente in Faerie rispetto al mondo reale», disse Shelby. Sapevo che Taranis non aveva detto «il mondo reale», perché per lui il mondo reale era la Corte Seelie. «Posso fare una domanda ai vostri clienti?» Da quando avevamo cambiato stanza, Veducci non aveva ancora preso parte alla conversazione. Questo suo silenzio mi stava rendendo nervosa. «Sì, ma mi riservo di decidere se loro potranno rispondere», disse Biggs. Veducci annuì e si scostò dal muro cui si era appoggiato. Ci rivolse un sorriso. Solo la luce dura del suo sguardo mi rivelò che quel sorriso era falso. «Sergente Rhys, lei era nella terra di Faerie il giorno in cui Lady Caitrin è stata aggredita?» «In cui dichiara di essere stata aggredita», lo corresse Biggs. Veducci gli concesse un cenno d'assenso. «Lei era nella terra di Faerie il giorno in cui Lady Caitrin dichiara di essere stata aggredita?» Si era espresso con Cortese precisione. Con tanta Cortese precisione che era difficile girare intorno alla verità senza mentire. Rhys gli restituì il sorriso, e io colsi un barlume di quel temperamento scherzoso che mi aveva mostrato per la maggior parte della mia vita.
«Sì.» Veducci rivolse la stessa domanda a Galen. Quest'ultimo parve più a disagio di Rhys, ma disse con altrettanta fermezza: «Sì, io ero là». Abeloec rispose semplicemente: «Sì». Farmer sussurrò qualcosa a Biggs, e quindi passò al successivo giro di domande. «Sergente Rhys, lei era a Los Angeles il giorno dell'aggressione?» Quella domanda mi rivelò che i nostri avvocati non avevano ancora capito bene le stranezze temporali di Faerie. «No, io non ero là.» Biggs si accigliò. «Ma lei c'era. Per tutto il giorno. Abbiamo numerosi testimoni.» Rhys gli sorrise. «Però quel giorno a Los Angeles non era lo stesso giorno in cui Lady Caitrin ha dichiarato di essere stata aggredita.» «La data è la stessa», insistè Biggs. «Sì, ma il fatto che la data sia la stessa non significa che quello fosse lo stesso giorno», disse pazientemente Rhys. Veducci fu l'unico a sorridere. Tutti gli altri sembravano molto concentrati su quel concetto, oppure sull'ipotesi che Rhys stesse farneticando. «Può chiarire cosa significa?» domandò Veducci, con aria ancora divertita. «Non è come una storia di fantascienza, di quelle in cui si viaggia indietro nel tempo per rivivere la stessa giornata. Non si può dire che ci trovavamo in due posti contemporaneamente. Per noi, Mr. Veducci, il giorno in cui eravamo qui era un giorno diverso da quello dell'aggressione. E non avevamo dei doppioni in Faerie mentre noi ci trovavamo qui. Dunque quel giorno in Faerie era passato, e il giorno in cui siamo tornati a Los Angeles era un giorno successivo a esso. Però avevano entrambi la stessa data, così, osservandoli dall'esterno di Faerie, può sembrare come se fosse lo stesso giorno, ripetuto.» «Allora voi eravate a Faerie il giorno in cui la sidhe è stata violentata?» domandò Veducci. Rhys sorrise e lo corresse: «Il giorno in cui afferma di essere stata violentata, sì». «Questo sarà un incubo per una giuria», disse Pamela. «Aspetti finché noi non chiederemo una giuria di loro pari», la informò Farmer, con un sorrisetto quasi felice. Pamela Nelson impallidì sotto il trucco leggero. «Una giuria di loro pari?» ripetè sottovoce. «Una giuria umana potrebbe forse capire il fatto di essere in due posti nello stesso giorno?» domandò Farmer. I funzionari si guardarono. Soltanto Veducci non condivideva la loro confusione. Credo che avesse già pensato a quell'eventualità. Tecnicamente la sua carica gli dava meno poteri di Shelby e Cortez, ma schierandosi dalla
loro parte ci avrebbe dato dei guai seri. Tra tutti loro era Veducci quello che più desideravo convincere della nostra buona fede. «Oggi siamo qui per cercare di evitare di andare davanti a una giuria», precisò Biggs. «Se loro hanno aggredito questa donna, comunque, dovranno essere per intanto confinati in Faerie», disse Shelby. «Dovete dimostrare che esiste la seria eventualità di colpevolezza, per indurre un giudice a prendere questa misura in attesa del processo», obiettò Farmer. «E questo ci riporta al fatto che nessuno di noi vuole davvero finire in tribunale.» La voce quieta di Veducci cadde nella stanza come una pietra in mezzo a un gruppo di volatili. I pensieri degli altri funzionari parvero sparpagliarsi come uccelli in varie direzioni, confusamente. «Non rinunciamo a portare avanti il caso prima di aver finito l'istruttoria», intervenne Cortez, in tono assai più arcigno del collega. «Qui non abbiamo ancora un caso giudiziario, Cortez. Il nostro compito è vedere se sia possibile evitare che diventi un disastro», disse Veducci. «Un disastro per chi, per loro?» Cortez indicò noi. «Per tutta Faerie, potenzialmente. Lei ha letto la storia dell'ultima grande guerra tra umani e fey, in Europa?» «Non in modo particolare.» Veducci guardò gli altri funzionari. «Sono il solo qui ad aver letto la storia?» Grover alzò la mano. «Io l'ho letta.» Veducci gli sorrise come se fosse un amico d'infanzia ritrovato. «La prego, dica a queste persone com'è cominciata l'ultima grande guerra.» «È cominciata come una disputa tra le Corti Seelie e Unseelie.» Veducci annuì. «Proprio così. Poi si è estesa dalle Isole Britanniche a parte dell'Europa continentale.» «Lei sta dicendo che, se non mediamo per risolvere questa accusa di violenza carnale, le Corti si faranno guerra?» domandò Pamela. «Sono due le cose che Thomas Jefferson e il suo governo hanno definito 'offese imperdonabili' da parte dei fey sul suolo americano. Se si fossero fatti adorare come divinità, e se fosse avvenuta una guerra tra le due Corti. In ognuno dei due casi, i fey saranno scacciati fuori da questa terra, l'ultima di tutto il pianeta che abbia accettato di ospitarli.» «Questo lo sappiamo», disse Shelby. «Ma avete riflettuto sul perché Jefferson abbia imposto queste due condizioni, specialmente quella riguardo alla guerra tra le Corti?» «Perché danneggerebbe la nostra economia», rispose Shelby. Veducci scosse il capo. «Nel continente europeo c'è ancora un cratere largo e profondo quanto il
Grand Canyon. È quello rimasto sul luogo dove è stata combattuta l'ultima battaglia. Pensate se questo accadesse al centro della nostra terra, nella sua zona agricola più produttiva.» Gli altri si guardarono. Non ci avevano pensato. Per Shelby e Cortez era stato soltanto un caso giudiziario con forte richiamo per i mass media. O la possibilità di far approvare una nuova legge riguardo ai fey. Tutti avevano osservato le conseguenze su breve distanza, salvo Veducci e forse Grover. «Lei cosa propone? Chiudere il caso con qualche cavillo e lasciarli liberi?» domandò Shelby. «No, se sono colpevoli. Ma voglio che vi rendiate conto di quello che c'è in gioco, tutto qui», disse Veducci. «Sembra che lei sia dalla parte della principessa», lo accusò Cortez. «La principessa non ha rifilato a un ambasciatore degli Stati Uniti un orologio affatturato per tirarlo dalla sua parte», ribatté Veducci. «E come facciamo a sapere che non ci stia facendo qualcosa, per ingannarci?» Shelby aveva l'aria di credere che fosse così. Veducci si rivolse a me. «Principessa Meredith, lei ha dato all'ambasciatore Stevens qualche oggetto magico o d'altro genere che lo rendesse favorevole a lei o alla sua Corte?» Sorrisi. «No, non l'ho fatto.» «Loro non possono mentire, se esponete la domanda nel modo giusto», fece notare Veducci. «Allora come ha potuto Lady Caitrin accusare questi uomini e darne la descrizione? Lei sembrava sinceramente traumatizzata», osservò Cortez. «Questo è un problema. Dovrebbe aver mentito, perché io le ho posto la domanda nel modo giusto, invece lei è apparsa irremovibile. Lei capisce il senso di tutto questo, principessa?» Trassi un lungo respiro e lo lasciai uscire lentamente. «Credo di sì. Lady Caitrin sa che mentendo ha tutto da perdere, perché se questo viene dimostrato può essere scacciata da Faerie. L'esilio è considerato peggiore della morte dalla nobiltà Seelie.» «Non solo dalla nobiltà», aggiunse Rhys. Le altre guardie annuirono. «Dice il vero. Anche i fey minori farebbero qualsiasi cosa per non essere esiliati.» «Allora dove sta la menzogna della Lady?» chiese Veducci. Fu Galen a rispondere, benché con aria incerta. «È possibile che sia stata vittima di un'illusione? Non può essere che qualcuno abbia usato un glamour così forte da ingannarla?» «Cioè da convincerla di essere stata aggredita quando non lo è stata affatto?» domandò Pamela. «Non sono sicuro che sia possibile ingannare così una sidhe.» Veducci ci
guardò. «È possibile, se non è stata del tutto un'illusione», disse Rhys. «Cosa vuoi dire?» domandai io. «Puoi piantare un bastone in terra e farlo sembrare un albero. Puoi creare un castello usando come base un torrione in rovina.» «È più facile costruire un'illusione simile, se hai qualcosa di fisico sopra cui costruirla», spiegò Doyle. «E su cosa potresti costruire, per simulare un'aggressione?» domandò Galen. Doyle lo guardò. La sua espressione era eloquente, ma Galen non capì. Ci arrivai prima io. «Come le storie dei sidhe che si portavano a letto una vedova comparendole davanti con le fattezze del marito appena morto in battaglia. Una cosa di questo genere.» «Sì. L'illusione usata come travestimento, da parte di chi commette l'atto», disse Doyle. «Sono assai pochi a Faerie quelli che hanno questo potere, oggi», commentò Frost. «Uno che potrebbe averlo fatto c'è.» Galen era molto serio. «Non puoi alludere a...» cominciò Frost, poi tacque. Tutti ci pensammo. Veducci parlò come se ci leggesse nella testa. Mi chiesi se, senza le protezioni contro la nostra magia che si portava addosso, avrei potuto individuare in lui le doti di uno psichico. «Il re della Luce e delle Illusioni... fino a che punto è bravo con le illusioni?» «All'inferno!» sbottò Shelby. «Questo lei non doveva dirlo. Così facendo apre loro la porta del ragionevole dubbio.» Veducci ci sorrise. «La principessa e i suoi uomini avevano un ragionevole dubbio quando sono entrati in questa stanza, ma non hanno accusato re Taranis di fronte a noi. Hanno tenuto all'oscuro di quel dubbio perfino i loro avvocati.» All'improvviso mi venne un pensiero terribile. Mi mossi verso Veducci, e solo una mano di Doyle che mi prese per un braccio m'impedì di toccare il funzionario. Aveva ragione, avrebbero potuto vedere in questo un'interferenza magica. «Mr. Veducci, lei sta pensando di accusare mio zio di questo complotto oggi stesso, durante la chiamata allo specchio?» «Pensavo di lasciare questo compito ai suoi avvocati.» Avevo la fronte imperlata di sudore freddo. Sentii il sangue che mi abbandonava il viso. Veducci parve incerto, sul punto di avvicinarsi a me. «Si sente poco bene, principessa?» «Ho paura per voi, per tutti voi, e per noi. Voi non conoscete Taranis. Lui è il monarca assoluto della Corte Seelie da oltre mille anni. Questo lo ha reso più arrogante di quanto possiate immaginare. Lui finge di essere un re
affabile e sorridente, con voi umani, ma mostra un volto molto diverso a noi della Corte Unseelie. Se si sentirà accusare di una cosa simile, non so cosa potrà fare.» «Ci farebbe del male?» domandò Pamela. «Non fisicamente, ma potrebbe usare la magia su di voi», risposi. «Lui è il re della Luce e delle Illusioni. Io mi sono trovata a parlare con lui durante una chiamata allo specchio, e la sua magia è quasi riuscita a sopraffarmi. C'è mancato poco che cadessi in suo potere, e io sono una principessa della Corte Unseelie. Voi siete umani. Se volesse mettervi sotto incantesimo, potrebbe farlo.» «Questo sarebbe illegale», disse Shelby. «Lui è un re che ha il potere di vita e di morte. Non ragiona come un uomo moderno, benché finga di esserlo per la stampa.» Mi sentivo stordita, e qualcuno mi portò una sedia. Doyle s'inginocchiò accanto a me. «Ti senti male, Meredith?» mormorò. Pamela Nelson domandò: «Sta poco bene, principessa?» «Sono stanca e preoccupata. Voi non avete idea di ciò che sono stati per me gli ultimi giorni, e io non oso parlarvene.» «Ha qualcosa a che fare con questo caso?» volle sapere Cortez. Lo guardai. «Si riferisce al motivo per cui sono stanca e preoccupata?» «Sì.» «No, non ha niente a che fare con queste false accuse.» Poi mi volsi a Doyle. «Cerca di persuadere queste persone a essere prudenti con Taranis.» Lui mi prese una mano. «Farò tutto il possibile, mia principessa.» Gli sorrisi. «So che lo farai.» Frost si accostò a me dall'altra parte e mi toccò una guancia. «Sei pallida. Anche per una con la pelle di luna come la tua, sei pallida.» Anche Abeloec si avvicinò. «Ho sentito dire che la principessa è abbastanza umana da prendere il raffreddore. Credevo che fosse soltanto un pettegolezzo antipatico.» «Voi non potete prendere il raffreddore?» domandò Pamela. «No, loro non possono.» Premetti la guancia sulla mano di Frost, continuando a stringere quella di Doyle. «Ma io posso. Non capita spesso, però capita.» E dentro di me aggiunsi: La prima principessa mortale di Faerie. Questo era uno dei motivi di tutti gli attentati alla mia vita, alla Corte Unseelie. Alcune fazioni credevano che se io fossi salita al trono avrei contaminato gli immortali con un'epidemia di mortalità. Avrei portato loro la morte. Come ci si poteva opporre a una voce di quel genere, quando loro erano immuni perfino dal raffreddore? E adesso
stavo per parlare col più astuto e luminoso di tutti, re Taranis, Signore della Luce e delle Illusioni. Che la Dea mi aiutasse, se si fosse accorto che mi presentavo a lui con questo meschino malessere umano. Gli avrei soltanto confermato quanto ero debole, quanto ero umana. Veducci controllò l'orologio. «Tra poco il re ci contatterà. È quasi ora.» «Se il suo tempo è in sintonia col nostro», osservò Cortez. Veducci annuì. «Vero. Nel frattempo posso suggerirvi di procurarvi del ferro freddo da portare addosso?» «Ferro freddo?» domandò Pamela Nelson. «Penso che in questo studio legale ci siano abbastanza oggetti metallici da aiutarvi ad avere una visione chiara, quando avremo a che fare con re Taranis.» «Vuol dire tipo graffette?» chiese Cortez. Veducci si girò verso di me. «Che ne pensa, principessa, delle graffette andranno bene?» «Dipende dal metallo di cui sono fatte.» «Possiamo controllarvele noi», si offrì Rhys. «Come?» volle sapere Veducci. «Se noi proviamo disagio nel toccarle, significa che vi saranno utili.» «Credevo che fossero soltanto i fey minori a non poter toccare il metallo», disse Cortez. «Alcuni di loro possono restare ustionati da certi metalli. Ma neppure i sidhe sono del tutto a loro agio con molti metalli forgiati dall'uomo», disse Rhys, sempre sorridendo. «Ustionati dal tocco del metallo...» Pamela rabbrividì. «Se vogliamo procurarci le graffette, non abbiamo il tempo di discutere le meraviglie dei fey», disse Veducci. Farmer accese un intercom e parlò con una delle molte segretarie o assistenti che lavoravano in altri locali dell'ufficio. Chiese di portare qualche scatola di graffette. «Anche tagliacarte, o temperini», suggerii. Shelby, Grover e altri due funzionari avevano già dei temperini. «Visto che temevate di essere incantati dalla principessa, non vi farà male avere anche qualcos'altro, tanto per sicurezza», disse loro Veducci. Fu lui a distribuire i fermagli metallici. Aveva preso il comando, e nessuno si oppose. Avrebbe dovuto essere un nostro avversario, ma ci stava aiutando. Era davvero sincero in questo? Lo faceva per desiderio di giustizia, o era soltanto una finta? Finché non avessi scoperto a cosa mirava Taranis, non potevo fidarmi di nessuno. Veducci venne davanti alla mia sedia, con la scatola dei fermagli. Guardò Doyle e Frost che stavano stretti a me, uno per lato. «Posso offrire alla principessa un po' di metallo extra?»
«Ne ha già addosso, come tutti noi.» «Le pistole e i coltelli, sì, questi li vedo.» Gli occhi di Veducci mi percorsero da capo a piedi. «State dicendo che la principessa è armata?» Lo ero, in effetti. Avevo un coltello in una fondina da coscia, e una piccola pistola dietro la schiena, in una di quelle nuova fondine speciali oblique fatte per essere portate sotto la blusa. Non ci aspettavamo che avrei dovuto usarla, ma era un modo di portare addosso del metallo, acciaio e piombo, senza che a Taranis risultasse evidente. Se mi fossi presentata a lui con del metallo, lo avrebbe preso come un insulto. Le guardie potevano farlo, perché erano guardie e quindi era comprensibile che fossero armate. «La principessa ha quello che le serve per proteggersi», disse Doyle. Veducci annuì. «Allora posso mettere in un cassetto questa scatola di graffette.» Echeggiò un suono di trombe, forte e chiaro, come se piovesse musica su di noi da una grande altezza. Era il segnale di chiamata con cui re Taranis si annunciava allo specchio. Si stava mostrando educato, e aspettava che qualcuno andasse a toccare lo specchio sul nostro lato. Ci fu un secondo squillo di trombe, mentre lo specchio davanti a noi si svuotava di ogni immagine. Doyle e Frost mi aiutarono ad alzarmi in piedi. Anche Rhys venne accanto a me, come se si fossero già accordati su questo. Doyle si portò più avanti, e Rhys mi passò un braccio intorno alle spalle. «Scusa se prendo il posto del tuo favorito.» Io mi voltai a guardarlo, perché si supponeva che la gelosia fosse un'emozione soltanto umana. L'espressione di lui mi confermò che sapeva qual era la scelta del mio cuore, benché il mio corpo non avesse ancora fatto nessuna scelta. Mi lasciava capire che lui conosceva i miei sentimenti per Doyle, e che ne era ferito. Uno sguardo, colmo di tutti questi pensieri. Doyle toccò lo specchio, e Rhys sussurrò: «Fai un bel sorriso per il re». Lasciai che sulla faccia mi scivolasse la maschera sorridente, frutto di una lunga pratica. Era un sorriso piacevole, ma non troppo felice. Un sorriso di corte, un sorriso fatto per nascondere pensieri che non erano sorridenti per niente.
Capitolo 4 † Lo specchio si riempì di luce. Fulgida, dorata luce solare, così intensa che tutti fummo costretti a distogliere lo sguardo per non restare abbagliati dalla luminosità di Taranis, re della Luce e delle Illusioni. Oltre il sipario sottile delle mie palpebre chiuse, una voce, credo quella di Shelby, disse: «Questo cosa diavolo è?» «Il re, che si sta facendo bello.» Non avrei dovuto dirlo, ma non mi sentivo bene ed ero irritata. Irritata perché mi avevano fatto venire lì. Irritata e spaventata perché conoscevo Taranis abbastanza da sapere che il peggio doveva ancora arrivare. «Farmi bello?» disse una gioiosa voce mascolina. «Questo non è farmi bello, Meredith, questo è ciò che io sono.» Aveva usato soltanto il mio nome di battesimo, senza nessuno dei miei titoli. Era un insulto, e gliel'avrei lasciato correre. Ma mi sorprese che non si fosse annunciato con tutta la sfilza dei suoi. Si mostrava informale, come se stessimo parlando in privato. Come se per lui gli avvocati e i funzionari umani non contassero. Dal bagliore che saturava la stanza uscì la voce di Veducci. «Re Taranis, io le ho parlato altre volte e non sono mai stato così accecato dalla sua luce. Se lei volesse avere pietà di noi semplici umani e attenuasse la sua gloria? Solo un poco?» «Cosa pensi tu della mia gloria, Meredith?» domandò la voce gioiosa, e il suo tono bastò a farmi sorridere mentre socchiudevo gli occhi per non rischiare danni alla retina. Frost mi strinse una mano, e quel contatto pelle contro pelle mi aiutò a pensare. Taranis non era una potenza per quanto riguardava la carne e il sesso. Per combattere la magia in cui era forte, dovevo usare quella in cui ero forte io, se non altro per riuscire a pensare in sua presenza. Allungai l'altra mano verso Rhys finché non trovai la pelle nuda del suo collo e di una guancia. Toccare i due uomini mi aiutò a restare lucida. «Penso che la tua gloria sia meravigliosa, zio Taranis.» Lui aveva ignorato i miei titoli, così io volli ricordargli che ero sua nipote, e non una qualsiasi sidhe Unseelie che si lasciava impressionare facilmente. Non che io fossi stata insultata troppo. A parte l'uso del mio nome senza titoli, lui mi stava riversando addosso le stesse normali insolenze che rivolgeva alla regina Andais. Quei due cercavano da secoli di surclassarsi a vicenda usando la magia. Io ero semplicemente finita nel mezzo di una partita che non avevo nessuna speranza di vincere. Se la stessa Andais non riusciva a fare di meglio che schermarsi dalla magia di Taranis, durante i
colloqui allo specchio, le mie assai più umili capacità rischiavano il collasso. Accettando quella chiamata, i miei uomini e io lo sapevamo bene. Avevo sperato che la presenza degli avvocati lo avrebbe indotto a moderarsi un poco. Evidentemente non era così. «La parola 'zio' mi fa sentire anziano, Meredith. Taranis, è così che dovresti chiamarmi, Taranis.» Dal suo tono si sarebbe detto che eravamo vecchi amici, e che lui fosse molto felice di vedermi. Se un sidhe avesse usato quel tono e quella magia con un altro sidhe, sarebbe stato immediatamente sfidato a duello, oppure punito dalla sua regina o dal suo re. Ma lui era il re, e nessuno avrebbe mai osato protestare. In quanto a me, nell'ultima occasione in cui ci eravamo parlati allo specchio gli avevo risposto con un atteggiamento di sfida che non gli era piaciuto affatto. Potevo permettermi di essere fin dall'inizio irrispettosa come al termine del colloquio precedente? «Allora, Taranis, zio. Potresti per favore attenuare la tua gloria, per consentirci di vederti?» «La luce ti fa male agli occhi?» «Sì.» E dietro di me ci furono dei borbottii d'assenso. Gli umani dovevano essere molto a disagio, adesso. «In tal caso attenuerò la mia luce per te, Meredith.» Sulla sua lingua il mio nome suonò dolce come il miele. Qualcosa di amabile e godibile. Frost si portò la mia mano alla bocca e ne baciò il dorso. Questo mi aiutò a resistere al fascino con cui Taranis cercava insistentemente di sommergermi. L'aveva fatto anche l'ultima volta, ed era una sorta di seduzione magica così potente da farmi piegare le gambe. Rhys mi si stringeva addosso, passandomi la bocca sul collo. «Non sta cercando d'impressionarci tutti, Merry. Mira dritto su di te», sussurrò. Mi voltai dalla sua parte, con gli occhi chiusi in quel bagliore. «L'ha fatto anche l'altra volta.» Una mano di Rhys mi trovò la nuca, sotto i capelli, e mi tenne girata verso di sé. «Non come oggi, Merry. Oggi ce la sta mettendo tutta per sopraffarti.» Rhys mi baciò. Fu un bacio gentile, attento al senso del decoro e a non sbavarmi il rossetto. Frost mi accarezzò il palmo della mano col pollice. Il loro contatto m'impedì di affogare nella voce di Taranis e in quel mare di luce. Prima di aprire gli occhi mi accorsi che Doyle si spostava davanti a me. Mi baciò sulla fronte, aggiungendo il suo tocco a quello degli altri come se sapesse bene ciò che Taranis stava facendo. Poi si spostò alla mia sinistra, e in quel momento sentii la voce del re. Nel suo tono non c'era più traccia di quella finta allegria. «Meredith, come osi presentarti a me insieme con quei mostri che hanno aggredito una nobile Lady della mia Corte? Se ne stanno lì come se non
avessero fatto niente di male. Perché non sono in manette?» La sua voce risuonava sempre ricca e profonda, ma aveva perso l'impatto del glamour vocale. Neppure Taranis poteva esprimere i suoi sentimenti oltraggiati conservando un tono caldo e seducente. La luce diminuì un poco. Doyle mi bloccava la vista dello specchio e nascondeva in parte anche Rhys agli occhi del re, ma conoscevo già quella sceneggiata. Taranis abbassava la luce solo per plasmarla in modo ingannevole. La usava per dare forma a una faccia, a un corpo e a un vestito fatti con la luce stessa. Biggs disse: «I miei clienti sono innocenti fino a prova contraria, re Taranis». «Lei dubita della parola di una nobile della Corte Seelie?» Non credo che stavolta il suo tono oltraggiato fosse una finzione. «Io sono un avvocato, altezza. Dubito di tutto.» Probabilmente Biggs voleva essere spiritoso, ma in tal caso non conosceva il suo interlocutore. Taranis non aveva nessun senso dell'umorismo, che io sapessi. Oh, lui pensava di essere divertente, ma a nessun altro era concesso essere divertente in sua presenza. Secondo le recenti voci giunte dalla Corte Seelie, il buffone di corte di Taranis era stato incarcerato per impertinenza. Avrei potuto criticarlo per questo, se Andais non avesse fatto ammazzare il suo buffone di corte, quattro o cinquecento anni addietro. «Questa dovrebbe essere una spiritosaggine?» La voce del re echeggiò nella stanza come il rotolare di un tuono. Era uno dei suoi nomi, Taranis il Tonante. Una volta era stato un dio del cielo e delle tempeste. I romani l'avevano paragonato al loro Giove, benché i suoi poteri non fossero mai stati equiparabili a quelli di Giove. «Naturalmente no», rispose Biggs, cercando di accompagnare le parole con un'espressione gradevole. Taranis si decise a mostrarsi agli occhi mortali. Era circondato da un alone baluginante, come se tutti i colori della sua immagine ondeggiassero. Le sopracciglia e la barba erano del loro vero colore, il rosso-arancio di un tramonto spettacolare. I lunghi capelli riccioluti avevano un rosso più sanguigno, come quello del sole prima d'immergersi nel mare. Gli occhi erano invece quelli che potrei chiamare «multipetali di verde», con tre sfumature: verde giada, verde erba e verde foglia. Sembrava che un fiore verde avesse sostituito l'iride dei suoi occhi. Da bambina, prima di capire che mi disprezzava, avevo pensato che fosse bello. «Oh, mio Dio», disse Pamela con un fil di voce. Mi voltai a guardarla. Aveva la bocca aperta e un'espressione vacua. Cercai di richiamare la sua attenzione su di me. «Lei conosceva soltanto le sue foto, vero? Quelle di quando gli piace fingere di essere molto umano.»
«Sì. Aveva i capelli rossi e gli occhi verdi, ma... non così, non così...» Cortez, il suo capo, la prese per un gomito e la portò a sedere su una sedia. Cortez era irritato, e non riusciva a nasconderlo. Interessante reazione da parte sua. Taranis puntava sulla ragazza i suoi verdi occhi di fiore. «Poche donne umane mi hanno visto in tutta la mia gloria, negli ultimi secoli. Cosa pensi del mio vero aspetto, bella mia?» Io ero certa che nessuna donna in carriera, diventata assistente del procuratore distrettuale di Los Angeles, permetteva a un estraneo di chiamarla «bella mia». Ma, se in altre occasioni questo avrebbe fatto inferocire Pamela, stavolta lei non disse verbo. Sembrava sopraffatta da lui, ubriaca delle sue attenzioni galanti. Abe si unì al nostro gruppo per essere d'aiuto. Galen lo seguì, con aria perplessa. Fu Abe che si chinò a sussurrarmi: «Qui c'è della magia che non è soltanto luce e illusione. Se al posto di Taranis ci fosse un altro, direi che ha aggiunto la magia amorosa al repertorio dei suoi trucchi». Doyle si piegò accanto ad Abe e mormorò: «È un incantesimo abbastanza potente da agire su Ms. Nelson». Tutti si dissero d'accordo. Non stavamo ignorando Taranis, ma poiché lui si era rivolto a Pamela dimenticammo quanto fosse irritante per un re non avere tutta l'attenzione altrui. «Non sono venuto qui per essere insultato», ci rimproverò, con quella voce tonante. Una volta mi avrebbe fatto impressione, ma giorni addietro avevo avuto intimità con Mistral. Anche lui era un dio delle tempeste, capace di far scoccare tuoni e fulmini nel corridoi del sithen di Faerie. Per quanto Taranis avesse robuste corde vocali, non poteva competere col rombare di Mistral. In effetti, quando i miei compagni si scostarono un poco per lasciarmelo vedere, mi parve un po' sfiatato, come se avesse fatto il passo più lungo della gamba. Guardando quelli che mi circondavano notai che tutti mi stavano toccando. Rhys mi teneva un braccio intorno alla vita, Frost faceva lo stesso dall'altro lato. Doyle mi stringeva il volto tra le sue mani forti. Abe mi posava una mano su una spalla, forse anche per non cadere (perfino da sobrio talvolta il suo equilibrio era poco stabile). Galen mi toccava un braccio, come faceva sempre quando mi stava vicino. Era come se io avessi raggiunto una massa critica di contatti. Riuscivo a pensare chiaramente. Non ero più sopraffatta, come la povera Miss Nelson. Una volta pensavo che quando Andais rispondeva alle chiamate allo specchio da sopra il suo letto, vestita soltanto dei corpi nudi dei suoi amanti, lo facesse per scandalizzare Taranis e la sua Corte. Due sole telefonate dello stesso genere mi erano bastate per capire che c'era del metodo nella sua follia. Per me, o cinque era il numero magico oppure l'insieme dei poteri di questi cinque uomini era ciò che funzionava.
In un modo o nell'altro quella conferenza telefonica cominciava a essere diversa da come sarebbe stata se l'incantesimo di Taranis avesse agito su di me. Interessante. «Meredith, guardami», ordinò Taranis. Io sapevo che c'era del potere in quella voce. Lo sentivo come altri avrebbero potuto sentire il mare. Vicino e mormorante. Ma non ero più immersa nel mare. Non ero più a rischio di affogare in quelle onde sonore. «Ti vedo, zio Taranis. Ti vedo perfettamente.» «Io riesco a vederti appena, circondata come sei dai tuoi uomini», disse lui. Aveva un tono che potevo decifrare. Ansia, rabbia. «Falli scostare un poco.» Doyle, Galen e Abe fecero per allontanarsi. Anche Frost si alzò in piedi. Soltanto Rhys rimase inginocchiato al mio fianco. Nel momento in cui le loro mani si staccarono da me, la luce emanata da Taranis aumentò. «Restate accanto a me, tutti voi», dissi. «Io sono la vostra principessa. Lui non è il vostro re.» Gli uomini esitarono. Doyle fu il primo ad accostarsi di nuovo, e gli altri lo imitarono. Io gli presi una mano, me la posai su una guancia e cercai di dirgli con gli occhi ciò che stava accadendo. Non c'era dubbio che l'incantesimo fosse mirato a me, dritto come una freccia contro la mia sola mente. Come potevo spiegare a tutti, senza dirlo a voce, quello che avevo appena capito? Rhys mi cinse la vita col braccio sinistro e mi attrasse a sé, lasciando appena abbastanza spazio al braccio di Frost, che si spostò più in alto. Abe prese posto dietro di me e sentii una delle sue mani larghe sulla spalla sinistra. Galen lo affiancò e mi strinse la destra fra le dita. Io porsi a Doyle anche la mano libera. Quando tutti furono di nuovo a contatto col mio corpo, la luce che circondava Taranis si smorzò. Lui restava sempre imponente e attraente, ma niente di più. Il re scosse il capo. «Meredith, come puoi offendermi così? Questi individui hanno aggredito una Lady della mia Corte, l'hanno violentata. E ti presenti qui con loro... ti lasci toccare da loro, come se fossero i tuoi favoriti di corte.» «In effetti, zio, sono alcuni dei miei favoriti.» «Meredith!» esclamò lui con aria sconvolta, come un parente anziano che vi sentisse dire «fottere» per la prima volta. Biggs e Farmer cercarono di avvicinarsi con l'evidente intenzione di appianare le cose. Credo che il motivo per cui gli avvocati non erano intervenuti prima fosse perché subivano gli effetti della magia usata da Taranis. Che lui facesse uso di qualche incantesimo era abbastanza chiaro, benché durante la nostra precedente conversazione allo specchio non me ne fossi accorta. Ma neppure Doyle o qualcun'altra delle mie guardie lo aveva notato. Forse questo si doveva al fatto che dopo il mio recente ritorno a
Faerie i nostri poteri erano aumentati. La Dea aveva reso la sua presenza molto più consistente che in passato. Tutti noi eravamo stati cambiati dal suo contatto e da quello del suo consorte, il Dio. «Io non parlerò di questo argomento alla presenza dei mostri che hanno seviziato una donna della mia Corte.» La voce di Taranis rimbombò nella stanza con echi temporaleschi. Gli umani reagirono irrigidendosi, scossi. Nell'abbraccio dei miei compagni io ero al sicuro da qualsiasi cosa Taranis cercasse di fare. Shelby si rivolse a noi. «Penso che sia una richiesta comprensibile. Propongo che i tre accusati aspettino fuori, mentre parliamo col re.» «No», mi opposi. «Principessa Meredith, lei non si dimostra ragionevole.» Sorrisi. «Mr. Shelby, in questo momento lei è manipolato dalla magia.» Lui si accigliò. «Non capisco cosa lei voglia dire con questo.» «So che lei non lo capisce.» Mi rivolsi a Taranis. «Ciò che stai facendo a questi umani è illegale secondo la legge americana. La stessa legge cui ti appelli per avere aiuto.» «Io non ho chiesto l'aiuto degli umani.» «Tu hai accusato i miei uomini dinanzi alle leggi umane.» «Io ho rivolto una petizione alla regina Andais per avere giustizia, ma lei ha rifiutato di riconoscermi il diritto di giudicare i suoi sidhe Unseelie.» «Tu governi la Corte Seelie, non quella Unseelie», gli ricordai. «Così mi ha risposto la tua regina.» «E allora, quando la regina Andais ha rifiutato la tua richiesta, ti sei rivolto agli umani.» «Mi sono appellato a te, Meredith, ma tu non hai voluto neppure rispondere alle mie chiamate.» «La regina Andais mi ha messo in guardia contro le tue comunicazioni allo specchio, e lei è la mia regina e la sorella di mio padre. Ho seguito il suo consiglio.» Più che un consiglio, era stato un ordine. Lei mi aveva detto di evitare Taranis, qualunque manovra stesse architettando. Quando una sidhe potente come Andais mi dice di evitare qualcuno per paura di ciò che può fare, io l'ascolto. Non ero mai stata così presuntuosa da pensare che il solo scopo di Taranis fosse il piacere di parlarmi allo specchio. Andais non l'aveva mai pensato, e ora, nel parlare con lui, cominciavo a credere che avesse dei buoni motivi. Non riuscivo a pensare a niente che la mia persona potesse offrirgli, e che giustificasse i suoi sforzi per comunicare con me. «Ma ora, grazie alle leggi umane, tu devi parlare con me», disse Taranis. Biggs intervenne: «La principessa ha accettato di venire qui per Cortesia. Non aveva nessun obbligo di partecipare».
Taranis non mosse gli occhi per guardare l'avvocato. «Ma ora tu sei qui, e sei più bella di quello che ricordavo. Non ti ho mai prestato la dovuta attenzione, Meredith.» Io risi, e fu una risata aspra. «Oh, no, zio Taranis. Io credo che tu me ne abbia prestata anche troppa. Quasi più di quanto il mio corpo mortale potesse sopportare.» Doyle, Rhys e Frost erano rigidi, intorno a me. Io sapevo cos'avrebbero voluto dirmi: Stai attenta, non parlare dei segreti delle nostre Corti dinanzi agli umani. Ma era stato Taranis a cominciare, tirando fuori gli scheletri dai nostri armadi. Io non facevo che seguirlo. «Non dimenticherai mai quel breve momento della tua infanzia?» «Tu mi hai picchiata fin quasi ad ammazzarmi, zio. Non è probabile che io lo dimentichi.» «Non sapevo quanto fosse fragile il tuo corpo, Meredith, altrimenti non ti avrei toccata in quel modo.» Veducci fu il primo a riprendersi, e mi domandò: «Principessa, re Taranis sta dicendo che l'ha picchiata quando lei era una bambina?» Guardai mio zio, così grande e imponente, così regale nei suoi abiti di corte bianchi e dorati. «Lui non lo nega. È così, zio Taranis?» «Per favore, Meredith, 'zio' è una parola così formale.» La sua voce era una melassa. Dal modo in cui Pamela cominciò ad avvicinarsi allo specchio, mi fu chiaro che il tono di Taranis era impregnato di glamour. «Lui non lo nega», disse Doyle. «Non sto parlando con te, Tenebra.» La voce del re tornò a essere tonante. Ma la seduzione non aveva funzionato con me, e non mi fece effetto neppure la sua minaccia. «Re Taranis, lei ammette di aver picchiato la mia cliente quand'era bambina?» domandò Biggs. Finalmente Taranis si voltò a scrutarlo, accigliato. Biggs reagì come se il sole gli avesse sorriso dal cielo. Le sue ultime parole furono un balbettio, e apparve incerto. Taranis disse: «Ciò che ho fatto molti anni or sono non c'entra niente col crimine commesso da questi mostri». Veducci si volse a me. «Quanto gravemente l'ha percossa, principessa Meredith?» «Ricordo quanto era rosso il mio sangue sulle bianche mattonelle della Corte Seelie.» Sentivo la magia di Taranis premere su di me affinché guardassi lui; io invece fissavo Veducci, perché sapevo che questo avrebbe innervosito il re. «Se mia nonna, la madre di mio padre, non fosse intervenuta, credo che lui mi avrebbe ammazzata di botte.» «Tu mi porti rancore, Meredith. Ti ho chiesto scusa per il mio comportamento, quel giorno.»
«Sì. Di recente ti sei scusato per quel pestaggio», dissi, tornando a voltarmi verso lo specchio. «Perché è stata picchiata?» mi chiese Veducci. Taranis ruggì: «Questi non sono affari degli umani!» Mi aveva picchiata quando gli avevo chiesto perché Maeve Reed, un tempo conosciuta come la Dea Conchenn, era stata esiliata dalla sua Corte. In seguito lei era diventata un'attrice famosa, la Dea Dorata di Hollywood, e lo era stata per cinquantanni. Tutti noi eravamo ancora ospiti nella sua villa, a Holmby Hills, anche se il recente aumento delle mie guardie ci stava mettendo a corto di spazio. Maeve ci aveva però lasciato a disposizione altri locali con la sua decisione di trasferirsi in Europa. Ciò che voleva, o almeno ciò che sperava, era tenersi il più alla larga possibile da Taranis. Era stata Maeve a rivelarci il più oscuro segreto di Taranis. Lui aveva cercato di sposarla, dopo aver ripudiato la sua terza moglie accusandola di sterilità. Maeve si era rifiutata, obiettando che la moglie precedente non era affatto sterile, poiché aveva avuto figli da un altro. Aveva osato rinfacciare al re che era lui a essere sterile, non la donna. Questo era accaduto nei primi anni del ventesimo secolo, e Taranis l'aveva esiliata, proibendo inoltre a tutti di parlare con lei. Dunque, la Corte Seelie ignorava che da un secolo Taranis sapeva di essere sterile, e che pur sapendolo non aveva detto niente né fatto niente. E, quando il re è sterile, tutta la sua gente e l'intera sua terra sono sterili. Taranis li aveva condannati a una lenta morte, come popolo. I sidhe potevano vivere quasi per sempre, ma non erano immortali, e niente nascite significava che il loro numero sarebbe diminuito fino all'estinzione. Se i sidhe della Corte Seelie avessero scoperto la verità, la loro legge li autorizzava a chiedere un sacrificio umano, con Taranis nel ruolo di protagonista. Per due volte Taranis aveva cercato di assassinare Maeve usando la magia, orribili incantesimi dei quali nessun sidhe avrebbe mai ammesso di essersi macchiato. I suoi tentativi erano stati diretti contro di lei, non contro di noi, ma doveva essersi chiesto se noi conoscevamo il suo segreto. Tuttavia, pur temendo la nostra regina, doveva essere certo che la sua gente non avrebbe mai creduto alle parole della Corte Unseelie. Forse era per questo motivo che aveva visto una minaccia in Maeve, e non in noi. «Se lei ha picchiato a sangue la principessa quand'era bambina, la cosa può riguardare questo caso», fu ciò che gli rispose Veducci. «Ora mi pento che il mio temperamento mi abbia preso la mano, con questa donna. Ma un mio momento di debolezza di molti anni fa non cambia il fatto che questi tre sidhe Unseelie abbiano fatto una cosa peggiore a Lady Caitrin.» «Se il re si è reso colpevole di sevizie sulla principessa, questa accusa contro i suoi amanti può avere un movente», disse Biggs.
«Lei sta suggerendo che c'è un movente romantico da parte del re?» obiettò Cortez con aperto sarcasmo, come se la cosa fosse tutta da ridere. «Non sarebbe la prima volta che un uomo, dopo aver seviziato una bambina, cerca poi di abusare sessualmente di lei da adulta», disse Biggs. «Di cosa mi sta accusando?» chiese Taranis. Cortez gli rispose: «Mr. Biggs cerca di provare che lei ha intenzioni romantiche verso la principessa. Io gli sto facendo notare che non è così». «Intenzioni romantiche», ripetè lentamente Taranis. «Cosa intende con questo?» «Lei ha intenzioni sessuali o maritali verso la principessa Meredith?» domandò Biggs. «Non vedo cos'abbia a che fare questa domanda col selvaggio attacco di questi mostri alla bella Lady Caitrin.» Gli uomini che mi circondavano s'irrigidirono visibilmente, perfino Galen. Tutti loro avevano capito che il re non voleva rispondere a quella domanda. Possono esserci due ragioni per cui un sidhe non risponde a una domanda espressa con tanta chiarezza. Una è la perversa propensione ai duelli psicologici degli scontri verbali, e Taranis non sapeva neppure cosa fosse, poiché alla Corte Dorata la sua parola era legge. L'altra è che la sua risposta avrebbe un contenuto compromettente. Ma Taranis non poteva avere intenzioni sessuali o romantiche verso di me. Non le aveva, ne ero più che sicura. Allora perché aveva evitato la domanda? Guardai Doyle e Frost alla ricerca di un indizio sulle loro facce. Cosa dovevo fare? Mi conveniva insistere sull'argomento, o ignorarlo? Qual era la cosa migliore? Cortez disse: «Nonostante tutta la nostra comprensione per i tragici fatti dell'infanzia della principessa, oggi siamo qui per indagare su un'altra cosa: l'aggressione di questi tre uomini a Lady Caitrin». Io mi ero voltata verso di lui, ma Cortez evitò ostentatamente il mio sguardo, come se lui stesso giudicasse un po' cinico quel richiamo all'ordine del giorno. «Lei si rende conto che sta soccombendo a un influsso magico di Taranis?» gli chiesi. «Credo che me ne accorgerei, principessa Meredith, se fossi sottoposto a questo tipo di pressione», disse Cortez. Veducci si fece avanti. «La natura della manipolazione magica è tale che la vittima non si accorge mai di ciò che le sta accadendo. È per questo che la consideriamo illegale.» Biggs fronteggiò lo specchio. «Lei sta usando la magia per manipolare chi si trova in questa stanza, re Taranis?» «Io non sto manipolando l'intera stanza, avvocato», rispose Taranis. «Posso fare una domanda?» intervenne Doyle.
«Io non parlo coi mostri della Corte Unseelie», disse il re. «Il capitano Doyle non è accusato di nessun crimine», gli fece notare Biggs. Mi accorsi che i nostri avvocati sostenevano meglio degli altri l'impatto con la magia di Taranis, a parte Veducci, che sembrava avere un buon autocontrollo. I funzionari della procura accettavano invece senza discussioni l'autorità morale che vedevano nel rango di Taranis, e questo a lui bastava per avere una forte influenza psicologica su di loro. Era la sottile magia della regalità. Lui era stato incoronato re di Faerie, e in quel titolo c'era un fascino che apriva la strada al suo potere. «Tutti costoro sono dei mostri.» Taranis mi guardò, con tutta la forza di quegli occhi verdi come petali di fiore. «Meredith, Meredith, torna da noi prima che il contagio degli Unseelie ti faccia qualcosa di terribile.» Se non avessi già alzato uno scudo contro il suo incantesimo, quell'appello avrebbe potuto attirarmi a lui. Ma in mezzo ai miei uomini, difesa dal loro potere, ero al sicuro. «Ho conosciuto le due Corti, zio. Le trovo ugualmente belle e orribili, ciascuna a suo modo.» «Come puoi paragonare la luce e la gioia della Corte Dorata alla tenebra e al terrore del Trono Oscuro?» «Non sono l'unica sidhe di sangue reale che abbia vissuto in entrambe le Corti, e che possa paragonarle, zio.» «Taranis, Meredith. Ti prego, Taranis.» La sua insistenza nel farsi chiamare per nome, invece di «zio», non mi piacque. Di fronte agli altri Seelie era sempre stato contrariato da quel mio modo più parentale di rivolgermi a lui, e sapendo che questo lo irritava io calcavo la mano a bella posta. Tuttavia nel tono dolciastro con cui mi rivolgeva quella richiesta non c'era irritazione, ma qualcosa che sembrava un mellifluo invito. «Come vuoi... Taranis», dissi, e nel momento in cui quel nome mi uscì di bocca potei sentire un peso nell'aria, una difficoltà a respirare. Strinsi i denti. Taranis aveva unito al suo nome un incantesimo di attrazione, con l'evidente scopo di confondermi la mente ogni volta che lo pronunciavo. Questo era contro tutte le regole di convivenza civile. Liti e duelli erano avvenuti per molto meno, in entrambe le Corti. Solo che nessuno sfidava a duello il re. Prima di tutto perché era il re, e poi perché un tempo era stato tra i più forti guerrieri sidhe. Forse non era più quello di allora, ma io ero mortale, e non potevo far altro che ingoiare il rospo. Doyle disse: «Ci serve una sedia per la principessa». Uno degli avvocati mi portò una sedia, scusandosi per non averci pensato prima. Anche questo era una conseguenza della pressione magica di Taranis, che annebbiava le idee e i riflessi. Io stessa mi ero dimenticata di essere lì in piedi, in una posizione scomoda che aveva finito per aumentare il mio disagio. Fui felice di mettermi a sedere. Avrei scelto scarpe coi tacchi bassi, se avessi previsto di
dover stare in piedi così a lungo. Quando mi sedetti ci fu qualche momento di confusione, e alcuni dei miei uomini persero il contatto fisico con me. Subito il corpo di Taranis emanò bagliori di luce dorata. Poi tutti ripresero la loro posizione difensiva e il re tornò ad avere un aspetto normale. O meglio, normale per quanto ci si poteva aspettare da lui. Frost era rimasto dietro la sedia, e mi stringeva una spalla. Mi ero aspettata che anche Doyle facesse lo stesso, ma fu Rhys a mettermi una mano sull'altra spalla. Doyle s'inginocchiò invece sul pavimento accanto a me e mi posò una mano su un braccio. Galen venne a sedersi davanti a me, a gambe incrociate, con la schiena a contatto dei miei polpacci coperti dalle calze di lana. Una delle sue mani si spostò ad accarezzarmi una caviglia, in un gesto che fatto da un umano sarebbe stato possessivo ma in un fey era soltanto indice di nervosismo. Abe s'inginocchiò dalla parte opposta rispetto a Doyle, ma non nella stessa posizione, perché quest'ultimo stringeva l'impugnatura della sua corta spada. Abe mi strinse una mano con forza. Se fosse stato umano avrei detto che era spaventato. Poi mi resi conto che si trovava di fronte a Taranis per la prima volta da quando il re lo aveva buttato fuori dalla Corte Seelie. Anche dopo il suo arrivo tra noi Abe non era mai stato tra i favoriti della regina Andais, perciò non poteva aver partecipato alle comunicazioni allo specchio tra le Corti. Mi piegai dalla sua parte, quel tanto che bastava a posargli una guancia sui capelli. Abe alzò la testa, stupito, come se non avesse mai immaginato che io potessi restituirgli un gesto d'affetto. La regina era più propensa a ricevere che a dare, fuorché quando si trattava della sofferenza. Io sorrisi della sua sorpresa e cercai di dirgli con gli occhi che mi dispiaceva non aver pensato a cosa significava per lui trovarsi di fronte al re. «Devo biasimare anche me stesso se oggi tu siedi tra loro, Meredith. Se tu avessi conosciuto le gioie dei Seelie, non consentiresti a quella gente di toccarti», disse Taranis. «Quasi tutti i sidhe che mi stanno intorno facevano parte della Corte Seelie, un tempo.» Evitai di pronunciare il suo nome. Volevo vedere se, smettendo di chiamarlo «zio», avrebbe trovato qualche altra scusa per farmelo uscire di bocca. Ero certa di aver avvertito una pressione di natura magica, nel pronunciarlo. «Sono ormai secoli che costoro vivono alla Corte Unseelie, Meredith. Sono diventati esseri deformi. Ma tu non hai niente a che fare con loro, e lasciarti andare via è stato una grave leggerezza da parte di noi Seelie. Sono davvero amareggiato dalla scarsa considerazione che abbiamo avuto per te. Voglio restituirti ciò che ti abbiamo tolto.» «Cosa intendi, dicendo che sono esseri deformi?» Pensavo di saperlo, ma
avevo imparato a non balzare facilmente alle conclusioni trattando con sidhe d'alto rango di entrambe le Corti. «Lady Caitrin ha descritto le mostruosità dei loro corpi. Nessuno di quei tre è abbastanza potente da celare con un glamour il suo vero aspetto durante gli atti intimi.» Biggs venne accanto a me come se gliel'avessi chiesto. «La deposizione della Lady è abbastanza precisa nei dettagli, al punto di sembrare che racconti un film dell'orrore.» Guardai Doyle. «Tu l'hai letta?» «Sì.» Il suo sguardo era indecifrabile, dietro gli occhiali neri. «E questa Lady afferma che i tre sidhe erano deformi?» domandai. «Sì», disse lui. Pensai a Stevens. «Anche l'ambasciatore ha detto di vedervi così.» Doyle ebbe un impercettibile movimento a un angolo della bocca, non visibile dallo specchio. Io sapevo cosa significava quel quasi-sorriso. Lui pensava che la mia intuizione fosse sulla giusta traccia. Bene, ma se io ero nel giusto dove mi stava portando quella traccia? «Secondo la deposizione della Lady, fino a che punto erano deformi?» domandai. «Lo erano al punto che nessuna donna umana sarebbe sopravvissuta alla violenza sessuale», disse Biggs. Mi accigliai. «Non capisco.» «Quella vecchia favola secondo cui gli Unseelie avrebbero una spina ossea sul membro virile», rispose Doyle. «Oh», borbottai. Ma, stranamente, quella malignità medievale aveva un'origine reale. Gli sluagh, il popolo di Sholto che faceva parte della nostra Corte, comprendevano la razza dei nittalopi, sgraziati umanoidi con l'addome gremito di tentacoli che potevano volare come pipistrelli. Erano parte attiva della famigerata Caccia Selvaggia. Il nittalope di sangue reale aveva nel membro virile una spina ossea che stimolava l'ovulazione nelle femmine della sua specie. Questo dimostrava che un nittalope era di sangue reale, perché soltanto uno di loro poteva fertilizzare le femmine. Gli antichi episodi di violenza su donne umane da parte dei nittalopi avevano contribuito alla cattiva fama di Faerie. Il padre di Sholto non era stato un nittalope reale, visto che sua madre, una sidhe, non aveva avuto bisogno della spina ossea per ovulare. Dato alla luce alla Corte Unseelie, Sholto era stato una sorpresa per molti aspetti. All'apparenza era un sidhe molto virile e attraente, se non si faceva caso a certe sue appendici extra qua e là. Soprattutto là. Di recente, tuttavia, quelle appendici gli erano state amputate con la forza. «Re Taranis», dissi, e di nuovo il suo nome mi fece pressione, come qualcosa
che mi attraesse verso di lui. Trassi un profondo respiro e mi rilassai contro il solido contatto di Rhys e Frost dietro di me, toccando Doyle e Abe con le mani. Galen parve sentire di cos'avevo bisogno, perché mi circondò un polpaccio con un braccio e lo attirò a sé, facendomi allargare le ginocchia ai lati delle sue spalle. Non tutte le mie guardie sarebbero state così concentrate su di me pur avendo Taranis davanti agli occhi. E io apprezzavo quei pochi che si dedicavano alla mia protezione senza preoccuparsi troppo della loro dignità personale. Ci provai di nuovo. «Re della Luce e delle Illusioni, stai accusando i miei uomini di essere così mostruosi che fare l'amore con loro è doloroso e orribile?» «È ciò che Lady Caitrin ha detto», rispose lui, e si appoggiò alla spalliera del suo trono d'oro massiccio, l'unica cosa che non aveva bisogno di un glamour per fare il suo effetto. Il re sedeva su un seggio che neppure uno sceicco arabo avrebbe potuto permettersi. «Tu hai detto che i miei uomini non possono mantenere del tutto la loro illusione di bellezza fisica durante il sesso, è così?» «Gli Unseelie non hanno lo stesso potere dei Seelie, sulle illusioni.» Taranis si rilassò sul trono, allargando le ginocchia come certi uomini quando vogliono mettere in risalto la loro mascolinità. «Allora, quando io faccio l'amore con loro, li vedo come sono in realtà?» «Tu sei in parte umana, Meredith. Non hai i poteri di un vero sidhe. Mi spiace doverlo dire, ma si sa bene che la tua magia è debole. Loro ti ingannano, Meredith.» Ogni volta che pronunciava il mio nome, l'aria sembrava ispessirsi. Una mano di Galen risalì su un mio polpaccio fin sopra l'orlo della calza di lana, dove potè finalmente toccarmi la pelle nuda. Quel contatto mi fece chiudere gli occhi un momento, ma servì a schiarirmi la mente. Fino a qualche tempo addietro ciò che Taranis aveva detto poteva essere stato vero, ma la mia magia era aumentata. Io non ero più quella di una volta. Nessuno lo aveva informato? Be', forse non era sempre una buona idea dire a un re ciò che non gli piaceva sentirsi dire. Taranis mi aveva trattata come un'inferiore, o peggio, per tutta la vita. Scoprire che io potevo salire al trono nella Corte rivale significava accorgersi di essere stato politicamente malaccorto: si era reso conto di aver fatto di me una nemica più pericolosa di quello che aveva creduto. Ma l'onesta idea di scusarsi per anni di vessazioni non gli passava neppure per la testa; altre menzogne, altri raggiri, e l'uso subdolo della magia per tentare di affascinarmi: questa era la sua tattica. «Durante il sesso io so cos'ho nelle mie mani e nel mio corpo, zio.» «Tu non conosci i piaceri della Corte Seelie, Meredith. Molte gioie ti aspettano, se solo vorrai tornare a noi.» La sua voce era dolce come un flauto. Una musica per le nostre orecchie.
Pamela Nelson ricominciò ad avvicinarsi allo specchio. Il suo viso era illuminato di meraviglia. Qualsiasi cosa vedesse, però, non era reale. Ormai ne ero certa. «Ho già detto due volte agli avvocati che tu stai usando degli incantesimi su di loro, zio, ma qualunque cosa tu stia facendo li induce a dimenticarlo. Tu li costringi a non vedere la verità, zio.» I funzionari intorno a noi sembrarono trarre un profondo respiro collettivo. «Questo mi era passato di mente», disse Biggs. «Era passato di mente a tutti.» Veducci si accostò a Pamela, che si era fermata davanti allo specchio e lo fissava come se fosse la cosa più affascinante dell'universo. La toccò su una spalla, ma lei non reagì; continuava a guardare il re. Si voltò verso i colleghi. «Cortez, la sua assistente ha bisogno di aiuto.» Lui aveva l'aria di essersi appena svegliato dal sonno e di non capire dove si trovava. «Cosa diavolo sta succedendo?» «Re Taranis usa la magia contro di noi.» «Credevo che il metallo ci avrebbe protetto.» «Lui è il re della Corte Seelie. Le nostre precauzioni sono servite a poco, e sembra che qualche graffetta in più non abbia cambiato la situazione.» Veducci prese la donna per le spalle e cominciò a tirarla indietro. «Cortez, si concentri e venga a darmi una mano», esclamò. Il suo tono allarmato fece sussultare Cortez, che pur stordito com'era si mosse e cercò di aiutarlo. Tra tutti e due allontanarono la Nelson di qualche metro dallo specchio e la fecero sedere. Lei non si ribellò, ma i suoi occhi restarono fissi su Taranis, che ci guardava dall'alto in basso con fiero disdegno. Questo interessante particolare mi colpì solo allora. Non mi ero accorta che il suo specchio lo stava inquadrando dal basso, dandogli una prospettiva che lo metteva più in alto di noi. Ma, naturalmente, lui si trovava nella sala del trono. E il suo trono era soprelevato, su una piattaforma. Dunque lui ci stava guardando, letteralmente, dall'alto in basso. Il fatto che io l'avessi capito con tanto ritardo mi confermò quanto effetto avesse l'incantesimo, qualunque fosse, che lui usava su di me. Io non riuscivo a vedere ciò che avrebbe dovuto essere evidente. «Tu stai adoperando la magia sugli umani, e questa è una flagrante violazione delle leggi americane», disse Doyle. «Io non parlo coi mostri come te e i tuoi colleghi.» «Allora parla con me, zio. Tu stai facendo un uso illegale della magia. Devi smetterla, oppure questo colloquio è finito.» «Posso giurare, su qualsiasi cosa tu voglia, che non sto deliberatamente usando la magia su nessun umano di sangue puro in quella stanza», disse Taranis.
