PETER BENCHLEY TENTACOLI (Beast, 1991) Agli Squids Teams 1979 Billy Mac, Garbage Bob, The Duke, Columbus Mould, Captain ...
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PETER BENCHLEY TENTACOLI (Beast, 1991) Agli Squids Teams 1979 Billy Mac, Garbage Bob, The Duke, Columbus Mould, Captain Fathom 1990 George Bell, Clayton Benchley, Nat Benchley, Adrian Hooper, Kyle Jachney, Stan Waterman, Michele Vernick, Donald Wesson, John Wilcox E, naturalmente, ai Tucker: Teddy, Edna e Wendy Là dentro Scilla vive, orrendamente latrando [...] I piedi son dodici, tutti invisibili; e sei colli ha, lunghissimi; e su ciascuno una testa da fare spavento; in bocca, su tre file, i denti fitti e serrati, pieni di nera morte. [...] Mai naviganti si vantano d'averla potuta fuggire indenni sulla nave; ghermisce con ogni testa un uomo, afferrandolo dalla nave... OMERO, Odissea PARTE I
1. Fluttuava nell'acqua nera come l'inchiostro, in attesa. Non era un pesce, non aveva la vescica natatoria a fornirle la galleggiabilità, ma la speciale struttura chimica delle cellule dei suoi tessuti le impediva di affondare nell'abisso. Non era un mammifero, non respirava aria, perciò non sentiva l'impulso di salire in superficie. Fluttuava. Non era addormentata perché il sonno le era sconosciuto, non faceva parte dei suoi ritmi naturali. Riposava e si nutriva assorbendo ossigeno dall'acqua che pompava attraverso le cavità del suo corpo a forma di proiettile. Le sue otto braccia sinuose si muovevano nella corrente; i due tentacoli lunghi erano avvolti strettamente intorno al corpo. Nei momenti di pericolo, o nella frenesia della caccia, i tentacoli scattavano in avanti, come fruste irte di denti. Considerava nemici tutti gli «altri». Pertanto tutte le creature del mondo non erano altro che possibili prede. Non aveva alcuna consapevolezza di sé, della sua grande dimensione o del fatto che la sua capacità di violenza non esisteva in altre creature degli abissi. Indugiava a circa ottocento metri di profondità, molto al disotto del limite di penetrazione dei raggi solari, ma il suo occhio enorme registrava i fiochi luccichii prodotti, per paura o per eccitazione, da predatori più piccoli. Se fosse stata visibile all'occhio umano, la bestia sarebbe apparsa di colore marrone-violetto: così era in quel momento, in riposo. Se stimolato, il corpo cambiava più volte colore. L'unica condizione del mare che il suo sistema sensorio monitorizzava di continuo era la temperatura. Si sentiva perfettamente a suo agio tra i 4.5 e i 12.7 gradi centigradi. Se, nel vagare con le correnti, incontrava termoclimi stagionali o permanenti, flussi ascensionali od orizzontali che riscaldavano o raffreddavano le acque, si spostava verso il fondo o verso la superficie. Percepì un cambiamento. La deriva l'aveva portata contro lo sperone di un vulcano spento che saliva come un fuso dai canyon oceanici. Il movimento del mare intorno alla montagna mandava l'acqua fredda verso l'alto. Fu così che, spinta dalle pinne laminari - grandi espansioni laterali pres-
so l'estremità caudale -, la bestia salì attraverso le acque buie. A differenza di molte specie marine, non aveva bisogno di vivere in comunità; errava solitaria nell'oceano. Di conseguenza, ignorava che i suoi simili erano molto più numerosi di quanto fossero mai stati prima. L'equilibrio della natura era stato infranto. La bestia esisteva per sopravvivere. E per uccidere. Perché, caso atipico se non unico nel mondo degli esseri viventi, la bestia uccideva spesso senza necessità, come se la natura, in un accesso di malevolenza perversa, l'avesse programmata per quel fine. 2. Vista da lontano, la barca avrebbe fatto pensare a un chicco di riso su un'ampia distesa di raso azzurro. Da parecchi giorni il vento aveva soffiato costantemente da sud-ovest. Nelle ultime ore era caduto - spento, esausto - ma la calma era incerta. Si aveva la sensazione che il vento stesse riprendendo fiato e temporeggiasse, simile a un pugile stanco, prima di decidere dove lanciare il prossimo assalto. Howard Griffin sedeva al posto di pilotaggio, con un piede nudo posato su una razza della ruota del timone. La barca, privata della forza propulsiva del vento, oscillava pigramente sui flutti. Griffin guardò le vele che si afflosciavano, poi controllò l'ora e imprecò contro la propria stupidità. Non aveva messo in preventivo questa circostanza, non aveva previsto quella calma. Aveva tracciato la rotta e fatto il programma basandosi sull'idea che soffiasse costantemente un vento gagliardo da sud. Ingenuo. Sciocco. Se avesse avuto un po' di buon senso, non avrebbe giocato d'azzardo con le previsioni del tempo. Avevano già diverse ore di ritardo sulla tabella, dopo avere sprecato tutta la mattina nel porto militare ad attendere che un funzionario doganale finisse di dimostrare a un apprendista il modo giusto di perquisire una Hatteras di quindici metri alla ricerca di merce di contrabbando. A quell'ora avrebbero dovuto essere in alto mare. Invece, voltandosi a guardare indietro, vedeva oltre lo specchio di poppa l'alta boa di segnalazione del canale al fondo dell'Eastern Blue Cut, punto bianco che scintillava nella luce obliqua del sole al tramonto. Dal basso gli giunse il sibilo della teiera, e poco dopo sua moglie uscì at-
traverso il portello con una tazza di tè. La ringraziò con un sorriso e, come se quel pensiero gli si affacciasse all'improvviso nella mente, disse: «Sei uno schianto». Elizabeth, stupita, ricambiò il sorriso. «Anche tu non sei tanto male.» «Dico sul serio. Sei mesi su una barca, non so proprio come fai.» «È un'illusione.» Si chinò e gli diede un bacio sulla testa. «I tuoi criteri di valutazione hanno avuto un cedimento.» «Hai anche un buon odore.» Sapone, aria e pelle. Le guardò le gambe, del colore del legno di rovere oliato: non avevano una smagliatura né una vena varicosa che tradissero l'età o le due gravidanze di una quindicina d'anni addietro. Si vedeva solo la cicatrice bianca di quando si era sbucciata uno stinco contro un pilastro di cemento, quella notte nelle Exuma. Le guardò i piedi, abbronzati, nodosi e pieni di calli. Amava quei piedi. «Potrò mettermi ancora le scarpe?» disse lei. «Forse mi troverò un impiego alla Banca Fiduciaria dei Piedi Scalzi.» «Se mai ci arriveremo.» Alzò il braccio a indicare la randa immobile. «Il vento girerà di nuovo.» «Forse, ma il tempo stringe.» Si chinò verso il cruscotto per avviare il motore. «Non farlo.» «Credi che mi faccia piacere? Quel tale sarà sul molo lunedì mattina, e faremo bene a esserci anche noi.» «Un secondo.» Alzò una mano per fermarlo. «Lasciami fare un controllo.» Griffin alzò le spalle e si raddrizzò. Elizabeth scese sottocoperta. Si udì una raffica di scariche mentre lei sintonizzava la radio, poi la sua voce che parlava nel microfono. «Radio del porto di Bermuda, radio del porto di Bermuda, radio del porto di Bermuda... qui lo yacht Severance.» «Yacht Severance, qui radio porto Bermuda...» rispose una voce quindici miglia a sud. «Sintonizzatevi su seiotto, per favore, e restate in ascolto.» Griffin percepì un piccolo sciabordio a poppa. Si sporse a guardare e vide una mezza dozzina di Bermuda chubs, brulicanti in un banco di sargassi gialli, che si contendevano i piccoli gamberi e le altre creature rifugiatisi tra i talli e le vescicole galleggianti. Gli piacevano i sargassi, così come gli piacevano le procellarie, che gli parlavano di libertà; gli squali, che gli parlavano d'ordine e i delfini, che gli parlavano di Dio. I sargassi viaggiavano passivamente sull'acqua, spinti dal vento, portando cibo agli animali piccoli, che diventavano cibo per animali più grandi, e così via lungo la catena
alimentare. «Yacht Severance, qui radio porto Bermuda, parlate.» «Sì, Bermuda. Stiamo dirigendo a nord verso il Connecticut. Vorremmo le previsioni del tempo, passo.» «D'accordo, Severance. Barometro sette-otto-sei millibar, stabile. Vento di sud-ovest, velocità dieci a quindici nodi, con tendenza a orientarsi a nord-ovest. Mare forza 1-2 stanotte e domani, con venti nord-occidentali a quindici-venti nodi. Possibili piogge sparse in mare aperto. Passo.» «Molte grazie, Bermuda. Severance in ascolto su lunghezza sedici.» Elizabeth riapparve dal portello. «Spiacente», disse. «Anch'io.» «Non pensavamo che finisse così.» «No.» Ciò che sarebbe dovuto accadere, il modo in cui avevano immaginato il loro ritorno, era stato del tutto diverso. Avrebbero cavalcato un vento meridionale fino alla costa, doppiato Montauk Point con l'Isola dei Pescatori davanti a loro e, più in là, il porto di Stonington, avrebbero issato i guidoni, le fiamme e le bandiere di tutti i Paesi, gli yacht club e i porti turistici che avevano visitato in quel semestre. Appena avessero raggiunto il molo di Stonington, il vento avrebbe girato un poco verso est per consentire loro di sfilare trionfanti lungo il porto con il gran pavese al vento. I loro figli li avrebbero attesi sul molo, assieme alla madre di Elizabeth e alla sorella di Griffin con i suoi ragazzi. Avrebbero stappato una bottiglia di champagne, vuotato la barca di tutti i loro oggetti personali per consegnarla subito al broker incaricato di venderla. Un capitolo della loro vita sarebbe terminato, e avrebbe avuto inizio quello successivo. Con tutte le vele spiegate. «C'è ancora speranza», disse Griffin. «Il vento da nord-est non dura, in questo periodo dell'anno.» Fece una pausa. «Bisogna che sia così, altrimenti finiremo il carburante e saremo costretti ad andare alla deriva fino a morire di vecchiaia.» Girò la chiave e premette il bottone di avviamento del motore. Il diesel a quattro cilindri non era particolarmente rumoroso, ma gli sembrò di avere messo in moto una locomotiva. Non era neppure molto sporco, ma per lui puzzava come il centro di Manhattan. «Dio, come lo odio!» disse Elizabeth. «È una macchina. Come puoi odiare una macchina? Non mi piace, ma non riesco a odiarla. Non si può odiare una macchina.»
«Io sì. Sono una persona splendida, lo hai detto tu. Mi appello alla Costituzione, dove dice: 'Le persone splendide possono odiare tutto ciò che vogliono'.» Poi se ne andò ridendo a prora per ammainare il fiocco. «Cerca di vedere il lato buono!» le gridò lui. «Abbiamo veleggiato abbastanza a lungo. Adesso andremo un poco a motore.» «Non voglio vedere il lato buono. Voglio essere arrabbiata, delusa e coccolata. E gradirei che fossi arrabbiato anche tu.» «E per che cosa?» Quando vide che il fiocco era ammainato, Griffin inserì la marcia e puntò il tagliamare verso la brezza, che aveva cominciato a rinfrescarsi. La superficie, prima liscia come l'olio, adesso era screziata da piccole onde. «Sono in compagnia della donna più bella e più pazza in tutto l'Atlantico, ho una barca che mi renderà quanto basta per dedicare un anno intero alla ricerca di un impiego accettabile, e sto cominciando ad arraparmi. Che cos'altro può desiderare un uomo?» Elizabeth si diresse a poppa per occuparsi della vela maestra. «È questa la conclusione, non è vero? Tu hai voglia di scopare.» «Vero», confermò Griffin. Si alzò ad aiutarla con la grande vela, manovrando la ruota con il piede per tenere la prua controvento. «Però c'è un piccolo problema.» «E sarebbe?» «Qualcuno deve governare la barca». «Inserisci il pilota automatico.» «Magnifica idea... se ce l'avessimo.» «Già. Ho creduto che bastasse pronunciare le parole per farlo materializzare.» «Sei un po' suonata», disse lui. «Affascinante ma picchiata in testa.» Si chinò tra le pieghe della vela e la baciò. Poi prese un pezzo di cavo elasticizzato per assicurare la vela. Il suo piede scivolò via dalla ruota, e la barca s'intraversò. Un'onda colpì il giardinetto di dritta spruzzando d'acqua fredda le gambe di Elizabeth, che mandò un'imprecazione. «Accidenti!» esclamò. «Sei riuscito ad affogare il mio ardore romantico.» Griffin girò la ruota a dritta e riportò la prua in rotta controvento. Adesso la barca fendeva con il tagliamare le onde brevi e nervose, e il suo movimento non era piacevole. «Peccato che non abbiamo un bel vento di poppa», disse l'uomo. «Bene. Lieta di sapere che hai sempre il cuore al posto giusto», rispose Elizabeth. Gli sorrise e scese ancheggiando sottocoperta.
Griffin guardò a ovest. Il sole aveva raggiunto l'orizzonte e si stava schiacciando in una palla arancione prima di scivolare oltre i confini del mondo. La prua scomparve sotto un'ondata, si rialzò e ricadde pesantemente sull'onda successiva. La schiuma volò nell'aria come pioggia fredda. Griffin rabbrividì; stava per chiamare Elizabeth e chiederle l'impermeabile di tela cerata quando lei ricomparve con indosso il suo e portando una tazza di caffè. «Lasciamela governare per un poco», gli disse. «Tu intanto puoi dormire.» «Sto benissimo.» «Lo so, ma se il vento non gira, la notte rischia di essere lunga.» Passò accanto alla ruota e prese posto sul sedile accanto a quello del marito. «Okay», disse lui. Staccò una mano di lei dalla ruota e la baciò. «Perché l'hai fatto?» «Cambio di comandante. Vecchia usanza marinara. Bacia sempre la mano di chi ti dà il cambio.» «Mi piace.» Lui si alzò in piedi, si chinò sotto il boma e andò al portello. «Svegliami se cambia il mare.» Giunto sottocoperta, Griffin consultò il loran, riportò i dati sulla tavola di carteggio a sospensione cardanica nella cabina e segnò la posizione. Usò un righello per tracciare una linea dalla loro posizione a punta Montauk, poi confrontò la linea con la rosa dei venti sulla carta. Sporse la testa dal portello e comunicò: «La rotta tre-tre-zero dovrebbe andare bene». Negli ultimi cinque minuti il cielo si era oscurato, tanto che la luce della chiesuola gettava un riverbero rossastro sotto il mento di Elizabeth. Il suo impermeabile giallo aveva riflessi arancione, e i capelli ramati scintillavano come carboni ardenti. «Sei veramente bella», disse Griffin, poi rientrò sottocoperta e si diresse al WC. Mentre orinava, teneva l'orecchio teso per ascoltare il motore e i suoni prodotti dall'acqua contro lo scafo di legno. Stava all'erta per individuare eventuali rumori insoliti, ma non ne udì. Andò a proravia, sfilò camicia e pantaloni e si infilò in una delle due cuccette della cabina di prua. Quando erano in porto dormivano nella cabina di poppa, ma in mare era meglio riposare in quella di prora per non perdere il contatto con il movimento della barca e captare i cambiamenti delle condizioni del vento o del mare.
Il guanciale aveva l'odore di Elizabeth. Griffin si addormentò. Il motore ronzava, gli iniettori pompavano carburante nei cilindri, i pistoni lo comprimevano e migliaia di esplosioni al minuto facevano girare l'albero di trasmissione cui era attaccata l'elica, che spingeva la barca verso nord, nella notte. Una pompa mandava l'acqua di mare in un condotto nello scafo, la faceva passare attraverso il motore, che in tal modo si raffreddava, e finiva poi a poppa. Qui veniva espulsa in mare insieme ai gas di scarico del motore. Il motore aveva meno di settecento ore di funzionamento quando avevano acquistato lo yacht: quindi non era vecchio, e Griffin lo aveva sempre trattato come un figlio prediletto. Per contro, era sempre più difficile fare la manutenzione al tubo di scarico che usciva dal vano motore a poppa e correva vicinissimo all'albero di trasmissione sotto il pagliolo della cabina di poppa. Quel tubo era fatto di ottimo acciaio, tuttavia, in mille e più ore di funzionamento del motore, aveva trasportato tonnellate di acqua salata e di gas corrosivi. Quando il motore era stato inattivo durante la navigazione a vela o le soste in porto, i residui alcalini e le molecole dei composti chimici corrosivi erano rimasti nel tubo e avevano cominciato a intaccare l'acciaio. Il minuscolo foro nel tubo di scarico forse c'era già da parecchie settimane. Avevano avuto venti favorevoli lungo tutta la rotta dalle Bahamas, usando il motore solo per entrare e uscire dal porto di St. George; l'ordinario pompaggio delle sentine avrebbe dovuto espellere tutta l'acqua in eccesso. Ma adesso il motore era continuamente in funzione e la pompa dello scambiatore di calore girava a tempo pieno. La barca si avventava contro il mare come un ariete, scuotendo con violenza il proprio interno, invece di beccheggiare dolcemente con le onde: di conseguenza, il foro si allargava. Squame di metallo arrugginito si staccavano dai bordi del foro, che ben presto raggiunse il diametro di una matita. L'acqua che prima aveva gocciolato nelle sentine adesso scorreva a fiotti. Elizabeth comandava la ruota del timone con i piedi e stava appoggiata ai cuscini del posto di guida. Del giorno, ormai, non restava altro che una scheggia violetta a ovest sul confine del mondo. Dalla parte opposta stava sorgendo una falce di luna, che tracciava sulla superficie del mare una stri-
scia dorata. Nessun'anima, pensò Elizabeth guardando la luna. Era un concetto arabo - l'aveva letto in The Discoverers, uno dei tanti libri che da anni desiderava leggere e che aveva finalmente potuto divorare negli ultimi sei mesi; le era piaciuto. La luna nuova era un vascello celeste che partiva vuoto per un viaggio di un mese a raccogliere le anime dei trapassati. S'ingrossava con il passare dei giorni finché, pieno zeppo di anime, spariva per depositare il suo carico in paradiso. Poi la nave ricompariva, vuota, e salpava per compiere il medesimo viaggio L'idea della nave carica di anime piaceva a Elizabeth soprattutto perché, per la prima volta nella sua vita, cominciava a comprendere che cos'era l'anima. Non aveva una mente profonda, aveva sempre deviato i discorsi ogni volta che li vedeva diventare troppo seri. E poi, lei e Howard erano stati troppo occupati a vivere per fermarsi a meditare. Avevano avuto una carriera gratificante, lui alla Shearson Lehman Brothers, lei presso la Chemical Bank. Gli anni '80 erano stati il periodo in cui avevano potuto comperare i «giocattoli»: un appartamento da un milione di dollari, una casa da mezzo milione a Stonington, due automobili con i sedili riscaldati e i portacenere dei sedili posteriori illuminati. Il denaro entrava e usciva: ventimila dollari l'anno per fare studiare i figli nelle scuole private, altri quindicimila per andare al ristorante un paio di volte la settimana, ventimila per le vacanze, cinquantamila per vitto, manutenzione e spese generali. Ventimila qui e ventimila là - era una delle loro battute di spirito - e come niente ci si trovava a parlare di milioni. Era una battuta di spirito, perché il denaro non smetteva di affluire. Ma un giorno il rubinetto si chiuse. Griffin fu licenziato. Una settimana dopo fu offerta a Elizabeth la scelta tra il licenziamento e il tempo parziale a metà stipendio. La liquidazione di Griffin avrebbe dato loro di che vivere per un anno, senza troppe follie, e intanto lui avrebbe cercato un altro lavoro. Ma un nuovo impiego (sicuramente a stipendio inferiore) voleva dire camminare di nuovo in salita, arrancando dietro il branco. In alternativa, Griffin poteva prendere i soldi della liquidazione, comperarsi una barca e vedere se, nella realtà, il mondo era qualcosa di più del confit de canard e dello champagne di marca. Tennero la casa di Stonington, vendettero l'appartamento di New York e misero il ricavato in un fondo fiduciario per finanziare gli studi dei ragazzi.
Erano liberi; con la libertà vennero l'eccitazione e la paura e - giorno dopo giorno, quasi minuto per minuto - la scoperta. Di se stessi, l'uno dell'altra, di ciò che era importante e di ciò che era superfluo. Avrebbe potuto rivelarsi un disastro: due persone confinate ventiquattr'ore su ventiquattro in uno spazio largo tre metri e sessanta e lungo dodici. Le prime due settimane furono segnate dall'incertezza. Si urtavano a ogni piè sospinto e litigavano per dei nonnulla. Ma dopo due settimane ci avevano fatto la mano: di conseguenza la fiducia, l'autostima e l'apprezzamento per le forze dell'altro si erano rinsaldati. S'innamorarono una seconda volta e, fatto non meno importante, si riscoprirono e si piacquero di nuovo. Non avevano la minima idea di ciò che avrebbero fatto una volta tornati a casa. Forse Griffin avrebbe potuto cercarsi un altro lavoro in Borsa benché, da quanto leggevano - per lo più nell'edizione caraibica di Time -, sembrasse che la situazione finanziaria non fosse rosea. Oppure avrebbe potuto trovarsi un posto in un cantiere di rimessaggio. Gli piaceva il lavoro manuale, era disposto anche a pitturare gli scafi o a rammendare le vele. E lei? Forse avrebbe fatto l'istruttrice di vela, o cercato un incarico in un gruppo ambientalista. Era stata orripilata dallo scempio che aveva visto nelle scogliere delle Bahamas, dalla distruzione della fauna e della flora locali nelle isole Sottovento e Sopravento. Durante le immersioni avevano scorto squallidi fondali cosparsi di gusci di strombi giganti sbiancati dal mare e di carapaci spezzati di aragoste. Navigando da un'isola all'altra avevano visto l'ambiente marino depauperato e distrutto. Avendo il tempo di osservare e di riflettere, avevano finito per capire esattamente quella specie di circolo vizioso: povertà produce ignoranza che genera povertà da cui deriva ancora ignoranza. Elizabeth ne aveva concluso che forse avrebbe potuto fare qualcosa di utile, dare un contributo come ricercatrice o come esponente di un gruppo. Aveva ancora contatti con molte delle persone che aveva conosciuto alla Chemical. Avrebbero trovato qualcosa. E qualunque cosa sarebbe stata meglio di ciò che avevano avuto prima, perché loro erano profondamente cambiati. Era stato un viaggio magnifico, senza nemmeno un motivo di rimpianto. Ma forse non era proprio così. Un rimpianto c'era: il fatto di aver dovuto usare il motore. Lei odiava quel rombo implacabile, quel gorgoglio assurdo ogni volta che il tubo di scappamento entrava in acqua o ne usciva, il puzzo abominevole dei gas di scarico che inspiegabilmente penetrava nel
posto di guida. Il foro nel tubo di scarico si stava allargando ulteriormente, man mano che se ne staccavano scaglie di metallo consunto e arrugginito. Ogni beccheggio della barca, ogni rollio rendevano instabili sia lo scafo sia tutto ciò che esso conteneva, mettendo così il materiale sotto sforzo e aggravandone le debolezze. L'occhio non avrebbe potuto seguire l'allargamento del foro ma ora, mentre lo yacht avanzava a strappi tra due onde brevi, il tubo di scarico subì una leggera torsione. Si curvò, si lacerò, e a quel punto tutta l'acqua mandata dalla pompa di raffreddamento si riversò nella sentina. E poiché il tubo era rotto, quando la poppa si abbassava e l'uscita dello scarico restava sommersa, non c'era nulla a impedire che l'acqua di mare entrasse nell'imbarcazione. Elizabeth aveva sonno. Il movimento della barca le risultava terribilmente soporifero: abbastanza discontinuo per essere sgradevole, ma non abbastanza violento per costringerla a stare all'erta. Forse avrebbe dovuto svegliare Griffin. Guardò l'ora. No. Dormiva solo da un'ora e mezzo. Meglio concedergli un'altra mezz'ora. Sarebbe stato riposato, e lei avrebbe potuto a sua volta riposare un poco. Si schiaffeggiò e scrollò la testa. Decise di cantare. Impossibile addormentarsi cantando: era dimostrato scientificamente. Cantò i primi versi di Che farai nel resto dei tuoi giorni? Un'ondata scavalcò la poppa e bagnò Elizabeth da capo a piedi. Poco male, l'acqua non era fredda. Sarebbe... Un'ondata? Come può un'ondata passare sopra la poppa quando la barca va incontro all'onda? Si voltò a guardare. La poppa era appena dieci centimetri sopra il pelo dell'acqua. La vide abbassarsi di nuovo; altra acqua inondò la tolda e si riversò nel pozzetto e sui cuscini. L'adrenalina affluì nella sua schiena e nelle sue braccia. Sedette quieta per un attimo, imponendosi di stare calma e di mettere insieme le informazioni. Il fastidioso gorgoglio dello scarico era cessato. I gas non aleggiavano più sopra la poppa. Il mare sui due lati della barca sembrava più alto. Il movimento dello yacht era pigro, dondolante, greve a poppa.
Si sporse in avanti oltre la ruota del timone, sollevò un coperchio di plastica e azionò l'interruttore che attivava la pompa di sentina. Udì avviarsi il motore elettrico, ma il suono non era convincente. Sembrava lontano, fioco e faticoso. «Howard!» gridò. Nessuna risposta. «Howard!» Un pezzo di cavo elasticizzato era avvolto sul boma; Elizabeth ne agganciò i due capi a due razze della ruota, che assicurò in posizione, poi scese in cabina. I gas di scarico l'accecarono e le fecero bruciare gli occhi. Salivano dal pavimento. «Howard!» Guardò nella cabina di poppa. Sopra il tappeto c'erano quindici centimetri d'acqua. Griffin era immerso in un sogno cupo e pieno di tristi presagi quando udì gridare il suo nome da quella che pareva un'enorme distanza. Si sforzò di svegliarsi perché sentiva che qualcosa andava male, qualcosa che riguardava lui; inoltre aveva mal di testa, un cattivo sapore in bocca e si sentiva come drogato. «Che succede?» domandò, mentre si alzava a sedere con le gambe penzoloni dalla cuccetta. Guardò verso poppa e vide, attraverso una foschia azzurrognola, Elizabeth correre verso di lui gridando. Che cosa diceva? «Stiamo affondando!» «Figuriamoci...» Sbatté le palpebre e scosse la testa. Adesso sentiva l'odore dei gas di scarico, ne riconosceva il sapore. Elizabeth alzò il tappeto nella cabina principale e sollevò il portello sopra il vano motore. Griffin era in piedi dietro di lei. Videro che il motore era a metà sommerso. Le batterie erano ancora asciutte, ma l'acqua continuava a salire. Griffin udì lo sciabordio nella cabina di poppa, vide l'acqua e seppe che cosa era accaduto. «Spegni il motore», disse. «Cosa?» «Spegnilo subito!» Elizabeth trovò la leva ed eseguì il comando. Il borbottio tacque, e anche la pompa di raffreddamento. Aveva smesso di pompare acqua a bordo; udirono di nuovo il rassicurante ronzio elettrico della pompa di sentina. Ma c'era ancora una ferita aperta nello specchio di poppa.
Griffin prese dal lavello un paio di strofinacci, staccò una camicia da un gancio e li diede a Elizabeth. «Spingili nel tubo di scarico, più stretti che puoi.» Lei corse in coperta attraverso il portello. Griffin frugò in un cassetto e trovò una chiave inglese. S'inginocchiò sulla coperta e regolò la chiave su uno dei bulloni che fissavano le batterie ai loro supporti. Se fosse riuscito a togliere le batterie dal vano motore, sollevarle di mezzo metro, anche solo di trenta centimetri, avrebbe potuto dare alla pompa di sentina il tempo di impedire all'acqua di salire. L'idea di spostare le batterie gli era venuta leggendo un articolo su una rivista di nautica in cui si sottolineava il pericolo per le barche moderne di dipendere troppo dalle sofisticate apparecchiature elettroniche. Però il cambiamento avrebbe implicato una ristrutturazione che andava oltre le sue capacità e pertanto avrebbe richiesto il ricorso alla mano d'opera isolana, provocando ulteriore ritardo. Ritardo su che cosa? Imprecò e spinse sul primo bullone. Era corroso, e la chiave non fece presa. La barca, non più governata, s'inclinò e prese a rollare in modo violento e disordinato. La porta di un armadietto si aprì, rovesciando una pila di piatti che si frantumarono sul pavimento. Griffin strinse la chiave e forzò sul manico. Il bullone si mosse. Riuscì a imprimergli mezzo giro, ma poi l'impugnatura urtò contro la paratia. Ritirò la chiave, la inserì e girò di nuovo. Intanto l'acqua saliva. Elizabeth era coricata a faccia in giù sullo specchio di poppa, a gambe divaricate, con i piedi che facevano opposizione al rollio. Teneva un asciugamano appallottolato e tastava lo scafo sotto il pelo dell'acqua alla ricerca dell'apertura di cinque centimetri del tubo di scarico. Arrivava a malapena a toccarla con le punte delle dita; tentò di introdurre l'asciugamano, ma il foro era troppo grande e la stoffa non bastava a tapparlo. Scivolò fuori, e l'acqua lo portò via. Udì un rumore nuovo, e si fermò per capire di che si trattava. Era il suono del silenzio. La pompa di sentina si era fermata. Poi sentì dal basso la voce di Griffin. «Radio porto Bermuda... qui yacht Severance... Mayday, Mayday, Mayday... stiamo affondando... la nostra posizione è... Crepa!» Elizabeth si sfilò la camicia di sotto lo stomaco, l'appallottolò con il secondo asciugamano e cercò di nuovo la falla nel tubo.
Lo yacht si sollevò di prua imbarcando acqua da sopra la poppa, ed Elizabeth scivolò. I piedi persero l'appoggio e lei cadde agitando le braccia. Una mano l'afferrò e la trattenne. La voce di Griffin disse: «Non preoccuparti». «Non preoccuparti? Stiamo affondando!» «Non più.» La sua voce era piatta. «Siamo già affondati.» «No, io non...» «Ascolta», disse lui. La strinse a sé, con la testa contro il suo petto, e le carezzò i capelli. «Le batterie sono andate. La pompa è andata. Anche la radio non funziona più. La cosa da fare è toglierci di qua prima che la barca affondi. Okay?» Lei alzò gli occhi verso di lui e annuì. «Bene.» La baciò sui capelli. «Prendi l'EPIRB.» Griffin andò a prora e tolse la copertura al gommone attaccato sopra la tuga. Lo verificò per accertarsi che tutti i tubolari fossero pieni d'aria, controllò la scatola impermeabilizzata avvitata al pagliolo per accertare che nessuno, nei porti delle isole, avesse rubato i bengala, le canne da pesca o le scatolette di prodotti alimentari. Si toccò la cintura per assicurarsi che il coltello svizzero multiuso fosse nel suo fodero di pelle. Un contenitore in plastica da venti litri pieno d'acqua dolce era fissato alla tuga dello yacht. Lui lo slegò e lo depose nel gommone. Meditò se andare a prendere il piccolo motore fuoribordo sistemato a prua, poi ci rinunciò. Non voleva rischiare di trovarsi sottocoperta quando la barca fosse affondata. Mentre scioglieva l'ultimo legaccio del canotto, Griffin provò una strana soddisfazione: non era in preda al panico. Stava agendo esattamente come doveva: con metodo, razionalmente, senza trascurare nulla. Continua così, si disse. Continua così. Forse hai ancora una possibilità. Elizabeth venne a prua. Portava un sacchetto di plastica contenente i documenti della barca, i passaporti e i contanti. Nell'altra mano aveva l'EPIRB: una scatola rossa coperta di polistirene giallo, con antenna telescopica. Adesso il ponte era sommerso, e fu facile per loro alzare il gommone sopra la battagliola e gettarlo in mare. Lui lo agguantò con una mano, e con l'altra sostenne Elizabeth mentre saltava a bordo. Quando la vide seduta a prua, saltò a sua volta dal ponte dello yacht alla poppa del gommone. Sedette, fece scattare l'interruttore dell'EPIRB, estrasse l'antenna e fissò l'apparecchio con un elastico a uno dei tubolari.