Era una bugia molto ben confezionata, così vicina alla verità da non essere affatto una bugia. Risi. Frost e Abe sussultarono, come se non si fossero mai aspettati una simile reazione da parte mia. «Oh, zio, sei disposto a giurare su qualsiasi cosa io voglia che non stai cercando d'incantare me?» Lui mi gratificò di tutto il peso della sua bellezza mascolina, ma quella fulgida barba d'oro rosso rovinò l'effetto che poteva avere su di me. Non che fosse poco attraente dal punto di vista umano, ma io ero diventata adulta alla Corte di Andais. La regina aveva sempre preteso che i sidhe Unseelie non portassero la barba, e per qualche imperscrutabile motivo la sua volontà aveva impregnato il sithen, diventando legge di natura. Alla maggior parte di loro non sarebbe cresciuta la barba neanche se l'avessero voluto. I desideri della regina erano realtà, in Faerie. Io avevo spesso constatato a mie spese quanto ciò fosse vero. Nel sithen c'erano cose che stentavo molto a dire a voce, e se pure riuscivo a mantenere il controllo mentale necessario per formulare quelle parole lo dovevo solo alla mia percentuale di sangue umano. Ogni volta che uscivo da Faerie per tornare in una realtà più solida, dove potevo essere certa che i miei pensieri erano del tutto miei, tiravo un respiro di sollievo. Erano miei i pensieri che ora pensavo, mentre Taranis mi proiettava addosso il suo bel viso e i fantastici colori della barba e dei capelli. L'incantesimo che stava usando era potente, lo sentivo denso e pesante su di me, nella bocca e nei polmoni, come se la sua volontà fosse diventata l'aria che respiravo. Lui era a Faerie, e forse là quell'incantesimo avrebbe funzionato come lui voleva; qualunque cosa mi avesse chiesto io sarei stata costretta a dargliela. Ma qui eravamo a Los Angeles, non a Faerie, e il mondo umano mi faceva scudo. Il mondo umano mi circondava col suo ferro freddo e coi suoi metalli lavorati, col suo cemento e col suo vetro. C'erano fey minori che si sarebbero ammalati semplicemente entrando nella città e nei suoi edifici. Ma la mia parte umana mi rendeva immune da quell'ambiente. I miei uomini erano sidhe, non semplici fey, e il loro contatto rafforzava la mia capacità di resistere a ciò che veniva da Faerie. «Meredith, Meredith, torna da me!» Taranis protese le braccia come se potesse raggiungermi attraverso lo specchio e stringermi al petto. C'erano sidhe capaci di farlo. Non lui, a quanto ne sapevo io. Doyle si alzò, tenendomi per mano ma restando a mezzo metro di distanza da me, con l'altro braccio lungo il fianco. Sapevo cosa significava quel suo atteggiamento. Prendeva lo spazio per estrarre un'arma. Forse la pistola, visto che la mano con cui usava la spada più volentieri era quella che stringeva la mia. Frost si allontanò un poco dalla mia sedia, e la mano che mi teneva su una
spalla si alleggerì. Non ebbi bisogno di guardarlo per capire che anche lui si preparava all'azione, come Doyle. Galen si alzò in piedi, e questo interruppe il suo contatto con me. Subito la figura di Taranis avvampò di luce dorata. I suoi occhi emanarono tutto il calore e la vita delle cose verdi in crescita. Io feci per alzarmi dalla sedia, ma la mano di Rhys mi tenne giù con forza tale che non potei muovermi. «Galen», disse Doyle. Galen posò un ginocchio al suolo, in modo da potermi toccare di nuovo una gamba. Quel contatto fu sufficiente. Il bagliore dorato svanì, e così anche la compulsione ad alzarmi. «Abbiamo un problema.» Abe si appoggiò alla mia spalla destra, e i suoi lunghi capelli a strisce si aprirono dietro i miei. La sua risata suonò calda, mascolina. «Ah, Merry, Merry, hai bisogno di altri uomini. Sembra che quelli che hai non ti bastino mai.» Sorrisi, perché c'era del vero in quelle parole. «È troppo tardi per chiamare gli altri. Non arriverebbero in tempo», disse Frost. Esclamai: «Biggs, Veducci, Shelby, Cortez. Tutti voi, avvicinatevi». Cortez dovette stare con Pamela per impedirle di alzarsi dalla sedia e andare allo specchio, ma gli altri vennero verso di me. «Meredith, cosa stai facendo?» disse Taranis. «Cerco assistenza», risposi. Doyle fece disporre i funzionari tra noi e lo specchio, come un muro di corpi umani. Questo mi fu d'aiuto. Ma, nel nome di Danu, che razza d'incantesimo stava usando Taranis? Io non volevo invocare l'aiuto della Dea, non ne avevo nessuna intenzione. Ma era una vita che pronunciavo dentro di me o a voce quelle parole, così come a un umano capita di mormorare: «Che Dio mi aiuti», e in questi casi nessuno si aspetta davvero che la divinità intervenga. Così le pensai. Nella stanza nacque un profumo di rose selvatiche. Una corrente d'aria lo sparse qua e là, come se qualcuno avesse aperto una finestra, ma porte e finestre erano chiuse. «Merry, fermati», mormorò Rhys. Sapevo cosa voleva dirmi. Noi avevamo fatto in modo di tenere nascoste a Taranis certe novità, soprattutto il fatto che la Dea poteva attivarsi per me. In Faerie l'odore di rose era il segno preliminare di una manifestazione completa. Se la Dea, o anche soltanto una sua ombra, fosse apparsa in quella stanza, Taranis avrebbe saputo il mio segreto. Avrebbe saputo che doveva temermi. Noi non eravamo pronti per questo, non ancora. In silenzio pregai: Dea, ti prego, risparmia il tuo potere per dopo. Non svelare il nostro segreto a quest'uomo. Il profumo di rose era intenso, ma la corrente d'aria si placò. Poi anche il
profumo scomparve, come quello di una donna che si allontanasse dopo un'effimera vicinanza. Mi accorsi che la tensione degli uomini intorno a me si allentava. Gli umani erano perplessi. «Il suo profumo è sorprendente, principessa. Che cos'è?» «Parleremo di cosmetici più tardi, Mr. Biggs.» Lui parve imbarazzato. «Naturalmente. Mi scusi. Nel suo popolo c'è qualcosa che può confondere un povero avvocato.» Le sue parole erano fin troppo vere. Mi augurai che nessuno dei presenti scoprisse mai fino a che punto lo erano. «Re della Corte Seelie, tu hai offeso me e la mia Corte, e nel fare questo hai offeso anche la mia regina», dissi. «Cara, adorabile fanciulla.» La sua voce attraversò la stanza e mi accarezzò la pelle come se fosse la calda mano di un amante. Pamela Nelson mugolò di piacere. «Smettila!» gridai, e nella mia voce c'era un'eco di potere. «Se non la smetti di usare la magia su di me, farò spegnere lo specchio e non ci saranno più contatti tra noi.» «Loro hanno aggredito una donna della mia Corte. Devono essere consegnati a noi per ricevere la punizione.» «Dacci le prove del loro crimine, zio.» «La parola di una nobile Seelie è prova sufficiente.» E stavolta la sua voce non era più seducente. Vibrava di rabbia. «E la parola di una nobile Unseelie non vale niente, è così?» replicai. «La nostra storia ti dà la risposta.» Avrei voluto chiedere agli avvocati e agli altri funzionari di spostarsi per lasciarmi vedere Taranis, ma non osai. Finché non lo guardavo direttamente potevo pensare. Potevo sentirmi indignata. «Allora stai dicendo che io sono una bugiarda. È così, zio?» «Non tu, Meredith. Mai tu.» «Uno degli uomini che tu accusi era con me, nel momento in cui Lady Caitrin dice di essere stata violentata. Non può essere stato con me e con lei nello stesso tempo. Lei mente, oppure ha creduto nell'inganno di qualcun altro.» La mano di Doyle strinse la mia. Aveva ragione. Stavo dicendo troppo. Dannazione, quei duelli verbali erano difficili. C'erano dei segreti cui non si doveva accennare, ed era un problema decidere cosa dire e quando. «Meredith, Meredith, torna da me, da noi», continuò lui, e di nuovo la sua voce fu come un dolce contatto fisico. Pamela Nelson si lasciò sfuggire un gridolino estatico. Cortez disse: «Non riesco a tenerla!» Shelby andò ad aiutarlo, e questo mi aprì un improvviso spazio attraverso cui vidi lo specchio. La figura inquadrata era splendida, regale, e quella vista aggiunse forza di attrazione alle sue parole quando ripetè: «Meredith, vieni da me». Mi tese una mano, e io seppi che avrei potuto prenderla. Lo desiderai. I miei uomini mi tenevano ferma per le spalle, le braccia e le gambe,
inchiodandomi alla sedia. Io non volevo alzarmi, ma stavo cercando di farlo. Non avrei mai voluto ubbidire a Taranis, ma... ma... Fu un bene che tante mani me lo impedissero. Pamela cominciò a strillare: «È così bello, così bello! Io devo andare da lui! Devo andare da lui!» «La sicurezza», ordinò Doyle. La sua voce attraversò come una lama quell'atmosfera isterica. «Cosa?» Biggs batté le palpebre, ansimando. «Chiami la sicurezza! Chiami aiuto!» disse Doyle. Biggs annuì, sempre ansimando e sbattendo le palpebre, e andò al telefono della sua scrivania. La voce di Taranis fu secca e incisiva, violenta come una frustata. «Mr. Biggs, mi guardi!» Biggs esitò, con una mano sopra il ricevitore. «Tenete ferma la principessa», disse Doyle agli altri, e mi lasciò per andare da lui. «È un mostro. Non si lasci toccare da lui», ordinò Taranis. Biggs si voltò a guardare Doyle, spalancò gli occhi e fece un passo indietro, alzando le mani come a parare un colpo. «Oh, mio Dio!» sussurrò. Qualunque cosa vedesse guardando il capitano delle mie guardie, non era la realtà. Di fronte a me, Veducci si frugò in una tasca dei pantaloni, ne tirò fuori una manciata di vegetali misti e li scaraventò contro lo specchio. Le foglie e le erbe colpirono il vetro, ma invece di cadere al suolo rimasero appiccicate a esso come a una bolla d'acqua, generando piccoli cerchi di onde su quella che avevo supposto fosse una superficie solida. In quel momento seppi due cose. La prima, che Taranis poteva usare lo specchio per spostarsi da un luogo all'altro, abilità che molti sidhe avevano perduto. La seconda, che quando mi ordinava: «Vieni da me», lo intendeva alla lettera. Se fossi andata allo specchio lo avrei attraversato, passando dalla sua parte. Che la Dea mi aiuti, pensai di nuovo. Biggs sembrò risvegliarsi dall'incantesimo, e afferrò il ricevitore come se avesse ritrovato la sua volontà. Taranis si rivolse a me. «I tuoi sidhe sono mostri, Meredith. Non possono sopportare la luce del sole. Come possono non essere maligne le creature che si annidano nel buio?» Scossi il capo. «I miei uomini stanno alla luce del sole, belli e orgogliosi.» I miei compagni guardarono il re, eccetto Galen, che continuò a guardare me. Nei suoi occhi c'era una domanda: ero di nuovo padrona di me stessa? Io annuii per tranquillizzarlo, con quel sorriso che riservavo a lui da quando avevo quattordici anni. Taranis muggì: «No, tu non andrai a letto con l'uomo verde per portare la
vita nelle tenebre del sithen Unseelie! La Dea ti ha toccato, e il popolo della Dea siamo noi». Dovetti sforzarmi per esibire una faccia inespressiva, perché quelle parole potevano significare molte cose. Il re sapeva che il calice della Dea era venuto da me? O le voci che gli erano giunte lo avevano persuaso di qualcos'altro? Perché a questo punto era chiaro che c'era stata una fuga di notizie dal sithen Unseelie. Il profumo di rose selvatiche era tornato. Galen sussurrò: «C'è un odore di meli in fiore». Ognuno dei miei uomini sentiva ciò che aveva annusato nell'aria quando la Dea si era manifestata per noi. Lei non era soltanto una dea, ma molte entità. Era l'insieme di tutto il femminile, tutto il generatore di vita, e nei suoi profumi c'era tutto ciò che cresceva dalla terra. Doyle tornò verso di noi. «È prudente far questo, Meredith?» «Non lo so.» Mi alzai, e le loro mani si staccarono da me. Restai di fronte a Taranis, affiancata dalle guardie del corpo. Gli avvocati e i funzionari si erano fatti da parte, accigliati e confusi, salvo Veducci, che sembrava capire la situazione assai più di quanto avrebbe dovuto. «Tutti noi siamo il popolo della Dea, zio», dissi. «Gli Unseelie sono figli del dio oscuro.» «Non esistono dei oscuri. Noi non viviamo nella paura del diavolo come i cristiani. Noi siamo figli della terra e del cielo, figli della natura stessa. In noi non ci sono malvagità, solo differenze.» «Gli Unseelie ti hanno riempito la testa di bugie.» «La verità è la verità, sia alla luce del sole sia nella notte più nera. Tu non puoi nasconderti dalla verità per sempre, zio.» «Dov'è l'ambasciatore? Lui guarderà i corpi dei tuoi uomini e rivelerà l'orrore che la Lady ha detto di aver visto.» Ora c'era vento nella stanza, una brezza gentile che portava il tepore della primavera. Gli odori delle piante si mescolavano a dozzine; quello dei meli in fiore di Galen, quello delle foreste autunnali di Doyle, quello delle dolci valli fiorite di Rhys, quello del ghiaccio preferito da Frost, quello dell'idromele e del vino di Abe. E insieme con tutto questo si spandeva il profumo delle rose selvatiche. «Sento odore di fiori», disse Pamela Nelson con voce incerta. «E tu cosa senti, zio?» domandai. «Non sento niente, fuorché la corruzione che sta intorno a te. Dov'è l'ambasciatore Stevens?» «Affidato alle cure di maghi umani, in questo momento. Loro lo ripuliranno dall'incantesimo che gli hai messo addosso.» «Altre bugie», disse lui, ma nella sua espressione qualcosa smentiva quelle parole.
«Io ho fatto sesso con questi uomini. So che nei loro corpi non c'è niente di corrotto e deforme.» «Tu sei in parte umana, Meredith. Loro ti hanno stregata.» Il vento si fece più forte e investì la superficie dello specchio dove fluttuavano ancora erbe e foglie come a galla sull'acqua. Vidi il vetro incresparsi. «Cos'è l'odore che senti, zio?» «Non sento niente, se non il puzzo della magia Unseelie.» La sua voce era roca per la rabbia e un misto di altre emozioni. In quel momento compresi che Taranis era pazzo. Fino ad allora avevo creduto che tutti i suoi crimini fossero dovuti all'arroganza, alla sete di potere, ma guardando la sua faccia mi sentii raggelare, anche nell'abbraccio del vento della Dea. Taranis, il re della Corte Seelie, era pazzo. Lo vedevo nella luce nera dei suoi occhi, come se lui stesso si fosse strappato via la maschera di una falsa normalità, e ora non potesse più rimettersela. C'era qualcosa di guasto nella sua mente. Che il Consorte ci aiuti, pensai. «Tu hai perso la testa, o re», disse Doyle, con la sua voce profonda. «Voi siete il Buio, io sono la Luce!» Taranis alzò la mano destra a palmo avanti. Le mie guardie del corpo si precipitarono tra me e lui, mi gettarono a terra e si distesero sopra di me, per proteggermi coi loro corpi. Ci fu un violento crepitio, e potei sentire una vampa di calore attraverso la carne degli uomini che mi facevano scudo. Poi Pamela gridò e ci furono altri gemiti di spavento. Sotto le mie guardie del corpo, io aprii la bocca contro il collo di Galen. «Che cos'è? Cosa sta succedendo?» Dalla porta giunsero altre voci maschili. Quelli della sicurezza erano arrivati, ma cosa potevano fare le loro pistole contro chi poteva trasformare la stessa luce in un'arma? Le pallottole erano forse in grado di attraversare uno specchio per colpire chi stava dall'altra parte? Taranis aveva il potere di colpirci. Noi potevamo restituirgli il colpo? Altre voci sconosciute provenivano dalla parte opposta, dallo specchio. Io cercai di guardare oltre la spalla di Galen e i lunghi capelli di Abe, ma ero intrappolata nella penombra sotto i loro corpi, e non avrei potuto muovermi finché lo scontro non fosse finito. Ma non avevo nessuna intenzione di ordinare che si togliessero di mezzo. Se avessero pensato che non c'era più pericolo per me, si sarebbero affrettati ad alzarsi e portarmi fuori dalla stanza. Fino a quel momento avrebbero offerto la loro vita per salvarmi. Una volta questo mi aveva fatto sentire più sicura. Adesso le loro vite mi erano più care della mia. Dovevo sapere cos'aveva fatto Taranis. «Galen, cos'è successo?» «Ho i capelli di qualcuno davanti agli occhi. Sono cieco come te», rispose lui. Fu Abe a rispondermi.
«Le guardie di Taranis stanno cercando di calmarlo.» «Perché Pamela ha gridato?» ansimai. Ero a corto di fiato, per il peso che mi gravava sul petto. Sentii la voce di Frost gridare: «Portatela fuori!» Gli uomini sopra di me si mossero, finché Galen non mi prese per un braccio e mi tirò in piedi. Abe mi afferrò subito per l'altro braccio, ed entrambi corsero verso la porta, così in fretta che i miei piedi non toccavano terra. Alle mie spalle Taranis urlò: «Meredith, Meredith, no, loro non possono rubarti a me!» Un lampo di luce dorata esplose dietro di noi. Fummo investiti da un'onda di calore. Tra le voci che gridavano riconobbi quella di Rhys. Poi altri passi in corsa, ordini e grida, ma io pensai che non ce l'avremmo fatta a raggiungere la porta. A differenza di quello che succede nei film, nessuno può andare più veloce della luce. Neppure i sidhe.
Capitolo 5 † Abe inciampò al mio fianco e per poco non mi trascinò al suolo, ma Galen mi prese in braccio e balzò alla porta. Correva così in fretta che vedevo la stanza solo come una serie di strisce di colore. Più che aprire la porta e uscire fu come se il battente non fosse abbastanza solido da fermarci. La nostra velocità era tale che non potei capire se Galen avesse abbassato la maniglia per aprire o no; in ogni modo, un attimo dopo eravamo fuori. Mi teneva sulle braccia come una bambina, o una sposa la sera delle nozze. Soltanto nel corridoio rallentò il passo, mentre ci allontanavamo dai confusi rumori dello scontro in corso nello studio dell'avvocato Biggs. Sapevo di poter chiedere a Galen di lasciarmi correre rischi che la maggior parte delle altre guardie avrebbe rifiutato. Pensai di ordinargli di fermarsi, ma non ero sicura di ciò che stava succedendo. Se indugiare lì fosse stato la cosa peggiore, per me e i miei uomini? Se stavano dando la vita per me, tornando indietro io non rischiavo di rendere inutile il loro sacrificio? Era uno di quei momenti in cui avrei dato qualsiasi cosa per non avere le responsabilità di una principessa. Mi stava succedendo troppo spesso di dover scegliere un comportamento tattico, in contrasto con l'istinto che mi suggeriva d'impugnare un'arma e battermi insieme con le mie guardie del corpo. Galen mi mise giù, ma continuò a tenermi per mano, come se sapesse che avrei potuto tornare indietro. Aveva premuto il pulsante per chiamare uno dei due ascensori, e sentii il macchinario ronzare dietro le porte chiuse. Ma non potevo andarmene così. Ancor prima che la porta dell'ascensore si aprisse fui certa che non potevo e non volevo. Non ce la facevo ad andarmene senza almeno sapere se qualcuno era stato ferito, e quanto gravemente. Indietreggiai, facendo resistenza alla mano di Galen. Lui mi guardò a occhi spalancati. Su un lato del suo collo verdolino un'arteria pulsava con forza, come se la cravatta che gli avevano fatto indossare lo stringesse troppo. Scossi il capo. «Merry, dobbiamo allontanarci. Ho il compito di tutelare la tua sicurezza.» Cercai di tirarlo indietro, verso la porta che si era chiusa dietro di noi, o che non si era affatto aperta per lasciarci uscire. Non riuscivo a ricordare se si era aperta o no. Più ci pensavo e meno mi sembrava di ricordare che fosse accaduto. Questo avrebbe potuto significare che Galen e io eravamo passati attraverso il battente di legno. Impossibile, fuori da Faerie. Impossibile, ma era successo oppure no?
Le porte dell'ascensore si spalancarono. Galen entrò nella cabina; io invece puntai i piedi e rimasi fuori, a braccio teso. «Merry, per favore. Ragiona, non puoi tornare là dentro.» «Non posso neppure andarmene. Se voglio diventare una regina devo smetterla di scappare. Per governare una Corte di Faerie devo essere anche una guerriera. Devo dimostrarmi capace di combattere.» Lui cercò di tirarmi dentro l'ascensore, io mi puntellai allo stipite con una mano per fare resistenza. «Tu sei mortale. Potresti morire», disse. «Tutti noi possiamo morire. I sidhe non sono più immortali. Lo sappiamo entrambi», replicai. Lui allungò l'altra mano a fermare le porte che si stavano chiudendo sul suo braccio. «Ma noi sidhe siamo molto più duri a morire degli umani. Tu puoi restare ferita o uccisa come ogni umano. Non posso permetterti di tornare in quella stanza.» Mi resi conto all'improvviso che quello era un momento decisivo per me. Che genere di regina sarei stata? «Tu non puoi permettere? Galen, io dovrò governare, oppure non governerò niente. Non posso fare entrambe le scelte.» Con uno strattone liberai la mano dalla sua, e lui non si oppose. Ma mi guardò, studiò la mia faccia come se non mi conoscesse. «Vuoi davvero costringermi a lottare con te per portarti via di peso? Guarda che potrei farlo.» «No, tu non puoi farlo e non lo farai.» Gli voltai le spalle e m'incamminai nel lungo corridoio interno dello studio legale, ignorando le allarmatissime segretarie che sbirciavano da alcune porte. Galen mi raggiunse in pochi passi. Si sbottonò la giacca, estrasse la pistola dalla fondina e tolse la sicura. Io allungai una mano sotto la blusa, dietro la schiena, e impugnai la mia piccola automatica. Me l'ero procurata in sostituzione della LadySmith 9 mm che Doyle mi aveva sequestrato a Faerie, prima di passare al mio servizio. Era un'arma che mi piaceva, molto usata dalle donne della polizia ma anche, stranamente, da numerosi uomini. Ormai la si vendeva in diversi colori, tra cui anche il rosa. Ma rosa o brunita, o in acciaio cromato, era un'ottima pistola, e sentivo che con un po' di esercizio avrei imparato a sfruttarla al meglio. Ancora non riuscivo a estrarla con la rapidità di Galen, perché la fondina era nuova e aveva bisogno di un po' di tempo per ammorbidirsi. Ma, se Taranis era pazzo, avrei potuto fare tutta la pratica che mi serviva.
Capitolo 6 † In quel momento la porta dell'altro ascensore si aprì e ne uscì un uomo della sicurezza, seguito da due infermieri con un lettino a rotelle e borse per il pronto intervento. Dalla porta delle scale arrivarono altri due medici, seguiti da un agente in borghese armato di pistola che ci ordinò di fermarci dov'eravamo. Gli infermieri restarono qualche momento accanto a noi, mentre l'agente correva avanti per identificare la porta dello studio privato di Biggs, quello da cui eravamo usciti. Una delle segretarie gliela indicò, pallida e scossa. Io mi accorsi che il cuore mi batteva forte. Chi era stato ferito, e quanto gravemente? Uno degli infermieri, una donna, vide le nostre pistole. Senza starci a pensare io proiettai un glamour intorno alla mia mano e l'arma prese l'aspetto di una piccola borsa. La donna corrugò le sopracciglia, poi scosse la testa e seguì i colleghi. «Bella borsetta. Dove l'hai comprata?» mormorò Galen. Io guardai la sua mano e vidi che impugnava un mazzo di fiori. Sembrava del tutto reale perfino a me. L'uomo della sicurezza in uniforme ci aveva riconosciuti, o almeno aveva riconosciuto me. «Principessa, non possiamo lasciarvi andare là dentro prima di avere tutto sotto controllo. Restate qui, tra poco arriverà la polizia.» «Fate il vostro lavoro.» Non potevo stare a discutere con lui. D'altra parte non era un agente di polizia, perciò non ero obbligata a ubbidirgli. Ma la sicurezza aveva chiesto aiuto ai medici dell'edificio ancora prima di chiamare la polizia. Nel nome di Danu, cos'era successo là dentro? La porta dello studio si era richiusa dietro il lettino a rotelle. Galen e io ci avvicinammo senza esitare. Con lui non c'era il pericolo di malintesi. Io avrei dato gli ordini, e lui avrebbe ubbidito. C'erano momenti in cui questo era ciò che desideravo dai miei uomini. Galen aprì la porta e io usai il suo corpo come scudo, tanto per precauzione. Se lo scontro fosse stato ancora in corso lui mi avrebbe spinta fuori. Ma era chiaro che, se qualcuno stava ancora usando le armi, anche i medici avrebbero dovuto restare all'esterno in attesa della polizia. Galen mi tenne dietro di sé con un braccio. Udivo delle voci, alcune spaventate, altre calme, altre ancora un po' stridule. Abe disse: «Dea, vorrei qualcosa da bere». «Le daremo qualcosa per il dolore», fece l'infermiera. Spinsi contro la schiena di Galen per fargli capire che volevo vedere. Lui
trasse un lungo respiro un po' tremulo, poi oltrepassò la soglia della stanza e mi lasciò vedere l'interno. Un paio di medici erano chini su Abe, che giaceva bocconi presso la porta. Avevano scostato i suoi lunghi capelli, per vedere meglio le ustioni sulla schiena. La mano di potere di Taranis gli aveva bruciato tutta la parte posteriore della giacca, la camicia e la pelle sottostante. Una delle guardie della sicurezza in uniforme blu venne verso di noi. «È necessario che lei aspetti fuori fino all'arrivo della polizia, principessa Meredith.» Biggs, con una manica del suo costoso completo grigio mezza bruciata, aggiunse: «Per favore, principessa. Non possiamo garantire la sua sicurezza». Guardai il grande specchio. Riuscivo a sentire la voce di Taranis in distanza, ma lui non era visibile. Stava gridando: «Lasciatemi andare! Io sono il vostro re! Toglietemi le mani di dosso!» Al centro dello schermo c'era invece un altro sidhe, un cortigiano che io conoscevo, Hugh Balenus. In effetti Hugh aveva diritto al titolo di «sir», ma contrariamente ad altri nobili non insisteva su quel particolare. Era anche uno degli ufficiali della guardia personale di Taranis. A differenza della Corte Unseelie, dove certe fisime sessiste erano abbastanza ignorate, tutte le guardie al servizio del re erano maschi. Io non avevo mai notato che per molti versi c'era una notevole somiglianza tra Hugh Balenus e Taranis. I suoi lunghi capelli lisci erano una cascata di fuoco, non del colore del cielo al tramonto come quelli del re, ma simili a vere fiamme in movimento: rosse, gialle e arancione. Frost e Rhys erano in piedi davanti allo specchio e stavano parlando con lui. Ma Doyle dov'era? Avrebbe dovuto essere con loro. Dovetti attraversare metà della stanza e oltrepassare il capannello dei funzionari della procura per vedere la figura sulla quale erano al lavoro altri medici e infermieri. Doyle giaceva sul lettino a rotelle, immobile. Il suo abito era a pezzi, come se qualcuno avesse cercato di raschiarglielo via di dosso con un rastrello. Il mondo si restrinse nei miei occhi finché tutto il resto della stanza non scomparve e potei vedere soltanto lui. In quel momento non m'importava niente dello specchio, o di Hugh Balenus, o del fatto che finalmente Taranis avesse fatto qualcosa che non poteva più nascondere a tutti gli altri sidhe. C'era solo quella figura immobile sul lettino, e nient'altro. Galen era accanto a me e mi teneva una mano su una spalla. Non ero molto sicura se lo facesse per darmi coraggio o per impedire che mi avvicinassi di più. Ferma a due passi dal lettino guardai il corpo bello e muscoloso della mia Tenebra. Doyle, che aveva combattuto mille battaglie prima che io venissi al mondo. Doyle, che un tempo sembrava indistruttibile come il suo soprannome. Il buio non può essere ucciso; è sempre con noi.
Il suo abito non era strappato; era bruciato, come quello di Abe. A un primo sguardo la sua pelle nera non sembrava ustionata come quella bianca di Abe, ma in realtà lo era, sulla parte superiore del petto e su una spalla. E la sua faccia... metà era stata bendata, dalla fronte fin quasi al mento. Capii che, se i medici si erano occupati prima di tutto del viso, significava che era ustionato più gravemente del petto. C'era una confezione di soluzione fisiologica appesa a un sostegno. Il tubicino flessibile era collegato a un ago fissato all'avambraccio con un cerotto. Guardai i medici e gli infermieri. «Credete che...?» «A parte lo shock, non è in pericolo di vita», rispose uno di loro. Stavano già spingendo il lettino verso la porta. «Ma dobbiamo ricoverarlo subito al reparto ustionati.» «Reparto ustionati...» Mi sentivo intorpidita e stupida. «Dobbiamo andare», disse un infermiere, e la sua voce era gentile, come se capisse che ero sconvolta. Io mi accorsi di aver afferrato la sbarra laterale del lettino, ma non riuscivo a lasciarla. Rhys mi fu accanto. «Meredith, abbiamo bisogno di te allo specchio. Con Abe e Doyle può andare Galen.» Io scossi il capo. Rhys mi prese per le spalle e mi fece distogliere lo sguardo da Doyle, girandomi verso di sé. «Adesso è necessario che tu sia la nostra regina, non l'amante di Doyle. Puoi farcela, oppure dobbiamo restare qui da soli?» La rabbia esplose istantanea, e mi fece ribollire il sangue nelle vene. Ero sul punto di gridare: Come osi? ma in quel momento Taranis urlò ancora: «Come osate toccare il vostro re!» Mi tenni le parole in bocca, anche se l'onda di rabbia mi fece arrossire. «Merry, mi dispiace. Mi dispiace più di quanto io possa dire, ma qui abbiamo bisogno di te.» La voce mi uscì calma, rigida e tesa ma calma, molto controllata. «Chiama la villa. Voglio che uno dei nostri curatori vada all'ospedale, anzi meglio tutti e due.» Annuii, e la rabbia cominciò a spegnersi al pensiero che non sapevo chi fosse il più grave, se Doyle o Abe. «Tutti e due», ripetei. «Li chiamo subito, stai tranquilla. Ma Frost ha bisogno di te allo specchio.» «Ho capito.» Rhys mi baciò la fronte, e tirò fuori di tasca il suo cellulare. Sbattei le palpebre, poi mi rivolsi a Galen. «Vai all'ospedale con loro.» «Il mio dovere è di stare con te.» «Il tuo dovere è di andare dove la tua principessa ti dice di andare. Ora fallo. Per favore, Galen, non abbiamo tempo.» Lui esitò un momento, quindi fece un cenno d'assenso che era quasi un inchino e si affrettò via dietro il lettino
a rotelle. Io non avevo dato a Doyle il bacio d'addio. No, quello non era un addio. Lui era un sidhe. Uno dei più grandi guerrieri e maghi che Faerie avesse mai avuto. Non sarebbe morto per le ustioni, neppure per quelle causate dalla magia. Quelle furono le parole cui la parte razionale della mia mente volle credere, ma quella irrazionale era un groviglio dove comandava soltanto la paura, non la logica. Mi costrinsi a camminare verso l'alta figura di Frost. Un passo alla volta. Mi accorsi di avere ancora la pistola in mano. Il glamour la nascondeva, ma la mia concentrazione era pessima. Volevo che il Seelie vedesse l'arma? Non m'importava molto. Avrebbe dovuto importarmi? Probabilmente sì. Mi fermai, alzai il bordo della blusa dietro la schiena e rimisi la pistola nella fondina. Il motivo per cui lo feci fu perché non volevo far uso dell'arma, nel caso in cui Taranis riuscisse a liberarsi dei suoi uomini e tornasse allo specchio. Questo avrebbe fatto una pessima impressione. Per quanto soddisfacente fosse l'idea di sparargli, io ero una sidhe di sangue reale in predicato per assumere il rango di regina, e ciò significava che non potevo permettermi gesti sconsiderati. Erano sbagli che potevano costare cari, come il disastro di quella giornata aveva dimostrato. Che tu sia dannato, Taranis, pensai. Perché non hai voluto abdicare cent'anni fa, risparmiando dolori a tutti quanti? Trassi un lungo respiro e cercai di mantenere il controllo. Avevo lo stomaco contratto da emozioni violente che in quel momento non potevo permettermi. Mi mossi verso Frost e lo specchio su cui campeggiava la figura di sir Hugh, pregando la Dea che mi aiutasse a non crollare di fronte a quel Seelie. Andais era famigerata per il suo carattere violento e capace di tutto. Ora Taranis aveva dimostrato di essere ancora più instabile. Io potevo soltanto pregare di essere la governante di cui c'era bisogno in un momento così delicato. Non dovevo mostrarmi debole. Nervi, era una questione di nervi. Dea, ti supplico, fai che Doyle se la cavi. Quando ebbi formulato dentro di me quella preghiera, cui tenevo molto, mi sentii più calma. Sì, io volevo essere una buona regina. Sì, io volevo mostrare ai Seelie che non ero folle come mia zia e mio zio, ma per essere sincera nulla m'importava più dell'uomo che era stato portato via sul lettino a rotelle. Non era così che una regina doveva pensare. Questo era il modo in cui pensava una donna, ed essere regina significava essere prima di tutto regina, lasciando il resto al secondo posto. Questo era ciò che mi aveva insegnato mio padre. Me l'aveva insegnato prima che un assassino gli rubasse la vita. Scacciai quel pensiero e andai a raggiungere il mio Killing Frost. Io sarei stata la regina che mio padre mi aveva insegnato a essere. Non avrei messo in imbarazzo Doyle mostrandomi inferiore a ciò che lui si
aspettava da me. Raddrizzai le spalle, dando a me stessa tutta l'altezza che potevo avere. I tacchi di dieci centimetri mi erano d'aiuto, anche se accanto all'alta figura di Frost non potevo evitare di apparire delicata. Quando mi fermai al suo fianco, la decisione di fare il mio dovere era amara come il sapore di fiele in bocca.
Capitolo 7 † L'inchino di Hugh Balenus mi consentì di notare che non aveva cominciato la giornata coi capelli sciolti, bensì acconciati in una complessa treccia, a giudicare dai resti di alcuni nastri e ciocche bruciacchiati. Quando si rialzò potei vedere un vasto squarcio sulla sua tunica e sulla biancheria sottostante, che lasciava a nudo la pelle dal tono dorato. Gli indumenti erano da buttare via, ma sul corpo non sembrava avere nessuna ferita. «Sir Hugh si è messo davanti a Taranis», m'informò sottovoce Frost. «E stato investito da una parte del colpo diretto ad Abeloec.» «Capisco. Cosa mi consigli di dire?» mormorai. La mia voce era del tutto normale. Di una normalità che mi parve quasi sconvolgente. Nel fondo della mia mente lampeggiò una domanda: com'era possibile che io fossi così calma? Semplice assuefazione alle azioni violente? Effetto dello shock? «Se sir Hugh non fosse uno dei sidhe più anziani potresti ringraziarlo, per aver rischiato la vita nel tentativo di proteggere i nostri guerrieri.» Alzai lo sguardo sull'alto e robusto compagno che mi stava accanto. Nei suoi occhi grigi vidi quella che sembrava l'immagine di un albero spoglio sullo sfondo di un panorama invernale, una distesa di neve da cui spuntavano solo cose congelate. Sapevo che era la sua magia a creare quegli strani effetti, nei momenti d'ansia. Già altre volte ero rimasta sbalordita scoprendo che gli occhi di Frost potevano riempirsi d'immagini di posti lontani. Quel giorno c'era un'immagine immobile, fredda. Quel giorno lui aveva il gelo dell'inverno dentro di sé. Un gelo che lo proteggeva, che impediva alle sue emozioni di sopraffarlo. Solo allora compresi cosa l'aveva aiutato a superare i secoli di meschini tormenti della regina. Lui era in grado di rifugiarsi nel freddo che aveva dentro. Gli toccai un braccio, e il mondo diventò un po' più accettabile. Anche il panorama invernale nell'interno dei suoi occhi prese vita; qualcosa si mosse, bianco e cornuto. Feci in tempo a vedere un cervo candido, prima che Frost si chinasse a baciarmi. Fu un bacio casto, gentile, e mi disse che lui capiva ciò che mi costava mantenere la calma. Mi disse che sapeva quanto era importante Doyle per me, forse più importante di lui. Tenendo Frost per mano mi voltai verso lo specchio. Hugh disse: «Ricordo di aver avuto una visione. Un cervo bianco. Camminava come un fantasma proprio dietro voi due». «Quanto tempo fa l'hai avuta?» domandò Frost. Hugh girò gli occhi su di me. Erano neri, cosparsi di punti arancione simili a
scintille sulla cenere di un fuoco spento. «Molto tempo fa.» «Sembra che quella visione non ti abbia sorpreso, sir Hugh», osservai. «Ci sono cigni nel lago presso i tumuli Seelie. Cigni con collane d'oro intorno al collo. La prima volta che sono giunti in volo in questa terra è stato poco tempo fa, la notte in cui tu hai combattuto contro la Caccia Selvaggia.» Dietro di noi, la voce di Rhys disse: «Andiamoci cauti con ciò che diciamo qui, sir Hugh. Ci sono dei funzionari del governo americano». Anche lui mi affiancò, ma non mi prese l'altra mano. «Sì, il nostro re ha scelto un momento infelice per mostrare il suo lato peggiore.» «Un momento infelice», ripetei io, senza celare il sarcasmo. «Un vero eufemismo per ciò che è successo qui dentro.» «Non posso permettermi altro che eufemismi, principessa», disse Hugh. «Ci è stata fatta un'offesa troppo grave perché la cosa finisca qui», replicai, con voce fredda. «Se io stessi parlando con la regina dell'Aria e delle Tenebre, mi aspetterei una guerra, o quantomeno un duello tra monarchi. Ma si dice che la principessa Meredith NicEssus sia una creatura più moderata di sua zia, e anche di suo zio.» Inarcai un sopracciglio. «Una creatura moderata?» Hugh mi rivolse un altro inchino. «Una donna moderata, diciamo. Nella mia scelta di parole non c'è nessun oltraggio, principessa. Ti prego di non offenderti.» «Faccio il possibile per non sentirmi offesa, fuorché quando l'offesa c'è.» Sir Hugh mi guardò, e sulla sua bella faccia, ornata di barba e baffi ben curati, potei vedere che faceva uno sforzo per controllarsi. Un tempo era stato un dio del fuoco, e dunque un individuo tutt'altro che moderato. La maggior parte delle divinità elementali aveva le caratteristiche del proprio elemento. Questo avevo potuto constatarlo con Mistral, che era stato un dio delle tempeste. «E io faccio il possibile per non offendere», rispose lui. «Come può essere così calma? Non ha visto cos'è successo? Due dei suoi amanti sono stati portati via in barella.» Nella voce di Pamela c'era una nota isterica che minacciava di peggiorare. Un paio di suoi colleghi intervennero per placarla, ma non feci molta attenzione a ciò che le dissero. Purché la tenessero tranquilla e lontana da me, non mi preoccupavo. Ero certa che non ci sarebbe stato nessun procedimento legale contro i miei uomini per la supposta aggressione a Lady Caitrin, perché se i Seelie avessero voluto giocare duro noi avremmo potuto seppellirli con ciò che Taranis aveva appena fatto. E avevamo i migliori avvocati e procuratori della contea come testimoni oculari. Se Doyle e Abe non fossero rimasti feriti, avrei potuto dire che la
cosa si era conclusa nel modo migliore. La porta si aprì, ed entrarono altri due o tre infermieri. Nel corridoio c'era la polizia, e mi chiesi perché ci avesse messo tanto ad arrivare. Ma forse il mio senso del tempo si era alterato. Lo shock può fare questo scherzo. Guardare l'orologio non mi sarebbe servito a niente, perché non avevo controllato l'ora al momento del disastro. Io avevo l'impressione che fosse trascorso più di mezz'ora, ma per quello che ne sapevo poteva trattarsi solo di dieci minuti. «Cosa dobbiamo fare dopo un incidente come questo, sir Hugh?» domandai. «Non c'è modo di tenerlo sotto silenzio. Troppi umani hanno assistito, e altri ancora scopriranno cos'è successo quando i tuoi uomini arriveranno all'ospedale. Sarà lo scandalo più grave che la Corte Seelie abbia mai avuto in questa terra.» «Il vostro re negherà tutto. Cercherà di gettare la colpa addosso a noi, in qualche modo», dissi. «Lui ha dato una versione piuttosto umana della verità sui fatti accaduti qualche notte fa. Quella stessa notte in cui tu hai contribuito a scatenare la Caccia Selvaggia, principessa Meredith.» «Questo cosa significa esattamente, sir Hugh?» domandai. «Significa che non oso esprimere un'opinione più precisa sul mio re. Significa che quando tu hai liberato tutta quella magia si sono svegliate certe...» Esitò, come se cercasse altri eufemismi. «Certe creature. Esseri che non sopportano bene l'esistenza degli spergiuri, tra le altre cose.» Si accigliò, a disagio per ciò cui aveva velatamente alluso. «Gli spergiuri e i bugiardi temono la Caccia Selvaggia», disse Frost. «Non sono stato io a dirlo», replicò Hugh. «Era molto tempo che non sentivo tante melensaggini uscire dalla bocca di un nobile Seelie», disse Rhys. Hugh gli sorrise. «È molto tempo che tu manchi da questa Corte.» «Tu sapevi cosa stava cercando di fare Taranis?» domandai. «Sospettavamo che il nostro re non fosse più in sé.» «Molto cauto. Molto diplomatico», osservai. «Ma preciso», disse Hugh. «Cos'altro è successo per renderti così cauto, signore del fuoco?» chiese Rhys. «Credo che di certe cose dovremmo parlare in privato, Lord pallido.» «Su questo non ti do torto», annuì Rhys. Cominciavo ad avere l'impressione che Rhys e Hugh si conoscessero meglio di quanto credessi. «Restando a quello che è successo qui e oggi, cosa pensi di fare?» volli sapere.
«Io sono un umile Lord dei sidhe. Non ho sangue reale nelle vene», rispose lui. «Questo cosa significa?» domandai. «Significa che gli umani non sono gli unici ad avere delle leggi.» Hugh mi fissò coi suoi occhi neri e arancione. Sembrava che volesse dirmi qualcosa senza doverlo mettere in parole. «I Seelie non si appelleranno mai alla loro legge per quella faccenda», disse Rhys. «Quale faccenda?» chiesi, guardando lui e poi l'altro. Hugh disse: «Il re ha perso la calma con una delle serve. E un grande cane verde è apparso tra lui e l'oggetto della sua rabbia». «Un Cu Sith», dissi. «Sì, un Cu Sith. Dopo tutti questi anni, un cane verde di Faerie è di nuovo tra noi, per proteggere chi ne ha bisogno. Non ha permesso che il re colpisse la serva. Lei era ancor più spaventata, al pensiero che lui la incolpasse di aver chiamato il cane verde, ma nel vederlo il re ha dimenticato la sua rabbia.» Io non avevo dimenticato quel cane, sbucato dal nulla la notte della Caccia Selvaggia. La notte in cui la magia si era sparsa ovunque. Si erano materializzati dei grossi cani neri, che cambiavano aspetto quando qualcuno li toccava. Cani usciti dalla leggenda. E un Cu Sith era corso via nel buio verso la Corte Seelie. «M'interesserebbe vedere quale mano quel Cu Sith riconoscerebbe come la mano del suo padrone, o della sua padrona», dissi. «Se noi invocassimo questa legge, nella vostra Corte ci sarebbe la guerra civile, Hugh», disse Rhys. «Forse è l'ora di una piccola disubbidienza civile.» «Di quale legge parli?» volli sapere io. Rhys si volse verso di me. «Se un monarca non è adatto a governare, i nobili possono votare contro di lui e dichiararlo incompetente. Possono costringere un re ad abdicare. Andais ha abolito quella legge nella sua Corte, ma Taranis non si è mai preoccupato di farlo. È troppo sicuro.» «Allora cosa state dicendo? Che sir Hugh potrebbe indire una votazione tra i nobili e che loro potrebbero eleggere un nuovo re?» Era una possibilità, ma dipendeva da chi sarebbero stati i candidati al trono. «Non esattamente, Merry», mi corresse Rhys. «La principessa è sempre così modesta?» disse Hugh. «Spesso.» «Cosa?» mormorai. Frost intervenne: «I nobili Seelie non la accetteranno mai». Hugh scosse il capo. «Tu non sai cos'è successo qui, dopo che lei ha liberato la magia. Io credo
che molti voterebbero per lei.» «Voterebbero per me?» Alla fine avevo capito cosa stavano dicendo. «Oh, no, tu non parli sul serio.» «Sì, principessa Meredith. Se sei d'accordo di accettare, io farò il possibile perché tu sia eletta nostra regina», disse Hugh. Lo guardai, ammutolita. Cercai di riordinare i pensieri, di comportarmi come mio padre mi aveva insegnato, e tutto ciò che seppi dire fu: «Fino a che punto sei sicuro che questo funzionerebbe?» «Abbastanza sicuro da parlarne con voi.» «Questo significa molto sicuro», disse Rhys. «Non credo che i Seelie mi accetterebbero come loro regina, sir Hugh. Ma so che prima d'intraprendere questa strada dovremo parlarne con la nostra regina.» «Parla con Andais, se devi farlo. Ma, qualunque cosa tu sia per gli Unseelie, hai riportato la vecchia magia fuori dalla collina. Dentro di essa noi siamo ancora aridi e morenti, ma le nostre spie ci dicono che il tuo tumulo di Faerie vive, cresce. Anche il tumulo degli sluagh è tornato alla vita. Re Sholto dice grandi cose della tua magia, principessa.» «Il re degli sluagh è un uomo gentile.» Hugh scoppiò in una risata improvvisa, sorprendente. «Gentile. Il re degli sluagh? L'incubo di tutta Faerie, tu lo chiami 'gentile'.» «Con me sa esserlo», dissi. Hugh annuì. «Gentilezza. Non è un sentimento comune nella nostra Corte, in questi ultimi secoli. A me piacerebbe che ce ne fosse di più.» «Ti capisco», disse Rhys. Hugh guardò sulla destra dello specchio, fuori campo, dove noi non potevamo vedere. «Devo andare. Parla alla tua regina. Ma quando gli altri nobili sapranno ciò che Taranis ha fatto a Lady Caitrin, con l'aiuto di alcuni di loro, il voto sarà contro di lui.» «Taranis ha costretto la Lady a mentire, oppure ha usato un incantesimo su di lei?» volle sapere Rhys. «Ha usato un'illusione, per far assumere a tre nobili Seelie l'aspetto fisico di tre di voi. Ma li ha fatti apparire mostruosi, con appendici e spine e...» Hugh rabbrividì. «Il corpo di Caitrin è stato molto danneggiato. È ancora relegata in un letto, nonostante l'assistenza dei nostri curatori.» Guardò me. «Se hai bisogno di curatori per i tuoi uomini, basta che tu chieda e li avrai.» «Se ne avremo bisogno te lo farò sapere», dissi, e lottai contro l'impulso di ringraziarlo, perché Hugh era abbastanza anziano da offendersi. «Cosa sperava di guadagnarci il re da un atto così infame?» domandò Frost.
«Non saprei dirlo, ma possiamo dimostrare che lo ha fatto, e che ha mentito, e che hanno mentito anche i nobili suoi complici. È un abuso di magia quasi senza precedenti tra noi.» «Sei certo che potete dimostrarlo?» volle sapere Rhys. Hugh guardò ancora i sidhe fuori campo e si accigliò, preoccupato. «Ora devo andare. Parlate alla vostra regina. Tenetevi pronti.» Allungò una mano a toccare lo specchio e noi ci trovammo a guardare solo i nostri riflessi. «Sento odore d'intrighi di corte», borbottò Frost. La mia immagine e quella di Rhys annuirono gravemente, nello specchio. Nessuno di noi aveva un'aria troppo tranquilla. Veducci si avvicinò. «A quanto pare, principessa, avete avuto notizie sorprendenti. Perché ho l'impressione che non siate troppo soddisfatti?» Invece di voltarmi io risposi al suo riflesso. «Secondo la mia esperienza gli intrighi di corte finiscono male. La Corte Seelie mi ha trattato peggio di quella Unseelie per tutta la mia infanzia. Non credo che poche novità nel campo della magia bastino a farmi candidare regina di un popolo che mi disprezza. Se per qualche miracolo dovesse succedere, come ha detto sir Hugh, allora dovrò guardarmi le spalle anche dai sicari Seelie, oltreché da quelli Unseelie.» Ancor prima di aver finito di parlare mi pentii di essere stata così ciarliera con un funzionario umano. Evidentemente ero ancora un po' sotto shock. Rhys cambiò subito discorso. «Suppongo che le accuse contro me e i miei colleghi non avranno nessun seguito.» Veducci si volse verso di lui. «Se quello che ha detto sir Hugh è vero, sì. Ma finché la Lady dei Seelie non ritira le accuse, il caso non sarà archiviato.» «Nonostante ciò che ha detto Hugh?» domandò Frost. «Anche noi umani sappiamo che gli intrighi di corte sono situazioni sporche. La gente mente.» «I sidhe non mentono», dissi io. Veducci mi guardò accigliato. «Ci sono stati altri attentati alla sua vita oltre a quello all'aeroporto, dove un poliziotto affatturato le ha sparato?» «La principessa non può rispondere prima di aver parlato con la regina Andais.» Rhys mi cinse le spalle con un braccio. Frost non mi aveva lasciato la mano, così io rimasi tra loro. Non potevo sapere se il gesto di Rhys serviva a rassicurare me o lui stesso. Era uno di quei giorni in cui tutti avevamo bisogno di essere abbracciati. «Lei capisce che questa non è una risposta?» disse Veducci. Mi limitai a inarcare un sopracciglio. «Che genere di procuratore distrettuale è uno che sa quali erbe portarsi in
tasca per sventare un incantesimo?» «Non so di cosa stia parlando», disse lui, con un sorrisetto. «Bugiardo», replicai, ma sottovoce, perché si avvicinavano dei passi alle nostre spalle. Erano Biggs e Shelby. Il nostro avvocato era senza giacca. Aveva una manica della camicia tagliata sino alla spalla e un bendaggio sull'avambraccio. «Devo sottolineare che il comportamento di re Taranis ha posto gravi dubbi sulle sue accuse ai miei clienti.» «Non possiamo dare del tutto per buona quest'affermazione, almeno finché non avremo parlato con...» Shelby s'interruppe, si schiarì la gola e continuò: «Ci risentiremo più tardi». Poi raggiunse il suo assistente sulla porta e i due uscirono. «La simpatica infermiera che mi ha bendato il braccio dice che dovrò andare con loro all'ospedale», m'informò Biggs. «Una mia segretaria vi accompagnerà in una stanza dove potrete riposare e lavarvi prima di uscire.» Annuii. «Grazie, Mr. Biggs. Mi spiace che l'ospitalità dei Seelie di Faerie non sia stata all'altezza della loro fama.» Lui rise. «Questo è l'eufemismo più divertente della giornata.» S'indicò il braccio ferito. «Non altrettanto divertente è quanto re Taranis ha fatto a me e alle sue guardie del corpo, ma se doveva scegliere un momento per gettare la maschera non poteva trovarne uno migliore. Ora si è dato la zappa sui piedi, e il lavoro legale del mio ufficio sarà tutto in discesa.» «Suppongo che questo sia un buon modo di vedere la cosa», dissi. Rhys mi abbracciò e mi baciò su una tempia. «Su con la vita, dolcezza. Abbiamo vinto.» «Non noi. Sono stati i Seelie a salvarci il collo.» L'infermiera toccò Biggs su una spalla. «Qui abbiamo finito. Possiamo andare.» Pamela Nelson era stata messa a giacere su un lettino a rotelle e aveva gli occhi chiusi. Accanto a lei Cortez sembrava più seccato che preoccupato. «Ms. Nelson ha riportato delle ustioni?» domandai. Mi sembrava di averla vista agitata, ma perfettamente sana. Biggs fece per dire qualcosa, ma l'infermiera lo portò via con sé. Fu Veducci a rispondermi. «Sembra che abbia avuto una reazione emotiva molto forte all'incantesimo che re Taranis stava cercando di usare su di lei.» Lo sguardo che mi rivolse era fin troppo consapevole. Cominciavo a pensare che avesse quello che alcuni chiamavano il «terzo occhio». Non era uno psichico con licenza professionale, ma questo non significava niente. La maggior parte degli umani che avevano dei talenti
psichici faceva tutt'altro lavoro. «La sua espressione m'ispira una domanda», disse Rhys. Veducci si voltò verso di lui. «Quale domanda?» «Con quale occhio lei mi sta guardando?» Accanto a lui io m'irrigidii, perché sapevo come andavano sempre a finire i discorsi di quel genere. Veducci sogghignò. «La risposta che devo darle è: con quelli che ho sul volto.» «La verità è: con tutti e tre», disse Frost, con voce troppo seria per essere tranquillizzante. Il sogghigno di Veducci si spense. «Non ne ho bisogno. Nessuno di voi sta cercando di nascondere quello che siete. Tutti possono vedervi.» «Stia allegro, Veducci», disse Rhys. «I giorni in cui i fey cavavano alla gente il terzo occhio per impedirle di vederci sono passati da secoli. E i sidhe non l'hanno mai fatto. Se uno poteva vederci, il pericolo maggiore che correva coi sidhe era di essere rapito. A noi sono sempre piaciuti gli umani che possono vedere Faerie.» Il tono di Rhys era discorsivo, un po' derisorio, ma c'era un pizzico di serietà che rese cauto Veducci. Mi stavo perdendo parte della vera conversazione che si svolgeva tra loro? Ma quello che m'interessava di più era andare all'ospedale. «Voi due potrete fare i misteriosi più tardi. Ora voglio raggiungere Doyle e Abeloec.» Veducci tirò fuori di tasca un oggetto e me lo porse. «Questi li tenga lei.» Erano gli occhiali da sole di Doyle. La metà sinistra era fusa come se ci fosse passata sopra una fiamma ossidrica. Io ebbi l'impressione che lo stomaco mi scendesse nelle scarpe, poi risalisse di nuovo sino in gola. Per un momento fui tentata di gettarli via, ma mi sentivo la testa leggera, quasi sul punto di svenire. Non avevo visto in faccia di Doyle, sotto le bende. In che stato era ridotto? «Vuole sedersi, principessa?» domandò Veducci, preoccupato. Si fece avanti come per sorreggermi, se non fossi già stata tra le braccia forti dei miei uomini. Frost alzò una mano per fermarlo. «Ci pensiamo noi.» «Certo.» Veducci fece un passo indietro. Mi rivolse un breve inchino col capo e raggiunse le guardie della sicurezza che stavano parlando con la polizia. Un agente in borghese stava aspettando noi. «Sono il tenente Wells. Avrei bisogno di farvi qualche domanda.» «Possiamo parlare mentre andiamo all'ospedale? Devo controllare come stanno i miei uomini.» Lui esitò.
«Le occorre un passaggio fino all'ospedale, principessa Meredith?» Guardai l'orologio dietro la scrivania. Eravamo venuti lì con la limousine di Maeve Reed, condotta dal suo autista. Lui era ripartito per svolgere una commissione affidatagli da Maeve, con l'accordo che dopo tre ore sarebbe tornato a prenderci o ci avrebbe telefonato. Con mia sorpresa, le tre ore non erano ancora passate. «Un passaggio mi farebbe comodo. Grazie, tenente.»
Capitolo 8 † Doyle e Abe erano ricoverati in una camera privata al reparto ustionati dell'ospedale, anche se quando uno dei poliziotti di guardia all'esterno mi aprì la porta non trovai niente di privato in quella stanza. Insieme con un medico e due dottoresse in camice bianco c'erano quattro o cinque infermiere e una decina dei miei sidhe. Inoltre gli agenti che mi avevano seguita fin lì non sembravano intenzionati a uscire. Evidentemente la polizia aveva deciso che l'aggressione alle mie guardie poteva essere considerata un altro attentato alla mia vita. Meglio non correre rischi, sembravano dirmi le loro facce. E, visto il numero delle mie guardie del corpo che Rhys aveva fatto venire dalla villa, anche lui doveva pensarla allo stesso modo. Abe era disteso bocconi sul letto più vicino alla porta, e cercava di parlare alla dottoressa e alle infermiere che aveva intorno, un paio delle quali piuttosto carine. Stava soffrendo, ma anche in quelle condizioni non si smentiva. Un tempo lontano lui era stato il dio Accasbel, simbolo e personificazione della coppa di corno inesauribile. La coppa che poteva fare di un sidhe un re, o una regina. La coppa che ispirava poesie meravigliose, o gesta eroiche, o atti di follia. Così diceva la leggenda. Era stato lui ad aprire il primo pub in terra d'Irlanda, e dire che gozzovigliare gli piaceva era poco. Se ogni tanto quelle mani femminili non gli avessero strappato una smorfia di dolore, avrei detto che se la stava spassando. Ma ancora non lo conoscevo abbastanza per capire se il suo stoicismo fosse reale, oppure tutta scena a uso delle sue premurose assistenti. Dovetti farmi strada nella ressa delle mie affezionate guardie. In un'altra occasione avrei rivolto un gesto o una parola a ciascuna di loro, ma quel giorno erano soltanto un muro di corpi che mi separava dall'unica persona che volevo vedere. Alcuni cercarono di dirmi qualcosa, finché non si accorsero che non sentivo neanche le loro voci. Allora si scostarono come un sipario che si aprisse e potei finalmente vedere l'altro letto. Doyle era terribilmente immobile. Una bottiglia di soluzione fisiologica gli immetteva nel sangue lente gocce di liquido chiaro. Un'altra bottiglia più piccola, collegata a una derivazione dello stesso tubicino, conteneva un liquido rosato, probabilmente un anestetico. Le ustioni sono dolorose. Alta, bionda e bella, Hafwyn era in piedi dall'altra parte del suo letto. Come al solito indossava un abito rinascimentale che sarebbe stato giudicato alla moda solo nel tredicesimo secolo, o forse prima, con qualche modifica per
consentirle di ancheggiare abbastanza da mozzare il fiato a un uomo. Quando l'avevo conosciuta indossava però un'armatura della stessa epoca, ed era una delle guardie del corpo al servizio di mio cugino Cel. Lui la costringeva a uccidere, e le aveva proibito di usare le sue stupefacenti doti di curatrice perché rifiutava di andare a letto con lui. I curatori erano ormai rari a Faerie, e perfino la regina era rimasta contrariata nell'apprendere che suo figlio sprecava in quel modo il talento di una sidhe. Hafwyn non era stata la sola a decidere di lasciare il principe per unirsi a me, a Los Angeles. Credo che la regina fosse alquanto stupita per il numero di guardie di sesso femminile che avevano preferito vivere lontano da Faerie piuttosto di restare con Cel. Io non lo ero affatto. Dopo la sua condanna a sei mesi di detenzione, Cel era uscito dalla cella ancor più pazzo e sadico di quando c'era entrato. Il suo ritorno in libertà era stato il motivo per cui avevo deciso di andarmene di nuovo da Faerie. La regina aveva ammesso, privatamente, di non poter garantire la mia sicurezza se fossi rimasta nelle vicinanze di suo figlio. Hafwyn e altre, dopo avermi raggiunta sulla costa occidentale, mi avevano riferito cos'aveva fatto Cel alla prima guardia di sesso femminile che aveva preso nel suo letto. Roba da serial killer. La guardia era una sidhe e sarebbe guarita, sarebbe sopravvissuta. Sopravvissuta per essere ancora la sua vittima, e poi ancora e ancora. Alla fine mi ero ritrovata con una dozzina di «volontarie» di sesso femminile. Una dozzina, nel tempo di un mese. Probabilmente ce ne sarebbero state altre, perché Cel non si preoccupava più neppure di mascherare la sua follia, e le guardie ora avevano la possibilità di scelta. Andais continuava a non capire perché tante di loro preferivano quello che era in pratica un esilio alle attenzioni galanti di Cel. Ma la regina sopravvalutava il fascino di suo figlio, e sottovalutava i suoi difetti. In realtà, fisicamente Cel era molto bello, ma per quanto fosse attraente ciò che gli piaceva fare non lo era affatto. Andai accanto al letto, ma Doyle era privo di conoscenza e non potei far altro che guardarlo. Se la magia selvaggia di Faerie fosse stata ancora al mio comando, avrei potuto guarirlo in un istante. Ma la magia si era sparsa in quella notte autunnale facendo miracoli e meraviglie, ed era ancora all'opera in quella zona. Noi eravamo molto lontani da Faerie. Ci trovavamo a Los Angeles, in un grande edificio pieno di strutture metalliche e cose fatte dagli umani. C'erano generi di magia che lì dentro non avrebbero funzionato. «Hafwyn, perché non hai ancora cominciato a curarlo?» domandai. Un medico, che per guardare Hafwyn doveva alzare la testa ma era ancora abbastanza alto da poter abbassare lo sguardo su di me, disse: «Non posso permettere l'uso della magia su un mio paziente». Lo fissai con tutta l'intensità delle mie triple iridi. Alcuni umani, se non sono
abituati agli occhi dei sidhe, possono subirne l'effetto. Questo può essere d'aiuto, quand'è necessario un po' d'innocua persuasione. «Perché non può permetterlo, dottor...», lessi la sua targhetta, «dottor Sang?» «Perché è una magia che non capisco. E, se non capisco un trattamento, non posso autorizzarlo.» «Allora, se lei lo capisse smetterebbe d'interferire?» «Non sto interferendo, principessa Meredith, è lei a farlo. Questo è un ospedale, non una camera da letto reale. I suoi uomini disturbano il normale funzionamento di questo ospedale con la loro sola presenza.» Gli rivolsi un sorriso che non salì fino agli occhi. «I miei uomini non stanno facendo niente. È il vostro personale che si agita troppo. Credevo che tutti gli ospedali di questa zona fossero informati su cosa fare, quando uno di noi viene ricoverato. Non vi hanno detto cosa indossare, o portare con voi, per facilitare le operazioni consuete?» «Il fatto è che i suoi uomini stanno usando un glamour attivo sulle infermiere e sulle dottoresse. E questo è inammissibile», disse il dottor Sang. Seduto su una delle due sedie della camera, accanto alla finestra, Galen replicò: «Ho già detto e ripetuto che non stiamo facendo niente. Non è un glamour attivo. Ma non vuole credermi». Sembrava esausto, e intorno agli occhi e alla bocca aveva una rigidità che notavo solo in quel momento. I sidhe non invecchiano, non realmente, ma possono mostrare i segni della stanchezza. Come un diamante che può essere inciso da un particolare genere di lama. «Non ho tempo di spiegarglielo, dottore, ma non le permetterò di frapporsi tra la mia gente e la mia curatrice», dissi. Il medico indicò Hafwyn. «Lei stessa ammette che i suoi poteri non sono al massimo, lontano da Faerie. Non è sicura di poterlo guarire. Più spesso le bende vengono aperte, specialmente con tutti questi estranei presenti, e più aumenta il rischio di un'infezione secondaria», obiettò il dottor Sang. «I sidhe non prendono infezioni, dottore», lo informai. «Mi scusi se sono un po' scettico riguardo a questo, principessa, ma quest'uomo è un mio paziente. Io sono responsabile di lui», disse il dottor Sang. «No, dottore, lui è un mio uomo. È la mia Tenebra, la mia mano destra. Lui si considera responsabile della mia sicurezza, ma io sto cercando di diventare la sua regina, e questo mi rende responsabile di tutta la mia gente.» Mossi una mano verso i capelli di Doyle, poi la ritrassi. Non volevo svegliarlo, se tutto ciò che potevamo offrirgli era il dolore. Per curarlo lo avremmo disturbato, ma toccarlo soltanto perché ne avevo la tentazione non era ragione sufficiente per svegliarlo dal sonno che i tranquillanti gli
avevano dato. La mia mano anelava a fargli una carezza, e la costrinsi a chiudersi a pugno contro il fianco. Quella di Rhys me la strinse. Io guardai il suo singolo occhio dal triplo cerchio azzurro, la sua bella faccia con le cicatrici che gli avevano portato via l'altro occhio, solo in parte nascoste dalla benda bianca che indossava quel giorno. Non avevo mai conosciuto Rhys quando il suo aspetto era diverso. Il volto che avevo sempre visto accanto a me di giorno, oppure a letto mentre facevamo l'amore, era l'unico che conoscevo, cicatrici e tutto. Era semplicemente Rhys. Gli toccai una guancia. Avrei amato Doyle di meno se fosse rimasto sfregiato? No, anche se sarebbe stato una perdita per entrambi. Questo significava che il viso di cui mi ero innamorata sarebbe cambiato per sempre. Ma, dannazione, lui era un sidhe. Una semplice ustione non avrebbe dovuto ferirlo così gravemente. «Lui vivrà», disse Rhys, come se avesse letto i miei pensieri. Io annuii. «Ma voglio che guarisca.» «E io?» mi domandò Abe dall'altro letto. Al solito, sembrava un po' ubriaco. Era come se, dopo i secoli che aveva trascorso in quello stato, fosse diventato un comportamento automatico. Ubriachezza asciutta, credo la chiamassero; anche senza bisogno di alcol non era mai del tutto sobrio. «Voglio che guarisca anche tu, naturalmente.» Ma Abe sapeva dove stava il mio affetto, e che lui non era tra i miei cinque preferiti. Questo gli andava bene. Lui, come quasi tutte le guardie che erano con noi da poche settimane soltanto, era così soddisfatto dalla possibilità di tornare a fare sesso che il suo ego non aveva avuto il tempo di sentirsi ferito nella competizione. «Principessa, devo insistere che lei e i suoi uomini usciate da qui», disse il dottor Sang. Uno dei poliziotti in uniforme, l'agente Brewer, disse: «Mi spiace, ma più guardie ci sono e meglio è per noi». «Sta dicendo che questi due pazienti potrebbero essere aggrediti qui, dentro l'ospedale?» domandò lui. L'agente Brewer guardò il suo collega, l'agente Kent. Quest'ultimo, il più alto dei due, scrollò le spalle. Credo che gli fosse stato detto di scortare me, senza parlare coi civili. Noi sidhe avevamo smesso di essere considerati dei civili, almeno quando venivamo attaccati. Adesso eravamo in una diversa categoria per la polizia. Quella delle potenziali vittime, forse. Frost disse: «Dottor Sang, io sono al comando delle guardie della principessa, in sostituzione del mio capitano. E lui è su quel letto». Indicò Doyle. «Lei può essere al comando delle guardie, ma non è al comando di questo ospedale.» Il dottor Sang non arrivava neppure alla spalla di Frost. Aveva
rovesciato la testa verso l'alto per guardarlo in faccia, e la sua espressione diceva chiaramente che non intendeva cedere. «Non abbiamo tempo per queste chiacchiere, principessa», disse Hafwyn. Guardai i suoi occhi tricolori: un anello azzurro, uno argenteo, e uno più interno di luce, se la luce poteva essere considerata un colore. «Cosa vuoi dire?» «Siamo lontani da Faerie. Questo limita le mie possibilità di curatrice. Siamo in un edificio di metallo e vetro fatto dall'uomo. Questo limita il mio potere magico in generale. Più a lungo le ferite restano senza cure, più mi sarà difficile intervenire su di esse.» Mi voltai verso il dottor Sang. «Ha sentito? Lei deve lasciare che la mia curatrice faccia il suo lavoro.» «Posso portarlo fuori dalla stanza», disse Frost. «Non sono sicuro che potremmo permettere questo», fece l'agente Brewer, con aria incerta. «Come pensa di portarlo fuori?» domandò l'agente Kent. «Buona domanda. Non possiamo ignorare gli atti di violenza contro il personale medico», aggiunse Brewer. «Non abbiamo bisogno della violenza.» Rhys mi sfiorò un orecchio, giocherellando coi miei capelli. Quel leggero tocco mi diede un fremito. Mi voltai. «Questo non sarebbe un tantino immorale?» mormorai. Lui mi spinse verso Sang. «Il dottore non capisce la situazione, e noi non abbiamo tempo da perdere, Merry.» «Mmm», borbottò l'agente Brewer. «Cosa sta pensando di fare, principessa? Voglio dire...» Guardò il collega. Era chiaro che i due non sapevano che pesci pigliare. In effetti ero sorpresa che non fossero già intervenuti dei graduati. Fuori dalla porta c'erano altri agenti in uniforme, ma non detective o pezzi grossi. Era come se costoro preferissero stare alla larga da noi per timore delle conseguenze. Non del pericolo: loro erano poliziotti e quello era il loro mestiere. Ma timore delle conseguenze politiche. Ormai la voce si era sparsa. La Dea sapeva che l'aggressione di re Taranis alla principessa Meredith era una storia più che appetitosa per la stampa. Ma i giornalisti avevano la tendenza a puntare il dito sui responsabili. Forse la polizia di Los Angeles stava ancora cercando di mettere insieme la versione da rilasciare alla stampa. Per tutti loro, il caso era una patata bollente. Bastava vederlo in questi termini: la principessa Meredith scampata alla morte, due sidhe feriti, e vari procuratori distrettuali coi loro assistenti che ne erano usciti vivi per puro caso. Non poche persone si stavano preoccupando per la loro carriera. «Dottor Sang», dissi.
Ancora irosamente accigliato, lui si volse verso di me. «Non m'interessa sapere quanti poliziotti la spalleggiano, io so solo che in questa stanza ci sono troppe persone per cominciare un trattamento che esige la sterilità.» Chiusi gli occhi e trassi un lungo respiro. Gli umani dotati di qualche potere devono fare qualcosa per richiamare la magia su di sé. Fuori da Faerie, io dovevo circondarmi di uno scudo per tenerla lontana e non rischiare di fare qualcosa di magico senza volerlo. Prima che mi arrivassero le mie due mani di potere, mesi addietro, dovevo fare uno sforzo per non lasciarmi distrarre da spiriti di passaggio e altre cose che scavalcavano quello scudo. Ora tutta quella pratica nel tenere lontana la magia estranea mi aiutava a tenere sotto controllo la mia, perché i miei talenti naturali, o forse la mia eredità genetica, erano bruscamente aumentati come quelli di altri sidhe. Rhys disse: «State indietro, ragazzi». I miei uomini si scostarono, e fecero allontanare anche i due poliziotti insieme con loro. Questo lasciò un certo spazio intorno a me e al medico. Lui li guardò, stupito. «Che succede?» Io alzai una mano per sfiorargli una guancia, ma lui me lo impedì afferrandomi per il polso. Il problema, per lui, era che io non avevo nessun bisogno di toccarlo. Che fosse lui a toccare me facilitava le cose. I suoi occhi si spalancarono. Un'espressione quasi terrorizzata gli attraversò il volto. Non vedeva me, ma qualcosa profondamente sepolto dentro di lui. Io stavo cercando di essere gentile, e di usare soltanto il minimo indispensabile della mia natura sidhe. Ma la magia della fertilità è una cosa imprevedibile, e in quel momento ero nervosa. «Oh, mio Dio», sussurrò il dottor Sang. «Dea», mormorai, e feci un passo indietro. Lo portai con me, allontanandolo dai letti e da Hafwyn. Non ero io a toccarlo. Solo la sua mano stretta intorno al mio polso lo costringeva a seguirmi. Poi alzai l'altra mano a toccargli il viso. Ma non avevo pensato a quello che c'era su quella mano. All'interno di Faerie l'anello della regina, così era chiamato, aveva proprietà magiche. Nel mondo umano era soltanto un pezzo di metallo, così antico che quel metallo era consumato. Il suo aspetto liscio e senza angoli si doveva ai secoli in cui era stato al dito di una donna o di un'altra. Andais aveva ammesso di averlo tolto dalla mano di una Seelie da lei uccisa a duello, una dea della fertilità. Probabilmente gliel'aveva preso perché sperava che avrebbe aiutato la fertilità della sua Corte, ma la sua magia personale era fatta per la guerra e la distruzione, per dare cibo ai corvi e agli avvoltoi. L'anello non era molto adatto a lei. Lo aveva regalato a me per mostrarmi il suo favore, e perché tutti vedessero
che aveva scelto sua nipote come potenziale erede. Ma la mia magia non era quella fatta per il campo di battaglia e la morte. Quando toccò il viso del medico, quell'antico metallo si accese di vita. Per un momento pensai che mi stesse solo informando sulla fertilità dell'uomo, com'era già accaduto con quelli della Corte Unseelie che io avevo preso con me, ma non era questo che l'anello voleva dal dottor Sang. Vidi ciò che lui amava. Amava il suo lavoro. Amava fare il medico. Questa era la sua ragione di vita. Vidi anche una ragazza, delicata, con capelli neri tagliati alla paggio da cui il sole traeva riflessi, presso la vetrina di un negozio fuori dal quale c'era una strada. Era circondata da fiori. Forse lavorava lì. Stava sorridendo a un cliente, ma tutto taceva, forse perché i suoni non contavano. Vidi il suo volto illuminarsi come il cielo quando le nubi si aprono dopo la pioggia, mentre alzava lo sguardo verso il dottor Sang che entrava dalla porta. L'anello sapeva che la ragazza lo amava. Vidi due cortili affiancati, lì a Los Angeles. Vidi versioni più giovani di loro due. Erano cresciuti insieme. Avevano cominciato a frequentarsi alle scuole superiori, ma lui amava la medicina più di ogni altra donna. «Questa ragazza ama lei», gli dissi. La sua voce uscì strangolata. «Come fa a farmi questo?» «Anche lei vede ciò che vedo io, allora.» «Sì», sussurrò. «Non desidera dei figli, una famiglia?» Vidi la ragazza, ancora nel suo negozio. Guardava fuori, dei turisti di passaggio. Aveva tra le mani una tazza di tè. Due figure d'ombra le stavano accanto, un bambino e una bambina. «Cos'è questo?» domandò lui, con voce così emozionata da suonare sofferente. «I bambini che voi due potete avere.» «Sono reali?» sussurrò. «Lo sono, ma diventeranno carne solo se lei amerà questa donna.» «Io non posso...» Il bambino fantasma accanto alla ragazza si voltò a guardarci come se ci vedesse. Perfino io lo trovai snervante. Il medico tremava sotto la mia mano. «La smetta. La prego, la smetta.» Scostai la mano dal suo volto, ma lui mi teneva ancora per un polso. «Anche lei deve lasciarmi», dissi. Lui guardò la sua mano come se non sapesse che era lì. Mi lasciò. I suoi occhi erano quasi terrorizzati. Spostò lo sguardo su Doyle, alle mie spalle, si accorse che Hafwyn gli teneva una mano sulla fronte e le ordinò: «Si allontani da lui!» Una delle dottoresse disse: «Dottor Sang, è un miracolo. Quest'uomo può usare di nuovo il suo occhio».
Lui raggiunse le infermiere e le dottoresse intorno al letto di Doyle. Accese una piccola pila ed esaminò l'occhio della mia guardia, ora aperto. Scosse il capo. «Questo è impossibile.» «Mi permetterà di fare l'impossibile anche su Abeloec, ora?» domandò Hafwyn con un sorrisetto. Pensai che si sarebbe messo a discutere, invece annuì. Hafwyn andò accanto all'altro letto, e io feci ciò che volevo fare fin dal momento in cui ero entrata nella camera. Accarezzai i capelli di Doyle. Lui alzò lo sguardo su di me. Aveva il viso ustionato e coperto di vesciche, ma l'occhio era sano e intatto. Mi sorrise finché l'angolo sinistro della bocca non incontrò un'ustione, poi si fermò. Lui era la Tenebra. Il buio non trema. Io avevo gli occhi asciutti, ma la gola così stretta che respiravo a stento. Cercai di non piangere, perché sapevo che se avessi cominciato avrei perso il controllo. Lui posò una mano sulla mia, stretta sulla ringhiera metallica del letto. Bastò quel contatto, mano sopra mano, e le prime lacrime schizzarono fuori. Il dottor Sang fu di nuovo accanto a me. «Quello che lei mi ha mostrato era un trucco, per dare modo alla sua curatrice di lavorare su di lui.» Avevo la voce impastata di lacrime. «Non era un trucco, ma una visione reale. Quella ragazza è innamorata di lei. Ci saranno due bambini, prima il maschio, poi la femmina. Lei è nel suo negozio di fiori. Se le telefona adesso, la troverà mentre sta bevendo il tè.» Lui mi guardò come se avessi detto qualcosa di spaventoso. «Non credo che un uomo possa essere un bravo medico e un bravo marito.» «Questo sta a lei deciderlo, ma la ragazza sente la sua mancanza.» «Come posso mancarle, se non sono mai stato suo?» Le infermiere ascoltavano il nostro colloquio in silenzio. Solo la Dea sapeva quali pettegolezzi si sarebbero sparsi in quell'ospedale. «Non vedo un altro viso nel suo cuore. Se lei non è suo, non credo che si sposerà mai con un altro.» «Potrebbe sposarsi con chiunque. Potrebbe essere felice.» «La ragazza pensa che sarebbe felice solo con lei.» «Se pensa questo, si sbaglia», disse lui, ma più come se volesse convincere se stesso. «Forse. O forse quello che sta sbagliando è lei.» Sang scosse il capo. Si ricompose, come un uomo infreddolito che si avvolgesse una coperta intorno alle spalle. Lo vidi rimettere insieme la sua personalità professionale. «Incaricherò un'infermiera di rifare il bendaggio. La sua curatrice può agire in questo modo anche sulle ferite degli umani?» «Purtroppo la nostra magia ha sempre funzionato meglio sulla carne di
Faerie», dissi. «Non sempre», mi corresse Rhys. «Ma, in questi ultimi due o tremila anni, sì.» Il dottor Sang scosse ancora il capo. «Mi piacerebbe sapere come funziona questo vostro genere di cura.» «Hafwyn farà il possibile per cercare di spiegarglielo, ma in un altro momento.» «Capisco. Lei vuole riportare a casa i suoi uomini.» «Sì.» Le mie lacrime si erano asciugate sotto le domande del medico. Mi accorsi che non era stato il solo a cercare il controllo di se stesso. In privato io potevo permettermi di andare in pezzi, ma non lì davanti a tanta gente. Se ne avessero avuto la possibilità, dottori e infermiere avrebbero potuto vendere le mie emozioni private ai giornali, e io non volevo questo. Il dottor Sang andò alla porta, come se avesse bisogno di allontanarsi da noi. Con una mano sulla maniglia si fermò. «Era un trucco, o un'illusione?» «Le giuro che quello che abbiamo visto insieme era una visione della realtà.» «Questo significa che poi vivremo insieme felici e contenti?» domandò. Scossi il capo. «Non è questo genere di favola. La ragazza è innamorata di lei, e ci saranno due figli. Oltre a questo, io credo che lei possa permettere a se stesso di amarla, ma richiederà impegno da parte sua. Amare qualcuno significa perdere una parte del controllo sulla propria vita, e questo a lei potrebbe non piacere. Non piace a nessuno.» Gli sorrisi, mentre Doyle mi stringeva la mano e io gli restituivo la stretta. «C'è gente che si droga d'amore, dottore. Loro amano la prima ondata di emozioni, e quando quell'ondata passa oltre cercano un altro amore, pensando che il primo non fosse reale. Quello che ho sentito nella ragazza, e potenzialmente anche in lei, è l'amore che dura nel tempo. L'amore che sa che la prima ondata di passione non è quella vera, ma soltanto la cima dell'iceberg.» «Lei sa cosa dicono degli iceberg, principessa Meredith?» «No, cosa dicono?» «Assicurati che la nave su cui devi imbarcarti non si chiami Titanic.» Alcune delle infermiere risero, ma io no. Lui stava facendo una battuta perché era spaventato, spaventato davvero. Qualcosa lo induceva a credere che non poteva amare la medicina e contemporaneamente anche una donna. Che non poteva fare la cosa giusta per entrambe. Forse non poteva, oppure chissà... Rhys venne più vicino. Mi mise un braccio intorno alle spalle, senza stringere troppo.
«I cuori deboli non conquistano mai una vera donna.» «E se io non volessi conquistare questa vera donna?» domandò il dottor Sang. «Allora sarebbe uno sciocco», disse Rhys, con un sorriso che ammorbidiva quelle parole. I due uomini si guardarono per un lungo momento. Qualche genere d'intuizione o di comprensione sembrò passare tra loro, perché il dottor Sang annuì come se Rhys avesse parlato ancora. Lui non aveva aperto bocca, sarei disposta a giurarlo, ma talvolta il silenzio tra due uomini dice più delle parole. Una delle maggiori differenze tra uomini e donne sono appunto certi silenzi, che le donne non capiscono e gli uomini non sanno spiegare. Il dottor Sang uscì. Prima che lui e Rhys avessero il loro momento di comprensione io avrei scommesso che il buon medico stava andando a telefonare alla ragazza del negozio di fiori. Ma qualcosa nell'intervento di Rhys aveva cambiato la scala delle sue intenzioni. Ora mi chiedevo se le avrebbe telefonato oppure sarebbe andato direttamente da lei. Rhys mi strinse e mi baciò una tempia. Mi voltai a guardarlo. Aveva un sorrisetto casuale, quasi di sfida, ma nel suo occhio azzurro c'era una luce nient'affatto casuale. Mi tornò in mente il primo giorno in cui l'anello della regina aveva preso vita sulla mia mano. Io avevo visto il fantasma di un bambino accanto a Biddy, una delle guardie di Cel di sesso femminile. Ogni uomo del corridoio l'aveva fissata come se fosse la cosa più bella del mondo. Ogni uomo salvo quattro: Doyle, Frost, Mistral e Rhys. Anche Galen l'aveva guardata. Io sapevo che soltanto il vero amore per un'altra donna avrebbe impedito agli uomini di restare come ipnotizzati dalla vista di Biddy. Poco dopo avevo fatto uso dell'anello per vedere chi tra le mie guardie sarebbe stato il padre di quel quasi-bambino, e avevo scoperto così che si trattava di Nicca. Poi avevo chiesto a Nicca di avvicinarsi a Biddy, e non avevo dovuto insistere, perché quei due erano già dimentichi di tutto ciò che avevano intorno. La cosa aveva funzionato. Biddy non aveva avuto il suo successivo periodo mensile, e i test erano stati positivi. Si trattava della prima gravidanza tra gli Unseelie dal tempo della mia nascita. L'anello, o qualcosa collegato a esso, era stato il generatore di quella storia d'amore. Nel momento in cui Biddy si era tolta l'elmo dell'armatura argentea e gli uomini l'avevano guardata, a colpirli non era stata la semplice bellezza, era stata la magia. Io amavo davvero Doyle, e Frost quasi altrettanto. Non potevo immaginare di vivere senza di loro. Quel giorno, quando l'anello aveva preso vita, l'uomo con cui avevo appena finito di accoppiarmi era Mistral, e quella magia non aveva funzionato tra me e lui. Rhys però avrebbe dovuto guardare Biddy,
come tutte le altre guardie. Invece aveva guardato soltanto me. Questo significava che mi amava, pur sapendo che io non amavo lui. La gente di Faerie non è, in genere, possessiva o gelosa della persona amata. Ma amare senza essere riamati è una sofferenza che non conosce cura. Alzai il viso verso il suo, invitandolo a baciarmi. La sua espressione perse ogni traccia di umorismo. Fu solenne come lo sguardo del suo occhio. Mi baciò, e io gli restituii il bacio. Mentre le nostre labbra si fondevano, lasciai che il mio corpo aderisse morbidamente al suo. Volevo dargli la certezza che lui significava molto per me. Poi tra noi accadde qualcos'altro e seppi che lo desideravo. Il suo sesso rispondeva al mio contatto intimo attraverso i vestiti. Fu lui il primo a scostarsi, col fiato un po' corto e con un accenno di riso nella voce. «Facciamo tornare a casa i nostri feriti, e poi finiremo ciò che abbiamo cominciato.» Annuii. Cos'altro avrei potuto fare? Cosa si può dire a un uomo quando si sa di avergli spezzato il cuore? Lui avrebbe voluto sentirsi dire che i miei sentimenti per lui sarebbero cambiati, ma questo non ero in grado di farlo; non potevo smettere di amare Doyle e Frost. Stavo già facendo soffrire un poco Frost, perché lui sapeva che la fetta più grossa del mio affetto ce l'aveva Doyle. E non potevo neppure illudere Frost che il mio sentimento era diviso in modo uguale tra loro due, perché lui aveva cominciato a unirsi a Doyle quando facevamo sesso e aveva gli occhi per vedere. Pochi uomini sono disposti a condividere il corpo della donna amata con qualcun altro, ma la cosa non stava in questi termini tra noi. Era come se Frost temesse ciò che poteva succedere se mi avesse lasciata sola con Doyle per più di una notte. Cosa fareste voi se sapeste di aver ferito il cuore di qualcuno, ma comportandovi diversamente spezzereste il vostro? Col mio bacio e col mio corpo avevo promesso a Rhys che avremmo fatto sesso. Avrei mantenuto la promessa, ma non era per desiderio fisico che gliel'avevo fatta. Suppongo che in un certo senso fosse per amore, anche se non quel genere d'amore che un uomo vuole da una donna.
Capitolo 9 † All'uscita dell'ospedale trovammo uno sbarramento di giornalisti. Qualcuno aveva parlato. Non rispondemmo alle domande che ci gridavano, e tutto ciò che ebbero furono inquadrature di Doyle e Abe sulla sedia a rotelle. Il fatto che Doyle non protestasse testimoniava quanto stesse ancora male. Abe, d'altra parte, aveva accettato una sedia a rotelle perché era pigro e gli piaceva essere oggetto delle attenzioni altrui, anche se doveva stare seduto di traverso per salvarsi la schiena. Hafwyn lo aveva guarito, ma non ancora del tutto. A quella distanza da Faerie, i nostri poteri erano lontani dal meglio. I giornalisti avevano saputo dove mettersi in agguato. Qualche membro del personale aveva preso dei soldi per condurci all'uscita dove loro ci aspettavano, o per condurre loro all'uscita dov'erano in attesa le nostre auto. In un modo o nell'altro quel giorno eravamo una fonte di guadagno. Le luci delle telecamere ci accecavano. La direzione dell'ospedale aveva chiamato la polizia prima che noi lasciassimo il reparto, così c'erano altre uniformi oltre ai due agenti che ci scortavano. Kent e Brewer sospettavano di me dopo avermi visto usare la magia sul medico, e sembravano timorosi di starmi vicino, ma fecero il loro dovere. Passarono davanti a noi e aiutarono i colleghi ad aprirci un passaggio nella ressa. Ci fu un momento in cui i reporter si spinsero avanti e la nostra linea difensiva collassò contro di noi. Poi le mie guardie entrarono in azione e ci diedero un po' di spazio per respirare. Alcuni dei miei uomini misero una mano su una spalla o sulla schiena degli agenti di polizia accanto a loro, e vidi questi ultimi ergersi con più decisione e acquistare energia. Era come se il contatto dei Seelie li rafforzasse. Io non ricordavo che fosse mai successo qualcosa di simile, in passato. Che fosse una caratteristica degli ultimi venuti tra le mie guardie del corpo? Oppure si trattava di qualcosa di nuovo e imprevisto che avevo portato con me da Faerie, l'ultima volta in cui ero tornata nel mondo umano? Neppure io avrei saputo dirlo. Guardando come i miei uomini davano coraggio agli agenti, mi chiesi se quell'effetto sarebbe durato almeno per tutta la giornata, o sarebbe svanito subito come il desiderio sessuale che io potevo ispirare. Quando ci sarebbe stato modo di parlare in privato lo avrei chiesto. Eravamo in troppi per la limousine di Maeve Reed, ma c'erano altre due limousine e un paio di SUV, uno bianco e uno nero. Io feci per aiutare Doyle a entrare in una limousine, ma Rhys mi tirò indietro, così furono Frost e
Galen a sistemare nell'abitacolo il loro capitano. Ci volle un po' di tempo, perché i giornalisti continuavano a ostacolarci. Io ero mezza accecata dai flash delle macchine fotografiche. Una ragazza riuscì a infilare la sua telecamera nello sportello della vettura. «Tenebra, perché re Taranis ha cercato di uccidervi?» La mano di Rhys s'irrigidì sulla mia spalla. Fino a quel momento lui, e probabilmente anch'io, avevamo supposto che qualcuno avesse raccontato alla stampa qualcosa di vago, ma quella domanda ci disse che a parlare era stato qualcuno che sapeva tutto. Le uniche persone che avevano visto l'accaduto erano gli avvocati e i procuratori, tutti professionisti della cui discrezione ci si poteva fidare. Qualcuno aveva tradito quella fiducia. Come il cielo volle fummo al sicuro nella limousine. Abe era disteso a pancia sotto sul sedile principale. Doyle sedeva su uno di quelli laterali, rigidamente eretto. Io stavo per prendere posto al suo fianco, ma lui mi spinse verso Abe. «Lascia che lui ti appoggi la testa in grembo, principessa.» Mi accigliai, chiedendomi perché mi allontanasse così. La mia espressione dovette parlare per me, perché Doyle disse: «Per favore, principessa». Mi fidavo di lui. Doveva avere le sue ragioni. Sedetti in fondo al sedile posteriore e presi in grembo la testa di Abe. Lui mi appoggiò una guancia su una coscia, e io gli accarezzai i lunghi capelli. Non li avevo mai visti annodati così, in una treccia a tre capi, uno bianco, uno nero e uno grigio. Suppongo che l'avessero fatto per tenerli lontani dalle ferite alla schiena. Frost aveva preso il sedile opposto a quello di Doyle. Galen stava per sistemarsi nel nostro stesso scompartimento, ma Doyle gli disse: «Prendi il secondo SUV. Rhys salirà sul primo. Troppe delle nostre guardie conoscono soltanto Faerie. Voi dovete essere i loro occhi e orecchie nel mondo moderno, Galen». Rhys gli diede una pacca su una spalla. «Andiamo.» Galen mi gettò uno sguardo poco entusiasta, ma fece come gli era stato ordinato. Fu Frost a dire: «Qui abbiamo bisogno di Aisling». «E di Usna», aggiunse Doyle. Frost annuì come se capisse il senso di quella richiesta. Io non l'avevo capito, non ancora. Ma io non avevo alle spalle i secoli di battaglie e lo shock e il disorientamento che sembravano seguire certi fatti come una nebbia. Lo sportello fu chiuso, e ci fu qualche minuto d'attesa mentre Galen e Rhys distribuivano gli uomini sui veicoli. «Perché loro due?» domandai. «Aisling è stato esiliato dai Seelie quando il loro sithen ha riconosciuto lui come re in questa nuova terra, invece di Taranis.» La voce di Doyle sembrava normale, neppure un po' sforzata. Soltanto il braccio che aveva al collo e il bendaggio sulla faccia facevano pensare che avrebbe dovuto avere
una voce più sofferente. «Allora dovrebbe essere informato che sir Hugh sta cercando di dare il suo regno a un'altra persona», dissi. «No. Ora non è il regno di Aisling», obiettò Abe, dal mio grembo. «Ma è sempre stato il sithen a scegliere chi lo governa», feci notare io. Abe annuì. «Sì. Come la pietra Lia Fail faceva un tempo per i re d'Irlanda. Ma il sithen è volubile. Più di duecento anni fa Aisling gli piaceva, e oggi lui non è più l'uomo che è stato esiliato. Il tempo lo ha cambiato. Il tumulo dei Seelie potrebbe non volerlo più.» Nella voce di Abe c'era una nota di stanchezza. Gli posai una mano su una guancia. Quel tocco leggero lo fece sorridere. «La madre di Usna è ancora una delle favorite alla Corte Seelie, e continua a parlare con suo figlio», disse Frost. «Allora può darsi che Usna sappia se Hugh fa parte di un complotto per togliere di mezzo Taranis», osservai io. Frost annuì. Doyle disse: «Sì». Guardai le loro facce, entrambe distanti e fredde. Mi fecero pensare al tempo in cui si erano uniti a me per la prima volta. Perché avevano quell'espressione? Io ero di sangue reale, così non avrei dovuto mostrarmi poco sicura di me stessa facendo domande di quel genere. Ma li amavo entrambi, perciò, visto che c'era soltanto Abe ad ascoltarci, chiesi: «Perché mi sembrate così lontani?» Loro si scambiarono un'occhiata, e benché Doyle avesse la faccia seminascosta dal bendaggio quell'occhiata non mi piacque. Non faceva presagire niente di buono. «Tu non sei una bambina, Meredith», disse Doyle con voce ancora molto controllata. «Stai cominciando a pensare di dichiarare che hai scelto uno noi. Ma, se non sei incinta, nessuno di noi due sarà il tuo re. Devi cominciare a guardare altri uomini con più interesse.» «Tu sei stato ferito, e ora sei depresso», dissi. Doyle fece per voltare la testa verso di me, ma quel movimento gli strappò una smorfia di dolore, così dovette voltare l'intero corpo. «Non è depressione, è lucidità. Tu non devi mettere il tuo cuore dove il tuo corpo non vuole andare.» Scossi il capo. «Non decidere per me, Doyle. Non sono più una bambina. Scelgo io chi deve venire nel mio letto.» «Noi temiamo che il tuo affetto per noi stia rendendo le cose difficili agli altri uomini», disse Frost, come se quelle parole gli costassero uno sforzo. «Sto andando a letto anche con loro. Se consideriamo che siamo tornati qui da qualche settimana, direi che ho dato loro molte occasioni d'ingravidarmi.» Frost fece un sorrisetto.
«Il sesso non è l'unica cosa di cui un uomo ha bisogno, anche dopo un migliaio d'anni di astinenza.» «Lo so. Ma non posso dare il mio cuore a tutti quanti.» «E questo è il problema», rispose Doyle. «Frost mi ha detto come ti sei comportata quando io sono rimasto ferito. Tu non puoi permetterti di avere dei favoriti, Meredith, non ancora.» Un'espressione sofferente gli attraversò il viso, ma non credo avesse qualcosa a che fare con le sue ferite. «Sai che io provo quello che provi tu, ma è importante che tu resti incinta, Meredith. Devi, altrimenti non ci saranno nessun trono e nessun regno per te.» Con una mano posata sulla mia coscia, accanto alla faccia, Abe mormorò: «Hugh non ha detto che Merry deve partorire per diventare regina dei Seelie. Le ha offerto il trono, senza condizioni». Cercai di ricordare esattamente ciò che aveva detto sir Hugh. «Abe dice il vero», confermai. «Forse a loro importa più la magia che avere eredi», disse Frost. «Forse. O forse Hugh sta giocando qualche altro gioco», aggiunse Doyle. Lo sportello della limousine si aprì, facendoci sobbalzare tutti, anche Doyle e Abe. Quest'ultimo mandò un grugnito. Doyle tacque; solo il suo volto rivelò la sofferenza per un momento. Prima che Aisling e Usna salissero a bordo aveva però ritrovato la sua solita espressione. I due si cercarono un posto, Usna accanto a Frost, Aisling di fronte a lui. Doyle disse: «Possiamo andare». Frost spinse il pulsante dell'intercom. «Fred, portaci a casa.» Fred faceva l'autista per Maeve Reed da trent'anni. Era diventato grigio e vecchio, mentre lei restava bella e intoccata dal tempo. Domandò: «Volete che le auto viaggino insieme, o devo cercare di seminare la stampa?» Frost guardò Doyle, e Doyle guardò me. Io mi piegai di lato fino a raggiungere il pulsante dell'intercom. «Fred, non cercare di seminarli. Oggi sembrano decisi a darci la caccia. Tu portaci a casa tutti interi.» «Agli ordini, principessa.» «Grazie, Fred.» Fred aveva a che fare coi personaggi «reali» di Hollywood da decenni. La vera regalità non sembrava fargli impressione. Ma, quando uno guida la limousine della Dea Dorata di Hollywood, che cos'è una principessa per lui?
Capitolo 10 † Usna rilassò la sua alta e robusta figura sul sedile, come se quello fosse un viaggio di piacere. L'elsa della spada gli sporgeva dietro le spalle tra i lunghi capelli rossi, bianchi e neri. Erano capelli a chiazze, non a strisce come quelli di Abe. I suoi occhi, grandi e luminosi, avevano iridi di un grigio uniforme, e a differenza di tutte le altre mie guardie scrutavano il mondo da dietro un sipario di capelli. Quand'era venuto a vivere per la prima volta nella grande città californiana degli umani, Usna aveva avuto tre reazioni. La prima: teneva addosso più armi di quante ne avesse mai portate in Faerie. La seconda: sembrava usare quel sipario di capelli per nascondersi, e guardava attraverso essi come un gatto rimpiattato tra l'erba che spiasse i movimenti di un topo. La terza: si era unito a Rhys nella stanza che lui usava come palestra e aveva aggiunto un po' di muscoli al suo fisico snello. L'analogia col gatto mi era ispirata un po' dai suoi capelli, che ricordavano il colore dei gatti di stoffa patchwork, e un po' dal fatto che sua madre, una sidhe Seelie, era stata trasformata in una gatta quand'era incinta di lui. A farle quel brutto scherzo era stata la moglie gelosa del sidhe con cui si era accoppiata, la quale aveva deciso che se si comportava come una gatta in calore avrebbe dovuto averne anche l'aspetto. Usna era cresciuto, aveva sciolto l'incantesimo uccidendo la sidhe che ne era stata l'artefice e vendicato così sua madre, la quale aveva ripreso la forma umana e viveva felicemente alla Corte Seelie. Quella vendetta era costata cara a Usna, che era stato esiliato e costretto a cercare rifugio alla Corte Unseelie. Ma lui restava convinto di aver fatto la cosa giusta. Fu però Aisling, seduto accanto a Doyle, a chiedere: «Non per lamentarmi, principessa, ma perché siamo nella vettura di testa insieme con te? Sappiamo che tu hai i tuoi favoriti, e che noi non siamo tra loro». Il suo commento sui miei favoriti echeggiava ciò che avevano detto poco prima Doyle e Frost. Ma, dannazione, io non avevo il diritto di avere delle preferenze? Guardai Aisling, chiedendomi cosa potevo rispondergli. Non era facile capire qualcosa dai suoi occhi, perché si nascondeva il viso dietro un velo che lo lasciava intravedere solo molto vagamente. Aveva iridi spiraliformi, non a tripla corona circolare ma vere e proprie spirali che partivano dalle pupille, e i colori di quelle spirali cambiavano in continuazione, come se rispondessero ai suoi cambiamenti di umore. Portava i capelli riuniti in
alcune complicate trecce dietro la testa, per potersi allacciare il velo senza difficoltà. Una volta, il semplice fatto di guardare in faccia Aisling costringeva chiunque, maschio o femmina, a innamorarsi all'istante di lui. O meglio, amore era ciò che diceva la leggenda, ma Aisling mi aveva informata meglio: si trattava di pura e semplice libidine. Solo se lui faceva lo sforzo di modificare quella magia la cosa diventava amore. Un'altra delle sue caratteristiche era di poter distruggere il vero amore con un semplice tocco. Questo suo potere funzionava sia all'interno di Faerie sia all'esterno. In passato avevamo avuto l'occasione di metterlo alla prova e di constatare che poteva far innamorare una donna e indurla a raccontargli tutti i suoi segreti tradendo qualsiasi giuramento avesse fatto, pur di avere un suo bacio. Questo era il motivo per cui non mi ero ancora portata a letto Aisling: lui stesso, e gli altri miei uomini, non erano sicuri che io avessi abbastanza potere da resistere al suo incantesimo. Il velo che portava quel giorno era bianco, intonato al suo antico abito. Non c'era ancora stato il tempo di procurare abiti moderni alle mie ultime guardie, così lui indossava una giubba ornata di ricami, pantaloni aderenti e alti stivali che sarebbero stati alla moda solo nell'Europa del quindicesimo o sedicesimo secolo. I gusti e le necessità cambiavano con estrema lentezza a Faerie, fatta eccezione per pochi individui sofisticati tra cui anche la regina Andais, che aveva una passione per gli stilisti moderni, almeno quei pochi che realizzavano anche creazioni in nero. Usna invece si era aggiornato facendosi prestare da qualcuno dei jeans, una T-shirt e una giacca di pelle. Soltanto gli stivali erano i suoi, ma un individuo con le movenze flessuose di un gatto poteva permettersi un look meno formale di un dio dell'amore. «Spiegagli come stanno davvero le cose, Meredith», disse Doyle, con voce incrinata da una sottile nota di sofferenza. La limo scorreva liscia, ma quando uno ha delle ustioni di secondo grado che quel giorno erano cominciate come ustioni di terzo, be', suppongo che nessuna vettura scorra abbastanza liscia per lui. Quella richiesta mi suonò come un ordine, ma viste le sue condizioni fisiche non me la presi. Le sue condizioni e il fatto che lo amavo. L'amore ci fa fare cose che per altri non si farebbero. «Voi due avete saputo che Taranis ci ha attaccato?» domandai. «Riconosco il lavoro di Taranis quando lo vedo», disse Aisling. «Le altre guardie hanno detto che Taranis è impazzito e si è scatenato contro di voi.» Usna tirò su le ginocchia e se le strinse fra le braccia, cosicché gli occhi gli restarono inquadrati tra i jeans e i capelli. Era la posizione di un bambino spaventato, e avrei voluto chiedergli se trovarsi in
mezzo a tutto quel metallo e quelle cose fatte dagli umani lo faceva star male. Alcuni fey minori erano deperiti sino alla morte in quella situazione. Questo faceva sì che una comune prigione umana fosse letteralmente un braccio della morte per esseri così sensibili. Era un bene che la maggior parte di noi rispettasse con attenzione le leggi umane. «Cosa lo ha spinto ad attaccare?» volle sapere Aisling. «Non ne sono sicura. Che sia uscito di testa è un fatto certo. Io non ho visto la scena dell'attacco, perché alcune guardie mi hanno subito sepolta sotto i loro corpi.» Abe mi posava la testa in grembo, a pancia sotto, così guardai Doyle e Frost. «Cos'è successo?» «Il re ha attaccato Doyle», disse Frost. Abe intervenne: «Ciò che nessuno dei due ti dirà è che Doyle ha dovuto ripararsi con la pistola. Taranis ha mirato alla testa, e voleva ammazzarlo o accecarlo. Ho già visto quel vecchio figlio di puttana usare così il suo potere, molti secoli fa». «Tu sei più vecchio di lui, no?» domandai, abbassando lo sguardo su Abe. Lui sorrise. «Più vecchio, sì. Ma nel mio cuore sono ancora un bambino. Taranis invece è invecchiato dentro. Noi non invecchiamo fisicamente, come gli umani, però dentro è diverso. A tenerci giovani di spirito è solo la volontà di non cambiare col tempo.» «Allora la pistola ha deviato la mano di potere di Taranis?» domandò Usna. Doyle fece un gesto vago con la mano buona. «Sì. Non tutto il potere, naturalmente, ma in parte.» «Le pistole sono fatte con diverse cose che alla magia di Faerie non piacciono», dissi. «Non giurerei su quelle fatte con quei nuovi polimeri», fece Doyle. «Quelle metalliche sì, ma la plastica non sembra infastidire i fey minori. Probabilmente una pistola fatta coi nuovi polimeri non avrebbe deviato il colpo.» «Perché la plastica non disturba i fey minori? E una cosa fatta dagli umani come il metallo, o ancora più artificiale», domandò Usna. «Forse a contare non è tanto la fabbricazione umana, quanto il metallo in se stesso», disse Frost. «Finché non ne sapremo di più, penso che noi dovremmo preferire le armi di metallo a quelle di plastica», ribatté Doyle. Tutti annuirono. «Quando Doyle è caduto, gli umani hanno cominciato a gridare e correre qua e là. Taranis ha usato la sua mano di potere per tutta la stanza, ma sembrava confuso, come se non sapesse a chi mirare», raccontò Frost. «Non appena ha smesso di proiettare fuoco, Galen e io abbiamo avuto
l'ordine di portare te, principessa, fuori dalla stanza. Ed è stato allora che Taranis mi ha colpito.» Abe fu percorso da un fremito, e la sua mano si strinse sulla mia gamba. Mi piegai a baciarlo su una tempia. «Mi dispiace che tu sia rimasto ferito, Abe.» «Fa parte del mio lavoro.» «Aveva mirato ad Abeloec? Oppure voleva la principessa e ha sbagliato?» domandò Aisling. «Tu cos'hai visto, Frost?» chiese Doyle. «Io credo che Taranis abbia colpito volutamente Abeloec. Ma, quando lui è caduto, Galen ha preso in braccio la principessa e si è mosso come non avevo mai visto muoversi nessuno, fuorché la principessa stessa all'interno di Faerie», rispose Frost. «Galen ha aperto la porta, oppure no?» volli sapere. «No», disse Frost. «Questo significa che Galen ti ha portata attraverso la porta?» mi domandò Usna. «Non lo so. Un momento prima eravamo nella stanza, e un momento dopo nel corridoio. Credetemi, se vi dico che non so cosa sia successo.» «Siete diventati evanescenti, ecco cos'è successo, e poi scomparsi. La porta era chiusa ed è rimasta chiusa», disse Frost. «Per qualche minuto io non ho capito se fosse stato Galen a portarti via, oppure se qualche altro Seelie vi avesse rapiti con un trucco.» «Poi cos'è successo?» domandai. «Le guardie del re gli sono saltate addosso», disse Abe. «Sul serio?» si stupì Aisling. Abe sogghignò. «Oh, sì. Quello è stato un bel momento.» «I nobili Seelie, dei quali lui si fidava tanto, lo hanno aggredito?» mormorò Usna, come se non riuscisse a crederci. Il sogghigno di Abe si allargò fino a spaccargli la faccia in due. «Grande cosa, eh?» «Già», annuì Usna. «E il re si è lasciato immobilizzare senza reagire?» domandò Aisling. Frost scosse il capo. «No. Ha usato la sua mano di potere ancora tre volte. L'ultima volta Hugh si è messo davanti a lui, e col suo stesso corpo ha fatto scudo alle persone che erano nella nostra stanza.» «Hugh, il Signore del Fuoco, è in grado d'incassare in pieno un colpo della mano di potere di Taranis?» chiese Aisling. «Sì», disse Frost. «Ci ha rimesso il vestito, ma la sua pelle era intatta», aggiunsi.
«E come hai fatto a vedere Hugh, se Galen ti aveva portata al sicuro?» mi domandò Aisling. A rispondere fu Frost, con voce poco allegra. «Lei ha voluto tornare dentro.» «Non potevo lasciarvi in balia dei tradimenti dei Seelie.» «Io avevo ordinato a Galen di portarti via.» «E io gli ho ordinato di non farlo.» Frost strinse i denti, e io sostenni il suo sguardo senza batter ciglio. «Doyle era ferito, forse moribondo, e tu non potevi abbandonarlo», mi spalleggiò Usna. «Anche. Ma, se voglio governare, intendo governare davvero, una Corte di Faerie, devo essere capace di guidare i miei uomini in battaglia. Noi non facciamo come gli umani, che comandano i loro soldati dalle retrovie. I sidhe stanno in prima linea.» «Tu sei mortale, Merry. Questo cambia le regole», disse Doyle. «Se io sono troppo mortale per governare, allora non governerò. Ma devo farlo, Doyle.» Abe si schiarì la gola. «A proposito di governare, principessa, racconta anche ciò che ha detto Hugh sul fatto che tu potresti diventare regina della Corte Seelie.» «Non è possibile», esclamò Usna, guardando me e Abe. Quest'ultimo annuì. «È vero, lo giuro.» «Mi chiedo se Hugh abbia perso la testa», disse Aisling. «Senza offesa, principessa, ma i Seelie non accetteranno mai che a sedere sul trono dorato sia una nobile Unseelie in parte brownie e in parte umana. A meno che la Corte non sia cambiata così tanto nei duecento anni del mio esilio.» «Tu cosa ne dici, Usna? Sei sorpreso come Aisling?» volle sapere Doyle. «Prima ditemi se Hugh ha dato un motivo per questo cambiamento di opinione sulla principessa.» «Ha parlato di cigni con collane d'oro, e ha detto che un cane verde è tornato alla Corte Seelie», rispose Frost. «Mia madre mi ha detto che il Cu Sith ha impedito a Taranis di picchiare una serva», riferì Usna. «E questo ce lo dici soltanto ora?» grugnì Abe. Usna scrollò le spalle. «Non mi sembrava così importante.» «Evidentemente alcuni nobili hanno interpretato l'ostilità del cane come un segno sfavorevole a Taranis», disse Doyle. «Inoltre ha perso la testa come un dannato pazzoide», aggiunse Abe. «Sì, questo è un fatto», concluse Doyle. Aisling mi guardò. «Ti hanno davvero offerto il trono della Corte Seelie?» «Sir Hugh ha detto qualcosa sul voto dei nobili, e sul fatto che, se questo fosse stato contrario a Taranis, come lui sembrava sicuro, li avrebbe convinti
a scegliere me come sua erede.» «E tu cos'hai risposto?» volle sapere Aisling. «Ho detto che prima di rispondere alla loro generosa offerta dovremo parlare con la nostra regina.» «Andais ne sarà compiaciuta, oppure irritata?» domandò Usna. Io pensai che fosse una domanda retorica, comunque risposi: «Non lo so». «Neppure io», disse Doyle. «Vorrei saperlo», mormorò Frost. Avremmo potuto finire per trovarci presi tra un governante di Faerie pazzo furioso e una regina semplicemente crudele. E ormai da anni sapevo che la differenza tra la pazzia e la crudeltà non importa molto a chi ne resta vittima.
Capitolo 11 † Doyle e Frost interrogarono Usna per tirargli fuori tutto ciò che aveva saputo da sua madre sui fatterelli di ogni giorno accaduti negli ultimi tempi alla Corte Seelie. Ce n'erano molti. Evidentemente Taranis si stava comportando in modo incontrollato già da qualche tempo. Mentre il cancello automatico della proprietà di Maeve Reed si apriva, Aisling domandò: «Perché avete voluto che io fossi presente a questo colloquio? Taranis ha proibito a tutti i Seelie di parlarmi della loro Corte, pena la tortura, perciò io non ho notizie da riferirvi». «Il sithen Seelie ti ha riconosciuto re quando ci siamo trasferiti in America. È per questo che sei stato esiliato», disse Doyle. «So bene cosa mi è costato il mio rango a Corte», borbottò Aisling. «Dunque la principessa ti sta offrendo a tutti gli effetti un trono cui hai diritto», concluse Doyle. Aisling spalancò gli occhi. Il suo stupore era visibile anche attraverso il velo. Era chiaro che non aveva ancora messo insieme due più due. La limousine si fermò davanti alla villa e Fred scese ad aprirci lo sportello. Noi restammo seduti nell'abitacolo ad aspettare che Aisling avesse digerito la notizia. «Chiudi un momento, Fred, per favore», dissi io. Lui chiuse. «Che il sithen mi abbia riconosciuto re duecento anni fa non significa che oggi sarebbe ancora della stessa opinione», obiettò Aisling. «E non sono io la persona alla quale i nobili Seelie hanno fatto l'offerta.» «Volevo sentire il tuo parere, Aisling», disse Doyle. «Non voglio che tu pensi che abbiamo dimenticato cosa ti ha offerto Faerie, una volta.» Aisling lo guardò un lungo momento. «Questa è una cosa molto onesta da parte tua, Doyle.» «Sembri sorpreso», dissi io. Lui guardò me. «Doyle è la Tenebra della regina da moltissimo tempo, principessa. Sto cominciando a pensare che, agli ordini della regina, la parte migliore di lui sia rimasta sepolta.» «Questo è il modo più educato che abbia mai sentito per dirti che sei sempre stato un bastardo senza cuore, Doyle», osservò Abe. Gli occhi di Aisling si contrassero. Mi parve che fosse divertito. «Io non userei mai parole così indelicate.» Doyle sorrise.
«Credo che molti di noi si siano accorti che stando con la principessa siamo tornati a essere noi stessi, come non lo eravamo da secoli.» Tutti si voltarono verso di me, e il peso dei loro sguardi mi fece sentire piccola. Respinsi quella sensazione e raddrizzai le spalle per essere la principessa che loro pensavano fossi. Ma c'erano momenti, come quello, in cui mi sembrava impossibile essere la persona di cui avevano bisogno. Nessuno avrebbe potuto esaudire tante aspettative. Sentii un alito di brezza profumato di fiori. Una voce, che più di una voce era un mormorio attraverso il mio corpo, mi sussurrò sulla pelle: Ce la faremo. Io sapevo quanto fosse illusoria l'antica presunzione che con Dio, o con la Dea, al nostro fianco non avremmo potuto perdere. Ma certe volte non ero affatto sicura che vincere significasse per me ciò che significava per la Dea.
Capitolo 12 † Alla porta della villa fummo accolti da una frotta di cani eccitati. Erano tutti cani di Faerie, e ci salutarono con un coro di latrati, guaiti, e altri versi da cui si poteva credere che volessero parlare. Poiché erano di origine supernaturale, non avrei escluso del tutto che questo rientrasse nelle loro capacità. I cani che si affollavano intorno a diversi padroni erano tanti da sbarrarci il passo. Dal loro comportamento si sarebbe detto che fossimo rimasti assenti per giorni, invece di poche ore. I miei erano levrieri, anche se non del tutto. Avevano teste più grosse, orecchie più lunghe e una maggiore massa muscolare, ma la stessa elegante grazia di movimenti. Il loro pelo era bianco, di un bianco come quello della mia pelle, con chiazze rosse dello stesso colore dei miei capelli. Miniver, detta Minnie, era del tutto bianca salvo la metà sinistra del muso e un'altra larga chiazza rossa sul dorso. Mungo, il maschio, era un po' più alto e pesante, bianco quanto lei a parte l'orecchio destro rosso, unica sua macchia di colore. Alcuni dei cani più grossi erano simili agli antichi cani lupo irlandesi, prima che la loro razza si mescolasse con un'altra che li aveva resi più piccoli. Erano pochi a confronto dei levrieri, ma torreggiavano su di essi con la loro mole. Alcuni avevano il pelo ruvido e scompigliato, altri liscio, ma tutti con le stesse chiazze rosse e bianche. Poi c'erano dei terrier che ci arrivavano alla coscia. Anche buona parte di loro era bianca e rossa, ma ce n'era qualcuno nero e marrone. Questi ultimi appartenevano a una razza antica, nata dalla magia selvaggia, ed erano il ceppo originale dal quale discendevano i moderni terrier. Rhys aveva intorno a sé dei terrier, ma lui era un dio della morte, o lo era stato. La nostra gente vede la terra dei morti come un luogo sotterraneo, cosicché era logico che lui avesse quel genere di cani, detti anche «cani della terra». Non sembrava importargli molto che non fossero belli come i segugi, o robusti come i cani da guerra. Si chinò in mezzo agli animali che abbaiavano e ansavano, piccoli quanto vivaci, e rispose al loro affettuoso benvenuto con la stessa gioia che mostravamo tutti. Noi sidhe rispettiamo e amiamo i nostri animali. Avevamo sentito la loro mancanza. Al colore dei cani c'era una sola eccezione, rappresentata da quelli di Doyle. Non erano alti quanto i cani da guerra irlandesi, ma più massicci, con ossa robuste e muscolatura poderosa. La loro forma era quella originale dei cani apparsi intorno a noi nella notte in cui avevamo respinto la Caccia Selvaggia,
qualche tempo addietro, prima che buona parte di quegli animali cambiasse aspetto. Erano cani neri, che i cristiani chiamavano «cani infernali». Ma non avevano niente a che fare col diavolo. Erano semplicemente neri, il colore del vuoto e del nulla da cui emerge la vita. Prima di esserci la luce, dev'esserci il buio. Doyle cercò di camminare senza aiuto, ma vacillò. Frost si affrettò a sorreggere il compagno per un braccio. Stranamente, ad accogliere Frost non era venuto nessun cane. Lui e pochi altri sidhe quella notte avevano toccato i cani neri, ma nessuno degli animali aveva cambiato forma in risposta al loro contatto. Io ignoravo perché lui fosse tra gli esclusi, ma mi ero accorta che questo preoccupava Frost. Forse temeva di non essere abbastanza sidhe, come tutti gli altri. In effetti un tempo lui era stato qualcos'altro, era stato Jack Frost, una creatura del freddo il cui potere era pian piano aumentato sino a fare di lui una persona vera, il mio Killing Frost. Ma in lui c'era sempre l'insicurezza di chi sapeva di non essere nato sidhe. Sopra quella marea di cani svolazzavano molte figurette umane alate, i demi-fey. Essere senza ali era la peggiore delle vergogne per quelli del loro popolo che nascevano con una simile deformità, e i piccoli fey che si trovavano lì mi avevano seguita in esilio per quel motivo, finché io non avevo portato da Faerie un nuovo afflusso di magia che li aveva forniti di ali. Penny e Royal, i due gemelli dai corti capelli neri, mi salutarono agitando una mano verso di me. Io risposi al loro gesto di saluto. Essere accolta in quel modo da uno sciame di demi-fey e dai nostri cani era un onore che in passato non avrei mai immaginato. Mi accostai a Doyle per sorreggerlo come faceva Frost, ma lui rifiutò il mio aiuto. Non volle neppure guardarmi. Quello stato di debilitazione lo feriva più della sofferenza fisica. Uno dei suoi grossi cani neri mi respinse, con un grugnito. Minnie e Mungo si mossero verso di lui, rizzando il pelo. Quello era uno scontro che io non desideravo vedere, così indietreggiai e li chiamai a me. I miei cani erano in grado di proteggermi in caso di necessità, ma al confronto dei cani neri apparivano fragili. Diedi loro una grattatina tra le orecchie. Mungo si stringeva contro le mie gambe, con un affetto confortante. Adesso, ciò di cui avevo un gran bisogno era un sonnellino, coi miei cani ai piedi del letto o davanti alla porta. Non tutti i miei uomini gradivano quel pubblico peloso, e qualche volta non lo gradivo neppure io. Ciò malgrado avevamo ancora una cosa da fare prima di permetterci un po' di riposo. Non appena fummo dentro chiamammo mia zia Andais, regina dell'Aria e delle Tenebre. Io avrei mandato subito a letto Abe e Doyle, ma quest'ultimo
aveva fatto notare che se qualcun altro mi aveva preceduto, sussurrando all'orecchio della regina che mi era stato offerto il trono del suo rivale, lei avrebbe potuto vederlo come un tradimento. Avrebbe potuto pensare che io meditavo di saltare sull'altra barca. E Andais non accettava né tradimenti né defezioni senza reagire con violenza. Era già di umore assai poco conciliante dopo aver visto quante delle sue devote guardie erano venute da me. Io non la vedevo come una defezione. La consideravo semplicemente una scelta che concedeva loro il sesso dopo secoli di celibato. Qualunque uomo l'avrebbe fatta, senza neppure chiedersi se la donna ero io o un'altra. Forse mi aveva aiutata anche il fatto che io non ero sessualmente sadica come zia Andais, ma per qualcuno questo era un dettaglio abbastanza secondario. Doyle insistè per essere presente alla chiamata. Voleva che lei vedesse ciò che gli aveva fatto Taranis. Probabilmente pensava che se lei avesse visto coi suoi occhi come stavano le cose ciò l'avrebbe indirizzata verso uno stato d'animo meno arroventato del solito. Andais era più stabile di Taranis, ma in certe situazioni non reagiva come una persona sana di mente. Avrebbe preso bene quelle notizie inaspettate, oppure no? Io non osavo fare pronostici. Doyle sedette sul bordo del letto, alla mia destra. Rhys prese posto alla mia sinistra, dicendo: «Oggi mi hai promesso un po' di sesso, ma io ti conosco. Saresti capace di dimenticarlo, se io non ti restassi accanto». Era una battuta con un pizzico di provocazione per me, ma Doyle si disse d'accordo un po' troppo in fretta. Questo mi fece capire che la mia Tenebra si sentiva peggio di quello che lasciava vedere. Frost si fermò a un angolo del letto. Impugnare un'arma è più facile quando uno sta in piedi. Al suo fianco c'era Galen. Aveva insistito per essere presente alla chiamata, e non si era lasciato dissuadere dalla nostra assicurazione che avremmo potuto fare a meno di lui. Alla fine era stato più facile lasciargli fare quello che voleva. La sua cocciuta affermazione che le guardie del corpo non erano mai troppe aveva qualche merito. Ma probabilmente anche lui, come me, pensava che la reazione di Andais alle notizie dalla Corte Seelie era imprevedibile. Aveva paura per me, e io avevo paura per tutti noi. Abe si era sdraiato sul lato più lontano del letto. Voleva essere con noi, ma non aveva discusso gli ordini di Doyle. Credo che Abe temesse molto Andais. Non che io mi sentissi tranquilla, del resto. Rhys alzò un braccio verso lo specchio dell'armadio. La sua mano esitò a un centimetro dal vetro, senza toccarlo. «Siamo tutti pronti?» domandò. Io annuii. Doyle disse: «Sì». «Io no», borbottò Abe. «Ma il mio voto non conta, naturalmente.» Frost gli gettò un'occhiata.