Il canotto era leggero; il frizzante vento di nord-ovest lo allontanò rapidamente dallo yacht in avaria. Griffin prese la mano di Elizabeth; attesero in silenzio. Lo yacht era una sagoma nera contro le stelle. La poppa continuava ad affondare, scomparendo lentamente. Poi all'improvviso la prua si alzò come un cavallo che s'impenna e scivolò all'indietro nell'abisso. Bolle enormi affiorarono ed esplosero con rumori soffocati. «Gesù», mormorò Griffin. 3. Stava all'erta da un po' di tempo, e i suoi sensori recettivi elaboravano segnali di pericolo in aumento. Qualcosa di grosso si stava avvicinando in alto, da dove venivano sempre i suoi nemici. Sentiva muovere grandi quantità d'acqua, avvertiva le onde di pressione. Si preparò a difendersi. Inneschi chimici scattarono in tutto il grande corpo, mandando carburante alle masse di carne. I cromatofori si attivarono nei tessuti, il cui colore cambiò dal marrone rossiccio a un rosso più chiaro e brillante - non rosso sangue, perché il forte contenuto di emocianina rendeva verde il sangue della bestia - ma un rosso previsto dalla natura a scopi intimidatori oltre che mimetici. Si ritrasse piegando le due braccia più lunghe simili a staffili, poi si voltò nella direzione da cui veniva il nemico. Essendo incapace di provare paura, non prese in considerazione la possibilità della fuga. Però era troppo confusa, perché i segnali del nemico erano inconsueti. Non c'era in essi accelerazione né aggressione. In particolare, mancavano tutti i suoni ordinari di scandaglio acustico a distanza: nessun ticchettio, nessuna emissione di impulsi. La cosa in arrivo, qualunque fosse, dapprima si spostò a casaccio, poi si diresse senza esitazione verso il basso. Entrò nell'abisso e proseguì, emettendo rumori strani. Scricchiolii e scoppi. Suoni soffocati. Il colore della creatura cambiò di nuovo, le sue braccia si distesero, allungandosi per accompagnare il movimento dell'acqua. Andando alla deriva era salita a circa trenta metri dalla superficie del mare, e i suoi occhi captarono il luccichio intermittente delle stelle. Poiché
la luce spesso le segnalava l'approssimarsi delle prede, la creatura iniziò a salire verso la fonte luminosa. Quando fu a sei metri dalla superficie, e il suo movimento cominciò a risentire degli effetti delle onde, percepì qualche cosa di nuovo: un disturbo, un'interruzione nel flusso del mare, una cosa che muoveva e non muoveva, che flottava con la corrente, nell'acqua ma non parte di essa. Adesso due impulsi spingevano la creatura, quello di uccidere e quello di nutrirsi. La fame prevaleva, una fame che diventava sempre più assillante dopo la vana ricerca di prede nel profondo. Un tempo la fame era un semplice suggerimento, un invito a mangiare, cui aveva risposto nel modo ordinario, nutrendosi a volontà. Ma adesso il cibo era diventato oggetto di ricerca, perché le prede si erano fatte scarse. L'animale era di nuovo all'erta: non per difendersi, ma per attaccare. 4. Non avevano parlato. Griffin aveva lanciato un bengala; poi si erano presi per mano guardando l'arco giallo e lo sprazzo di luce arancione contro il cielo nero. Avevano guardato di nuovo il punto in cui prima c'era stato lo yacht. Qualche relitto era passato davanti a loro - il cuscino di un sedile del posto di guida, un parabordo di gomma - ma adesso non c'era più nulla, nessuna traccia del fatto che la barca era esistita. Elizabeth sentiva che le mani di Griffin erano dure e rigide. Le prese tra le sue e domandò: «A che cosa pensi?» «Stavo recitando la vecchia filastrocca del 'se avessi...'» «Sarebbe a dire?» «Le solite cose: se fossimo partiti un giorno prima o un giorno dopo; se il vento non avesse girato, se non avessimo dovuto usare il motore...» S'interruppe; quando riprese a parlare la sua voce tradiva l'amarezza. «...se non fossi stato così maledettamente pigro, se fossi sceso sottocoperta a controllare quel tubo...» «Non fare così, Howard.» «No.» «Non è colpa di nessuno.» «Lo credo anch'io.» Aveva ragione Elizabeth. Anche se non l'aveva, ciò che lui stava facendo era inutile. Peggio che inutile. «Ehi!» esclamò Griffin in tono falsamente allegro. «Mi è venuta in men-
te una cosa. Ti ricordi di quando Roger ci ha fatto l'assicurazione? Ricordi che noi volevamo la polizza più economica possibile e lui rispose: 'No, oggi non si potrebbe ricostruire una barca di legno come questa per un importo così basso', e ci convinse a scegliere la polizza più cara? Rammenti?» «Credo di sì.» «Certo che sì. In sostanza, lo yacht è assicurato per quattrocentocinquantamila dollari. Non avremmo mai potuto ricavare una cifra simile dalla vendita.» Elizabeth sapeva che cosa lui stava facendo. Ne era contenta e stava per dire qualcosa, quando il gommone precipitò dalla cresta di un'onda in un avvallamento. Si stavano rovesciando. Lo sapeva e non c'era niente da fare per impedirlo. Le sfuggì un grido. Poi il gommone si stabilizzò, oscillando dolcemente sull'onda successiva. «Ehi!» disse Griffin. Si sporse verso di lei e le passò un braccio intorno alle spalle. «È tutto a posto. Andiamo bene.» «No», rispose lei con la testa contro il petto del marito. «Non andiamo bene affatto.» «Okay, non andiamo bene. Di che cosa hai paura?» «Di che cosa ho paura?» sbottò lei. «Siamo nel mezzo dell'oceano in piena notte su un gommone grande come un tappo di Coca-Cola... e mi domandi di che cosa ho paura? Di morire: non ti sembra legittimo?» «Morire di che cosa?» «Per amor di Dio, Howard...» «Dico sul serio. Parliamone.» «Non voglio parlarne.» «Hai qualcosa di meglio da fare? Via!» La baciò sulla testa. «Evochiamo i demoni e facciamoli fuori.» «Okay.» Elizabeth inspirò profondamente. «Squali. Chiamami fifona, se vuoi, ma ho il terrore degli squali.» «Gli squali. Okay. Possiamo scordarci degli squali.» «Forse tu puoi farlo.» «No, ascolta. L'acqua è fredda. Comunque, i giapponesi e i coreani li hanno pescati quasi tutti. Anche se un grosso squalo venisse vicino a noi, fintanto che resteremo nella barca non avremo l'aspetto né l'odore di ciò che è abituato a mangiare, non gli stuzzicheremo l'appetito. Che altro?»
«Metti il caso che venga una tempesta...» «Okay. Il maltempo. Non è un problema. Le previsioni sono buone. Non siamo nella stagione degli uragani. Se anche si alza un vento di nord-est, questo gommone è praticamente inaffondabile. Nel peggiore dei casi si può capovolgere. Se succederà, lo raddrizzeremo.» «E continueremo a vagare sull'oceano finché saremo morti di fame.» «Non succederà.» Griffin era compiaciuto del fatto che, quanto più parlava, tanto più riusciva a esorcizzare le proprie paure. «Primo, il vento ci spinge indietro verso Bermuda. Secondo, tutti i giorni ci sono navi in uscita e in entrata. Tre, nel peggiore dei casi, lunedì pomeriggio i ragazzi e quel tale, non ricordo il nome, dell'agenzia denunceranno la nostra scomparsa, e la radio del porto di Bermuda sa tutto di noi. Ma non si arriverà a questo. Il nostro giocattolo sta dando l'anima per chiamare soccorsi.» Batté la mano sull'EPIRB. «Il primo aereo che passa qui sopra farà accorrere 'i nostri'. Forse l'ha già fatto.» Elizabeth tacque per un momento, poi disse: «Ci credi davvero?» «Sicuro che ci credo.» «E non hai paura?» L'abbracciò. «Certo che ho paura», ammise. «Bene.» «Ma se non fai qualcosa della tua paura - se non la mandi via con le chiacchiere, se non la trasformi - ti mangia viva.» Lei posò la testa sul petto di lui e tirò su con il naso. Sentì il sale e il sudore... e il conforto. Il profumo di vent'anni della sua vita. «Dunque...» disse. «Tu hai voglia di...» «Esatto!» rispose lui ridendo. «Ci capovolgeremo in un trasporto di passione.» Restarono così, stretti l'uno all'altra, mentre il gommone scarrocciava lentamente a sud spinto dalla brezza. In alto le stelle sembravano danzare in folle unisono, ruotando e abbassandosi con il movimento della barca, ma sempre allontanandosi inesorabilmente a ovest. Poco dopo, Griffin credette che Elizabeth si fosse addormentata, ma sentì le lacrime sul proprio petto. «Ehi!» disse. «Che cosa c'è?» «Caroline», rispose lei. «È così giovane...» «Non piangere, tesoro. Ti prego...» «Non posso...» «Cerca di dormire.»
«Dormire!?» «Okay. Giochiamo a 'Io penso...'» Lei sospirò. «Va bene. Io penso a una persona famosa il cui nome comincia con 'M'.» «'M'. Vediamo. È... francese?» Elizabeth sussultò, raddrizzandosi sul sedile. Si voltò verso la prua. «Hai sentito?» «Sentito cosa?» «Quel rumore. Qualcosa che raspava.» «Non ho sentito niente.» «Come delle unghie.» «Dove?» Elizabeth strisciò avanti e toccò il tubolare a prua. «Proprio qui. Come di unghie che grattavano contro il gommone.» «Qualche cosa della barca, forse. Non pensarci più. Sarà stato un pezzo di legno. Nell'acqua c'è un po' di tutto. O forse un pesce volante. A volte vengono a sbattere dritti contro la barca.» «Che cos'è questo odore?» «Odore?» Griffin inspirò profondamente, e lo sentì anche lui. «Ammoniaca.» «Così mi è sembrato...» «Qualcosa proveniente dalla barca.» «Per esempio?» «Come posso saperlo? Ne avevamo una bottiglia sotto il lavello... O qualcosa che si è rovesciato qui dentro.» Si voltò verso poppa e aprì la scatola rivestita di gomma. Era troppo buio per vederci, per cui si chinò ad annusarla. Udì un rumore simile a un grugnito, mentre il gommone sobbalzava e sbandava lateralmente. Perse l'equilibrio, le lattine nella scatola sbatterono l'una contro l'altra, e le tavole del pagliolo sotto di lui scricchiolarono e stridettero contro i tubolari. Udì dei rumori indistinti in acqua... forse il fondo del canotto che sbatteva contro il mare agitato. «Ehi!» Si raddrizzò afferrandosi alla cima tientibene su ciascun lato del gommone. «Attenta!» Dalla scatola non proveniva alcun odore strano. La richiuse. «Nulla», esclamò Griffin. Però l'odore di ammoniaca si era fatto più forte. Si voltò a guardare verso prua. «Non so che cosa...» Elizabeth non c'era più.
Sparita. Semplicemente... sparita. Per una frazione di secondo credette di essere impazzito, in preda a un'allucinazione, che niente di tutto ciò stesse accadendo davvero, che non fosse mai accaduto, che presto si sarebbe risvegliato in un'ospedale dopo un mese di coma in seguito a un incidente d'auto, un fulmine o perché un pezzo di cornicione gli era caduto sulla testa. La chiamò. «Elizabeth!» La parola fu portata via dalla brezza. Chiamò di nuovo. Sedette, trasse un lungo respiro e chiuse gli occhi. Si sentiva stordito, provava nausea, e le orecchie gli pulsavano. Un momento dopo aprì gli occhi aspettandosi di vederla seduta a prora a guardarlo con aria interrogativa, come volesse accertarsi che suo marito non fosse improvvisamente diventato pazzo. Era ancora solo. Si mise in ginocchio e percorse incespicando tutto il canotto sperando o piuttosto immaginando - che fosse caduta in mare e si tenesse aggrappata a un'ansa della cima tientibene che correva sul lato esterno. No. Tornò a sedersi. Okay, pensò. Esaminiamo la cosa in modo razionale. Quali sono le possibilità? È saltata in acqua. All'improvviso è uscita di senno e ha deciso di nuotare fino a riva. O di suicidarsi. O... o cosa? È stata rapita dai terroristi della nebulosa di Andromeda? Gridò ancora, più e più volte, il suo nome. Udì un rumore strusciante, sentì qualcosa toccare la chiglia di gomma sotto le sue natiche. Ecco dov'era! Sotto il gommone! Caduta in mare, doveva essersi impigliata, forse in un relitto dello yacht, e adesso era sotto e si dibatteva per venir fuori a respirare. Si sporse dal bordo e allungò le braccia sotto lo scafo cercando i capelli, un piede, l'impermeabile... qualunque cosa. Udì di nuovo il rumore raschiante dietro di sé. Tirò su il braccio, si spinse al fondo del canotto e guardò avanti. Nella luce grigio-giallastra dello spicchio di luna vide qualcosa muoversi davanti al gommone. Sembrava che artigliasse il canotto, che si agitasse per salire a bordo. Una mano. Doveva essere una mano. Elizabeth si era liberata dal groviglio e, semiaffogata ed esausta, tentava di salire.
Si slanciò avanti e si sporse in fuori. Quando le sue dita furono a pochi centimetri dalla cosa - tanto vicino che poté sentire il freddo che essa irradiava - si rese conto che non era una mano, che non era nulla di umano. Era viscida e ondeggiante, un oggetto estraneo che veniva verso di lui, che cercava di prenderlo. Si raddrizzò arretrando precipitosamente. Scivolò e cadde. Lo spostamento del peso fece inclinare il gommone, la cosa scomparve e Griffin si sentì al sicuro per un attimo. Poi, terrorizzato, la vide riapparire e rimontare adagio finché fu interamente sopra i tubolari. Si raddrizzò, si allargò a ventaglio fino a prendere l'aspetto - così gli sembrò - di un cobra gigantesco. La superficie del corpo era cosparsa di dischetti, ognuno palpitante di vita propria, grondanti acqua simile a una schifosa saliva. Griffin urlò. Non parole, bestemmie, imprecazioni o preghiere, solo un urlo viscerale di terrore, di protesta e d'incredulità. Ma la cosa continuava ad avanzare, comprimendosi in una massa conica e scivolando verso di lui, usando, a quanto pareva, come ambulacri i propri dischetti sussultanti; ogni volta che uno di essi toccava la gomma produceva un suono raschiante, come se fosse munito di artigli. Continuò a venire avanti. Non esitò, non si fermò a esplorare. Avanzò come se sapesse di avere trovato ciò che cercava. Gli occhi di Griffin si posarono sul remo del canotto, infilato affrancato alla scalmiera sul lato di dritta. Lo afferrò impugnandolo come una mazza da baseball, l'alzò sopra la testa e aspettò di vedere se la cosa si sarebbe avvicinata di più. Si mise in posizione molleggiando sulle ginocchia e, quando credette che fosse il momento giusto, gridò: «Figlio di puttana!» e abbatté con violenza il remo sulla creatura che avanzava. Non seppe mai se il colpo era andato a segno, o se la cosa aveva in qualche modo anticipato la sua mossa. Seppe solo che gli aveva strappato il remo di mano, lo aveva alzato, fatto a pezzi e gettato in mare. Adesso la cosa aveva una percezione precisa di dove si trovava Griffin, e avanzò più rapidamente. Griffin arretrò, inciampò e cadde di nuovo. Si spinse indietro, ancora indietro verso la prua, nello sforzo disperato di insinuarsi nello spazio ristretto tra i tubolari e il pagliolo sotto il tendalino. Portò la mano - gesto folle e ridicolo - al coltello multiuso e armeggiò per estrarlo dal fodero, mugolando una litania: «Oh Dio... oh Gesù... oh Dio... oh Gesù».
La cosa torreggiò sopra di lui spruzzandolo d'acqua. Ognuno dei dischetti si contorceva e vibrava come se fosse in vorace competizione con quelli accanto; nel centro di ciascuno c'era un uncino ricurvo che, nel riflesso della luce lunare, rassomigliava a una scimitarra. Fu l'unica cosa di cui Griffin fu consapevole, oltre al dolore. 5. Whip Darling uscì con la tazza di caffè sulla veranda per vedere come si presentava la giornata. Il sole stava per sorgere; si vedeva già un riverbero rosa nel cielo orientale, e l'ultima stella era svanita. Presto sarebbe comparso sull'orizzonte uno spicchio arancione, il cielo sarebbe impallidito e il vento avrebbe preso le proprie decisioni sul programma del giorno. Anche Whip avrebbe preso delle decisioni. Doveva uscire in mare nel tentativo di catturare qualcosa che gli rendesse un po' di dollari. Se invece fosse rimasto a terra, c'era sempre qualche lavoro di cui la barca aveva bisogno. Durante la notte il vento era caduto. Quando, al crepuscolo, Whip era tornato dal porto, le barche ancorate nella baia avevano la prua rivolta a sud. Adesso le prue erano tutte allineate verso nord-est. Però era un vento senza vigore; poco più di una leggera brezza. Se fosse stato appena un poco più debole, le barche si sarebbero orientate con il filo della corrente. Vide un movimento nella baia, poi un altro, e udì un suono palpitante: roba piccola, un branco di pesciolini che guizzavano sopra la superficie cristallina per salvarsi dagli inseguitori: sgombri o carangidi voraci che finivano la perlustrazione del primo mattino. Sgombri, decise, vista la forza degli spruzzi e l'inesorabilità della caccia. Gli piaceva quell'ora del giorno, prima che cominciassero il marasma del traffico nell'isola di Somerset, il rombo delle imbarcazioni del giro turistico nella baia e tutti gli altri rumori prodotti dall'umanità. Era un'ora di pace e di promesse, in cui guardava le acque e lasciava che la sua memoria si soffermasse su ciò che era stato, e l'immaginazione indugiasse su ciò che poteva ancora accadere. La porta a zanzariera si aprì e sua moglie Charlotte - scalza, con la camicia da notte estiva di cotone che lasciava intravedere l'ombra del corpo uscì con la sua tazza di tè. Come le altre mattine, stette in piedi accanto a Whip, tanto vicina che lui poté sentire l'odore del sonno nei suoi capelli.
Le mise un braccio intorno alla spalla. «Sgombri nella baia», disse. «Bene. La prima volta da... quanto?» «Sei settimane o più.» «Esci stamattina?» «Penso di sì. Inseguire arcobaleni è più divertente che verniciare.» «Non si può mai dire.» «No.» Sorrise. «E c'è sempre la speranza. Comunque voglio ritirare il palamito dell'acquario.» Finì di bere il caffè e versò il fondo sull'erba. Mentre si voltava per rientrare, i primi raggi del sole lampeggiarono sull'acqua e rimbalzarono sulla casa intonacata di bianco. Guardò le imposte blu scuro, con la vernice che si staccava, le stecche screpolate e cadenti. «Santo Dio, questa casa è un disastro.» «Chiedono duecento dollari al pezzo per rifare le persiane», gli ricordò Charlotte. «In totale, tremila dollari.» «Ladri», commentò lui tenendole aperta la porta. «Forse potremmo chiedere a Dana...» Fece una pausa. «Escluso, Charlie. Non più. Ha già fatto abbastanza.» «Ma lei desidera aiutarci. Non è come...» «Non siamo ancora a quel punto», obiettò lui. «Le cose non vanno tanto male.» «Forse non ancora, William.» Rientrò in casa. «Ma quasi.» «Siamo passati al 'William'? È ancora presto per usare l'artiglieria pesante.» William Somers Darling portava il nome dei Somers che si erano installati in Bermuda nel 1609 in seguito a un naufragio. Sir George Somers era in viaggio verso la Virginia quando la sua Sea Venture si era arenata a Bermuda. Darling considerava quel fatto come un trionfo dell'arte marinara, perché andare a sbattere contro Bermuda in mezzo a un miliardo di miglia quadrate di oceano Atlantico era, secondo lui, un'impresa equiparabile al rompersi una gamba inciampando in uno spillo su un campo da football. Ma Somers non era stato né il primo né l'ultimo. A occhio e croce, si poteva affermare con buona approssimazione che i cinquantatré chilometri quadrati di Bermuda erano circondati da non meno di trecento relitti. La maggior parte dei bermudiani, neri e bianchi, avevano preso il cognome di uno dei primi coloni: Somers, Darling, Trimingham, Outerbridge, Tucker e una dozzina di altri. In quei cognomi echeggiava la storia e
squillava la tradizione. Tuttavia la maggior parte dei bermudiani, neri e bianchi, per un senso di rivolta contro le pretese della patria d'origine, aveva presto abbandonato uno o due dei propri nomi per adottare nomignoli coniati a partire dal loro aspetto, da qualcosa che avevano fatto, o da qualche motivo di afflizione. Così, il soprannome di Darling era «Buggywhip», in memoria dello strumento - la frusta del calesse - che suo padre aveva regolarmente usato per punirlo. Gli amici lo chiamavano Whip, e così faceva anche Charlotte, tranne quando litigavano o discutevano su un argomento che lei considerava troppo serio per le frivolezze. In quei casi lo chiamava William. Era pescatore o, meglio, lo era stato. Adesso era un ex pescatore, perché fare quel mestiere alle Bermude era diventato redditizio quanto fare il maestro di sci nel Congo. Era difficile guadagnarsi da vivere cercando di catturare ciò che non c'era. Avrebbero potuto vivere in modo confortevole, anche se non con larghezza, con venti o venticinquemila dollari l'anno. La casa era loro: apparteneva alla famiglia di lui, pagata ed esente da ipoteche, da prima della Rivoluzione americana. I costi, compresi il gas per la cucina, l'assicurazione e la corrente elettrica, ammontavano a cinque-seimila dollari l'anno. Altri sei o settemila dollari servivano per la manutenzione della barca, alla quale provvedevano personalmente lui e il suo secondo, Mike Newstead. Il resto delle entrate era assorbito dal cibo, dai vestiti e da certi imprevisti misteriosi che scaturivano dal nulla e divoravano altri quattrini. Ma parlare di ventimila dollari era come parlare di un milione, perché non li guadagnava. Metà dell'anno era già passata, e fino ad allora ne aveva incassati meno di settemila. Sua figlia Dana lavorava in città, presso uno studio di commercialisti; aveva preferito un buono stipendio agli studi universitari, e voleva dare una mano. Darling aveva rifiutato, più bruscamente di come avrebbe voluto, per l'incapacità di esprimere il misto di amore e di vergogna che l'offerta della figlia aveva suscitato in lui. Per un po' di tempo Dana era riuscita a sottrarre qualche fattura dalla cassetta delle lettere e a pagarla personalmente. Quando, com'era inevitabile, era stata scoperta e messa in stato d'accusa, aveva addotto a propria difesa un solido argomento: un giorno la casa sarebbe stata sua e quindi non capiva perché non avrebbe dovuto contribuire alle spese, soprattutto considerando che l'alternativa sarebbe stata di andare in banca a chiedere un'ipo-
teca, con l'unico risultato di far gravare in seguito su di lei l'onere delle rate. La questione era sfuggita al dominio della ragione per finire in discorsi nebulosi di fiducia e sfiducia, e si era conclusa con rabbia e sofferenza per tutti. Forse Charlotte aveva ragione. Forse le cose andavano davvero male. Darling aveva visto una pratica della banca in mezzo alla pila della posta sul tavolo di cucina, ma prima che potesse fare domande il plico era svanito, e lui non ci aveva più pensate. Adesso si trovò a domandarsi: sua figlia stava già discutendo di mutui e di ipoteche? E loro dovevano permettere alla banca di piantare i suoi artigli sulla casa? No, non lo avrebbe permesso. Doveva esserci una via d'uscita. La regata Newport-Bermuda sarebbe cominciata entro dieci giorni, e un amico che operava nella pesca subacquea era sovraccarico di prenotazioni di noleggio durante la pausa della competizione. Aveva chiesto a Darling di rilevare qualche contratto. Valevano un migliaio di dollari l'uno, forse ce n'era per cinquemila dollari. Poi aveva l'acconto ricevuto dall'acquario che gli copriva i costi del carburante in cambio degli animali esotici che lui pescava nelle acque profonde. A quattro dollari il gallone, lui bruciava trentadue dollari di carburante ogni ora che passava in mare. L'acquario riconosceva a Whip anche un premio quando riusciva a portare qualcosa di sensazionale. Là sotto c'era roba comune: i gattucci, per esempio, piccoli squali «sdentati» con gli occhi da gatto, ma anche animali strani come le rane pescatrici, che adescavano la preda con un peduncolo dorsale e l'afferravano con denti acuminati che sembravano fatti di cristallo. Sapeva che negli abissi c'erano anche animali sconosciuti che nessuno aveva mai visto. Quelli sì che erano una sfida. Infine c'era sempre la possibilità - realistica quanto quella di vincere la Irish Sweepstake, ma pur sempre una possibilità - che lui trovasse un qualche relitto contenente un tesoro. In cucina, mangiò una banana mentre si faceva scaldare un po' del barracuda della sera prima. Sul muro c'erano due barometri, e Whip li consultò entrambi. Uno era un normale barometro aneroide con due lancette, di cui una regolabile manualmente e l'altra che rispondeva alla pressione atmosferica. Batté sul vetro. Nessun cambiamento. L'altro barometro era un tubo contenente olio di fegato di pescecane. Quando faceva bello, l'olio era limpido, di un leggero colore ambrato.