«Togliamoci il pensiero», disse. Galen si limitò a guardare lo specchio a denti stretti. Non stava pensando alla magia. Era solo una questione di nervi. Rhys toccò lo specchio usando una quantità di magia così piccola che non la sentii neppure. Il vetro si riempì di nebbia, poi apparve la nera camera da letto della regina. Ma lei non si vedeva da nessuna parte. Sul grande letto dalle coltri color carbone c'era soltanto una pallida figura mascolina. Giaceva bocconi sul copriletto di pelliccia nera. La sua epidermide non era soltanto bianca, o d'una sfumatura lunare come la mia, ma traslucida come la madreperla, o come se fosse fatta di cristallo chiaro. Solo che quel cristallo era tagliato da lunghi segni rossi sulle gambe e sulle braccia. Lei gli aveva lasciato intatte la schiena e le natiche, e ciò significava che l'aveva frustato per convincerlo a fare qualcosa, non per torturarlo. Quando Andais desiderava far soffrire per il piacere di far soffrire mirava al centro del corpo. La luce emanata dalle pareti faceva scintillare le ferite con riflessi smeraldini che non avevo mai visto nel sangue fresco. L'uomo era così immobile che sulle prime pensai avesse una ferita grave invisibile dalla nostra posizione. Poi mi accorsi che il suo petto si alzava e abbassava. Era vivo. Ridotto male, ma vivo. Mormorai il suo nome: «Crystall». Lui si voltò lentamente, con una smorfia di dolore. Posò una guancia sul copriletto di pelliccia e ci guardò con occhi vuoti, occhi privi di ogni speranza. Mi fece male al cuore vedere quello sguardo. Crystall non era mai stato uno dei miei amanti, ma in Faerie aveva combattuto al nostro fianco. Aveva soccorso Galen quando senza il suo aiuto lui sarebbe morto. La regina aveva deciso che tutte le guardie che volevano seguirmi in esilio avrebbero potuto farlo, ma troppe di loro avevano approfittato di quella generosa offerta, cosicché lei l'aveva ritirata. Chi aveva fatto in tempo a venire ora si trovava al sicuro con me. Chi non era rientrato in quel primo gruppo che Sholto, il Signore di Ciò che Passa Attraverso, aveva portato a Los Angeles, era rimasto intrappolato a Faerie con lei. Intrappolato con una donna che non accettava le defezioni, soprattutto quand'erano apertamente a favore di un'altra donna. Ciò che ora avevo davanti agli occhi era il modo in cui quella donna, mia zia, trattava chi era sospettato di volerla deludere. Mi sporsi verso lo specchio come se avessi potuto toccare Crystall, ma questo esulava dai miei poteri. Io non potevo fare ciò che Taranis aveva fatto così facilmente quel mattino. «Principessa», sussurrò Crystall, e la sua voce era roca, fioca. Io sapevo perché aveva quella voce. Gridare a lungo la rende così. Lo sapevo perché
ero stata più d'una volta alla mercé della regina. Essere alla mercé della regina era diventato un modo di dire tra i sidhe Unseelie: «Piuttosto di fare questa cosa, preferirei essere alla mercé della regina». Andais vedeva l'esilio da Faerie come la peggiore di tutte le torture. Non capiva perché tanti dei suoi fey, pur non esiliati, potessero starne lontani per lunghi periodi. Perfino dopo aver cercato di affogarmi, quando avevo sei anni, non aveva capito perché mio padre mi avesse portato via da Faerie nel mondo degli umani. Io ero abbastanza mortale da morire se tenuta sott'acqua, di conseguenza lei non mi aveva giudicata abbastanza sidhe da permettermi di vivere. Un po' come un fanatico potrebbe affogare un cucciolo, dopo essersi accorto che la sua cagna di razza pregiata ha partorito un bastardo destinato a restargli tra i piedi. Andais era rimasta sconvolta quando suo fratello aveva lasciato Faerie per crescermi tra gli umani, ed era rimasta sconvolta nello stesso modo molti anni dopo, quando alcune delle sue guardie mi avevano seguita sulla costa occidentale. Per lei vivere altrove era peggio della morte, e non capiva come qualcuno potesse scegliere un destino di quel genere. Ciò che lei non avrebbe mai capito era che essere alla mercé della regina era diventato peggio di qualsiasi altra cosa. Guardai gli occhi luminosi e disperati di Crystall e mi si strinse il cuore al pensiero che non potevo neppure permettermi di piangere per lui. Andais aveva lasciato quella poco edificante scena in regalo a chiunque l'avesse chiamata allo specchio, e se fosse rientrata in quel momento avrebbe visto le mie lacrime come un sintomo di debolezza. Il corpo insanguinato di Crystall era forse un piccolo monito dedicato a me, poiché sapeva che dopo la riunione coi procuratori l'avrei chiamata. Non sapevo quale messaggio contenesse, ma nella sua mente un messaggio c'era. Però, che la Dea mi aiutasse, oltre alla sua gelosia e all'odio per tutte quelle defezioni, in quella scena non riuscivo a leggere nessun messaggio. «Oh, Crystall, mi dispiace», dissi. Un tempo la sua voce era argentina come il suono di campanelle agitate dal vento. Adesso era il gracidio d'una rana ferita. «Non è colpa tua, principessa.» Il suo sguardo si spostò verso la porta che dava accesso alle stanze più interne dell'appartamento, invisibile dal nostro punto d'osservazione. Cambiò espressione, e per un attimo dove c'era stata sofferenza ci fu solo rabbia. Una rabbia che malgrado il suo prudente tentativo di restare impassibile bruciò furiosa nei suoi occhi. Compresi che quelli che udivo erano i passi di Andais, e pregai che non notasse quello sguardo di Crystall. Se si fosse irritata sarebbe stato molto più difficile trattare con lei. Quando entrò nella stanza, la regina indossava una larga veste da camera
nera. Aveva lasciato aperta una lunga scollatura, un triangolo di carne bianca che metteva in risalto la perfezione del suo addome fin sotto l'ombelico, e solo un cordoncino orizzontale all'altezza dei seni impediva alla stoffa di aprirsi completamente. Le larghe maniche ornate di pizzo lasciavano scoperti quasi del tutto i suoi avambracci. Doveva essere stata chiamata altrove da qualche faccenda importante per essersi preoccupata di vestirsi, mentre un uomo era ancora nel suo letto. Solitamente lei restava nuda quando faceva schizzare il sangue dei suoi amanti, e a giudicare dalle condizioni di Crystall c'era da scommettere che non aveva ancora finito con lui. Quel giorno aveva riunito i lunghi capelli neri in una semplice coda di cavallo, e notai che l'aveva legata con un nastro rosso. In passato non l'avevo mai vista portare il rosso, neppure una spilla o un ricamo. L'unico rosso che le piaceva avere sulla pelle era quello del sangue altrui. Senza che sapessi spiegarmene il perché, la vista di quel nastro rosso mi fece irrigidire, e sentii che il mio cuore batteva più forte. Andais scivolò sul letto davanti a Crystall, ma abbastanza vicino da poterlo toccare, e lo accarezzò pigramente sulla testa come si sarebbe potuto fare con un cane. Lui rabbrividì al contatto di quelle lunghe unghie sul suo cuoio capelluto, poi giacque immobile e cercò di far finta di non essere lì. La regina ci guardò coi suoi occhi tricolori: grigio scuro, grigio antracite come le nuvole temporalesche, e un grigio chiaro invernale quasi bianco. Erano ben intonati alla capigliatura nera e alla pelle bianca. Il suo look era molto Goth, come quello di Abe, solo che lei aveva qualcosa di macabro che mancava a chiunque adottasse il comune stile Goth. Probabilmente era la luce da serial killer che ogni tanto si accendeva in fondo alle sue pupille, e tuttavia lei era la mia regina, la donna cui dovevo ubbidienza, e io non potevo far niente per modificare quella realtà. «Zia Andais, siamo tornati ora dall'ospedale, e ci sono importanti notizie che devo darti», dissi, senza preamboli. Avevamo deciso che era meglio parlare chiaro e dirle tutto fin dall'inizio, non appena possibile. «Mia regina», la salutò Doyle, con un goffo inchino da seduto che era quanto le bende potevano permettergli. «Ho già sentito strane voci, oggi», fu quello che disse lei, con quella voce un po' roca che qualcuno trovava seducente ma dava i brividi a chi conosceva la sua propensione al sadismo. «Per quanto strane siano le voci che hai sentito, probabilmente non sono strane quanto la verità», disse Rhys, con un sogghigno e la sua solita ironica leggerezza. Lei lo gratificò di un'occhiata inespressiva che poteva essere tutto fuorché amichevole. Nel suo umore non c'era niente di leggero, se quello sguardo era indicativo. Tornò a voltarsi verso Doyle, irritata.
«Mi chiedo come sia possibile che Tenebra resti ferito», osservò. Sembrava poco o niente interessata alle sue condizioni fisiche, dunque qualcuno gliene aveva già parlato abbastanza da toglierle ogni altra curiosità. Chi poteva essere stato? «Quando lampeggia la Luce, la Tenebra deve ritirarsi», rispose Doyle, lui pure con voce assolutamente piatta. Lei passò le unghie lungo la schiena di Crystall lasciandogli quattro segni rossi paralleli ben visibili, ma non abbastanza fondi da lacerargli la pelle. Crystall si voltò dall'altra parte, forse perché aveva paura di non poter controllare la sua espressione. «E quale Luce è così brillante da sconfiggere la Tenebra?» «Taranis, re della Luce e delle Illusioni, ha una mano di potere che può sconfiggere molti», disse Doyle, con la stessa voce atona. Andais affondò le unghie sotto la scapola destra di Crystall, come se volesse strappargli una manciata di carne dalla schiena. Stavolta il sangue uscì, e più di quanto mi sarei aspettata, in cinque rivoletti che colarono lenti verso il basso. «Sembri preoccupata, Meredith. Qualcosa ti colpisce sgradevolmente?» Ora Andais aveva un tono discorsivo, a parte quella nota tra irritata e crudele. Io decisi di mettere subito in tavola qualcosa che distraesse la sua attenzione dalla tortura dell'uomo nel suo letto. «Taranis ci ha attaccati attraverso lo specchio, nell'ufficio degli avvocati. Ha ferito Doyle e Abeloec. E stava cercando di fare lo stesso con me, quando Galen è riuscito a portarmi al sicuro.» «Oh, dubito che ce l'avesse con te, Meredith, per quanto pazzo sia. Sospetto piuttosto che volesse colpire Galen.» Io sbattei le palpebre. La sua scelta di parole significava che sapeva qualcosa che noi non sapevamo. «Perché dovrebbe fare del male a Galen?» «Domandalo a te stessa, nipote. Secondo te, perché ha accusato proprio Galen, Abeloec e Rhys di aver violentato Lady Caitrin?» Le sue unghie affondarono di più nella carne di Crystall, e i rivoli di sangue si fecero più larghi e veloci. «Non ne ho idea, zia Andais», dissi, sforzandomi di tenere la voce sotto controllo. Non dovevo mostrarmi seccata né preoccupata per il suo comportamento, anche se cominciavo ad avere pensieri foschi. Lei era di pessimo umore, e io non sapevo perché. Se le avevano riferito che mi era stato offerto un trono questo avrebbe potuto irritarla, ma se ora gliel'avessi confessato con l'aria di sentirmi in colpa lei avrebbe pensato che ero davvero colpevole di qualcosa, mentre io non ero colpevole di niente. Parlare con lei era sempre difficile come attraversare un campo minato; la sua sospettosità e il suo umore erano così imprevedibili che d'un tratto ci si trovava a esitare prima di fare qualunque genere di passo per timore di
saltare in aria. «Oh, avanti, Meredith, pensaci. O forse sei così poco Unseelie e così tanto Seelie che ogni tuo pensiero gira intorno alla fertilità?» «Io credevo che la mia fertilità fosse la cosa più importante per me, se voglio diventare tua erede, zia Andais.» Lei strinse le dita, costringendo Crystall a emettere un gemito. Il sangue che gli stava spargendo sulla schiena sembrava un fiore rosso sbocciato dalla carne. Quando alzò la mano vidi petali rossi sgocciolarle giù dalle dita. «Vuoi essere mia erede, Meredith, oppure c'è un altro trono che ti attira di più?» Ora potevo parlarne, visto che era stata lei a intavolare l'argomento. «Quando Taranis è stato trascinato via dai suoi nobili, in effetti, loro mi hanno chiesto se mi sarebbe piaciuto avere il suo trono.» Lei balzò in piedi. «E tu hai risposto di sì», esclamò, venendo verso lo specchio. «Io non ho risposto niente. Ho detto a sir Hugh che avrei discusso questa cosa con te, zia Andais, prima di rispondere di sì o di no.» Lei era davanti allo specchio adesso, e col suo corpo nascondeva la vista del suo letto e di Crystall. La rabbia stava innescando il suo potere. Un bagliore le trapelava attraverso la pelle. I suoi occhi erano pieni di luce, ma non quella luce magica di cui possono accendersi gli occhi di molti sidhe. Era una luce grigia, senza nessuno dei colori che per noi sono comuni nei momenti in cui lasciamo sprigionare la magia. Lei era regina e doveva essere diversa anche in questo. «Mi hanno detto che sei saltata subito su quella proposta, tu, piccola sgualdrina ingrata.» «Allora ti hanno mentito, zia Andais», replicai lottando per mantenere la voce ferma. «Sì, continua a ricordarmi che sei mia nipote, la mia ultima possibilità di avere qualcuno del mio sangue sul trono dopo di me. Se sarai capace di restare incinta, Meredith. Solo la Dea sa da quanti uomini ti sei fatta fottere. Perché non hai ancora un bambino nella pancia?» «Io non lo so, zia. Quello che so è che siamo venuti direttamente qui dall'ospedale, qui in casa, davanti a questo specchio. Ti ho chiamato e ti ho detto cos'è successo. Ti giuro sulla tenebra che inghiotte ogni cosa di non aver detto ai Seelie che voglio il loro trono. Ho detto a sir Hugh che avrei parlato con te, prima di dargli una risposta.» La luce dei suoi occhi non era più così intensa. Il suo potere stava tornando sotto controllo. La morsa che mi stringeva lo stomaco si rilassò un poco. Avevo usato un giuramento che nessun fey avrebbe preso alla leggera. C'erano potenze più antiche di Faerie che aleggiavano ai limiti della realtà in attesa di punire gli spergiuri. «Davvero non ti sei detta d'accordo di sedere sul Trono Dorato e lasciarti alle spalle la nostra Corte?» «Non l'ho fatto.»
«Io devo crederti, nipote mia, ma la Corte Seelie è piena di gente convinta che tu sarai la loro prossima regina.» Doyle allungò la mano sana verso di me e mi toccò un braccio, nello stesso momento in cui Rhys mi toccava l'altra spalla. Io posai una mano su quella di Rhys e l'altra su quella di Doyle. «Ciò che i Seelie dicono o pensano è affar loro, ma io non sono d'accordo.» «Perché no?» domandò lei. «Alla Corte Unseelie io ho amici e alleati. A quanto ne so, non ho niente del genere alla Corte Seelie.» «Potresti avere alleati potenti là, Meredith. Mentre noi siamo qui a parlare, loro stanno per dichiarare Taranis inadatto a governare. Voteranno contro di lui, e voteranno per mettere te su quel trono. Questo non lo farebbero se tu non fossi mai stata avvicinata da nobili di quella Corte. È chiaro che qualcuno di loro deve aver già complottato con te. Devono esserci stati molti incontri segreti dei quali io non ho saputo nulla, e su cui nessuna delle mie guardie mi ha fatto rapporto.» Ora vedevo da dove prendeva origine la sua rabbia, e non potevo darle tutti i torti. «Una delle ragioni per cui ho detto di no, e reso chiaro che prima avrei parlato con te, è proprio quella che hai detto, zia Andais. Io non sono mai stata avvicinata in nessun modo da quei nobili. Taranis ha mostrato una strana insistenza nell'invitarmi a una delle loro feste, a Natale, ma a parte questo non ho avuto altri contatti con la Corte Seelie. Questo te lo giuro. È per questo che la loro offerta mi ha lasciata col sospetto sul vero motivo per cui i Seelie dicono di volermi.» «Io conosco Hugh. È un animale politico. Non ti avrebbe offerto il trono se non avesse avuto una buona ragione per farlo. Tu mi giuri che non sei mai stata avvicinata da lui?» «Te lo giuro.» «Tenebra, dimmi esattamente cos'è successo.» «Temo, mia regina, di non poterti essere utile in questo. Quando Hugh e la principessa hanno parlato io ero privo di sensi.» «Non sembri ferito così gravemente.» «Se Hafwyn non mi avesse curato, all'ospedale, io sarei ancora là.» «Abeloec», disse lei. Abe si mosse sul letto, alle nostre spalle. Aveva fatto tutto il possibile per passare inosservato. «Sì, mia regina.» «Tu sai perché Taranis ha cercato di ucciderti?» Lui si raddrizzò lentamente, a fatica, fino a trovarsi più o meno a quattro zampe, dietro di noi. «Un tempo il mio potere era necessario per la scelta di una regina, così come quello di Meabh lo era per la scelta di un re. Credo che Taranis abbia sentito dire che quel potere mi era tornato, in parte. Credo che abbia temuto che avrei aiutato Meredith a diventare la vera regina di Faerie. Se
avessimo saputo che qualcuno dei loro nobili stava meditando di offrirle il trono, avremmo capito subito il motivo dell'accusa di violenza carnale fatta contro di me. Lui voleva allontanarmi dalla principessa.» «Galen», disse lei. «Perché lui ha rivolto la sua mano di potere contro di te?» Galen sembrò confuso. Scosse il capo. «Io non lo so.» «Andiamo, Galen, cavaliere verde, uomo verde. Perché?» Io ebbi un'intuizione. «Taranis ha saputo della profezia che Cel ha avuto da quello psichico umano.» «Già, la profezia. Quella che dice che tu e l'uomo verde riporterete la vita alle Corti. Taranis ha fatto lo stesso sbaglio di mio figlio. Ha pensato che l'uomo verde della profezia fosse Galen. Nessuno dei due ricorda la nostra storia.» «L'uomo verde significa il dio, il Consorte», dissi. Andais annuì. Si volse a Rhys. «E tu? Perché eri tra gli accusati? Ora l'hai capito?» «Taranis ha sentito dire che io ero di nuovo Cromm Cruach. Se io avessi la mia forza di un tempo, lui dovrebbe temermi.» «Ha sentito dire che tu puoi dare la morte a un goblin con un tocco, come nell'antichità. Questo è vero?» «L'ho fatto. Ma una volta sola. Se io possa farlo ancora, non lo so.» «Questa voce può essere bastata a Taranis», disse lei. Sembrava più calma, grazie al cielo. Guardò Doyle. «Capisco perché ha attaccato te. Se qualcuno volesse uccidere la principessa, dovrebbe prima eliminare te, ma ha fatto un errore a ignorare Killing Frost.» Spostò lo sguardo sull'uomo silenzioso in piedi accanto al mio letto. «Per uccidere Meredith e sopravvivere, bisogna prima eliminarvi entrambi. Non è così, Killing Frost?» Lui si umettò le labbra. Aveva tutto il diritto di essere nervoso. Non era il genere di conversazione che avrebbe preferito avere con Andais. «Questo è vero, mia regina», disse. Lei guardò me. «Quelli della Corte Seelie ti hanno posto le mie stesse condizioni? Vogliono che tu sia incinta, prima che tu possa sedere sul loro trono?» «No, sir Hugh mi ha offerto il trono senza condizioni, a patto che i nobili Seelie votino per estromettere Taranis e accettare me.» «Cosa ne pensi di questo, Meredith?» «Mi lusinga, ma non sono del tutto stupida. Devo chiedermi se i nobili Seelie non stiano giocando un loro gioco, e con l'offerta fatta a me vogliano solo prendersi un po' di tempo per consolidare la posizione di qualcuno di
loro. Un voto per mettere me sul trono farebbe di me una semplice candidata. Prima della scelta definitiva ci sarebbe un periodo di attesa, durante il quale potrebbe emergere un altro nome.» Andais sorrise. «È stato Doyle a fare questo ragionamento?» «No, mia regina», disse Doyle. «La principessa conosce bene la Corte Seelie, e sa quanto possono essere infidi quei nobili.» «È vero che Taranis ti ha picchiata fin quasi a ucciderti, da bambina?» «Sì», dissi. E dentro di me pensai: Come tu hai cercato di affogarmi. Ma non l'avrei mai detto a voce. Andais sorrise, come se avesse pensato esattamente la stessa cosa e quello fosse un ricordo felice per lei. «Meredith, Meredith, devi imparare a controllarti. I tuoi occhi tradiscono il tuo odio per me.» Io abbassai lo sguardo e tacqui, perché potevo scegliere solo se dire una cosa assai poco diplomatica oppure una assai poco vera. Lei rise, e fu nello stesso tempo una risata amabile e qualcosa che mi dava i brividi, quasi che là sul suo letto ci fosse il mio corpo, incapace di difendersi da ciò che sarebbe accaduto. Io volevo togliere Crystall dalle sue grinfie, ma non avevo idea di come fare. Se ci avessi provato senza riuscirci, l'avrei soltanto provocata a torturarlo ancora. Andais avrebbe pensato che lui era importante per me, e si sarebbe divertita molto di più a farlo soffrire. «Ora che so che non stai complottando in segreto con Hugh e i nobili Seelie, convengo sul sospetto che vogliano tradirti. Forse tu sei solo il cavallo che vogliono far correre davanti al naso di una fazione rivale, nella speranza che questa cerchi di assassinarti e si riveli in pubblico, esponendosi a una punizione. O forse, come hai detto tu, sei solo un nome che vogliono gettare in tavola nell'attesa di consolidare la posizione di qualcun altro. Quest'ultima mi sembra l'ipotesi più probabile, ma la loro offerta è stata così inaspettata che non ho ancora avuto il tempo di pensarci bene.» In altre parole, la certezza che io l'avessi tradita con la Corte Seelie l'aveva fatta imbestialire al punto di non riuscire a pensare ad altro. Ma tenni per me anche quel pensiero. Ora avevo ripreso il controllo e potevo guardarla in faccia di nuovo. O così speravo. Chi mai può essere certo di non lasciar trasparire nessuna emozione? Lei si grattò il mento con un'unghia insanguinata. «Il fatto che Taranis sappia della profezia arrivata alle orecchie di Cel significa che una delle persone di fiducia di Cel è una spia al soldo della Corte Seelie. Ma chi?» Lo specchio mandò un suono simile al clangore di due spade. Io guardai l'orologio. «Stiamo aspettando una chiamata da Kurag, il re dei goblin», dissi. «Il tuo specchio ti segnala le chiamate in attesa?» domandò lei. Io annuii. «Non ho mai sentito una cosa simile. Chi ti ha fatto questo incantesimo?»
«L'ho fatto io», disse Rhys. Aveva un'espressione divertita, ma un'ombra di cautela in fondo agli occhi. «Devi fare questo incantesimo anche al mio specchio.» «Ne sarò lieto, mia regina», rispose lui, in piacevole tono discorsivo. Il clangore di spade risuonò ancora. «Forse dovresti tornare a corte oggi stesso e provvedere a farmelo subito.» «Ti chiedo scusa, zia Andais. Oggi Rhys deve venire a letto con me, sempre che ne troviamo il tempo tra un'emergenza e l'altra.» «Ti sconvolgerebbe tanto vedere la sua pallida carne sanguinare sul mio letto, come quella di Crystall?» Non c'era una risposta possibile a quella domanda. «Non so cosa vuoi sentirti dire da me, zia.» «La verità sarebbe sufficiente.» Io sospirai. Doyle mi strinse una mano. Accanto a me Rhys era teso. Fu in quel momento che Galen perse la calma. «Che importanza ha questa storia? Oggi Taranis ci ha attaccato. La sua follia è esplosa al punto che i suoi stessi nobili hanno dovuto saltargli addosso e trascinarlo via. Ora sta per essere detronizzato dalla votazione della Corte Seelie, e tu perdi tempo a servirti di noi per tormentare Merry!» Fece un passo verso lo schermo e continuò a gridare: «Oggi Doyle è andato a un passo dalla morte. Merry ha rischiato di morire, e in questo caso tu non avresti più nessun erede al trono del tuo stesso sangue. I nobili Seelie stanno per fare qualcosa di pericoloso che coinvolge la nostra Corte, e tu vuoi soltanto giocare i tuoi stupidi e dolorosi giochi sessuali. Noi abbiamo bisogno che tu sia la nostra regina, non la nostra tormentatrice. Abbiamo bisogno di aiuto, qui. La Dea sa quanto questo è vero». Avremmo dovuto saltargli addosso e costringerlo a tacere, ma credo che fossimo tutti troppo sbalorditi per fare qualcosa. Il silenzio che seguì fu pesante, rotto solo dal respiro accelerato di Galen. Andais inarcò freddamente un sopracciglio. Il suo non era uno sguardo amichevole, ma non era neppure ostile. «Che aiuto vorresti da me, cavaliere verde?» «Cerca di scoprire perché Hugh ha offerto il trono a Merry. Il motivo vero.» «Lui quale motivo ha dato?» domandò lei con voce sorprendentemente calma. «Ha detto che ci sono cigni con collane d'oro e che un Cu Sith ha impedito al re di picchiare una serva. I Seelie pensano che Merry abbia il merito, oppure la colpa, di aver fatto tornare la magia.» «E ce l'ha?» lo interrogò Andais, con una voce in cui tornava ad affiorare una nota di crudeltà. «Tu sai che è così», rispose Galen, e non c'era più rabbia in lui, ma una sorta di orgoglio nell'affermare la semplice verità. «Forse.» Andais tornò a rivolgersi a me.
«Farò le mie indagini, e scoprirò se Hugh è onesto oppure il traditore che sospettiamo. Tu devi usare sugli uomini una magia che non riesco a vedere, Meredith. Non ti sei mai fatta fottere da Crystall, eppure sembra che lui ti sia stranamente fedele. Ora gli raddrizzerò la schiena a mio modo, e poi sceglierò un altro degli uomini che ti preferiscono a me. Sidhe che verrebbero da te nelle terre degli umani piuttosto di restare in Faerie con me.» Nelle sue ultime parole c'era un tono pensoso, come se non capisse il perché di quella loro scelta. La verità era che le guardie volevano allontanarsi soltanto dalle sue sadiche attenzioni, non da Faerie, ma questo me lo tenni in bocca. «Se l'offerta dei Seelie è sincera, Meredith, potrai considerare l'idea di accettarla.» Un brivido di preoccupazione mi fece accigliare. «Non capisco, zia Andais.» «Ogni uomo che preferisce te mi fa arrabbiare un po' di più. Presto il mio odio per te potrebbe superare il desiderio di lasciarti sedere sul mio trono. Su quello dorato della Corte Seelie saresti al sicuro dalla mia ira.» Avevo le labbra aride. Me le leccai. «Io non faccio niente per irritarti di proposito, mia regina.» «È questo che mi fa così arrabbiare con te, Meredith. So che non lo fai di proposito. Tu sei semplicemente quella che sei, e in qualche modo, essendo te stessa, riesci a separarmi dai miei cortigiani e dai miei amanti. La tua magia Seelie me li porta via.» «Io ho la mano della carne e la mano del sangue. Queste non sono mani di potere Seelie, zia.» «Sì, e la profezia ha detto a Cel che se qualcuno di carne e sangue siederà sul trono Unseelie lui morirà. Cel pensa che questo qualcuno sia tu, ma interpretare le profezie non è così semplice.» Mi guardò un poco, e in lei c'era qualcosa di diverso dalla crudeltà, anche se non capivo esattamente cosa. «Cel grida il tuo nome nella notte, Meredith.» «Se potesse uccidermi non esiterebbe un istante.» Lei scosse il capo. «È convinto che se ti monterà potrà darti un figlio, e che poi salirà al trono al tuo fianco.» La mia bocca non poteva diventare più secca, ma quel pensiero mi fece stringere i denti. «Non credo che la cosa funzionerebbe, zia Andais.» «Per farti ingravidare da lui non è necessario che tu lo ami. Il sesso non ha nessun bisogno dell'amore.» Io cercai di restare calma, mentre Doyle e Rhys mi aiutavano tenendomi per mano. Anche Abe mi si accostò, da dietro, e immerse il viso nei miei capelli. Per darmi forza col suo contatto. «Ciò che volevo dire, zia, è che lui e io non potremmo essere una buona coppia regnante.» «Non fare quel faccino spaventato, Meredith. Io so che Cel non ti
metterebbe incinta, ma lui è convinto di sì. Suppongo che tu debba considerare le mie parole un avvertimento. Non vuole più la tua morte, ma gli piacerebbe far assassinare tutti i tuoi amanti, se potesse.» «Lui è...» Cercai un modo di dirlo. «Lui ha la possibilità di...?» «Non è più in cella, ma c'è chi lo protegge e lo sorveglia. Non voglio che una delle mie guardie uccida il mio unico figlio per proteggere la mia erede.» Scosse il capo. «Vai, rispondi alla chiamata del re dei goblin. Io cercherò di scoprire se l'offerta di Hugh per il trono dorato è vera o falsa», disse, tornando verso il letto. «Ma prima devo usare il tuo Crystall per sfogare la rabbia che mi hai messo in corpo. Sappi che ogni sua ferita è quella che aprirei sulla tua pelle bianca come un giglio, se non avessi bisogno che il tuo corpo di futura madre resti sano.» Sedette sul letto e afferrò Crystall per la nuca, schiacciandolo a faccia in giù sulla pelliccia nera. Nell'altra sua mano apparve un coltello, o per magia o perché era stato nascosto tra le coltri. Frost andò allo specchio e lo spense con un tocco. Noi restammo lì a guardare le nostre immagini riflesse. Io ero pallida, con gli occhi un po' troppo grandi. «Merda», disse Rhys. Questo riassumeva tutto.
Capitolo 13 † Lo specchio suonò ancora, un rumore stridulo come due spade che sfregassero con violenza l'una sull'altra. Mi fece sobbalzare. Rhys si voltò a guardarmi. Doyle disse: «È opportuno che io e Abe ci spostiamo fuori vista. Meno gente vede le nostre condizioni, meglio è, credo». Mi strinse la mano un'ultima volta. Poi cercò di alzarsi con la sua solita scioltezza, ma si fermò a metà del movimento e vacillò in avanti. Io lo sostenni. Frost lo prese per le braccia, e probabilmente fu lui, più di me, ad aiutarlo a raddrizzare la schiena. Doyle fece un gesto come per rifiutare il nostro sostegno, ma stentava a mantenere l'equilibrio, e quando Frost gli passò un braccio intorno alle spalle si rassegnò ad appoggiarsi a lui. «Non hai preso l'analgesico che ti hanno dato in ospedale, vero?» gli domandai. Lo specchio suonò di nuovo, e in modo ancor più iracondo di prima, come se le spade cercassero di spaccarsi a vicenda. «I goblin non sono famosi per la loro pazienza, Meredith. Devi rispondere alla chiamata», disse Doyle con voce stanca. Si allontanò sorretto da Frost, e non fece più nessun tentativo di camminare da solo, segno chiaro che la sua ferita era grave. Peggiore di quello che avevo pensato. Vedere la mia Tenebra in quelle condizioni mi diede una stretta al cuore, non solo perché lo amavo, ma perché era il più capace tra i miei guerrieri. Frost poteva essere altrettanto forte in combattimento, ma lo stratega era Doyle. Avevo bisogno di lui, in più di un modo. Doveva aver notato la mia espressione con la coda dell'occhio, perché mormorò: «Ti sto deludendo». «Taranis ha cercato di bruciarti via la faccia. Tu non hai deluso nessuno», replicò Rhys. L'odioso clangore di spade riempì ancora la camera. «Vai, resto io con lei», disse Rhys. «Tu detesti i goblin», obiettò Frost. Lui scrollò le spalle. «Quello che mi ha cavato l'occhio l'ho ucciso. È stata una vendetta abbastanza soddisfacente. Inoltre non vorrei che tu mettessi incinta Merry proprio oggi. Approfittane per riposarti, e porta con te quelle medicine.» «Ci penso io a Doyle», intervenne Galen. Tutti lo guardammo, sorpresi. «Se lei non può avere Doyle accanto durante questa chiamata, forse avrà bisogno di Frost», spiegò lui.
Abe stava faticosamente scendendo dall'altra parte del letto. «Vedo che a nessuno importa la possibilità che io abbia bisogno di aiuto.» «Hai bisogno di aiuto?» s'informò Galen, mentre andava accanto a Doyle per sostituire Frost. Porse l'altra mano ad Abe. Quest'ultimo lo guardò un momento e scosse il capo, ma poi si fermò, con una breve smorfia di dolore. «Ce la faccio a camminare da solo, ragazzo. Gli uomini del re gli sono saltati addosso prima che mi ferisse troppo gravemente alla schiena.» Si mosse verso la porta, a passi lenti ma con sicurezza. Doyle lasciò che Galen lo aiutasse a portarsi fuori dal campo visivo dello specchio, mentre Frost veniva accanto a me e a Rhys. Quest'ultimo alzò una mano verso la cornice, poi si fermò. «Non mi piace per niente che tu debba stare con quei due, stanotte.» «Ne abbiamo già parlato, Rhys. Per ogni goblin mezzo-sidhe che portiamo ai suoi pieni poteri, la loro alleanza si prolunga di un mese. E abbiamo bisogno del timore che i goblin incutono agli altri», dissi. Lo specchio mandò di nuovo l'odioso strepito metallico. «Quelli stanno perdendo la pazienza», commentò Frost. «Dobbiamo averli al nostro fianco, Rhys», dissi ancora. «Lo so. Detesto doverlo dire, ma lo so», borbottò Rhys. «Vorrei solo che uno di questi giorni tu facessi qualcosa perché ti fa piacere farlo, non perché ci sei costretta.» Io non seppi cosa rispondergli. Rhys si sporse a toccare la cornice. Il frastuono metallico raggiunse un livello così insopportabile che dovetti lottare per non coprirmi le orecchie. Non potevo permettermi debolezze al cospetto dei goblin. Le due Corti più alte di Faerie usavano le debolezze degli avversari per trarne vantaggi. La cultura goblin vedeva la debolezza di chiunque, anche di un alleato, come la possibilità di usargli violenza. Coi goblin si era predatori oppure prede. Io ce la mettevo tutta per non essere una preda. Lo specchio diventò una perfetta finestra sulla sala del trono dei goblin. Ma il loro re non c'era. In piedi davanti al vuoto trono di pietra c'erano Ash e Holly. In quel momento era Ash quello che posava una mano sul vetro, e la sua magia faceva rumoreggiare lo specchio come un campo di battaglia all'arma bianca. Nel vederci batté le palpebre un paio di volte. Aveva occhi verdi, del tutto privi di pupilla e con un'iride molto larga, circondata da appena un filo di cornea bianca. Portava i capelli biondi tagliati corti, perché tra i maschi soltanto i sidhe avevano il permesso di tenerli lunghi, e la sua pelle aveva una tonalità dorata. Non cosparsa di puntolini aurei come quella di Aisling, ma l'effetto non era molto diverso. Entrambi i gemelli avevano un'epidermide Seelie. La pelle candida, come la mia e quella di Frost, non era rara in tutte le razze fey, ma quella dorata era una caratteristica
esclusivamente Seelie. I loro occhi erano invece tipici dei goblin. Holly affiancò il fratello, di fronte allo specchio. Era identico a lui, con l'unica differenza degli occhi, rossi come le bacche dell'agrifoglio. E quegli occhi erano un segno distintivo dei goblin chiamati «Berretti Rossi». Rhys indietreggiò di nuovo accanto a me, e io rimasi in piedi tra lui e Frost. «Tu hai calpestato il nostro accordo. Non abbiamo altro da dirci!» mi accusò subito Holly, col viso contratto dalla rabbia. Lui era quello che perdeva sempre il controllo per primo. «Tenendoci qui ad aspettare i tuoi comodi, ci hai mancato di rispetto davanti a tutti», aggiunse Ash. Non sembrava più ragionevole del fratello, e questo era un brutto segno, perché tra loro due Ash era la voce della ragione. «La regina Andais ci ha trattenuti», disse Frost. Rhys si fece più vicino a me, come se la rabbia dei due gemelli bastasse a farmi del male. Loro lo fulminarono con lo sguardo, poi si rivolsero a me. «È vero ciò che dice, principessa?» volle sapere Ash. «La regina aveva qualcosa da farci vedere», risposi, lasciando che nella mia voce trapelasse lo sconforto che provavo per Crystall e ciò che gli sarebbe successo in quel letto. «Si stava divertendo con uno dei sidhe che avrebbero voluto venire con te?» domandò Ash. Holly fece una smorfia, quasi che quel pensiero mettesse a disagio anche lui. «Voi avete parlato con la regina, poco fa?» domandai io. Loro si scambiarono un'occhiata. A rispondere fu Ash. «Evidentemente alla regina piace farsi guardare mentre lecca il sangue dalla pelle di qualcuno. Non immaginavamo che un sidhe, anche uno di voi Unseelie, avesse dei gusti da goblin.» La passione di Andais per il sangue mi era stata chiara fin dal suo ultimo tentativo di uccidermi, non troppo lontano nel tempo. In seguito aveva deciso che le sarebbe convenuto abdicare, e questo mi aveva permesso di tornare a Faerie dopo i miei anni di lontananza. Ora sembrava che mi favorisse, almeno abbastanza da pagare le parcelle dei miei avvocati. «Vi ha chiesto di raggiungerla nel suo letto?» domandò Frost. «Con te non parliamo, Killing Frost», sbottò Holly. Io misi una mano su un braccio di Frost. Non volevo che si lasciasse provocare inutilmente. «Frost è uno degli uomini che dividono il letto con me, e se questa notte le cose andranno come abbiamo progettato anche voi due farete lo stesso. Capisco che vi siate sentiti offesi nel vedere che ignoravo la vostra chiamata, ma tutti noi dobbiamo inchinarci ai desideri della regina.» «Noi no», mi contraddisse Holly.
«Avete rifiutato il suo invito?» domandai. «Noi abbiamo cominciato a discutere su quello che avremmo potuto fare, e con chi. Ma lei non ha voluto saperne di lasciarci aprire qualche ferita sul suo prezioso corpo. Le piace solo aprirle sul corpo degli altri», disse Ash. «Vi ha proposto di lasciarvi torturare da lei durante il rapporto sessuale?» chiesi. «Sì», esclamò Holly, indignato. «La regina non sapeva che questo era il più grave insulto che avrebbe potuto farvi», dissi io. «Ma tu lo sapevi», ribatté Ash. Accennai di sì. «Da bambina ho visitato molte volte la Corte dei goblin. Era una delle poche Corti di Faerie dove mio padre pensava di potermi portare senza che io corressi dei rischi.» «Non ti portava alla Corte dei Seelie?» chiese Ash. «No.» «I goblin non sono più miti dei Seelie», ringhiò Holly, ostile. «No, ma i goblin conoscono l'onore e non infrangono le loro regole.» «È vero che la regina ha cercato di ucciderti, quand'eri bambina?» domandò Holly. Accennai ancora di sì. «È vero.» «Allora eri più al sicuro qui con noi che con la tua gente», osservò Ash. «Sì. Coi goblin e con gli sluagh.» Holly rise, un suono roco e sgradevole. «Eri più al sicuro con noi e con gli incubi di Faerie che coi bellissimi sidhe? Trovo difficile crederci.» «Gli sluagh, come i goblin, hanno leggi e usanze, e le rispettano. Mio padre le conosceva, e le insegnò a me. Ecco perché siamo qui a parlare, oggi.» «Tu hai stretto accordi con molta attenzione, principessa», disse Ash, e non c'era libidine in quelle parole, anche se il sesso non era estraneo agli accordi cui si riferiva. Anzi c'era rispetto nei suoi occhi e nella sua voce. Un rispetto che io avevo meritato. «Non sono sorpreso di vedere lì Frost, perché ultimamente lui è uno dei tuoi compagni fissi. Ma non è frequente vedere Rhys al posto dell'altro», disse Ash. «Dov'è Tenebra?» domandò Holly. «Sì, principessa. Lui è la tua ombra. Ma oggi tu hai accanto solo Frost e Rhys. E sappiamo bene che a Rhys non piacciono i goblin», continuò Ash, in tono insinuante. Al mio fianco Rhys era teso, lo sentivo nella mano che mi teneva su una spalla, ma per il resto si controllava bene. Avevano saputo che eravamo stati attaccati? E, se lo sapevano, consideravano offensivo che io non gliene avessi ancora parlato? I goblin
erano nostri alleati, ma non nostri amici. «Doyle non può essere presente», mi limitai a dire. «E perché non può essere presente?» domandò Ash. «Se noi siamo alleati, non dovresti avere segreti per noi.» Sapevano qualcosa. Decisi che cercare di mantenere il segreto era inutile. «Le voci circolano in fretta, a Faerie.» «Tra i goblin c'è chi guarda i notiziari umani. Hanno visto Tenebra che usciva da un ospedale su una sedia a rotelle. Noi l'abbiamo soltanto sentito dire, così ci sembrava impossibile, ma ora non lo vediamo accanto a te. Lo chiedo di nuovo, dov'è la tua Tenebra?» «Sta guarendo.» «Ma è ferito», disse Ash, come se quella notizia lo interessasse molto. Cercai di non umettarmi le labbra o mostrare altri segni di nervosismo. Parlai con voce calma. «Sì, è ferito.» «Dev'essere umiliante per lui doverti lasciare da sola», disse Ash. «Tenebra su una sedia a rotelle, come un invalido. Non avrei mai pensato di vedere una cosa tanto vergognosa», aggiunse Holly. «Non c'è niente di vergognoso nel prendersi cura di un ferito, tra i sidhe», replicai. «Un goblin ferito così gravemente si ucciderebbe, o chiederebbe a qualcuno di dargli la morte», ribatté Holly. «Allora sono contenta di non essere goblin, perché io resto ferita molto facilmente», dissi. Avevo parlato della mia fragilità di proposito. Volevo distogliere la loro attenzione da Doyle e passare al programma di quella notte. Ash e Holly non avevano mai fatto sesso con una sidhe. Non erano mai stati con una femmina che poteva essere ferita o uccisa, e conoscere la morte vera, per un incidente o senza l'uso di armi di ferro freddo. Questa era una novità per loro. Ash e Holly contavano che avrei riportato a loro gli antichi poteri magici dei goblin, così come avevo promesso a Kurag, e Ash sperava inoltre di mettermi incinta per diventare re dei sidhe al mio fianco. Ma non era il desiderio di potere che faceva brillare gli occhi di Holly. Il suo era un appetito di diverso genere. Ash restò a guardarmi pensosamente, immune dai desideri più selvaggi del fratello. Holly era quello che avrebbe potuto perdere il controllo e ferirmi, ma Ash era capace di farmi del male di proposito. La sua mentalità era un poco meno goblin e un poco più sidhe. Se fossi riuscita a mantenere la promessa di risvegliare in lui maggiori poteri, le sue ambizioni lo avrebbero reso pericoloso. Kurag, il loro re, avrebbe dovuto tenerlo d'occhio. Il trono dei goblin non si trasmetteva per diritto ereditario. Lo conquistava il più spietato, con la forza delle armi, e ne manteneva il possesso finché non si faceva avanti qualcuno
più forte. Il re è morto, lunga vita al re. «Non credere di potermi distrarre, principessa. Neppure con la tua carne bianca», disse Ash, come se mi avesse letto nella mente. «Sono così poco attraente per te?» domandai, abbassando gli occhi. Ai goblin piaceva quel miscuglio di timidezza e sfacciataggine nelle loro donne. Io non ero sfacciata quanto loro, ma sapevo come provocarli. Ash scoppiò improvvisamente a ridere. «Tu sai benissimo ciò che rappresenti per noi, principessa.» Holly si avvicinò allo specchio finché la sua bella faccia non lo toccò. Non c'era la distorsione di una telecamera. Era come se soltanto un vetro separasse una stanza dall'altra. Vi posò una mano, mi guardò, e nei suoi occhi c'era qualcosa che andava oltre il sesso. Io distolsi lo sguardo, con un fremito. «Vorrei sentire l'odore della tua paura attraverso questo vetro», disse, con voce roca per la libidine. Frost si accostò di più a me. Rhys mi passò un braccio intorno alla vita. Avevo bisogno di essere confortata, ma avevamo a che fare con dei goblin, e dovevo ponderare con attenzione le loro passioni. «L'accordo era che Tenebra e un altro sarebbero stati presenti, mentre fottiamo», disse Ash. «Ma lui è ferito, perciò io dico che non dobbiamo avere spettatori.» «No», risposi, con voce morbida. «Allora tutta la nostra trattativa dovrà essere rifatta», replicò lui. Frost fece per dire qualcosa, ma io gli toccai un braccio. «Tu e Holly avete la possibilità di riportare ai goblin la magia, quella vera. Avete la possibilità di essere in lizza per il trono accanto al mio, come re della Corte Unseelie. Non scarterete questa occasione solo perché Doyle sta troppo male per guardarci mentre fottiamo. Mi permetterete di scegliere altre due guardie che tutelino la mia sicurezza e si accertino che tutto vada come deve andare, questa notte.» «Noi non prendiamo ordini dai sidhe», replicò Holly. «Questo non è un ordine. Vi sto semplicemente ricordando le mie condizioni.» Guardai Ash, che era qualche metro più indietro del fratello, alle sue spalle. Holly disse: «Non c'è bisogno di guardie. Noi abbiamo dato la nostra parola, principessa. I goblin, a differenza dei sidhe, mantengono la parola. Faremo soltanto ciò che è stato patteggiato, non di più. Non faremo niente su cui tu non sia d'accordo». «Le guardie saranno lì per controllare che non vi lasciate trasportare dal piacere a fare altre cose. Ma c'è un altro motivo per la loro presenza.» «E quale sarebbe?» domandò Ash. «Accertarsi che sia io a non lasciarmi trasportare.»
«Lasciarti trasportare. Che significa?» volle sapere Ash. «Significa che nell'emozione del momento io potrei chiedervi cose alle quali il mio corpo potrebbe non sopravvivere.» Holly corrugò le sopracciglia. «Cosa?» «Lei sta dicendo che le piace essere ferita, e potrebbe chiederci di farle delle cose pericolose per la sua vita», gli spiegò Ash. «Sidhe mentitrice», mi accusò Holly. «Vi giuro che io non mento. Devo avere delle guardie che mi trattengano dal fare del male a me stessa.» Holly colpì lo specchio con un pugno così forte che il vetro tremò anche dalla nostra parte. Io sussultai. «Tu hai paura di noi. I sidhe non desiderano le cose di cui hanno paura.» «Io posso parlare soltanto per me.» «Vuoi che io ti faccia del male?» disse Holly. Io alzai lo sguardo, allora. Lo fissai dritto negli occhi, e gli lasciai vedere la verità. «Oh, sì.»
Capitolo 14 † Al termine del colloquio lo specchio tornò a essere uno specchio. I due goblin sarebbero arrivati dopo cena, con una scorta di Berretti Rossi per garantirsi dal pericolo che quella fosse una trappola dei sidhe. Con Doyle costretto al riposo avrei dovuto scegliere qualcun altro che mi proteggesse in camera da letto, e gli uomini di cui avevo maggiore fiducia erano i meno propensi a svolgere quel servizio. Frost sarebbe rimasto a proteggermi con Doyle, se quest'ultimo fosse stato disponibile, benché non gli piacesse affatto vedermi fare sesso con altri uomini. Non aveva problemi nel condividermi con Doyle quand'erano entrambi a letto con me, ma la serata che ora si prospettava l'avrebbe innervosito. Rhys era di mente più aperta sul sesso di gruppo, ma chiedergli di assistere mentre lo facevo con due goblin sarebbe stato troppo per lui. La sola vista dei goblin gli ricordava la sua cattura, quando gli avevano strappato via un occhio. «Dicevi sul serio sul fatto che potresti volere che ti feriscano?» domandò Rhys. «Sì», risposi. «Ti rendi conto di quanto può essere odioso questo pensiero?» Ci pensai, e accennai di sì. «Puoi accettarlo, oppure no.» A rispondermi fu Frost. «Io non lo accetto.» Non replicai, perché sapevo che in realtà Frost accettava certe cose. Farmi male non gli piaceva anche se legarmi oppure darmi qualche frustata ogni tanto gli andava bene. Tra questo e far scorrere il sangue c'era però molta differenza, così non volli discutere con lui. «Doyle aveva accettato di assistere», disse Rhys. Io annuii. «A te piace il sesso normale, giusto?» domandò lui. «'Normale' è questione di punti di vista. Il sesso che piace a me è quello che io definisco normale, Rhys.» Lui fece un sospiro e si corresse: «Non ti sto criticando. Ciò che volevo chiederti è... fai meno sesso sadomaso con noi, solo perché a noi non piace farti male? Lo dico perché vorrei sapere se fare sesso con me ti piace davvero». Lo abbracciai, ma lo tenni abbastanza lontano da poterlo guardare in faccia. «Io sto bene a letto con te, con tutti voi. Ma talvolta mi piace qualcosa di più crudo. Non gradirei fare sesso alla maniera dei goblin ogni notte, ma il pensiero mi eccita.» Lui ebbe un fremito, e non di piacere. No, era sicuramente un fremito di paura. «Io oggi so, grazie a te, che fu la mia ignoranza della cultura goblin a
costarmi un occhio. Se non fossi stato un sidhe arrogante avrei saputo che le loro usanze permettono ai prigionieri di contrattare sul genere di sesso, e li avrei costretti a non ferirmi gravemente. Ma a quel tempo vedevo il sesso con loro come una tortura, e nessuno pensa di poter contrattare coi suoi torturatori.» «La prossima volta che un goblin vorrà torturarti, saprai che puoi contrattare.» Lui rabbrividì ancora. Lo strinsi a me, per far sparire quello sguardo ferito. «Ora dobbiamo decidere chi mi guarderà le spalle questa notte.» Rhys mi tenne tra le braccia. «Mi dispiace, Merry, ma non posso. Sul serio, non ne sono capace.» «Lo so. Va bene così», mormorai tra i suoi capelli. «Starò io con te», disse Frost. Mi girai verso di lui, tra le braccia di Rhys. La sua faccia era più arrogante che mai, fredda e bella. Guardandolo, compresi che non sarebbe stata la sua contrarietà per il mio programma della serata a rendergli difficile il compito di proteggermi, tuttavia lui non sapeva qual era il mio limite, e se io fossi stata spinta oltre quel limite non lo avrebbe capito. Quella notte le emozioni di Frost sarebbero state troppe, e lui aveva la tendenza a lasciarsi prendere la mano dalle emozioni. Se ci fosse stato Doyle a dargli i segnali giusti sarebbe andato tutto bene, ma Doyle non c'era. A chi potevo chiedere di stare con me? Lo specchio si riaccese all'improvviso, collegandoci con la camera da letto della regina. Noi avevamo messo un incantesimo su quello specchio per impedire che altri venissero a curiosare, ma evidentemente Andais l'aveva spazzato via. Dunque lei aveva accesso alla stanza più intima della mia casa. Per un momento fui tentata di spostare lo specchio in un altro locale, ma dovetti riflettere che quelle piccole vittorie mantenevano gli umori di mia zia a un livello meno ostile. Non mi restava che prenderne atto e cambiare stanza quando volevo maggiore intimità. Con lei avrei potuto accampare la scusa che ero stanca e mi ero addormentata nella camera di qualcun altro. La regina era coperta di schizzi di sangue. Non era facile capirlo con quella veste da camera nera, ma in vari punti la stoffa era più lucida e sembrava appiccicata alla pelle. Anche la mano con cui stringeva il coltello era rossa di sangue; l'impugnatura doveva essere piuttosto scivolosa tra le sue dita. Non avrei voluto abbassare lo sguardo sul letto, ma i miei occhi si mossero da soli. Restai immobile tra le braccia di Rhys e guardai quella scena, cercando di convincermi che non era orribile come sembrava. L'uomo disteso sul copriletto doveva essere Crystall, ma ciò che vedevo era soltanto una figura insanguinata di forma umana. Alla fine il mio sguardo
mise a fuoco alcuni particolari che mi costrinsero a riconoscerlo. Giaceva a pancia sotto, come l'avevamo lasciato una ventina di minuti prima. Il suo braccio destro penzolava inerte fuori dal letto. La mano era scossa da brevi contrazioni ritmiche, quasi che lei gli avesse fatto qualcosa al sistema nervoso. Mi accorsi che stavo piangendo. Non potevo fermare le lacrime. Rhys mi fece voltare la faccia contro una sua spalla, impedendomi di guardare oltre quella scena. Per una volta lo lasciai fare. Ormai avevo visto ciò che Andais voleva farmi vedere, anche se non capivo perché desiderava mostrarmelo. Ciò che aveva fatto a Crystall era qualcosa che si poteva riservare ai traditori, ai nemici. Ai criminali cui si cercava di estorcere informazioni, o che venivano torturati per punizione. Per quale motivo lei lo aveva ridotto in quello stato? Per quale motivo? Avrei voluto gridarglielo in faccia. Le braccia di Rhys mi strinsero più forte, come se avesse intuito il mio impulso. «Allora mentivi quando hai detto che stavi per portarti a letto Rhys», mi accusò lei. «No. Abbiamo finito proprio ora di parlare allo specchio coi goblin.» Mi asciugai gli occhi e la guardai. Oh, quanto la odiavo. «Sembri un po' troppo pallida e fuori forma per metterti a fare sesso, nipote mia.» La sua voce grondava compiacimento dopo aver constatato l'effetto che aveva ottenuto su di me. Che cos'era quello, un gioco per vedere quanto poteva farmi star male? Crystall era così insignificante che il suo corpo poteva essere usato per ferirmi? «Manderò Sholto perché accompagni Rhys qui da me. Rhys incanterà il mio specchio come ha fatto col tuo, poi potrà accoppiarsi con me. Ha sempre desiderato farlo.» Si rivolse a Rhys con uno sguardo provocante e allusivo negli occhi triplo-grigi. «Tu mi vuoi ancora, non è così, Rhys?» Quella era una domanda pericolosa. Lui rispose con cautela: «Chi non vorrebbe accoppiarsi con una bellezza come te? Ma tu vuoi che Merry ti dia un erede, e io devo stare qui a fare il mio dovere con lei, come tu mi hai ordinato». «E se ti ordinassi di tornare in patria?» domandò lei. «Tu hai giurato che tutti gli uomini mandati da te nel mio letto sarebbero stati miei. Lo hai giurato», protestai. «Salvo Mistral. Lui non te l'ho dato», disse lei. «Salvo Mistral», ammisi, lottando per mantenere una voce inespressiva. «Ti sconvolgerebbe tanto vedere Rhys perdere un po' di sangue nel mio letto?» Ancora una domanda pericolosa. Vagliai alcune possibili risposte, poi le gettai lì la semplice verità. «Sì.» «Tu non puoi amarli tutti, Meredith. Nessuna donna può amarli tutti.»
«Amore vero no, mia regina, ma affetto sì. Voglio bene a questi uomini perché loro sono la mia gente. Mi è stato insegnato che bisogna prendersi cura delle persone di cui siamo responsabili.» «Le parole di mio fratello continuano a infastidirmi dalla tua bocca.» Andais alzò di scatto una mano, e, forse non di proposito, mandò alcune gocce di sangue sul suo lato dello specchio. «Sir Hugh mi ha contattato. Corre voce che Taranis sarà costretto a sacrificare la sua vita per riportare la vita al suo popolo. Si parla di regicidio, Meredith. Si parla di tutto ciò che la Corte Seelie ha sofferto sotto il suo regno di follia.» Nel tono con cui lo disse c'era qualcosa che mi fece irrigidire. Frost disse: «Questa mattina ha dimostrato di essere un folle, mia regina». «Sì, Killing Frost, so che ci sei anche tu, sempre accanto a lei. I Seelie volevano farmi sapere che non c'era niente di offensivo per me nel fatto che abbiano offerto il loro trono a mia nipote.» «L'accordo è fatto, allora?» domandò Frost. «No, tutt'altro. Ma voi avete ancora un giorno e una notte prima che Hugh sappia se avrà abbastanza nobili dalla sua parte per mettere sul loro trono la nostra principessa. Hugh mi ha ricordato che mi resterebbe Cel, come erede al trono. E che del resto Meredith non è la mia prima scelta.» Hugh si rendeva conto di quanto mi aveva danneggiato? Andais non era molto più stabile di Taranis. Era impossibile dire come avrebbe reagito a simili proposte da parte della Corte Seelie. «Sembri spaventata, Meredith», disse lei. «Ho motivo di esserlo?» «Perché non fremi d'eccitazione al pensiero che potresti diventare la regina dei Seelie?» «Perché il mio cuore sta con la Corte Unseelie», risposi. Lei sorrise. «Sei sicura che sia proprio così? Metà del mio sithen è tappezzata di marmo bianco, o rosa, o dorato. Ci sono fiori e rampicanti ovunque. La magia di Galen ha fatto sparire le celle, e non ho potuto convincere il sithen a ricostruirle. Ho messo gente a potare le piante fiorite nei corridoi, ma quelle ricrescono nel tempo di una notte.» «Non so cosa vuoi da me, zia Andais.» «Io credevo che la sola rivoluzione di cui avrei dovuto preoccuparmi fosse una faccenda politica, o di lotta armata. Tu mi hai mostrato che si può perdere il potere per altri motivi. La tua magia possiede il mio sithen anche mentre sei a Los Angeles. I cambiamenti si fanno più estesi ogni giorno, come una specie di cancro.» Rise, ma con una nota di sofferenza. «Un cancro fatto di fiori e di muri colorati. Se lascerò che i Seelie ti prendano il mio regno tornerà quello che era, o è troppo tardi? Ciò che i
Seelie vogliono è forse che tu ricostruisca tutta Faerie a tuo modo? Tu stai distruggendo la tua eredità, Meredith. Se io non fermo questa cosa, presto non ci sarà più nessuna Corte Unseelie da salvare.» «Non è un'azione deliberata da parte mia, zia.» «Se ti consegno ai Seelie, finirà?» Io la guardai negli occhi. Occhi in cui leggevo ancora più instabilità del solito. «Non lo so.» «Cosa dice la Dea?» «Non lo so.» «Lei parla con te, Meredith. Io so che lo fa. Ma stai attenta. Lei non è una divinità di quelle che si prendono cura di te, come il Dio dei cristiani. Lei è il potere che ha creato me.» «So che la Dea ha molte facce», dissi. «Lo sai, Meredith, lo sai davvero?» Mi limitai ad annuire. «Goditi Rhys finché puoi, perché quando siederai sul trono dei Seelie le mie guardie torneranno da me. Loro servono soltanto i nobili Unseelie.» «Il nostro accordo non è...» Lei mi azzittì con un gesto. «Io non so più come salvare la nostra gente e la nostra cultura. Ho creduto che tu fossi la soluzione, ma se tu puoi salvare Faerie sembra che nel farlo distruggerai quello che ci rende Unseelie. La Dea ti ha offerto una scelta sul modo di riportare la vita a Faerie?» «Sì», dissi sottovoce. «Ti ha chiesto di scegliere tra i sacrifici di sangue oppure il sesso, è così?» «Sì», dissi. Non potei impedirmi di avere un'espressione stupita. «Non fare quella faccia sorpresa, Meredith. Io non sono stata sempre regina. Una volta qui non regnava nessuno che non fosse stato scelto dalla Dea. Io ho scelto il sangue e la morte per cementare il mio legame alla terra. Io ho scelto il modo di vita Unseelie. Tu cosa hai scelto, figlia di mio fratello?» Il suo sguardo mi faceva temere che dirle la verità sarebbe stato pericoloso, ma non potevo mentire, non su una cosa come questa. «La vita. Ho scelto la vita.» «Tu hai scelto il modo di vita Seelie.» «Se c'è un modo di riportare qui la magia senza uccidere, perché è sbagliato sceglierlo?» «A chi vuoi salvare la vita?» Mi leccai le labbra, improvvisamente aride. «Non chiedermelo.» «A Doyle?» «No», risposi. «Allora a chi?» gridò lei con foga. «Amatheon», dissi. «Amatheon. È uno dei tuoi nuovi amanti. Fiancheggiava Cel nel tormentarti, quando eri bambina. Perché?»
«Non ti capisco, zia.» «Perché?» «'Perché' cosa?» domandai. «Perché salvare lui? Perché non ucciderlo, per riportare la vita alla terra? Lui è una vittima sacrificale volontaria.» «Perché dovrei ucciderlo, se posso farne a meno?» replicai. Lei scosse tristemente il capo. «Questa non è una risposta Unseelie, Meredith.» «Mio padre, tuo fratello, avrebbe dato la stessa risposta.» «No. Mio fratello era Unseelie.» «Mio padre mi ha insegnato che a Faerie tutti, dal più importante al più insignificante, hanno un valore.» «Non è così», disse lei. «E così.» «Pensavo a te mentre tagliuzzavo Crystall, Meredith. L'unico motivo per cui esito a darti ai Seelie è che, se lo farò, poi non potrò più ucciderti senza provocare una guerra. Io non voglio perdere l'opzione di torturati a morte, nipote. Credo che quando sarai morta la tua magia svanirà, e la Dea traditrice che si è avvicinata a te svanirà nello stesso modo.» «Vuoi condannare a morte tutta Faerie perché non è la Faerie che tu desideri?» chiese Frost, con espressione stupita. «Sì e no», rispose lei, e spense lo specchio. Noi guardammo in silenzio le nostre immagini riflesse. Eravamo pallidi e sconvolti. Quel giorno nessuna buona notizia sembrava restare impunita.
Capitolo 15 † Avevo bisogno di rilassarmi e riposare un poco. Quella sarebbe stata una lunga notte. Ma la solitudine era un lusso che non potevo permettermi, neppure durante il sonno. Tra le insidie di Taranis e il fatto che la regina Andais poteva vedermi a suo piacere attraverso lo specchio, Rhys e Frost erano decisi a non lasciarmi sola. Non potevo discutere con loro, così non ci provai neppure. Cominciai a spogliarmi, con l'idea di andare un po' a letto. Se lì ci fosse stato Doyle, lui e Frost sarebbero rimasti entrambi, e avremmo potuto fare un pisolino o qualcosa di più attivo. Ma Rhys e Frost non mi avevano mai condivisa, neppure per dormire e basta. Mentre mi toglievo il vestito, si guardarono e ognuno considerò con imbarazzo la presenza dell'altro. Fu Rhys che alla fine disse: «Avrei voluto fare sesso con te prima dell'arrivo di quei goblin, ma Frost ha un'espressione che non gli avevo mai visto». «Quale espressione?» volle sapere Frost, ma io non domandai niente perché potevo vederla, e non era la prima volta che la vedevo. Le sue incertezze e i suoi desideri erano chiari, nel modo in cui mi guardava. Rhys si rivolse a Frost. «Io avrei voglia di un po' di sesso, ma tu hai bisogno che lei ti tolga quello sguardo dalla faccia, e per questo occorrerà del tempo.» «Non so cosa vuoi dire», rispose freddamente Frost con la sua aria arrogante, quell'automatismo difensivo nato in secoli di vita di corte che nascondeva ogni altra emozione. Rhys sorrise. «Va bene così, Frost. Io ti capisco, sul serio.» «Non c'è niente da capire», disse lui. Io scivolai nuda tra le coltri, troppo stanca perché m'importasse chi avrebbe vinto quella conversazione. Mi sistemai contro i cuscini e aspettai che uno di loro venisse a letto con me. Ero così esausta e sopraffatta dagli avvenimenti di quella giornata che non m'importava neppure chi dei due sarebbe rimasto, purché restasse qualcuno. «Doyle non è solo il tuo capitano, Frost. Voi siete stati compagni per secoli. Tu senti la sua mancanza.» «Tutti noi sentiamo la sua mancanza», rispose Frost. Rhys annuì. «Sì, ma tu e Merry più degli altri.» «Io non ti capisco», disse Frost. «Va bene così.» Rhys si voltò verso di me. Il suo sguardo diceva: Ho capito bene? Io pensavo di sì.
Battei una mano sul letto. «Resta con me, Frost. Sdraiati qui.» «Doyle mi ha detto di prendermi cura di te, finché non sarà guarito.» Sorrisi del suo tentativo di mantenere un volto inespressivo, perché non ci riusciva. «Allora prenditi cura di me e vieni a letto.» «Non dimenticare che hai promesso a me un po' di sesso, e una promessa è una promessa», mi disse Rhys. Frost lo guardò, esitante. «Noi due non abbiamo mai condiviso la principessa.» «E non lo faremo oggi», replicò Rhys. «Talvolta la condivido con uno degli ultimi arrivati, perché a Merry io piaccio più di loro.» Mi sorrise, e io gli restituii il sorriso. Poi tornò serio, e corrugò le sopracciglia. «Ma non mi piacerebbe condividerla con te e vedere ciò che lei sente per te. So che lei vi ama di più, te e Doyle, però questo riesco a sopportarlo meglio se non ci penso troppo.» «Rhys...» dissi io. Lui scosse il capo e alzò una mano verso di me. «Non sforzarti di salvare il mio ego. Dovresti mentire per farlo, e i sidhe non mentono.» Frost esitò, a disagio. «Rhys, non volevo farti soffrire.» «Tu non puoi fare a meno di essere ciò che sei, e sembra che lei non possa fare a meno di amarti. Ho cercato di odiarti per questo, ma non ci riesco. Se tu la metterai incinta e io dovrò tornare da Andais, allora ti odierò. Ma fino a quel giorno cercherò di prenderla sportivamente.» Avrei voluto trovare il modo di alleggerire la situazione, ma cosa potevo fare? Rhys aveva ragione: dicendogli ciò che lui avrebbe voluto sentirsi dire da me avrei mentito. «Tu conti molto per me, mio cavaliere pallido», sospirai. Rhys sorrise. «Accettando questo gioco tutti sapevamo che uno solo potrà sedere sul trono al tuo fianco. Io credo che Doyle e Frost potrebbero regnare insieme con te. Sareste un bel terzetto. Peccato che anche tra loro dovrà esserci un vincitore e un perdente.» Detto questo, Rhys uscì e chiuse la porta. All'esterno lo sentii parlare coi cani, che aspettavano là. Non li avevamo lasciati entrare durante il colloquio con Andais perché lei aveva provato a toccare i cani neri, e nessuno di loro aveva cambiato aspetto trasformandosi in qualcosa di speciale per lei. La magia non l'aveva riconosciuta, e questo la irritava. Anche Frost non era stato riconosciuto, e ora temeva che ciò significasse che non era abbastanza sidhe. Andais non aveva questo genere di dubbio, ma sospettava qualcosa di peggio. Lei era la regina, e avrebbe dovuto avere più poteri di chiunque, a corte, tuttavia sembrava che la cosa non funzionasse a
questo modo. Per un momento fui sul punto di richiamare Rhys e dirgli di lasciar entrare i cani, ma mi fermai in tempo, ricordando che anche Frost non gradiva troppo vedere ciò che lui non aveva. I passi di Rhys si allontanarono, e io guardai l'uomo che era rimasto con me. Frost si tolse la giacca, e solo allora ebbi modo di vedere tutte le armi che si era portato dietro. Sembrava pronto per affrontare una vera e propria guerra. Contai quattro diverse pistole e due coltelli, e sapevo che questo non era ancora tutto. Killing Frost era capace di nascondersi addosso certe armi così bene che per trovarle avrei dovuto passarlo ai raggi X. «Stai sorridendo. Posso chiederti perché?» domandò sottovoce, cominciando a slacciarsi le fondine. «Stavo per chiederti quale esercito pensavi di affrontare, oggi. Ma so cos'era a preoccuparti di più.» Lui sistemò le armi con cura sul comodino da notte. Aveva anche un paio di caricatori di riserva. «Tu dove hai messo la tua pistola?» volle sapere. «Nel cassetto del comodino, da questa parte.» «Te la sei tolta non appena entrata in camera, se non sbaglio.» «Sì», dissi. Lui aprì l'armadio e appese la giacca a una gruccia. Poi cominciò a sbottonarsi la camicia, sempre dandomi le spalle. «Non ho capito perché l'hai fatto.» «Primo, stando seduta sul bordo del letto mi dava fastidio. Secondo, se avessi bisogno della pistola in questa camera significherebbe che tutte le mie guardie presenti sono morte. In questo caso, Frost, avere una pistola in mano non mi salverebbe.» Lui si voltò, con la camicia sbottonata sino alla cintura. Se la tirò fuori dai pantaloni. Per quanto fossi stanca, la vista dei suoi addominali mentre slacciava gli ultimi bottoni mi fece accelerare le pulsazioni. La sua pelle era più bianca del tessuto della camicia. Se la tolse senza fretta, scoprendosi poco alla volta la muscolatura delle spalle. Sapeva che guardarlo mentre si spogliava lentamente stimolava il mio appetito sessuale. Appese a una gruccia anche la camicia, abbottonando il colletto perché non scivolasse giù e mantenesse la piega. Nel farlo mi mostrò la schiena, ed ebbe l'accortezza di spostarsi su una spalla i lunghi capelli argentei per lasciarmi vedere la sua muscolatura liscia e ben scolpita. C'erano giorni in cui solo guardarlo mentre si spogliava in quel modo mi faceva andare in calore e ansimare visibilmente ancor prima che fosse pronto per venire a letto. Quel giorno la situazione era diversa. Guardarlo mi faceva sempre piacere, ma ero stanca, e non mi sentivo del tutto bene. In parte era la conseguenza dello shock e dei dispiaceri, ma cominciavo a sospettare di essermi presa un
raffreddore o un virus influenzale. Frost non sapeva cosa fosse il raffreddore. Non aveva mai starnutito una volta in vita sua. Si portò le mani al gancetto dei calzoni. Aveva dovuto slacciarsi la cintura per sfilare il fodero di uno dei coltelli. Io me ne accorsi soltanto allora, così compresi che dovevo essere più stanca di quello che pensavo. Quando aprì il gancio mi girai dall'altra parte e immersi la faccia nel cuscino per non doverlo guardare. Era troppo bello per essere vero. Troppo stupefacente per essere mio. Sentii il letto muoversi e seppi che lui era salito dietro di me. «Merry, cosa c'è che non va? Credevo che guardarmi ti piacesse.» «Mi piace», dissi, senza voltarmi. Come spiegargli che quello era uno dei rari momenti in cui essere mortale mi sembrava fin troppo reale, e la sua immortalità un pensiero troppo doloroso per me? «Non basto io per piacerti, quando Doyle non è a letto con noi?» Questo m'indusse a girarmi, e lo guardai. Era seduto sul bordo, con un ginocchio piegato verso di me. Non si era ancora abbassato la lampo dei pantaloni, e stava piegato in una posizione nella quale il gonfiore della stoffa mi permetteva di vedere che aveva già un'erezione. In un altro momento avrei allungato una mano, ma talvolta un uomo ha bisogno soltanto di sentire che la donna presta attenzione a ciò che lui ha sotto la cintura. Mi alzai a sedere coprendomi i seni col lenzuolo, perché nel vedermi nuda talvolta Frost dimenticava di ascoltare la mia voce, e io volevo che mi ascoltasse. Il dubbio che gli era venuto l'aveva indotto a distogliere lo sguardo da me, e ora sedeva lì coi capelli che gli ricadevano intorno. Non si voltò neppure quando sentì che mi accostavo a lui e gli toccavo un braccio. «Io ti amo, Frost.» I suoi occhi grigi si spalancarono, ma subito li riabbassò sulle mani, posate in grembo. «Mi ami da solo, senza il corpo Doyle accanto a noi?» Strinsi le dita sul suo braccio mentre cercavo qualcosa da dire. Quella era una conversazione che non mi ero aspettata. Amavo Frost, ma non sempre mi piacevano i suoi sbalzi d'umore. «Ti trovo desiderabile oggi come la prima volta.» Lui mi rivolse un sorrisetto. «Quella notte è stata bella. Però non hai risposto alla mia domanda.» Si voltò a guardarmi negli occhi. «E questa è già una risposta.» Fece per alzarsi dal letto, ma gli strinsi il braccio più forte. Lui lasciò che io lo tenessi fermo dov'era, anche se la mia forza era niente confronto alla sua. Aveva di nuovo un'espressione triste. Feci un sospiro ma non mi scoraggiai, ormai decisa a tirarlo fuori da quell'umore un po' irritante.
«È perché mi sono voltata invece di guardarti, mentre ti spogliavi?» Lui annuì. «Non mi sento bene. Credo che mi stia venendo un raffreddore.» Mi guardò senza capire. «Ricordi che qualcuno aveva pensato che i fatti accaduti a Faerie mi avessero resa immortale, come tutti voi?» Lui annuì ancora. «Se mi sta venendo il raffreddore significa che non è così. Io sono ancora mortale.» Frost mi prese la mano. «Perché questo ti ha fatto distogliere lo sguardo da me?» «Io ti amo, ma amarti significa vederti restare sempre giovane e bello mentre io diventerò vecchia. Questo corpo che tu desideri non resterà attraente. Invecchierò e conoscerò la morte, e sarò costretta a guardarti ogni giorno sapendo che tu non capisci. Quando io sarò vecchia e curva, tu ti spoglierai ancora come hai fatto oggi, sempre così muscoloso e virile.» «Tu sarai sempre la nostra principessa», disse lui, e sul suo volto vidi che stava cercando di capire. Ritirai la mano e mi distesi sul letto, lo sguardo alzato a quel viso impossibilmente amabile. Mi salivano le lacrime agli occhi, e dovetti deglutire perché avevo un groppo in gola. Con tutto ciò che era successo quel giorno, tutto ciò che era andato storto, tutti i pericoli di cui avrei dovuto preoccuparmi, stavo per piangere perché l'uomo che amavo sarebbe rimasto bello anche quando io avrei dimenticato di esserlo stata. Non era la morte a farmi paura, in realtà, ma il lento declino fisico della carne. Come aveva fatto il marito di Maeve Reed a sopportare di vedersela davanti eternamente giovane, mentre lui diventava un vecchio cadente? Come potevano l'amore e il raziocinio sopravvivere a una prova del genere? Frost si piegò su di me, e le sue spalle erano così ampie che i suoi capelli si allargarono come una tenda d'argento, una cascata di riflessi luminosi nella penombra della camera. «Questa notte tu sei giovane, e sei bella. Perché vuoi avere una tristezza che appartiene al domani? Oggi io sono qui.» Le ultime parole me le sussurrò sulle labbra. Lasciai che la sua bocca cercasse la mia, ma non risposi al bacio. Sentivo che non aveva capito. Be', questo era inevitabile. Come avrebbe potuto? Eppure... eppure... Gli premetti le mani sul petto e lo feci allontanare finché non ebbi abbastanza spazio da guardarlo in faccia. «Hai mai amato una donna mortale? L'hai mai vista diventare matura, e poi vecchia?» Lui si alzò rigidamente a sedere e distolse lo sguardo da me. Io lo afferrai per un polso e strinsi. Era così largo che la mia mano poteva cingerlo solo in parte. «Ti è successo... è così?» domandai.
Lui continuò a non guardarmi, ma alla fine annuì. «Chi? Quando?» volli sapere. «La vidi per la prima volta attraverso i vetri d'una finestra, quando non ero ancora Killing Frost ma soltanto Frost. Ero il freddo, trasformato in qualcosa di vivo dalla fede della gente e dalla magia di Faerie.» Si voltò a guardarmi, e i suoi occhi erano colmi d'incertezza. «Tu mi hai visto in una visione, una volta, hai visto come ho cominciato a esistere.» Annuii. Ricordavo. «Ti sei avvicinato alla finestra di lei quando eri Jack Frost.» «Sì.» «Come si chiamava?» «Rose. Da bambina aveva riccioli d'oro e occhi come il cielo d'inverno. Mi vide oltre il vetro, dove nessuno avrebbe visto nulla, e cercò di dire a sua madre che c'era qualcuno fuori dalla finestra.» «Aveva la seconda vista», dissi. Lui annuì. Cercai di lasciargli il polso. Avrei voluto, ma non potei farlo. «Cosa successe?» «Rose era sempre sola. Gli altri bambini sembravano capire che era diversa, e lei fece lo sbaglio di parlare delle cose che poteva vedere. La chiamarono 'strega', e dissero che la colpa era di sua madre. Lei non aveva un padre. Da quello che dicevano gli abitanti del villaggio, non aveva mai avuto un padre. Mentre io spargevo il freddo sulle loro case li sentii dire che Rose non era stata generata da un uomo, ma dal diavolo. Erano gente poverissima, e io ero solo una delle cose dell'inverno che li facevano soffrire ancor di più. Ma desiderai aiutarla.» Alzò le mani larghe e forti e le guardò come se vedesse qualcosa di diverso, o qualcosa che un tempo era stato debole e inetto. «Desiderai essere capace di fare le cose umane, e darle aiuto.» «Pregasti di poterlo fare?» Lui batté le palpebre, sorpreso. «Mi stai chiedendo se pregai la Dea e il Consorte d'intervenire?» Accennai di sì. Lui sorrise, e la sua faccia s'illuminò di un'espressione che solitamente sapeva nascondere bene. «Sì, li pregai.» Anch'io sorrisi. «E ti fu risposto.» «Sì», disse lui, sempre sorridendo. «Mi addormentai, e quando mi svegliai ero diverso. Non come mi vedi ora, ma avevo un corpo. Provvidi quella piccola casa di legna per il fuoco, per tutto quel lungo inverno. E portai loro del cibo.» Poi la gioia abbandonò il suo volto. «Ma non sapevo ancora comportarmi nel modo giusto. Avevo preso il cibo agli altri abitanti del villaggio, e loro accusarono di furto la madre di Rose. La bambina disse loro che legna e cibo erano stati lasciati alla loro porta da
un suo amico lucente come il ghiaccio. E questo peggiorò la situazione.» Gli strinsi una mano. «La accusarono di essere una strega, vero?» dissi sottovoce. «Sì, e una ladra. Io cercai di aiutarle, ma non capivo cosa significasse essere un umano, o un fey. Ero un neonato, un essere costruito col ghiaccio e col freddo, ero un pensiero diventato solido. Non sapevo niente.» «Sapevi di dover aiutare chi aveva bisogno.» Lui annuì. «Il mio aiuto costò caro a madre e figlia. Furono imprigionate e condannate a morte. Quella fu la prima volta che usai le mani per chiamare il freddo, un gelo così intenso che poteva schiantare il metallo, e lo feci per Rose e sua madre. Spaccai la porta della casa dov'erano rinchiuse, e le liberai.» «Era tuo dovere», dissi, ma la sua mano stringeva convulsamente la mia, e compresi che la storia non era finita. «Puoi immaginare cosa pensarono gli abitanti del villaggio, quando trovarono la porta distrutta e constatarono la scomparsa delle due donne? Puoi immaginare cosa pensarono di Rose e sua madre?» «Niente di diverso da ciò che pensavano già», mormorai. «Forse, ma io ero una creatura dell'inverno. Non potevo costruire loro un rifugio, né tenerle al caldo. Tutto ciò che potevo fare era tenere lontani da loro gli umani che le inseguivano, fermandoli col gelo.» Mi alzai a sedere e feci per abbracciarlo, ma lui non me lo permise. Distolse lo sguardo da me e raccontò ancora: «Loro stavano morendo, perché dove andavo io l'inverno mi seguiva. Ero ancora un elemento della natura, e non capivo la mia stessa magia. Quando tutto mi sembrò perduto, pregai ancora. Il Consorte venne da me e mi chiese se ero disposto a rinunciare a ciò che ero per salvarle. Io ero vivo da poco tempo, Merry, e ricordavo ciò che ero stato prima. Non volevo perdere la mia identità, ma Rose giaceva immobile nella neve, così pallida e sfinita che dissi di sì. Pur di salvarle avrei rinunciato a tutto. Mi sembrava un sacrificio accettabile, visto che ero stato io a far precipitare nel dramma la situazione delle due donne». Detto questo tacque, così a lungo che a un certo punto lo strinsi fra le braccia, da dietro. Stavolta lui mi lasciò fare, anzi si appoggiò a me, e inginocchiata alle sue spalle lo sostenni. «Cosa successe?» domandai. «Sulla neve si sparse una musica, e Taranis, il Signore della Luce e delle Illusioni, arrivò in groppa a un cavallo fatto coi raggi della luna. Tu non hai idea di quanto era stupefacente la Corte Dorata quando cavalcava in quel tempo antico, Merry. Non era solo Taranis a poter fare un cavallo con la luce, o con le foglie. Avevano molta magia. Lui e i suoi uomini sollevarono Rose e sua madre dalla neve e le portarono a Faerie sui loro cavalli. Io potevo sopportare l'idea di perderla, purché fosse vissuta. Attesi il mio
destino senza pensare ad altro. Le avevo salvate, così la mia esistenza mi sembrava giusta. Non potevo dare la vita per loro perché non ero vivo, non come lo sono oggi.» Mi strinsi a lui, poi cedetti sotto il suo peso e ci distendemmo entrambi sul letto, abbracciati. Tenendogli una mano sul petto potei sentire le vibrazioni della sua voce quando proseguì la storia. «Rose si svegliò, e trovò la Corte Dorata intorno a sé. La mia piccola Rose era viva. Chiamò il suo Jackie, quello che lei chiamava Jackie Frost. Fui trasportato fino a lei com'era accaduto fin dai primi giorni. Andai da lei perché non potevo fare altro. Lei si sciolse dall'abbraccio dello scintillante signore dei sidhe e corse da me. Io non ero come mi vedi ora, Merry. Apparivo giovane e infantile. La Dea mi aveva dato un corpo che poteva fare molte cose, ma non ero uno della Corte Dorata. Ero un fey minore, in ogni senso. Agli occhi umani apparivo come un ragazzo di tredici o quattordici anni. Andavo bene per la mia Rose, e così uscimmo insieme a vivere nel mondo.» Rimase immobile tra le mie braccia. «Cosa ne fu di sua madre?» domandai. «Lei fa ancora la cuoca alla Corte Dorata.» Gli baciai la fronte, poi chiesi: «E Rose, cosa le accadde?» «Trovammo un rifugio, e usai la mia magia per portarla in un altro villaggio, più lontano. A quel tempo la gente non viaggiava come oggi, e una trentina di chilometri bastavano per non rivedere più quella gente. Rose m'insegnò a essere reale, e io crebbi con lei.» «Cosa significa questo?» «Io sembravo un ragazzino, e lei aveva la stessa età. Mentre lei cresceva, crebbi anch'io. Non furono la spada e lo scudo i primi attrezzi che imparai a usare con quelle braccia, furono un'accetta e una vanga, perché dovevo provvedere alla mia famiglia.» «Allora aveste dei figli», sussurrai. «No. Credo che fosse perché non ero abbastanza reale. Ora, nel vedere che tu continui a non restare incinta, devo chiedermi se quello di non avere figli sia semplicemente il mio destino.» «Ma eravate una coppia», dissi. «Sì, e un sacerdote più comprensivo di quelli cristiani ci sposò. Ma non potemmo restare a lungo in quel villaggio, perché io non invecchiavo. Cambiando posto ogni tanto, crebbi con la mia Rose finché non ebbi l'aspetto che tu vedi oggi. Poi rimasi com'ero, mentre per lei gli anni passavano. Vidi i suoi capelli biondi diventare bianchi, e i suoi occhi persero la luce azzurra del cielo invernale.» Si voltò verso di me, con un'orgogliosa fierezza nello sguardo. «La vidi invecchiare sempre più, ma la amavo come il primo giorno. Perché era il suo amore a rendermi reale, Merry, non il potere di Faerie, non la
magia selvaggia, ma la magia dell'amore. Io avrei dato tutta la vita che avevo per salvare Rose, ma il Consorte mi aveva chiesto di cedere tutto di me per diventare ciò di cui Rose aveva bisogno, e non potevo dare altro. Quando mi ero accorto di non invecchiare come lei avevo pianto, perché non sapevo immaginare di vivere senza di lei.» Si alzò in ginocchio e mi guardò. «Io ti amerò sempre. Quando i tuoi capelli rossi saranno bianchi, ti amerò. Quando la tua pelle liscia sarà sciupata dall'età, io vorrò ancora accarezzarla. Quando la tua faccia sarà piena delle rughe di tutti i sorrisi che hai sorriso, e di tutte le sorprese che ti ho visto negli occhi, e scavata da tutte le lacrime che hai pianto, mi sarai ancora più preziosa, perché io avrò vissuto con te ognuna di quelle cose. Condividerò la vita con te, Meredith, e ti amerò finché l'ultimo respiro non lascerà il tuo corpo o il mio.» Si chinò a baciarmi, e stavolta io gli restituii il bacio. Stavolta mi sciolsi tra le sue braccia, stretta a lui, perché non potevo fare nient'altro.
Capitolo 16 † Finì che lui venne sopra di me, coi lunghi capelli sciolti intorno a noi come una pioggia d'argento, se la pioggia fosse morbida come seta e calda come la carezza di un amante. I nostri corpi emettevano luce quasi che avessimo inghiottito la luna, ed era una luce che trapelava da ogni centimetro della pelle. Io sapevo che i miei capelli erano una massa di fuoco rosso, perché potevo vederne il bagliore con la coda dell'occhio. I suoi cominciarono a riempirsi di scintille mentre muoveva il membro dentro di me, chiare scintille di ghiaccio nel bianco pallore lunare. Avevo avuto amanti che portavano il sole a letto, ma in Frost c'era l'aspra bellezza di una notte invernale. Era troppo alto, o ero io troppo piccola, perché lui potesse prendermi bene se stavo sotto. Non era divertente per me, e non respiravo con facilità col suo peso addosso, così lui si scostò da me puntellandosi sulle braccia muscolose. Guardando giù lungo i nostri corpi, la vista del suo membro che entrava e usciva dal mio ventre mi eccitò sino a farmi gemere, e dovetti distoglierne lo sguardo, come se quello spettacolo fosse troppo bello per me e dovessi trovare qualcos'altro su cui mettere gli occhi. Ciò che trovai furono i suoi. Erano sempre grigi come il cielo coperto, ma ora, con la magia che scaturiva da dentro di noi, quello non era un semplice grigio. Nel grigio delle sue iridi vidi una collina coperta di neve sulla cui cima svettava un albero spoglio. Ebbi un momento di vertigine, come sul punto di precipitare in quel panorama, la terra dentro i suoi occhi, e finire in un altro luogo. Allora abbassai le palpebre, perché non ero certa di sapere in che posto fossero quella collina e quell'albero. Il ritmo del suo membro dentro e fuori dal mio corpo, e le dimensioni di quel tronco di carne virile, cominciavano a portarmi all'orgasmo. I primi fremiti di piacere crebbero nella rete surriscaldata dei miei nervi. «Merry, Merry, guardami.» C'era un tono allarmato nella sua voce, l'urgenza di farmi capire che stava rischiando di arrivare troppo presto. Aprii gli occhi e i suoi erano proprio sopra di me, fissi e spalancati, come se mi supplicassero di non distogliere lo sguardo. Mosse una mano e mi prese una ciocca di capelli, accanto a una guancia. «Voglio vederti in faccia», disse, con voce ansante e roca per lo sforzo. Nei suoi occhi c'era la neve, fiocchi che cadevano sull'albero solitario in cima all'altura. Qualcosa si mosse in quel territorio bianco, una figura. Il ritmo del suo corpo cambiò, si fece più urgente, animalesco, frenetico. Ora
non riuscivo più a guardare i suoi occhi, tanto si muoveva rapido sopra di me. Cercai di abbassare lo sguardo sul suo membro, ma lui mi tenne ferma la testa con una mano e me lo impedì, costringendomi a stare faccia a faccia con lui. La fierezza mascolina di quel volto amato mi fece scordare le visioni che riempivano le sue iridi grigie. «Ci sono quasi, ci sono quasi, ci sono quasi», sussurrai. Poi un'ultima spinta del suo membro e il quasi diventò adesso. Mandai un grido e mi contorsi a destra e a sinistra, bloccata soltanto dalla mano che mi teneva la testa. Mi costringeva a guardarlo negli occhi, con un'insistenza ossessiva, e continuammo a fissarci in quel modo mentre i nostri corpi cavalcavano l'estasi dell'orgasmo. Voleva che condividessi tutto questo con lui nel modo più intimo, senza distrarmi dal suo piacere come non potevo distrarmi dal mio, entrambi succubi della selvaggia magia che ognuno vedeva negli occhi dell'altro. Precipitammo in una realtà dove c'erano soltanto i sussulti scomposti dei nostri corpi. I suoi gemiti s'intrecciavano ai miei, sempre più lenti e sfiatati, poi lui mi prese per la vita e mi sollevò a mezzo. In ginocchio sul letto mi spostò verso la testata, senza togliere il membro dal mio ventre, e fui spinta con la schiena contro il legno. Allargai le braccia e strinsi fra le mani due colonnette scolpite per tenermi ferma lì, dove lui sembrava volermi. Il suo orgasmo si era ormai spento, ma lui era ancora dentro di me gonfio di un'energia animalesca tutt'altro che esaurita. Me lo dimostrò continuando a schiacciarmi contro la spalliera con altre spinte violente, mentre l'intero letto cigolava protestando per quegli scossoni. Io gridai ancora e cercai di non perdere la presa sul legno, consapevole solo della rigida carne virile che lui configgeva profondamente dentro di me. Così profondamente, a quell'angolazione, che piacere e dolore si scontravano come il ventre di Frost si scontrava col mio. Lasciai andare la testata del letto e gli affondai le unghie nelle spalle candide. Dove lo graffiavo con tutta la mia forza la sua pelle cedette, ma non fu sangue ciò che sgorgò da quelle piccole ferite. Strisce di luce azzurra nacquero lungo le tracce che le mie unghie gli scavavano sulla schiena. A un tratto vidi le verdi foglie di un rampicante tatuato che spiraleggiavano intorno a un mio braccio, e sul suo petto prese forma il disegno della testa cornuta di un cervo. Continuai a graffiarlo di baluginanti linee azzurrine, inebriandomi di piacere per la sua sofferenza. Quando mi circondò con le braccia vidi che sulle spalle aveva altri simboli di potere, simili ai viticci vegetali sul mio braccio. Mi resi conto che il tatuaggio doveva essere collegato al candido cervo che era apparso al posto di uno dei cani neri, a Faerie, quando lui aveva toccato quell'animale. Avevo
già visto la sua immagine negli occhi di Frost. Per qualche momento restammo immobili dov'eravamo, appoggiati alla testata del letto. Il suo cuore batteva così rapido e forte che ne sentivo i colpi contro una guancia. Poi mi aiutò a distendermi e si rilassò al mio fianco, con la testa sull'unico cuscino rimasto al suo posto. «Avevo dimenticato quanto puoi essere virile, Frost», disse una voce. Non era la mia. Proveniva dallo specchio. Se un attimo prima dubitavo di avere la forza di muovermi, questo bastò per farmi balzare a sedere di scatto, allungando una mano in cerca del lenzuolo. «Non copritevi», disse Andais, dallo specchio. Frost e io ci tirammo il lenzuolo addosso. «Vi ho detto di non coprirvi, o avete dimenticato che sono la vostra regina?» Nel suo tono c'era una malignità che ci indusse a spingere via il lenzuolo. Lei aveva assistito alle ultime fasi del nostro amplesso; non c'era motivo di essere timidi, dovetti dirmi. Frost si tenne premuto contro di me, celando per quanto poteva la sua nudità. Io fui la prima a ritrovare la voce. «Mia regina, a cosa dobbiamo l'onore di questa tua chiamata?» «Credevo che avrei trovato Rhys con te, o la storia che dovevi fare sesso con lui era una bugia per non farlo venire da me?» «Rhys farà il suo turno nel mio letto, regina.» Lei guardava Frost, come se io non ci fossi. Lo guardai anch'io, alto e muscoloso, ancora lucido di sudore dopo gli sforzi del nostro amplesso e coi capelli ridotti a un glorioso groviglio d'argento. Era bello, di una bellezza che pochi perfino tra i sidhe potevano vantare. Era ironico che uno di cui non si poteva dire che fosse un vero sidhe fosse tra i nostri uomini più attraenti. Ma dopo aver saputo che era stato plasmato e costruito dall'amore, non dal desiderio di potere ma da un sentimento puro, potevo capirlo. Perché l'amore ci rende più belli. «Hai una strana espressione quando lo guardi, Meredith. Cosa stai pensando?» «Amore, zia Andais. Sto pensando all'amore.» Lei mi elargì un borbottio di disgusto. «Non raccontarmi favole per bambini, nipote. Se Killing Frost non diventerà il tuo re, io lo vorrò indietro. E vedremo se a letto è bravo come sembra.» «Lui è stato tuo amante un tempo, centinaia d'anni fa.» «Non l'ho dimenticato», disse lei, ma assai poco compiaciuta di quei ricordi. Io non capivo il perché della sua espressione, né l'asprezza del suo tono. Non capivo perché avesse invaso la mia intimità allo scopo di sorprendermi insieme con Rhys... o aveva sperato di trovarmi senza di lui? Stava cercando una scusa per ordinare a Rhys di tornare a Faerie? E se era così, perché? Non lo aveva mai considerato uno dei suoi favoriti, a quanto io o altri sapessimo.
«Vedo la paura nei tuoi occhi, mio Killing Frost», disse. Lo tenni stretto fra le braccia. Non potevo farne a meno. «Hai intenzione di proteggerlo da me, Meredith?» «Io cerco di proteggere tutta la mia gente.» «Ma quest'uomo è qualcosa di speciale per te, vero?» «Sì», dissi, perché qualsiasi altra cosa sarebbe stata una bugia. «Frost, guardami», ordinò lei. Lui rialzò lo sguardo. «Hai paura di me, Frost?» Il modo in cui lo vidi deglutire fu quasi doloroso. La sua voce suonò roca. «Sì, mia regina, ho paura di te.» «Tu ami Meredith, non è così?» «Sì, mia regina.» «Lui ama te, nipote, ma di me ha paura. Credo che scoprirai che la paura può ottenere più dell'amore.» «Io non voglio usare minacce coi miei amanti.» «Un giorno vorrai. Un giorno scoprirai che tutto l'amore di Faerie non basterà per tenerti l'uomo che ami. Allora vorrai servirti della paura, ma tu sei troppo moscia per farne uso.» «Io non faccio paura a nessuno. Questo lo sai, zia.» Andais guardò ancora Frost, come se lui fosse qualcosa da mangiare e lei avesse fame. «Ti odio, Meredith. Ti odio davvero.» Lottai per tacere ciò che pensavo, ma lei continuò: «I tuoi occhi ti tradiscono. Dimmi quello che hai in mente. Io ti odio, Meredith. Cos'è che vuoi dirmi?» «Anch'io ti odio.» Andais sorrise come se avesse voluto quella risposta. Sul letto, dietro di lei, c'erano soltanto i materassi. Evidentemente il sangue di Crystall l'aveva inzuppato troppo perché le piacesse dormire in quelle condizioni. «Credo che questa notte avrò Mistral, Meredith. Farò al suo forte corpo mascolino ciò che ho appena fatto a quello di Crystall.» «Non posso impedirtelo», dissi. «No, non ancora.» E detto questo spense lo specchio. Su di esso restò solo la mia immagine riflessa. Frost non aprì bocca. Scese dal letto e cominciò a indossare i suoi indumenti. Non si preoccupò neppure di lavarsi. Sembrava avere un gran bisogno di avere qualcosa addosso, e non potevo biasimarlo per questo. Parlò senza guardarmi, ansioso soltanto di coprire la sua nudità il più presto possibile. «Una volta ti ho detto che preferirei morire piuttosto di tornare da lei. Parlavo sul serio, Meredith.» «Lo so», dissi. Lui cominciò ad allacciarsi le fondine delle sue armi. «Lo penso ancora.» Gli andai accanto. Lui mi prese una mano e la baciò, col sorriso più triste che gli avessi mai visto.
«Frost, io...» «Se devi portarti a letto Rhys prima di cena, preferirei che ti trasferissi in un'altra stanza. Non voglio che lei ci guardi ancora, oggi.» «Farò come suggerisci tu.» «Vado a consultarmi con Doyle.» Poco dopo era vestito e armato, alto, bello e freddamente mascolino. Era di nuovo il mio Killing Frost, arrogante e illeggibile come la prima volta che l'avevo visto. Ma in me restava il ricordo dei suoi occhi spalancati mentre si spingeva freneticamente nel mio ventre. Sapevo cosa c'era dietro quella faccia così controllata, e apprezzavo ogni più piccola cosa del vero Frost, l'uomo che si era innamorato della figlia d'una povera contadina e aveva rinunciato a tutto ciò che aveva per vivere con lei. Uscì dalla stanza a passi decisi, calmo e tranquillo a ogni apparenza. Ma sapevo perché lasciava il mio letto. Se ne andava perché inorridiva al solo pensiero che la regina tornasse a spiarlo.
Capitolo 17 † Seguii il consiglio di Frost e andai in una delle camere per gli ospiti della spaziosa dépendance, l'edificio che Maeve Reed aveva messo a nostra disposizione quando ci eravamo trasferiti da lei. In seguito, dopo la morte di suo marito e i due sanguinosi tentativi di assassinarla fatti da Taranis, Maeve era fuggita a nascondersi in Europa e ci aveva lasciato l'intera villa. Forse presto avrei potuto farle sapere che Taranis non era più una minaccia per lei, né per nessun altro, ma non prima della fine di quella lunga giornata. Mi sarebbe piaciuto trovare una casa soltanto mia, ma con quasi venti uomini da alloggiare e nutrire non potevo permettermelo. Chiedere denaro a mia zia era un'idea che non volevo considerare. Sapevo fin troppo bene quanto erano pericolose le catene che lei attaccava a tutti i favori. L'adrenalina se n'era andata, ed ero molto più stanca di quanto avrei dovuto essere a quell'ora. Dovevo trovare un'idea o non ce l'avrei fatta. Dannazione. Sapevo che Frost mi amava, ma non ero certa di cos'avrei provato io nel corso degli anni, quando sarei invecchiata mentre lui restava giovane e bello. Lo specchio sopra il canterale era già stato tolto e sostituito con un semplice quadro. Lì non sarebbero avvenuti collegamenti indesiderati. Per il momento era tutto ciò di cui avevo bisogno. Quel giorno c'erano state già troppe spiacevoli sorprese. Kitto mi aveva raggiunto in camera, e adesso era accoccolato su un fianco tra le morbide e lisce lenzuola di cotone. I suoi riccioli neri posavano sulla mia spalla sinistra, e lo sentivo respirare contro la curva esterna del mio seno. Aveva un braccio steso trasversalmente sul mio addome, e con l'altra mano giocherellava pigramente tra i miei capelli. Era l'unico dei miei uomini più basso di me, ed era stato uno dei primi a raggiungermi a Los Angeles. Fin dai primi tempi Doyle lo aveva persuaso a fare tutti i giorni qualche ora di palestra, e ora c'erano dei muscoli sotto la sua liscia pelle di luna. Era un uomo adulto alto un metro e venti, col visino di un angioletto mai giunto alla pubertà. Come gli altri goblin non aveva la barba, ma aveva preso da loro soltanto metà della sua eredità genetica. Anch'io passai una mano tra i suoi capelli, lunghi fino alle spalle. Erano morbidi come quelli di Galen, soffici come i miei. Abbassai la mano ad accarezzargli la schiena nuda, e coi polpastrelli potei sentire la fila di scaglie che gli cresceva lungo la spina dorsale. In quella scarsa luce le scaglie erano scure, ma di giorno avevano tutti i colori
dell'arcobaleno. Le sue labbra turgide a forma di cuore nascondevano due canini retrattili collegati a ghiandole che producevano veleno. Suo padre era stato un goblin-serpente, e il fatto che avesse violentato e ingravidato una sidhe invece di mangiarsela era insolito. I goblin-serpente erano una razza fredda in ogni senso. Non conoscevano desideri carnali e passioni, ma evidentemente la sidhe aveva svegliato qualcosa nel reptilico cuore di quell'individuo. Dopo aver partorito Kitto ed essersi accorta di ciò che era, la donna lo aveva abbandonato accanto al tumulo dei goblin. Di regola il neonato sarebbe dovuto finire nello stomaco di uno di loro, poiché i goblin mangiavano i loro piccoli, e il suo aspetto vagamente sidhe lo rendeva ancor più appetitoso in quel senso. Kitto era stato invece raccolto da una femmina goblin che contava di farlo crescere e ingrassare prima di divorarlo. Ma in seguito l'aspetto del bambino l'aveva commossa, e non se l'era sentita di ammazzarlo. In lui c'era qualcosa che stimolava l'istinto materno e il bisogno di prendersene cura. Così, per duemila anni, Kitto era cresciuto alla Corte dei goblin, finché le loro continue vessazioni non l'avevano indotto a preferire me. Da quel giorno aveva rischiato la vita per me in più di un'occasione, tuttavia confesso che neppure con uno sforzo riuscivo a vedere in quel tenero putto un mio protettore. Alzò verso di me i grandi occhi a mandorla, di un solo colore come quelli di Ash e Holly, ma assai più sereni e di un luminoso azzurro chiaro. «Da chi ti stai nascondendo oggi, Merry?» domandò, con voce gentile. Dal mio nido di cuscini gli sorrisi. «Come sai che mi sto nascondendo?» «È per questo che vieni qui, per nasconderti.» Gli passai un dito su una guancia. Mi chiedevo per quale capriccio genetico quel mezzo-sidhe avesse ottenuto un aspetto così innocuo e infantile, al contrario di altri meticci come Ash e Holly, così prestanti e forniti dell'animalesca energia muscolare tipica dei goblin. «Te l'ho detto, non mi sento troppo bene.» Lui sorrise e si alzò su un gomito, abbassando su di me uno sguardo indagatore. «Questo lo vedo, ma in te c'è una tristezza che forse io potrei placare, se mi dicessi come.» «No, non farmi parlare di politica. Ho soltanto bisogno di riposare, se stanotte voglio essere in grado di fare il mio dovere.» Lui mi sfiorò il viso con una lenta carezza da una tempia al mento, in un gesto così leggero e affettuoso che mi fece sfuggire un sospiro. «È così che vedi i goblin che verranno nel tuo letto stanotte, un dovere?» Lo guardai. «Non è il fatto che sono dei goblin a renderlo soltanto un dovere.» Lui
annuì, toccandomi i capelli. «Lo so. È ciò che sono quei due. Forse è per questo che ti senti poco bene.» «Mi spaventano, Kitto.» Lui tornò serio. «Spaventano anche me.» «Ti hanno fatto del male, in passato?» «No, a loro non interessa il sapore dei maschi. Ma ho dovuto fare servizio con loro due o tre volte, quand'erano a letto con la mia padrona.» Kitto era sopravvissuto in una cultura molto più violenta di quante ce ne fossero in Faerie, e per questo aveva dovuto ricorrere allo stesso espediente dei carcerati nelle prigioni umane: offrirsi come schiavo fedele a qualcuno forte e rispettato, diventando di sua proprietà. Chi lo faceva era guardato dall'alto in basso ma, stranamente, lo si riconosceva come un mestiere onorevole. Per un verso, dunque, i goblin come Kitto erano vittime di atti sadici e crudeli, per l'altro venivano assai apprezzati dai loro padroni. In quanto a questo i goblin non erano sessisti, e chiunque di loro fosse capace di guadagnare prestigio con la violenza, maschio o femmina, poteva diventare un padrone di schiavi. «Fare servizio?» domandai. «Servizio sessuale, nei momenti di pausa tra un amplesso e l'altro. Quei due fanno ogni cosa insieme, i gemelli, a turno. Io servivo sotto uno di loro, mentre l'altro era sopra la mia padrona.» Kitto lo disse come se fosse la cosa più normale del mondo. Non esprimeva nessun giudizio morale, né irritazione, niente. Era l'ordine naturale delle cose nella loro società. Io facevo il possibile per dargli delle possibilità di scelta nella sua nuova vita, ma dovevo andarci cauta, perché avere delle scelte lo rendeva ansioso. Il suo mondo era completamente cambiato. Lui non aveva mai saputo che esistevano la televisione o l'elettricità. Ora abitava nella villa di una delle più famose attrici di Hollywood, e non aveva mai visto uno dei suoi film. A impressionarlo era molto di più il fatto che Maeve era stata un tempo la dea Conchenn, cosa questa che lei non aveva mai rivelato al pubblico americano. «Stanotte sarò al tuo fianco, Merry. Voglio aiutarti.» «So che ti sei offerto di farlo, ma non posso chiederti di...» Lui mi posò un dito sulle labbra. «Non preoccuparti. Nessuno dei tuoi uomini conosce la cultura goblin come me. Non sto dicendo che saprei proteggerti da loro, ma posso impedirti di cadere nella trappola di certe usanze.» Gli baciai il dito e mi strinsi contro una guancia la sua mano. Avrei voluto dire: Non posso permettere che quei due abusino di te, ma lui non la vedeva in questo modo. Inutile spiegargli che una cosa era un abuso, se per lui quella era la cosa più naturale del mondo. Era la sua cultura, non la mia. E chi era una sidhe per tirare la prima pietra, dopo ciò che avevo visto quel pomeriggio nel letto di Andais? Povero Crystall.
Bussarono leggermente alla porta. Sospirai e rimasi sprofondata tra i cuscini. Non avevo nessuna voglia di occuparmi di un'altra crisi. Mi bastava quella in programma per la notte, quando i due goblin sarebbero arrivati. Kitto si sporse a sussurrarmi tra i capelli: «Tu sei la principessa. Non puoi dirgli di andarsene e di non seccarti». «Non posso, è vero, almeno non prima di aver sentito cosa vuole.» Alzai la voce. «Chi è?» «Sono Rhys.» Kitto e io ci scambiammo uno sguardo. Lui spalancò gli occhi, la sua versione di una scrollata di spalle. Aveva ragione. Doveva trattarsi di una cosa importante perché Rhys entrasse mentre io ero a letto con un goblin, qualsiasi goblin. Kitto era arrivato a piacergli, o quantomeno era spesso ospite in camera sua la sera tardi, quando lui guardava una cassetta dopo l'altra di film noir, di cui era un appassionato. Rhys lo accompagnava perfino a fare shopping, quando Kitto aveva bisogno di abiti moderni. Ma ancora non sopportava di vederlo fisicamente a contatto con me. Qualunque fosse la ragione per cui Rhys veniva in quella stanza, doveva essere importante. E «importante» quel giorno significava «sgradevole». Merda. «Entra pure», risposi. Kitto fece per scostarsi da me come se volesse uscire, ma io lo afferrai per un braccio e lo tenni lì, appoggiato su un gomito. «Questa è la tua stanza. Non devi andartene.» Kitto parve dubbioso ma restò dove lo volevo. Era sempre molto docile. Eseguiva gli ordini senza discutere, cosa che non potevo dire della maggior parte dei miei uomini. Rhys venne dentro e chiuse silenziosamente la porta alle sue spalle. Sembrava tranquillo. «Doyle è molto testardo, anche per un sidhe.» «Lo scopri soltanto oggi?» Rhys sogghignò. «Hai ragione. Lo sapevo già.» «Continua a non volere che Merry vada a sedersi al suo capezzale?» domandò Kitto. Sembrava del tutto a suo agio accanto a me, adesso, come se non avesse mai pensato di andarsene. Rhys venne verso il letto. «Ha detto: 'Io ho il compito di curarmi di lei, non lei di me stesso'. E ha detto che tu devi riposarti per stanotte, invece di fargli visita e preoccuparti per lui.» «Era il suo turno di fare sesso con me, se non fosse rimasto ferito», dissi. «Ciò che lui ha perso, lo guadagniamo noi», commentò Rhys, togliendosi la giacca. «Lo perdiamo noi, tutti noi», disse Kitto, con nostra sorpresa. Rhys si fermò, con la giacca tra le mani. La fondina della sua pistola era
scura, a contrasto con l'azzurro chiaro della camicia. Non tutte le fondine a spalla erano fatte per armi da fuoco, almeno per quanto riguardava i miei uomini. Tutti loro portavano fondine speciali confezionate a Faerie, perché nessun umano avrebbe mai saputo realizzarne di altrettanto perfette e funzionali, fatte per sostenere ingegnosamente più di un'arma restando nascoste sotto le più eleganti giacche in stile moderno. Ma quella che vedevo era coperta d'intricati disegni. Rhys aveva una pistola sotto un'ascella e un coltello da lancio sotto l'altra. Alla cintura portava una seconda pistola. Aveva anche una corta spada fissata obliquamente dietro la schiena, con l'impugnatura in basso, che si poteva afferrare alzando con una mano il bordo inferiore della giacca. «Nell'ufficio degli avvocati ti ho toccato, e non ho sentito nessuna di queste armi», dissi. «Hai usato un incantesimo che funziona con la vista e col tatto?» Rhys annuì. «Se non vai a stuzzicarlo troppo, funziona bene.» «Perché Frost e Doyle non l'hanno mai usato? L'impugnatura delle spade che loro portano sulla schiena sporge da sotto le loro giacche.» «Questo incantesimo nasconde soltanto le armi che restano del tutto coperte dagli abiti. Loro insistono per portarsi dietro delle spade così lunghe che le giacche non le coprono, così i foderi restano visibili per l'intera lunghezza. Questo rende inoltre più facile che la gente noti le pistole sotto le ascelle e il resto. Se danneggi una parte dell'incantesimo, anche il resto non regge molto bene. Lo sai.» Io indicai i disegni sulle sue fondine. «Sì, ma non avevo mai pensato che tu usassi fondine incantate.» Lui scrollò le spalle. «Devono esserti costate dei soldi.» «Sono dei regali», disse lui. Lo guardai con stupore. «Un lavoro magico e artigianale così ben fatto?» «Tu sei diventata alquanto popolare tra i fey minori dopo quel discorsetto che hai fatto nel corridoio del sithen, quando hai detto che da bambina i tuoi migliori amici non erano dei sidhe.» «È soltanto la verità», dissi. «Sì, ma questo ti ha guadagnato molte simpatie. Oltre al fatto che sei in parte brownie.» «È stato un fey minore a fare questo lavoro in pelle?» domandai. Lui annuì. «Se i sidhe hanno perduto buona parte del loro potere magico, ci sono fey che ne hanno conservato più di quanto pensavamo. Credo che abbiano paura di rivelare ai sidhe che la loro magia non è svanita come quella dei fey maggiori.»
«Saggio, da parte loro», dissi. Rhys si fermò ai piedi del letto. «Non che io non sia fiero delle mie eleganti fondine, ma stai prendendo tempo in attesa di trovare una buona scusa per mandarmi via, o c'è una domanda che non riesci ancora a farmi?» «In realtà gli incantesimi di quei lavori in pelle m'interessano. Presto potremmo aver bisogno di tutto l'aiuto magico possibile. Ma è la prima volta che entri nella stanza di Kitto mentre io sono con lui. Ci stiamo chiedendo come mai.» Lui annuì e abbassò lo sguardo, come per riflettere sui suoi pensieri. «Se tu o Kitto non avete niente in contrario, oggi vorrei unirmi a voi su questo letto per fare l'amore con te, Merry», fu tutto ciò che disse, e rialzando la testa ci mostrò l'espressione più illeggibile che gli avessi mai visto. Solitamente nascondeva le sue emozioni dietro qualche secca battuta di spirito, ma quel giorno appariva serio. Non era da lui. «La mia opinione non conta», disse Kitto, rannicchiandosi al mio fianco e tirandosi addosso il lenzuolo. Rhys ripiegò meglio la giacca. «Ne abbiamo già parlato abbastanza, Kitto. Ora sei un sidhe, e questo significa che hai diritto di esprimere la tua opinione come tutti noi.» «Oh, per favore», sospirai. «Non obbligarlo a dire la sua. È un sollievo che almeno uno di voi tenga la bocca chiusa.» Rhys mi sorrise. «Siamo così fastidiosi?» «Qualche volta. Tu non lo sei come altri», risposi. «Come Doyle?» domandò lui. «Come Frost», disse Kitto, poi sembrò sconvolto per essersi lasciato scappare di bocca quelle parole offensive. Si coprì il viso col lenzuolo e si rannicchiò al mio fianco, tremando per una tensione che non aveva a che fare col sesso. Era spaventato. Aveva paura di Rhys? Dopo che io avevo portato Kitto a Los Angeles c'era stata almeno un'occasione in cui Rhys aveva cercato di colpirlo, o forse addirittura di ucciderlo. Possibile che i loro giri di shopping e qualche film visto insieme non fossero bastati al piccolo goblin per dimenticare l'ostilità del sidhe? In seguito Rhys era stato molto più mite e amichevole, e Kitto aveva saputo accantonare il timore che provava per lui, o così mi era parso. E non ci avevo pensato più. Mi ero illusa che fossimo una grande famiglia felice, così come ogni apparenza faceva pensare. Ma come potevo governare quella gente se non sapevo neppure mantenere la pace tra i miei compagni di letto? «Mi sembra che la tua presenza qui non metta a suo agio Kitto», dissi a Rhys, allungando una mano sotto il lenzuolo per accarezzare la schiena del
goblin. Lui si contorse per sfuggire a quel contatto, come se temesse ciò che io avrei potuto pretendere da lui durante il sesso. Non riuscivo a capire perché «fare servizio» con Holly e Ash non lo preoccupasse, mentre era spaventato all'idea di dover fare la stessa cosa con me e Rhys. Forse c'era qualche risvolto culturale che avrei potuto conoscere solo se fossi stata goblin. Per quante cose sapessi della loro cultura, non l'avrei mai capita a fondo. Il mio accordo con loro prevedeva che in caso di conflitto fossero la nostra truppa d'assalto, la nostra prima linea, e probabilmente semplice carne da cannone. I Berretti Rossi sarebbero stati i nostri guastatori, e pensavo di conoscerli abbastanza bene da potermi servire di loro. Ma in quel momento c'era qualcosa che non capivo, qualcosa che riguardava il goblin nel mio letto. Da quando il suo potere magico era aumentato, io avevo dichiarato che doveva essere considerato un vero sidhe, ma in fondo al cuore sarebbe sempre rimasto un goblin, così come io avevo reazioni emotive umane perché ero cresciuta nelle scuole umane con amici umani. Questo, più dell'eredità genetica, mi aveva resa più umana e americana di quanto io credessi. A volte mi chiedevo se mio padre avrebbe trovato un'altra scusa per crescermi fuori da Faerie, se Andais non avesse cercato di uccidermi. Mio padre aveva sempre dato molta importanza al fatto che io conoscessi la nostra nuova patria. «Kitto, so che una volta sono stato antipatico con te, ma ho cercato di farmi perdonare», disse Rhys. La voce di Kitto uscì soffocata da sotto il lenzuolo: «Tutto quello che hai fatto era solo per farti perdonare?» Rhys parve pensarci sopra. «All'inizio sì, ma tu sei l'unico che si diverte davvero a vedere i vecchi film di gangster in bianco e nero. Gli altri si annoiano. O stavi solo cercando di mostrarti educato?» Dal suo nascondiglio Kitto rispose: «James Cagney mi piace. Lui è basso». «Già, questo è uno dei motivi per cui piace anche a me», disse Rhys. «Tu non sei basso», obiettò Kitto. «Lo sono, per un sidhe.» Kitto sollevò un angolo del lenzuolo per poterlo guardare. Io mi tenni in disparte. Il suo modo di fare, dapprima silenzioso e musone, e quindi tipicamente mascolino, era diventato alquanto femminile. Avevo già notato che in certi momenti Kitto aveva un bisogno molto femminile di svuotarsi, di esprimere i suoi pensieri e i suoi sentimenti, come se soltanto così essi diventassero reali per lui. «Anche Edward G. Robinson è basso», disse sottovoce. Rhys sorrise. «Neppure Bogart era molto alto.» «Davvero? Nei film sembra alto.» «Cassette da frutta e angolazioni della cinepresa», spiegò Rhys.
Kitto non domandò cosa significava «cassette da frutta», dunque dovevano aver già parlato di attori di scarsa statura in piedi su qualcosa, per fare un altro effetto davanti alla cinepresa. Era un semplice modo per far apparire l'eroe o il cattivo più imponenti. Ah, le magie dei film di serie B. Kitto si scoprì un altro po' dal lenzuolo. «Tu cosa vuoi fare, Rhys?» «Voglio chiederti scusa per aver pensato che tu fossi come Holly e Ash e gli altri.» «Io non sono forte come loro», disse Kitto. Rhys scosse il capo. «Tu hai un animo gentile. Non è un peccato.» «Mi hai spiegato il significato di peccato, Rhys, e se ho capito bene essere deboli tra i goblin è un peccato. Un peccato che spesso si paga con la morte.» Rhys sedette sull'angolo del letto. Kitto non fece una piega, e questo era un grande progresso. «A quanto pare, stanotte tu aiuterai Merry con quei goblin.» «Sì», disse Kitto. «Abbiamo ricevuto un'altra chiamata dai goblin, dopo che Merry è venuta qui.» Ah, pensai, sapevo che c'era qualcosa. Kitto si alzò a sedere e si strinse le ginocchia tra le braccia, tirandomi via di dosso un po' di lenzuolo. «Cos'è successo?» «Kurag, il re dei goblin, è rimasto sorpreso nel sapere che stanotte tu sarai qui coi due gemelli. Ha detto che Holly aveva l'abitudine di montare te, quando non trovava una femmina che gli piacesse.» «Molti di loro facevano uso di me, quand'ero sotto padrone», disse Kitto, come se fosse una cosa naturale. «Ha detto che uno dei tuoi padroni era una femmina che si faceva montare dai gemelli, e che tu la aiutavi con loro», disse Rhys. Io sapevo che Kurag non aveva usato il verbo «aiutare». I goblin erano molto espliciti nel parlare di sesso, a parte alcuni, come Kitto, che avevano trascorso la vita in servitù. Stranamente, erano i goblin più deboli quelli che sapevano fare un miglior uso della diplomazia. Quando una parola sbagliata può costare la vita, suppongo che uno impari a tenere a freno la lingua. Io sapevo che era stato questo a insegnarmi la cautela. «La mia ultima padrona gradiva la loro compagnia.» «Perché costei ti ha lasciato libero?» volle sapere Rhys. «Si era stancata di me, e mi ha permesso di cercare una nuova padrona», rispose lui, toccandomi un braccio. «Tu vedi Merry come una padrona?» «Sì.» Questa era nuova per me. «Kitto», dissi, e lui mi guardò.
«Tu pensi di non avere scelta quando io ti chiedo di fare qualcosa?» «Quello che tu mi chiedi è piacevole. Tu sei la padrona migliore che io abbia mai avuto.» Non era esattamente la risposta che volevo. Il mio sguardo chiese a Rhys come avrei dovuto prendere una dichiarazione di quel genere. Lui capì cosa stavo pensando. «Non puoi pretendere di cambiare in pochi mesi le abitudini di una vita, Merry.» Aveva ragione, ma non mi piaceva che Kitto sentisse di non avere libertà di scelta nella sua nuova vita. «Ora tu sei un sidhe, Kitto», dissi. «Ma sono anche goblin», replicò lui, come se questo spiegasse tutto. Forse era così. «Perché ti sei offerto di restare con Merry quando verranno Ash e Holly?» domandò Rhys. «Nessun altro sa di cosa sono capaci. Io devo essere qui per badare che se qualcuno si farà male non sia Merry.» «Stai dicendo che subirai tu gli abusi di quei due, per risparmiarli a lei?» Kitto annuì. Mi alzai a sedere e lo abbracciai. «Non voglio che ti facciano del male.» Lui mi restituì l'abbraccio. «È per questo che mi sono offerto. Comunque io resisto molto meglio di te alle ferite.» «Se me lo permettete, verrò a letto con voi due, oggi», disse Rhys. «Vuoi dire stanotte?» domandai. «No. Non credo di essere abbastanza forte per una cosa come quella di stanotte.» Rhys abbassò lo sguardo, poi lo rialzò, ma non verso di me. «Non sono forte quanto te, amico mio.» «Amico?» domandò Kitto. Rhys annuì. «Come puoi dire che non sei forte quanto me?» «Io sono stato vittima dei goblin e torturato, una notte. Dopo quel fatto ho temuto e odiato i goblin per secoli. Tu mi hai fatto capire che sbagliavo. Ma non credo di avere la forza di sopportare ciò che succederà stanotte. Non credo che ce la farei a sopportare la vista di quei due che toccano Merry. Tu hai dovuto soccombere per anni a... al male che possono farti Ash e Holly. Eppure ti sei offerto di sacrificare te stesso per proteggerla. Io ti dico, Kitto, che questo è un genere di coraggio che non ho.» Il suo singolo occhio brillava nella penombra. Kitto gli posò una mano su un braccio. «Tu sei coraggioso. Io l'ho visto.» Rhys scosse il capo e chiuse l'occhio. Una lacrima scese lungo la sua guancia, più luminosa di quanto lo sarebbe stata una lacrima umana. Kitto allungò un dito a toccarla. Offrì a me quella goccia tremula, ma io
scossi il capo. Allora lui se la portò alle labbra, e Rhys lo guardò mentre la leccava dal polpastrello. Le lacrime non erano preziose come il sangue o altri liquidi corporei, ma avevano un gran valore per i goblin. Sapevo che erano disposti a torturare semplicemente per ottenere delle lacrime. I sidhe potevano far piangere qualcuno, ma non erano golosi delle sue lacrime. «Posso unirmi a voi?» domandò Rhys, e io seppi che non si stava rivolgendo a me. Kitto lo guardò un poco senza parlare, e infine annuì.