Quando il tempo cambiava o la pressione scendeva, l'olio diventava opaco. Whip riponeva la propria fede nello strumento a olio, perché non era una macchina, e lui diffidava delle macchine. Erano costruite dall'uomo, e l'uomo era un pasticcione cronico. Invece era raro che la natura commettesse degli errori. L'olio era limpido. Whip decise di uscire in mare. Forse c'era una grossa cernia, che vagabondava dalla notte dei tempi e aspettava di essere presa. Un pesce da cinquanta chili poteva rendergli quattro o cinquecento dollari. Forse si sarebbe imbattuto in un branco di tonni. Chissà... Il secondo di Darling, Mike Newstead, arrivò poco dopo le sette. Darling amava sostenere che uno specialista di genetica avrebbe visto Mike come il perfetto bermudiano, poiché in lui si riscontravano tutti i ceppi etnici comparsi nella colonia attraverso i tempi. Aveva i capelli corti e crespi dei negri, la pelle rosso scura degli indiani - retaggio di quando, nel diciottesimo secolo, i tories avevano portato nell'isola, come schiavi, un gruppo di indiani Mohawk - i brillanti occhi azzurri degli inglesi (ma tagliati a mandorla come quelli degli asiatici) e la silenziosa rassegnazione dei portoghesi. Aveva trentasei anni, cinque meno di Darling, ma sembrava senza età. Il suo volto aveva da sempre lineamenti marcati e rughe profonde, come se fosse stato intagliato in qualche roccia di montagna. Un estraneo poteva attribuirgli qualunque età compresa fra i trenta e i cinquant'anni. C'era ancora chi, dietro le spalle, alludeva a lui come a «Tuttifrutti», ma nessuno lo chiamava più così in sua presenza, perché era alto un metro e novanta e pesava oltre novanta chili, senza nemmeno un'oncia di grasso. Era difficile farlo arrabbiare, ma si diceva che in realtà avesse un temperamento esplosivo tenuto sotto controllo dalla moglie, una minuscola portoghese, e da Whip Darling, cui era affezionato. Darling lo considerava il perfetto secondo. A Mike non piaceva prendere decisioni, preferiva sentirsi dire che cosa doveva fare. Reagiva immediatamente e senza discutere agli ordini... se rispettava chi glieli impartiva. Non parlava molto - si sarebbe potuto dire che non parlava affatto - e, se aveva delle opinioni, le teneva per sé. Comunicava in modo più intimo e gioioso con gli odiati nemici di Darling: le macchine. Completamente privo d'istruzione scolastica, sembrava capire per intuito il funzionamento di tutti i tipi di motori, che fossero alimentati da gasolio, benzina, kerosene,
aria o elettricità. Parlava con loro, li blandiva e li accarezzava, persuadendoli sempre a fare ciò che lui desiderava. Darling versò una tazza di caffè a Mike, poi uscirono insieme e si fermarono sulla banchina a osservare un cormorano volare in cerchi sul mare alla ricerca di cibo. «Credo che andremo a tirare su le nasse dell'acquario», disse Darling. «Le abbiamo tenute immerse per troppo tempo, gli animali potrebbero morire o essere mangiati... e comunque le trappole potrebbero staccarsi.» «Già.» «Potremmo portarci un po' di esche... non si sa mai.» Mike assentì, finì il suo caffè e andò al frigorifero nella baracca degli attrezzi a prendere qualche sgombro da usare come esca. Darling salì in barca, avviò il grosso diesel Cummings e lo fece scaldare. Il Privateer era un motopeschereccio per la pesca dei gamberi che Darling aveva acquistato a Houma, in Louisiana. Poi, a Bermuda, lo aveva trasformato in un'imbarcazione da lavoro multiuso. In origine si chiamava Miss Daisy, ma lui aveva capito a prima vista che quel nome non gli si addiceva. Era grande, largo e solido; il fasciame, le paratie e la tolda erano tutti d'acciaio: una piattaforma stabile che navigava confortevolmente in buone condizioni atmosferiche, e affrontava senza alcun timore il maltempo, percuotendo le onde come se le sfidasse a perforare lo scafo o a far saltare i rivetti. Potrà sfiancarti, sosteneva Whip, ma non farà di te un naufrago. Aveva un castello in coperta spazioso e asciutto, due compressori, due generatori, e rastrelliere capaci di ospitare venti bombole per autorespiratore. Darling era superstizioso quanto chiunque altro, ma si difendeva dalla colpa di avere ribattezzato la barca dichiarando che, siccome le avevano dato il nome sbagliato, lui aveva posto rimedio dandole quello giusto. Comunque, tanto per rassicurarsi, aveva inchiodato sulla paratia interna della timoniera una statuetta obeah di Antigua e nei momenti difficili andava a toccarla, come era successo il giorno in cui un piccolo ciclone si era abbattuto proprio su Bermuda, e il vento era passato in cinque minuti da otto a centoventi nodi, urlando per un'ora come i mastini dell'inferno. Mike saltò a bordo e sciolse gli ormeggi a poppa e a prua. Darling inserì la marcia e uscì da Mangrove Bay passando intorno alla punta e dirigendosi verso Blue Cut. Mike, sistematosi a prua, borbottò qualcosa al motore di una pompa che
si teneva in grembo. Voleva capire perché non funzionava. Darling aveva piazzato il palamito dell'acquario a nordovest, circa sei miglia al largo, in acque profonde novecento metri. Avrebbe potuto trovare la stessa profondità in un punto più vicino, sulla riva meridionale, perché da quella parte le scogliere finivano presto e l'acqua era già profonda a una o due miglia da terra. Però, per ragioni ignote, le creature che interessavano agli acquari sembravano abitare solo a nord. Adesso, mentre navigavano in mezzo agli scogli, l'acqua era tranquilla, ma lievemente increspata, quanto bastava per attenuare il riverbero e rivelare le molteplici tonalità dei coralli. Ciò permetteva a Darling di allontanarsi dal canale e destreggiarsi in mezzo alle alte gibbosità dei banchi di corallo. C'era del vero nell'antico detto secondo cui quanto più scura era una certa cosa, tanto più era profonda. Di conseguenza, finché riusciva a distinguere i colori «nemici» sotto il pelo dell'acqua, poteva evitarli. In piedi sul flying bridge, rinfrescato dalla brezza di nord-ovest e scaldato dal sole sorto da poco, Whip Darling si sentiva felice. Poté dimenticare per un momento che era senza soldi, e accarezzare sogni di immense ricchezze. Si permise di fantasticare su montagne di monete d'argento e lunghe catene d'oro. Era fantasia, certo, ma anche realtà, e si sapeva che era già successo: il tesoro Tucker, il tesoro Fisher sulla Atocha, il colpo da un miliardo di dollari sulla Central America. Dov'era scritto che non poteva accadere di nuovo? L'oro e l'argento non erano gli unici tesori in attesa di essere scoperti. C'erano animali, ignoti o mai visti, specialmente nel profondo, che avrebbero potuto cambiare le teorie degli uomini su argomenti come la biologia e l'evoluzione della specie. Avrebbero potuto fornire nuovi elementi per curare ogni male, dall'artrite al cancro. Il reperimento di una o due di queste creature non avrebbe forse gonfiato il portafoglio di Darling, ma faceva parte delle cose che nutrivano il suo spirito. Il suo sguardo vagò dai banchi di sabbia alle fenditure nei gruppi di scogli, e i suoi occhi cercarono i segni rivelatori di un relitto antico, magari dei tempi di Giacomo I. Nessuno sapeva quando esattamente la prima nave era venuta a morire sul vulcano di Bermuda: forse al tempo di Elisabetta I, perché era stato accertato che uno spagnolo ci aveva trascorso una vacanza non programmata proprio durante il regno della Regina Vergine. Lo sventurato spagnolo aveva dedicato molto lavoro e molto tempo a incidere su uno scoglio un'iscrizione, F.T. 1543, che era ancora leggibile e che, probabilmente, indica-
va le iniziali del suo nome e l'anno della sua permanenza sull'isola. Bermuda era sempre stata una trappola per le navi e lo era tuttora, malgrado tutti i miracoli moderni come il radiogoniometro, il loran, la navigazione guidata da satellite, perché il vulcano, anche se spento, sporgeva dal fondo del mare come una bacchetta carica di anomalie elettromagnetiche. Le macchine, elettroniche o magnetiche, si inceppavano o impazzivano vicino a Bermuda. Niente funzionava in modo affidabile. Gli aghi delle bussole ruotavano avanti e indietro come se fossero ubriachi. Il navigatore che domandava al loran la propria posizione poteva benissimo sentirsi rispondere che si trovava nelle montagne sopra Barcellona. I ghiribizzi del vulcano di Bermuda avevano contribuito alla nascita delle leggende sul Triangolo delle Bermude: dal momento in cui la mente dell'uomo si era impossessata di una scheggia di verità e l'aveva forgiata in una spirale di fantasie, si era sbizzarrita a tirare in ballo ogni genere di cose, da Atlantide agli UFO ai mostri onnivori che vivrebbero al centro della terra. Darling non aveva nulla contro il fatto che la gente indulgesse a credenze assurde riguardanti il Triangolo delle Bermude, ma gli sembravano una perdita di tempo. Se la gente facesse lo stesso sforzo per informarsi sulle reali meraviglie del pianeta, avrebbe di che saziare la propria fame di creature fantastiche. Il settanta per cento della superficie terrestre è coperto dall'acqua e, di quel settanta per cento, il novantacinque per cento non è mai stato esplorato. Però l'uomo continua a spendere miliardi di dollari per raggiungere Marte e Nettuno e, paradossalmente, sa più cose sulla faccia in ombra della luna di quante ne sappia su tre quarti del pianeta in cui vive. Pazzesco. Perfino lui - una nullità in un angolo insignificante dimenticato da Dio nei venticinque anni trascorsi sull'oceano aveva visto abbastanza per sapere che il mare ospita una varietà di creature mostruose così ampia da poter alimentare gli incubi dell'intera razza umana: squali lunghi dieci metri che vivevano nel fango, granchi grossi come automobili, pesci senza pinne con la testa da cavallo, anguille-vipera che mangiavano tutto, compresi i propri simili; pesci che andavano a caccia con piccole lanterne appese alle protuberanze orbitali, e via di seguito. Oggi come oggi, la trappola per navi di Bermuda catturava una o due vittime ogni due anni. Di solito si trattava di petroliere battenti bandiera liberiana o panamense, appartenenti a società di dentisti o di pedicure. In genere erano comandate da capitani cinesi di Taiwan che non conoscevano
una parola d'inglese. Il capitano partiva, per esempio, da Norfolk, stabiliva la rotta per lo stretto di Gibilterra e inseriva il pilota automatico. Poi andava sottocoperta a bere tè, a dormire o a farsi fare un massaggio shiatsu senza prendersi la briga di notare un segnetto da nulla sulla sua carta nautica, circa seicento miglia a est della Carolina del Nord. Due o tre notti più tardi le onde dell'etere si riempivano all'improvviso di sos. Certe volte, quando la notte era chiara, Darling doveva solo andare alla porta posteriore di casa sua e guardare a nord o a nord-est, per vedere all'orizzonte le luci della nave in secca. Il suo primo pensiero era sempre: «Signore, fa' che non sia carica di petrolio». Il secondo era: «Signore, se porta petrolio, fa' almeno che non sia bucata». Nei tempi andati le scogliere catturavano un numero così grande di navi che era sorta una vera professione: c'era gente che si guadagnava da vivere uscendo in barca a remi a ricuperare roba dalle navi arenate. Alcuni, poi, non rimanevano ad attendere, ma creavano le proprie occasioni di guadagno facendo segnali fasulli con le luci per attirare le navi sugli scogli. Darling aveva sempre trovato divertente quello che definiva un buffo paradosso: i navigatori avevano fatto di Bermuda una trappola per navi. Certo, avrebbero potuto evitare quella zona, ma il guaio era che ne avevano bisogno. Fino al 1780 non esisteva un sistema affidabile di navigazione longitudinale. I naviganti potevano individuare la latitudine dell'angolo del sole all'orizzonte, lo facevano da mille anni con alidade, astrolabi, ottanti e sestanti. Viceversa, per stabilire dove si trovavano sull'asse est-ovest avevano bisogno di un cronometro preciso, veramente preciso. Ma non esisteva. Bermuda era un punto fisso nell'oceano e, quando lo trovavano, i naviganti sapevano esattamente dov'erano. Pertanto salpavano dalle Indie occidentali, da Hispaniola o dall'Avana e si dirigevano a nord seguendo la Corrente del Golfo, quindi a nord-est finché raggiungevano i 32 gradi di latitudine nord. Poi viravano a est e cercavano Bermuda, che dava loro la rotta per tornare in patria. Tuttavia, se incontravano una tempesta così furiosa da impedire loro di vedere, o se c'era la nebbia, oppure se l'ufficiale di rotta era un po' confuso, quando finalmente trovavano Bermuda, il più delle volte era perché c'erano finiti sopra. Una volta Charlotte aveva letto a Darling un verso scritto da un poeta: «...molte sono le navi notturne con gli equipaggi urlanti». Gli piacevano
quelle parole, perché evocavano nella sua mente l'immagine di come doveva essere la vita a bordo di una delle antiche navi mentre affrontavano la fine: navigazione tranquilla e spensierata, con il marinaio a prua che gettava lo scandaglio senza mai toccare il fondo, poi all'improvviso - che cos'era? - il suono della risacca... Come può esserci la risacca in mezzo all'oceano? Tutti aguzzano gli occhi ma non vedono nulla, mentre il rombo dei frangenti si fa più forte, poi il piombo dello scandaglio tocca il fondo, e viene il momento del terrore quando si capisce che... Darling non scorse alcun segno di naufragio nell'acqua bassa, ma ciò che vide lo svuotò di tutta la gioia di vivere, come se una siringa gli avesse aspirato il sangue dalle vene. Vide semplicemente un pesce pappagallo, un pesce ago, mezza dozzina di pesci volanti che sprizzavano via dalla prua della barca e qualche seriola vagante. Gli scogli che una volta brulicavano di vita erano vuoti come una stazione ferroviaria dopo l'annuncio di un attentato terroristico. Gli sembrava di assistere al funerale di un modo di vivere... il suo. Le secche lasciavano gradualmente il posto ad acque profonde dodici metri, poi venti, poi trenta, e lui smise di guardare i fondali e si mise a cercare la sua boa. Era dove l'aveva lasciata, il che lo stupì un poco, perché, in quegli ultimi due anni, certi pescatori disperati avevano cominciato ad abbandonare il codice d'onore secondo cui «non si toccano le nasse degli altri». E poi, anche senza particolari interventi umani, le esche erano così profonde che un grosso pesce avrebbe potuto prenderle e portarsele via: forse uno squalo capopiatto o un pesce volpe dai grandi occhi. Erano animali capaci di trascinare le nasse a miglia di distanza e poi abbandonarle. «Ci siamo!» gridò Darling a Mike, che posò il motore della pompa e prese la gaffa. La barca scivolò lungo la boa bianca e arancione; quando l'ebbe di poppa, Mike l'agganciò e la tirò a bordo, avvolgendo la cima intorno al verricello. Darling mise il motore in folle, lasciando rollare la barca nel mare tranquillo, e scese dal flying bridge. «Vai», disse Mike. Darling spinse la leva e fece girare il verricello; la cima cominciò a salire, e Mike la faceva a mano a mano cadere in un fusto di plastica da duecentocinquanta litri. Avevano filato in mare un palamito di circa mille metri, con un peso di
dieci chili per stabilizzarlo sul fondo. All'estremità in superficie era attaccata una boa. A partire da seicento metri sotto la superficie avevano attaccato, a intervalli di trenta metri, pezzi da venti metri di cavo di quarantotto fili d'acciaio inossidabile. Al fondo di ciascun cavo era fissata una delle nasse per l'acquario. Alcune erano delle gabbiette di filo metallico a maglia larga, altre erano gabbie di rete metallica a maglia fitta. La maggior parte conteneva esche per attirare le creature che vivevano nelle cupe profondità del mare. Darling, non sapendo di che animali si trattasse, e quale fosse il loro cibo preferito (in effetti, non lo sapeva nessuno), si era affidato alla propria teoria sugli «spazzini del mare»: più puzza e più li attira. Di conseguenza aveva messo nelle gabbie i pezzi della carne più marcia e putrida che era riuscito a trovare. In alcune nasse, invece, non aveva messo esche di sorta, ma solo delle luci chimiche Cyalume, in ossequio a un'altra teoria secondo cui la luce era un fatto talmente nuovo in un mondo di notte perpetua, che alcuni animali si sarebbero avvicinati sulla spinta della curiosità. Sperava sempre di tirare su gli animali vivi, e di riuscire a mantenerli in vita nella vasca d'acqua fredda predisposta sulla barca. Quasi ogni settimana, uno specialista dell'acquario veniva a esaminare ciò che avevano pescato e prelevava gli animali rari o sconosciuti per portarseli a Flatts e studiarli nel laboratorio. Darling calcolava che solo il venti per cento degli esemplari poteva sopravvivere al viaggio e al trasferimento nell'acquario; non un gran numero, forse, ma rappresentava comunque un modo estremamente economico di raccogliere nuove specie. Quell'attività gli pagava il carburante, cosa che, con i tempi che correvano, aveva la sua importanza. Darling impugnò la leva del verricello e osservò la cima. Era tesa, cigolava e spruzzava acqua: tutto nella norma, quindi, se si considerava il peso di un chilometro di cima, di dieci chili di piombi, dei cavi d'acciaio, delle nasse e delle esche. Puntò il piede contro la paratia per tenersi in equilibrio e guardò fuori bordo, nella tenebra azzurra, sperando di vedere qualche grosso pesce di passaggio. Maledettamente improbabile, pensò. Se nel mare ce n'erano ancora, avevano lasciato da un pezzo le acque di Bermuda. «C'è qualcosa che non va», annunciò Mike. Teneva una mano sulla cima e ne saggiava la tensione con i polpastrelli.
«Cosa?» «Viene su a singhiozzo. Senti.» Passò la cima a Darling e arretrò per impugnare la leva in vece sua. Darling tastò la cima. Vibrava in modo discontinuo. Ogni tanto mancava un colpo, come un motore fuori fase. La cima era contrassegnata ogni centottanta metri. Quando il terzo segno passò, Darling alzò una mano per far capire a Mike di rallentare il verricello e si sporse dal parapetto per vedere la prima nassa che sarebbe uscita. Se era impigliata nella cima, voleva liberarla prima che sbattesse contro la murata. Certi animaletti marini erano così delicati che bastava un piccolo trauma per ucciderli. Vide il luccichio del primo anello d'acciaio inossidabile cui era attaccato il cavo, scorse il cavo e poi... nulla. La nassa non c'era più. Impossibile. L'unico animale abbastanza grande per portarla via era uno squalo, ma nella nassa non c'era alcunché che potesse interessare agli squali. E se anche uno di loro ne avesse afferrata una, avrebbe portato via l'attrezzatura completa. Era assolutamente escluso che uno squalo potesse spezzare il cavo d'acciaio. Lasciò che il verricello portasse il palamito in coperta, sganciò la cima porta nasse, guardò l'estremità e poi la mostrò a Mike. «Saltata?» domandò quest'ultimo. «No. Se fosse saltata, i fili sarebbero aperti a ventaglio, come i capelli di chi infila un dito in una presa di corrente. Questi invece sono ancora strettamente intrecciati: sembrano appena usciti dalla fabbrica.» «E allora?» Darling si avvicinò agli occhi il capo del cavo. Non era stato né rosicchiato né teso in modo eccessivo, bensì tranciato di netto. «Un morso», disse. «Tagliato di netto con un morso.» «Un morso?» Darling guardò la superficie del mare. «In nome di Dio, che specie di animale ha una bocca in grado di mordere e tagliare un cavo fatto di quarantotto fili d'acciaio inossidabile?» Mike non disse nulla. Darling gli fece segno di avviare di nuovo il verricello, e poco dopo comparve il secondo cavo. «Andata», disse. Anche quella nassa, infatti, non c'era più e il cavo era stato reciso nello stesso modo. «Andata», ripeté quando apparve il cavo successivo, e via via tutti gli al-
tri. Poi vide salire i piombi, e notò che avevano qualcosa di strano. Disse a Mike di fermare il verricello, e tirò su a mano quanto restava del palamito. «Gesù santo», esclamò. «Guarda qui.» Una delle nasse si era avvolta intorno ai pesi, formando un blocco unico con i piombi; era come se i vari elementi fossero stati fusi assieme. Issarono la massa informe e la posarono in coperta; un pasticcio di tondino d'acciaio, filo metallico e piombo. Mike lo fissò a lungo, poi disse: «Gesù, Whip. Che razza di figlio di puttana può avere fatto questo?» «Nessun uomo di certo», rispose Darling. «E nessun animale. Almeno, nessuno degli animali che io conosco.» 6. Rimasero in silenzio mentre smontavano l'attrezzatura, arrotolando i cavi e assicurando le spire, staccavano le luci chimiche e comprimevano gli ultimi metri di palamito nel fusto di plastica. Darling stava sfogliando mentalmente il catalogo degli animali marini che conosceva, domandandosi quale di essi poteva avere la forza - e il desiderio - di distruggere il suo impianto. Prese anche in considerazione l'idea di Mike, e cioè che la colpa fosse di un uomo, un pescatore arrabbiato, offeso o geloso, ma gli riusciva difficile pensare a qualcosa che lui possedeva e che poteva suscitare l'invidia altrui. O forse era un individuo che amava la distruzione in se stessa. No. Non riusciva a credere che un uomo potesse fare una cosa simile, ed era certo che nessuno si sarebbe preso tutto quel disturbo. Non era logico. Quali ipotesi restavano? Chi o che cosa poteva avere tagliato a morsi un cavo formato da quarantotto fili d'acciaio inossidabile? Una parte di lui sperava di non venire mai a saperlo. Non era un mistero per Darling che la natura avesse un lato oscuro. Una volta, più di vent'anni addietro, era imbarcato su una petroliera al largo del Sudafrica quando, con mare piatto e pressione atmosferica costante, era scaturita dal nulla una tsunami che aveva alzato un muro di trenta metri d'acqua davanti alla nave. Il capitano e gli altri uomini dell'equipaggio non avevano mai visto una cosa del genere; non sapendo che cos'altro fare, avevano puntato la prua direttamente contro la parete d'acqua, che si era riversata sulla nave sommergendola e facendola colare a picco. Se Darling
non fosse stato di servizio in coffa sarebbe andato a fondo anche lui. Invece era stato spazzato in mare, dove era rimasto appeso a un portello per due giorni, finché un nave da cabotaggio lo aveva raccolto. Un'altra volta, in Australia, lui e alcuni compagni d'equipaggio avevano abbandonato la nave quando avevano scoperto che il capitano aveva la passione dell'ouzo e dei ragazzi. Si erano lanciati in una dilettantesca caccia al tesoro nell'entroterra. Avevano conosciuto una famiglia in vacanza su una piccola roulotte; un pomeriggio erano tornati e li avevano trovati tutti morti, uccisi da un taipan, un serpente che attacca per il gusto di attaccare e uccide per il gusto di uccidere. Darling era quindi pervenuto alla conclusione che non ci si poteva fidare della natura; troppo spesso, infatti, rivelava un suo aspetto sinistro. Mike non aveva fatto esperienze simili, e non amava l'ignoto. Non gli importava di non conoscere le risposte, ma si sentiva a disagio quando nemmeno Whip le aveva. Detestava sentir dire da Whip: «Non lo so». Si sentiva sicuro solo se qualcuno, una persona competente, aveva il controllo della situazione. Perciò in quel momento era preoccupato. Darling vide gli indizi di quel disagio. Mike evitava di guardarlo negli occhi; avvolgeva le spire del cavo con attenzione esageratamente meticolosa. Capì che doveva alleviare l'ansia del compagno. «Ci ho riflettuto», disse. «Credo che sia stato uno squalo.» «Che cosa te lo fa pensare?» domandò Mike, che desiderava credergli, ma aveva bisogno di argomenti persuasivi. «Non può essere altrimenti. Mi sono ricordato - l'ho letto sul National Geographic - che il morso di certi squali esercita una pressione di cinque tonnellate per centimetro quadrato. Più di quanto occorre per tagliare quei cavi.» «Perché non si è portato via tutto?» «Non gli interessava. Non c'era niente attaccato. Ha semplicemente girato intorno e morsicato i cavi uno dopo l'altro.» Darling cominciava quasi a crederci anche lui. Mike rifletté per un momento, poi disse: «Oh». Darling guardò il cielo. Sentiva uno strano desiderio di piantare tutto e tornare a casa. Ma il sole continuava a salire, non era ancora mezzogiorno e lui aveva già consumato venticinque o trenta dollari di carburante. Se fossero rientrati subito in porto, avrebbe avuto un passivo di cinquanta dollari, senza nulla da presentare a quelli dell'acquario se non un'imbarazzata
spiegazione. Pertanto si costrinse a dire: «Proviamo a fare qualcosa per guadagnarci la giornata?» «D'accordo», rispose Mike. Cominciarono a posare un palangaro con alcuni ami muniti di esca. Forse avrebbero pescato qualcosa di vendibile, o anche solo di mangiabile. L'importante era prendere qualcosa: sarebbe stato sempre meglio che tornare al molo e dichiarare un'ennesima sconfitta. Un pensiero scoraggiante. In quei giorni, l'atto stesso di pescare, che un tempo era stato godibile anche quando Darling tornava a mani vuote, era diventato deprimente. Era come tornare a vedere il posto in cui si è cresciuti, un luogo di momenti sereni e di ricordi lieti, per scoprire che lo hanno asfaltato e trasformato in area di parcheggio. Oggi come oggi, andare a pesca serviva solo a fargli ricordare com'era bello farlo, una volta. Nelle antiche cronache aveva letto la descrizione di Bermuda quando erano arrivati i primi coloni. A quel tempo l'isola era popolata di uccelli e di maiali. Gli uccelli erano originari di quella zona, e alcuni di loro, come i cahow, i petrelli bianchi e marrone, erano tanto stupidi da posarsi sulla testa delle persone: così si lasciavano prendere e mettere in pentola. I maiali non facevano parte della fauna locale. Alcuni erano stati sbarcati dai capitani delle navi, in previsione dei giorni in cui i naufraghi avrebbero avuto bisogno di cibo. Altri erano giunti a nuoto dopo un naufragio, poi erano sopravvissuti nutrendosi di uccelli e di uova. Ma ciò che aveva affascinato i primi abitanti dell'isola, e aveva determinato il tono entusiasta e quasi estatico delle loro descrizioni, era la fauna marina. Nelle acque intorno a Bermuda c'era di tutto, dalle tartarughe alle balene, in quantità inimmaginabili per la gente del vecchio mondo, per quanto già nel diciassettesimo secolo alcune specie fossero state massacrate fino quasi all'estinzione. Darling non era tipo da indulgere in lacrimose tiritere sul buon tempo antico. Vedeva il cambiamento come inevitabile e la distruzione come parte del cambiamento, soprattutto quando, come nel caso in questione, era intervenuto l'uomo. Provava invece furore, vergogna e disgusto per i mutamenti che aveva visto nel giro di soli vent'anni. Secondo i suoi calcoli, Bermuda era stata rovinata nell'arco di vita di un gatto domestico. Alla fine degli anni '60 e all'inizio dei '70 poteva ancora andare su uno scoglio e procurarsi il pranzo. Sotto ogni sasso c'erano aragoste, banchi di
pesci pappagallo, pesci angelo, pesci farfalla dorso nero, pesci balestra, pesci chirurghi, pesci damigella, pesci pagliaccio, scorfani rossi, pagri, e anche qualche occasionale cernia. Quando lavorava su un relitto, i muggini frugavano nella sabbia accanto a lui, le razze sfrecciavano sul fondo, e c'era sempre il rischio, per quanto modesto, che un qualche labride dalla vista corta gli pizzicasse il lobo di un orecchio. Più di una volta gli squali di scogliera gli avevano mordicchiato la punta delle pinne costringendolo ad abbandonare il relitto. Appena oltre la barriera, in acque più profonde, c'erano intere colonie di cernie: cernie di Nassau, cernie maculate, cernie brune e, ogni tanto, una cernia gigante da duecento chili o più. C'erano murene, squali tigre, squali toro, stuoli di luzianidi o pesci azzurri. Le tartarughe sporgevano la testa come i bambini quando nuotano in superficie. Versare dell'olio in mare produceva una chiazza trasparente come un cristallo attraverso la quale, specialmente su acque profonde, si poteva assistere a uno spettacolo emozionante. Il wahoo contendeva la preda ai barracuda. I bonitos e i tonni di Alison sciamavano intorno alla poppa. I pesci spada attraversavano la chiazza d'olio con le pinne dorsali che fendevano l'acqua come falci, e i grandi, veloci squali pelagici mandavano riflessi azzurri mentre passavano sotto la barca. Una buona giornata voleva dire cinquecento chili di pesci di scoglio e altri cinquecento di tonni; gli alberghi erano orgogliosi di specificare sul menu «pesce fresco di Bermuda», come piatto scelto del giorno. Oggi non più. Alcuni alberghi continuavano a proporre il pesce di Bermuda, ma senza orgoglio, perché quelli che servivano erano avanzi, robaccia, pesci sopravvissuti perché nessuno li voleva. Se un pescatore prendeva una cernia di dimensioni rispettabili, la notizia veniva riportata sul giornale. L'oceano intorno a Bermuda era molto vicino a essere privo di vita come le correnti occidentali del Long Island Sound. Darling ascoltava con ilare sarcasmo le spiegazioni dei pescatori. «È colpa dell'inquinamento!» gridavano, e lui rispondeva: «Stronzate». I responsabili della morte dell'industria ittica di Bermuda - ne era convinto, lo sapeva, riteneva di poterlo documentare - erano i pescatori. Non solo quelli di Bermuda, ma l'intera genia. Persone che non si accontentavano di guadagnarsi la vita e volevano fare una strage, trattando l'oceano come una fossa da disseminare di bombe. Aveva anche coniato per loro un nome scientifico: Homo assholus, «uomo-buco-del-culo», un neologismo
per «deficiente». Ebbene, la strage l'avevano fatta, ma non nel modo in cui avevano pensato. Il cattivo della situazione era un attrezzo inventato da quei pescatori: la trappola per pesci. Un tempo i pescatori pescavano, con lenze tenute in mano, e il bottino era direttamente proporzionale alla loro abilità e al loro coraggio. Smettevano quando erano completamente istupiditi dalla fatica, con le dita gonfie come salsicce. Poi qualcuno ebbe l'idea di piazzare sott'acqua delle gabbie di filo di ferro, contenenti esche, legate a boe in superficie. Il pesce entrava nella trappola e, grazie alla struttura di questa, non trovava più la strada per uscire. Presto tutti si misero a usare le trappole, piazzandone quante faceva loro comodo. In teoria c'era un limite, ma nessuno lo rispettava. Certo che ne prendevano, di pesci! Ne prendevano troppi, e li gettavano via quasi tutti, tenendo solo i migliori, morti o morenti. Ma che importanza aveva? Se poi il prezzo scendeva a causa della quantità eccessiva, pazienza. Continuavano a catturarne sempre di più. Darling non aveva mai usato trappole: le detestava, non per motivi di elevata moralità, ma perché pescare con le trappole non era pescare, era uccidere e tirare su, non era divertente affatto. Se non provi gusto a fare il tuo mestiere, diceva, trovatene un altro. Non aveva la minima intenzione di finire i suoi giorni seduto in cortile con un gatto sulle ginocchia e un pappagallo sulla spalla, confidando ai visitatori che aveva odiato ogni minuto della sua vita. Il primo inconveniente delle trappole era che assolvevano troppo bene al loro compito. Prendevano tutto: pesci grandi, piccoli, giovani, vecchi, gravidi, tutto. Un pescatore alla lenza poteva scegliere le prede e rimettere in acqua gli esemplari troppo piccoli, troppo giovani, troppo pieni di uova oppure quelli che, semplicemente, non voleva pescare. Invece con le trappole, quando i pesci erano stati stipati insieme nella gabbia per qualche giorno, sconvolti e feriti, maltrattati l'uno dall'altro e dalla gabbia stessa, avevano poche speranze di sopravvivere anche se il pescatore si prendeva la briga di rimetterli in mare, cosa che peraltro succedeva di rado. Il secondo problema era rappresentato dalle trappole perdute. Se la boa si staccava o la cima si logorava o la trappola, spinta da una bufera oltre la piattaforma continentale, si inabissava e non era più recuperabile, essa continuava ugualmente a uccidere. I pesci che conteneva diventavano esca
per altri pesci e così via per sempre. Tutti avevano dei rimedi da proporre. Usarono fili biodegradabili per chiudere gli sportelli delle trappole, addirittura sportelli biodegradabili, basandosi sulla teoria che, se una trappola andava perduta, prima o poi il materiale sarebbe marcito, lo sportello si sarebbe aperto e i pesci avrebbero potuto tornare in libertà. Ma il «prima o poi» era così lento ad arrivare che intere generazioni di animali rischiavano di essere cancellate prima della magica apertura degli sportelli. Darling aveva trovato trappole perse sul fondo che facevano pensare ai vagoni della metropolitana di Tokyo, gremite di animali d'ogni tipo, dalle anguille ai pesci pappagallo, dai polpi ai granchi. Quello spettacolo lo rattristava e lo mandava in collera perché, anche se non nutriva sentimentalismi morbosi a proposito della morte, quella era un tipo di morte assolutamente inutile, uno spreco bello e buono. Più di una volta aveva fermato la barca e perso tempo e denaro per scendere alle trappole profonde, tagliare le cime fluttuanti e aprire con le cesoie i portelli. I prigionieri perplessi, esausti e feriti - alcuni con le squame raschiate via dal filo metallico o con ferite aperte prodotte da zuffe frenetiche -, continuavano a girare per qualche attimo nella trappola aperta, come se non riuscissero a credere a quell'improvviso colpo di fortuna. Solo quando lui era lontano sembravano captare una specie di silenzioso suggerimento e tornavano alla libertà. Infine nel 1990, due anni troppo tardi, il governo di Bermuda aveva messo fuori legge la pesca con le trappole e indennizzato - anche troppo lautamente, secondo Darling - i settantotto pescatori commerciali dell'isola. Ciò non impedì a quei pescatori di levare alte proteste per le misere somme ricevute a compenso della perdita di un diritto concesso loro da Dio. Quel virtuoso reclamo mandava Darling su tutte le furie. Quale diritto? Dov'era scritto che a Bermuda ogni uomo aveva il diritto di uccidere tutti i pesci? Con quella logica, i rapinatori di banche avrebbero dovuto essere considerati alla stregua di onesti professionisti. Se un uomo ha il diritto di nutrire la propria famiglia, e se per raggiungere tale scopo compie atti illegali che obbligano le banche a pagare qualche centinaio di migliaia di dollari l'anno alle compagnie d'assicurazione, ebbene, questo era il prezzo della libertà. Ora che le trappole erano diventate illegali, si sperava che i pesci ritornassero, ma Darling ne dubitava. Bermuda non era come le Bahamas, una catena di settecento isole che potevano reintegrarsi tra loro se l'una o l'altra
veniva spopolata. C'era da dire che, alle Bahamas, c'era gente determinata non meno dei bermudiani, e forse ancora di più, all'autodistruzione. Si erano messi a pescare con il Clorox: bastava pomparne un po' in una scogliera e tutti i pesci e le aragoste venivano allo scoperto: non c'era da fare altro che raccoglierli. Ovviamente il Clorox uccideva anche la scogliera, e per sempre. Ma un uomo doveva pur vivere... Bermuda era uno scoglio isolato in mezzo al nulla. Aveva ciò che c'era, e ciò che non c'era non l'avrebbe mai avuto. E poi, come se l'uomo non lavorasse abbastanza celermente per fare di Bermuda una brughiera desolata, la natura stava assestando all'isola il colpo finale. Un amico di Darling, Marcus Sharp, pilota presso la base della Marina USA, gli aveva mostrato alcune cifre della NOAA da cui emergeva la conclusione che la temperatura dell'acqua intorno a Bermuda era amentata di due gradi negli ultimi vent'anni. Alcuni scienziati attribuivano quel fatto alla distruzione della foresta amazzonica e alla combustione di troppo carburante fossile. Altri sostenevano che faceva parte dei ritmi naturali, come l'alternanza delle ere glaciali. Ma il motivo era meno importante del fatto: stava accadendo. Per l'uomo che vive in città, un aumento di temperatura di due gradi è un fatto del tutto trascurabile. Per i coralli nel mare, quei due gradi in più significavano la differenza tra la vita e la morte. Il dieci per cento dei coralli di Bermuda era già morto. Darling ne vedeva ogni giorno le prove: c'erano grandi scogli di madrepore che erano diventati bianchi come un ossario. Se dal dieci per cento si fosse passati al venti per cento, se poi tutti i coralli fossero spariti, Bermuda sarebbe stata gradualmente erosa, perché i coralli erano il suo scudo contro il mare aperto. I polipi del corallo non erano i soli animali colpiti dall'aumento della temperatura. Alcune creature erano svanite, altre erano scese a profondità maggiori, e ne erano anche nate di nuove. Si era diffuso, per esempio, una specie di pidocchio microscopico che viveva nella sabbia. Quando i sub agitavano la sabbia, gli animaletti si liberavano e potevano così attaccarsi all'epidermide umana per poi penetrarvi. Secernevano un veleno che produceva piaghe purulente e un prurito infernale che durava una settimana. L'ultimo cavallo nella troika della distruzione erano gli stranieri. Mentre i bermudiani ammazzavano i pesci delle proprie scogliere, i giapponesi e i coreani massacravano le specie che vivevano nelle acque profonde. Uscivano tutti i giorni, gettavano reti lunghe trenta miglia per intercettare i migratori, e catturavano di tutto: tonni e pesci spada, sgombri e wahoo, squa-
li, bonitos e delfini. I pescatori che non usavano reti si servivano di lunghissimi palamiti orizzontali costituiti da chilometri di lenze, con ami ed esche a ogni metro, che ottenevano il medesimo risultato: uccidevano tutto, indiscriminatamente. Darling lo considerava un massacro vero e proprio, le cui conseguenze non potevano che ripercuotersi anche sugli uomini. Una volta la pesca gli dava l'occasione di apprezzare e ammirare la ricchezza e la diversità della vita. Adesso lo faceva pensare alla morte. Impiegarono un'ora a filare i palamiti e a piazzare le nasse di profondità. Quando furono immerse, Darling lanciò fuori bordo il gavitello di gomma, lasciandolo derivare con la corrente, mentre la brezza spingeva la barca a sud-est. Mike aprì una scatola di prosciutto polacco e una bottiglia di Coca-Cola, se le portò a poppa, sedette sul coperchio del boccaporto e armeggiò ancora con il motore della pompa. Darling andò nella timoniera e mangiò una mela, ascoltando la radio per sentire se qualcun altro aveva catturato qualcosa in qualche posto. Un capitano riferì di avere preso uno squalo. Un altro, al di là del Challenger Bank, aveva pescato qualche tonno di Alison. Degli altri, nessuno che avesse trovato qualcosa. Il sole aveva passato lo zenit e stava già scendendo a ovest quando loro ricuperarono il palamito. Fecero i turni - uno al verricello e l'altro a controllare la cima - e si scambiarono ottimistiche previsioni. «Lo senti?» «Una coppia di cernie.» «O forse un palombo.» «Un pesce ruvetto.» «Direi un paio di pesci azzurri.» «Non vorresti...» Gli otto ami portarono a bordo due piccoli pesci azzurri, con gli occhi sporgenti e la vescica estrusa, espansa nella bocca dall'improvviso calo di pressione. Darling li gettò nella cassetta delle esche, guardò il cielo e poi il mare. Non c'era una pinna in vista, nemmeno un uccello in cerca di cibo. Nulla. «Al diavolo», disse. Si asciugò le mani sui pantaloni e andò a poppa ad avviare il motore.