Capitolo 18 † Gli indumenti e le armi di Rhys finirono ammucchiati sul pavimento ai piedi del letto. Nudo, era sorprendente come pochi altri. C'erano guardie con spalle larghe e figura armoniosa, ma nessuno aveva una muscolatura da culturista scolpita come la sua. Le braccia, il petto, la schiena, le gambe, tutto di lui sprigionava un senso di forza e perfetto allenamento fisico. Quel letto non sarebbe bastato per me e due uomini di corporatura normale, ma con Kitto e Rhys non avevo problemi. C'era spazio per tutti e tre. Distesa tra loro mi sentivo a mio agio, così serena che d'impulso chiusi gli occhi e mi concentrai sulla piacevole sensazione di contatto coi loro corpi così familiari. Era di questo che avevo bisogno, per sentirmi al sicuro e protetta da persone con cui non dovevo preoccuparmi di niente. Doyle aveva capito quella mia necessità? Aveva capito che se fossi rimasta alla villa, dove tendendo le orecchie avrei potuto udire i suoi gemiti di dolore, quel pensiero mi avrebbe impedito di fare qualsiasi altra cosa? Forse sì. Solo in quel momento, mentre loro posavano le mani su di me e io mi voltavo a baciare una spalla dell'uno e poi dell'altro, compresi che non avevo voglia di fare sesso. In me c'era soprattutto il desiderio di essere abbracciata, rassicurata, coccolata. Ma possibile che fossi così debole da desiderare queste tenerezze, quando poco distante da lì l'uomo che amavo era ferito e soffriva? Sarei stata davvero soddisfatta dal contatto fisico di qualcuno, purché amico e gentile, non importa chi fosse? Non amavo di meno Doyle per il fatto che ora mi trovavo lì, fra altri due uomini, però loro mi davano qualcosa che da lui non avrei avuto. Mi davano un contatto fisico non complicato dai sentimenti. Io non amavo a quel modo nessuno di loro. Sentivo affetto, e dispiacere perché non potevo contraccambiare ciò che provavano per me, ma... le loro sofferenze d'amore non mi facevano piangere. L'amore ci rende deboli e allo stesso tempo forti. Quel mattino c'era stato un momento in cui avevo temuto che la mia Tenebra non sarebbe vissuta. Era stato come perdere un pezzo di me stessa. Ero rimasta congelata, priva di uno scopo nella vita. Una cosa pericolosa. Ma non mi era accaduto lo stesso quando Galen era stato ridotto in punto di morte dai demi-fey, a Faerie? Sì, mi era accaduto. Io amavo Galen fin da bambina, e una parte di me gli avrebbe sempre voluto bene. Ma quello era stato un amore infantile,
e io non ero più una bambina. «Non stai pensando a noi», disse Rhys. Mi voltai a guardarlo, sbattendo le palpebre. Dovevo avere un'aria sorpresa, perché lui rise. «Al tuo corpo piace essere toccato, ma la tua mente è a mille chilometri da questo letto.» Il suo buonumore lasciò il posto a un'espressione triste. «È già successo? Doyle e Frost hanno tutto di te?» Mi occorse qualche momento per capire quelle parole. «No, non è questo.» «Stava pensando alla politica e al potere», disse Kitto, che mi posava la testa su un fianco. Rhys inarcò un sopracciglio verso di lui. «Merry che pensa alla politica durante i preliminari del sesso? Questo sarebbe ancora peggio.» «Spesso lei mi tocca e pensa. Sembra che questo le schiarisca la mente.» Rhys tornò a guardare me, sollevandosi su un gomito. «Con le nostre carezze non abbiamo fatto altro che schiarirti la mente?» La mia mancanza d'attenzione era offensiva. «Le apprezzavo molto, Rhys, sul serio. Ma la mia mente corre per conto suo. Sembra che io non riesca a tenerla ferma.» Spostai lo sguardo dall'altra parte, su Kitto. «Davvero ti uso solo per schiarirmi la mente?» «Io non posso essere il tuo re, questo lo sappiamo tutti. Sono felice di avere un posto nella tua vita, Merry. Io aspetto in disparte, e faccio quelle cose che i tuoi compagni d'alto rango ritengono indegne di loro. Sono come una tua dama di compagnia, ma questo mi permette di fare cose che nessun altro farebbe per te.» «Ora abbiamo con noi diverse sidhe. Se Merry volesse una dama di compagnia potrebbe scegliere una di loro», disse Rhys. «Non possiamo fidarci di lasciarle con la nostra principessa, quando solo poche settimane fa erano al servizio di Cel», obiettò Kitto. Rhys si rabbuiò in viso. «No, non possiamo. Non ancora.» «Io sono felice che nessuno possa fare certe cose per Merry, salvo io», continuò Kitto. Gli scompigliai i riccioli. «Davvero?» Lui mi sorrise, e i suoi occhi si empirono di qualcosa che non era soltanto felicità. Aveva un posto nella mia vita. Provava una sensazione di appartenenza. Non è la semplice felicità ciò che tutti cerchiamo. Abbiamo bisogno di un posto cui appartenere. Alcuni fortunati lo trovano sin dall'infanzia nelle loro famiglie. Ma in genere tutti spendiamo la nostra vita di adulti alla ricerca di persone o posti dove sentire che abbiamo un valore,
che siamo importanti per qualcuno, e che senza di noi qualcosa resterebbe non fatto. Tutti abbiamo bisogno di pensare che siamo insostituibili. «Io sono l'unico che tu tocchi soltanto per schiarirti la mente. Tu vieni in camera mia per nasconderti dalle pretese degli altri. Vieni da me quando vuoi pensare. Tu mi tocchi. Io ti tocco. A volte c'è del sesso, ma di solito c'è solo che io ti appartengo.» Sfregò la guancia contro la mia coscia. «Nessun altro mi ha mai usato per essere confortato. Io trovo che questo mi piace, molto.» Ci pensai sopra, e decisi che non potevo discutere i suoi gusti. «Io credevo che tu fossi venuta nella camera di Kitto perché è l'unica senza neppure uno specchio», disse Rhys. «Anche per questo, sì.» «Lei fa di più che cercarmi in camera. Mi lascia sedere sotto la sua scrivania, e mi accarezza la testa. Prima sembrava che le desse fastidio vedermi ai suoi piedi, ma ora conta su di me perché io sia lì, e per farsi toccare da me, o toccarmi.» «E i cani non si riuniscono lì tutti quanti, con lui?» mi domandò Rhys. «I cani non vengono mai sotto la mia scrivania, quando c'è lui.» Guardai Kitto, senza smettere di accarezzargli i capelli. «Dimmi, hai fatto qualcosa ai cani?» «Il mio posto è ai tuoi piedi, Merry. Loro non possono avere il mio posto.» «Loro sono cani, Kitto. Non importa quanto siano speciali o magici. Sono cani. Tu non sei un cane.» Lui sorrise, con un po' di tristezza. «Ma i cani esaudiscono alcuni dei tuoi bisogni, come me. Io ho visto che quando li accarezzi questo ti calma.» «Sei più geloso dei cani che del resto di noi?» domandò Rhys. «Sì», disse Kitto. Che lui si considerasse così poco importante mi fece sospirare. «Kitto, tu sei un amico per me. Toccare te non è come toccare un cane.» Lui si voltò per non lasciarmi vedere i suoi occhi. Finse di piegarsi a baciarmi la coscia, ma mi stava nascondendo ciò che pensava. «Tu sei la mia principessa.» Quelle parole potevano significare le cose più diverse. Che io ero testarda e mi sbagliavo, ma che lui non poteva farmi cambiare idea e perciò rinunciava. Oppure che lui pensava a possibilità sgradevoli e non voleva condividerle con me. O che io avevo urtato i suoi sentimenti, ma lui non presumeva di avere il diritto di lamentarsi. Tutto in una sola piccola frase. «I goblin non tengono cani. Non ne hanno mai avuti», disse Rhys. «Ma i cani di Faerie sono preziosi per tutti i fey», gli ricordai. «I goblin li mangiano.» Io guardai Kitto, che continuava a tenermi nascosta la faccia. Mi stava baciando ancora la coscia. Questo significava che probabilmente Rhys aveva ragione.
«Se qualcuno dei cani sparisse, io non ne sarei felice.» «Capisco. Sono così importanti per te che puoi minacciarmi di non scacciarli», disse Kitto. «Sono i nostri compagni, e un dono della Dea. Rappresentano la magia selvaggia. Il mio è solo un avvertimento.» «So cosa significano per voi, ma non sono io quello che devi avvertire. Holly e Ash avranno altre cose cui pensare, però verranno con una scorta di Berretti Rossi. I Berretti Rossi andranno in giro qua e là mentre tu farai sesso coi due gemelli, e a loro piace la carne fresca.» «Dannazione», borbottò Rhys. «Questo avrei dovuto ricordartelo io, Merry. Ma sono passati troppi anni dall'ultima volta che ho parlato coi Berretti Rossi, e me l'ero dimenticato.» «Loro non erano tra i goblin che ti hanno torturato?» domandai. «No. I Berretti Rossi mi rispettavano quando io ero Cromm Cruach, perché permettevo loro di spargere molto sangue. Da allora sentono di avere questo debito con me.» «Dev'essersi trattato di autentici bagni di sangue, perché tu pensi che debbano ricordarsene dopo tanti secoli», dissi. Stavolta fu Rhys a voltarsi per nascondermi la sua espressione. «Uno dei miei antichi nomi si può tradurre con Artiglio Rosso. Era un nome vero.» Io sapevo che «nome vero» significava corrispondente alla realtà dei fatti. Lo guardai, così innocuo nella sua pallida bellezza. Aveva un'aria infantile e allegra con quella bocca tirabaci. Solo le cicatrici gli davano qualcosa che non era né infantile né allegro. Senza quello sfregio a ricordare cosa poteva succedere a un uomo che non invecchiava mai, lo si poteva prendere per un buontempone gentile e superficiale. Uno da cui non c'era niente da temere. Di certo aveva recitato quella parte per secoli, a corte. Alzai una mano a sfiorare quella cicatrice. Qualche mese addietro si sarebbe scostato, ma ora sapeva che per me era solo una parte del suo corpo, una parte che accettavo e potevo toccare e baciare. Mi sorrise, e questo diede una luce ancor più spensierata al suo volto, come accade a quello di un amante quando guarda l'amata, felice per qualcosa che lei ha detto o fatto. «Cosa stai pensando?» lo interrogai sottovoce. «In tutto questo tempo, da quando ho perso l'occhio, tu sei l'unica persona che mi abbia toccato così.» Corrugai le sopracciglia, lasciando la mano a contatto del suo volto. Sotto le mie dita, i rilievi della cicatrice erano soltanto una delle cose che facevano parte di lui. «'Così' come?» Rhys mi guardò in silenzio, ma con l'aria di sapere esattamente come. «Noi siamo Unseelie. Cose che altri considerano imperfezioni sono un
semplice tratto d'identità per noi», dissi. «Questo vale solo per gli altri fey, Merry, non per i sidhe», mi corresse lui. «Essere sfregiato, per un sidhe, significa ricordare a tutti che la nostra perfetta bellezza può essere distrutta per sempre. Io sono il fantasma nello specchio. Io ricordo agli altri che noi viviamo a lungo ma non siamo immortali.» «Anch'io glielo ricordo», dissi. Lui sorrise di nuovo e premette il viso contro la mia mano. «È uno dei motivi per cui ho sempre pensato che siamo una bella coppia.» Io mi accigliai. «Cosa?» «Non ricordi? Io ti diedi un appuntamento, quando avevi sedici anni.» «Non l'ho scordato.» Lasciai ricadere la mano sul lenzuolo. «Cercasti di persuadermi a fare sesso con te, benché tu fossi una guardia della regina. Se qualcuno ci avesse scoperti, saremmo stati condannati a morte.» «Non cercavo solo un rapporto sessuale. Volevo vedere da quale ramo della tua famiglia avevi preso.» Mi accigliai ancor di più. «Questo cosa significa?» Lui sorrise, gentilmente stavolta. «Significa che a seconda di come tu avresti risposto alle mie galanterie...», e nello scegliere quella parola contrasse la faccia in un'espressione buffa, che mi costrinse a sorridere, «io avrei deciso se era il caso di tornare da tuo padre a chiedergli la tua mano.» Esitai, perplessa. «Stai dicendo che avevi già domandato a mio padre il permesso di fidanzarti con me?» «Gli avevo chiesto di prendermi in considerazione.» «Lui non me ne ha mai parlato. E neppure tu.» «Dopo quell'appuntamento fu chiaro che io non ero il tuo preferito. Tu amavi ancora Galen, o almeno lo amavi più di me, a sedici anni. E inoltre stavi già pensando a Griffin. Poi tuo padre approvò il tuo fidanzamento con lui, e se tu fossi rimasta incinta lo avresti sposato.» Non repressi una smorfia al pensiero del mio ex fidanzato. Mi aveva piantata dopo sette anni, dicendo che ero troppo umana e non abbastanza sidhe per lui. Ciò che non aveva previsto era stato la reazione di Andais, che gli aveva ordinato di tornare al celibato insieme col resto delle sue guardie. Griffin aveva lasciato Faerie, mettendosi così fuori legge. Qualche anno dopo era riapparso nella mia vita. Si era fatto vedere al mio albergo per dirmi che era disposto a unirsi ai miei compagni di letto, e io gli avevo risposto picche. L'unico motivo che aveva per farlo era la voglia di fare sesso con una sidhe, non importa quale. Sapevo che non provava niente per me. Avevo un buon motivo per pensarlo, visto che dopo avermi piantata aveva
venduto a un giornale scandalistico diverse foto intime di noi due. A suo tempo lo avevo amato, sì. In realtà non conoscevo i suoi sentimenti per me. La faccenda delle foto si doveva in parte al fatto che la decisione della regina lo aveva indotto a fuggire da Faerie, e quindi aveva il problema di doversi mantenere. In quegli anni, la lunga mano di Andais non era più riuscita a raggiungerlo, almeno per quanto ne sapevo io. Non avevo mai voluto domandarle se avesse notizie di lui, o neppure se fosse vivo o morto. Andais era capace di tutto, e se avesse pensato che provavo ancora interesse per lui il suo desiderio di trovarlo e punirlo si sarebbe rafforzato. Rhys mi toccò una guancia, riportandomi al presente. «Non avrei dovuto nominare quel disonesto.» «No, è solo che da qualche tempo non pensavo più a lui.» «Forse avrei fatto meglio a tacere su quella vecchia storia. Scusami.» Dall'altra parte del letto Kitto si mosse. Fino a quel momento era stato così fermo che stavo dimenticando la sua presenza. Lui era ormai un esperto in questo, benché fosse nudo tra le lenzuola con me e Rhys. Sapeva sparire ai miei occhi, tanto che cominciavo a chiedermi se non fosse una specie di magia. Se lo era, non si trattava di magia sidhe. I goblin-serpente erano usati per l'esplorazione e lo spionaggio nelle terre aperte; forse avevano il talento naturale di passare inosservati. Lo guardai, ma non volli chiedergli se c'era della magia nella sua eredità genetica. Kitto avrebbe rifiutato di crederci anche se fosse stato vero. Lui preferiva vedere se stesso come un individuo inerme e senza nessun potere, e questo era quanto. «Forse dovrei andare via e lasciarvi soli», disse, accorgendosi che lo guardavo. «Siamo nel tuo letto», gli ricordò Rhys. «Sì, ma lo cedo volentieri ai miei amici, quando io sono di troppo.» Rhys allungò un braccio sopra di me e gli batté una pacca su una spalla. «Questa è un'offerta generosa, Kitto, ma ho idea che non ci sarà sesso qui dentro.» «Cosa?» Ero stupita. Lui mi sorrise. «La tua testa è piena delle cose successe oggi, come c'è da aspettarsi da una futura regina. Potremmo dire: buona governante, cattiva amante.» Feci per protestare, ma lui mi posò un dito sulle labbra. «Va bene così, Merry. Forse ciò di cui abbiamo bisogno oggi è di tenerci per mano. Sentirci vicini, soltanto questo.» «Rhys...» Lui mi chiuse la bocca con più fermezza, dolcemente. «Va bene così, davvero.» Gli baciai la mano, prima che la togliesse. «Ora capisco perché pensasti che Galen non era un rivale per te. Sapevi già
che lui era un disastro come politicante. Tu invece non te la cavi male con la politica.» «Grazie del complimento.» «Allora perché?» domandai. «Vuoi dire perché tuo padre non scelse me, a quel tempo?» Annuii. Kitto scese dal letto. «Questi sono affari dei sidhe.» «Resta», disse Rhys. Kitto esitò. «Il principe Essus mi disse che c'era già abbastanza morte nella tua vita. Voleva vederti accoppiata con qualcuno la cui magia riguardasse la vita.» «La magia di Griffin era rivolta alla bellezza e al sesso.» «Completava ciò che tuo padre sperava fosse il tuo potere magico, una volta diventata adulta.» Rhys giocherellò con una ciocca dei miei capelli. «Aveva ragione.» «Se tu fossi un goblin, la bellezza e il sesso non ti servirebbero a niente», disse Kitto. «Anzi ti condannerebbero a essere lo schiavo di qualcuno più forte e più capace di uccidere. Sarebbero i tuoi poteri magici, Rhys, a essere più preziosi di queste cose superficiali.» «Essus voleva per sua figlia quelle che tu chiami 'cose superficiali'», disse Rhys. «Non avrebbe mai scelto Doyle, vero?» domandai io. «Non gli sarebbe mai venuto in mente che la Tenebra della regina potesse separarsi da lei. Ma, no, credo che lo avrebbe comunque giudicato troppo duro. Neppure Doyle sarebbe stato tra le sue scelte.» «Non ho mai pensato a quale delle mie guardie lui avrebbe voluto per me.» «Davvero?» «È la prima volta che ci penso.» Kitto aveva raccolto i suoi jeans dal pavimento. «Vi lascio alle vostre chiacchiere.» «Resta», ripetè Rhys. «Aiutami a capire perché Merry viene da te quando vuole rilassarsi. Io non sono l'uomo del suo cuore. Non sono neppure uno di quelli che glielo fanno battere più forte di una piuma. Ho bisogno di avere un posto nella sua vita. Insegnami a essere qualcosa di nuovo.» «Non ti insegnerò a essere come me, perché prenderesti il mio posto.» «Io non sarei mai docile e senza pretese come sei tu. Non ho il carattere adatto, né la pazienza. Ma insegnami a essere un po' più servizievole, così Merry potrà rivolgersi a me in qualche occasione.» «Oh, Rhys», mormorai. Lui scosse il capo, mandandosi i lunghi riccioli bianchi dietro le spalle. «Io ti piaccio. Ti sono sempre piaciuto, e ti piace fare sesso con me. Ma non
ti scaldi per me. Stranamente, ti scaldi per cose più fredde dei miei poteri.» «Io sono una sidhe Unseelie.» «Sei anche una Seelie.» «In parte sì, e sono anche in parte umana e in parte brownie. Ma se tu mi costringi a dire cosa sono, a dire un nome, io sono una Unseelie.» Lui fece un sorriso triste. «Questo lo so.» «Andais mi accusa di rifare la Corte Unseelie sul modello di quella Seelie. Non lo sto facendo di proposito.» «Ricordi ciò che ho detto su quello che volevo vedere, quando avevi sedici anni? Da quale ramo della tua famiglia avevi preso?» domandò Rhys. «Sì.» «Mi sarebbe piaciuto scoprire che avevi preso dal ramo Seelie.» «Mio nonno era un bastardo prepotente. Mio zio è pazzo. Mia madre è una fredda arrampicatrice sociale. Perché tu dovresti volere queste cose nella tua vita?» «Non sto parlando di quelle persone. Tieni presente che io ho conosciuto i tuoi antenati, prima che fossero uccisi nelle grandi guerre in Europa. Ho conosciuto alcune delle donne da cui discende tua madre. Erano dee della fertilità, dell'amore, della lussuria. Erano femmine calde, Merry, nel buon senso terreno della parola.» «Allora ti stai chiedendo se io ho preso dalla mia nonna materna?» «Nonne e bisnonne, e trisnonne. Tu mi ricordi loro. I capelli, gli occhi. Io vedo loro in te», disse Rhys. «Nessuno le vede in me.» «Nessuno le ha mai cercate in te.» Mi alzai a mezzo e gli diedi un bacio. Sentii il suo membro virile diventare duro, dopo tutte le chiacchiere che lo avevano reso molle. Sotto le mie labbra le sue si aprirono in un ansito quasi sofferente. «Non potrò essere il gentiluomo che vuoi, se continui a baciarmi così.» «Allora non essere il mio gentiluomo, ma il mio amante.» Kitto si tirò su la lampo dei jeans. «Vi lascio alla cosa che i sidhe fanno meglio, magia a parte. Tu sei mio amico, Rhys, in questo ti credo, ma non sei a tuo agio se io sono a letto con te e la principessa.» Rhys fece per protestare. Stavolta fui io a mettergli un dito sulle labbra. «Ha ragione.» Lui mi scostò la mano. «Lo so. Dannazione, lo so. Io pensavo che, se avessi potuto fare sesso con Kitto e te, mi sarebbe stato facile farti la guardia stanotte coi due goblin. Ma non ci riesco.» «Hai già fatto molti passi avanti per quanto riguarda i goblin, Rhys. Va bene così.»
«Chi ti farà la guardia stanotte, se Doyle è ferito e io ho una sensibilità troppo delicata?» «Non lo so. E in questo momento non me ne importa. Fai l'amore con me, Rhys. Ora, proprio tu. Stai con me, e aiutami a dimenticare i miei pensieri.» Lo baciai ancora, e lo tirai sopra di me stringendolo forte, con passione. Non sentii la porta chiudersi in silenzio alle spalle di Kitto, ma quando riaprii gli occhi eravamo soli.
Capitolo 19 † Rhys mi fece girare a pancia sotto e cominciò a respirarmi su e giù per la schiena. Forse dovrei dire «baciarmi», ma erano troppo leggeri per essere baci. Mi accarezzava la pelle col suo alito e con un lieve sfiorare di labbra. Quando fu abbastanza in basso il suo respiro smosse quei fini e quasi invisibili peluzzi che crescono sull'osso sacro, e una sensazione simile alla pelle d'oca mi fece scivolare brividi non spiacevoli sulla pelle. A questo punto alzai di qualche centimetro il ventre dal letto, per invitarlo a fare qualcosa di più. Lui rise in quel suo modo che rivelava piacere mascolino e anche divertimento, ma per una volta senza quella nota ironica con cui derideva se stesso. Mi diede un bacio molto più solido tra le natiche, e io fremetti per lui, per fargli sapere quanto mi piaceva. Quando mi venne sopra, mi appoggiò il membro virile nella fessura tra le natiche, premendolo sul mio orifizio anale. Quella sensazione mi strappò un gridolino. Poi mi sollevò dal letto, non molto, appena quanto bastava per prendermi i seni con le mani a coppa. Ero tra le sue braccia, e lui mi tenne con fermezza, muovendo appena il membro per continuare a farmi sentire quanto era turgido e avido di entrare in me. «Se ti amassi davvero farei quello che ha fatto Kitto, e rifiuterei di avere un rapporto carnale con te. Uscirei dalla gara di quelli che vogliono regnare al tuo fianco. Kitto lo fa perché sa che i sidhe non accetterebbero un goblin sul trono. Vi farebbero uccidere entrambi, piuttosto.» Si appoggiò più fermamente su di me, premendo col dorso del membro. Questo mi fece contorcere, benché fossi schiacciata dal suo peso, ma la serietà di ciò che diceva era del tutto separata da ciò che il suo corpo stava facendo. «Io so che tu ami Doyle e Frost», mi sussurrò tra i capelli. «Dannazione, ami perfino Galen più di me, anche da quando hai capito che sarebbe inadatto a fare il re.» «In genere facciamo soltanto sesso orale, lui e io, quando siamo insieme.» Rhys s'irrigidì sopra di me, e non per motivi sessuali, ma come se stesse pensando. «Si è tirato fuori dalla gara?» «Non completamente. Ma qualche volta non facciamo niente perché io resti incinta. Ci limitiamo a prendere piacere l'uno dall'altra.» «Interessante», disse lui, e stavolta non fu un sussurro seducente.
Feci per alzarmi, ma mi tenne ferma sul letto spingendomi giù col ventre. Intrappolata sotto di lui, dissi: «Cosa ci trovi d'interessante?» «Galen si è tirato fuori dalla gara perché sa che come re non sarebbe abbastanza accorto da tutelare la tua sicurezza. Proprio perché ti ama. Ti ama al punto di rinunciare a te per il tuo bene. Che galante!» Non avevo visto la cosa a questo modo, ma Rhys aveva ragione. Galen era galante, e fin troppo coraggioso. Gli restava ancora qualche possibilità di diventare il padre di mio figlio, ma le ultime volte che avevamo fatto sesso non eravamo arrivati al coito. Era sempre stato abbastanza divertente, però niente che potesse ingravidarmi. Rhys mi strinse più forte tra le braccia, così forte che faticavo a respirare. Il suo alito mi scaldò un orecchio quando disse: «Se io ti amassi, uscirei dalla gara per diventare re. Ti aiuterei a ottenere l'uomo che il tuo cuore desidera, Frost o Doyle. Ma sono troppo egoista, Merry. Non posso rinunciare a te senza battermi». «Non è una battaglia.» «Invece sì. Non di forza fisica e armi, certo, ma è una battaglia. Per alcuni di noi, la posta è il titolo di re. Ma per tutti gli altri, Merry, la posta sei tu, anche se non ci fosse nessun trono.» Mosse il membro contro il mio orifizio anale spingendo con insistenza così feroce che mandai un gemito. Poi mi abbracciò ancora più forte, tanto che fui sul punto di chiedergli di smetterla e lasciarmi respirare. La sua voce era una via di mezzo tra un sussurro e un sibilo contro il mio orecchio, fiera e piena di emozione. «Io voglio vincere, Merry. Lo voglio, anche se questo ti spezzerebbe il cuore. Sono un bastardo egoista, Merry. Non voglio lasciarti a un altro, neppure per vederti felice.» Giacqui sotto di lui senza saper cosa dire. Mi strinse ancora di più, e stavolta protestai. «Rhys, per favore...» Lui rilassò le braccia solo quel tanto che mi permise di tirare il fiato, ma le sue dita continuarono a tenermi i seni con spietata fermezza. Il modo in cui le muoveva mi strappava qualche mugolio. «A te piace il sesso energico, più duro di quello che faccio io. Le cose che per me sono soltanto dolore ti fanno fremere di piacere.» Allentò la presa sui miei seni. «Stanotte i goblin ti faranno di peggio e tu te la godrai, è vero?» «Stanotte mi sono accordata per il piacere, Rhys.» «Potrei lasciarti a Doyle, o a Frost, o a Galen, se fosse necessario. Questo ucciderebbe qualcosa in me, tuttavia potrei farlo. Ma non sopporterei di perderti per Ash, o Holly. Non sopporterei che la mia Merry fosse sposata a un goblin, e montata da un goblin ogni notte.» Dalla gola gli uscì un suono simile a un singhiozzo. «Rhys, io...» «No, non dirlo, qualunque cosa sia. Lasciami finire. Potrei non avere mai più
il coraggio di dirlo.» Restai immobile sotto di lui e lo lasciai finire, se era di questo che aveva bisogno. «Odio il pensiero di quei due insieme con te stanotte, Merry. Odio ancor di più che tu sia eccitata all'idea che loro ti leghino e che ti fottano. Dio, questo lo odio più di ogni altra cosa.» Le sue braccia mi strinsero di nuovo. «Vedi, questo vuol dire che non ti amo davvero, che non voglio davvero vederti felice. Vorrei per te il genere di sesso che piace a me, non quello che preferisci tu. Vorrei che tu fossi più dolce di come sei, e che ti piacesse il sesso della gente normale. Il sesso secondo i miei gusti. Odio che tu voglia cose che per me sono dolore e non piacere. Odio sapere che, sebbene il sesso con me ti piaccia, questo non è tutto ciò di cui hai bisogno.» Le sue dita mi affondarono nei seni finché non gemetti ancora. All'improvviso mi lasciò e sollevò da me la parte superiore del corpo, puntellandosi sulle braccia, senza però staccare il ventre dalle mie natiche. «E, poiché odio tutte queste cose, oltre a essere un bastardo egoista che ti desidera per sé più di quanto voglia la tua felicità, ora riempirò il tuo corpo col mio seme. E mentre ti riempio pregherò i nostri creatori. Mentre ti riempio chiamerò tutto il mio potere. Voglio renderti gravida, e con l'aiuto del Consorte lo farò. Con l'aiuto della Dea lo farò. E lo farò non perché la nostra razza sopravviva, non per impedire a Cel di conquistare il trono costringendoci a una guerra civile. No, niente di così nobile, Merry. Lo farò perché ti voglio, anche se tu non mi vuoi.» «Io ti voglio.» Mi girai per poterlo guardare senza torcere il collo. Aveva un'espressione che non avrei mai dimenticato. Così fiera, così decisa, così selvaggia, ma non per il sesso o la lussuria o l'amore. No, era soltanto una disperata paura di perdermi. Se fosse stato sul punto di prendere la spada e andare sul campo di battaglia io lo avrei trattenuto, perché la sua era l'espressione di un uomo sicuro che non sarebbe tornato vivo; l'espressione di un uomo sicuro che avrebbe perduto tutto e anche se stesso. Gli avrei impedito di andare in battaglia. L'avrei costretto a restare con me per tenerlo vivo almeno un altro giorno. Ma lì non c'erano campi di battaglia da cui poterlo proteggere. Lì c'erano soltanto la mia mente e il mio cuore. Ed entrambi avevano già scelto. Scosse il capo. «Non voglio la tua pietà, Merry. Almeno risparmiami questo.» Mi voltai dall'altra parte, allora. Mi voltai perché non vedesse le lacrime che mi erano salite agli occhi. Era l'unico modo per non umiliarlo con la mia pietà. Io gli volevo bene, ma non nel modo di cui aveva bisogno. Aveva ragione, neppure i nostri appetiti sessuali andavano d'accordo. Rhys mi sollevò i fianchi dal letto. Io cercai di alzarmi e mettermi a quattro zampe, ma lui mi spinse giù la testa, cosicché soltanto la parte inferiore del
mio corpo gli si offrì. Sentii il suo glande che cercava di aprirmi la vulva, ma a quell'angolazione ce l'avevo ancora troppo chiusa. «Dovrai cominciare con un dito. Sono ancora troppo chiusa per cominciare senza preliminari, in questa posizione.» Lui continuò a premere con l'estremità del membro, più forte. «Ti farai male, Rhys», dissi, col viso semisepolto tra i cuscini. «Voglio farmi male», replicò. Poi sentii il suo glande farsi strada nella vulva e penetrarmi in parte nella vagina, e smisi di protestare. Il membro eretto entrò in me, lottando con la ristrettezza della parete vaginale ancora secca, asciutta. Se io fossi stata più vicina a quella che secondo lui era la normalità, avrei gridato di dolore. Non che io non potessi essere ferita, anzi era più che possibile. Qualsiasi tipo di rapporto che superasse certi limiti poteva farmi male davvero, ma per farmi male un uomo doveva mettersi d'impegno ed essere crudele. E Rhys non sapeva essere crudele fino a quel punto. Cominciai a gridare quasi subito. Il mio orgasmo derivava semplicemente dalla forza con la quale lui mi penetrava a secco. Non si trattava di un orgasmo dei soliti, ma di brevi ondate successive ognuna delle quali mi faceva sussultare mentre col ventre lui spingeva avanti il mio corpo, senza nessun ritmo regolare. La voluttà mi strappava di bocca versi rauchi, che emettevo anche per farli sentire a lui. Cominciai a gridare: «Sì, sì...» E poi: «Oh, Dea, oh, Dea...» E alla fine presi a rantolare il suo nome, più volte, senza requie: «Rhys, oh, Rhys, oh, Rhys...» La stanza era già illuminata dalla luce emessa dai nostri corpi, simili a due lune di forma umana nella penombra. Accarezzando la mia pelle, le sue mani creavano barbagli più intensi. Affondò le dita tra i miei capelli e mi fece rovesciare la testa indietro mentre mi cavalcava. Io ero ormai umida, e il dolore-piacere della penetrazione vaginale stava diventando soltanto piacere, ma quel gesto rozzo e violento mi fece gridare di protesta, e grazie a questo potei ricominciare a soffrire almeno un poco. Rhys però non insistè, anzi prese a penetrarmi a ritmo. Il suo respiro si fece più ansante, e io seppi che era vicino all'orgasmo, ma che cercava di tenerlo a bada in modo che io continuassi a gridare sotto di lui almeno per un altro po'. Tirandomi indietro la testa mi aveva fatto alzare a quattro zampe. I miei seni puntati in basso oscillavano avanti e indietro nelle sue spinte furiose. Gridai di voluttà, riempiendo la stanza col suo nome come in una preghiera a un dio irritato che mi stesse strapazzando. Poi il suo ventre diede un'ultima spinta e il membro entrò così a fondo
dentro di me che avrebbe dovuto farmi male al collo dell'utero, ma il dolore e il piacere si mescolarono al punto che non riuscii a distinguerli. Il suo corpo fu scosso da un tremito, e il membro si fermò, confitto nella mia vagina come una spada nel fodero. Lo sentii arrivare dentro di me, in brevi getti caldi fatti di seme virile e di potere. Aveva detto che avrebbe pregato nel montarmi. Aveva detto che avrebbe usato il potere di cui disponeva per rendermi gravida. Avrei dovuto aver paura, ma non l'avevo. Non potevo aver paura di Rhys. Collassai sotto il suo corpo, col membro virile ancora dentro di me, e lui mi giacque addosso. Entrambi eravamo troppo stanchi per muoverci, e respiravamo rocamente, col cuore che batteva forte. Il bagliore emanato dalla nostra pelle cominciò a spegnersi, mentre le pulsazioni rallentavano. Alla fine lui rotolò da una parte, lentamente. Io restai dov'ero, ancora inerte e priva di energia. La sua voce era roca. «Il modo in cui tu reagisci al dolore costringe un uomo a venire prima, Merry, anche se questo non ti fa piacere.» «Sei stato stupefacente», mormorai, anch'io con la voce roca a forza di gridare. Mi sorrise. «Sul serio, tu non hai un'idea di come provochi un uomo quando fai così.» «Sì, ho vinto l'Oscar come premio alla carriera.» «No, Merry, non sto scherzando. Tu sei fantastica, a letto, o per terra, o sul tavolo di cucina.» Risi. Anche lui ridacchiò, e per un momento fu di nuovo il vecchio Rhys, prima di tornare serio. In qualche modo sentivo che quell'umore sarebbe riemerso. «So che più tardi quei goblin ti avranno, e non c'è niente che io possa fare.» Sul suo volto riapparve anche un'ombra di rabbia. «Ma quando entreranno dentro di te, stanotte, non faranno che spingere il mio seme più a fondo.» «Rhys...» «No, va tutto bene. So che stai facendo solo il tuo dovere per diventare regina. Noi abbiamo bisogno che i goblin siano nostri alleati, e questo è il solo modo che hai per prolungare l'alleanza. Capisco che politicamente è una buona idea, una grande idea.» Mi guardò, e nei suoi occhi c'era una tale pressione che dovetti lottare per non distogliere i miei. «Ma l'idea di ciò che ti faranno quei due, o di ciò che avete contrattato di fare... ti eccita, non è così?» Esitai, poi gli dissi la verità. «Sì.» «Questa non è la tua ascendenza Seelie. È decisamente quella Unseelie. È quella parte di te che io non capisco, la parte che Doyle capisce meglio di quanto la capiscano altri, Frost compreso. Può darsi che lui sia la tua Tenebra, ma è la tenebra che c'è in te a essere preziosa per lui. Io non voglio
la tua tenebra, Merry. Di te voglio solo la luce.» «Non puoi separare le due cose, Rhys. Sono entrambe parte di me.» Lui annuì. «Lo so, lo so. Ora vado a lavarmi.» Scese dal letto. «Sei andato forte.» «Mi sento come se tu me lo avessi passato in un tritacarne.» «Ti avevo avvertito. I preliminari non servono soltanto a me.» «Già, mi avevi avvertito.» Raccolse i suoi indumenti da terra, ma non si vestì. «Goditi la doccia», dissi. «Non ti unisci a me?» Sorrisi. «No. Ho bisogno di un po' di sonno vero, prima di stanotte.» «Ti ho stancata?» «Sì, ma in modo piacevole.» Mi girai su un fianco e mi tirai il lenzuolo addosso. Rhys uscì dalla stanza. Lo sentii che parlava con qualcuno, nel corridoio. «Chiediglielo tu», disse, allontanandosi. Oltre il battente la voce di Kitto domandò: «Posso entrare?» «Sì», risposi. Lui entrò e chiuse la porta. Doveva essere rimasto a sedere in corridoio per tutto quel tempo. «Vuoi tenermi accanto a te, mentre dormi?» Guardai il suo volto serio, compito. Era sempre così serio, il nostro Kitto. «Sì», dissi. Lui sorrise, allora, ed era un sorriso simpatico. Un sorriso che gli avevamo scoperto soltanto negli ultimi tempi. Si sdraiò tra le lenzuola e scivolò contro la mia schiena. Aderì con tutto il suo corpo nudo contro il mio, e fu un contatto confortante. In quel momento avrei lasciato fuori dalla porta chiunque altro dei miei uomini avesse chiesto di entrare. Kitto sapeva che non sarebbe diventato il mio re, perciò non aveva particolare urgenza di fare sesso con me. E, più che al sesso, dava importanza alla semplice vicinanza fisica, alle coccole. D'altra parte aveva già avuto la sua dose di sesso, e io avrei giurato che nessuno lo aveva mai amato davvero, per ciò che lui era. Se ciò che gli serviva era la tenerezza, tuttavia, restava il fatto che Rhys aveva ragione; io non volevo bene a tutti loro nello stesso modo. La costituzione della nostra patria adottiva dice che tutti gli uomini sono creati uguali, ma è una bugia. Io non sarei mai stata capace d'infilare un canestro come Magic Johnson, o guidare una macchina come Mario Andretti, o dipingere un quadro come Picasso. Noi non siamo stati creati uguali nei nostri talenti. Ma il posto dove siamo uguali è il cuore. Uno può
sviluppare un talento, prendere lezioni, però l'amore, l'amore funziona oppure non funziona. O ami qualcuno, o non lo ami. Non puoi evitare di amare. Non puoi smettere di amare. Distesa lì sul bordo dell'abisso del sonno sentivo di avere tutto il corpo ancora piacevolmente caldo di sesso. Il contatto rassicurante di Kitto mi spingeva pian piano nelle braccia del nulla. Mi sentivo al sicuro, amata e felice. Avrei voluto che anche Rhys si sentisse bene quanto me, quella sera, ma sapevo che quel desiderio non poteva avverarsi. Io ero una principessa di Faerie, e in Faerie non c'erano buone fate madrine. C'erano madri, nonne, amiche, amanti, ma nessuna di loro aveva una bacchetta magica con cui toccare il cuore di un uomo e farlo sentire meglio. I racconti di fate sono soltanto bugie. Rhys questo lo sapeva. Io lo sapevo. L'uomo che respirava sulla mia schiena e si stava addormentando con me lo sapeva. Dannati Fratelli Grimm.
Capitolo 20 † Prima di andare in Europa per restare alla larga dalle grinfie di Taranis, Maeve Reed ci aveva lasciato l'uso completo della sua ricca dimora. Aveva detto che era una piccola ricompensa per averle salvato la vita e averla aiutata a restare incinta prima che il suo marito umano morisse di cancro. Così, una volta tanto, le buone azioni erano state premiate. Potevamo disporre di un bel pezzo di terreno a Holmby Hill, comprendente un'elegante villa, una dépendance per gli ospiti, una piscina, e un piccolo cottage vicino al cancello d'ingresso dove abitava il custode-giardiniere. Io continuavo a occupare la camera da letto più spaziosa della dépendance, ma ormai eravamo tanti da riempire entrambi gli edifici. Alcuni uomini dovevano dormire in due in una stanza. Kitto ne aveva avuta una tutta per sé perché era troppo piccola per dividerla con chiunque avesse dimensioni maggiori delle mie o di quelle di Rhys, il che significava nessuno. Per il primo incontro coi goblin avevamo deciso di usare la sala da pranzo della villa, un vasto locale nato per ospitare le feste da ballo dell'epoca d'oro di Hollywood, spazioso e pieno di marmi. Sembrava davvero uscito da un racconto di fate. Ai nobili della Corte Seelie sarebbe piaciuto, ma era dai lontani anni del suo esilio che Maeve non poteva parlare con quella gente né rimettere piede in Faerie, così forse la sala da ballo/pranzo era stata un piccolo pezzo della perduta patria, per lei. La maggior parte delle mie guardie del corpo si sentiva a proprio agio, lì nella luce smagliante dei grandi lampadari di cristallo. Non si poteva dire lo stesso per i guerrieri che Ash e Holly si erano portati dietro. I Berretti Rossi torreggiavano su chiunque altro, in quella sala. Un goblin di due metri e venti era qualcosa di grosso. Ma pochi Berretti Rossi erano così bassi. La maggior parte arrivava ai due metri e sessanta, e c'era chi raggiungeva i due metri e ottanta. Il colore della loro pelle variava tra il giallastro, il grigio, e un verde malato. Io sapevo già che i due gemelli sarebbero venuti con quella scorta. Kurag, il loro re, mi aveva confidato che, se avesse mandato Ash e Holly da soli e avessero fatto una brutta fine, gli altri goblin avrebbero pensato che lui si era messo d'accordo con me per farli eliminare. Poiché quei due erano i più pericolosi pretendenti al trono, e avrebbero potuto salire al trono solo dopo aver ammazzato Kurag, nessun goblin sarebbe stato così ingenuo da credere che il re non avesse avuto nessuna parte nella loro morte. Ecco dunque che Kurag ci teneva a farli proteggere. Finché gli avrebbe fatto comodo,
ovviamente. Ma allora perché li mandava da me per far aumentare i loro poteri magici? Probabilmente perché Kurag sapeva che il suo regno sarebbe finito, prima o poi, come accadeva a tutti i re dei goblin. Voleva essere sicuro che i suoi sudditi avrebbero avuto regnanti forti e capaci anche dopo la sua morte. Non ce l'aveva coi due gemelli per le loro ambizioni. Voleva solo restare sul trono ancora un po' di tempo. Anch'io preferivo che i gemelli avessero una scorta. Così, se fossero morti in un incidente casuale di qualche genere, ci sarebbero stati abbastanza testimoni da discolpare Kurag o i miei uomini. C'erano, è vero, goblin disposti a uccidere su commissione, ma costoro non accettavano mai l'incarico se la vittima era un altro goblin, neppure se a chiederglielo fosse stato il loro re. Uccidevano volentieri fey minori, o perfino sidhe, ma non quelli della loro razza. L'unica eccezione a questa regola erano i goblin che avevano un padrone, com'era stato Kitto. Tuttavia prima di ammazzarli bisognava chiedere il permesso al loro padrone, che solitamente lo dava. Questo perché avere un padrone significava non saper combattere, e dunque essere in qualche modo fuori dalla società dei goblin. Io sedevo su un largo scranno che solo per le sue dimensioni avrebbe potuto essere una sorta di trono. Il lungo tavolo centrale era stato spostato contro una parete, con la maggior parte delle sedie. Frost stava in piedi dietro di me. Doyle era rimasto a letto in camera sua, con la compagnia dei cani neri. Le ferite infertegli da Taranis non gli permettevano di muoversi troppo. Se fossimo stati a Faerie, sarebbe già guarito, ma fuori da quei confini la nostra magia aveva dei limiti. Specialmente la capacità di guarigione. Era uno dei motivi, anche se non il principale, per cui l'esilio spaventava i sidhe. «Abbiamo fatto entrare la vostra scorta solo perché non attirasse l'attenzione della stampa», disse Frost, con voce fredda come il suo nome. «Se fosse dipeso da me, non vi avrei mai permesso di portare qui dentro dei guerrieri armati fino ai denti.» Non potevo smentirlo, almeno in pubblico, ma la scorta di Berretti Rossi non m'innervosiva affatto. Dopo quel sonnellino, anzi, mi sentivo meglio di com'ero stata tutto il resto del giorno. «Ormai è fatta, Frost», mormorai. «Perché la loro presenza non ti preoccupa neppure un poco?» volle sapere lui. «Non lo so», risposi. «Se non fossero goblin, direi che ti hanno gettato un incantesimo», commentò Rhys. Ash e Holly cercavano di non mostrarsi impressionati dal lusso di quell'ambiente, ma non apparivano fuori posto lì come gli altri goblin, forse
perché il loro aspetto fisico era praticamente sidhe. «Vi saluto, Ash e Holly, guerrieri goblin. E saluto anche i Berretti Rossi della Corte dei goblin. Chi è al comando del vostro gruppo?» domandai. «Noi due», rispose Ash, e seguito dal fratello venne a fermarsi davanti a me. Indossavano gli abiti con cui li avevo già visti. Erano di seta, e intonati ai loro occhi, verdi quelli di Ash e rossi per Holly, in uno stile che risaliva alla corte francese del sedicesimo secolo. I loro corti capelli biondi ondeggiarono appena quando mi rivolsero un breve inchino. Avevano cominciato a farseli crescere, ma erano ancora lontani dall'infrangere la regola della loro razza, che li prevedeva lunghi al massimo fino alle spalle. «Vedo che non vi siete tagliati i capelli dal giorno del nostro ultimo incontro», commentai. Loro si scambiarono uno sguardo, poi Ash disse: «Lo abbiamo fatto pensando alla tua magia, che ci restituirà i poteri sidhe cui abbiamo diritto per nascita». «Sembrate molto fiduciosi che questo accadrà», osservai. «Abbiamo fiducia nei tuoi poteri, principessa», rispose Ash. Guardai Holly. Nei suoi occhi non vidi nessuna fiducia, solo libidine. Quella notte mi avrebbe portato a letto; tutto il resto erano soltanto chiacchiere per lui. Holly poteva rivelarmi ciò che suo fratello stava pensando. Ash era un cortigiano astuto non meno di qualsiasi nobile sidhe. Io non mi fidavo di nessuno dei due, ma Ash sapeva mentire bene, mentre Holly no. Buono a sapersi. Spostai lo sguardo sui Berretti Rossi alle loro spalle. Ne riconobbi alcuni, quelli che qualche settimana addietro avevano combattuto con me contro la Caccia Selvaggia, fuori dai tumuli di Faerie. Loro si erano schierati al mio fianco, non i due gemelli, né il loro re. I Berretti Rossi avevano ubbidito ai miei ordini più di quanto fosse richiesto dal nostro trattato di alleanza. Io non avevo indagato su quella strana ubbidienza, così diversa dal solito comportamento dei Berretti Rossi verso i sidhe o le donne, perché non ero sicura di come Kurag avrebbe preso la cosa. Non volevo fargli sospettare che avevo cercato di affascinare e conquistare i più forti guerrieri della razza goblin per averli al mio servizio. Kurag voleva disperatamente liberarsi del trattato di alleanza con me. Temeva le conseguenze di una guerra interna tra gli Unseelie, oppure tra le due Corti. Non intendeva schierarsi in battaglia con una delle due parti contro l'altra, ma il nostro trattato lo legava a me. Io non gli avrei dato una scusa per tirarsene fuori. Avevamo troppo bisogno di lui. Così mi ero guardata bene dall'innervosirlo indagando sul perché i Berretti Rossi erano così leali e servizievoli con me. Quelli schierati nella sala erano più di quanti ne avessi mai visti riuniti in un
sol posto. Un muro vivente di carne e muscoli. Tutti portavano rotondi baschi rossi di lana, non pochi dei quali chiazzati di sangue raggrumato marrone o nero. Ma almeno uno su tre perdeva sangue dal cuoio capelluto anche in quel momento, in lenti rivoli che scorrevano giù lungo il viso e il petto, bagnando le vesti. Una volta, per diventare il loro capo di guerra, uno doveva essere in grado di avere il berretto sempre inzuppato di sangue. In mancanza di questa capacità naturale, era necessario che il capo ammazzasse nemici abbastanza spesso da usare il loro sangue per mantenere fresco quello del berretto. Era stata questa piccola caratteristica culturale a fare di quegli individui i guerrieri più sanguinari di Faerie. Fino ad allora io avevo conosciuto soltanto un Berretto Rosso in grado di far restare il suo copricapo rosso e fresco in permanenza: Jonty. Era lì anche lui, al centro della prima fila, alto due metri e ottanta, grigio di pelle e con occhi color sangue. Tutti loro avevano occhi rossi, ma c'è sfumatura e sfumatura, e quelli di Jonty erano lucidi e brillanti come il suo berretto. Quando l'avevo conosciuto, la sua pelle grigia mi era parsa smorta e butterata come l'argilla secca. Ora sembrava che avesse usato una crema idratante dagli effetti miracolosi. Poiché i goblin non andavano dall'estetista, non riuscii a capire perché la sua epidermide avesse cambiato tono. Notai altri piccoli cambiamenti in lui. Il sangue che gli colava dal berretto era così copioso che gli inzuppava il vestito e sgocciolava giù dalle poderose dita, creando un inquietante disegno di punti e chiazze sul marmo della pavimentazione. «Jonty, è bello rivederti.» Lo pensavo davvero. Ci aveva salvati, costringendo i gemelli a unirsi a noi nel combattimento. I Berretti Rossi avevano seguito lui, non Ash e Holly. «È un piacere anche per me, principessa Meredith», rispose, con voce simile a una cascata di ghiaia. «Dobbiamo salutare anche Killing Frost e Rhys?» domandò Ash. «Non sono molto aggiornato sull'etichetta sidhe.» «Potete salutarli oppure no. Io saluto Jonty perché abbiamo combattuto insieme. Do il benvenuto a lui e ai Berretti Rossi perché hanno aiutato me e i miei uomini. Li accolgo qui come veri alleati.» «I goblin sono tuoi alleati», mi corresse lui. «I goblin sono miei alleati perché Kurag non ha trovato il modo di uscire dal nostro patto. Tu e tuo fratello avreste lasciato morire me e i miei uomini nel buio, quella notte.» «Stai dicendo che non manterrai la promessa di venire a letto con noi, principessa?» domandò Ash. «Non sto dicendo questo. Ma rivedere Jonty e i suoi mi ha ricordato l'accaduto, tutto qui.» In realtà ero indignata. Ash e Holly si erano
comportati come tutti i goblin e la maggior parte dei sidhe. La battaglia che avevano cercato di evitare non li riguardava, e loro non avevano intenzione di farsi ammazzare per difendere dei guerrieri sidhe che li consideravano spazzatura. Non potevo dargli torto, ma ero indignata lo stesso. Jonty mi aveva sollevata da terra ed era corso avanti nella gelida notte invernale verso la zona dello scontro. E, dove andava lui, andavano anche i Berretti Rossi. Questo aveva costretto i loro due capi a seguirli; evitare la battaglia li avrebbe fatti apparire vigliacchi e più deboli degli altri. Io avevo pensato che fosse una questione di orgoglio, ma Kitto mi aveva spiegato che c'era molto di più. Un diverso comportamento dei gemelli avrebbe autorizzato i Berretti Rossi che mi avevano seguito a sfidarli a duello. E nessun goblin avrebbe gradito una serie di duelli con quei colossi. Sapevo di essere in debito con Jonty e i suoi compagni, ma non sapevo perché mi avevano aiutato. Perché avevano rischiato tutto per me? Se fossi riuscita a trovare il modo di chiederlo senza offendere loro, o Ash e Holly, o il loro re, lo avrei chiesto. Ma la cultura goblin era un labirinto di cui non avevo ancora una mappa. Per me non c'era la possibilità d'interrogare un guerriero su faccende che riguardavano la sua indecifrabile sfera intima. Avrei potuto chiedere: perché vi siete comportati con coraggio? La risposta sarebbe stata: perché siamo goblin. Avrei potuto chiedere: perché mi avete aiutato in una situazione che probabilmente esulava dal nostro trattato di alleanza? La risposta sarebbe stata: perché i goblin non voltano le spalle a un buon combattimento. Nessuna di queste due risposte standardizzate mi avrebbe rivelato il motivo vero. E inoltre la mia domanda avrebbe portato in campo la questione del perché Ash e Holly erano stati molto recalcitranti ad aiutarmi. Frost mi toccò una spalla con leggerezza, un gesto d'avvertimento. Se ci fosse stato Doyle mi avrebbe toccato prima che quella mia pausa si prolungasse tanto. A Frost non piaceva che i due goblin fossero lì, quella notte. Non gli piaceva che io andassi a letto con loro, ma sapeva che l'alleanza col loro re doveva essere prolungata. Rhys disse, sottovoce: «Merry?» Mi voltai verso di lui, perplessa. «Mi sono persa qualcosa?» «Sì.» Lui accennò col capo ai gemelli. Li guardai. «Scusatemi, ma oggi mi sono successe tante di quelle cose che sto permettendo alle preoccupazioni di farmi dimenticare i miei doveri.» «Dunque Tenebra è ferito troppo gravemente per essere al tuo fianco», disse Ash. «Questa notte non ci sarà, come vi ho detto.»
«Saranno Rhys e Killing Frost le tue guardie, stanotte?» volle sapere Holly. «No.» Rhys non riusciva a controllare abbastanza i suoi sentimenti. A Frost avevo ordinato di stare con Doyle, per lo stesso motivo. Temevo che avrebbe insultato Holly con un gesto o una parola. Per un goblin, il sesso era qualcosa di simile alla sete di sangue in battaglia. Non volevo che Frost desse il via a quello che poteva degenerare in un combattimento generale. «Con me ci saranno Amatheon e Adair.» Nel sentirsi nominare, i due lasciarono la fila di guardie alle mie spalle e vennero avanti. Amatheon aveva capelli color rame, e Adair di un colore dorato che un tempo era stato soltanto castano, prima che facessimo sesso in un corridoio di Faerie e lui tornasse in possesso di una parte del suo antico potere. Amatheon era stato una divinità dell'agricoltura all'epoca in cui Adair proteggeva i boschi di querce, ed era legato alla luce del sole, benché io non sapessi esattamente in che senso. Era considerato rozzo e indelicato chiedere a una divinità caduta quali fossero stati i suoi poteri, un po' come sbatterle in faccia la perdita del suo rango sociale. «È vero che fottendo con loro hai trasformato le sale di tortura di Andais in un prato fiorito?» domandò Holly. «Sì», ammisi. Rhys stava però pensando a tutt'altro. «Vorrei che Doyle fosse qui, sul serio lo vorrei. Odio i goblin, tutti lo sanno, perciò vorrai scusarmi se non ho in loro tutta la fiducia che sembri avere tu.» Corrugai la fronte. «Rhys, che cosa...» «Nessuno qui si è chiesto perché questi due hanno portato tutti i Berretti Rossi del loro esercito?» «Io sì», disse Frost. «Neppure a me piace quello che sta facendo Merry, perciò non vedo la situazione dal suo punto di vista.» Onilwyn lasciò anch'egli la fila delle guardie. «Be', a me non importa un accidente che lei fotta con chi le pare, purché si decida un bel momento a fottere anche con me. Così parlerò chiaro.» Si rivolse ai gemelli. «Si può sapere, in nome del Consorte, perché avete portato con voi tanti Berretti Rossi?» Onilwyn era il sidhe meno aggraziato che avessi mai visto. C'era qualcosa di goffo nella sua poderosa muscolatura. Era alto e si muoveva bene, ma non era sciolto ed elegante come gli altri. Anche questa era una delle cose di cui non sapevo il motivo, e su cui preferivo non chiedere spiegazioni. Non era la sua rudezza che mi aveva trattenuto dal chiedergli di venire a letto con me. Aveva lunghi capelli verdi e occhi luminosi, e come tutti i sidhe non si poteva certo definire brutto. Ma, se
l'attrazione fisica significava qualcosa, l'aspetto di Onilwyn non mi attraeva affatto. Fino ad allora, tuttavia, non lo avevo voluto nel mio letto per un altro motivo. Lui era stato uno degli amici di Cel che mi tormentavano di più, quand'ero una bambina. Rifuggivo dal pensiero di essere legata a lui da un figlio e dal matrimonio, così non desideravo offrirgli questa opportunità. Gli avevo dato il permesso di masturbarsi, il che era più di quanto avesse fatto la regina. Ora poteva fare sesso con la sua mano tutte le volte che ne aveva bisogno, ma non volevo che lo facesse con me. Lui aveva detto che se non fossi stata ingravidata presto si sarebbe lamentato con la regina. «Presto» significava entro la fine del mese, perché allora avrei avuto le mestruazioni e si sarebbe concluso il mio ciclo mensile. Nel ciclo successivo la regina mi avrebbe costretta a prenderlo nel mio letto; un po' per vedere quali possibilità avesse lui di mettermi incinta, ma soprattutto perché lei sapeva che quell'uomo non mi piaceva. Talvolta però succede che siano le persone che non ci piacciono a dirci ciò di cui abbiamo bisogno. Io non mi ero chiesta perché ci fossero tanti Berretti Rossi in quella sala finché Onilwyn non me l'aveva fatto notare. Questo era grave. Avrei dovuto domandarmelo. Erano tanti che se fosse cominciata una battaglia l'avremmo persa. Perché non me n'ero preoccupata? La mia mano sinistra pulsava tanto che ansimai. La mia mano del sangue era attirata dai Berretti Rossi. Il mio potere era attirato da loro. Era un buon segno, oppure il contrario? Ash e Holly si scambiarono un'occhiata. «Voglio sapere la verità», dissi. «Perché avete portato con voi tutti i Berretti Rossi che ci sono tra i goblin?» «Lo hanno preteso loro», rispose Ash. «I Berretti Rossi non pretendono. Loro ubbidiscono», osservò Onilwyn. Ash lo guardò. «Non mi aspetto che un sidhe sappia molto di noi.» Indicò me con un cenno del capo. «A parte la principessa, che sembra aver studiato la cultura di tutti i fey.» Annuii. «Mi fa piacere che tu abbia notato i miei sforzi.» «Li ho notati. È una delle ragioni per cui sono qui.» «Io ho combattuto nelle guerre tra i sidhe e i goblin», disse Onilwyn. «Ho visto i Berretti Rossi ubbidire agli ordini affrontando battaglie da cui era impossibile che uscissero vivi, ma senza esitare. So che devono giurare di non disubbidire mai al vostro re.» Fu Jonty a rispondergli. «Dici bene, uomo verde.»
«Inoltre, i Berretti Rossi hanno la proibizione di competere per diventare re», aggiunse Onilwyn. «Vero anche questo.» «Perché siete qui?» domandò Onilwyn. Lo stavo guardando perplessa. Non era da lui preoccuparsi tanto della mia sicurezza. Ma forse era preoccupato per la sua. I Berretti Rossi guardavano Jonty, che teneva gli occhi fissi su di me. «Perché sei qui, Jonty? Perché hai con te tanti dei tuoi?» «A te risponderò», disse lui con la sua voce profonda. Quelle parole erano offensive per tutti i presenti. Per Ash e Holly, per Onilwyn, per tutti salvo me. Il grosso goblin venne avanti. Rhys e Frost si portarono subito di fronte a me, pur lasciandomi spazio per vedere. Le altre guardie alle mie spalle si mossero. «Calmi. Jonty mi ha aiutato a salvare tutti noi. Non mostratevi ingrati, ora», li esortai. «Noi dobbiamo proteggerti, Merry. Come possiamo permettere che quello si avvicini a te?» disse Rhys. Lo guardai senza nessuna amicizia. «Lui non è quello, Rhys. È un Berretto Rosso. È Jonty. È un goblin, ma non è quello.» La mia rabbia parve sorprenderlo. Mi rivolse un breve inchino e si fece indietro. «Come la mia signora desidera.» In un'altra situazione avrei cercato di placare i suoi sentimenti feriti, ma quella notte avevo troppe preoccupazioni per pensare anche alle relazioni personali della mia vita. Mi alzai, e l'orlo del lungo abito di seta che indossavo strisciò sul pavimento con un fruscio quasi vivo. I tacchi altissimi dei miei sandali alla schiava ticchettarono sul marmo. Quei sandali particolari erano la sola cosa che i gemelli mi avevano chiesto di portare. La loro unica richiesta. Scostai l'orlo dell'abito per consentire che dessero uno sguardo ai tacchi di tredici centimetri e alle striscioline di cuoio intrecciate intorno alle mie caviglie. Holly fece udire un ansito roco, di gola. Ash si controllò meglio, ma la sua espressione rivelò quello che pensava. Entrambi volevano la mia carne più dell'oro. Volevano conoscere la carne sidhe, forse più di quanto volessero il potere. Loro due, come me, sapevano cosa significava essere diversi, avere qualcosa che li rendeva sempre estranei agli occhi della gente tra cui vivevano. Di fronte a me Jonty si mise in ginocchio. In quella posizione mi guardò negli occhi. Non mi ero mai sentita così piccola. «Jonty», dissi. «Principessa.» Studiai la sua faccia. Da vicino i cambiamenti erano ancor più sorprendenti. Non solo la sua pelle grigia appariva più sana, liscia e morbida,
ma quando mi sorrise vidi che i suoi denti una volta irregolari come bestiali zanne giallastre erano dritti e bianchi, meno spaventosi, quasi simili a quelli di un normale essere umano. «Cosa ti è successo, Jonty?» domandai. «Tu, principessa.» «Non capisco.» «Usando la tua mano del sangue contro la Caccia Selvaggia, in quella fredda notte d'inverno, hai colpito tutti. Anche noi.» Corrugai le sopracciglia, cercando di pensare alla domanda giusta da fargli. Non avevo capito la risposta. Ma le sue parole mi avevano confuso al punto che non sapevo più cos'avrei potuto domandare. «Non capisco.» «La tua mano del sangue ci ha riportato il nostro potere.» «Voi non avete i poteri di un tempo», lo contraddisse Holly. Jonty gli gettò uno sguardo astioso. «No, ma è più potere di quello che abbiamo da secoli.» Tornò a voltarsi verso di me e l'ira scomparve dai suoi occhi. In essi tornò una gentilezza che nessuno aveva mai visto negli occhi di un goblin. I Berretti Rossi erano noti per la loro ferocia, non per la dolcezza. «Perché siete venuti tutti, Jonty?» «Gli altri vogliono essere toccati come hai fatto con noi. Anche loro vogliono riavere il loro antico potere.» «Perché non me lo avete chiesto prima?» «Tu lo avresti fatto?» «Tu ci hai salvato, Jonty. Lo so bene. Ma oltre a questo il mio compito, il mio dovere di principessa è di riportare il potere a Faerie. A tutta Faerie. E questo comprende te e i tuoi uomini.» Jonty abbassò lo sguardo al suolo e sussurrò, per quanto fosse possibile con una voce come la sua: «Io sapevo che tu non avresti rifiutato se fossimo venuti davanti a te. Sapevo che la tua mano del sangue avrebbe agito con forza su di noi, se fossimo stati vicini a te. Ma non pensavo che tu avresti detto semplicemente sì, se fossimo stati lontani». Rialzò lo sguardo, e i suoi occhi rossi luccicavano. I Berretti Rossi non piangevano, mai. Una lacrima gli scivolò lungo una guancia. Una lacrima color del sangue fresco. Io feci ciò che ogni goblin avrebbe fatto. Per loro le lacrime sono preziose, e il sangue più prezioso ancora. Toccai il suo volto con un dito e catturai quella lacrima, prima che si mescolasse e si perdesse nel sangue che gli scendeva dal berretto. La goccia tremolò sul mio polpastrello come una lacrima vera, anche se il suo colore vermiglio era quello del sangue. Mi portai il dito alla bocca e bevvi.