Stava per scendere in cabina quando udì Mike che diceva: «Guarda là», additando il cielo a sud. Un elicottero della Marina stava venendo da sud verso di loro. «Vorrei sapere dove sta andando», disse Darling. «In nessun posto, come al solito. Sta solo accumulando ore di volo.» «Forse.» Darling salutò con la mano l'elicottero che passava sopra di loro e proseguiva verso nord. Era probabile che Mike avesse ragione. Eccettuato qualche incarico occasionale di ricerca e salvataggio, i piloti della Marina avevano pochissimo lavoro, al punto che spesso dovevano volare avanti e indietro intorno al'isola per mantenersi in efficienza e totalizzare ore di volo. Però questa volta il pilota non stava oziando; volava verso nord nell'immenso nulla, e anche in velocità. «Non lo so», disse Darling. «A meno che sia in ritardo per andare a cena in qualche posto, magari in Nuova Scozia. Direi che ha una missione, e anche urgente.» Entrò nella timoniera e prese il microfono della radio. «Huey Uno... Huey Uno... Huey Uno... qui Privateer... rispondete!» 7. Il tenente Marcus Sharp aveva passato quel venerdì a giocare a pallacanestro - immaginando di essere impegnato in una partita «uno contro uno» con Larry Bird - quando l'ufficiale alle operazioni lo convocò e gli disse che un pilota della British Airways in volo verso Miami aveva raccolto una chiamata d'emergenza venti miglia a nord di Bermuda. Secondo l'ufficiale alle operazioni, il pilota non aveva visto nulla, fatto di certo non sorprendente, considerando che volava a più di novecento chilometri orari alla quota di diecimila metri sopra l'oceano. Tuttavia, il segnale sulla sua radio VHF era stato chiaro e distinto. Qualcuno là sotto era in difficoltà. L'addetto alla torre di controllo della stazione aeronavale aveva preso contatto con Miami, Atlanta, Raleigh/Durham, Baltimora e New York per scoprire se c'erano aerei in ritardo. Poi l'ufficiale aveva chiamato per radio la capitaneria del porto di Bermuda e chiesto notizie di eventuali imbarcazioni disperse, in ritardo o in pericolo. Tutto sembrava in ordine, però non si potevano correre rischi: bisognava dare seguito al segnale.
Sharp aveva fatto una rapida doccia e indossato la tuta di volo, mentre l'ufficiale alle operazioni aveva convocato un copilota e un sommozzatore, nonché fatto rifornire di carburante il velivolo. Sharp aveva trascritto le coordinate fornite dal pilota della BA, si era messo in tasca una tavoletta di cioccolato e qualche chewing gum, poi aveva raggiunto l'elicottero in attesa. Appena ebbe decollato da Kindley Field e virato a nord, Marcus si sentì vivo per la prima volta da parecchie settimane. L'adrenalina scorreva nel suo organismo, il polso era vivace: finalmente aveva un interesse, un obiettivo su cui concentrarsi. Stava accadendo qualcosa - non molto, non ciò che corrispondeva al suo concetto di azione - ma qualsiasi cosa era meglio del niente che da tempo era diventato la sua routine. Forse, pensò nel rettificare la rotta verso nord-est, forse avrebbero veramente trovato in mare delle persone in pericolo. Forse avrebbero fatto qualcosa di concreto... e sarebbe stato un cambiamento. Il problema di Sharp non si esauriva nella noia. Era una sensazione più complessa e decisamente egli sentiva, in modo vago e misterioso, che stava morendo a poco a poco; era una sensazione totalmente ingiustificata dal punto di vista fisico, ma non per questo meno tangibile. Aveva sempre avuto bisogno dell'avventura, giocato con il pericolo, trovato stimolo nel cambiamento, e gli sembrava di non poter vivere senza questi elementi che la vita gli aveva sempre regalato in abbondanza. Il reclutatore della Marina nello Stato del Michigan aveva identificato in Sharp quel bisogno di azione e lo aveva sfruttato. Davanti a lui c'era un ragazzo che si era fratturato le due gambe - una volta sciando, l'altra in deltaplano - e tuttavia non aveva smesso di praticare entrambi gli sport. Aveva il brevetto di sommozzatore dall'età di quattordici anni, e il suo eroe non era Jacques Cousteau, ma Peter Gimbel, l'uomo che aveva realizzato i primi film subacquei sui grandi squali bianchi e sul relitto dell'Andrea Doria; era un sognatore che voleva costruire un aeroplano ultraleggero e pilotarlo attraverso tutto il Paese; un ricercatore senza pace che non aspirava ad accumulare ricchezze, bensì a scoprire i propri limiti. Nel test psicologico della Marina aveva elencato i tre uomini che ammirava di più: Ernest Hemingway, Theodore Roosevelt e James Bond «perché erano tutti uomini d'azione, non semplici spettatori, e vivevano la propria vita». Sharp aveva constatato in quella circostanza che, come lui, la Marina non faceva pedanti discriminazioni tra realtà e leggenda. Il reclutatore convinse Marcus che la Marina gli offriva una carriera in
cui avrebbe fatto regolarmente cose che gli altri potevano sperare di fare soltanto in qualche rara occasione. Poteva scegliersi la specialità, cambiarla, dare prova di sé sul mare e nel cielo, e al tempo stesso - qua - si un effetto collaterale - contribuire alla difesa della nazione. Firmò la domanda prima di laurearsi e, nel giugno 1983, entrò alla scuola allievi ufficiali di Newport, Rhode Island. I primi anni furono all'altezza delle sue aspettative. Diventò un esperto di demolizioni sottomarine. Ottenne il brevetto di pilota di elicottero. Fece un breve periodo di servizio in Marina e fu in combattimento a Panama. Quando il suo sviluppo mentale fu pari a quello fisico, e nacquero in lui interessi da adulto, dedicò un anno allo studio della meteorologia e dell'oceanografia a Halifax nell'ambito di un programma di scambio. La vita di Sharp era intensa, varia e divertente. Però da un anno e mezzo non lo soddisfaceva più. Una parte dei suoi problemi, lo sapeva, era la ripugnanza ad affrontare lo spettro della maturità. Aveva ventinove anni e non aveva mai pensato molto alla soglia dei trenta: certamente non ne aveva avuto paura fino al momento in cui, pochi mesi prima, si era vista respingere la domanda di ammissione nel corpo dei SEALS. L'élite della Marina - gli specialisti «Aria, mare, terra», i commando più preparati e più temerari, quelli cui venivano affidate le missioni definite impossibili - non voleva Marcus Sharp perché era troppo vecchio. Aveva superato i limiti di età. Ma alla base del suo malcontento c'era l'evento più vicino a una tragedia che Marcus Sharp avesse mai conosciuto. Si era innamorato di una hostess di volo della United Airlines, anche lei sciatrice e subacquea; erano stati insieme in tutte le parti del mondo. Erano giovani e immortali. Il matrimonio era una possibilità, ma non una necessità. Vivevano nel presente e per il presente. Fu così fino a quel giorno del settembre 1989, quando erano immersi in apnea al largo di una spiaggia del North Queensland. Avevano avuto i consueti avvertimenti a proposito degli animali pericolosi, ma non se ne erano preoccupati. Avevano già nuotato assieme a squali, mante e barracuda, erano in grado di badare a se stessi. Il mare non era un mondo di pericolo, ma di avventura e di scoperta. Avevano visto una tartaruga e l'avevano seguita cercando di raggiungerla. La tartaruga aveva rallentato e aperto la bocca come per mangiare qualcosa, ma loro non avevano potuto vedere che cosa; nuotarono verso l'animale, attratti dalla sua grazia e dalla sua mobilità in acqua.
Karen aveva allungato la mano per toccarla, per strofinarle la corazza. All'improvviso, sotto gli occhi di Sharp, la ragazza aveva preso a contorcersi inarcando la schiena e artigliandosi il seno. Il boccaglio le era sfuggito, e Karen aveva cominciato a urlare, con gli occhi che roteavano e le mani affondate nella carne. Sharp l'aveva afferrata e riportata in superficie, poi aveva tentato di tranquillizzarla, di farla parlare. Le urla di lei erano state l'unica risposta che aveva ottenuto. Quando riuscì a riportarla a riva, era morta. La tartaruga si stava nutrendo di cubomeduse praticamente invisibili nell'acqua chiamate «vespe di mare», urticanti e tossiche a tal punto che il contatto superficiale con loro, il semplice sfioramento, bastava a causare l'arresto cardiaco in un essere umano. E proprio questo era successo alla ragazza. Karen fu sepolta nell'Indiana; con il tempo, il dolore di Sharp cominciò a cicatrizzarsi. Però era tormentato da cupi pensieri sull'arbitrarietà del fato. Non era questione di giustizia o di lealtà: non aveva mai pensato che la vita fosse leale o che non lo fosse. La vita era. Ma il destino agiva in modo capriccioso. Gli umani non erano immortali; nulla durava per sempre. Si sentiva afflitto dal vuoto della sua vita, dalla mancanza di un centro d'interesse. Aveva fatto molto cose, ma tutte inutilmente. Si vedeva come la biglia d'acciaio di un flipper, che rimbalzava senza scopo da una buca all'altra. La Marina gli aveva dato la migliore assegnazione possibile, due anni di servizio a Bermuda: un luogo soleggiato, tranquillo, a due sole ore dagli Stati Uniti. Ma Sharp non cercava la tranquillità. Aveva bisogno di azione, per quanto l'azione pura e semplice ora non gli bastasse più: doveva avere un senso, uno scopo. A Bermuda non aveva trovato molto da fare, se non il lavoro burocratico e qualche volo intorno all'isola nella speranza che ci fosse bisogno di soccorsi. Qualche volta aveva pensato a lasciare la Marina, ma non aveva idea di ciò che avrebbe potuto fare, dopo. La vita civile offriva poche opportunità a un pilota d'elicottero esperto nel far saltare i ponti. In attesa di qualche sviluppo, si offriva volontario per tutti gli incarichi che potevano impedirgli di pensare a se stesso. Sharp stava volando verso nord-ovest, con l'intenzione di organizzare
uno schema di ricerca sull'asse nord-ovest-nord-nord-est e infine a est, lungo tutto il lato settentrionale dell'isola. Sintonizzò la radio UHF SU 243.0, e la VHF SU 121.5, le due frequenze su cui venivano trasmesse le chiamate d'emergenza. Teneva la quota di centocinquanta metri. A sei miglia dall'isola, dove finivano le scogliere e il colore delle acque mutava dal turchese screziato all'azzurro cupo, udì un bip molto debole, molto lontano, ma costante. Guardò il copilota battendosi un dito sull'auricolare; il collega annuì e alzò il pollice. Sharp osservò gli strumenti, ruotando lentamente l'elicottero fino a quando ebbe trovato la direzione da cui il segnale era più forte sul radiogoniometro. Verificò il rilevamento sulla bussola. Poi udì una voce sulla frequenza della capitaneria di porto. «Huey Uno... Huey Uno... Huey Uno... Qui Privateer... rispondete.» «Privateer... Qui Huey Uno...» Sharp sorrise. «Salve, Whip... dove sei?» «Giusto sotto di te, ragazzo. Non tieni gli occhi sulla strada quando guidi?» «Stavo guardando il futuro.» «Sei fuori a fare un giro?» «Un pilota della BA ha captato un segnale EPIRB poco fa. Senti qualcosa?» «Nemmeno un bip. A che distanza?» «Dieci-quindici miglia. In questo momento ricevo il segnale su duecinque-uno. Qualunque cosa sia, il vento la spinge verso di noi.» «Magari ti vengo dietro.» Sharp esitò, poi disse: «Okay, Whip, seguimi. Chissà? Forse avrò bisogno del tuo aiuto». «D'accordo, Marcus. Privateer sta in ascolto.» Bene, pensò Sharp. Se una nave stava affondando laggiù, Whip sarebbe giunto sul posto molto prima di qualunque mezzo mandato dalla base. Se si trattava di una nave abbandonata, per esempio una scialuppa, la SOP - la procedura operativa standard - richiedeva che si mandasse un sommozzatore a verificare. Il tempo era discreto, ma calare da un elicottero un sommozzatore in mare aperto era rischioso in tutte le condizioni atmosferiche. Non avrebbe esitato a scendere di persona, ma non gli piaceva l'idea di mandare in acqua da solo un ragazzo di diciannove anni. Avrebbe potuto incaricare Whip di andare a vedere, mentre lui rastrellava il mare alla ricerca dei naufraghi. Se ne avesse trovati, vivi o morti, avrebbe assolutamente dovuto mandare giù il sommozzatore, e in quel caso voleva che il
ragazzo fosse fresco e riposato. Inoltre, poteva esserci qualche cosa di valore per Whip, se nessuno l'avesse reclamata. Un canotto, una radio, una pistola lanciarazzi. Qualche oggetto buono da vendere o da usare, che facesse guadagnare o risparmiare denaro a Whip. Sharp sapeva quanto Whip ne avesse bisogno. E poi, pensò Sharp, ho un debito con lui. Uno? Accidenti, aveva almeno cento debiti verso Whip Darling. Era stato Whip a salvare Sharp dalla pazzia in un momento in cui c'erano buone probabilità che diventasse uno zero assoluto, un patito di film come I nazisti del surf devono morire e Donne amazzoni sulla luna. I fine settimana erano diventati intollerabili. Aveva fatto il sub con tutti i gruppi turistici dell'isola, percorso in motocicletta ogni centimetro quadrato di terraferma, visitato tutti i forti e tutti i musei, lasciato soldi in tutti i saloon. Non aveva obiezioni morali contro l'etilismo, però non sopportava né il gusto né gli effetti degli alcolici. Aveva visto tutti i film della videoteca della base, eccettuati quelli in cui si assassinavano le baby-sitter. Leggeva ogni giorno per ore fino a farsi venire il bruciore agli occhi e i crampi al sedere. Stava quasi per fare la cosa impensabile - mettersi a giocare a golf quando conobbe Whip nel corso di una cerimonia alla base. Era stato affascinato dal discorso di Whip sulle tecniche per scoprire i relitti e gli aveva rivolto abbastanza domande intelligenti per ottenere un invito a uscire in barca con lui una domenica... che presto era diventato ogni domenica e quasi ogni sabato. Mentre ascoltava Whip, imparava e, stranamente, si vergognava della propria istruzione. Aveva davanti a sé un uomo con soli sei anni di scuola, che aveva saputo insegnare a se stesso non soltanto a fare il pescatore e il subacqueo, ma anche lo storico, il biologo, il numismatico e... insomma, era diventato un'enciclopedia ambulante del mare. Sharp si era offerto di partecipare al costo del carburante per quelle uscite, ma la proposta era stata respinta. Aveva proposto di aiutare a pitturare la barca ed era stato accettato, cosa che lo aveva reso felice perché lo faceva sentire utile, e non un parassita. Poi Whip gli aveva mostrato alcune fotografie di come si presentavano i relitti visti dal cielo, e di colpo - come se una porta si fosse dischiusa illuminando un angolo della sua mente di cui ignorava l'esistenza - aveva scorto la prospettiva di nuovi interessi, di nuovi obiettivi. Whip gli insegnò a non cercare la classica, fiabesca immagine di un relitto - la nave diritta sulla chiglia, con le vele spiegate e scheletri con tri-
corno seduti al tavolo dov'erano morti giocandosi a carte una pila di dobloni. Le vecchie navi erano di legno; la grande maggioranza di quelle che erano finite a Bermuda erano affondate in acque basse. Le tempeste le avevano ridotte in pezzi, e anche questi erano stati dispersi e spinti al fondo da secoli di acque in movimento. Il fondale li aveva inghiottiti e i coralli erano poi cresciuti sui relitti, coprendo anche i cadaveri. Secondo Whip, i segni rivelatori della presenza di un relitto sul fondo erano tre. Quando una nave finiva sulla scogliera - spinta dal vento e trasportata dai marosi - frantumava i coralli e li distruggeva lasciando una specie di cicatrice che, vista dall'alto, rassomigliava alla traccia di un pneumatico gigantesco. Un occhio esperto riusciva a vedere uno o due cannoni che, coperti dalla vegetazione marina e incrostati dai coralli, potevano apparire come una massa dall'aspetto innaturale soltanto in virtù della loro forma rettilinea. C'era del vero nell'antico adagio secondo cui la natura non ama le linee rette. Però la presenza di un cannone non implicava necessariamente la vicinanza dello scafo perché quando una nave era, per così dire, in agonia, spesso l'equipaggio gettava a mare tutti gli oggetti pesanti per alleggerirla e tentare di disincagliarla. Si poteva trovare un cannone qui, un'ancora là, ma non la nave, perché le onde potevano averla portata a miglia di distanza prima di mandarla sul fondo e ridurla in pezzi nel luogo che sarebbe stato la sua ultima dimora. La vera traccia sicura - visibile dall'alto, ma difficilissima da identificare - era il tumulo di zavorra. Whip sosteneva a spada tratta la teoria secondo la quale le navi morivano nel punto in cui giaceva la zavorra. Sì, la sovrastruttura poteva essere andata alla deriva, portando con sé uno o due superstiti, ma l'anima, il cuore della nave - il suo carico, l'eventuale tesoro -, restava accanto alla zavorra. Nei tempi antichi, si usavano come zavorra le pietre di fiume che venivano prese sulle rive dell'Ebro, del Tamigi o di uno degli altri fiumi. I sassi erano tondi, levigati e non troppo grandi affinché un uomo potesse sollevarli. Pensa ai ciottoli, diceva Whip a Sharp, perché tutti i ciottoli di città come Nantucket erano stati zavorra, caricati nel ventre delle navi per tenerle in assetto durante il viaggio di andata dall'Inghilterra, e venivano sostituiti da barili di olio nel viaggio di ritorno. Pertanto Sharp aveva preso l'abitudine di cercare agglomerati di sassi tondeggianti su un fondale di sabbia bianca fra le macchie scure delle formazioni madreporiche. Whip gli aveva insegnato che una vecchia nave in genere sbatteva nella sporgenza dello scoglio corallino e vi restava inca-
strata. Poi arrivavano le ondate a staccarla e demolirla progressivamente spargendo i pezzi della sua ossatura sulla sabbia, che finiva per stringerli nel suo abbraccio e coprirli per sempre. Adesso Sharp coglieva ogni occasione di volare, e ogni volta che decollava - per tenere alto il numero delle ore di volo, per addestrare giovani piloti o collaudare nuove apparecchiature - stava sempre all'erta cercando di scoprire eventuali relitti. Volava quanto più basso poteva, imbardando a destra e a sinistra per avere i raggi del sole angolati opportunamente sulla superficie del mare. Se un membro dell'equipaggio gli domandava che cosa stava facendo, dava risposte vaghe tipo: «Provo tutti i passi del rotore». Finora aveva trovato due tumuli di zavorra, che corrispondevano a due relitti. Uno, disse Whip, era stato esplorato negli anni '60. Il secondo era intatto. Un giorno o l'altro sarebbero andati insieme a ispezionarlo. I bip adesso erano forti e regolari, e Sharp poté vedere qualcosa di giallo che dondolava sulle onde. Spinse in giù la barra di comando del passo collettivo e portò l'elicottero a trenta metri sul pelo dell'acqua. Era un gommone, piccolo, vuoto, apparentemente non danneggiato. Circuitò intorno a esso, badando a non abbassarsi troppo per evitare che il vortice d'aria discendente prodotto dai rotori facesse girare o capovolgere il canotto. «Privateer... Huey Uno...» «Sì, Marcus...» rispose la voce di Whip. «È un gommone. Nessuno a bordo, solo il gommone. Potrebbe essere caduto da uno yacht. Alcuni EPIRB sono attivati dall'acqua salata.» «Non vuoi che vada a recuperarlo con il mio paranco? Girerò per vedere se c'è gente in mare, poi lo porterò a riva. Non occorre che qualcuno dei tuoi si bagni.» «Buona idea. Rilevamento tre-quattro-zero dal punto in cui ti trovi. Dovresti raggiungerlo nel giro di un'ora. Frattanto io organizzo una griglia di ricerca, la percorro avanti e indietro finché il carburante me lo permette.» «Roger, Marcus.» «Secondo me è un falso allarme. Comunque, la terra degli uomini liberi e valenti ti è grata, Whip.» «Il piacere è mio. Il Privateer resta in contatto...» 8.
«Forse la giornata non sarà un buco completo», disse Darling mentre saliva la scaletta del flying bridge. «Perché?» chiese Mike intento a stivare l'ultimo rotolo di cavo. «Abbiamo l'opportunità di prenderci un gommone. Se è uno Switlik e non porta il nome di qualcuno, può valere duemila dollari, forse anche di più.» «Qualcuno lo reclamerà. Va sempre cosi.» «Probabile... con la fortuna che abbiamo.» In meno di un'ora localizzarono il gommone. Darling gli girò intorno lentamente, studiandolo come un campione su un vetrino di laboratorio. «Switlik», disse compiaciuto. «Sembra nuovo di zecca, appena uscito dal negozio. Si direbbe che non ci è mai salito nessuno.» «O è così, oppure i passeggeri sono stati salvati quasi subito.» Darling non vedeva alcuno dei normali indizi della presenza di persone a bordo di un canotto: niente sporcizia, nessun segno di calpestio di scarpe di gomma, niente sangue colato nello staccare un pesce dall'amo, nessun capo di vestiario. «Li avranno presi gli squali?» suggerì Mike. Darling scosse il capo. «Gli squali avrebbero morsicato un tubolare e sgonfiato uno scomparto, magari l'avrebbero raschiato con la propria pelle. Dovremmo vedere le tracce.» «Che cosa è stato, allora?» domandò Mike. «Forse una balena.» Darling continuò a girare intorno al gommone valutando le possibilità. Si sa che le orche attaccano i canotti, i dinghy, e anche barche più grandi. Nessuno ne conosce il motivo, perché esse non aggrediscono mai le persone. Non è mai successo che un'orca abbia mangiato un essere umano. Forse si sono solo messe a giocare con il canotto e, come i bambini cresciuti troppo in fretta, non erano consapevoli della propria forza. Invece le balenottere avevano ucciso delle persone, ma sempre accidentalmente. Si erano avvicinate ai gommoni per curiosità, per vedere che cos'erano, c'erano passate sotto, avevano dato un colpo di coda e le persone, scaraventate in mare, erano morte. «No», disse Whip accantonando quell'idea. «Sarebbe tutto sottosopra.» Mike disse: «Il gommone potrebbe essere scivolato dal ponte e finito nell'oceano». «E allora che cosa avrebbe attivato l'EPIRB?» Darling additò il radiofaro
nell'involucro di polistirene. «Non è automatico. Qualcuno deve averlo acceso.» «Forse una nave ha raccolto i naufraghi e nessuno ha pensato a spegnerlo.» «E nessuno avrebbe fatto rapporto a Bermuda?» Darling rifletté. «Mi prendesse un colpo se la barca di quella gente non è affondata all'improvviso; loro hanno avuto appena il tempo di gettare il canotto in mare, poi hanno cercato di saltarci su, lo hanno mancato e sono affogati.» Mike sembrò soddisfatto di quella risposta, perciò Darling non diede voce all'altra ipotesi, ancora nebulosa, che aveva formulato mentalmente. Non era il caso di confondere le idee di Mike. E poi, di solito, le congetture si rivelavano mere stronzate. «Bene», disse quindi. «La buona notizia è che abbiamo uno Switlik nuovo fiammante; ci servirà a tenere i lupi fuori dell'uscio per un po' di tempo.» Agganciarono il gommone con un rampino, passarono la cima nel bozzello del paranco, e lo issarono a bordo. Mike si inginocchiò per frugarlo, aprendo la cassetta dei rifornimenti a prua, tastando fra i tubolari e il pagliolo. «Meglio spegnere l'EPIRB», disse Darling mentre staccava il gancio e arrotolava la cima. «Non è il caso di disturbare un mucchio di piloti con questo segnale d'emergenza proprio mentre stanno smaltendo la sbronza.» Mike fece scattare l'interruttore dell'EPIRB e fece rientrare l'antenna. Si alzò. «Nulla. Non manca niente, non c'è niente che non va.» «No.» Ma qualcosa turbava Darling, che continuò a osservare il canotto, confrontando l'inventario di ciò che vedeva con quello che sarebbe stato giusto trovare. Il remo. Ecco che cos'era. Mancavano i remi. Tutti i gommoni avevano a bordo almeno un remo, e difatti questo aveva gli scalmi. Però mancavano i remi. Poi il canotto slittò un poco, e l'occhio di Darling fu attratto da qualcosa, su uno dei tubolari, che la luce del sole faceva scintillare. Si chinò per vedere meglio e accostò il viso al tessuto gommato. Scorse alcuni graffi, come se un coltello avesse inciso la superficie senza passare da parte a parte; intorno a ogni graffio, poi, c'era una macchia di roba viscida. La toccò e si portò le dita sotto il naso. «Che cos'è?» volle sapere Mike. Darling esitò, poi decise di mentire. «Olio solare. I poveretti volevano
abbronzarsi.» Non aveva idea di che cosa fosse quella sostanza. Puzzava di ammoniaca. Chiamò Sharp per radio e gli disse del gommone; aggiunse che intendeva continuare la ricerca spingendosi ancora un po' a nord. Una persona in acqua, viva o morta, non dispone di una superficie che faccia da vela; pertanto lui - o lei che fosse - non poteva essersi spostato tanto quanto il gommone. In effetti poteva essere andato in qualunque direzione sotto la spinta delle correnti. Pertanto diressero a nord - altre dieci miglia, più o meno -, poi virarono a sud e presero a zigzagare da sud-ovest a sud-est. Mike stava a prua, con gli occhi sulla superficie immediatamente davanti a lui, osservandola in trasparenza, mentre Darling scrutava lontano dal flying bridge. Avevano appena accostato a est, dalla parte opposta al sole, quando Mike gridò: «Laggiù!» segnalando verso sinistra. A venti o trenta metri qualcosa di grosso e lucido galleggiava su una macchia di sargassi. Darling rallentò e si diresse da quella parte. Mentre si avvicinavano, si resero conto che l'oggetto, qualunque cosa fosse, non era opera dell'uomo. Oscillava lentamente, aveva una lucentezza umida e tremava come gelatina. «Che diavolo può essere quella roba?» esclamò Mike. «Sembra una medusa di un metro e ottanta impigliata nelle alghe.» «Accidenti! Non voglio entrarle dentro.» Darling mise il motore in folle e guardò dal flying bridge mentre passava di fianco alla «cosa». Era un grosso corpo gelatinoso oblungo, con un buco nel mezzo, e sembrava avere una parvenza di vita, perché ruotava a intervalli di qualche secondo come per esporre al sole altre parti di sé. «Non somiglia a nessuna delle meduse che ho visto.» «No», ammise Darling. «Non ci capisco niente. Uova di qualche animale, immagino.» «Ne prendiamo un po'?» «Per farne cosa?» «Magari per l'acquario?» «No. Non mi hanno mai chiesto uova. Se sono uova, lasciamo vivere quegli esseri, di qualunque razza siano.» Darling riprese la rotta a sud-est. Quando raggiunsero la zona in cui aveva ricuperato il gommone, trovarono due cuscini e un parabordo di gomma.
«Mi domando come ha fatto Marcus a non vederli», disse Mike tirando su il parabordo. «Non erano sott'acqua.» «Gli elicotteri sono bei congegni, ma devono volare molto lentamente sull'acqua, altrimenti l'occhio umano non riesce a distinguere alcunché.». Darling osservò la superficie. Non vide segni di vita, né presente né passata. «Basta per oggi», concluse. Prese il rilevamento della gobba confusa in lontananza chiamata Bermuda e si accinse a rientrare. Alle sei del pomeriggio si erano lasciati dietro le acque profonde, l'onda lunga dell'oceano si era acquietata e il colore del mare era passato dall'azzurro acciaio al verde cupo. Dal flying bridge potevano vedere i banchi di sabbia sul fondo, le macchie scure delle alghe e del corallo. «Chi è quello là?» domandò Mike, indicando la silhouette di una barca contro il sole calante. Darling si fece schermo agli occhi con una mano, valutando l'inclinazione della prua, la forma della tuga e le dimensioni del posto di guida. «Carl Frith», rispose. «A fare cosa? Pesca alla traina?» «Nelle secche? Non credo proprio.» Continuarono a guardare. Videro movimento a bordo della barca che rollava esageratamente, come se caricasse un peso da una parte e lo scaricasse dall'altra. «Non credi...?» cominciò a dire Mike. «No, non è così stupido.» «Stupido? Forse no.» Darling si voltò verso la barca e spinse avanti la leva dell'acceleratore. «Ma avido sì, non credi?» Mike lanciò un'occhiata a Darling. Vide la tensione nella mandibola, la durezza e il gelo negli occhi socchiusi. Carl Frith era uno di quelli che un tempo pescavano con le trappole, e aveva protestato più di tutti quando quel sistema era stato bandito. Blaterava sempre di libertà, d'indipendenza e dei diritti dell'uomo, sebbene avesse ricevuto centomila dollari dal governo a titolo d'indennizzo. Somma più che sufficiente per chiunque, pensava Darling, quanto bastava per passare alla pesca alla traina, al trasporto dei turisti e dei pescatori dilettanti, o comunque a iniziare un'altra attività. E, tuttavia, sembrava proprio che Carl Frith volesse avere tutti i vantaggi. Gli si avvicinarono da nord-ovest, sottovento, perciò Carl Frith udì il motore del Privateer solo quando lo ebbe a una trentina di metri. Lo videro
chiaramente allungare la gaffa sotto il pelo dell'acqua, agganciare la boa sommersa, tirare la cima, avvolgerla al tamburo del verricello, issare a bordo la grande trappola, aprirla e rovesciarne il contenuto nella stiva per i pesci. «Miserabile figlio di puttana», imprecò Darling. «Lo speroniamo?» «Facciamolo a pezzi, quel bastardo.» «Molto bene», concordò Mike. Darling sentiva la rabbia salire dalla bocca dello stomaco. Per lui non era grave che Frith facesse una cosa illegale: dal punto di vista di Darling, quasi tutte le leggi non erano altro che puttanate al servizio dei politicanti. Ciò che gli bruciava e lo offendeva, facendolo stare male, era l'ottuso egoismo dell'individuo, quel suo precipitarsi a capofitto nella distruzione e nello spreco. Frith non solo continuava a praticare la pesca con le trappole; usava anche boe sommerse in modo che la polizia marittima non potesse vederle in superficie. Pertanto la trappola poteva essere inavvertitamente investita e staccata dall'elica di un'imbarcazione di passaggio, o portata via da una bufera, con il risultato che Frith non l'avrebbe più trovata. Nell'uno o nell'altro modo, la trappola sarebbe finita sul fondale dove, giorno dopo giorno, avrebbe continuato a uccidere, a uccidere sempre. Adesso Frith li sentì arrivare. Aveva una trappola appesa sulla murata. Appena si voltò e vide il Privateer in avvicinamento, estrasse un coltello dalla guaina alla cintura e tagliò il cavo della trappola, che precipitò in mare e affondò. Darling continuò a tenere una velocità sostenuta finché fu a tre metri dalla piccola barca di Frith, poi virò bruscamente e tirò indietro la manetta dell'acceleratore, alzando un'ondata che investì la piccola imbarcazione e fece vacillare Frith. «Ehi!» gridò Frith. «Che diavolo ti prende?» Darling tenne il suo motopeschereccio a dondolare a fianco di quello di Frith. Si appoggiò al parapetto del flying bridge e guardò in giù. Frith era un uomo sulla cinquantina, obeso e calvo. La sua pelle era scura e logora come una vecchia sella, i denti gialli di nicotina. «Sono solo venuto a vedere che cosa stai facendo, Carl», disse Darling. «Non sono affari tuoi.» «Non starai pescando, per caso?» «Non ti riguarda.» «Non starai pescando con le trappole, vero?»
«Levati dalle palle, Whip.» «Vediamo, Carl...» Il sorriso di Darling era gelido. «Immagino che tu abbia preso soprattutto... Che cosa?... Dei labridi pulitori. Dico bene?» Frith non rispose. Darling si rivolse a Mike. «Dà un'occhiata, Michael, vedi che cosa ha pescato.» Mike si avviò giù per la scaletta del ponte. Frith tirò fuori il coltello e lo alzò: «Nessuno sale sulla mia barca», lo minacciò. Dalla sua posizione sopraelevata Mike si sporse a guardare nella stiva dei pesci, poi si voltò verso Darling e fece un cenno d'assenso. Darling continuò a sorridere e disse: «Labridi pulitori. Conti di mondarli e venderli agli alberghi, vero, Carl? Venderli come pesce fresco di Bermuda? Magari a quattro dollari al chilo?» «Non puoi dimostrare niente», replicò Frith. Allargò le braccia e fece un gesto verso la timoniera. «Trappole? Dove vedi delle trappole?» «Non ho bisogno di provare nulla, Carl. Non intendo denunciarti.» «Oh.» Frith si rilassò. «Ma allora...» Mike sembrava perplesso, ma non parlò. «Sai che cosa fanno i labridi pulitori, Carl? Mangiano i parassiti che pullulano nelle madrepore, tengono pulita la scogliera. Senza di loro, la barriera muore.» «Andiamo, Whip... un uomo solo... poche trappole, non possono...» «Sicuro, Carl.» Il sorriso di Darling si spense. «Un uomo che ha ricevuto centomila dollari dal governo e ha dato la sua parola che avrebbe smesso di pescare, un uomo che non ha bisogno di soldi ma è troppo cocciuto per fare altro, un uomo che se ne frega di...» «Va' a farti fottere, Whip.» «No, Carl», replicò Darling. «Va' tu a farti fottere.» Girò la ruota a destra e spinse la manetta. Il Privateer balzò in avanti e a destra e urtò la barca di Frith, tranciando con il tagliamare d'acciaio la scaletta di legno fissata fuori bordo. «Maledizione!» gridò Frith. Darling continuò la virata, facendo ruotare con la prua del Privateer la poppa dell'altra barca. Frith corse a prora, girò la chiave e premette il pulsante di avviamento. Il motore tossì, protestò, fece qualche giro, ma non partì. Sul Privateer, Darling inserì la marcia indietro, arretrò virando e puntò la prua contro la poppa di Frith. Colpì lo specchio di poppa e lo mandò in
pezzi. A quel punto, Frith aveva inserito la marcia e si allontanava nel tentativo di sfuggire a Darling. Mike salì la scaletta e restò con Darling in piedi sul flying bridge. «Lo affondiamo?» chiese. «Si affonderà da solo.» Darling si voltò a guardare il sole. Era ancora alto sull'orizzonte, una sfera gialla luminosa. Frith prese la fuga diretto a est, Darling gli tenne dietro a dieci metri di distanza minacciando la collisione, ma senza forzarla, spingendo Frith avanti ogni volta che tentava di virare e obbligandolo a tenere la rotta verso est. «Non capisco», disse Mike. «Capirai.» «Lo stai spingendo verso il canale.» «Non proprio verso il canale.» Mike rifletté per un attimo, poi capì e sorrise. Per altri cinque minuti Darling stette alle calcagna di Frith, continuando a controllare il sole alle proprie spalle e le scogliere davanti. Poi, dolcemente, tirò indietro la manetta dell'acceleratore. Il Privateer rallentò, e Frith aumentò gradualmente la distanza. Si voltò e vide che stava prendendo vantaggio. Urlò qualche parola che fu portata via dal vento, e puntò il dito contro Darling. Questi mise il motore in folle e il Privateer si fermò. «Addio, Carl!» gridò. «Buona giornata a te.» Additò la prua. A meno di un metro e mezzo, coperta a malapena dall'acqua, c'era la prima di un'intricata barriera di coralli multicolori. «Credi che funzionerà?» domandò Mike. «Lui conosce queste scogliere.» «Nessuno conosce queste scogliere, Mike, se non ci vede.» Carl Frith scansò uno scoglio corallino, poi un altro. Prendila con calma, si disse. È vero che peschi meno di un metro, ma alcuni di questi coralli sono trenta centimetri sotto la superficie. Arretrò rallentando, e cercò di riprendere fiato. Accidenti a quel bastardo virtuoso. Chi era Whip Darling per dire a un altro come doveva guadagnarsi la vita? Nemmeno Whip se la passava tanto bene, stando alle voci che giravano. Era logico aspettarsi da lui un po' di comprensione. Considerare importanti i labridi pulitori? Roba da ridere.
Erano pesci dozzinali, lo sapevano tutti. Whip era seccato per il solo motivo che non aveva trappole con cui cavare quattrini dal governo. Non aveva importanza. Nessun problema. Whip aveva detto che non l'avrebbe denunciato e, qualunque opinione si potesse avere di lui, si sapeva che era uomo di parola. Voleva che la cosa restasse tra loro, e Frith non ne avrebbe parlato a nessuno. Un giorno o l'altro sarebbe andato fuori a tagliare le boe di Whip, tutte quelle stronzate che lui faceva per l'acquario. Non era nemmeno un lavoro da uomo. In ogni modo, era chiaro che Whip non faceva tanto sul serio, altrimenti non si sarebbe limitato a spingerlo verso le secche. Non era un grosso problema. Doveva solo girare intorno e... Frith guardò a ovest. Non vide nulla, solo i lampi accecanti del sole sul mare variegato. Nessun rilievo sull'acqua, nessuno scoglio corallino, niente, Era come guardare un foglio di stagnola sotto il sole di mezzogiorno. Si rese conto di essere in trappola. Non poteva andare a est perché i coralli sporgevano dalla superficie. Non poteva andare a ovest perché non ci vedeva: avanzando alla cieca aveva la certezza di lacerare il fondo della barca. E la marea stava calando, lo sapeva fin dalla mattina, quando aveva verificato le tabelle della marea per assicurarsi di poter trovare le boe. Avrebbe atteso il tramonto... e poi? Provare ad andarsene al buio? Neanche da pensarci. Doveva aspettare il mattino. Avrebbe gettato l'ancora e atteso, bevuto una birra, dormito e... Ma non osava. Se il vento si fosse alzato, forse sarebbe stato costretto a muoversi in piena notte. Com'erano le previsioni del servizio meteorologico? Non si era preso il disturbo di guardarle, non sembravano importanti. Non poteva vedere la barca di Whip. Era in qualche posto, laggiù nella luce del sole. «Che Dio ti maledica!» urlò. Darling vide la barca di Frith rallentare e fermarsi. Provò a immaginare ciò che passava nella mente di Frith: tutto andava bene, avrebbe detto tra sé, ma poi si sarebbe voltato, scoprendo di essere contro sole. «Aspetterà sino a domattina», disse Mike. «Non è il tipo, non è abbastanza paziente.» Restarono ancora qualche minuto sul posto, passando lentamente lungo il bordo della bassa scogliera. «Forse hai ragione», disse Darling afferrando la manetta dell'accelerato-
re. In quel momento udirono il rombo del motore di Frith. «Invece no», commentò Mike ridendo. Ascoltarono il rumore attraverso l'acqua tranquilla, lo sentirono salire di giri e poi diminuire, mentre la barca avanzava e arretrava. «Sta cercando», disse Darling. «Come fanno i ciechi.» Un momento dopo, sentirono una piccola vibrazione sotto i piedi, trasmessa dall'acqua attraverso lo scafo metallico del Privateer, poi udirono un rumore basso e stridente, seguito di colpo dal miagolio del motore di Frith. «L'ha fatto», disse Darling, poi rise e batté una manata sulla spalla di Mike. «Si è incagliato su quello scoglio, netto e deciso.» «Devo chiamare la polizia?» domandò Mike. «Possono mandare il gommone.» «Lasciamolo nuotare. Non gli farà male un po' di esercizio.» Darling virò verso est. «E poi abbiamo ancora un impegno.» «Quale?» «Distruggere le trappole di quel bastardo.» «Ci denuncerà», obiettò Mike, ma poi rifletté per un attimo. «A pensarci bene, no. Non credo che lo farà.» Quando Darling doppiò la punta per entrare nella Mangrove Bay, il blu del cielo stava passando rapidamente al violetto; il sole, sparito sotto l'orizzonte, aveva tinto le nubi a ovest di color salmone. Sulla banchina era accesa un'unica lampada e, sotto di essa, ormeggiato a una bitta, c'era un fuoribordo bianco di sette metri e mezzo con la scritta «Police» in lettere blu alte trenta centimetri. «Cristo», disse Mike. «Ci ha già denunciati.» «Ne dubito», rispose Darling. «Carl è un cretino, ma non è pazzo.» Sulla banchina c'erano due giovani agenti di polizia, uno bianco e l'altro nero, entrambi in uniforme: camicia, short e calzettoni. Guardarono Darling affiancare il motopeschereccio al pontile e lanciarono a Mike le cime d'ormeggio. Darling conosceva i due agenti: non aveva problemi con loro, almeno non più di quanti ne avesse con la polizia marittima in generale, che considerava male addestrata, insufficientemente equipaggiata e sovraccarica di lavoro. Quei due li aveva portati con sé in mare nei loro giorni di libertà, aveva insegnato loro a «leggere» la scogliera e li aveva istruiti sulle scor-
ciatoie per raggiungere i pochi canali d'acqua profonda che entravano e uscivano da Bermuda. Tuttavia decise di restare sul flying bridge, sentendo istintivamente che l'altezza fisica rafforzava la sua autorità. Si appoggiò al parapetto, alzò un dito e chiamò: «Colin... Barnett...» «Salve, Whip...» disse Colin, il poliziotto bianco. «Veniamo a bordo», gli annunciò Barnett. «Fate pure», rispose Darling. «Che cosa vi porta qui a quest'ora della sera?» «Ci risulta che hai trovato un gommone», spiegò Barnett. «È vero.» Barnett salì a bordo e additò il canotto posato trasversalmente in coperta. «È questo?» «Proprio lui.» Barnett illuminò il canotto con una torcia elettrica e si chinò a osservarlo. «Dio, che puzza!» Colin rimase dov'era e disse, in tono incerto: «Whip... dobbiamo prenderlo». Darling attese un istante prima di rispondere. «Perché? Qualcuno afferma d'averlo perduto?» «No... non precisamente.» «Allora è mio, no?... Prima legge del salvataggio: chi trova una cosa se la tiene.» «Ebbene...» Colin sembrava a disagio. Si guardò i piedi. «Non questa volta.» «Dunque è così.» Darling attese, sentendo ribollire la rabbia nello stomaco e sforzandosi di controllarla. «Come mai?» «Il dottor St. John», disse Colin. «Lo vuole.» «Il dottor St. John», ripeté Whip. Sapeva che avrebbe perso la battaglia, e la sua collera stava per esplodere. Liam St. John era uno dei pochi uomini di Bermuda che Darling si prendeva la briga di detestare. Immigrato irlandese della seconda generazione, era andato a studiare nel Montana presso un istituto compiacente, un'autentica fabbrica di titoli di studio, ed era tornato a casa con il titolo di dottore. In quale disciplina fosse laureato, era cosa che nessuno sapeva, e che lui non aveva mai rivelato. Ciò che tutti sapevano con certezza era che il piccolo Liam, fino al momento in cui era partito da Bermuda, pronunciava il proprio cognome «Saint John»; da quando era tornato lo pronunciava
«Sinjin», e pretendeva che tutti facessero altrettanto. Armato di un titolo davanti al cognome, St. John aveva fatto appello a certi potenti amici dei suoi genitori e preso d'assedio il governo. Aveva sostenuto che certe discipline, come la storia marittima e la protezione della natura, erano nelle mani di dilettanti impreparati. Pertanto era necessario affidarle a esperti riconosciuti e qualificati... In altre parole a lui, che era l'unico bermudiano laureato in qualcosa di diverso dalla medicina. Poco contava che quella laurea fosse stata conseguita in una disciplina non meglio precisata e che, magari, studiava argomenti assolutamente futili come, per esempio, l'abbigliamento dei Druidi. I politici, poco interessati ai relitti dei naufragi e stufi di dover discutere con pescatori vocianti, furono ben lieti di cancellare quegli impegni dalle proprie agende e di creare per il dottor Liam St. John, PH. D., il nuovo ministero dei Beni Culturali. Non si disturbarono a definire in dettaglio le competenze del nuovo dicastero, il che andava benissimo per St. John, perché gli permetteva di definirle ed allargarle man mano, assumendo sempre più potere, imponendo norme e regole di sua invenzione. Dal punto di vista di Darling, l'unico effetto concreto dell'attività e dei regolamenti di St. John era stato di trasformare centinaia di bermudiani in criminali. Il ministro, per esempio, aveva stabilito che nessuno poteva toccare un relitto senza avere prima ottenuto una licenza da lui e preso l'impegno di pagare duecento dollari al giorno a un suo collaboratore che doveva supervisionare il lavoro sui relitti. Il risultato fu che più nessuno denunciò di averne scoperti. Chi scovava monete o manufatti, orecchini d'oro o vasellame spagnolo li nascondeva fino a quando riusciva a esportarli clandestinamente da Bermuda. Grazie al ministero dei Beni Culturali, le ricchezze storiche di Bermuda venivano vendute nelle gallerie d'arte di Madison Avenue a New York. Gli scienziati che un tempo consideravano Bermuda come un importante laboratorio di studi sottomarini, un caso unico, un fazzoletto di terra nel mezzo dell'Atlantico, smisero di frequentare l'isola. St. John esigeva che tutte le scoperte fossero sottoposte all'esame dei suoi collaboratori, i quali redigevano documenti (sempre banali, spesso errati) che poi il ministro presentava ai simposi accademici. Da quasi un anno, Darling e i suoi colleghi subacquei avevano fantasticato sul modo di liberarsi di St. John. Qualcuno aveva suggerito di annunciare il ritrovamento di un relitto, portare St. John a vederlo e poi affondare la barca (correva voce che il ministro non sapesse nuotare). Il progetto
fu respinto, essenzialmente in base alla considerazione che St. John non si sarebbe mai mosso personalmente, ma avrebbe mandato uno dei suoi tirapiedi. Qualcun altro aveva proposto di ammazzarlo: dargli una botta in testa e gettarlo nelle acque profonde. Però, sebbene tutti ammettessero che il risultato sarebbe stato gratificante, nessuno si era offerto volontario per l'esecuzione. Darling non si sarebbe stupito se il fattaccio fosse accaduto, magari nottetempo, e il dottor St. John fosse semplicemente svanito. La notizia non lo avrebbe addolorato. «Colin», disse. «Voglio che tu mi faccia un favore.» «Dimmi quale.» «Va' da St. John e digli che gli darò il gommone...» «D'accordo.» «...a condizione che lui venga qui di persona a farselo infilare nel buco del culo.» «Oh.» Colin guardò Barnett, poi di nuovo i propri piedi e infine, con riluttanza, Darling. «Sai bene che non posso farlo, Whip.» «Allora abbiamo un problema, non credi, Colin? Perché c'è una cosa che voi due non potete fare: portare via il canotto.» «Ma dobbiamo farlo!» C'era una nota lamentosa nella voce di Colin. Barnett si staccò dal gommone e venne a piazzarsi alla base della scaletta guardando in su. Vide un movimento nell'ombra a poppa. Era Mike che si spostava silenziosamente verso la rastrelliera dove tenevano le gaffe e i mazzuoli per tramortire i pesci grossi. «Non puoi fare una cosa simile, Whip», lo ammonì Barnett. «Il canotto è mio, Barnett, e tu lo sai.» Avrebbe voluto dire di più, spiegare che non era tanto questione del canotto, e nemmeno una pura questione di principio, ma anche e soprattutto un discorso di tre o quattromila dollari, soldi di cui aveva un disperato bisogno e che non intendeva lasciarsi rubare da St. John. Non lo disse, non avrebbe mai fatto dei piagnistei davanti a un poliziotto. «Non è tuo, se St. John deve studiarlo, come dice di voler fare.» «Quello stronzetto non ha alcuna intenzione di studiarlo. Vuole tenerselo, perché sa quanto vale.» «Lui non ha detto questo.» «E da quando è diventato un modello di sincerità?»
«Whip...» Barnett sospirò. Qualcosa lo indusse a voltarsi indietro, forse un riflesso di luce o un suono. Vide Mike, in piedi nel buio, impugnare a due mani una gaffa di novanta centimetri che finiva in un uncino affilato. «Sai bene che cosa dovremo fare.» «Sì. Tornare dal dottor St. John e dirgli di andare a farsi fottere.» «No. Andare a cercare altri dodici poliziotti, tornare qui e prendere il gommone.» «Qualcuno si farà male.» «Può darsi, Whip, ma rifletti. Se le cose vanno così, tu finisci in galera, noi prendiamo comunque il gommone e chi riderà per ultimo? Il fottuto dottor St. John.» Darling guardò altrove, oltre le acque scure della Mangrove Bay, in direzione dei fari delle automobili che percorrevano il ponte di Watford, e della luce delle lanterne sulla veranda del vicino albergo Cambridge Beaches dove un qualche cantante fallito gorgheggiava accompagnato dall'orchestra, annunciando al mondo che lui faceva «a modo suo». Darling avrebbe voluto combattere, esplodere, sfidare tutti, piantare un casino d'inferno, ma trangugiò il rospo, perché Barnett aveva ragione. «Barnett», disse infine guardando giù lungo la scaletta, «tu sei la saggezza personificata.» Barnett lanciò uno sguardo a Colin, che gli sorrise emettendo un lungo sospiro di sollievo. «Il dottor Sinjin vuole il mio gommone», disse Darling, mentre andava a poppavia e prendeva la gaffa dalle mani di Mike. «Il dottor Sinjin avrà il mio gommone.» Andò al canotto, alzò la gaffa sopra la spalla e l'abbatté con forza sulla prua. L'uncino penetrò attraverso il tessuto gommato; con un botto e un sibilo il tubolare si afflosciò. «Oh che guaio!» esclamò Darling, e trascinò il gommone verso il parapetto. Piantò l'uncino in un altro tubolare che si sgonfiò, poi alzò il gommone floscio sopra il parapetto. Un piccolo oggetto cadde dal canotto e batté sulla tolda d'acciaio rimbalzando con un suono metallico. Darling alzò di nuovo la gaffa, fece un passo indietro e infilzò il tubolare di poppa, poi sollevò il gommone ormai piatto sopra il motoscafo della polizia. Aveva i muscoli delle spalle in fiamme, i tendini del collo che sporgevano come cavi. «Oh!» gridò, e fece cadere nel motoscafo il gommone, che atterrò in un ammasso sibilante. Si voltò verso i due agenti, posò la gaffa sul ponte e
annunciò: «Ecco qua. Il dottor St. John può avere il suo fottuto gommone». I due poliziotti si guardarono. «Okay», disse Colin scendendo in fretta sulla banchina. «Diremo al dottor St. John che è così che l'hai trovato.» «Giusto», confermò Barnett, e seguì Colin. «L'impressione è che sia stato maltrattato da uno squalo.» «E il mare era mosso», aggiunse Colin. «Non potevi scendere in acqua a recuperarlo, con tutti quegli squali intorno... 'notte, Whip.» Darling li guardò ammucchiare il gommone a prora, avviare il motore e andarsene via nelle tenebre. Si sentiva svuotato e con un accenno di nausea, diviso fra la soddisfazione e la vergogna. «Ci sono sempre dei noleggi per pescatori subacquei durante la pausa della grande regata», disse Mike. «Guadagneremo un bel po' di soldi.» «Sicuro», confermò Darling. «Sicuro.» Mentre ripulivano la barca, mettendo a posto le attrezzature e redazzando il ponte, Darling sentì sotto un piede un oggetto piccolo e aguzzo. Lo raccolse e lo guardò, ma la luce era scarsa, per cui se lo mise in tasca. «Ci vediamo domattina?» domandò Mike quando fu pronto a sbarcare. «D'accordo. Dobbiamo portare le cattive notizie a quelli dell'acquario e sentire se sono disposti ad affidarci un'altra dotazione di palamiti. In caso contrario, attacchiamo con la pittura», concluse Darling. «Buonanotte, allora.» Darling seguì Mike lungo il sentiero fino a casa, aspettò che fosse partito sul motorino, poi spense le luci esterne ed entrò. Si versò due dita di rum scuro e sedette in cucina. Fu tentato di ascoltare il notiziario, ma ci rinunciò. Per definizione, tutte le notizie erano cattive, altrimenti non valeva la pena di trasmetterle alla TV. E lui non aveva bisogno di altre brutte notizie. Charlotte entrò, sorrise e si mise a sedere dall'altra parte del tavolo. Bevve un sorso dal bicchiere del marito, poi gli prese una mano e la tenne tra le sue. «È stato un gesto infantile», disse sottovoce. «Hai visto?» «La polizia non si ferma qui tutte le sere.» Whìp scosse la testa. «Bastardo irlandese figlio di puttana.» «Che cosa hai ottenuto?» «Riesci a immaginare quanto sto male a sentirmi così impotente? Dove-
vo fare qualcosa.» «Ti senti meglio ora che l'hai fatto?» «Certo.» «Veramente?» «In un certo senso...» La guardò e vide che sorrideva. «Okay, hai ragione. Sono un vecchio antipatico con il cervello di un bambino.» «Sì... ma mi piaci lo stesso.» Si sporse attraverso il tavolo, lo prese per il mento e lo attirò a sé. Mentre si alzava per baciare Charlotte, Darling si sentì pungere una coscia. Mandò un grido, saltò indietro e ricadde sulla sedia. «Cosa c'è?» domandò lei. «Qualcosa mi ha punto.» Mise la mano in tasca e ne estrasse l'oggetto che aveva raccolto e lo posò sul tavolo. Era a forma di mezzaluna; non era di metallo, sembrava fatto di una qualche sostanza cornea, lucida e dura. «Fa pensare a un artiglio», commentò Charlotte. «Di tigre. O anche a una zanna. Dove l'hai trovato?» «È caduto dal gommone», rispose Whip. Ebbe un momento di esitazione nel ripensare ai segni che aveva visto sui tubolari, simili a tagli nel tessuto gommato. Guardò Charlotte, poi l'oggetto, aggrottò la fronte ed esclamò: «Che diavolo...» 9. Stava sul fondo e aspettava. Immobile, invisibile nell'acqua nera, cercava con i sensi le vibrazioni che segnalavano l'avvicinarsi di una preda. Era abituata a essere servita, perché l'acqua fredda e ricca di nutrimento a trecento metri di profondità era sempre stata popolata di innumerevoli animali di ogni dimensione. Non conosceva la pazienza, non ne aveva mai avuto bisogno, perché il cibo era sempre stato abbondante. Aveva potuto nutrire il suo grande corpo per inerzia, senza lotta né grande fatica. Le sue caratteristiche erano quelle dell'assassino, non del cacciatore, perché non aveva mai dovuto cacciare. Ma adesso i bioritmi che guidavano la creatura erano stati sconvolti. Il cibo non abbondava più. Non avendo la capacità di ragionare e non conoscendo né passato né futuro, la bestia era confusa dal disagio che le causava la sensazione inconsueta della fame.
L'istinto le diceva di andare a caccia. Sentì un'interruzione nel flusso del mare, una stasi improvvisa e irregolare nella pulsione dell'acqua. Prede. Numerose. Di passaggio. Non erano vicine, ma in qualche posto lontano, in alto. La creatura aspirò grandi quantità d'acqua nella cavità palleale, tra il mantello e i visceri, poi la espulse attraverso l'imbuto al fondo del ventre, spingendosi verso l'alto. Si fece guidare dai segnali e si lanciò attraverso l'acqua con spasmodiche espulsioni attraverso l'imbuto. Riconobbe la fonte delle emissioni: pesci, molti pesci. Grossi. I cromatofori irradiarono i pigmenti attraverso i suoi tessuti, modificandone il colore. Quando sentì di essere abbastanza vicina, la creatura ruotò su se stessa rivolgendosi nella direzione in cui doveva trovarsi la preda. Il suo occhio enorme registrò un lampo argenteo, e i suoi tentacoli scattarono come fruste. Le estremità palmate aderirono alla preda. Le ventose dentate la lacerarono, gli uncini a mezzaluna eretti in ciascuna ventosa la fecero a pezzi. Nel giro di pochi secondi, del pesce restavano uno scintillio di squame e un nembo di sangue in sospensione. La fame della creatura non era placata, anzi era cresciuta. Aveva bisogno di più cibo, molto di più. Ma la pressione generata dallo spostamento di tanta acqua a causa del movimento di un corpo così enorme aveva allarmato un branco di tonni che erano fuggiti compatti. Pertanto i tentacoli non trovarono nulla. Le braccia più corte alla sommità della testa cessarono gradualmente di muoversi, il becco avido si richiuse ritraendosi nella cavità del corpo. Adesso la creatura era consumata dalla fame, ma la spossatezza ne limitava la mobilità. Aveva consumato grandi quantità di energia, ma aveva trovato troppo poco per soddisfare i suoi bisogni immani. Andava alla deriva, affamata e confusa. Il fondale era montuoso, e la corrente che saliva dall'abisso spinse lentamente la creatura contro la scarpata di una piattaforma a centocinquanta metri di profondità. Qui l'acqua fredda formava un vortice, e la creatura arrestò la propria ascesa. Su un altro pendio, più avanti, c'era qualcosa di grande e innaturale. I sensi della creatura dicevano che era un corpo morto.