Capitolo 21 † Ci sono momenti in cui il mondo trattiene il fiato. Quando l'aria stessa si ferma, come se il tempo avesse inalato l'ultimo respiro prima di... Avevo sulla lingua un sapore salmastro, viroso. Qualcosa di liquido mi scivolò in gola simile a un sorso di fresca acqua sorgiva, se l'acqua pura potesse contenere l'anima del mare e il calore del sangue. Vedevo la sala a pezzi separati, quasi che ogni spicchio si muovesse fuori sintonia con gli altri. Molti demi-fey svolazzavano intorno a noi, benché li avessi pregati di non intervenire. I goblin li consideravano appetitosi. Ma i piccoli umanoidi alati facevano palpitare le loro ali di farfalla sciamando ovunque, come grossi insetti di un genere inesistente in natura. Sembrava che ce ne fossero più di quelli che mi avevano seguito fuori da Faerie. L'aria era piena del frullio delle loro ali, ed erano così numerosi che una brezza irregolare faceva ondeggiare gli abiti e i lunghi capelli dei sidhe. Poi arrivarono anche i cani. I piccoli terrier aggirarono le massicce gambe dei goblin, che li ignorarono come se non li vedessero neppure. Gli eleganti levrieri vennero avanti nella sala affollata aggirando ogni ostacolo con passi flessuosi, quasi che i Berretti Rossi fossero una foresta da attraversare invece di esseri viventi. Fui sorpresa di vedere Jonty e i suoi compagni così indifferenti alla presenza degli animali. I cani corsero subito dai loro padroni. I terrier si radunarono intorno a Rhys. I cani da caccia si sparsero fra le altre guardie. Da me vennero i miei due segugi: Minnie, col suo muso metà rosso e metà bianco diviso in due parti così precise che sembravano tracciate da un disegnatore, e Mungo, che di rosso aveva soltanto un orecchio e per il resto era bianco come un cigno. Sia i cani sia i demi-fey stavano facendo festa... per noi. Dietro di me Frost domandò: «Merry, che significa tutto questo?» A rispondere fu la vocetta di Royal, in volo da qualche parte sopra le nostre teste. «È il momento della creazione, Killing Frost.» Cercai con lo sguardo il piccolo individuo alato. «Non capisco.» Lui sorrise, ma la sua strana eccitazione non mi piacque. C'era sempre stato qualcosa di sensuale, o di erotico, in Royal. Questo poteva mettere a disagio, in un umanoide alto quanto una bambola Barbie. «Stiamo aspettando che arrivi l'ultimo», aggiunse Penny, la sorella di Royal, che fluttuava nell'aria accanto a lui.
Continuai a non capire anche quando i cani neri entrarono in sala come una marea di tenebra fatta carne, con gli occhi che lampeggiavano rossi, e verdi, e di tutti i colori che avevo visto negli occhi di Doyle quando lui richiamava a sé la sua magia. Dietro di loro venne dentro lo stesso Doyle, appoggiato al dorso di quello che sembrava un pony nero poco più grosso dei suoi cani. Ma quando lo guardai meglio mi resi conto che non era affatto un pony. Nella sua bocca semiaperta si vedevano zanne acuminate come quelle dei goblin. Era un kelpie, anche se non avevo la minima idea di come poteva essere arrivato lì. I kelpie erano stati cacciati e sterminati in Europa prima che noi lasciassimo quelle terre per trasferirci oltre oceano. I kelpie si appostavano nell'acqua e afferravano le loro prede per trascinarle sotto, come i coccodrilli, oppure si aggiravano sulla terraferma fingendo di essere dei pony. Quando qualche essere umano faceva lo sbaglio di montarli, i kelpie galoppavano fino allo specchio d'acqua più vicino e affogavano la preda, o la divoravano ancor prima che fosse affogata. La maggior parte delle loro vittime erano bambini. I bambini amavano i pony. Frost e io esclamammo all'unisono: «Doyle!» Lui fece un sorriso. Si era tolto le bende dal braccio, ma non dal viso, e si muoveva lentamente, nonostante l'appoggio offerto dal pony carnivoro. «I cani non hanno voluto lasciarmi a letto.» Quando fu più vicino gli porsi una mano. «No, principessa, non è il momento», mi fermò la voce di Royal. Alzai lo sguardo. «Hai detto che stavate aspettando l'ultimo.» «L'ultimo è lui, infatti, ma tu non devi toccarlo. Lo hai già toccato abbastanza perché questo momento giunga. Li hai toccati tutti abbastanza per chiamarci a te.» «Non riesco a...» «... capire», finì lui per me. «No.» «Capirai.» Questo era tipico di Royal, perché lo fece sembrare quasi una minaccia. Mungo mi toccò una mano col muso. Gli grattai la testa, giocherellando con uno dei suoi orecchini satinati. Minnie si strinse a me dall'altra parte come gelosa delle mie attenzioni. Li accarezzai entrambi, apprezzando il loro affetto e il calore dei loro corpi. «Non ci sono cani per me», mugolò Frost, al mio fianco. «Sarà quello che sarà», disse Royal. I demi-fey salirono fino al soffitto, nell'arcobaleno di luci dei lampadari di cristallo.
Riflessi colorati si sparsero su tutti noi. I goblin, compresi Holly e Ash, erano così immobili da far pensare che fossero fuori fase col nostro tempo. D'un tratto Jonty batté le palpebre e alzò lo sguardo verso di me. Fu lui l'unico, tra tutti loro, che vide. I suoi occhi si spalancarono, poi il mondo lasciò uscire il fiato che aveva trattenuto.
Capitolo 22 † Il mondo esplose, se può chiamarsi «esplosione» un diluvio di luce, di colore, di musica e di profumo di fiori. Non avevo altre parole per ciò che stava succedendo. Fu come trovarsi sulla terra il primo giorno che la vita aveva baciato il nostro pianeta, e poi essere al centro del più dolce panorama campestre, in un amabile giorno di primavera con una brezza fresca sul viso. E dopo quel momento perfetto ci fu qualcosa d'incredibile violenza, come se tutti fossimo fatti a pezzi e poi rimessi insieme mille volte. I cani si strinsero a me. Mi tennero ferma, ancorata a loro, impedendomi di andare in briciole e volare via chissà dove. Mi diedero la forza di restare sana di mente, ferma contro qualcosa di solido, e sopravvivere. Mi aggrappai a loro, avida di sentire quei corpi forti e caldi accanto a me. Ma Frost non aveva nessun cane che lo tenesse lì. Stavo pensando che avrei dovuto gridare, quando tutto finì. Solo il senso di disorientamento, e il ricordo della sofferenza che svaniva nella danza di luce e di magia, mi confermarono che non era stata una specie di sogno. Doyle mi guardò, oltre le schiene dei suoi cani neri. Ebbi subito l'impressione che fosse guarito e stesse bene. Toccava il kelpie con una mano, ma senza appoggiarsi a lui. Si teneva eretto con sicurezza. Alzò una mano al viso e si tolse le bende, per mostrare che le ustioni non c'erano più. Suppongo che la guarigione delle ferite non sia un problema, se qualcuno crea una realtà nuova. Perché la realtà era cambiata. Eravamo ancora nella sala da ballo/pranzo di Maeve Reed, ma quel posto non era più lo stesso. Era un'immensità marmorea che si estendeva per un centinaio di metri in ogni direzione. Le finestre erano una fila di piccoli rettangoli lontani. I demi-fey sciamavano ovunque, così fitti da farmi temere che con un respiro troppo profondo avrei potuto inghiottirne uno. Ash e Holly stavano cercando di acchiapparli come se fossero farfalle. «Se farete loro del male non ne sarò felice», dissi. I Berretti Rossi non avevano allungato le mani né cercato di toccarli. I grossi guerrieri restavano immobili, lasciando che i demi-fey atterrassero su di loro. Continuarono a coprirsi di palpitanti ali di farfalla finché i loro corpi non furono visibili a stento sotto quella lenta danza di colori. Jonty mi guardò da sotto quella sorta di maschera vivente. I piccoli esseri alati si aggrappavano al suo copricapo cicalando con le loro vocette
cristalline, eccitati dal sangue che lo inzuppava. «Tu ci hai ricostruiti, mia regina.» Non seppi cosa rispondergli, ma in quel momento Rhys mi chiamò: «Merry!» Quell'unica parola, impregnata da un tono d'urgenza, bastò a farmi salire il cuore in gola. Mi voltai, sapendo che qualunque cosa avessi visto sarebbe stata spiacevole. Frost giaceva al suolo, girato sul fianco e in posa scomposta, terribilmente immobile. Galen e Rhys erano chini su di lui. Mi tornò in mente ciò che avevo pensato. Lui non aveva avuto nulla cui aggrapparsi mentre la realtà si rimodellava. Lui era stato solo nella paura e nella bellezza di quella cosa. Corsi da lui coi miei cani accanto che rischiavano di farmi inciampare, ma la magia era ancora lì, ancora al lavoro, e non osavo mandarli via. Quella notte intorno a noi c'era la magia più antica che i sidhe avessero mai conosciuto. Era una magia che poteva essere sfruttata, ma mai controllata, non completamente. La creazione è sempre una cosa rischiosa, perché non si sa mai quale sarà il risultato finale, né se varrà la pena di averla usata.
Capitolo 23 † Voci allarmate provenienti da ogni parte della sala dicevano che Frost non era il solo a sentirsi male. Holly e Ash si erano afflosciati sul pavimento, e nel vederli così inermi i demi-fey si stavano radunando su di loro. Altri uomini che avevano perso i sensi venivano soccorsi dai loro compagni, che cercavano di rianimarli. Scostai i capelli dal viso di Frost e gli diedi qualche schiaffetto, ma lui non reagì. «Cosa gli è successo? Cos'è successo a tutti loro?» mormorai. Rhys scosse il capo. «Non lo so. Ma le sue pulsazioni sono deboli.» Mi accorsi che stavo tremando. Sapevo di avere un'espressione smarrita. «Loro non avevano i cani. Non avevano nulla cui aggrapparsi, quando tu hai creato altra terra di Faerie», disse Galen. Seduto sui talloni, Rhys annuì. I suoi terrier si erano accucciati intorno a noi, solenni e silenziosi. Io stavo per dire: Sono soltanto cani, ma Mungo mi appoggiò la testa sulla spalla destra. Minnie si strinse a me, dall'altra parte. Li fissai negli occhi e il loro sguardo era uno sguardo canino, però avevano strani colori nell'iride. Quelli erano esseri di natura fey, non semplicemente dei cani. Accarezzai le loro orecchie, così vellutate, e sussurrai: «Aiutatemi. Aiutate questa gente. Aiutate Frost». Doyle s'incamminò attraverso la sala seguito dai suoi grossi cani neri. Uno di quegli animali lasciò il gruppo e andò da una delle mie guardie prive di conoscenza. Annusò l'aria con un forte rumore sbuffante. Poi diventò più alto, più massiccio. Strisce di verde corsero sul suo pelame, scacciando il nero, e il pelo verde crebbe più folto e arruffato. Il cane aveva raggiunto le dimensioni di un pony quando fu del tutto verde. Il verde chiaro dell'erba nuova, delle prime foglie. I suoi grandi occhi giallastri si volsero su di me. «Un Cu Sith», sussurrò Galen. Io accennai di sì col capo. Cu Sith significava, letteralmente, «cane dei sidhe». Una volta ogni tumulo dei sidhe ne aveva almeno uno a guardia. Uno di essi era apparso, creato o resuscitato, la notte in cui la magia era tornata nella nostra zona dell'Illinois. Ora ne avevamo un secondo, lì a Los Angeles. Abbassò la grossa testa e annusò di nuovo la guardia caduta. Le leccò la faccia con la grossa lingua rosea. L'uomo emise un ansito così forte che si udì in tutta la sala. Il suo corpo sussultò mentre la vita faceva ritorno, o la morte se ne andava.
Il grosso cane verde andò dall'uno all'altro degli uomini stesi al suolo, e tutti quelli che lui leccò ripresero vita. Ma quando si avvicinò a Onilwyn, ancora inerte, lo annusò e fece udire un ringhio cupo come un tuono lontano. Non lo leccò per riportarlo in vita. Lo lasciò dov'era e proseguì. Dunque io non ero la sola a non voler toccare quell'uomo, e mi domandai se ci fosse un motivo. Il cane verde andò dai gemelli, facendo scappare via fino al soffitto lo sciame dei demi-fey. E dopo averli annusati si allontanò sprezzante anche da loro. Non erano abbastanza sidhe per un Cu Sith. In quel momento la voce di Doyle disse qualche parola incomprensibile, con uno strano tono che mi lasciò perplessa. Mi voltai a guardarlo e vidi che aveva un'espressione lontana, come se vedesse qualcosa fuori dalla sala. Aveva una visione, lui oppure il dio che era in lui e lo possedeva. Parlò in una lingua che io non conoscevo, e uno dei suoi cani neri andò subito ad annusare i gemelli. Il suo pelame si coprì di chiazze bianche luminescenti che diventarono sempre più larghe sinché non fu tutto di quel colore, e ancor più lungo e scompigliato di quello del Cu Sith. Anche quel cane era diventato grosso come un pony, e forse perfino di più, coperto da una pelliccia simile a fitta lana di pecora. Volse verso di me occhi assurdamente larghi, sproporzionati in quel muso canino. E il loro sguardo era tutto fuorché lo sguardo di un cane. Aveva qualcosa di umano e nello stesso tempo di primitivo, qualcosa che parlava di una strana e pacata saggezza. Rhys disse, sottovoce: «È un gally-trot». «Un cane fantasma», tradussi. Una creatura spettrale che secondo le antiche storie infestava le strade di campagna e spaventava i viandanti. «Non esattamente», mi corresse lui. «Tieni presente che alcuni umani credono che tutti i fey siano fantasmi, gli spiriti dei morti.» Il gally-trot abbassò la massiccia testa bianca sui gemelli e leccò il più vicino, con una lingua nera com'era stata la sua peluria prima della trasformazione. Holly si mosse, sbatté le palpebre e girò lo sguardo dei suoi occhi rossi per la sala. Mentre il gally-trot restituiva la vita anche ad Ash, questi emise un mormorio quasi doloroso. Io attesi che il Cu Sith venisse da Frost, o che a occuparsi di lui fosse il gallytrot, ma nessuno dei due si mosse. Il Cu Sith s'incamminò tra le mie guardie, che non gli lesinarono carezze e pacche affettuose. L'animale sorrise come sorridono i cani, con la lingua penzoloni. I due gemelli sembravano incerti su come reagire alle attenzioni del grosso cane bianco. Holly fu il primo ad allungare una mano per grattarlo tra le orecchie. Il gally-trot gli diede una testatina amichevole, ma così energica
che per poco non lo gettò di nuovo lungo disteso. Questo fece ridere Holly, di una piacevole risata mascolina. Anche Ash toccò il cane, che corrispose soddisfatto alle loro carezze. I demi-fey cominciavano a lasciare i Berretti Rossi. Le loro piccole facce rivelavano una gentilezza del tutto nuova e inusuale per loro, come se fossero state rifatte per esprimere sentimenti più umani, o più sidhe. Jonty stava guardando me. «Tu ci hai ricostruiti», disse. Non era stata mia intenzione. Ma le cose che non avevo avuto intenzione di fare erano parecchie. Abbassai lo sguardo su Frost e vidi qualcosa di azzurro nell'apertura del suo colletto. Qualcuno gli aveva allentato la cravatta. Io gli sbottonai un po' di più la camicia e vidi che l'azzurro era sulla sua pelle, un tatuaggio. Rappresentava una testa di cervo, con una corona tra le corna. Era un segno di regalità, ma poteva anche simboleggiare il sacrificio di un personaggio reale. Il cervo bianco era ciò che lui aveva creato col suo tocco quella notte di poche settimane prima. Era una creatura oggetto di caccia, qualcosa che conduceva un eroe al suo destino ultimo. Mi voltai a guardare Rhys e vidi che sulla sua faccia c'era la mia stessa paura. «Che significa?» domandò Galen. «Una volta, tutte le nuove creazioni richiedevano un sacrificio umano», disse Doyle. Ma quella non era la sua voce. «No. Non sono d'accordo su questo», risposi. «Ma lui sì.» Neppure lo sguardo dei suoi occhi era quello di Doyle. «Perché? Perché lui?» «Lui è il cervo.» «No.» Mi alzai, inciampando nell'orlo del vestito. Andai verso i cani neri e lo sconosciuto nel corpo di Doyle. «Merry...» cercò di fermarmi Rhys. «No!» gridai ancora. Uno dei cani neri ringhiò verso di me. Il mio potere divampò come un'aura bianca. Mi bruciava fuori attraverso la pelle. Stavo emettendo luce chiara dal corpo, e il bagliore rosso dei miei capelli mi circondava la testa. Davanti a me vedevo arcobaleni verdi e dorati, e sapevo che erano proiezioni dei miei occhi. «Vuoi sfidarmi?» disse la bocca di Doyle, ma non era Doyle che io avrei sfidato se avessi risposto di sì. «Merry, non farlo», esclamò Rhys. «Merry, per favore. Frost non avrebbe voluto questo», aggiunse Galen. I miei cani si strinsero a me. Abbassai lo sguardo e vidi che emanavano luce anch'essi. La metà rossa del muso di Minnie era alonata di rosso come i miei
capelli, e il resto del suo corpo mandava una luminosità bianca mentre la accarezzavo. La mia luce e la sua si mescolavano. Mungo, col suo orecchio rosso, sembrava cosparso di gioielli. L'anello della regina pulsava sulla mia mano. Anch'esso, come molte altre cose, aveva più potere all'interno di Faerie, ed era lì che ci trovavamo adesso. Vidi cuccioli fantasma che danzavano intorno ai miei cani. In quel momento seppi che Minnie era pregna. I primi cani di Faerie che nascevano da oltre cinque secoli? Minnie mi diede una testatina in un fianco per farmi abbassare lo sguardo. Anch'io avevo due piccole creature fantasma che fluttuavano accanto a me. Apparivano incorporee, ma sapevo che erano reali. Non c'era da stupirsi che quel giorno fossi stanca. Ombre gemelle, come mia madre e sua sorella. O gemelli. E vaga, troppo vaga perfino per essere un fantasma, apparve una terza figuretta. Non c'era niente di reale in lei, solo la promessa di ciò che sarebbe stato possibile. Significava che i gemelli non sarebbero stati gli ultimi. Avrei avuto anche un terzo figlio, da un uomo ancora ignoto. Non appena me ne resi conto seppi che l'anello aveva anche altri poteri. Io volevo sapere chi sarebbe stato il loro padre, e lì all'interno di Faerie grazie all'anello avrei potuto scoprirlo. Guardai Doyle e trovai la risposta che desideravo di più. L'anello pulsava, e l'aria era piena del profumo di rose. Tornai a guardare Frost. Accanto a lui sedeva un bambino, silenzioso e solenne. No, Dea, no, non questo. Neppure la meraviglia di avere due gemelli poteva far sì che la perdita di Frost fosse uno scambio accettabile. Non conoscevo ancora questi bambini fantasma. Non li avevo tenuti tra le braccia. Non avevo mai visto i loro sorrisi. Non avevo sentito la morbidezza dei loro capelli né l'odore dolce della loro pelle. Loro non erano ancora reali. Frost era reale. Frost era mio, e insieme avremmo creato un figlio. «Dea, ti prego», sussurrai. Al limite del mio campo visivo Rhys si mosse, e il bambino che gli sedeva accanto allungò le braccia verso di lui. Una piccola mano fantasma gli attraversò un braccio. Rhys reagì come se avesse sentito il contatto, e cercò di vedere cosa lo aveva toccato. Ma tutto questo non era giusto. Com'era possibile che avessi due figli da un marito e un terzo da un altro? C'era un padre più del lecito. Ma quel potenziale padre non ci sarebbe stato per molto, a meno che non facessi qualcosa. Tornai in fretta verso Frost. Galen mi prese tra le braccia, e subito l'anello pulsò così forte da farmi vacillare. Anche lui? Quattro padri per due bambini, allora? Non aveva senso. Io non avevo rapporti completi con Galen da oltre un mese, perché ci eravamo trovati d'accordo che sarebbe stato una cosa sbagliata. Lui e Kitto erano gli unici a lasciarmi
degustare i piaceri del sesso orale. E questo non poteva rendermi gravida. L'odore di rose diventò più forte. Questo solitamente significava un sì. Non è possibile, pensai. Io sono la Dea, e tu stai dimenticando quella vecchia storia. Galen mi guardò. «Quale storia hai dimenticato?» «Hai sentito anche tu?» gli domandai, perplessa. Lui assentì. «La storia di Ceridwen», dissi. Galen batté le palpebre. «Non capisco...» Poi s'illuminò. «Vuoi dire che...» Annuii. Lui corrugò le sopracciglia. «Pensavo che la storia di Ceridwen, che è rimasta incinta per aver inghiottito un chicco di grano, fosse fantasia. Una non può restare incinta per aver inghiottito qualcosa.» «Hai sentito ciò che ha detto la Dea.» Lui mi toccò l'addome attraverso la seta del vestito. Un sorriso si allargò sul volto. Lo sguardo gli brillava di gioia, ma io non potevo gioire con lui. «Anche Frost è uno dei padri», dissi. La gioia di Galen si spense come una candela al vento. «Oh, Merry, mi dispiace.» Scossi il capo e mi allontanai. Andai a inginocchiarmi accanto a Frost. Rhys era ancora chino dall'altra parte. «Ho sentito bene? Frost sarebbe stato il tuo re?» «Uno di loro.» Non me la sentivo di spiegargli cosa significava. Era ancora tutto troppo confuso. Rhys passò una mano dietro la testa di Frost, gli mormorò qualche parola, ma lui continuò a restare immobile, esanime. Una lacrima di Rhys cadde sul petto del compagno. L'azzurro del tatuaggio sembrò accendersi un poco, come se la lacrima ne avesse ravvivato la magia rendendolo più brillante. Io toccai quella testa di cervo, e anche il contatto delle mie dita ne intensificò la luce. Gli posai una mano sul petto. La pelle era ancora calda. Il tatuaggio palpitava. Io pregai: «Ti supplico, Dea, non portarmelo via, non adesso. Lascia che lui conosca suo figlio, per favore. Se ti ho mai chiesto una grazia, restituiscimi quest'uomo». Il tatuaggio azzurro era sempre più luminoso. Non bruciava al contatto, ma dava lievi scosse elettriche, piccole punture secche non dolorose. In pochi momenti la luce che emanava fu così abbagliante che non potevo più vedere il suo corpo. Sentivo la muscolatura del petto, ma in quel fulgore l'occhio non riusciva a distinguere nient'altro. D'un tratto ci fu del pelo folto sotto la mia mano. Del pelo? Allora ciò che
stavo toccando non era più Frost. Dentro quel bagliore azzurro c'era qualcos'altro. Un corpo peloso e non di forma umana. La cosa si mosse e si alzò, tanto che non potei più toccarla. Doyle era dietro di me e mi prese per le spalle, aiutandomi a rialzarmi in piedi. La luce fulgida si spense e vidi che davanti a me c'era un cervo bianco. Mi guardava coi suoi miti occhi grigi. «Frost...» Allungai una mano per toccarlo, ma lui balzò via. Fuggì verso le finestre sul vasto pavimento di marmo, così liscio che chiunque sarebbe scivolato; lui però galoppava come se non pesasse nulla. Pensai che si sarebbe ferito nel tentativo di sfondare i vetri e l'intelaiatura, ma una porta che fino a quel momento non c'era stata si aprì, e il grande cervo corse via su quella nuova terra. La porta si richiuse dietro di lui, e non scomparve. Evidentemente la stanza era capace di mantenere una certa stabilità. Mi voltai, tra le braccia di Doyle, e alzai il viso a guardarlo. Dietro i suoi occhi c'era di nuovo lui, non il Consorte. «Frost è...» «Lui è il cervo», disse Doyle. «Ma questo significa che il nostro Frost se n'è andato?» Lui non rispose. «Se n'è andato», mormorai. «Non se n'è andato, ma è cambiato. Se poi cambierà ancora per tornare l'uomo che conoscevamo, questo lo sanno soltanto gli dei.» Lui non era morto, non proprio. Ma era perduto per me. Perduto per noi. Non sarebbe stato un padre per il bambino che avevamo creato. Non l'avrei più avuto nel mio letto. Cos'avevo chiesto per favore alla Dea? Che lui tornasse da me. Se avessi usato parole diverse si sarebbe trasformato in un animale? La colpa era delle mie parole sbagliate? «Non sentirti responsabile. Finché c'è vita c'è speranza», disse Doyle. Speranza. Era una parola importante. Una buona parola. Ma in quel momento non mi sembrava abbastanza.
Capitolo 24 † «Non m'importa quanti gally-trot ha portato qui la tua magia. Tu hai giurato che saresti venuta a letto con noi, e non l'hai fatto», mi accusò Ash. Andava avanti e indietro, passandosi una mano tra i capelli biondi come se volesse strapparseli. Holly sedeva sul largo divano bianco col gally-trot disteso sulle ginocchia, il che significava disteso anche su tutto il resto del divano. Con una mano accarezzava il pelo sullo stomaco e sull'addome del grosso cane. Il suo modo di fare appariva più rilassato di come l'avessi mai visto, e ciò che disse mi sorprese. «Il sesso con lei aveva lo scopo di riportarci i nostri poteri. Lei ci ha riportato quei poteri.» Ash si fermò davanti al fratello. «Non sono poteri sidhe.» «Io preferisco essere goblin», disse Holly. «Io preferisco essere re dei sidhe», ribatté Ash. «La principessa ti ha detto che è già incinta», intervenne Doyle. «Siete arrivati troppo tardi», aggiunse Rhys. «E di chi è la colpa di questo? Se tu ci avessi lasciati venire nel tuo letto un mese fa, principessa, avremmo avuto la nostra possibilità.» Lo guardai, troppo sconvolta per reagire al suo disappunto e alla sua rabbia. Qualcuno mi aveva messo una coperta intorno alle spalle. Me la strinsi addosso, infreddolita. Avevo un raffreddore così forte che mi sentivo stordita. Era la goccia che faceva traboccare il vaso. Frost se n'era andato, e oltre a soffrire per questo mi ero anche presa il raffreddore. Avrei potuto dar loro delle risposte diplomatiche. C'erano anche cose che avrei potuto far notare, ma semplicemente non m'importava nulla. Non m'importava neppure tenere a freno la lingua. Lo guardai da sotto in su. Galen venne a sedersi sulla poltrona con me e mi passò un braccio intorno alle spalle. Io mi accoccolai contro di lui e lasciai che mi stringesse a sé. Lui era rimasto con quelli che Doyle aveva chiamato nel soggiorno. Era rimasto anche Rhys. Volevano essere pronti, nel caso in cui il più «ragionevole» dei due fratelli perdesse la testa. Ma se Galen mi teneva tra le braccia non era per paura di Ash. Credo che avesse più paura di quello che potevo fare. E non aveva torto a pensarla così, perché io non avevo nessuna paura. «Il vostro re, Kurag, è soddisfatto della nuova forza tornata ai Berretti Rossi. Ed è molto felice di avere un gally-trot. Quando il vostro re è contento di come si sono messe le cose, signori, dovete esserlo anche voi.» La mia voce
era fredda, ma non indifferente. C'era una nota d'irritazione, come un filo rosso su uno sfondo bianco. «Questo è vero per voi sidhe, ma i re dei goblin sanno di essere molto più effimeri dei vostri.» Galen si alzò. Potevo leggere nelle sue intenzioni, e sapevo che ci riuscivano anche i due gemelli. Era come se volesse farmi scudo col suo corpo, solo che quello non era uno scontro fisico. «Kurag è nostro alleato. Se qualcuno lo uccidesse, il trattato d'alleanza morirebbe con lui.» «Sì, infatti. Proprio così», replicò Ash. Risi, e non fu una risata piacevole. Era il genere di risata che uno fa quando forse preferirebbe piangere. Ash mi guardò stupito, contrariato, e tacque. La mia rabbia non gli avrebbe fatto né caldo né freddo, ma una risata era una cosa che lui non capiva. «Pensaci bene prima di minacciare atti inconsulti, goblin. Se Kurag morisse, noi dovremmo vendicarlo. È una questione di onore», dissi. «La Corte Unseelie si è impegnata a non interferire nella successione al trono delle Corti sussidiarie», fece Ash. «Quello è un accordo fatto dalla regina dell'Aria e delle Tenebre. Io non sono mia zia. Non ho fatto nessun accordo che limiti i miei poteri.» «Le tue guardie sono grandi guerrieri, ma non possono prevalere contro la potenza riunita dei goblin», disse Ash. «Così come non sono legata agli accordi fatti da mia zia, non sono neppure limitata dalle regole dei goblin.» Ash parve incerto, come se stesse pensando a ciò che avevo detto ma non l'avesse ancora capito. Fu Holly a parlare. «Cosa pensi di fare, principessa? Manderesti la tua Tenebra ad assassinarci?» Stava ancora accarezzando il cane, ma non sembrava più così soddisfatto. Nei suoi occhi rossi c'era un'intelligenza che non gli avevo mai visto. Era uno sguardo che mi sarei aspettata solo da suo fratello. «Lui non è più soltanto la mia Tenebra. Sarà il re.» In realtà era solo la mia speranza. «Questa è un'altra cosa priva di senso.» Ash indicò Doyle. «Come può essere il padre dei tuoi figli? E lui allora chi sarebbe?» Indicò Rhys. «E lui?» Indicò anche Galen. «Non possono esserci tre padri.» «Quattro», dissi. «E chi...» Poi un'ombra gli attraversò il viso, e si fece più cauto. «Killing Frost», rispose Holly. «Sì.» La mia voce tornò vuota e fredda. Avevo una specie di dolore al petto. Pensando alle parole «cuore spezzato», mi accorsi che non ne avevo mai saputo il vero significato. C'ero arrivata vicina, ma mai a quel punto. La
morte di mio padre mi aveva gettata a terra. Il tradimento del mio fidanzato mi aveva ferita. Un mese prima, quando credevo di aver perduto Doyle in battaglia, mi ero sentita sola al mondo. Ma fino a quel giorno non avevo mai avuto il cuore spezzato. «Non è possibile che tu abbia quattro padri per due figli», insistè Ash, ma si era un po' calmato. Come se vedesse la mia sofferenza solo in quel momento. Non credo che gli importasse se soffrivo, tuttavia questo lo rendeva più cauto. «Tu sei troppo giovane per ricordare la storia di Clothra», gli disse Rhys. «L'ho sentita raccontare. Tutti l'abbiamo sentita raccontare, ma è soltanto una favola.» «No, non è una favola. Lei ha avuto un figlio da due fratelli. Il bambino aveva il segno di ciascuno dei due. Diventò re supremo. Fu chiamato Lugaid Riab nDerg, perché aveva la pelle a strisce chiare e scure.» «Ho sempre pensato che le strisce fossero un difetto», ammise Galen. La voce profonda di Doyle riempì la stanza, e in essa c'era ancora un'eco di quella del Consorte. «Io ho visto che la principessa avrà due figli. Ognuno di loro avrà tre padri diversi, come il figlio di Clothra.» «Non usare la tua magia sidhe con me», sbottò Ash. «Non esiste una magia sidhe, ma soltanto la magia, e le divinità che governano e servono i fey sono le stesse per tutti», ribatté Doyle. Avevo la testa annebbiata, ma alla fine quelle parole mi colpirono abbastanza da farmi tremare. «Tre padri per ciascuno di loro? Tu, Rhys, Galen, Frost, e chi altri?» «Mistral e Sholto.» Lo guardai, stordita. «Ma l'ultima volta che io l'ho toccata è stato un mese fa», disse Galen. Doyle annuì. «Un mese fa. E ricordi ciò che abbiamo fatto quella notte, quando siamo tornati a Los Angeles?» Galen ci pensò un poco, poi disse: «Oh». Mi baciò su una tempia. «Ma quella notte Merry e io avevamo già deciso che non sarei stato un buon re. E il sesso orale non può averla messa incinta.» «Ragazzi, quella notte la magia di Faerie era scatenata», disse Rhys. «Io ero di nuovo Cromm Cruach, con la capacità di guarire e uccidere con un tocco. Merry aveva appena ridato la vita ai giardini morti, con Mistral e Abe. Aveva dato a Sholto il modo di chiamare la Caccia Selvaggia. Tutti siamo cambiati quella notte. E le regole sono diverse quando quel genere di magia entra in azione.» «Sei stato tu a voler fare del sesso quando siamo tornati a Los Angeles, Rhys. Sapevi cosa sarebbe potuto succedere?» domandò Galen. «Io ero di nuovo Cromm Cruach, di nuovo un dio. Volevo sentire Merry
sotto di me, finché ero ancora...» Rhys agitò le mani come se non riuscisse a mettere in parole quel concetto. «Io ero felice che tutti ne fossimo usciti vivi.» Di nuovo il cuore mi diede una stretta, come se volesse spezzarsi davvero. Le prime lacrime, calde e brucianti, mi riempirono gli occhi. «Lui non è morto, Merry. Non realmente», disse Galen. «Lui è un cervo, e per quanto tutto questo sia magico e meraviglioso non è più il mio Frost. Non può abbracciarmi. Non può parlarmi. Non può...» Mi alzai, lasciando cadere la coperta sul pavimento. «Ho bisogno di un po' d'aria.» Mi avviai verso il corridoio che portava all'uscita sul retro della casa. Galen fece per seguirmi. «No. Per favore, no», lo fermai, continuando a camminare. Doyle mi raggiunse sulla porta. «Io devo restare qui. Ci sono ancora delle cose da chiarire coi nostri alleati goblin.» Accennai di sì, cercando di non crollare del tutto. Non potevo permettermi di apparire così debole davanti ai goblin. Ma mi sentivo soffocare. Dovevo andare in un posto dove potessi respirare. Un posto dove potessi lasciarmi andare. Nel corridoio accelerai il passo. A un tratto mi accorsi che i miei cani erano venuti con me. Cominciai a correre e loro mi seguirono. Avevo bisogno d'aria. Avevo bisogno di luce. Avevo bisogno di... Dietro di me ci furono delle voci. Le mie guardie mi stavano chiamando: «Principessa, non dovresti andare da sola...» Il corridoio scomparve e intorno a me ce ne fu un altro. Ora mi trovavo fuori dalla sala da pranzo. Solo il sithen di Faerie era in grado di cambiare secondo i miei desideri. Per qualche momento rimasi lì, davanti ai due battenti chiusi della porta, e mi chiesi cosa stavamo facendo alla villa di Maeve. L'intera casa era forse diventata un sithen? Era entrata a far parte di Faerie? Impossibile rispondere a queste domande, ma fuori da quella sala, oltre la porta finestra che in passato non era mai esistita, c'era l'aria fresca, e io ne avevo bisogno. Aprii la porta e m'incamminai sul vasto pavimento di marmo, attenta a non scivolare con le scarpette che avevo indossato per compiacere i gemelli. Me le sarei tolte volentieri, ma ero troppo ansiosa di andar fuori. Il ticchettio rapido dei miei tacchi fece voltare i Berretti Rossi. Nel vedermi tutti posarono un ginocchio al suolo, anche Jonty. «Mia regina.» «Non sono ancora regina.» Il sogghigno con cui rispose mi parve stranamente incompleto senza le zanne acuminate e il viso spaventoso che aveva avuto in passato. Mi diede l'impressione che non fosse più lui, almeno finché lo guardai negli occhi. E in quegli occhi ritrovai il vecchio Jonty.
«Una volta tutti i regnanti erano scelti dagli dei. Così andavano le cose. E quello era il modo giusto.» Scossi il capo. In quel momento essere una regina di Faerie era l'ultima cosa che volevo. Il costo, cominciavo a temere, era alto. Troppo alto. «So che tu lo dici per gentilezza, ma io mi sento distrutta.» «Killing Frost non è morto.» «Non mi aiuterà a crescere suo figlio. È come se fosse morto, Jonty.» Continuai a camminare verso la porta lontana. Le finestre erano una fila di rettangoli luminosi. Stupita mi accorsi che fuori era giorno, mentre quando avevo ricevuto i gemelli in quella stessa sala la mezzanotte era ancora lontana. Il sole era sorto e a giudicare dalle ombre aveva compiuto un largo tragitto nel cielo, come se nel mondo esterno il tempo scorresse a un'altra velocità. Tutto faceva pensare che quella porta si aprisse su un nuovo sithen, il nostro sithen. Erano i nostri giardini fatati? Un altro angolo dell'immensa Faerie? Mungo mi toccò una mano. Gli accarezzai la testa guardandolo negli occhi, quegli occhi un po' troppo saggi per un cane. Minnie si sfregò contro di me, dall'altra parte. Mi dicevano, nell'unico modo a loro disposizione, che stavo facendo la cosa giusta. Secondo Rhys e Doyle, la notte in cui io ero stata messa incinta era una notte di magia scatenata, ma tutta la magia aveva una base selvaggia, incontrollabile. La creazione cui avevamo assistito era pura magia. Una magia antica, primordiale. La più antica magia immaginabile. La porta si aprì prima che la mia mano la toccasse. La brezza era pura e calda allo stesso tempo. Sentivo un profumo di rose. Uscii dalla porta, che si chiuse da sola alle mie spalle e scomparve. Questo non mi spaventò. Ciò che avevo desiderato era uscire, e il corridoio era cambiato per me. Nel sithen Unseelie io potevo chiamare le porte. In quel momento però non volevo una porta. Volevo essere sola. I cani erano l'unica compagnia che avrei potuto sopportare. Volevo pensare al mio lutto, e gli uomini a me più vicini erano divisi fra la tristezza e la gioia. Tristezza per Frost, ma gioia perché sarebbero diventati re. Io non me la sentivo di vedere quel miscuglio di sentimenti. Più tardi mi sarei rallegrata con loro. Ma in quel momento avevo bisogno di dedicarmi ad altre cose. Mi fermai nel mezzo di una radura illuminata dal sole, coi cani al mio fianco. Alzai il viso verso il sole, chiusi gli occhi e mi spogliai di quel faticoso autocontrollo. Poi lasciai che la sofferenza prendesse possesso di me, dimenticai ogni altro pensiero, e finalmente piansi.
Capitolo 25 † Due braccia robuste mi scivolarono intorno, facendomi sussultare. Mi voltai e vidi che si trattava di Amatheon. Col sole alle spalle, i suoi capelli ramati erano un alone d'oro che m'impediva di distinguerne bene i lineamenti. Sembrava fatto per quella nuova Faerie piena di luce e di calore. Lasciai che mi abbracciasse, troppo stanca nella mente e nel corpo dopo essermi così abbandonata al pianto. Quel giorno erano accadute alcune delle cose più importanti della mia vita, sia nel bene sia nel male. Era stato come veder realizzata la speranza cui tenevo maggiormente, e subito dopo sentirmi dire che il prezzo era la perdita del mio più caro amore. Non era giusto, e nel momento in cui pensai questo sospirai, perché era il pensiero di una bambina. Io non ero una bambina. Io avrei dovuto sapere che la vita non era giusta, e che questa era una semplice verità. Amatheon mi fece sollevare il mento con una mano, e mi baciò. Fu un bacio dolce, e io glielo restituii con dolcezza. Poi le sue mani aperte sulla mia schiena mi attrassero con forza. La sua bocca diventò più insistente, bramosa, mentre la lingua premeva per forzarmi ad aprire le labbra. Spinsi contro il suo petto per allontanarlo e cercare di vederlo in faccia. «Amatheon, per favore. Ho appena perduto Frost. Io...» La pressione del suo bacio famelico si fece così dura che a quel punto sarei stata costretta ad aprire la bocca, se non volevo spaccarmi un labbro contro i suoi denti. Cercai di respingerlo disperatamente, ansimando di dolore. I cani cominciarono a ringhiare ostili, all'unisono. D'un tratto sentii qualcosa intorno alla sua bocca, qualcosa che non avrebbe dovuto esserci: baffi, e una folta barba. Il sole mi stava abbagliando. Fui piegata all'indietro. Le sue mani mi spinsero a terra. Io mi divincolai, gridando: «Amatheon, no!» Mungo balzò avanti e gli azzannò un braccio. Amatheon imprecò contro di lui, ma la sua non era la voce giusta. Guardai l'uomo sopra di me. Alzai le mani e tentai di allontanare il suo viso dal mio. Chiunque fosse, quello non era Amatheon. Lui si piegò ancora per baciarmi e sottomettermi con la forza. Infilai le mani tra il suo viso e il mio, gemendo. Nell'istante in cui l'anello della regina toccò la sua pelle nuda, il glamour con cui si era mascherato svanì. La luce abbagliante del sole diventò molto più sopportabile, e io mi trovai a guardare il volto barbuto di Taranis, re della Luce e delle Illusioni. Non persi tempo a mostrarmi sorpresa. Accettai ciò che gli occhi mi
dicevano e passai all'azione. «Sithen, apri un passaggio. Portami Doyle.» Una porta apparve nella parete nuda accanto a noi. Taranis parve sbalordito. «Tu mi desideri. Tutte le donne mi desiderano.» «No, io no.» La porta cominciò ad aprirsi. Lui alzò una mano verso di essa e un lampo di luce colpì il battente come un ariete. Sentii la voce di Doyle e quelle di altri, che gridavano il mio nome. I cani lo assalirono, e Taranis si alzò in ginocchio sprizzando dalle mani luce dorata. Quel bagliore terribile mi fece accapponare la pelle, e gridai. Pur abbagliata com'ero da quella luminosità vidi i miei cani che giacevano al suolo, ustionati e feriti. Mungo tentava di rialzarsi uggiolando, senza riuscirci. Taranis era in piedi, ma mi teneva per un polso e stava cercando di trascinarmi via. Io lottai per restare distesa e impedirgli di portarmi con sé. Doyle e gli altri erano vicini, dall'altro lato di quella porta chiusa. Sarebbero arrivati presto. Loro mi avrebbero salvata. Un pugno di Taranis uscì dalla luce come una mazza, e tutto diventò buio.
Capitolo 26 † Ripresi i sensi lentamente. Avevo un forte mal di capo, e mi fu difficile capire che quel dolore proveniva solo dalla guancia sinistra invece che da tutta la testa. La luce era troppo viva. Dovetti chiudere gli occhi e ripararmeli anche con una mano. Le mie dita trovarono un lenzuolo di seta, e me lo tirai sui seni. Seta? Il letto si mosse, e seppi che con me c'era qualcuno. «Ho abbassato le luci per te, Meredith.» Quella voce, oh, Dea! Battei le palpebre, cercando di dirmi che era soltanto un brutto sogno. Disteso accanto a me c'era Taranis, sollevato su un gomito e vestito con una camicia da notte bianca oscenamente sollevata sul davanti. I suoi capelli, lunghi e scompigliati, erano rossi come il sole al tramonto, ma io rifiutai ai miei occhi di guardargli il ventre per vedere se quello fosse davvero il suo colore naturale. Mi stavo stringendo il lenzuolo al petto come una vergine ritrosa nella sua notte di nozze. Pensai a una dozzina di accuse roventi da gettargli in faccia, ma alla fine ciò che dissi fu: «Zio Taranis, dove siamo?» E con questo gli ricordai che ero sua nipote. Se non altro riuscivo a non dare voce alla mia paura. Quell'individuo aveva già dimostrato di essere pazzo il mattino precedente, nello studio degli avvocati. Il fatto che mi avesse stordita con un pugno e portata lì lo confermava. Dovevo fronteggiare la sua pazzia mantenendomi calma, finché ci fossi riuscita. «Via, Meredith, non chiamarmi 'zio'. Mi fai sentire vecchio.» Scrutai quella bella faccia alla ricerca di una scheggia di sanità mentale con cui poter ragionare. Lui mi rivolse un sorriso fascinoso, senza parole, e niente in lui faceva pensare che ciò che aveva fatto gli sembrasse strano o sbagliato. Si comportava come se tutto fosse normale. Questo era più spaventoso di qualunque altra cosa. «Va bene, Taranis. Dove siamo?» «Nella mia camera da letto.» Mi guardai intorno. Era una stanza, ma con le pareti fatte di alberi da cui pendevano frutti maturi e rampicanti fioriti. In quell'abbondanza di vita vegetale luccicavano migliaia di pietre preziose. Era troppo bella per essere vera. Nel momento in cui lo pensai seppi che avevo visto giusto. Era un'illusione. Non cercai di spezzarla. Poco m'importava che usasse la magia per decorare i suoi appartamenti, finché teneva i suoi trucchi per sé. Ma una parte di me si chiese come avessi fatto a capire così presto che si trattava di un'illusione. «Perché mi trovo nella tua camera da letto?» Lui aggrottò le sopracciglia,
solo un poco. «Voglio che tu sia la mia regina.» Mi leccai le labbra, ma rimasero aride. Valeva la pena di ragionare con lui? «Io sono l'erede al trono Unseelie. Non posso essere la tua regina e anche la regina della Corte Unseelie.» «Non sarà necessario che tu torni in quel posto orribile. Potrai stare qui con noi. Tu sei sempre stata una Seelie, dopotutto.» Si piegò verso di me, come per baciarmi ancora. Mi ritrassi. Non riuscii a impedirmelo. Lui si fermò, di nuovo accigliato. Dava l'impressione di riflettere, e di sentirsi ferito. Non era uno stupido. Quello era solo un altro aspetto della sua follia. Sapeva, o in qualche modo sentiva, di fare una cosa sbagliata, ma la follia gli impediva di vederlo. «Non mi trovi attraente?» Gli dissi la verità. «Tu sei ancora attraente, zio Taranis.» «Te l'ho detto, Meredith, niente 'zio'.» «Come vuoi. Ti trovo bello, Taranis.» «Ma reagisci come se io fossi brutto.» «Solo perché un uomo è bello, non significa che io voglia baciarlo.» «Allo specchio, se le tue guardie non ti avessero trattenuta tu saresti venuta da me.» «Ricordo, sì.» «Allora perché ora ti ritrai da me?» «Non lo so.» E quella era la verità. Lì, in carne e ossa, c'era un uomo che in altre occasioni mi aveva sopraffatta da lontano con la sua attrazione magica. Adesso ero lì, sola e inerme, e lui riusciva soltanto a spaventarmi. «Ti sto offrendo tutto ciò che tua madre ha sempre desiderato da me. Ti farò regina della Corte Seelie. Sarai nel mio letto e nel mio cuore.» «Io non sono mia madre. I suoi sogni non sono i miei.» «Avremo un figlio bellissimo.» Di nuovo cercò baciarmi. Mi alzai a sedere, e il mondo si riempì di strisce colorate. La nausea mi diede il voltastomaco, e quella contrazione muscolare mi fece dolere la testa ancor di più. Piegandomi oltre il bordo del letto vomitai una parte della cena. Il mal di testa era così violento che mi lasciai sfuggire un gemito. Taranis scese dal letto e lo aggirò per venirmi davanti. Attraverso le rovine della mia capacità visiva lo vidi esitare. Vidi la repulsione sulla sua bella faccia. Ciò che mi stava accadendo era troppo umano per lui. Non mi avrebbe aiutata in nessun modo. Avevo tutti i sintomi di una commozione cerebrale. Dovevo andare subito in un ospedale umano, o avere l'assistenza di un vero medico. Avevo bisogno di aiuto. Giacqui sul bordo del letto, con la guancia gonfia e dolorante a contatto della seta. Non avevo la forza di far altro che aspettare, pregando
che il sangue smettesse di tambureggiarmi nella testa e che la nausea passasse. L'immobilità mi aiutò a placare quei sintomi, ma mi sentivo male. Quel pugno violento mi aveva ferita. Io ero umana e mortale, e non ero sicura che Taranis capisse questo. Non mi toccò. Allungò una mano verso il cordone di un campanello ottocentesco e chiamò dei servitori. Questo mi sollevò. Loro dovevano essere sani di mente. Sentii delle voci. Lui disse: «Chiamate la curatrice». Una voce di donna: «Cos'è successo alla principessa?» Ci fu il rumore di una mano che colpiva la carne. «Fai quello che ti ho detto, stupida puttana!» Non ci furono altre domande, ma dubitavo che altri servitori avrebbero osato chiedere cosa mi era successo. Conoscevano troppo bene il loro padrone. Credo che in quel momento persi di nuovo conoscenza, perché la cosa di cui mi accorsi subito dopo fu una mano fresca sul viso. Aprii gli occhi con cautela, senza muoverli, e vidi un volto di donna. Avrei dovuto conoscere il suo nome, ma non riuscivo a pensare. Aveva capelli d'oro e iridi cerchiate di azzurro e grigio. La sua espressione era gentile, e bastò la sua vicinanza a farmi sentire meglio. «Ricordi il tuo nome?» Dovetti ingoiare la bile che avevo in gola, ma infine riuscii a rispondere: «Sono la principessa Meredith NicEssus, detentrice delle mani della carne e del sangue». Lei sorrise. «Sì, sei tu.» Dietro di lei, Taranis ordinò: «Curala!» «Devo prima accertare la gravità delle sue ferite.» «I suoi guardiani Unseelie sono impazziti. Hanno cercato di ucciderla, pur d'impedirle di venire con me. Preferiscono vederla morta che perderla.» La curatrice e io ci scambiammo uno sguardo. Questo bastò. Lei si mise un dito sulle labbra. Io capii, o almeno sperai di aver capito. Non dovevamo parlare con quel pazzoide, se volevamo vivere. E io volevo vivere. Ero incinta. Non dovevo morire, non adesso. Frost se n'era andato, ma dentro di me c'era un pezzo di lui, che stava crescendo, vivo. Io lo avrei protetto. Dea, aiutami, ti prego, aiutami a fuggire e restare viva. Qualcun altro, un uomo che si trovava nella camera, domandò: «Non senti un odore di fiori?» «Sì», rispose la curatrice. E mi diede un altro sguardo d'avvertimento. Accennò all'uomo che aveva parlato di avvicinarsi, e lui venne avanti. Era alto, biondo e bello, il tipico maschio Seelie. Solo che non aveva un'aria arrogante. Appariva nervoso, forse anche un po' spaventato. Bene. Avevo bisogno che non fosse uno stupido. «Dea, aiutami», sussurrai. Il profumo di rose era più forte. Una brezza sfiorò la mia pelle nuda e premette sul lenzuolo che mi copriva le gambe.
La guardia si volse nella direzione da cui veniva la brezza. La curatrice guardò me. Sorrise, anche se i suoi occhi erano troppo seri per tranquillizzarmi. Era uno sguardo che uno non vorrebbe mai vedere negli occhi di un medico. «Sono ferita gravemente?» domandai. «Potrebbe esserci una perdita di sangue, nella tua testa.» «Sì», dissi. «I tuoi occhi sono uguali. Questo è buon segno.» Voleva dire che se una delle mie pupille non avesse reagito ai cambiamenti di luce sarei morta. Perciò quello era un buon segno. Lei cominciò a mescolare erbe che aveva in una borsa. Io non avevo idea di cosa si trattasse, ma sapevo abbastanza di erboristeria da metterla sull'avviso. «Sono incinta. Due gemelli.» Lei si accostò di più e chiese: «Da quanto tempo?» «Un mese, poco più.» «Allora ci sono molte cose che non posso darti.» «Non puoi imporre le mani su di me?» «Nessun curatore di questa Corte ha mantenuto quel potere. Si dice che alla tua Corte alcuni ce l'abbiano. È vero?» mi sussurrò in un orecchio, così piano che la udii a stento. «Sì.» «Ah.» Si scostò di nuovo. Ora sul suo volto c'era un sorriso diverso, una contentezza che prima non c'era stata. Il profumo di rose era più forte. Mi sarei aspettata che un odore così intenso peggiorasse la mia nausea, invece la alleviò. «Grazie, madre», mormorai. La curatrice batté le palpebre. «Ti sentiresti meglio se tua madre fosse con te?» «No, assolutamente no.» Lei annuì. «Farò del mio meglio perché il tuo desiderio sia rispettato.» Questo significava probabilmente che mia madre, Besaba, stava insistendo per vedermi. Lei non aveva mai fatto niente per me, però, se si prospettava l'eventualità che io diventassi regina della Corte in cui viveva, c'era il rischio che scoprisse di amarmi. E mi avrebbe amata nello stesso modo in cui mi aveva odiata per anni: volubile, tra assente e indecifrabile. «Assente» era l'aggettivo che forse meglio si adattava a mia madre. Uno dei miei soprannomi alla Corte Seelie era «Rovina di Besaba», perché il mio concepimento, dopo uno svogliato matrimonio e una notte di sesso, l'aveva condannata a rimanere alla Corte Unseelie per anni, con suo immenso disgusto. Quel matrimonio aveva cementato un trattato di non belligeranza tra le due
Corti, e Besaba non si era aspettata di restare incinta. Entrambe le Corti avevano perduto la fertilità da tempo, e nessuno aveva immaginato che un matrimonio misto poteva ancora essere fertile. E quello di Besaba con mio padre era stato tale, perché pur essendo sidhe in tutto e per tutto lei era figlia di una donna umana. L'odio e la paura dei Seelie per gli Unseelie erano divampati più che mai proprio per colpa della mia nascita: la nascita di una mortale, e da allora non si era più parlato di matrimoni misti tra le due Corti. I Seelie avrebbero preferito estinguersi come razza, piuttosto di mescolarsi col nostro sangue impuro. Guardando in faccia la curatrice, però, mi resi conto che non tutti i Seelie la pensavano così. O forse era l'odore di rose che si faceva più forte. I fiori e i frutti di cui era fatta la camera di Taranis non avevano il benché minimo profumo. Erano belli, ma... non erano reali. In un istante di chiarezza seppi che questo si poteva dire di molte cose della Corte Seelie: illusioni. Illusioni che uno poteva vedere e toccare, ma che tali erano. La curatrice si alzò e sussurrò qualcosa alla guardia, che prese posto accanto a me. Due serve vennero a ripulire il vomito dal letto e dal pavimento. Si poteva sempre contare sulla Corte Seelie quando c'era da salvare le apparenze. La sporcizia sarebbe stata tolta di mezzo prima che io venissi curata, anzi ancor prima che decidessero se potevo essere curata. Una delle serve aveva un taglio sulla guancia, e un livido. Era una ragazza dagli occhi scuri, e il suo volto, pur molto grazioso, sembrava troppo umano. Che fosse come me, il frutto di un'unione mista? Oppure era una delle umane attirate in Faerie nel corso dei secoli? Esse godevano dell'immortalità, ma se fossero uscite dal confine di Faerie quei secoli sarebbero ricaduti loro addosso con terribile immediatezza. Erano in trappola lì più di qualunque sidhe, perché noi potevamo uscire, mentre per loro lasciare Faerie significava la morte. Mentre puliva in terra la ragazza mi scrutò, spaventata. Quando vide che non mi voltavo, sostenne il mio sguardo. La sua paura era molto evidente. Paura di Taranis. Temeva per se stessa, e forse si chiedeva cosa ne sarebbe stato di me. Qualcuno aveva detto che un Cu Sith aveva impedito al re di picchiare una serva. Dov'era quel Cu Sith, adesso? Qualcosa grattò il legno della porta. Non mi occorse molto per capire che all'esterno un grosso animale voleva entrare. La voce di Taranis: «Cacciate via quella bestia dalla mia porta». «Mio re, curare la principessa Meredith è oltre le mie capacità», disse la curatrice. «Curala!» «La maggior parte delle erbe che dovrei usare farebbe del male ai bambini di cui è gravida.»
«Hai detto 'bambini'?» domandò lui col tono che avrebbe avuto una persona normale e sana di mente, o quasi. «Partorirà due gemelli.» La curatrice mi aveva semplicemente presa in parola. Lo apprezzai. «I miei figli!» esclamò lui, con voce di nuovo arrogante e teatrale. Tornò accanto al letto e si gettò a sedere sul bordo, facendomi rimbalzare. Il mal di capo e la nausea ruggirono a nuova vita. Mandai un gemito quando mi afferrò tra le braccia. Ogni movimento era un'agonia. Taranis mi guardò, stupito da quel gemito di dolore. La sua incapacità di capire gli dava un'espressione bambinesca. «Vuoi che i tuoi figli muoiano?» disse la curatrice. «No», rispose lui, accigliato e confuso. «Lei è mortale, mio re, e fragile. Devi permetterci di portarla da qualche parte dove possano curarla, o i tuoi figli moriranno prima del parto.» «Ma sono i miei figli», disse lui con un tono querulo, quasi interrogativo. La curatrice mi guardò. «Quello che il re dice è sempre vero.» «Lei ha in grembo i miei figli!» Taranis parve poco sicuro di se stesso. «Quello che il re dice è sempre vero», ripetè lei. Lui annuì e mi abbracciò più gentilmente. «Sì, i miei figli. Quelle voci erano bugie, tutte bugie. Avevo soltanto bisogno della regina giusta.» Si piegò a darmi dolci baci sulla fronte. Il grattare alla porta si fece più insistente. Taranis imprecò e si alzò in piedi, tenendomi tra le braccia. «Vattene, stupido cane!» Quel movimento troppo brusco mi fece vomitare ancora, stavolta addosso a lui. Taranis mi depose sul letto mentre altri conati mi facevano rantolare. La serva dagli occhi scuri corse a sostenermi prima che cadessi dal letto. Mi strinse fra le braccia, incurante della bava che continuavo a rigurgitare. Il buio cercò ancora d'ingoiare il mondo, e il mal di capo era così forte che pregai di svenire, ma restai cosciente. Aggrappata debolmente alle spalle della serva gemetti di dolore. Dea e Consorte, aiutatemi! Il profumo di rose tornò, come una carezza. La nausea si placò. Il mal di capo che mi toglieva il lume dagli occhi diventò molto più sopportabile. La serva dagli occhi scuri e la curatrice cominciarono a ripulirmi. Una parte del vomito era finita sulla camicia da notte del re, ma il resto ce l'avevo addosso. «Lascia che ti aiuti a pulirti, mio re», disse un'altra serva a Taranis. «Sì, sì, procura dell'acqua.» La curatrice guardò la serva che mi sosteneva e sussurrò: «Vai ad aiutare la tua compagna, e proponi al re di fare un bagno caldo. Accertati che faccia un lungo bagno rilassante». La serva s'irrigidì un attimo, poi rispose: «Come la curatrice desidera».
A sostituirla la donna chiamò l'uomo biondo, la guardia, e gli chiese di sostenermi. Lui esitò. «Un guerriero forte come te ha paura di un po' di vomito?» Lui la guardò con una luce dura negli occhi azzurri, prima di rispondere: «Farò quello che è necessario». Mi prese dalle braccia della serva e mi sostenne con gentilezza. «Reggile la testa, con attenzione», gli chiese la curatrice. «Ho già visto delle ferite alla testa.» La guardia fece del suo meglio per tenermi in una posizione comoda. Quando la porta che conduceva alla stanza da bagno si chiuse dietro il re e le serve, la curatrice fece un cenno col capo e la guardia mi prese in braccio e si alzò in piedi senza bisogno che le venisse detto cosa fare. Poi entrambi andarono alla porta d'ingresso. Ai rumori insistenti oltre il battente si era unito adesso un uggiolio lamentoso, e quando la curatrice aprì vidi che c'era un Cu Sith dal pelo verde, alto come un pony. Alla nostra comparsa il cane fece udire un suono di gola, soddisfatto. «Taci», sussurrò la curatrice. Il cane guaì, ma in modo appena udibile. Si accostò alla guardia e il suo collo toccò i miei piedi nudi. Quel contatto mandò un brivido violento attraverso il mio corpo. Mi sarei aspettata che il dolore alla testa esplodesse di nuovo, ma non accadde. Al contrario, mi parve di stare un po' meglio. Ci trovavamo in un lungo corridoio di marmo, con grandi specchi dalla cornice d'oro appesi alle pareti. Davanti agli specchi c'erano due file di nobili. Ognuno di loro aveva al fianco un cane di Faerie o anche due. Alcuni erano eleganti levrieri, come i miei due poveri cani. Io pregai che Minnie non fosse morta. Mi era parsa troppo immobile. Alcuni erano poderosi cani da caccia irlandesi, della razza antica e ormai scomparsa; bestioni robusti dallo sguardo fiero, che nel lontano passato non erano stati usati tanto nella caccia quanto in battaglia. Erano i cani da guerra temuti dai romani, che a loro volta li avevano allevati per gli spettacoli circensi. Due delle dame sidhe e uno degli uomini avevano in braccio piccoli cani bianchi. A tutti i nobili piacevano quei minuscoli e vivaci animali da salotto. Io non compresi chi fosse quella gente, ma nella presenza dei cani c'era qualcosa che mi tranquillizzò. D'un tratto una voce morbida disse: «Andrà tutto bene. Non aver paura, noi siamo con te». Era Hugh, lo riconobbi dai capelli di fiamma. «È ferita gravemente?» s'informò. Era affiancato da alcuni cani da caccia irlandesi, alti abbastanza da guardarmi negli occhi mentre giacevo sulle braccia della guardia. «Una commozione cerebrale, ed è incinta. Due gemelli, da un mese.» Lui ne restò stupito.