La creatura lo ignorò e attese, accumulando energia. 10. Lucas Coven era così seccato, così impaziente di chiudere quella giornata e dimenticarla, che mise in moto la barca e spinse la manetta dell'acceleratore prima ancora che il verricello avesse tirato su l'ancora. Udì le grosse patte d'acciaio sbattere contro lo scafo e immaginò le brutte tacche nella fibra di vetro, cosa che lo fece arrabbiare ancora di più. Era sempre la stessa storia. Si cacciava nei guai fino al collo per colpa del suo orgoglio e della sua cocciutaggine, e poi rifiutava di fare marcia indietro. Accidenti, lui era un pescatore - almeno, lo era stato -, e allora perché diavolo provava a imitare il fottuto Jacques Cousteau? Era la bocca che lo tradiva ogni volta. Giurò a se stesso che, se mai fosse riuscito a chiudere quella giornata senza incappare in una catastrofe o farsi citare in giudizio, non avrebbe mai più messo piede in un bar. E, comunque, se lo avesse fatto, si sarebbe cucito le labbra e avrebbe bevuto la sua vodka Smirnoff con la cannuccia. Passato Ely's Harbour, si diresse a sud. Guardò giù dal flying bridge per assicurarsi che i suoi due passeggeri non fossero caduti in mare, non si fossero infilzati tra loro o non si fossero acciaccati facendosi cadere qualche oggetto pesante su di un piede. Erano a prora intenti a controllare e mettere insieme il loro equipaggiamento da sub: bussole, coltelli, decompressimetri, giubbotti idrostatici, pinne, erogatori, bombole, mute, maschere, cinture dei piombi, macchine fotografiche, videocamere. Santo Dio, avevano di che equipaggiare un astronauta per un soggiorno di un mese sull'altra faccia della luna. Avevano affermato di essere subacquei provetti, avevano insistito per mostrargli le loro tessere di Advanced Open-Water. Ma, secondo Lucas, le persone che si paludavano di tutti quei congegni non erano dei sub, erano dei collezionisti di gadgets. Le immersioni potevano essere molto complicate se si voleva giocare con tutta quella roba, in gran parte superflua. Chi ci sapeva fare semplificava le cose: un costume da bagno in modo che nessuno potesse prenderti per le palle, una maglietta, un paio di pinne come motore, una maschera per poter vedere, una bombola per respirare, qualche chilo di pesi per tenerti sotto, un profondimetro e un decompressimetro se ti si confondevano le idee. Quanto alla ragazza, Susie, c'era da pensare che non avesse nemmeno
bisogno di bombole: aveva un paio di... polmoni capaci di portarla con un solo respiro a trecento metri di profondità. L'equipaggiamento serviva solo a guastare il quadro, copriva tutta quella pelle dall'abbronzatura dorata e la criniera bionda che lo aveva lasciato senza respiro la prima volta che l'aveva vista. Era la candidata ideale per la copertina di Sports Illustrated. Ma quei due erano proprio fanatici della tecnica. Come la maggior parte della gente al giorno d'oggi, si aspettavano che tutti quei marchingegni elettronici facessero le cose al posto loro. Il buon senso e gli istinti viscerali stavano diventando roba del passato. Ebbene, lui sperava che uno almeno di loro, il ragazzo o la ragazza, avesse ancora una briciola di buon senso, perché, nel luogo cui erano diretti, quei costosi ammennicoli potevano solo fornire un caso per il medico legale. Questo pensiero fece venire a Lucas un altro accesso di collera. Forse avrebbe dovuto pagare qualcuno per farsi asportare le corde vocali. Il suo primo errore era stato di andare allo Hog Penny Pub per il suo bicchiere delle cinque. Non andava mai ai bar per turisti sulla Front Street. I drink erano alti di prezzo e bassi nel bicchiere. Però una bella ragazza in motocicletta si era fermata per chiedergli un'indicazione, e gli aveva detto che andava tutti i giorni allo Hog Penny... Perché quindi non ci andava anche lui a bere qualcosa un po' più tardi? Così si era fatto la barba, aveva cambiato camicia ed era andato all'appuntamento. Naturalmente la ragazza non era venuta affatto. Il suo secondo errore era stato di fermarsi allo Hog Penny abbastanza a lungo per dilapidare venti dollari che, anche a prezzi turistici, gli avevano messo nella pancia abbastanza carburante per accendervi il fuoco e sbloccare la sua abituale laconicità. Il terzo errore - di gran lunga il più grave - era stato il metter bocca dove non era il caso, intervenendo nella conversazione fra due giovani che non conosceva. Era stato abbagliato dalla ragazza nel momento stesso in cui l'aveva vista, ma non si aspettava niente da lei perché il ragazzo che l'accompagnava era a modo suo bello, alto, biondo e abbronzato come lei. Sembravano una coppia selezionata da qualche allevamento scientifico per generare una razza di gente bellissima. Si rassomigliavano molto, avrebbero potuto essere fratello e sorella... e, come scoprì più tardi, lo erano per davvero: gemelli, appena usciti dal college, e stavano nella casa dei genitori presso il Mid-Ocean Club. Apprese che il padre era un pezzo grosso nel mondo del-
la radio e della televisione negli Stati Uniti. Poiché a quel punto era stato completamente preso a rimorchio dal dottor Smirnoff, Lucas s'illudeva di avere il fascino disinvolto di Tom Cruise, e cominciò ad attribuirsi qualche possibilità di successo con quella travolgente creatura. Ma sarebbe dovuto bastare l'abbigliamento di lei per trasmettergli un messaggio: nessuna ragazza con un Rolex d'oro massiccio, un anello d'oro al mignolo e una maglietta da cinquanta dollari - per non parlare della pelle di seta e dei denti perfetti come i tasti di un pianoforte avrebbe mai dedicato un pensiero a un pilota di barche mezzo sbronzo, dai capelli ispidi e dai jeans sfilacciati. Ma ormai il dottor Smirnoff era al timone. I due stavano consultando una tabella dei tempi di permanenza alle varie profondità per la decompressione, e progettando l'immersione dell'indomani. Tutto ciò avrebbe dovuto fare squillare dei campanelli nelle orecchie di Lucas, in primo luogo perché a Bermuda non si portavano mai i turisti a fare immersioni profonde; in secondo luogo perché le immersioni in profondità non erano una cosa che le persone sensate facevano per divertimento. Lucas non disse una parola mentre i due giovani discutevano sulle profondità dei vari relitti su cui erano stati, confrontando il Constellation con L'Herminie, il North Carolina con il Virginia Merchant. Nessuno di quei relitti era a profondità superiori ai dodici metri, raggiungibili quindi in apnea per chiunque non fosse tisico. Non fu tentato di correggerli quando parlarono del Cristóbal Colón in confronto al Pollockshields, due navi di ferro così poco profonde che si doveva sempre stare attenti a non urtarle con la chiglia. Ebbe l'opportunità di dire la sua quando il ragazzo - si chiamava Scott disse: «L'uomo della barca dice che il relitto più profondo, da queste parti, è il Pelinaion». «Dove si trova?» domandò Susie. «Ci porterà a vederlo?» Lucas si sporse in avanti, voltò la testa verso di loro e disse: «Chiedo scusa. Non sono affari miei, ma ho paura che qualcuno vi stia menando per il naso». «Davvero?» Susie spalancò gli occhi, e Lucas fu certo di non avere mai visto delle ciglia così lunghe. «Già. Come ho detto, non sono affari miei, ma mi dispiace vedere che vi raccontano delle frottole.» «Quale sarebbe, allora?» domandò Scott. «Qual è il relitto più profon-
do?» «Il relitto più profondo a Bermuda», disse Lucas con un sorriso tanto gentile, lieto di constatare che la sua bocca funzionava regolarmente anche se le labbra sembravano intorpidite, «è l'Admiral Durham. Si trova al largo della costa meridionale. Quanto meno, è il più profondo che sia mai stato localizzato.» «Quanto è profondo?» Lo sguardo di Scott lasciava chiaramente intendere che non credeva una parola di quella dichiarazione ma, non avendo nulla di meglio da fare, poteva anche dare a Lucas Coven il contentino di ascoltarlo. «Posa su un pendio. La parte più alta è a cinquantasette metri, la più bassa a novanta.» «Uau!» esclamò Susie. «Se avessi un'opportunità...» disse Scott. Ripensandoci, Lucas rimpianse di non aver detto qualcosa di definitivo come «Lascia perdere, ragazzo», o una frase analoga che avesse fatto abortire subito l'idea della spedizione. Ma Susie aveva dato un pugno su una spalla a Scott dicendo: «Scott! Ascolta, almeno una volta nella vita», il che significava che era interessata. Pertanto Lucas aveva lasciato via libera alla propria eloquenza. «La nave era finita sulla costa sud durante una bufera e c'era rimasta incagliata per più di un giorno mentre si tentava di liberarla. Sì, l'avevano disincagliata, ma era tutta una falla e, prima che fossero riusciti a rappezzarla, la nave aveva imbarcato acqua ed era andata giù, scivolando lungo il pendio.» «E tu l'hai vista», concluse Scott. «Una volta, parecchi anni fa. Non è tanto facile da trovare.» «Com'era?» domandò Susie piena di curiosità. «Ti fa galoppare il sangue nelle vene. Io la chiamo la 'Creatrice di vedove'.» Non era vero, ma suonava bene. «Per un bel po' di tempo non vedi un bel niente. Poi, all'improvviso, comincia ad apparire dal profondo, e il tuo primo pensiero è: 'Mamma mia, devo essere drogato'. Perché quello che vedi è un grande bastimento di ferro che sembra navigare verso di te. Ma la cosa che ti convince pari pari di essere fuori di testa è quella locomotiva - non sto scherzando - coricata proprio di fianco alla nave. Quando finalmente ti schiarisci le idee, è ora di risalire. A quella profondità hai solo cinque minuti di tempo.» «Non ti credo», disse Scott.
«È tuo diritto», replicò Lucas, e fece segno al barman di riempirgli il bicchiere. Susie posò una mano sul braccio di Lucas, lo toccò veramente e poi, rivolto al fratello uno sguardo che gli intimava di stare zitto, disse: «Offriamo noi», e con un cenno ordinò al barman di portare due birre per loro e un'altra vodka per Lucas. In quel momento Lucas seppe di averli in pugno. E poiché si stava divertendo e cominciava a fantasticare su dove avrebbe portato Susie appena fossero riusciti a scaricare Scott, non immaginava che sarebbe venuto il momento in cui avrebbe rimpianto di avere avuto quell'idea. Quando arrivarono i drink, Susie disse: «Scusaci per un minuto», prese Scott per un braccio e lo portò a qualche tavolo di distanza. Restarono là a parlare sottovoce per tre o quattro minuti, gesticolando, e quando tornarono fu Scott a prendere le redini del discorso. Non c'era stato più modo di fermarlo. Credeva, Lucas, di poter ritrovare l'Admiral Durham? Probabilmente, con le nuove apparecchiature elettroniche montate sulla barca. Era disposto a provare? Perché? Perché, spiegò Susie, erano stufi di immergersi intorno a Bermuda; avevano visto quasi tutto, e volevano fare una vera immersione prima che l'estate finisse e loro si trovassero di nuovo tra quattro mura a lavorare o seguire un corso di specializzazione o qualche altra cosa. Inoltre non potevano, in quel momento, trasferirsi su un'altra isola perché aspettavano i genitori che erano in arrivo da New York. Ma... non sapeva, era piuttosto impegnato. Avrebbero fatto in modo che ci trovasse il suo tornaconto. Voleva essere sincero con loro, disse: aveva un charter party, un contratto di noleggio, in predicato per l'indomani. (Charter party! Come gli erano venute quelle parole? Non aveva mai concluso un charter party in vita sua; non sapeva bene come lo si faceva e quale poteva essere la tariffa.) Avrebbe tanto voluto aiutarli, erano ragazzi simpatici, ma non poteva sacrificare il charter party e i soldi che gli avrebbe fruttato. Quanto era? Dunque... la giornata completa... millecinquecento dollari (cifra tonda buttata a casaccio). Non era un problema. Se poteva garantire di portarli sopra il relitto,
gliene avrebbero dati duemila. Per contro, se non lo avesse trovato - Scott stava recitando il ruolo del ricco rampollo con la puzza sotto il naso - la gita sarebbe stata gratuita. D'accordo, ma Lucas aveva bisogno di sapere se erano in grado di affrontare un'immersione a sessanta metri. L'avevano già fatto? Conoscevano i rischi di embolia gassosa, che poteva inabilitarli o ucciderli? Conoscevano la narcosi da azoto, la ben nota ebbrezza che poteva far perdere l'orientamento? E tutte le altre cose che capitavano alle grandi profondità? Ma certo. Erano superprudenti, sapevano tutto di chimica e di fisica. Anche se non erano mai scesi a sessanta metri, erano già andati ben oltre i trenta (Scott ne era assolutamente certo, Susie abbastanza). Non c'era poi quella gran differenza, solo nove o dieci piani di un edificio. E tre atmosfere di pressione in più, pensò Lucas, tre gradini di più sulla scala della compressione, il triplo di probabilità che un incidente potesse concludersi con un funerale. Però non disse nulla, perché era persuaso che Susie lo guardasse in modo speciale, e inoltre Scott continuava a vantare la loro perizia. Elencò tutti i posti in cui si erano immersi, precisando le condizioni atmosferiche di ogni immersione. Brandirono entrambi i tesserini da sub e i diari d'immersione in cui erano annotate tutte le volte che avevano messo i piedi a bagno. Okay, stando così le cose, li avrebbe portati. Però avrebbero dovuto scendere da soli lungo il cavo dell'ancora: lui non poteva accompagnarli perché non aveva un secondo a bordo e non poteva lasciare la barca incustodita. La sua prima preoccupazione era la sicurezza: era famoso per questo in tutta l'isola. Infatti, se l'ancora si fosse disincagliata e la barca fosse andata alla deriva, loro non avrebbero potuto raggiungere la riva a nuoto dopo un'immersione a sessanta metri. Però, se erano disposti a scucire altri duecento dollari, lui avrebbe potuto ingaggiare un secondo per la giornata... Diamine, disse Susie, non avevano bisogno di una bambinaia, sarebbero scesi lungo la cima dell'ancora, avrebbero scattato un mucchio di foto e sarebbero tornati in superficie prima di quanto lui si aspettasse. «Allora alziamo il bicchiere alla grande immersione della nostra vita», disse Scott. Lo fecero. In effetti alzarono più di un bicchiere, finché Lucas decise di tentare il colpo con Susie e le propose di dileguarsi con lui per una cenetta intima in un posto tranquillo.
Lei era scoppiata a ridere - non in modo ironico, ma in un tono quasi materno che non poteva offenderlo - e gli aveva arruffato i capelli dicendo: «A domani». Lucas affrontò il Southwest Breaker con ampio margine. Non c'era brezza degna di nota, ma il mare ribolliva intorno allo scoglio traditore che sporgeva dal fondo come una zanna, ansioso di mordere le barche di passaggio. L'aria fresca schiarì la mente di Lucas, una manciata di pastiglie alla menta annullò il gusto di marcio che si sentiva in bocca e una birra bevuta a colazione lo rimise nello stato d'animo che gli permetteva di vedere il lato buono delle cose. Duemila dollari erano più di quanto potesse guadagnare in un mese catturando pesci volanti con la rete o aiutando un amico a portare acqua. Forse i due ragazzi avevano esagerato, forse riponevano troppa fiducia nella loro attrezzatura, ma di certo erano molto attenti, controllavano e ricontrollavano ogni tubo e ogni attacco. Guardandoli, si rendeva conto che erano concentrati, e questo era un bene. Erano anche tesi, per cui rischiavano di «mangiare aria» tanto in fretta da non riuscire a raggiungere il fondo, ma questo non era un problema suo. La giornata sembrava promettente. Con un po' di fortuna potevano essere di ritorno in banchina all'ora di pranzo. Se ce l'avessero fatta, se avessero potuto registrare al loro attivo la «grande immersione», forse Susie sarebbe andata da lui. Non si poteva mai dire. Il limite della scogliera era vicino alla costa meridionale: l'acqua diventava subito profonda, perciò Lucas poté cercare l'uno dopo l'altro i suoi punti di riferimento. Se li era annotati - senza motivo, era un colpo di fortuna che lo avesse fatto - quell'unica volta che era andato al relitto, circa dieci anni addietro. C'era una casa viola con due alte casuarine subito dietro. Il suo occhio doveva allineare quegli alberi come i due elementi di un mirino, e al tempo stesso fare la triangolazione in modo che l'edificio principale del complesso di ville color pesca a ovest coincidesse con la base del faro di Gibbs Hill. Il flusso di marea proveniva da terra, e Lucas si spinse un po' verso il largo, poi virò puntando la prua verso riva: intanto aumentò un poco la potenza e si orientò sui riferimenti. Però i punti di riferimento non erano sicuri al cento per cento con un re-
litto così profondo, invisibile dalla superficie. Anche la vicinanza non era un vantaggio sufficiente nel caso dell'Admiral Durham. La luce era fioca là sotto, la visibilità non andava oltre i dieci o dodici metri nel migliore dei casi. Alla profondità di sessanta metri il limite di permanenza era di cinque minuti dal momento dell'immersione a quando si ripartiva per tornare in superficie, il che vuol dire che non c'era tempo di girare attorno. Senza i nuovi dispositivi elettronici sulla barca, Lucas avrebbe dovuto ancorarsi sopra il relitto, gettare a mare una sagola di settanta metri con rampino come scandaglio e lasciarla dondolare sotto finché avesse incocciato e fatto presa su una sbarra, una catena o magari su quel vecchio cassettone arrugginito sul ponte di prua, quello su cui si era fatto fotografare. Invece attivò l'ecoscandaglio a indicazione grafica, ne regolò la scala di lettura facendo ombra allo schermo con una mano. Il tracciato indicava un fondo piatto: c'era il vuoto tra la superficie e il fondale. Girò la ruota spostando la prua di due gradi a sinistra, poi di due a dritta, e all'improvviso ci fu sopra: una massa gigantesca che sporgeva dal profilo della scarpata. Lucas manovrò la barca finché fu sulla verticale del relitto. Poi avanzò di un pelo, quanto bastava per compensare la corrente che agiva sullo scafo. Infine premette il pulsante che liberava l'ancora. Chiuse gli occhi e accompagnò con il pensiero l'ancora lungo tutta la discesa, la vide mentalmente attraversare l'azzurro sempre più cupo e toccare l'acciaio con un rassicurante rintocco metallico. 11. La creatura era in uno stato prossimo all'ibernazione. La sua ossigenazione - ingerire ed espellere acqua - era rallentata a quindici cicli al minuto. Il colore si era spento fino a un marrone grigiastro. Le sue braccia e i suoi tentacoli oscillavano liberi come serpenti giganteschi. Stava acquistando energia, come se succhiasse nutrimento dalla tenebra fredda e silenziosa. D'un tratto il silenzio fu lacerato da vibrazioni sonore che piovevano dall'alto e venivano amplificate dall'acqua salata. A un orecchio umano quel suono sarebbe riuscito denso, risonante, metallico, il suono dell'acciaio massiccio che percuote l'acciaio cavo con un colpo pesante e rapido. Per la creatura quel suono era sconosciuto, alieno e allarmante: pertanto la sua ossigenazione accelerò, e presto raddoppiò il ritmo. Le sue braccia si
curvarono, i tentacoli si raccolsero. Il colore del corpo cambiò, divenne più vivace, le tonalità marrone vennero sostituite dai violetti e dai rossi. Localizzò il suono come proveniente dall'alto, perciò cominciò a salire lungo la scarpata verso la cosa grande, innaturale e senza vita di cui aveva percepito poco prima la presenza. I suoni ricominciarono, ma diversi da quelli di prima: una serie di tonfi distanziati. Poi cessarono completamente. La creatura si mosse verso la cosa innaturale, poi le si fermò sopra, cercando la fonte del rumore. Qualunque suono, qualunque cambiamento nei ritmi normali del mare, poteva segnalare delle prede. E il bisogno che dominava la creatura, ora che si muoveva e consumava energia, era la fame. 12. Lucas stava sulla prora. Azionò il verricello dell'ancora recuperando la cima finché vide il segnale - un nastro - che indicava i novanta metri. Poi lo passò intorno a una galloccia e osservò l'oscillazione della prua e l'angolo del cavo. Se ricuperava troppo, c'era il rischio che liberasse l'ancora: se ne ricuperava troppo poco avrebbe allontanato eccessivamente la barca dal relitto. Ma sì, poteva dare una possibilità ai due ragazzi, si disse, ora che aveva in tasca i duemila dollari. Quando fu soddisfatto dell'assetto, bloccò la cima alla galloccia e andò a poppa. «Immersione, immersione, immersione!» ordinò con un'allegra smorfia a Scott e a Susie, che sembravano due eroi dei fumetti. Indossavano mute uguali, blu con galloni gialli come i loro capelli. Fissati alle gambe portavano degli spropositati coltelli dall'impugnatura rossa con cui si sarebbe potuto abbattere un bufalo. Le pinne italiane, lunghissime, davano ai due giovani l'aspetto di una qualche strana specie di anatre mutanti. Entrambi erano pieni di cinghie, tubi e moschettoni. «Sei sicuro di avere trovato il Durham?» domandò Scott. «Non hai sentito l'ancora sbattere sul ponte là sotto?» Non sapevano se credergli o no, e sorrisero con l'aria di chi sta sulle spine. Lucas li guidò al barcarizzo sulla murata di dritta a poppavia. L'abbronzatura di Susie sembrava essersi spenta, tendeva al grigiastro. «Stai bene?» le domandò Lucas toccandole un braccio.
«Sì... credo di sì.» «Non sei obbligata a scendere, non devi vergognarti.» «Andiamo», disse Scott. «Starà benissimo.» Lucas guardò Susie, che annuì. «Decidete voi. È la vostra immersione.» Poi Lucas si fece serio. «Nuotate in superficie fino alla cima dell'ancora. Afferratela saldamente, fate tutti i controlli e aspettate di essere calmi e rilassati. Non m'importa se ci mettete una settimana, abbiamo tutto il tempo. Non voglio vedervi scendere tesi e agitati. Quando siete pronti, uno di voi va giù per primo, l'altro subito dopo e, mi raccomando, non indugiate sul relitto. Come sapete, avete pochissimo tempo a disposizione. Se riuscite a risparmiarne un poco, usatelo per risalire adagio e con calma.» Fecero un cenno affermativo, sputarono sul vetro interno delle rispettive maschere, le risciacquarono e le indossarono. Lucas passò loro le apparecchiature di ripresa: una videocamera scafandrata per Scott, una Nikonos v per Susie. «Ehi!» esclamò Lucas, e i due lo guardarono. «Un'ultima cosa: non spaventate gli animali, là sotto.» Sorrise per far capire che stava scherzando. I ragazzi non ricambiarono il sorriso. Appena furono in acqua, gonfiarono i giubbotti idrostatici, e pinneggiarono fino alla prua della barca. Lucas andò a prora e si fermò a osservarli mentre afferravano la cima dell'ancora. Armeggiarono con l'equipaggiamento e si scambiarono qualche parola. Poi misero i boccagli degli erogatori bistadio, sgonfiarono i giubbotti idrostatici e scesero sotto la superficie. Lucas guardò l'orologio: le 10.52. Alle undici sarebbe stato più ricco di duemila dollari, oppure impegolato in un casino cui non voleva nemmeno pensare. La creatura aveva percorso per due volte la lunghezza e la larghezza del grosso oggetto innaturale. La vibrazione acustica era cessata, e non erano giunti altri segnali della presenza di prede. I suoi occhi registravano la debole luce in alto. Qui l'acqua fredda si mescolava con quella più calda, per cui la bestia si staccò dalla cosa innaturale e cominciò a ridiscendere nell'abisso tenebroso. A quel punto percepì di nuovo un movimento, qualcosa che si avvicinava e un suono che segnalava una forma di vita. Andò a posarsi sopra la cosa innaturale, in attesa, con il grande corpo nel
buio. Come il movimento fu più vicino, e il suono ansimante di esseri viventi che respiravano divenne più forte, la creatura cominciò a mutare colore. Scott scendeva lungo la cima dell'ancora. La videocamera attaccata alla cintura delle bombole fluttuava dietro di lui. Adesso era nel nulla senza luce, circondato dall'azzurro. Si fermò a leggere il manometro dell'aria: segnava 175 atmosfere. Molta. Controllò anche il profondimetro: 36 metri. Non vide alcun relitto sotto di sé, e neppure il fondale. La sensazione era strana, solitaria, ma non faceva paura perché la tensione della cima era rassicurante. C'era qualcosa là sotto, l'ancora ci si era artigliata. Se era il relitto, bene: se non lo era... avrebbero risparmiato duemila dollari. Non aveva ancora pensato a come spiegare al padre i prelievi di mille dollari fatti da lui e Susie con le carte di credito. Dov'era Susie? Scott si voltò a guardare in alto. Lei era su, attaccata alla cima a quindici o diciotto metri: forse era spaventata, o forse aveva difficoltà a compensare. Non poteva fare niente per Susie. Finché era più in alto di lui, Coven poteva aiutarla. Ripartì verso il fondo. A quarantotto metri vide il relitto e restò senza fiato. Era proprio come l'aveva descritto Coven: una nave fantasma che sembrava dirigersi esattamente verso di lui, enorme oltre l'immaginabile. Più in basso, a sinistra della prua, si vedeva - simile a un grosso bruco ferito - il muso rincagnato di una locomotiva che lo fissava con lo sguardo vacuo del suo occhio da ciclope. Fantastico! Voleva interrompere la discesa, il tempo necessario per staccare la videocamera dalla cintura, accendere l'illuminatore dell'apparecchio e orientarlo. Ma per quanto forte pinneggiasse, sentì che continuava a scendere. Era sovrappeso a quella profondità. La muta di neoprene, comprimendosi, aveva ridotto la spinta di sostentamento, e lui scendeva troppo in fretta. Premette il pulsante che immetteva aria nel giubbotto idrostatico, e fu di nuovo quasi neutro nell'acqua. Verificò il manometro: 120 atmosfere. Si ordinò di controllare la respirazione. Puntò la videocamera sulla prua della nave, premette il pulsante e si lasciò trasportare lentamente verso il basso.
Qualunque cosa fosse, era viva, anche se molto lenta. Stava venendo. La creatura raccolse i tentacoli e mosse molto lentamente le pinne dell'estremità caudale, uscendo dal buio per andare verso la preda. Scott si posò sulla prua della nave. Respirava ancora troppo in fretta e sentiva battere il cuore. Era al limite dell'affanno, ma non se ne preoccupò. Che spettacolo incredibile! E com'era grande il relitto! Trovò qualcosa cui appigliarsi con un piede per stare fermo - santo Dio, era un water, proprio lì sul ponte! - e portò il mirino della videocamera all'altezza dell'occhio, cercando di inquadrare il tutto. Il suo mondo divenne un piccolo riquadro con un puntino verde in un angolo e una serie di cifre alla base. Sentì un cambiamento nel ritmo dell'acqua intorno a sé, ma non si voltò a guardare. Forse era un impulso nella corrente, o forse Susie stava arrivando. Scorse un movimento vago e indistinto sull'estremo margine sinistro del mirino, ma pensò che fosse un'illusione ottica dovuta alla luce smorzata. Qualcosa lo toccò. Si voltò con un sussulto, ma non vide altro che una macchia cinerea sfocata. Poi ebbe qualcosa intorno al petto che lo schiacciava. Lasciò la telecamera, ruotò su se stesso, ma la cosa continuava a premere. Adesso c'erano anche delle punte che penetravano come pugnali. Udì uno scricchiolio: le sue costole che si spezzavano simili a teneri fuscelli. L'ultima cosa che vide, dentro la maschera, fu una bolla nera di sangue. Susie non vedeva nulla né sopra né sotto. Stava lottando con se stessa per conservare il controllo, per non cadere in preda al panico. Perché Scott non l'aveva aspettata? Dovevano andare giù insieme. Lucas aveva insistito e loro erano stati d'accordo. Invece no, Scott era sceso per conto suo. Impaziente ed egoista, come sempre. Controllò il manometro dell'aria - 105 atmosfere - e il profondimetro 33 metri. Non ce l'avrebbe mai fatta. Ansimava, vedeva l'aria sparire a ogni respiro. Si sentiva circondata, compressa, imprigionata. Non riusciva neppure a risalire. Stava per morire! «Smettila!» ordinò a se stessa. «Va tutto bene.» Si attaccò alla cima e chiuse gli occhi, imponendosi di inspirare lentamente e profondamente. L'ossigeno la nutrì; sentì snebbiarsi il cervello e regredire il panico.
Aprì gli occhi e lesse di nuovo il manometro: 100 atmosfere. Decise di scendere lungo la cima per altri quindici metri. Forse da quella profondità sarebbe riuscita almeno a vedere il relitto. Poi sarebbe risalita. Continuava a stringere la cima, ma si sentì precipitare in basso. Trentasei metri, quaranta, cinquanta, poi... Che cos'era quella cosa che si muoveva là sotto? Stava venendo verso di lei. Doveva essere Scott. Evidentemente aveva visto il relitto, lo aveva filmato e stava ritornando. Lei non sarebbe riuscita mai a vederlo. Si sarebbe dovuta accontentare delle descrizioni di Scott, ripetute all'infinito, inevitabilmente arricchite di particolari sensazionali. Avrebbe dovuto sopportare i suoi maliziosi accenni al fatto che quell'immersione «era roba da uomini, troppo impegnativa per una ragazza». Peccato, pero... La cosa in movimento, la macchia cinerea, non era Scott che veniva da lei. Era enorme, così enorme che non poteva essere viva. Ma che cos'era? Che cosa poteva... La sua ultima sensazione fu lo stupore. Lucas guardò l'ora: le 10.59. Sarebbero dovuti affiorare entro i sessanta secondi successivi. In caso contrario avrebbe dovuto attaccarsi alla radio e farsi dire dov'era la più vicina camera di decompressione. Sempre che arrivassero, magari in affanno, senza essere scesi sotto i quarantacinque metri, di dove si poteva già vedere il relitto. Era un caso abbastanza comune: le grandi navi sommerse mettono in agitazione un sacco di gente. Era così. Doveva essere così. Erano scesi fino a metà e poi avevano deciso che quell'impresa era al disopra della loro portata. Dovevano essere a trentasei o a quarantacinque metri. Potevano restare altri cinque minuti. Le 11.02. Si sporse dal parapetto di prua, si fece schermo agli occhi e guardò lungo la cima dell'ancora, cercando le bolle d'aria degli erogatori, o almeno un riflesso delle elegantissime mute. Udì un rumore a poppa. Gesù! Quegli stupidi erano venuti su staccandosi dal cavo, forse erano rimasti senz'aria ed erano risaliti a pallone in superficie. C'era il rischio che uno dei due andasse in embolia. O forse stavano decomprimendosi a tre o sei metri, e poi sarebbero comparsi sotto bordo. Sicuro, c'era una logica. Ma perché non li aveva visti? E neppure le bolle? L'acqua era trasparen-
te come il gin. Si alzò e si diresse a poppa. Il rumore continuava, un suono strano, umido, succhiante. A quel punto percepì un odore. Ammoniaca. Ammoniaca? Qui? Mentre camminava in coperta, la barca si sollevò bruscamente a dritta. Cristo! Che cos'era? Udì il legno scricchiolare e scheggiarsi. Adesso la barca pendeva pericolosamente da una parte, e lui faticò a tenersi in piedi. Saltò nel posto di governo. Il paranco non c'era più, spezzato un metro sopra la coperta. Il fasciame a poppa, sconquassato, lasciava scoperto il baglio. Lui guardò oltre il baglio, e ciò che vide gli gelò il sangue e gli tolse il respiro. Era un occhio, grande come la luna, in una massa di melma palpitante, che aveva colore del sangue arterioso. Urlò - non parole, soltanto suoni - e scattò in piedi per sfuggire all'occhio. Scartò a destra, fece un passo, ma la barca si sollevò di nuovo e lui fu scagliato indietro. Le sue ginocchia urtarono il baglio, le braccia si agitarono convulsamente e lui precipitò fuori bordo. 13. Marcus Sharp verificò tutti gli indicatori del carburante e vide che entro quindici o venti minuti sarebbe stato costretto a tornare alla base. Era in volo da un paio d'ore, ufficialmente per addestramento al servizio di pattuglia, in realtà a cercare di individuare i relitti di qualche naufragio. Aveva fatto il giro dell'isola, volato basso sulle scogliere a nord e a nordest alla ricerca di tumuli di zavorra. Aveva visto i relitti già noti, il Cristóbal Colón e il Caraquet, ma niente di nuovo. Sperava di scoprire una nave intatta per Whip, preferibilmente un galeone spagnolo della fine del diciassettesimo secolo carico di lingotti, di catene d'oro e magari di smeraldi grezzi. Però si sarebbe accontentato di qualunque relitto antico e inesplorato che desse modo a Whip di reintegrare le proprie riserve di entusiasmo, speranza e denaro, tutte in rapido esaurimento. Sharp si sentiva in colpa, perché aveva praticamente assicurato a Whip che poteva tenersi il gommone, per poi sentire che la polizia lo aveva confiscato su ordine di quello stronzetto pieno di sé, quel St. John.