«Dobbiamo portarla via da qui.» La curatrice annuì. I nobili e le dame coi loro cani si chiusero intorno a noi, cosicché, se Taranis avesse aperto la porta, avrebbe visto solo una muraglia di nobili sidhe. Davvero erano decisi a sfidare il loro re per me? Ci affrettammo ad allontanarci lungo il corridoio, e li sentii parlare tra loro. Erano parole di tradimento. A poca distanza da me una dama dai capelli grigi e azzurri simili a onde d'acqua marina stava dicendo qualcosa. Mi occorse qualche momento per riconoscere in lei Lady Elasaid. «L'addetto stampa ha già parlato ai giornalisti umani.» «Quale risposta ha dato alle accuse di Andais?» «Ha detto che noi abbiamo offerto asilo alla principessa dopo che le sue stesse guardie l'hanno aggredita.» «Così la stampa e la televisione umane stanno diffondendo le bugie di Taranis?» domandò Hugh. Lady Elasaid annuì. «I giornalisti umani sanno che Taranis ci ha aggrediti nell'ufficio dei miei avvocati?» domandai. Loro parvero sorpresi, come se non si fossero aspettati che riuscissi a parlare. Probabilmente per loro ero un oggetto, non del tutto reale. Non si univano alla mia causa perché gli piacevo o credevano in me, ma solo perché avevano visto la magia che io stavo riportando a Faerie. Ai loro occhi ero semplicemente il contenitore di quel potere. «Sì. Ci siamo accertati che la notizia arrivasse. I giornalisti hanno foto delle tue guardie ferite mentre uscivano dall'ospedale», disse Hugh. Eravamo arrivati a una grande porta bianca a due battenti. Non ricordavo di aver mai visto quel corridoio. Era la prima volta che avevo l'onore di visitare il quartiere degli appartamenti reali. Mi augurai di non essere più onorata tanto. Lady Elasaid venne accanto a me. «Principessa Meredith, vorrei darti il mio scialle per coprirti, se me lo permetti.» Mi stava porgendo un indumento di seta verde, con ricami in oro, e notai che s'intonava ai miei occhi e ai miei capelli, più che ai suoi. La guardai, muovendo gli occhi con cautela per non stimolare il dolore. Avevano un piano. Non immaginavo quale fosse, ma se quello scialle l'avevano portato per me ciò significava che si erano preparati ad agire. «Te ne sono davvero grata.» Tenni la voce molto bassa per timore della fitta che poteva esplodermi nel cranio se avessi parlato più forte. In vita mia ero guarita da malfunzionamenti visivi più gravi, ma stavolta la Dea sembrava limitarsi a farmi stare meglio solo un poco invece che del tutto. Hugh parlò mentre Lady Elasaid e un'altra nobile dama mi aiutavano a
indossare lo scialle, che in realtà si era rivelato un vestito. «Con un po' di persuasione da parte di alcuni di noi, il re ha accettato d'indire una conferenza stampa per poter raccontare la sua versione della storia. Voleva spazzare via le mostruose bugie che gli Unseelie avevano detto su di lui dopo i fatti accaduti nell'ufficio degli avvocati, a Los Angeles. L'argomento della conferenza avrebbe dovuto essere soltanto questo. Ma ora, visti gli sviluppi della situazione, i giornalisti stanno aspettando che il re si difenda dall'accusa di averti rapita.» «Ha lasciato entrare le telecamere nel tumulo Seelie?» domandai, sorpresa. «Come poteva permettere agli Unseelie di dimostrarsi più aperti di noi? Andais ha convocato la stampa per accusarlo pubblicamente e pretendere il tuo rilascio. Lui sarebbe apparso colpevole, se non avesse fatto lo stesso.» Ora capivo perché la Dea mi avesse fatto star meglio soltanto il minimo indispensabile perché potessi essere trasportata. La stampa doveva vedere le mie condizioni fisiche. «Taranis è davvero convinto di ciò che ha dichiarato? È davvero convinto di avermi salvata da un'aggressione dei miei stessi uomini?» «Temo di sì.» Lady Elasaid mi appuntò una spilla d'oro sulla scollatura. «Ti sistemerei un po' i capelli, se ci fosse più tempo.» «La vogliamo scarmigliata e ferita», disse Hugh. Cercai di sorridere a Lady Elasaid. «Grazie per il vestito. Andrà bene. Ora portatemi dai giornalisti, vi prego. Andremo in onda in diretta, suppongo, è così?» Lady Elasaid corrugò le sopracciglia. «Non capisco.» «Sì. Ci sarà un collegamento in tempo reale», rispose Hugh. «Meglio non indugiare qui», disse la guardia, il biondo. «Soltanto il re può vederci, però lui non usa i suoi specchi per cose di questo genere. Qui siamo più al sicuro che nei corridoi successivi», fece Hugh. «Altri possono vederci, ma nessuno osa più parlare con Taranis», aggiunse una dama. Così indugiammo lì, in un posto dove si respirava il potere di Taranis, ma al sicuro. Abbastanza al sicuro da poter complottare alle sue spalle. Al sicuro dalle sue spie, che preferivano stargli alla larga perché temevano le sue reazioni imprevedibili. La sua follia lo aveva reso cieco. Mi chiesi chi fosse stato il primo a capire che il quartiere privato del re era il posto migliore per complottare il tradimento. Chiunque fosse, era qualcuno da cui dovevo guardarmi. Chi pianifica di detronizzare un re, costruisce un meccanismo d'intrighi e contatti che può sempre permettergli di detronizzarne un altro. Un meccanismo di poteri occulti. «Volevamo vedere in che condizioni fossi tu, prima di parlarti del nostro
piano», disse Lady Elasaid. Hugh aggiunse: «Le ferite alla testa possono rendere una persona inaffidabile, e questo è un gioco troppo pericoloso per rivelarti i nostri segreti, se tu non fossi capace di mantenerli». «Posso parlare liberamente, qui?» domandai. «Sì.» «Portatemi davanti alle telecamere e reciterò il ruolo della vittima dolente per voi.» Hugh e altri sorrisero. «Hai capito cosa ci serve.» «È tutta la vita che tratto con la stampa. Conosco il suo potere.» «Gli abbiamo chiesto di giurare solennemente che lui non si sarebbe rivelato a te, prima che fossimo certi che tu, nel vederlo qui, non avresti rovinato il nostro piano.» «Lui chi? Non capisco.» Presso la grande porta ci fu un movimento, oltre la folla di sidhe e di animali. La gente si scostò, lasciandomi vedere un grosso cane nero. Non massiccio come i segugi irlandesi, ma... mi si mozzò il fiato. Il cane nero trotterellò verso di me, facendo ticchettare le unghie sul marmo. Io fui sul punto di sussurrare il suo nome, ma mi fermai in tempo. Allungai una mano verso di lui. La sua grande testa pelosa si lasciò accarezzare, e in quell'istante di magia una nebbia si levò dal suo corpo e lo nascose. Poi in piedi davanti a me ci fu Doyle, serio in viso e completamente nudo. L'unica cosa che sembrava in grado di sopravvivere a quel genere di trasformazione erano gli orecchini d'argento, che intravedevo fra i suoi capelli neri lunghi sino ai fianchi. Era disarmato e solo, nell'interno del tumulo Seelie. Il pericolo cui si stava esponendo mi diede una stretta allo stomaco. In quel momento temevo per lui più che per me stessa. Doyle mi prese in braccio e io mi appoggiai a lui, mi strinsi a lui, per sentire il calore della sua pelle e la sua forza. Avevo mosso la testa troppo rapidamente, e un'onda di nausea mi offuscò la vista. Lui sembrò accorgersene, perché mi fece cambiare posizione per tenermi più distesa sulle sue braccia e posò un ginocchio al suolo, nel corridoio di marmi e specchi dorati dove si riflettevano la mia figura bianca e la sua scura. Qualcosa luccicò sulle sue guance, e per la seconda volta da quando lo conoscevo vidi che la mia Tenebra piangeva.
Capitolo 27 † Inginocchiata sul pavimento tra le braccia di Doyle, posai la testa sul suo petto. Mi bastava la sua vicinanza fisica per avere sollievo dal dolore. «Com'è possibile?» Come spesso accadeva, lui parve capire subito ciò che volevo sapere. «Non è la prima volta che vengo qui in questa forma. Molti cani fey cominciano la loro esistenza come cani neri. Io sono soltanto uno di essi, uno che però non ha scelto un padrone. Raccolgo i favori di chi non è ancora stato benedetto dalla compagnia di un cane. Mi offrono bocconcini prelibati e mi chiamano con nomignoli affettuosi.» «È riservato, e non ci permette di accarezzarlo», disse Lady Elasaid. «Gioca a fare il cane per perfezionare le sue capacità», aggiunse Hugh. Doyle li guardò. «Non è un gioco. La forma canina è una forma vera, per me.» Per qualche momento tacquero, poi Hugh volle sapere: «È vero che Tenebra è il padre di uno dei tuoi figli?» Mi strinsi a lui, cercando di non muovere troppo la testa. «Sì. Doyle, per te è troppo pericoloso restare qui. Se il re ti scoprisse...» Lui mi diede un bacio sulla fronte, leggero come una piuma. «Affronterei cose peggiori per te, mia principessa.» Io mi aggrappavo alle sue spalle. «Non potrei sopportare di perdere anche te, dopo Frost. Non ce la farei.» «Abbiamo sentito qualcosa di Killing Frost, ma credevamo che fossero soltanto voci», disse Hugh. «È davvero morto?» domandò Lady Elasaid. «In realtà è diventato un cervo bianco», rispose Doyle. Hugh s'inginocchiò accanto a noi e sorrise. «Allora non è morto, principessa. Fra tre anni, o fra sette, o fra centosette anni, lui tornerà a essere se stesso.» «Che consolazione può trovare fra centosette anni una donna mortale, sir Hugh? Io non sarò più viva quando lui tornerà a cercare suo figlio.» Gli occhi di Hugh si accesero come se qualcuno avesse soffiato sulle braci del suo potere. Per un momento dentro di essi vidi fuochi lontani, e quando batté le palpebre parve che ne divampassero scintille. «Non ho parole di conforto per te, ma la presenza del cane nero è una delle cose che noi nobili abbiamo usato per dissuadere la tua regina dal dichiararci guerra aperta. Lui resterà al tuo fianco.» Presi Hugh per una manica. «In questa forma lui è disarmato. Se sarà scoperto potrete proteggerlo?»
«Sono il capitano delle tue guardie, Merry. Sono io che proteggo te», disse Doyle. «Tu sei uno dei padri dei miei due gemelli. Sarai re al mio fianco. Se muori, le possibilità che io abbia ancora altri figli moriranno con te.» «Lei dice bene, Tenebra. È trascorso troppo tempo dall'ultima volta che la stirpe reale ha avuto figli», aggiunse Hugh. «Io non sono della stirpe reale», gli ricordò Doyle, con voce che sembrava echeggiare dagli specchi. «Sappiamo che tu, principessa, hai reso fertile la dea Conchenn, che gli umani conoscono col nome di Maeve Reed. Ora lei è gravida del figlio del suo defunto marito umano. Abbiamo anche sentito dire che due delle tue guardie, un uomo e una donna, si sono unite, e che la donna è incinta.» «È vero, sir Hugh», risposi. «Se tu hai il potere di rendere fertile una di noi, una Seelie di sangue puro, quelli che ancora sostengono il re lo abbandoneranno. Ne sono sicuro», affermò lui. Anche Lady Elasaid s'inginocchiò accanto a noi. «Molti dei suoi sostenitori sono convinti che ormai soltanto le unioni miste possano avere figli. Hanno deciso che preferiscono estinguersi come razza, piuttosto d'inquinare il loro sangue. Se tu potessi dimostrare che in questo si sbagliano, seguirebbero te.» «Non tutti. Alcuni la odiano troppo», la corresse Hugh. «È vero, Hugh.» Nel suo tono, e nel modo in cui abbassò gli occhi, c'era qualcosa che mi colpì. «Stai pensando che tu e Hugh potreste fare l'esperimento», dissi io. Lei batté le palpebre. «Esperimento?» Hugh le prese una mano. «Sì. Noi due vorremmo avere un figlio, più di ogni altra cosa.» «Quando sarò guarita, e la mia gente sarà al sicuro, sarò felice di tentare un incantesimo per voi.» Un po' della loro tensione li abbandonò, e mi sorrisero, come se avessi detto loro che domani sarebbe stato Natale e sotto l'albero avrebbero trovato il regalo che aspettavano da una vita. Io avrei voluto avvertirli che solo l'anello della Dea poteva dirmi se erano fertili e compatibili, e che senza questa necessaria premessa non ero in grado di garantire niente. Un braccio di Doyle mi strinse. Aveva ragione, quello non era il momento di mettere in forse la fiducia che i nostri alleati avevano in noi. Dovevamo andarcene da lì. Io avevo bisogno di assistenza ospedaliera, o di una curatrice capace di guarirmi con l'imposizione delle mani. Il pericolo di essere catturata dai Seelie fedeli a Taranis e riportata nel suo letto mi fece salire il cuore in gola. Fui scossa da un brivido, e cercai di non muovere la testa.
«Hai freddo?» si preoccupò Doyle. «Non il genere di freddo per cui basta una coperta.» «Io lo ucciderò per te.» «No, no, tu devi vivere per me. La vendetta è un freddo conforto nelle notti d'inverno. Io ti voglio caldo e vivo accanto a me, più di quanto voglia che il mio onore sia vendicato.» Mi mossi con cautela finché non potei vederlo in faccia. «Come tua principessa e futura regina, ti ordino di dimenticare la vendetta. La parte lesa sono io, non tu. Se ti dico che questo non è importante come la gioia di averti tra le braccia, devi rispettare il mio desiderio.» Lui mi guardò con quegli occhi neri. I suoi capelli erano una massa scompigliata da cui facevano capolino i riflessi d'argento degli orecchini, come piccole stelle sullo sfondo della notte. Era il Doyle che veniva nella mia camera da letto, non il Doyle professionale e impeccabile che comandava le mie guardie del corpo. Ma l'espressione del suo viso non era né l'una né l'altra. C'era qualcosa di nuovo in lui, qualcosa che non mi ero aspettata di vedere, anche se forse avrei dovuto. C'erano i sentimenti di un uomo per la donna amata quando sa che lei è stata violata con la forza da un altro. Era, oso dire, un'emozione molto umana. «Per favore, Doyle, per favore. Limitiamoci a dire alla stampa ciò che Taranis ha fatto. Lasciamo che ad agire siano le leggi umane, quelle che lui ha cercato di usare contro di noi.» «In questo ci sarebbe una certa giustizia poetica», osservò Hugh. Doyle mi guardò in silenzio per un momento, poi fece un breve cenno d'assenso. «Come la mia regina desidera, così sia.» Ebbi l'impressione che il mondo avesse tirato il fiato, dopo averlo trattenuto in attesa delle sue parole. Non avevo idea del perché ora quelle parole fossero così importanti, ma conoscevo la sensazione che davano i cambiamenti operati dalla magia sulla realtà. Quelle parole, pronunciate lì, avevano generato un grosso cambiamento. Una situazione di qualche genere era stata fermata, oppure era cominciata, come conseguenza delle nostre decisioni. Lo sentivo, lo sapevo, ma non avrei potuto dire cosa significava o cosa ci avrebbe portato. «Così deve essere, e così sia», disse la curatrice. Gli altri nobili le fecero eco. «Così deve essere, e così sia.» Era sorprendente. Mi avevano riconosciuta come loro regina. Una volta erano sufficienti tanti sidhe di stirpe nobile più la benedizione degli dei, per governare Faerie. E in un tempo ancora più lontano bastava solo la benedizione. Ora io avevo entrambe le cose. «Ti porterei in braccio sino ai confini del mondo, ma devo affidare il mio prezioso fardello ad altri.» Doyle mosse una mano come per sfiorare il largo livido che mi aveva
lasciato Taranis, ma non completò il gesto, e avvicinò la bocca alla mia. I suoi capelli scivolarono intorno a me nascondendo agli altri il nostro bacio, come un sipario. «Più della vita, più del mio onore, io ti amo», mormorò. Cosa si può dire a un uomo per cui l'onore è stato tutto, quando vi offre anche quello? Gli risposi con le sole parole che potevano essere dette: «Più delle corone e dei troni, più di ogni potere di Faerie, io amo te». Il profumo di rose e di vegetazione antica tornò a sommergerci, come se fossimo nella radura di una foresta tra piante di ogni specie. «Sento di nuovo quell'odore di fiori», disse la guardia bionda. «La Dea è vicina alla principessa», fece una donna. «Portiamola dagli umani e vediamo se loro possono fare ciò che noi non possiamo. Andiamo via di qui.» Lady Elasaid distolse da me i suoi occhi tricolori colmi di lacrime, e lasciò che Hugh la aiutasse ad alzarsi. Anche Doyle si alzò, con cautela. I suoi tentativi di non farmi muovere la testa ebbero successo. Non volevo che mi lasciasse, pur sapendo che dovevamo separarci. «Sappi che porti con te il futuro di Faerie, sir Hugh.» «Se non ne fossi convinto non sarei qui, Tenebra.» Doyle mi consegnò a lui, e sotto di me ci furono le braccia dell'altro uomo. Per un momento ancora le mie mani scivolarono sulla pelle del mio uomo, così calda, così reale, così... mia. Hugh mi tenne contro il suo petto, e la sensazione fu del tutto diversa. Non era che io dubitassi della sua forza e della sua capacità di proteggermi, anzi al contrario. Solo che le sue braccia non erano quelle che avrei voluto. «Non sarò lontano da te, mia Merry», mi rassicurò Doyle. «Lo so.» Poi lui fu di nuovo un cane nero. Mi toccò un piede con la sua testa pelosa. Io allungai una mano ad accarezzarlo, e i suoi occhi erano ancora quelli di Doyle. «Muoviamoci», disse Hugh. Gli altri fecero gruppo intorno a noi. Mentre aprivano la porta si schierarono di fronte a me, per essere pronti a fronteggiare un attacco diretto alla mia persona e fermarlo coi loro corpi. Stavano rischiando la vita, il loro onore, il loro futuro. Ed essendo immortali era molto il futuro che mettevano a rischio. A occhi chiusi, pregai: «Dea madre, aiutali e proteggili. Fai che non paghino un duro prezzo per ciò che stiamo per fare». Il profumo di rose era fresco, così reale che ebbi l'impressione di sentire un petalo di rose toccarmi una guancia. Poi ne sentii un altro. Aprii gli occhi e vidi che piovevano petali di rosa. I nobili della Corte Seelie reagirono con ansiti stupiti e mormorii di gioia. I cani saltellarono allegramente sotto quella morbida pioggia. I petali rosati si
appiccicavano al nero pelame di Doyle. Lady Elasaid disse: «Una volta, le regine della nostra Corte camminavano sempre sotto una pioggia di fiori». La sua voce era piena di meraviglia. «Grazie, Dea.» Il volto di Hugh era rigato di lacrime mentre mi guardava, lacrime che luccicavano rosse nei suoi riflessi di fuoco. «E grazie a te, mia regina.» Oltre la porta proseguì a passo svelto, tenendomi in braccio con facilità. I petali di rosa continuavano a fluttuare nell'aria della sala, come una dolce pioggia che nasceva dal nulla.
Capitolo 28 † Proseguimmo lungo gallerie marmoree ornate di statue d'oro, sale dalle pareti in freddo granito rosa venato d'argento, anticamere di cristallo color lavanda con archi e colonne di platino, camere interamente d'oro, con pavimenti di mosaici argentei e soffitti a cassettoni d'avorio. Ovunque andassimo la pioggia di petali ci seguiva, riempiendo l'aria coi riflessi di un'aurora rosa, a volte color salmone, altre volte di un caldo rosso corallo. Mentre cadevano intorno a noi mi resi conto che i petali erano l'unica cosa viva in quei luoghi. Non c'era niente di organico fra le pietre preziose e i metalli. Era un palazzo, ma non una casa per esseri che avevano cominciato la loro esistenza sotto forma di spiriti della natura. Noi dovevamo essere un popolo fatto di calore e di vita, e lì non c'era niente di tutto questo. Più avanti ci addentrammo nei quartieri frequentati dalla servitù e dai cortigiani. Non so cos'avrebbero fatto questi sidhe, se non ci avessero visti arrivare circondati da quella benedizione floreale. Oziavano nelle sale da gioco e nei salotti, vestiti di pesanti abiti di corte dai colori tenui, ricamati in oro e in argento. Flirtavano, giocavano a giochi fuori moda da secoli, chiacchieravano. E tutti ci guardavano a bocca aperta. Non pochi cominciarono a seguirci, come una processione sempre più numerosa, con aria tranquilla e facendo domande in tono meravigliato. Solo quando sentii le prime risate mi resi conto che a conquistare quei sidhe non era semplicemente la vista della pioggia di petali. Era il loro contatto floreale a renderli esuberanti e felici. Venivano con noi sorridendo, e se dapprima chiedevano con aria perplessa: «Dov'è il re?» oppure: «Cos'avete fatto?» poi dimenticavano quelle domande e si limitavano a seguirci allegramente. Hugh mi sussurrò: «È un glamour. Ricordo ancora di quand'ero innamorato della regina Roisin. Non mi sono mai accorto che quell'amore era per buona parte un suo glamour». Stavo per dirgli che non usavo nessun glamour su quella gente, ma il profumo di rose si fece improvvisamente più forte. Ormai sapevo che di solito questo significava un sì oppure un no. Probabilmente, pensai, la Dea non voleva che dicessi a Hugh che non ero io a creare quei petali per un mio scopo, e non appena ebbi quel pensiero il profumo diminuì. Ne dedussi che questo era ciò che lei desiderava. Tanto doveva bastarmi. Doyle aveva dovuto tenersi in disparte e non mi stava accanto. Capivo che questo aveva lo scopo d'impedire che qualcuno facesse un collegamento tra noi e intuisse la sua identità, ma dovevo lottare contro le mie emozioni,
oltreché contro il dolore alla testa, per non voltarmi a cercare con lo sguardo il cane nero. I grossi cani di Hugh dal pelo ispido erano d'aiuto, ma entrambi mi bloccavano parzialmente la vista mentre continuavano a toccarmi col muso i piedi e una mano. Uno di loro era quasi del tutto bianco, l'altro era rosso con piccole macchie chiare. Ogni volta che mi toccavano mi sentivo un po' meglio. I petali restavano sulle loro grosse teste finché i continui movimenti per arrivare ad annusarmi non li facevano cadere, e avevo l'impressione che fossero più reali dei nobili nei loro abiti così eleganti. I cani erano stati creati dalla magia che io avevo risvegliato insieme con Sholto. Nascevano dallo stesso potere che mi aveva finalmente aiutata a restare incinta. Erano i prodotti di quella notte e di quegli incantesimi, di quel processo che aveva mutato e ristrutturato molte cose. C'erano alcune guardie alla porta, in fondo all'ultima grande sala che attraversammo. La sala era in marmo rosso e arancione, con venature bianche e d'oro che scintillavano di luce propria. Il soffitto era sostenuto da colonne d'oro la cui forma era quella di alberi avviluppati da rampicanti, fitti di foglie e fiori. Da bambina io pensavo che quelle colonne fossero una delle meraviglie più affascinanti del mondo. Ora potevo vederle per ciò che erano, ovvero una finzione, una cosa che appariva reale ma non lo era. La Corte Unseelie, invece, pur senza la nuova recente magia, aveva avuto delle rose autentiche. Quei fiori si trovavano in un giardino interno, presso una polla in cui crescevano anche gigli d'acqua. Per il vero c'erano lì anche delle catene fissate alla roccia, che servivano a torturare la gente in uno scenario naturale, ma bene o male in quella Corte si poteva trovare qualcosa di vivo. Qualcosa che avvizziva lentamente con gli anni, ma che era sopravvissuto fino al giorno in cui la Dea non aveva cominciato a intervenire attraverso di me, di noi. In tutta la Corte Seelie, invece, non si trovava niente di vivo. Quei grandi alberi di metallo erano cose splendide, artistiche, ma fatte per gli occhi dei mortali. Gli immortali non si dedicavano al lavoro della creazione artistica e artigianale, ma soltanto alla magia su cui si basavano gli oggetti d'arte. Lì, dunque, non c'era niente di reale. Le guardie indossavano completi grigio scuro. Sembravano agenti dei servizi segreti americani. Che non fossero comuni esseri umani lo si capiva solo dalla loro bellezza ultraterrena e dagli occhi tricolori. Hugh si fermò a pochi passi da loro. I suoi cani avevano preso posto davanti a me, e mi accorsi che erano così alti da nascondermi almeno in parte agli occhi delle guardie. Lady Elasaid si portò in testa al nostro gruppo. «Lasciateci passare.»
«Gli ordini del re sono chiari, mia signora. Nessuno può entrare nella sala della conferenza stampa senza il suo permesso.» «Non vedete la benedizione della Dea dinanzi a voi?» «La magia del re ci immunizza dalle illusioni.» «Non vedete questa pioggia di petali?» «Vediamo la sua apparenza illusoria, mia signora.» Non potevo vedere ciò che vedeva Lady Elasaid, ma la sentii dire: «Toccatela». «Anche il re può fare illusioni toccabili, Lady Elasaid.» Compresi che le guardie vedevano illusioni da tanto tempo che non sapevano più cosa fosse reale e cosa no. Tutto era dubbio per loro. La nostra guardia, il biondo, era venuta davanti a noi insieme coi cani per tenermi nascosta il più possibile. «Devo chiamare?» Hugh annuì. Mi aspettavo che la guardia usasse uno specchietto, oppure la lucida lama del suo pugnale, invece tirò fuori dalla borsa un moderno cellulare. Dovevo aver spalancato gli occhi per la sorpresa, perché disse: «Abbiamo nascosto dei ricevitori presso la sala. È per questo che abbiamo fatto entrare qui la stampa». Era perfettamente logico. Gli altri si fecero avanti per nasconderlo alla vista delle guardie reali. Sottovoce disse: «Siamo fuori dalla porta con la principessa ferita. Le guardie non ci lasciano passare». Una delle guardie assunse un tono severo. «Tornate ai vostri appartamenti. Voi non avete niente da fare, qui.» La guardia bionda mormorò: «Sì... Sì... No». Chiuse il cellulare, lo mise nella borsa di pelle e tornò accanto a noi. Disse qualcosa a Hugh, a voce così bassa che io non potei sentire. I nobili e i loro cani si strinsero intorno a me. Se fossimo arrivati a uno scontro, non si erano lasciati nessuno spazio per manovrare le armi. Poi mi accorsi che il loro scopo era un altro: volevano farmi scudo, mi proteggevano coi loro corpi alti e snelli, mi difendevano con la loro bellezza immortale. Loro, che un tempo mi avevano disprezzata, stavano rischiando tutto ciò che avevano, tutto ciò che erano, per tenermi al sicuro. Non erano miei amici, molti non mi conoscevano neppure. Alcuni, quand'ero bambina, mi avevano detto in faccia che non gli piacevo. Mi trovavano troppo umana, troppo imbastardita da sangue non sidhe. Cos'aveva fatto Taranis a quei sidhe per renderli così disperati da sfidarlo e allearsi con me? Ci fu un movimento alla testa dell'elegante gruppo che mi circondava, come quello di fiori di campo scossi dal vento. Le voci delle guardie alla porta si alzarono a sovrastare con durezza quelle dei nobili.
«Voi non avete il permesso di procedere oltre nel nostro sithen, per ordine del re!» «Per impedirci di oltrepassare questa porta dovrete battervi con noi.» Conoscevo quella voce. Era il maggiore Walters, capo del dipartimento di polizia di St. Louis addetto alle relazioni coi fey. Quello era stato un titolo soltanto onorario per anni, finché io non ero tornata a casa. Non sapevo come fosse riuscito a farsi invitare a una conferenza stampa, e non m'importava. Un'altra voce maschile disse: «Abbiamo l'autorizzazione federale per prendere la principessa sotto custodia protettiva». Questo era l'agente speciale Raymond Gillett, l'unico funzionario federale che dopo la chiusura delle indagini sulla morte di mio padre aveva continuato a tenersi in contatto con me. Quand'ero più giovane avevo creduto che avesse a cuore ciò che mi succedeva, poi mi ero accorta che voleva soltanto tenere aperto un caso importante non risolto. Ero ancora arrabbiata con lui, ma in quel momento ogni voce nota mi giungeva gradita. «La principessa non è qui, agenti. Per favore, tornate nel settore riservato alla stampa», disse un'altra guardia. «La principessa è qui, e ha bisogno si assistenza medica umana», esclamò Lady Elasaid. Potevo sentire la tensione salire nel gruppo di nobili, già così forte da mozzarmi il fiato. Per i funzionari umani loro erano individui bellissimi ma incomprensibili. Io però avvertivo quell'energia vibrare come l'acqua di una pentola che cominciasse a bollire. Anche le guardie alla porta la sentivano. Il grande cane nero venne a fianco di Hugh. Questo non mi tranquillizzò affatto. Disarmato, contro i mezzi delle guardie sidhe, poteva soltanto morire per me. Io volevo che lui vivesse per me. «Abbiamo con noi dei dottori. Lasciate che vedano la principessa, e ce ne andremo da qui», disse il maggiore Walters. «Il re ha ordinato che lei non sia restituita ai bruti che l'hanno ferita. Non può tornare dagli Unseelie.» «Le ha proibito di vedere gli umani?» domandò l'agente Gillett. Ci fu una pausa di silenzio, mentre la vibrazione di potere s'intensificava tra i sidhe intorno a me. Lentamente, impercettibilmente essa saliva, come se rifiutasse di restare sotto controllo. «Il re non ha detto niente che riguardi lei e gli umani», rispose un'altra guardia. «Ci è stato detto di tenerla lontana dalla stampa.» «Perché la principessa dev'essere tenuta lontana dalla stampa?» domandò l'agente Gillett. «Lei può dirlo di persona ai giornalisti, se vorrà che il vostro bravo re la salvi dai malvagi Unseelie.»
«Non so...» «A meno che voi pensiate che la principessa abbia una storia diversa da riferire», aggiunse il maggiore Walters. «Il re ci ha giurato che è così», ribatté la guardia che aveva parlato più spesso. «Allora non avete niente da perdere lasciando che i nostri dottori la vedano», concluse l'agente Gillett. La guardia che era parsa più ragionevole disse: «Se il re è stato sincero, allora non c'è niente da temere. Shanley, tu sei il capitano qui. Cosa decidi?» Nella sua voce c'era il primo accenno di dubbio, come se anche tra i sidhe più fedeli al re le sue bugie cominciassero a diventare insopportabili. «Se lei è davvero qui, fatela venire avanti.» Shanley sembrava stanco. Hugh attese, mentre i nobili si scostavano aprendosi come un sipario. Soltanto i cani di Hugh e la guardia bionda restarono davanti a noi. Doyle si spostò alle nostre spalle. Credo che anche lui, come me, temesse di essere riconosciuto. Se gli uomini di Taranis avessero sospettato che la Tenebra era nel sithen Seelie, la loro reazione sarebbe stata imprevedibile. Alla fine Hugh disse: «Lasciamo che la vedano». La guardia e i grossi cani si mossero. Doyle cercò di mescolarsi fra gli altri animali, nonostante la differenza di colore. Era l'unica creatura nera in quella folla, e ai miei occhi risaltava fin troppo pericolosamente. Dovevo avere un aspetto ancora peggiore di come mi sentivo, perché i due umani mi fissarono a bocca aperta. Dopo un primo sguardo si controllarono, tuttavia erano stupefatti. Non stentavo a capirli. Ma fu come se il loro sguardo mi avesse indotta a vedermi dall'esterno. Non so se fosse la magia, o la paura per Doyle, o il timore che Taranis ci piombasse addosso. Forse era soltanto la piccola voce che fino ad allora aveva pianto inascoltata in fondo alla mia mente, e che adesso gridava: «Possibile che lui mi abbia rapita? Possibile che abbia tentato di violentarmi dopo avermi picchiata fino a farmi svenire?» Era questo che il grande re dei Seelie considerava seduzione? Oh, Dea, grazie per averlo confuso facendogli credere che io avessi i suoi figli dentro di me. Era come quando si sa di essersi tagliati, ma si sente il dolore solo mentre si comincia a vedere il sangue. E quella consapevolezza ritardata la vidi apparire sulle facce dei due agenti. La vidi nel modo in cui si mossero verso di me. Il lato sinistro del mio viso mi doleva ed era gonfio. Sapevo che il dolore c'era già prima, ma fu come se solo in quel momento lo sentissi tutto. Il mal di capo tornò con un ruggito che mi fece chiudere gli occhi, e provai un'ondata di nausea. Una voce disse: «Principessa Meredith? Può parlare?» Alzai lo sguardo sull'agente Gillett. C'era quella vecchia compassione nei suoi occhi, la compassione che mi aveva indotta a fidarmi di lui quand'ero
un'adolescente. Ma all'improvviso seppi che era sincera. Io mi ero sentita usata da lui qualche mese addietro, dopo aver capito che si teneva in contatto con me soltanto perché sperava di risolvere il mistero dell'assassinio di mio padre. Gli avevo detto di starmi lontana. Ma ora, guardando il suo viso, rividi quello che avevo visto in lui quando avevo diciassette anni. Ora s'interessava di me, profondamente. Forse gli tornava alla mente come mi aveva vista la prima volta, schiacciata dal dolore, con la spada di mio padre stretta fra le braccia come se fosse l'unica cosa solida al mondo. «Un medico», sussurrai. «Ho bisogno di un medico.» Lo sussurrai perché, l'ultima volta che mi ero sentita così, parlare mi aveva fatto scoppiare la testa. Ma lo sussurrai anche perché sapevo che sarei apparsa più malconcia, e se la pietà altrui poteva aiutarmi ad arrivare davanti ai giornalisti avrei giocato quel gioco sino in fondo. Gli occhi dell'agente Gillett s'indurirono, e di nuovo vidi in lui il professionista che mi aveva lasciato capire di volere soltanto l'assassino di mio padre. Quella notte mi andava bene. Dentro di me c'erano i nipoti di mio padre. Ma dovevo togliermi da quella situazione di pericolo. Le armi e la magia sono mezzi che i sidhe capiscono, e ciascuno di loro sa valutare in quale misura li possiede, ma i sidhe non sono mai stati fisicamente deboli, cosicché non capiscono gli espedienti cui possono fare ricorso i deboli. Io li conoscevo, poiché avevo vissuto a lungo nella terra dei deboli. Smisi di lottare per mostrarmi coraggiosa. Smisi di lottare per sentirmi meglio. Mi abbandonai alla consapevolezza di essere ferita e spaventata. Lasciai tornare i pensieri che avevo cercato di scacciare. Lasciai che i miei occhi si empissero di lacrime. Le guardie della porta fecero per portarsi di fronte a noi, ma il maggiore Walters usò la sua voce da ufficiale di polizia, che echeggiò secca nella sala marmorea e nei locali attigui. «Voi fatevi da parte, subito!» La guardia che aveva parlato più spesso disse: «Shanley, noi non abbiamo curatori che possano guarire la principessa. Lasciamo che la curino gli umani». Aveva capelli fiammeggianti come le foglie autunnali prima che cadano, e iridi cerchiate di verde. Sembrava giovane, ma doveva avere più di settant'anni, perché quella era l'età di Galen, il più giovane dei sidhe a parte me. Shanley mi guardò. I suoi occhi erano triple corone circolari azzurre. Gli restituii lo sguardo attraverso le lacrime, lasciando bene in mostra la tumefazione che andava dalla tempia sinistra al mento. «Cosa racconterai alla stampa umana, principessa Meredith?» mi chiese. «La verità», mormorai.
Una luce sofferente offuscò quegli occhi disumani e amabili. «Non posso lasciarti entrare in questa sala.» Con quelle parole ammetteva di sapere che la mia verità e quella di Taranis non erano la stessa cosa. Sapeva che il suo re aveva mentito, e gli aveva giurato il falso. Lo sapeva, eppure voleva mantenere il suo giuramento di servire Taranis. Era stretto fra il suo giuramento e le menzogne del suo re. Avrei dovuto provare pietà per lui, ma sapevo che Taranis non si sarebbe lasciato distrarre per sempre dal suo bagno. Neppure con delle serve di cui poteva abusare. Noi eravamo a pochi passi dalle telecamere e da una relativa sicurezza. Ma come superare quegli ultimi pochi passi? Il maggiore Walters tolse di tasca una piccola ricetrasmittente e premette il pulsante. «Qui abbiamo bisogno di rinforzi.» «Se sopraggiungono estranei, li respingeremo con la forza», dichiarò Shanley. «La principessa è gravida. Ha due gemelli», gli disse la curatrice. Lui la guardò insospettito. «Tu menti.» «A me rimangono pochi poteri, questo è vero, ma ho abbastanza magia da sentire questa cosa. Lei è gravida. Ho sentito i cuori dei gemelli battere sotto la mia mano, palpitanti come ali di passero.» «Non può avere feti già così avanti, se è arrivata stanotte nelle stanze del re.» «Lei è arrivata in questo sithen già gravida di due gemelli. È stata gettata sul letto dal re per essere violentata, già gravida dei figli di un altro.» «Non dire queste cose, Quinnie», sbottò l'uomo. «Sono una curatrice. E adesso devo parlare. Anche se dovesse costarmi tutto ciò che ho, tutto ciò che sono, io ti giuro che la principessa è gravida da un mese di due gemelli.» «Sei disposta a fare un giuramento solenne?» domandò lui. «Farò il più solenne che tu possa chiedermi.» I due si guardarono per un lungo momento. Oltre la porta, alle spalle delle guardie, qualcuno percuoteva i due battenti e si udivano rumori confusi. Gli agenti di polizia chiamati da Walters stavano cercando di entrare. Mi chiesi se guardie Seelie avrebbero osato attaccare le forze dell'ordine davanti ai giornalisti, con le telecamere puntate su di loro. Sembrava che la polizia si facesse meno problemi dei Seelie. La porta vibrò sotto i colpi violenti di qualcosa che stavano usando per sfondarla. La guardia dai capelli rossi si rivolse ancora al suo capitano. «Shanley, ascolta la curatrice.» «Il re ha giurato. E niente dimostra che sia uno spergiuro», insistè lui.
«Il re crede in quello che dice, e voi lo sapete. Lui ci crede, perciò non mente. Ma non per questo le sue parole sono vere. Tutti lo abbiamo visto, nelle ultime settimane», gli ricordò la curatrice. Shanley guardò le altre guardie, e infine di nuovo me. «Gli Unseelie ti stavano usando violenza quando il nostro re ti ha salvata?» «No.» Nei suoi occhi brillò una luce, ma non di magia. «Lui ti ha presa contro la tua volontà?» «Sì», sussurrai. Una lacrima scese dai suoi begli occhi. Mi rivolse un breve inchino. «Sono ai tuoi ordini.» Mi augurai di sapere cosa si aspettava da me. Parlai a voce alta, per quanto osavo senza farmi scoppiare la testa. «Io, principessa Meredith NicEssus, detentrice delle mani della carne e del sangue, nipote di Uar il Crudele, ti ordino di farti da parte e lasciarci passare.» I rumori oltre la porta aumentavano ancora. Il capitano parlò senza guardare nessuno. «Fermatevi, uomini. La principessa sta uscendo.» II l baccano diminuì, poi non ci fu nessun rumore. La guardia dagli occhi azzurri fece un cenno col capo alle altre, e loro aprirono la grande porta. Doyle mi venne vicino, mentre Hugh riprendeva il cammino. Per un momento temetti che ci fosse un attacco di luce magica ustionante, poi mi accorsi che erano i faretti delle telecamere in movimento e i flash dei fotografi. Chiusi gli occhi in quei lampi abbaglianti, e Hugh mi portò nell'altra sala.
Capitolo 29 † Le luci mi abbagliavano. Sotto l'assalto di quei movimenti e quelle voci mi girava la testa. Avrei voluto gridare loro di fermarsi, ma temevo che così avrei soltanto peggiorato il dolore. Socchiusi gli occhi e cercai di ripararli con una mano. Alcune ombre si mossero sullo sfondo chiaro, e una voce di donna disse: «Principessa Meredith, sono la dottoressa Hardy. Siamo qui per aiutarla». La voce di un uomo: «Principessa Meredith, le metteremo un collare ortopedico. È solo una precauzione». Accanto a noi c'era un lettino a rotelle, arrivato con tale rapidità che mi parve sbucato dal nulla. Fui distesa su di esso e alcuni infermieri si strinsero intorno a me. La dottoressa Hardy mi esaminò le pupille con una lampadina e mi chiese di seguire con gli occhi il movimento di un suo dito. Io feci del mio meglio, ma altre mani erano su di me e mi toccavano le braccia, la testa, le gambe, gettandomi nel panico. Cercai di allontanarle, gemendo. Non sapevo cosa mi facessero, ma mi sembrava troppo. Non riuscivo a vedere chi mi toccava, non capivo cosa stesse succedendo. Non potevo sopportarlo. «Principessa, principessa Meredith, può sentirmi?» domandò la dottoressa Hardy. «Sì», risposi, con una voce che non mi sembrò la mia. «Dobbiamo andare in un ospedale. Per trasportarla con sicurezza ci sono alcune cose da fare. Ci lascerà prendere queste precauzioni?» Più che piangere io lasciavo che le lacrime mi scendessero lungo il viso. «Vorrei sapere cosa mi state facendo. Vorrei vedere chi mi sta toccando.» Lei si voltò un momento a guardare i giornalisti e le telecamere che si affollavano tutto intorno. La polizia faceva il possibile per tenerli a distanza, ma potevano vederci e sentire tutto ciò che dicevamo. La dottoressa si piegò su di me. «Principessa, lei ha subito violenza?» «Sì.» Il maggiore Walters si chinò anch'egli. «Mi spiace, principessa, ma devo chiederle questo. Chi è stato?» Una delle guardie sidhe disse: «Sono stati gli Unseelie, così come hanno violentato Lady Caitrin». «Faccia silenzio!» ordinò il maggiore Walters. Tornò a voltarsi verso di me. «È vero ciò che ha detto quest'uomo?» «No», risposi. «Allora chi è stato?»
«Taranis mi ha colpito con un pugno. Sono svenuta. Quando ho ripreso conoscenza ero nuda nel suo letto. Lui era disteso accanto a me.» «Bugiarda!» gridò la guardia dietro di noi. Shanley, che comandava quegli uomini, intervenne: «La principessa ha giurato». «Anche il nostro re ha giurato.» «Io non posso farci niente», disse lui. «Taranis mi ha ferita. Lui e nessun altro. Lo giuro sulla tenebra che inghiotte ogni cosa.» «Sei pazza a fare questo giuramento», sbottò una voce che non conoscevo. «Solo se mente.» Questo era sir Hugh, credo. Ma c'erano altri rumori, troppe voci. I giornalisti incalzavano. Gridavano le loro domande, le loro teorie. Noi li ignorammo. La dottoressa Hardy cominciò a parlarmi sottovoce per spiegarmi cosa stava succedendo. Mi presentò i membri della sua squadra. Disse che mi avrebbe riassunto cosa intendevano farmi, prima che lo facessero. Questo mi aiutò a tornare fuori dallo stato isterico in cui ero scivolata. Poi chiesi agli infermieri di fermarsi un momento, perché udii una voce rivolgersi ai giornalisti. «Vi abbiamo già riferito cos'è successo alla principessa. Le sue guardie Unseelie, che avrebbero dovuto proteggerla, l'hanno picchiata e violentata. Il nostro re ha salvato sua nipote da quella gente e l'ha portata qui, al sicuro.» Era troppo. Anche se mi sentivo male, non potevo permettere che mi portassero all'ospedale lasciando i giornalisti in balia di quelle bugie. «Datemi un microfono, per favore. Ho bisogno di dire la verità.» La cosa non piacque alla dottoressa Hardy, ma Hugh e gli altri mi spalleggiarono, e il mio lettino fu spinto attraverso la sala. Gli infermieri insisterono che tenessi l'ingombro del collare ortopedico. Avevo un braccio legato a un supporto e l'ago di una flebo in un braccio. Dei sensori, sul petto e sull'altro braccio, erano collegati a qualche apparecchio elettronico. Mi era parso di sentir dire che avevo la pressione bassa ed ero sotto shock. La dottoressa si avvicinò al microfono che era stato preparato per la conferenza stampa. «Signori, io sono la dottoressa Vanessa Hardy. La principessa ha urgenza di essere portata all'ospedale, ma insiste per parlare alla stampa. È ferita, e dobbiamo ricoverarla quanto prima. Vi prego di fare in fretta. E chiaro?» Parecchi giornalisti dissero: «Sì». L'addetta stampa dei sidhe era una bellezza bionda vestita di rosa e oro. Prese subito il posto della dottoressa e cominciò a parlare. La dottoressa cercò di spingerla via, ma lei non volle sapere di mollare il microfono. Aveva già sentito abbastanza per essere preoccupata di ciò che avrei potuto dire. Fu l'agente Gillett a toglierle il microfono di mano. Lo avvicinò alla mia bocca e lo tenne lì. Potevo avvertire l'interesse spasmodico dei giornalisti
come una sorta di magia tutta loro. Uno di essi domandò: «Chi è stato a colpirla?» «Taranis», risposi. Ci fu un mormorio collettivo e un'esplosione di flash. Io chiusi gli occhi, abbagliata. «Sono stati gli Unseelie ad aggredirla?» «No.» «Ha subito violenza carnale, principessa?» «Taranis mi ha stordita con un pugno, e mi ha rapita. Mi sono risvegliata nuda nel suo letto. Lui ha detto che voleva dei figli da me. In ospedale farò un esame per cercare le tracce di un rapporto sessuale. Se risulterà che ho avuto un rapporto sessuale con ignoti, allora, sì, significherà che mio zio mi ha fatto violenza carnale.» La polizia stava lottando per tenere indietro l'addetta stampa di corte e altri sidhe fedeli al re. I nobili di Hugh e i loro cani aiutavano gli agenti a mettere freno alla folla. Sentivo dei grugniti intorno a me. Il più basso era molto vicino. Il grosso cane nero mi toccò una mano. La alzai ad accarezzare il pelo di Doyle. Quel breve contatto mi confortò più di qualsiasi altra cosa. La dottoressa Hardy gridò per sovrastare il caos: «La principessa ha una commozione cerebrale. Bisogna farle i raggi X o una TAC per vedere quanto è grave. Perciò ora ce ne andiamo». Io dissi: «No». «Principessa, lei ha detto che sarebbe venuta senza altri contrattempi se avesse potuto raccontare la verità.» «No, non è questo. È che non posso fare i raggi X. Sono incinta.» L'agente Gillett teneva ancora il microfono davanti alla mia bocca, e tutta la sala potè sentirmi. Se pensavamo che quello di prima fosse un vero caos, ci sbagliavamo. I giornalisti stavano gridando: «Chi è il padre? E stato suo zio a ingravidarla?» La dottoressa Hardy si chinò per farsi udire sopra quel chiasso. «Da quanto tempo è incinta?» «Quattro o cinque settimane», risposi. «Faremo tutto il necessario per la sicurezza sua e del feto.» «Sì.» Lei si voltò verso qualcuno che non potevo vedere. «Ora dobbiamo portarla in ospedale.» Cominciammo a farci strada verso l'uscita. Muoverci in quella folla era difficile per due ragioni. Una erano i giornalisti. Tutti volevano un'ultima immagine, un'ultima risposta. L'altra erano le guardie Seelie e i nobili che si opponevano a Hugh. Loro volevano che io restassi lì. Volevano che ritirassi le mie dichiarazioni. Facce incredibilmente belle spuntavano sopra di me dicendo cose tipo: «Come puoi mentire così sul nostro re? Come puoi accusare tuo zio di un tale crimine? Bugiarda. Sgualdrina traditrice!» Questa fu l'ultima frase prima
che la polizia cominciasse a fare sul serio per tenere la folla dei dorati lontana dalla mia faccia. Gli agenti cercarono di allontanare anche il cane nero, ma io mi opposi. «No, lui è mio.» Nessuno discusse. La dottoressa Hardy disse solo: «Non potremo farlo salire sull'ambulanza». Avere Doyle accanto a me, in qualsiasi forma fisica, era importante. Ogni volta che mi toccava mi sentivo meglio. Intorno al lettino c'erano tante persone, e tante luci, che mi resi conto di essere all'aperto solo nel sentire il freddo dell'aria notturna sul viso. Era notte anche quando Taranis mi aveva rapito. Si trattava della stessa notte o della successiva? Quanto tempo mi aveva tenuto con sé? Cercai di domandare che giorno era, ma nessuno mi sentì. La stampa ci aveva seguiti fuori dal sithen. I giornalisti continuavano a tenerci sotto i faretti delle camere e a gridare domande. Le ruote del lettino non erano l'ideale su quel terreno erboso. I continui sobbalzi mi scatenavano fitte di dolore nella testa. Cercai di non gemere, e resistei finché gli infermieri non si strinsero intorno a me tanto che non potei più toccare il pelo di Doyle. Nel momento in cui persi contatto con lui, il mio malessere peggiorò. Non potei impedirmi di chiamarlo con un fil di voce, supplichevole. La testa del grosso cane nero sbucò da sotto il braccio della dottoressa. Lei cercò di scostarlo. «Sciò!» «Ho bisogno di lui. Per favore.» Lei mi guardò accigliata, ma fece un passo indietro e lasciò che il cane mi venisse vicino. Abbastanza vicino da poterlo accarezzare con una mano nonostante i sobbalzi. Non mi ero mai accorta di quanto fosse irregolare il prato intorno ai tumuli. Finché l'avevo percorso a piedi mi era parso molto liscio, ora ne detestavo ogni centimetro. Una telecamera sbucò tra le spalle degli infermieri. Il faretto mi abbagliò. La fitta di dolore che mi esplose nei globi oculari generò un'ondata di nausea. «Devo vomitare...» Dovettero fermare il lettino e aiutarmi a sporgere la testa oltre il bordo. Tra la flebo, il sostegno del braccio e i sensori, da sola non ci sarei riuscita. Non avevo mai avuto tante mani a sostenermi, mentre mi giravo su un fianco. «Ha una commozione cerebrale! Le luci abbaglianti le fanno male!» esclamò la dottoressa. I conati di vomito erano come martellate nel cranio. Le mie capacità visive erano un incubo. Una mano mi toccò la fronte. Una mano che era fresca, solida e... che mi sembrava di conoscere. Quando la vista mi si schiarì, vidi un uomo col volto nascosto dalla visiera di un berretto da baseball e da una voluminosa barba bionda. Era lui ad accarezzarmi la fronte. Nei suoi occhi c'era qualcosa di vagamente familiare.
Poi, mentre lo guardavo, uno degli occhi cambiò. Uno solo. L'iride era fatta di tre diversi anelli di colore: blu mare, azzurro intenso, pallido cielo invernale. «Rhys», mormorai. La sua barba finta si deformò in un sorriso. Aveva usato il glamour per celare l'occhio guercio e le cicatrici, ma tutto quel pelo era una vera barba finta. Era sempre stato il più abile nei travestimenti fra i miei uomini, quando lavoravamo per la Grey Detective Agency. Mi vennero le lacrime agli occhi, ma non volevo piangere, perché questo gli avrebbe fatto male. Dietro di me qualcuno disse: «Non dimenticare il nostro accordo». Rhys rispose senza voltarsi. «Avrete la vostra intervista televisiva in esclusiva, non appena lei starà meglio. Vi ho dato la mia parola.» Dovetti sembrargli confusa, perché lui spiegò: «Io e qualcun altro siamo riusciti a infiltrarci nel sithen Seelie fingendoci giornalisti, grazie a un'emittente televisiva. In cambio abbiamo promesso che ti lascerai intervistare». Allungai verso di lui la mia mano libera. Lui la baciò. La telecamera che mi aveva abbagliata continuava a riprendere, ma da una distanza maggiore. «È uno dei suoi uomini?» volle sapere la dottoressa Hardy. «Sì.» «Grande. Ma ora dobbiamo muoverci.» «Scusi.» Rhys si scostò per consentire agli infermieri di rimettermi distesa sulla schiena. Continuai ad annaspare in cerca di Doyle, e per un attimo lo trovai, poi fu un'altra mano a trovare la mia. In quella posizione non potevo voltarmi abbastanza, ma lui parve capirlo e si mosse per farsi vedere. Era Galen. Anche lui aveva un berretto, e usava il glamour per far sembrare castani i suoi capelli verdi e più umana la sua pelle. Se lo tolse, per farsi riconoscere da me. Un momento prima un umano sconosciuto di bell'aspetto, il momento dopo Galen. Magia. «Ehi.» I suoi occhi si riempirono subito di lacrime. Mi chiesi cosa sarebbe successo se lui e Rhys fossero stati riconosciuti dai Seelie nel loro sithen, ma ero troppo felice di vederli per preoccuparmi coi «se.» O forse ero solo troppo sfinita. La dottoressa Hardy permise loro di starmi vicino, con un sospiro. «Ci sono altri suoi amici?» «Non lo so.» Era la pura verità. «Ce n'è un altro», ci informò Galen. Non avrei saputo dire chi altro avesse un glamour abbastanza buono da ingannare le guardie del sithen. La Corte Seelie era governata dal maestro delle illusioni, e per quanto fosse un bastardo lui poteva vedere attraverso
qualsiasi travestimento. Al pensiero di cos'avrebbe potuto fare ai miei uomini, deglutii. Strinsi la mano di Galen e desiderai poter muovere la testa per vedere Rhys. Invece ero costretta a guardare soltanto il cielo notturno. Era un bel firmamento sereno, gremito di stelle. Un nitido cielo di fine gennaio, quasi febbraio. Ma non avrei dovuto avere freddo? Quell'interrogativo mi fece capire che la mia sensibilità fisica non era normale, come mi ero illusa che fosse. Qualcuno aveva detto che ero in stato di shock? O me l'ero sognato? Battei le palpebre e vidi l'ambulanza. Fu come se fosse apparsa dal nulla. Non era magia, era la mia testa ferita. Mi stavo perdendo pezzi di tempo. Questo non poteva essere buon segno. Fu sul portello posteriore dell'ambulanza che scoprii chi altro aveva abbastanza glamour da farsi gioco dei sidhe Seelie. Aveva corti capelli biondi, occhi bruni, e un viso che continuò a restare quello di un qualsiasi sconosciuto finché non si chinò su di me. Poi ebbi l'impressione che i capelli si allungassero in una treccia che arrivava quasi al suolo. Gli occhi assunsero tre diverse tonalità d'oro. Il viso qualunque fu all'improvviso uno dei più belli di tutte le Corti. Sholto, il re degli sluagh, mi baciò dolcemente sulla fronte. «Tenebra mi ha parlato della sua visione divina. Sto per diventare padre.» Con quell'aria compiaciuta, la sua solita arroganza non si notava. «Sì», confermai, sottovoce. Nei suoi occhi c'era una tranquilla felicità. Aveva rischiato tutto per venire lì a salvarmi, anche se a togliermi dai guai erano stati altri. Ma, anche se avevo fatto l'amore con lui, in realtà lo conoscevo appena. Non che non fosse amabile, quando voleva, ma avrei preferito di gran lunga che lì ci fosse Frost a parlarmi della sua paternità. «Senta, amico, io non so chi sia lei, ma la principessa ha urgenza di arrivare all'ospedale», lo redarguì la dottoressa Hardy. «Sono uno sciocco. Mi scusi.» Sholto mi accarezzò i capelli teneramente. Come coppia, non avevamo mai avuto momenti di tenerezza. Sapevo che lui era sincero, ma in qualche modo mi parve un gesto fuori posto. Poi il mio lettino fu sollevato e fatto scivolare nell'ambulanza. La dottoressa rimase con me, insieme con un infermiere. Gli altri andarono nella cabina di guida, o su un altro veicolo. «Ti seguiamo all'ospedale», disse Galen. Non potevo alzare la testa a guardarli, così agitai una mano in segno di saluto. D'improvviso accanto a me ci fu il grosso cane nero. Era saltato dentro. Lo sguardo di quegli occhi attenti non era affatto canino. La dottoressa Hardy protestò: «No, assolutamente no. Fuori, cane, vai fuori di qui». Fui sfiorata da un alito freddo quando la nebbia nascose quel corpo, e un attimo dopo inginocchiato al mio fianco c'era Doyle. L'infermiere ansimò:
«Ma cosa diavolo...» «Ho visto le foto. Lei è Doyle», disse la dottoressa Hardy. «Sì», rispose lui con la sua voce profonda. «E se le chiedessi di andarsene?» «Non me ne andrò.» Lei fece un sospiro. «Frank, dagli una coperta. E di' all'autista di partire, prima che salgano a bordo altri uomini nudi.» Doyle si mise la coperta sulle spalle coprendosi abbastanza da non mettere gli umani a disagio. Un braccio lo tenne fuori, per potermi stringere una mano. «Cos'avreste fatto, se il piano di Hugh non avesse funzionato?» domandai. «Ti avremmo salvata noi.» Non «tentato di salvarti». Solo «ti avremmo salvata». Che arroganza. Che sicurezza. Nessun umano avrebbe parlato così. Più che avere la magia, più che essere meravigliosamente bello, lui aveva del mondo una visione sidhe, dunque per nulla umana. La sua arroganza non era ostentata, né lo era la sua sicurezza. Lui era la Tenebra. Una volta era stato il dio Nodons. Lui era Doyle. Si era messo in una posizione in cui potessi vederlo, mentre le ruote dell'ambulanza si avviavano con un rumore di ghiaia sulla strada di campagna. Guardai quel volto nero come il carbone. Nei suoi occhi si erano accesi piccoli punti di luce che non potevano essere riflessi. Nell'ambulanza quei colori non c'erano. Un tempo lui aveva usato quei colori per cercare d'incantarmi, su ordine di mia zia. Un test per vedere quanto ero debole, o forte. I punti di luce divennero una danza di lucciole multicolori nei suoi occhi. «Io posso farti dormire, finché non saremo all'ospedale.» «No.» Chiusi gli occhi per non vedere le luci colorate. «Tu stai soffrendo, Merry. Lascia che ti aiuti.» «La dottoressa sono io, qui. E io dico: niente magia sui feriti finché non mi viene spiegato cos'è.» «Non sono sicuro di saperla spiegare, dottoressa Hardy», disse Doyle. «No. Non voglio perdere conoscenza, Doyle. L'ultima volta che è successo mi sono risvegliata nel letto di Taranis», insistei, con gli occhi chiusi. La sua mano strinse la mia con ansia, come se fosse lui ad avere bisogno di conforto. Questo m'indusse ad aprire gli occhi. Le luci colorate nei suoi stavano svanendo, quando le cercai. «Ti ho delusa, mia principessa, mio amore. Tutti ti abbiamo delusa. Non avevamo pensato che il re potesse viaggiare attraverso la luce, anche di notte. Credevamo che fosse un'arte perduta.» «Ci ha colto di sorpresa, tutti.» Poi mi sovvenne un altro pensiero. Dovevo sapere una cosa. «I miei cani. Lui li ha feriti.» «Sono vivi. A Minnie forse resterà qualche cicatrice, ma guarirà. La
veterinaria da cui l'abbiamo portata dice che avrà dei cuccioli.» Gli baciai la mano. «I cuccioli non sono stati feriti?» Sorrise. «Stanno bene.» Per una ragione che non seppi comprendere, quell'ultima notizia mi fece sentire meglio. I miei cani mi avevano difesa, e il re aveva cercato di ucciderli. Ma non c'era riuscito. Loro sarebbero vissuti, e così i loro cuccioli. I primi cani nati a Faerie da cinque secoli. Taranis aveva cercato di fare di me la sua regina, ma io ero già incinta. Avevo già i miei re. Taranis aveva fallito in tutto. Se l'esame per la ricerca di sperma in me fosse stato positivo, anche se «positivo» mi sembrava la parola sbagliata, avrei visto Taranis, re della Luce e delle Illusioni, in carcere per violenza carnale. La stampa lo avrebbe mangiato vivo. Accusato di aver sequestrato, percosso e violentato sua nipote. La Corte Seelie era sempre stata ammirata e lodata dagli umani. Questo stava per cambiare. Ora la luce dei riflettori si sarebbe spostata sulla Corte Unseelie, anche se era una luce oscura. Stavolta i buoni eravamo noi. I Seelie mi avevano offerto il loro trono, però io avevo altre idee. Hugh e alcuni nobili potevano volermi, ma tutti gli altri non mi avrebbero mai accettata come regina. Ero incinta di figli i cui padri erano nobili Unseelie. Io stessa ero figlia di un principe Unseelie, e loro mi avevano sempre trattata a pesci in faccia. Non c'era nessun trono dorato per me. No, se un trono mi aspettava era quello Oscuro. Forse sarebbe stato meglio dargli un nuovo nome? «Trono Oscuro» suonava così sinistro. Taranis sedeva sul Trono Dorato della Corte Seelie. Quelle parole riempivano la bocca di miele. Shakespeare aveva detto che se la rosa non si fosse chiamata rosa il suo profumo sarebbe stato ancora dolce, ma io non ci credevo. Trono Dorato, Trono Oscuro. Voi su quale trono preferireste sedere? Ero sopravvissuta a un altro attacco. Mi rendevo conto che stavo facendo di tutto per non pensare troppo alle violenze di Taranis, e al fatto che non avrei trovato Frost ad attendermi all'ospedale. Finalmente ero incinta, ma non potevo gioirne come volevo. Per ragioni politiche sarebbe stato meglio se il test per lo sperma avesse dato risultati positivi. In un certo senso eravamo in debito con Taranis. Ma per ragioni mie speravo che avesse mentito dicendo che aspettava un figlio da me. Speravo che non mi avesse violentata quand'ero priva di conoscenza.
Speravo che non avesse preso il suo piacere con me mentre nella mia testa si allargava l'emorragia. Cominciai a piangere, dolorosamente, disperatamente. Doyle si chinò su di me, sussurrando il mio nome e che mi amava. Io affondai la mano nel calore dei suoi capelli e lo trassi più vicino, per sentire il loro profumo. M'immersi nel contatto e nell'odore del suo corpo, e piansi. Avevo vinto la gara per il trono della Corte Unseelie, e sulla mia lingua c'era solo un amaro sapore di cenere.
Fine