Ed era colpa di Sharp, almeno in parte, perché, come gli aveva fatto notare il capitano Wallingford nel suo tono più distaccato, Sharp non aveva alcuna autorità per delegare incarichi a Whip Darling, meno che mai per assegnargli materiale che rientrava nella categoria dei reperti. La logica degli argomenti addotti da Sharp a propria difesa non aveva commosso Wallingford, il quale gli aveva inflitto una conferenza di mezz'ora sul corretto comportamento del personale militare americano che prestava servizio in Paesi stranieri. Adesso Sharp stava volando sul mare a sud dell'isola, al largo della Elbow Beach. Vedeva decine di persone che si divertivano sui surf, e alcuni subacquei che stavano esplorando il relitto del Pollockshields. Esche per gli squali, pensò Sharp... ammesso che ce ne siano ancora. Il Pollockshields aveva costituito una minaccia per più di una generazione. Era una nave di ferro dell'epoca della prima guerra mondiale, carica di munizioni, ed era affondata sulle scogliere poco profonde nel 1915. Sebbene gran parte delle munizioni fossero tuttora attive, non erano loro il problema. Il vero problema era il ferro. I sub venivano dalla Elbow Beach, gironzolavano intorno al relitto e venivano investiti dalle onde che si infrangevano sopra di esso. Talvolta il moto ondoso li mandava a sbattere contro schegge metalliche acuminate. Feriti e sanguinanti, erano costretti a tornare a riva nuotando per centinaia di metri attraverso le secche calme e cupe che erano - o meglio, erano state - il territorio di caccia degli squali di scogliera. A centocinquanta metri Sharp descrisse un lento cerchio sopra i subacquei accertandosi che non ci fossero sagome scure in agguato, poi virò a ovest. Whip raccontava che l'amico di un suo amico aveva fatto minuziose ricerche negli archivi delle Indie, a Siviglia, per cercare notizie dettagliate sulla flotta spagnola affondata al largo della Dominica nel 1567. Aveva trovato un accenno, poco più di una parentesi, a una delle navi che, staccatasi dalle altre all'inizio del viaggio, si era incagliata sulla costa sud di Bermuda. La ricerca di quella pecora smarrita rassomigliava molto a uno sparo nel buio, ma che diavolo... non aveva nulla di più pressante da fare... Il copilota di Sharp, il sottotenente Forester, finì di leggere la rivista People e disse: «Ho un bisogno furioso di pisciare». «Saremo presto a casa», rispose Sharp. Stava quasi per concludere il giro, prendere quota e virare a nord-est,
quando si fece viva la radio. «Huey Uno... Qui Kindley...» «Parlate, Kindley...» «Che ne direbbe di una piccola ricognizione speciale, tenente?» «Se non ci impegna per più di dieci minuti... se no a Forester scoppia la vescica e dovremo tornare alla base a nuoto. Di che si tratta?» «Una donna ha chiamato la polizia. Dice di aver visto una barca andare in pezzi un miglio a sud del Southwest Breaker.» «Che vuol dire 'in pezzi'? È esplosa?» «No, ed è questa la cosa strana. Dice che stava guardando con il telescopio per cercare delle balene - a volte riesce a vederne da casa sua - e ha notato questa barca da pesca, un dieci o dodici metri, dice lei... semplicemente andare a pezzi. Niente fiamme né fumo, niente del tutto. Si è sgretolata.» «Capisco... un caso improbabile. Okay, vado a dare un'occhiata», rispose Sharp. «Comunque è sulla strada di casa.» Spinse la barra a sinistra, facendo virare l'elicottero a sud. «Sbrigati o me la faccio addosso», disse Forester. «Prenditelo in mano e stringilo forte», replicò Sharp. «È un ordine.» Si lasciò il Southwest Breaker a destra, così il sole fu quasi direttamente sopra di lui, un po' alle sue spalle, eliminando il riverbero sull'acqua. La visibilità era perfetta. Però non c'era niente da vedere. Volò verso sud per due minuti, poi voltò a sud-est. Nulla. Niente che galleggiasse o saltellasse, niente che rompesse il ritmo senza fine delle onde azzurre. «Kindley... Qui Huey Uno...» annunciò Sharp per radio. «Devo rientrare. Non vedo niente qua sotto.» «Tornate alla base, Huey Uno. Forse è stato un falso allarme.» Sharp virò a est. «Ehi!» disse Forester, battendo sul plexiglas dalla sua parte e facendo un segno verso il basso. Sharp si inclinò a sinistra e guardò. Vide due parabordo bianchi, poi qualche tavola e infine, semisommerso, simile a una coperta bianca velata da una nebbia azzurrina, il tetto intero di una tuga. «Non posso fermarmi adesso», disse Sharp, «se no finisco in mare con quel relitto.» Si mise in rotta verso la base. Aveva superato la linea della scogliera e stava per passare sulla terraferma quando guardò a destra e vide il Privateer avanzare scoppiettando a
ovest lungo la costa. Non farlo, si disse, torna a casa. Non devi dare a Wallingford l'occasione di morderti le chiappe un'altra volta. Poi pensò: al diavolo Wallingford. Le chiappe di Sharp erano già state morsicate da gente più importante, e Wallingford era solo un ufficiale subalterno. Che punizione poteva infliggergli? Farlo fustigare legato all'albero maestro? E allora? Sharp stava elaborando un nuovo ordine di precedenze, in cui la Marina perdeva rapidamente terreno. Premette il pulsante di trasmissione sul microfono e disse: «Privateer... Privateer... Privateer... Parla Huey Uno...» Darling era nella timoniera a bere una tazza di tè e a domandarsi quanto avrebbe potuto ricavare dalla vendita della sua bottiglia massonica - un pezzo raro, vecchio di centosettant'anni - quando giunse la chiamata sul canale 16. Staccò il microfono dal gancio. «Qui Privateer... passa al ventisette, Marcus.» «Passo al ventisette...» «Altre stronzate?» domandò Mike. «Non è stata colpa sua per il gommone», spiegò Darling. «Privateer... Huey One...» disse Sharp. «Whip, c'è una barca disastrata a circa due miglia dritto davanti a voi, diciamo a rilevamento due-tre-zero dal punto in cui siete. Un miglio e mezzo da riva.» «Disastrata come?» «Non lo so. Ci sono relitti sopra e sotto la superficie. Non ho abbastanza carburante per andare a cercare i superstiti. Forse il motoscafo della polizia è già in viaggio, ma tu sei il più vicino.» «Roger, Marcus. Vado a vedere.» Darling stava per riattaccare, ma ebbe un pensiero gentile. Premette di nuovo il pulsante e disse: «Ehi, Marcus... se ti interessa, è probabile che io vada fuori questo fine settimana». C'era sollievo nella voce di Marcus quando rispose: «Ti dirò qualcosa... comunque sì, se non mi mettono a scopare le latrine». Darling riappese il microfono al gancio, ripristinò il canale 16 e disse a Mike: «Visto? Fa' una buona azione a un amico, e ti levano la pelle. Ti becchi una nota di biasimo». Spinse avanti la manetta dell'acceleratore e osservò l'ago del contagiri che saliva da 1500 a 2000. «Perché la Marina se l'è presa con Marcus?» domandò Mike.
«Non lo immagini? Perché il re degli stronzi, il dottor St. John, se l'è presa con la Marina.» Darling era tanto arrabbiato in quei giorni che stava cominciando a preoccuparsi della propria salute mentale. Doveva stare attento se non voleva andare troppo oltre e diventare paranoico. Lui e Mike avevano riportato l'attrezzatura danneggiata all'acquario e avevano spiegato il poco che sapevano su ciò che era accaduto. Darling aveva cominciato ad accennare al modo in cui si potevano migliorare i nuovi palamiti, quando il vicedirettore - un uomo di colore, piccolo e nervoso, la cui barba serviva, secondo Darling, a camuffare una scialba personalità - lo aveva interrotto. «Temo di no», aveva mormorato. «'No' che cosa?» «Noi intendiamo... ehm... disdire il nostro accordo con te.» «Cosa? E per quale motivo?» «Ecco, questa era... uhm...» Non osava guardare Darling. «In fondo... era un'attrezzatura costosa.» «In fondo... gli squali sono bestie grosse. Gesù, Milton, se volete che piazzi le nasse a tre metri di profondità, è garantito che nessuno le tocca. Ma se volete che le metta dove c'è movimento, dove si può catturare qualcosa d'interessante, ci sono dei rischi. La questione è tutta lì.» «Sì, ma... temo che sia già deciso.» «Chi vi procurerà gli esemplari?» «Ecco... questo è ancora da decidere.» Darling aveva inspirato a fondo e chiuso gli occhi, sforzandosi di reprimere la collera - e, doveva ammetterlo, anche la paura - al pensiero degli ottocento dollari al mese che svanivano nel nulla. «È stato St. John, non è vero?» Milton aveva distolto lo sguardo; fissava il telefono con la segreta speranza che squillasse. «Io non...» «La protezione della fauna e della flora. Ha deciso che questa definizione comprende anche l'acquario... dico bene?» «Tu stai saltando alle...» «Vuole prendersi i miei ottocento dollari, partire con una rete e una cassa di birra Budweiser e, quando torna senza aver preso nemmeno una cacca, può dare la colpa al petrolio versato nel mare in California.» Darling era certo di avere ragione. Milton era tutto sudato, i suoi occhi guizzavano da una parte all'altra. «Per amor del cielo, Whip...»
«Hai ragione, Milton, me la prendo troppo.» Era andato alla porta e l'aveva aperta. Fuori vide Mike intento a parlare a una tartaruga vecchissima, tanto che si diceva fosse stata un dono della regina Vittoria a Bermuda. «Ma sai una cosa? Mi dispiace ancora di più per te. Forse non ho una vita lussuosa, ma almeno non devo guadagnarmi la paga baciando il culo a quel verme di irlandese.» Darling era convinto che St. John lo considerasse una minaccia per il proprio potere, un ribelle nel piccolo impero che si stava costruendo. St. John era deciso a mettere Darling in riga con gli altri, oppure a distruggerlo. La cosa che bruciava a Darling, che gli faceva torcere le budella, era il fatto - sempre più evidente giorno dopo giorno - che St. John stava riuscendo nei propri intenti. Disponeva di tutte le armi. «Là», disse Mike additando un oggetto di legno sull'acqua. Misurava all'incirca un metro per uno e mezzo, con inchiodato un rimasuglio di moquette e con due pezzi di catena che penzolavano. «È una plancetta», disse Darling. «Tirala su.» Mike uscì dalla timoniera, prese la gaffa e andò a prora, mentre Darling saliva la scaletta che portava al flying bridge. Di lassù, tre metri e mezzo sopra il pelo dell'acqua, poté vedere rottami da ogni parte, qualcuno pochi centimetri sott'acqua, altri che spuntavano in superficie. C'erano pezzi di parabordo, tavole, cuscini, giubbotti di salvataggio. Sull'acqua si vedevano delle chiazze iridescenti: olio fuoruscito dal motore mentre la barca affondava. «Getta tutto a bordo!» gridò a Mike. Circolarono per un'ora tra i relitti, con Mike che afferrava un pezzo dopo l'altro e lo gettava in cabina. «Vuoi anche questo?» domandò indicando un rettangolo di legno largo trenta centimetri e lungo quasi quaranta che stava sospeso mezzo metro sotto la superficie. «No, quello è un pezzo del tetto della tuga», rispose Darling dal flying bridge. Poi gli venne in mente qualcosa. «Aspetta un momento», disse. Mise il motore in folle lasciando andare la barca alla deriva e scese la scaletta. Raccolse un ancorotto a quattro punte attaccato a sei metri di sagola e lo lanciò oltre la tavola. Lasciò affondare l'ancorotto finché la sagola non fu a contatto con il lato più distante della tavola, che poi ricuperò sollevan-
dola lateralmente sopra l'acqua. Intravide il colore verde marcio sul rovescio. «È la barca di Lucas Coven», annunciò lasciando ricadere l'assicella, poi tirò a bordo l'ancorotto. «Come fai a capirlo?» «L'ho visto verniciare la barca questa primavera. Stava facendo tutto l'interno color cacca di bambino. Diceva di aver comperato la vernice a una svendita.» «Che diavolo ci faceva da queste parti?» «Sai com'è fatto Lucas», rispose Darling. «Probabilmente un qualche progetto sballato per guadagnare un paio di dollari in fretta.» Conoscevano Lucas Coven da più di vent'anni, e avevano sempre pensato che soffrisse di una grave sindrome del «quasi». Qualunque cosa Lucas Coven facesse gli dava «quasi» da vivere, ma non proprio. Non poteva permettersi abbastanza trappole da pesci per mantenersi la barca, e quando le trappole furono bandite non aveva un altro mestiere. Eseguiva qualsiasi lavoro per pochi dollari - trasportare acqua, dipingere case, costruire pontili - ma non resisteva mai abbastanza a lungo per farsene un'occupazione permanente. «Come si guadagna un paio di dollari da queste parti? Non c'è niente di niente», osservò Mike. «Vero», convenne Darling. «Niente, a parte il Durham.» «Nessuno va sotto per il Durham... Nessuno che abbia un po' di cervello.» «Vero anche questo. Andiamo a dare un'occhiata.» Darling raccolse un parabordo di gomma. Non vide segni, graffi, tacche o bruciature. «Aveva un motore GM, vero?» disse Mike. «Sì. Un Sei-sette-uno.» «Quindi non è stato quello a farlo saltare in aria. Una stufa a propano?» «Può darsi. Ma, santo Dio, avrebbero sentito l'esplosione fino a St. George.» Darling prese in mano un pezzo di fasciame con incorporato un coperchio a vite in ottone. «Allora che cos'è che lo ha fatto saltare in aria? Trasportava esplosivi?» «Niente lo ha fatto saltare. Guarda qui. Niente di bruciato, niente fumo, nessun segno di disgregazione come si vede sempre su una cosa che esplode.» Accostò il naso al legno. «Nessun cattivo odore. Se fosse stato esposto al calore, lo sentiresti.» Gettò il legno in coperta. «È stato distrutto... in qualche modo.»
«Ma da che cosa? Qui non c'è niente in cui andare a sbattere.» «Non lo so. Balene assassine? Era una barca di legno. Un'orca potrebbe spaccare una barca di legno.» «Orche? Così vicino alla spiaggia?» «Dammelo tu un suggerimento, allora!» Darling sentiva di nuovo montare la collera. Mike voleva sempre delle risposte, e lui ne aveva sempre di meno. «Che altro? Gli UFO? I marziani? La perfida fata dentata?» Lasciò cadere il legno sul ponte. «Ehi, Whip...» mormorò Mike. Irritato con se stesso, Darling esclamò: «Merda!» e sferrò un calcio a un giubbotto di salvataggio, che sarebbe caduto fuori bordo se Mike non lo avesse preso al volo. Mike stava per gettarlo via quando notò qualcosa. «Cos'è questo?» Darling guardò. Il tessuto arancione che copriva il kapok era stato lacerato, scoprendo l'imbottitura di galleggiamento. In esso si vedevano due cerchi del diametro di circa diciotto centimetri. Il bordo di ciascun cerchio era slabbrato, come se fosse stato tagliato con una raspa, ed entrambi avevano nel centro un taglio profondo. «Dio benedetto!» esclamò Darling. «Fa pensare a un polpo.» «Sicuro.» Mike credeva che Darling stesse scherzando. Una piovra? «Il Moby Dick dei calamari giganti», disse. «E poi, hai mai visto un polpo con i denti nelle ventose?» «No.» Mike aveva ragione. Le ventose dei polpi erano morbide, elastiche. Potevi staccartele dal braccio senza difficoltà, come si toglie un cerotto. Ma allora che cosa diavolo era? Un animale di certo. La barca non era esplosa, non era entrata in collisione, non era stata colpita dal fulmine, non si era disintegrata per incanto. Si era imbattuta in qualcosa ed era stata distrutta. Darling gettò sul ponte il giubbotto di salvataggio e scostò con il piede alcuni pezzi di legno per aprirsi la via verso prora. Una delle tavole colpì la paratia d'acciaio; mentre rimbalzava in coperta, qualcosa si staccò dal legno e cadde sul ponte con un ticchettio metallico. Era un artiglio uguale a quell'altro, ricurvo anch'esso, lungo cinque centimetri e tagliente come un rasoio. Darling si sporse a guardare l'acqua tranquilla. Non era veramente calma, era viva e, come per confermarlo, alzò una piccola onda che sollevò il motopeschereccio.
Quando la barca si assestò di nuovo, qualcosa sbucò di sotto lo scafo: gomma, blu con un gallone giallo sui due lati. Il cappuccio di una muta. Darling prese la gaffa, la immerse nell'acqua e ricuperò il cappuccio. Mentre usciva sembrava una tazza piena d'acqua, e in quell'acqua c'erano due pesciolini striati di nero e di giallo: pesci sergente. Stavano mangiando qualcosa. Darling aveva il cappuccio in mano. Ne usciva un odore forte e acre, simile a quello dell'ammoniaca. Il suo corpo faceva ombra al cappuccio, per cui si voltò verso il sole in modo che la luce cadesse su quella tasca oscura. La cosa che i pesci stavano mangiando rassomigliava a una grossa biglia. Mike venne a guardare di sopra la spalla di Darling. «Che cosa hai... Gesù benedetto!» ansimò. «È umano?» «Lo è», rispose Darling, e si fece da parte mentre Mike vomitava in mare. 14. La donna guardò attraverso il telescopio finché le venne il mal di testa e le si offuscò la vista. Aveva visto l'elicottero della Marina andare e venire, e Whip Darling sul suo vecchio Privateer. Ma dov'era la polizia? Lei aveva fatto il suo dovere di cittadina riferendo ciò che aveva visto; la polizia doveva almeno dare corso alla denuncia. Adesso sembrava che qualcuno stesse vomitando dal parapetto del motopeschereccio. Probabilmente era sbronzo. Tutti così, i pescatori: di giorno pigliavano i pesci e la notte si ubriacavano. Se la polizia non si muoveva, forse era bene che lei si rivolgesse al giornale. A volte i cronisti erano più solerti dei poliziotti. L'unico motivo per cui non aveva telefonato prima al giornale era la preoccupazione che una delle sue amate balene potesse avere rovesciato la barca - accidentalmente, beninteso - e un giornalista ignorante fosse di conseguenza tentato di dire cose cattive sulle balene. Aveva guardato e riguardato ma non aveva visto segni della presenza di balene, nessuno spruzzo, nessuna grande coda a delta. A quel punto poteva telefonare impunemente al giornale. Il reporter guardò la luce lampeggiante sull'apparecchio, estrasse di cor-
sa dal cassetto un blocco per appunti e ringraziò la buona sorte. Da un'ora stava cercando di comunicare con quella donna, fin da quando aveva sentito per radio i primi annunci sulla frequenza della polizia, ma la radio del porto aveva rifiutato di dargli il nome. Quella vicenda poteva essere per lui il mezzo per uscire dalla trincea, il passaporto per una carriera brillante. Aveva trascorso gli ultimi tre anni a scrivere su argomenti soporiferi come la controversia delle trappole e l'aumento dei diritti doganali. Cominciava a disperare di poter abbandonare quello scoglio dimenticato da Dio. Il problema era che a Bermuda non accadeva mai niente, nulla che potesse interessare alle agenzie d'informazione, alle riviste e alle reti televisive. Questa volta era diverso. La morte in mare, specialmente in circostanze misteriose, era sempre una bomba. Adesso avrebbe potuto giocare sul mistero, forse dargli un tocco leggendario di Triangolo delle Bermude, farsi notare dall'Associated Press, dal Plain Dealer di Cleveland o, sogno fra tutti i sogni, dal New York Times. Aveva quasi rinunciato a cercare la donna e stava uscendo per andare a Somerset ad attendere Whip Darling, quando la centralinista gli aveva passato la chiamata. Premette il pulsante illuminato e disse: «Brendan Eve, signora Outerbridge. La ringrazio per essersi rivolta a noi». Ascoltò per qualche minuto, poi disse: «È sicura che la barca non sia esplosa?» La donna riprese a parlare e lui ad ascoltare. Santo Dio, non le mancava il dono della parola! Quando la donna ebbe finito, Brendan si accorse di avere riempito quattro pagine di appunti. Era in grado di scrivere un trattato sulle balene. Però il monologo della signora Outerbridge conteneva alcune pepite preziose. Constatò di avere scritto più volte due parole, e le sottolineò: «mostro marino». PARTE II 15. Il dottor Herbert Talley incurvò le spalle e si protesse il viso dal vento, un grecale ruggente che alzava l'acqua salata dall'oceano e la mescolava con la pioggia, producendo una doccia salmastra che bruciava e imbruniva
le foglie. Mise un piede in una pozzanghera e sentì l'acqua gelida passare sulla tomaia della scarpa e penetrargli tra le dita dei piedi. Rassomigliava terribilmente all'inverno. L'unica differenza tra l'estate e l'inverno in Nuova Scozia era costituita dalla presenza o dall'assenza delle foglie sugli alberi. Attraversò il cortile, si fermò alla mensa a ritirare la posta e salì le scale fino al suo piccolo ufficio. Si sentiva sfiatato dopo la corsa, il che lo irritava, ma non lo stupiva. Non stava facendo abbastanza movimento fisico. Anzi, non ne faceva affatto. Il tempo proibitivo gli aveva impedito di nuotare e di fare jogging. Fino ad allora si era vantato di essere un giovane cinquantenne, ma adesso cominciava a sentirsi un cinquantunenne vecchio. Giurò che avrebbe cominciato a muoversi l'indomani, anche in mezzo alla furia degli elementi. Doveva farlo. Lasciare inflaccidire i muscoli sarebbe stato come ammettere la sconfitta, rinunciare ai suoi sogni, rassegnarsi a finire i suoi giorni facendo l'insegnante. Qualcuno poteva dire che l'accademia era il cimitero della scienza, ma Herbert Talley non era ancora pronto a farcisi seppellire. I giorni come quello non aiutavano. Alla sua conferenza sui cefalopodi si erano presentati in tutto e per tutto sei studenti: sei letargici allievi dei corsi estivi, poveri spostati che non avrebbero conseguito il diploma finché non avessero superato l'esame di scienze. Lui aveva fatto tutto il possibile per infondere in loro il suo entusiasmo. Era uno dei massimi esperti mondiali sui cefalopodi, e trovava incredibile che gli studenti non condividessero la sua ammirazione per quei meravigliosi animali con i «piedi» attaccati alla testa. Forse era colpa sua. Era un docente con poca pazienza: preferiva far vedere anziché insegnare, agire anziché parlare. Nelle escursioni e nelle spedizioni era un mago. Però di spedizioni non se ne facevano più, visto che l'economia del mondo occidentale era ormai prossima all'implosione. Nell'ufficio di Talley c'era spazio per una scrivania, una sedia, un divanetto, un abat-jour, una libreria e un tavolino per la radio. Una parete era occupata da un planisfero del National Geographic, che Talley aveva riempito di puntine da disegno colorate riferite a determinati eventi nel campo della malacologia: spedizioni di cui seguiva gli sviluppi, avvistamenti di specie rare, distruzioni dovute a cause naturali o prodotte dall'uomo: inquinamento, calamità cicliche come le maree rosse e la proliferazione di alghe tossiche. Sulle altre pareti figuravano titoli di studio in cornice, premi, citazioni, fotografie delle «star» del settore: ottopodi, calamari, nau-
tili, ostriche, arselle, strombi, cipree. Talley appese il cappello e l'impermeabile dietro la porta, accese la radio, inserì la spina della teiera elettrica e sedette aprendo la copia ricevuta per posta aerea del Boston Globe, l'unico giornale a lui accessibile che riconoscesse l'esistenza di tematiche diverse dalla pesca e dalla criminalità spicciola. Non c'erano novità, quanto meno nessuna che potesse eccitare un malacologo alla soglia della terza età confinato nelle lande desolate della Nuova Scozia. Sempre e solo le stesse cose. Cullato dalle note della Sesta sinfonia di Beethoven nell'esecuzione diretta da Bruno Walter, dal picchiettio della pioggia e dal mormorio del vento, riscaldato dal tè, Talley stentava a rimanere sveglio. D'un tratto i suoi occhi si spalancarono. Una frase, un'unica frase dispersa tra migliaia di parole stampate sull'enorme pagina aperta sulle sue ginocchia, era penetrata attraverso la sonnolenza e gli si era impressa nella mente. Lo aveva svegliato come una sirena d'allarme. Mostro marino. Che cosa dicevano? Che mostro era? Scorse tutta la pagina, non trovò nulla, scrutò ogni colonna dall'alto al basso ed eccola, infine... una piccola notizia al fondo della pagina, un riempitivo, quello che chiamavano un tappabuchi. TRE PERSONE MORTE IN MARE Bermuda (AP) - Tre persone sono morte ieri quando la loro barca è affondata per cause ignote al largo di quest'isola nell'oceano Atlantico. Tra le vittime figurano i due figli del magnate dei media Osborn Manning. Non sono state rilevate tracce di esplosione o d'incendio. Alcuni residenti locali hanno avanzato l'ipotesi che la barca sia stata colpita dal fulmine, benché non si sia avuta notizia di tempeste elettromagnetiche in quell'area. Altri, richiamandosi ai misteri del Triangolo delle Bermude, hanno imputato l'incidente a un mostro marino. I soli indizi constatati dalla polizia sono delle strane tacche sulle tavole di legno e l'odore di ammoniaca emanante da alcuni relitti. Talley trattenne il respiro. Rilesse più volte la notizia. Si alzò dalla sedia
e andò alla carta murale. Le sue puntine erano codificate per colore, e lui cercò quelle rosse. Ce n'erano soltanto due, entrambe nelle acque di Terranova, relative ad avvenimenti dei primi anni '60. Non c'era assolutamente nulla al largo di Bermuda. Fino a quel giorno. Ovviamente il giornalista ignorava tutto sull'argomento di cui scriveva. Aveva raccolto i fatti e li aveva messi insieme, senza capire che aveva pure incluso la chiave del mistero. Ammoniaca. La chiave era l'ammoniaca. Talley sentì il brivido della scoperta, come se si fosse imbattuto in una nuova specie di animale. Ma la specie non era nuova. Era l'antica nemesi di Talley, la sua preda più ambita, la creatura alla cui ricerca aveva dedicato gran parte della propria vita professionale, un essere su cui aveva scritto interi volumi. Strappò l'articoletto dal giornale e lo rilesse. «È possibile?» domandò ad alta voce. «Dio misericordioso, ti prego, fa' che sia vero. Dopo tutti questi anni. Sarebbe ora...» Era vero, doveva esserlo. Non poteva essere nient'altro. Ed era a meno di duemila chilometri, due ore d'aereo, ad aspettare lui. Ma il malumore subentrò con la stessa rapidità con cui era venuta l'esaltazione. Doveva andare a Bermuda, ma come? Doveva organizzare la ricerca, una vera spedizione scientifica, ma con quali mezzi? In quel periodo l'università non finanziava nulla, le sovvenzioni erano svanite. Non aveva capitali propri, né una famiglia da cui farseli prestare. Si vide come uno scalatore di montagne che intravede, in uno squarcio tra le nubi, la cima che sogna di raggiungere. Avrebbe dovuto combattere per arrivarci, ma ce l'avrebbe fatta. Doveva farcela. Se avesse mancato questa occasione, avrebbe dovuto ammettere di essere il più spregevole parolaio accademico, un recitatore di dati raccolti da altri, un amalgamatore di teorie altrui. La soluzione era abbastanza semplice: denaro, il mondo ne era pieno. Come poteva ottenerne un poco? Dalla radio giunsero le note di un pezzo che conosceva, ma di cui non ricordava il nome: una melodia cadenzata, malinconica e toccante, e tuttavia non priva di speranza. Che cos'era? Poiché quel vuoto di memoria lo infastidiva, allontanò tutti i pensieri di denaro e si concentrò sull'identificazione del brano. La musica finì, ci fu una breve pausa, poi fu eseguita un'altra canzone, struggente come la prima, altrettanto soffusa di speranza, e Talley sapeva
che cos'era: uno dei Kindertotenlieder di Mahler, i «Canti di bambini morti». Era una gentile ironia, pensò Talley, che dalla più orrenda delle tragedie potesse nascere un mirabile capolavoro. Ci voleva un gigante dello spirito per creare la bellezza dalla morte dei bambini. Bambini, figli... Smise di respirare. Eccola, la risposta. Prese dalla tasca ii ritaglio di giornale e lo lisciò sulla scrivania. Manning, lesse... «il magnate dei media Osborn Manning». Prese il ricevitore e chiese al centralino il servizio informazioni per la zona di New York City, Osborn Manning sedeva nel suo ufficio e si sforzava di concentrarsi sulla relazione di uno dei suoi vicepresidenti. Le notizie erano buone. Con l'economia che stava per finire nel deposito delle immondizie, la gente non era disposta a pagare sette dollari per l'ingresso al cinema o cinquanta per il teatro, non faceva gite domenicali e non frequentava i parchi di divertimenti. Davano la preferenza a passatempi più economici, quello in cui Manning primeggiava: la televisione via cavo. Il numero degli abbonamenti cresceva in tutto il Paese. Inoltre i suoi incaricati erano riusciti ad acquistare, a prezzi fallimentari, nuove reti da operatori che non potevano più fare fronte ai debiti verso le banche. Manning non aveva debiti del genere. Aveva intuito le difficoltà che si andavano delineando all'orizzonte, e aveva previsto che negli anni '90 il contante sarebbe stato la carta vincente. Aveva venduto la maggior parte delle sue aziende marginali a fine '88, quando il mercato era ai livelli massimi, e ora disponeva di più liquidità di quanta ne avessero molte nazioni emergenti. E con questo? Quale contante avrebbe potuto richiamare in vita i suoi figli? Rendere la sanità mentale a sua moglie? Non aveva saputo quanto contasse per lui la famiglia finché non l'aveva perduta. Poteva il denaro ripristinare una famiglia? Il denaro non poteva nemmeno comperargli la vendetta cui anelava, come se con la vendetta avesse potuto espiare la colpa di essere stato un padre distaccato, quasi assente, per i due ragazzi. Nei suoi struggimenti silenziosi, segreti, era giunto a desiderare che i suoi figli fossero stati assassinati da un drogato. In quel caso avrebbe potuto ucciderlo, o avrebbe assoldato qualcuno perché lo facesse al posto suo. Ma non poteva nemmeno concedersi il lusso di immaginare la vendetta,
perché ignorava chi avesse ucciso i due ragazzi. Nessuno lo sapeva. «Un incidente fuori del comune. Siamo molto spiacenti», gli avevano detto. Il dolore gli rodeva lo stomaco; uno spasmo si diffuse dal petto all'intestino. Forse gli stava venendo l'ulcera. Dio santo, pensò, se la meritava. Mise da parte la relazione, si sprofondò nella poltrona e guardò attraverso la finestra la veduta di Central Park. Il sole del tardo pomeriggio traeva riflessi d'oro dalle vetrine della Fifth Avenue. Era uno spettacolo che amava... che aveva amato. Ora non gli diceva più nulla. L'interfono sulla scrivania ronzò. Manning si voltò a premere un pulsante e disse: «Accidenti, Helen, le ho detto...» «Signor Manning... è a proposito dei ragazzi.» «Che cosa possono dirmi di loro?» E poi, come per scoprire la sensazione che avrebbe provato nel pronunciare le parole, aggiunse: «Sono morti». Ci fu una pausa, e con gli occhi della mente Manning vide la segretaria mandare indietro le lacrime. «Sì, signore», disse. «Ma c'è in linea uno scienziato canadese.» «Chi?» «Un uomo che dice di sapere chi ha ucciso i ragazzi.» Manning si sentì invadere dal gelo. Non riuscì a parlare. «Signor Manning...?» Prese il ricevitore, e vide che la mano gli tremava. 16. Si erano riposati, la madre e il suo cucciolo, sulla superficie del mare assieme agli altri membri del piccolo branco, da quando il sole era sceso nel cielo a occidente e la luna, simile a una candida ostia, era apparsa a oriente. Era stata una riunione giornaliera per soddisfare il bisogno di socialità. Dovunque fossero state, comunque si fossero disperse durante il giorno, con il calare della sera si erano riunite in branco: non per nutrirsi, non per procreare, ma per sentire il conforto della comunità. In tempi passati, molto remoti ma ancora vivi nella memoria dei più anziani del gruppo, quelle riunioni erano state molto più frequenti. Non erano sorte domande perché le balene, gli esseri dotati del cervello più grande del mondo, non facevano domande: accettavano. Accettavano la limitatezza del loro numero; ne avrebbero accettato l'ulteriore, inevitabile riduzione; l'avrebbero accettata anche quando il branco si fosse ridotto, com'era pos-
sibile, a due o tre unità. Ma quei cervelli sofisticati, unici nel mondo animale, capivano la perdita e conoscevano la tristezza; a modo loro, avevano dei sentimenti. Quindi, pur accettando, si lamentavano. Ora, con il buio, il branco si disperse. Da sole o in gruppi di due o di tre, le balene si separarono lentamente ed inspirarono aria attraverso il sommo della testa, in un coro di vacui sospiri; riempirono i polmoni enormi e s'immersero nell'oscurità. L'istinto le spingeva a nord, e a nord sarebbero andate finché, a distanza di parecchi mesi, i ritmi del pianeta non si fossero spostati e le avessero spinte di nuovo a sud. La madre e il piccolo s'immersero come un unico essere, cosa che sarebbe stata impossibile pochi mesi prima. Quando il balenotto era più giovane, i suoi polmoni non erano ancora completamente sviluppati, e pertanto non avevano capacità sufficiente per sopportare un'ora di apnea in acque profonde. Ma adesso aveva due anni, aveva raggiunto la lunghezza di sette metri e mezzo e il peso di oltre venti tonnellate. I denti della sua mascella inferiore si erano trasformati in coni aguzzi adatti a stringere e a raccogliere. Il balenotto, non più sostentato dal latte materno, doveva nutrirsi di prede vive. Mentre scendevano nell'acqua cupa, spingendosi con i poderosi colpi delle loro code orizzontali, emettevano dalla fronte convessa i segnali e i ticchettii degli impulsi sonar che, ritornando a loro, avrebbero identificato le prede. La creatura indugiava nel buio; non faceva nulla, non prevedeva nulla, non temeva nulla: si lasciava trasportare dalla corrente. Le sue braccia e i suoi tentacoli fluttuavano sciolti, ondeggiando come serpi; le pinne laminari si muovevano lo stretto necessario per darle stabilità. All'improvviso fu scossa da un colpo, poi da un altro, e ciò che in lei fungeva da udito registrò un impulso netto e penetrante. Le sue braccia si contrassero, i tentacoli si avvolsero preparandosi all'azione. Il nemico stava arrivando. Il responso del sonar era inequivocabile: preda. La madre si slanciò verso il basso a colpi di coda, accelerando, staccandosi dal figlio, portandosi sempre più in profondità. Il cucciolo si sforzò di tenerle dietro, e con lo sforzo - anche se per il momento non aveva coscienza di questo fatto, così come non sentiva lo
stimolo dell'urgenza - consumava troppo in fretta l'ossigeno. Benché la preda fosse già stata localizzata e non avesse fatto alcun tentativo di fuga, il cervello della madre continuava incessantemente a emettere impulsi sonar, perché aveva deciso che quella sarebbe stata la prima uccisione da parte del figlio ormai adulto. La preda era grossa; bisognava martellarla con il sonar, stordirla, prima che il balenotto potesse attaccarla. La creatura assediata si raccolse. Gli inneschi chimici scattarono nutrendo i tessuti, galvanizzandoli e striandoli di luminescenza. Come a contraddire l'esibizione dei colori, altri riflessi vuotarono un sacco ubicato nella cavità del corpo diffondendo una nube d'inchiostro nero nell'acqua già scurissima. Gli impulsi continuavano a colpire, picchiavano il corpo della bestia, confondevano il suo piccolo cervello. L'istinto di difesa si trasformò in impulso d'attacco. La creatura si voltò per combattere. La madre, nell'avvicinarsi alla preda, rallentò per permettere al cucciolo di raggiungerla e poi sorpassarla. Scatenò un'ultima raffica di impulsi sonar, poi deviò e si mise a girare intorno alla preda. Il balenotto si lanciò in basso, eccitato dalla prospettiva di uccidere, spinto da milioni d'anni d'imprinting. Aprì la bocca. La creatura sentì l'onda della pressione e ne fu spinta indietro. Il nemico era sopra di lei. Sferzò con i tentacoli, che dapprima si agitarono alla cieca, ma poi trovarono pelle dura e liscia. L'avvilupparono automaticamente, le ventose aderirono alla superficie e gli uncini vi penetrarono. I muscoli dei tentacoli si tesero, attirando il nemico verso la creatura e la creatura verso il nemico, come due pugili in un a corpo a corpo. Il balenotto richiuse la bocca su... niente. Era perplesso. Qualcosa non andava. Sentiva la pressione dietro la testa, che lo bloccava, rallentandogli i movimenti. Si dibatté agitando la coda, avvitandosi freneticamente su se stesso per liberarsi di ciò che lo tratteneva in basso. I suoi polmoni cominciarono a lanciare segnali di sofferenza.
La madre girava in tondo, sentiva il pericolo per il suo cucciolo ma era incapace di dargli aiuto. Conosceva l'aggressione, conosceva la difesa, ma nella programmazione del suo cervello non esisteva un codice per la risposta alla minaccia rivolta a un altro essere, fosse pure un figlio. Emise dei suoni acuti, disperati e inutili. La creatura teneva duro, avvinghiata al nemico. La preda si dimenava, e dal modo in cui si muoveva, la creatura avvertì un cambiamento nel rapporto delle forze. Il nemico non era più un aggressore, stava tentando di sfuggire. Benché in assenza di luce non esistano colori, l'organizzazione chimica del corpo della creatura mutò la propria livrea durante il passaggio dalla difesa all'attacco. Quanto più il nemico lottava per affiorare, tanto più la creatura aspirava acqua nel proprio corpo e lo espelleva attraverso l'imbuto al fondo del ventre, spingendo se stessa e la preda nell'abisso. Il balenotto stava affogando. Privata d'ossigeno, la muscolatura del suo corpo si disattivava pezzo dopo pezzo. Un'agonia sconosciuta si diffuse nei suoi polmoni. Il cervello cominciò a morire. Smise di lottare. La creatura sentì che il nemico cessava di combattere e cominciava ad affondare. Pur continuando a stringerlo, allentò gradualmente la tensione e si lasciò scendere insieme con la vittima, descrivendo una lenta spirale. I tentacoli strapparono un pezzo di grasso e lo passarono alle braccia che lo introdussero nel becco spalancato. La madre, nuotando in cerchio, seguì il piccolo con gli impulsi del proprio sonar. Mandò sibili e ticchettii di angoscia, un trillo d'impotente disperazione. Alla fine anche i suoi polmoni furono esausti. Con un'ultima emissione sonora la balena si slanciò in alto, verso l'aria dispensatrice di vita. 17. Marcus Sharp sedeva sulla spiaggia e rimpiangeva di non essere altrove. Non ricordava quando era stato l'ultima volta su una spiaggia, forse l'aveva
fatto durante il periodo trascorso con Karen. Le spiagge non gli dicevano molto; non gli piaceva stare seduto sulla sabbia a guardare l'acqua, mentre la sua pelle rosolava sotto il sole tropicale. Ma un impulso non meglio identificato lo aveva indotto a saltare sulla moto e percorrere i venti chilometri dalla base alla Horseshoe Bay. Era un sabato. Lui era fuori servizio e aveva sperato di andare a fare un'immersione con Whip Darling. Però, quando aveva telefonato alle otto di quella mattina, Whip gli aveva risposto che lui e Mike contavano di verniciare la barca e ne avrebbero avuto per tutto il giorno. Sharp aveva offerto il proprio aiuto, ma Darling aveva detto di no, perché loro due stavano lavorando in una piccola stiva a poppa dove non c'era assolutamente spazio per tre persone. Sharp aveva letto per un'ora; alle undici si era trovato alla videoteca a leggere i titoli delle cassette. Aveva guardato l'ora e si era reso conto, con un senso di sgomento molto vicino alla nausea, che per superare il resto del sabato avrebbe dovuto noleggiare non uno, non due, ma almeno tre film. Tutta qui la tua vita? si era detto. Decidere tra Animal House e Senti chi parla? Scegliere se passare il tempo con un adulto ritardato o con un ragazzino saccente? Che cosa avrebbe detto Karen? Avrebbe detto: «Vivi, Marcus. Va' a rapinare una banca, pilota un aereo, tagliati le unghie dei piedi. Insomma, fa' qualcosa! Qualunque cosa». Era uscito dalla videoteca e aveva cercato di organizzare una partita a tennis, ma tutti i tennisti che conosceva stavano giocando a calcio, sport che non gli piaceva. Troppo tecnicismo e scarsi risultati: lui preferiva i giochi con alti punteggi. Aveva telefonato a un paio di organizzatori di escursioni per subacquei, ma tutte le barche erano già uscite. Si era offerto di pilotare un elicottero: non ce n'erano di disponibili. Così era andato alla spiaggia, mosso - così pensava - dalla vaga speranza di trovare una ragazza con cui valesse la pena di parlare, andare a pranzo, magari anche a ballare. Non che lui eccellesse in quel tipo di svago, ma qualunque cosa era meglio che starsene seduto nella sala televisione degli alloggi ufficiali scapoli a vedere un telefilm. Era stato un errore. Mentre sedeva in spiaggia e guardava i bambini giocare nell'acqua bassa, le coppie che passavano e le famiglie che facevano il picnic sotto le palme, si sentiva sempre più solo e disperato. Si domandava se non esisteva per caso un club per single sull'isola. Magari poteva diventare un bevitore e iscriversi agli Alcolisti Anonimi, tanto per stare in com-
pagnia. Aveva visto due ragazze con buoni attributi: due turiste americane belle e vivaci, con bikini abbastanza ridotti per suscitare interesse, ma non tanto da rivelare che erano in caccia. Si erano persino fermate a parlargli. Non ne aveva compreso l'esatto motivo, ma forse erano state colpite dalla sua aria rassicurante: un uomo sulla trentina, senza atteggiamenti da stallone, e con l'abbronzatura tipica del lavoratore, limitata cioè al volto e alle braccia. Una delle ragazze aveva la pelle chiara e i capelli rossi, l'altra era molto abbronzata e aveva i capelli neri. Avrebbe chiacchierato volentieri con loro; la sua mente pullulava di frasi per iniziare la conversazione: la Marina, gli elicotteri, i relitti, le immersioni, Bermuda. Però era fuori allenamento nell'arte di agganciare le ragazze e, dopo avere risposto alle loro domande sui ristoranti più a buon mercato di Hamilton, le aveva lasciate andar via. Naturalmente, cinque minuti dopo aveva escogitato una quantità di stratagemmi che avrebbero potuto catturare l'attenzione delle due ragazze, e si maledisse per essere stato così povero di spirito. Forse sarebbero andate in acqua, e lui avrebbe avuto una seconda opportunità. Si sarebbe avvicinato e avrebbe tentato di attaccare bottone. Poi pensò: perché tanto disturbo? Che cosa avrebbe ottenuto? Non sentiva alcun impulso ormonale. Non sentiva impulsi di alcun genere. E questo è il tuo guaio, fratello, si disse a titolo di conclusione. Guardò in acqua e vide, un centinaio di metri al largo, un wind-surfer che tentava bravamente di cogliere un alito di vento e navigare per uno o due metri. Ma non c'era nemmeno una brezza, e il poveretto continuava a rovesciarsi all'indietro tirandosi addosso la vela. Sharp si domandò quanto poteva essere profonda l'acqua in quel punto. Qualunque fosse la cosa che aveva distrutto la barca e ucciso i sub, stava in acque profonde. Sharp era colpito dal fatto che non si fosse diffuso il panico, nemmeno quando il giornale aveva citato parola per parola il discorso di quella pazza, comprese le sue stupide dichiarazioni sul mostro marino. La gente continuava a nuotare, ad andare in barca, a praticare il wind-surf. Aveva diciott'anni quando il film Lo squalo aveva furoreggiato negli Stati Uniti. Conservava un ricordo molto chiaro di genitori che vietavano ai figli di bagnarsi i piedi, di spiagge chiuse e di adulti, perfettamente ragionevoli sotto altri aspetti, che rifiutavano di nuotare dove non si toccava il fondo... anche nei laghi.
Forse l'attuale mancanza di panico poteva essere attribuita alla mancanza d'informazione. Nessuno sapeva che razza di creatura poteva esserci là fuori, ma non era né uno squalo né una balena, pertanto non si facevano neppure delle congetture plausibili. Sharp sospettava che Whip avesse un'idea, ma Whip non era il tipo che fa congetture. Le congetture, usava dire, sono solo uno spreco di tempo e di energia. Sharp aveva appetito. Si alzò e si diresse verso il chiosco. Stava per entrare tra gli alberi quando vide le due americane. Si stavano legando i capelli sulla nuca con un elastico. Si accorsero che le guardava e lo salutarono con la mano, poi corsero in acqua e si misero a nuotare. Okay, pensò, al diavolo tutto... Avrebbe atteso che smettessero di nuotare, poi sarebbe entrato in acqua e le avrebbe raggiunte a nuoto cercando di inventare qualcosa di spiritoso da dire. Quando furono a trenta o quaranta metri dalla spiaggia, le ragazze si fermarono e si tennero a galla pedalando nell'acqua. Le loro teste erano a circa un metro di distanza l'una dall'altra; Sharp vide che parlavano e ridevano. Andò fino al bagnasciuga. Una delle ragazze alzò un braccio per salutarlo, e lui rispose al saluto. La ragazza lo salutò ancora con le braccia, poi scomparve sott'acqua; adesso era l'altra ad agitare un braccio e gridare. No, non gridava, Sharp se ne rese subito conto. Urlava. «Oh Dio», disse, poi fece due o tre passi di corsa, si tuffò nell'acqua e nuotò veloce. Faceva ribollire l'acqua respirando solo ogni terza o quarta bracciata. Guardò in su per vedere dove si trovava: era quasi arrivato. Vide la ragazza dai capelli rossi agitare le braccia e gridare, e ogni volta che alzava le braccia andava sempre più sotto. L'altra ragazza stava tentando di raggiungerla, di passare sotto le braccia che mulinavano, afferrarla e scuoterla dall'attacco isterico. Sharp arrivò a nuoto dietro la rossa, le abbassò le braccia contro i fianchi, avvolse le proprie intorno a lei e si rovesciò indietro, scalciando per tenere se stesso a galla e la testa della ragazza fuori dell'acqua. Cercò di vedere se c'erano uno squalo, un barracuda o una fisalia. Se c'era del sangue. «Ti tengo», disse. «Sei al sicuro, Calmati, va tutto bene.» La ragazza si stava calmando; non strillava più, singhiozzava. «Ti sei fatta male? Che cosa ti è successo?»
L'altra ragazza disse: «A un certo punto si è messa a gridare e a sbattere le braccia». Sharp sentì che la rossa si rilassava. Allentò la presa e le mise una mano sotto la schiena per aiutarla a stare a galla. «Una cosa...» disse lei. «Ti ha morsicata?» domandò Sharp. «...schifosa e viscida e grossa...» «Ti ha punta?» «No, era...» Si rovesciò e si attaccò a Sharp, piangendo. Per poco non lo mandò sott'acqua. «Ti portiamo a riva», disse Sharp. La prese per un braccio e fece segno all'amica di afferrare l'altro. Nuotarono su un fianco sostenendo la ragazza in mezzo a loro. Presto toccarono il fondo. La ragazza disse: «Sto bene. Io ero sola... c'era...» Si voltò verso Sharp sforzandosi di sorridere. «Grazie», concluse. «Torno fra un minuto», disse Sharp. Tornò nell'acqua profonda e nuotò con calma a rana. Quando gli parve di avere raggiunto il punto in cui erano state le ragazze, smise di nuotare e descrisse lentamente un cerchio, scrutando l'acqua. Non sapeva che cosa cercare. Le velenose vespe di mare non esistevano a Bermuda. Per di più, la ragazza non era ferita, solo spaventata. C'erano delle fisalie - dette caravelle portoghesi - ma erano inequivocabilmente visibili. I loro corpi color ametista galleggiavano in superficie. Potevano esserci delle grosse meduse dai filamenti poco urticanti sospese sotto il pelo dell'acqua, ma la ragazza le avrebbe viste, e qualche pezzo degli innocui tentacoli purpurei le si sarebbe attaccato addosso. Tornò verso la spiaggia adagio, nuotando a rana, ma la sua mano toccò qualcosa; si voltò di colpo e tornò indietro. Guardò in acqua dove aveva messo la mano. Una trentina di centimetri sott'acqua c'era qualcosa di tondo e biancastro, grande all'incirca come un cocomero. Si chinò rapidamente e la toccò: era viscida, flaccida e sfilacciata. Sembrava carne marcia. Infilò la mano e sentì che, di sotto, era dura e liscia. La sollevò in superficie. Appena la cosa fu a contatto dell'aria, le narici di Sharp furono assalite dal miasma nauseabondo della putrefazione, che gli fece lacrimare gli occhi. Non era carne, era grasso: un brandello di grasso di balena di color rosa pallido, quasi bianco. Lo capovolse. Il lato della pelle era nero-azzurrognolo e inciso, nel mezzo, da un cerchio di circa quindici centimetri di diametro. Al centro del circolo c'era un unico taglio che attraversava la pelle e penetrava nel gras-
so. Su uno dei bordi si notava un altro cerchio «Gesù...» mormorò Sharp. Nuotò fino a riva, spingendo la cosa davanti a sé. Sulla spiaggia i bambini erano raccolti intorno a una cosa portata a riva dalle onde. La pungevano con dei bastoncini e si spingevano l'un l'altro mandando esclamazioni di sorpresa. Sharp la guardò e si rese conto che era un altro pezzo di grasso di balena, più piccolo, con due semicerchi, uno per parte. Mentre lui si allontanava, un padre raggiunse i ragazzi, vide che cosa avevano trovato e disse: «Accidenti!» Poi gridò: «Nelson, vieni a vedere questa roba!» Sharp tenne la cosa il più possibile lontano dal proprio viso. Le ragazze erano sedute insieme, la rossa avvolta in un asciugamano, l'altra che le teneva un braccio intorno alle spalle. «Sta bene», disse la bruna sorridendo, e aggiunse: «Vogliamo ringraziarti. Possiamo...» La brezza portò il fetore della cosa raccolta da Sharp. «Che cos'è quello?» «Devo andare», disse Sharp. Raccolse il suo asciugamano, ci avvolse il pezzo di grasso, si mise gli occhiali da sole e andò al parcheggio dove aveva lasciato la moto. 18. Darling e Mike stavano inginocchiati nella stiva di poppa del Privateer a carteggiare gli spigoli intorno alle superfici che avevano verniciato. Tenevano sul viso delle mascherine da chirurgo per impedire alla polvere e alle particelle di vernice di entrare nei polmoni, e occhiali di sicurezza a protezione degli occhi. Darling aveva quel motopeschereccio da sei anni, e lo scafo aveva tenuto bene. Non presentava falle importanti, neppure intorno al premistoppa dell'albero dell'elica, ma la stiva tratteneva l'umidità, e l'umidità associata al sale divorava qualunque cosa. Era di pessimo umore. Detestava verniciare, rimpiangeva di non aver lasciato il compito a quelli del cantiere quando la barca era stata tirata in secco in autunno per pitturare la carena. Però il cantiere faceva pagare quaranta dollari l'ora per uomo, e Darling cominciava a chiedersi se si sarebbe potuto permettere la spesa di far tirare la barca sullo scivolo per verniciare lui la carena.
Sentì la barca abbassarsi lievemente per l'arrivo di un peso a bordo e udì il suono dei passi in coperta. Alzò gli occhi e vide Marcus in piedi presso il portello spalancato. «Ehi, Marcus...» «Scusa se ti interrompo.» «Non scusarti. Lucifero in persona sarebbe il benvenuto se venisse a staccarmi da questo lavoraccio maledetto da Dio.» «Vorresti dare un'occhiata a una cosa?» «Puoi contarci.» Darling si tolse la maschera e gli occhiali e salì la scaletta. Mike continuò a carteggiare, finché Darling lo chiamò. «Vieni a vedere, ragazzo. Non perdere l'occasione di fare una pausa.» Sharp aveva posato il pacco sul tavolo a mezza nave e si teneva lontano per non sentire l'odore. Come Darling si avvicinò, fu investito dal fetore. «Cristo, amico!» esclamò. «Che cosa mi hai portato, qualcosa di morto?» «Parecchio morto», rispose Sharp, e raccontò a Darling che cosa era successo alla Horseshoe Bay. Darling tenne un capo dell'asciugamano mentre Mike lo srotolava. Le mosche si materializzarono dal nulla, e due gabbiani che stavano adagiati sull'acqua si alzarono in volo e vennero a girare sopra la barca. «Balena», disse Mike. Darling annuì. «E anche giovane.» «Che cosa ti dice questo?» domandò Sharp. «Lo strato di grasso è sottile, ancora incompleto. Vedi come diventa rosa dopo pochi centimetri?» «Capodoglio?» suggerì Mike. «Sicuro.» «Ferito da un'elica?» «No», intervenne Sharp. «Giralo dall'altra parte.» Darling si servì di un coltello per capovolgere il pezzo di grasso. Nella luce del sole l'impronta circolare luccicava come una collana, e dal taglio nel centro colava carne putrida. Mike e Darling si guardarono, poi Darling mormorò: «Figlio di puttana...» Andò in cabina, prese qualcosa da uno scaffale, poi ritornò tenendo in mano un artiglio ricurvo di colore ambrato. Lo introdusse nella ferita aperta nella pelle nero-azzurrognola. Coincideva alla perfezione. «Figlio di puttana...» ripeté. «Che cos'è, Whip? Chi l'ha fatto?» domandò Sharp.
«Spero che non sia ciò che penso», rispose Darling. «E cioè?» Darling puntò il dito contro il pezzo di grasso e disse a Mike: «Getta quella roba in mare, offriamo il pranzo alle cernie». Poi si rivolse a Sharp: «Vieni», lo invitò. «Dove?» «Ho bisogno di consultare qualche libro.» Darling, mentre precedeva Sharp sul sentiero di casa, notò la macchina di sua figlia parcheggiata nel viale. «C'è Dana», disse. «Vorrei sapere perché.» Sharp, che non era mai entrato nella casa di Darling, si guardò rapidamente attorno. Era una classica casa bermudiana del diciottesimo secolo, a forma di barca capovolta. I soffitti erano sostenuti da robusti elementi angolari di legno; le pareti erano rinforzate da pilastri di legno di trenta per trenta centimetri. I cassettoni, gli armadietti, i tavoli e i pavimenti erano ricavati anch'essi da larghe tavole di cedro di Bermuda, vestigia del tempo in cui i cedri non erano ancora stati uccisi dalla ruggine delle piante. Le stanze erano fresche, buie e pervase dal profumo speziato tipico di quel legno. Le due donne sedute in sala da pranzo trasalirono quando videro Darling sulla soglia. La più giovane - abbronzata, dai lineamenti marcati, con i capelli schiariti dal sole - mescolò le carte posate sul tavolo coprendone alcune con certe altre. Darling non ci fece caso. Disse: «Ehi, lucertola» alla figlia e la baciò sulla guancia. «Che cosa ti porta qui?» «Progetti e intrighi, che altro?» «Giusto, se vuoi tenere a bada i cattivi. Conosci Marcus Sharp? Marcus, ti presento Dana.» «Sapevo di lei», disse Dana sorridendo, e strinse la mano di Sharp. «Lieto di conoscerla», disse Sharp. Ebbe l'impressione che Dana fosse a disagio. Teneva la schiena contro il tavolo, nascondendo la pila di carte. Darling condusse Sharp in una stanzetta oltre il soggiorno, con librerie a parete, arredata solo con un tavolo di cedro e due poltrone. «Dovrei vergognarmi», esordì Darling. «Di che cosa?» «Della mia fede nella scienza. Gli scienziati ammettono solo le cose che sanno. Quelle che non sanno - che potrebbero essere, che fanno parte del
regno del possibile non dimostrato - le accantonano, qualificandole come miti o leggende.» Sharp scorse i titoli sugli scaffali, che sembravano contenere tutti i libri sul mare. C'erano tutti gli autori, da Rachel Carson a Jacques Cousteau, da Samuel Eliot a Mendel Peterson, da Peter Freuchen a Peter Matthiessen. E non solo libri sul mare, ma anche volumi che trattavano di monete, ceramiche, vetri, naufragi, tesori, armi. «Vediamo un po'.» Darling prese un grosso volume con custodia, lo tirò fuori e ne lesse ad alta voce il titolo: Misteri del mare. Aprì il libro. «Circa dieci anni fa», disse sfogliandolo, «ero su una barca nel mare di Cortez assieme a gente di un acquario della California: li aiutavo a raccogliere esemplari strani sul fondo. Una notte vedemmo dei messicani che pescavano con la lampara e ci avvicinammo per dare un'occhiata. Stavano cercando i grandi calamari, i calamari di Humboldt, lunghi fino a un metro e mezzo per venti-venticinque chili di peso. Non avevo mai visto quei grossi esemplari, e decisi di scendere in acqua con loro. Appena la condensa nella mia maschera fu svanita, uno di quei maledetti venne contro di me. Gli diedi una pacca e, con una rapidità che non avrei mai immaginato possibile, uno dei suoi tentacoli scattò e mi prese per il polso. Fu come essere punto da cento aghi. Gli diedi un pugno in un occhio e lui lasciò la presa. Io mi resi conto che quello non era un bel posto in cui stare, e risalii. All'improvviso mi sentii tirare sotto. Tre di quei mostri mi avevano preso e mi trascinavano nel profondo. Credimi, il Signore deve avere un debole per i bermudiani stupidi, perché tutte le cose cui si erano attaccati si ruppero: una pinna, il profondimetro, il retino portapesci in cui raccoglievo le cose. Partii verso la superficie. Per motivi che ignoro, non mi inseguirono e io potei risalire in barca. Però ebbi incubi per un mese.» «Gesù», mormorò Sharp. Darling voltò una pagina, poi disse: «Ecco», e spinse il libro verso Sharp. «Che cos'è questo?» domandò Sharp guardando l'illustrazione. Era una xilografia del diciannovesimo secolo che rappresentava una bestia rassomigliante a un mostro preistorico, con un grosso corpo bulboso che finiva in una coda a forma di freccia. Aveva otto braccia che si torcevano, più due tentacoli lunghi il doppio del corpo e due occhi giganteschi. Nell'incisione, la bestia usciva dal mare e distruggeva un veliero. Si vedevano esseri umani che fuggivano; una donna con gli occhi spalancati per il terrore pendeva dal becco della creatura.
«Questo», disse Whip, «è il nonno dell'animale che mi aveva afferrato. L'Architeuthis Dux, il calamaro gigante oceanico.» «Altro che incubo! Ma non può esistere... vero?» «Invece esiste. È raro, ma esiste.» Darling fece una pausa. «Per la verità, Marcus, non solo esiste, ma è qui. In questo preciso momento.» Sharp lo guardò: «Andiamo, Darling...» disse. «Non mi credi? Va bene, forse crederai a Herman Melville.» Allungò una mano, prese una copia di Moby Dick e la sfogliò finché non ebbe trovato la pagina che cercava. Poi lesse ad alta voce: «...'Stemmo allora a contemplare il più stupefacente fenomeno che l'oceano segreto abbia finora mai mostrato all'uomo. Una vasta massa polposa, lunga e larga centinaia di metri, di uno smagliante color lattiginoso, stava stesa fluttuando sull'acqua con innumerevoli lunghi tentacoli irradianti dal centro e arricciati e avvoltolati come un cespo di anaconda, quasi disposti ad afferrare ciecamente qualunque oggetto sfortunato vi passasse a portata'». Mentre Darling chiudeva il libro, Sharp disse: «Whip, Moby Dick è solo un romanzo». «Non tutto. La storia della balena è vera, basata su un incidente occorso a una nave che si chiamava Essex.» «Eppure...» «Vuoi dei fatti? Okay, ti troverò i fatti.» Darling estrasse un altro libro e strinse le palpebre per decifrare le lettere scolorite sul dorso. «L'ultimo drago», lesse. «Del dottor Herbert Talley. Questo dovrebbe convincerti.» Anni addietro aveva fatto le orecchie a certe pagine come segnalibro, e aprì sulla prima. «Si è scritto sul calamaro gigante fin dal sedicesimo secolo, forse anche prima. Conosci la parola kraken? E svedese, significa 'albero sradicato'. E proprio così che si presentano questi mostri, con tutti quei tentacoli che si allargano come radici. Oggi gli scienziati usano la parola cefalopodi, che è una buona descrizione.» «Perché?» domandò Marcus. «Che cosa vuol dire?» «'Testa con piedi'. Perché le loro braccia, che la gente credeva fossero piedi, escono direttamente dalla testa.» Cercò un altro segnalibro. «Qui, Marcus», disse. «Uno di loro è venuto fuori nell'oceano Indiano e ha trascinato sotto uno schooner chiamato Pearl, proprio come nell'illustrazione. Ha ammazzato tutti. C'erano più di cento testimoni.» Darling batté la mano sul libro. «Dannazione», disse. «Non so come ho fatto a non capirlo prima. È così ovvio. Nessun altro essere avrebbe potuto strappare via la nostra attrezzatura. Nessun altro. Nessuno squalo esistente è abbastanza grande per
ridurre in schegge una barca di dodici metri. E nessun altro è così totalmente, profondamente malvagio.» «Ma, Whip, guarda la data.» Sharp indicò il libro. «1874. Non è di oggi.» «Marcus, quei segni sulla pelle della balena li hai visti con i tuoi occhi.» Estrasse dalla tasca uno degli artigli e lo alzò alla luce. «Quale altro animale ha dei coltelli come questo?» Darling provava un senso crescente d'impazienza. Ammesso che avesse ragione, ammesso che là fuori ci fosse un calamaro gigante, che cosa si poteva fare? Catturarlo? Improbabile. Ucciderlo? Sì, ma come? Se non lo uccidevano, che cosa potevano fare, loro o chiunque altro, per liberarsi del mostro? Prese altri libri dallo scaffale, ne diede due a Sharp, poi sedette in poltrona e ne aprì uno. «Leggi», disse. «Faremo bene a sapere tutto ciò che è stato scritto su questa bestia.» Sfogliarono i libri di Darling. Gli accenni al calamaro gigante erano schematici e spesso contraddittori. Alcuni esperti sostenevano che l'animale raggiungeva al massimo la lunghezza di quindici o diciotto metri, altri insistevano a dire che calamari di trenta metri o anche più grandi esistevano in tutti gli oceani del mondo. Alcuni affermavano che le ventose del calamaro gigante contenevano denti e artigli, altri che contenevano solo denti o solo artigli, altri ancora asserivano che non avevano né gli uni né gli altri. Secondo alcuni, avevano dei fotofori nei tessuti che li facevano luccicare per bioluminescenza, mentre altri lo negavano. «Non sono d'accordo su niente», disse Sharp dopo che ebbe letto per un po' di tempo. «Questa è la cattiva notizia. La buona è che tutte le aggressioni a esseri umani registrate in questi libri sono avvenute nel secolo scorso.» «No», disse Darling passando un libro a Sharp. «Si direbbe che con questa bestia non esistano buone notizie.» Sharp guardò la pagina aperta. «Merda», borbottò. «1941?» «E non lontano di qui. Dieci naufraghi, dieci marinai, su una scialuppa di salvataggio. Era sovraccarica, e due di loro dovettero stare appesi fuori bordo. La prima notte, nell'oscurità più completa, si udì un grido, e uno degli uomini scomparve. Il fatto si ripeté nella seconda notte. Dopo di che erano tutti a bordo, stretti l'uno all'altro. La terza notte udirono un suono raschiante sul capo di banda, e sentirono un certo odore. Ebbene, a quanto pare il calamaro gigante che li aveva seguiti - sott'acqua durante la notte e in superficie durante il giorno - stava tastando attorno con un tentacolo.
Toccò uno degli uomini, gli si avvolse attorno con la velocità di un fulmine e lo tirò fuori bordo. Ora sapevano di che cosa si trattava, e la notte successiva si tennero pronti. Quando il tentacolo venne fuori e iniziò la caccia, gli si avventarono addosso e lo fecero a pezzi, ma non prima che uno di loro restasse seriamente ferito. Il calamaro andò via e non ritornò più. Quanto all'uomo ferito, accertarono che gli erano stati staccati dei pezzi di carne grandi come una moneta da un quarto di dollaro. Calcolavano che l'animale fosse lungo... quanto?» Sharp fece correre il dito sulla pagina. «Sette metri. Quanto una grossa station wagon.» Darling rifletté per un momento, poi disse: «Quanto erano grandi, secondo te, quelle tacche sulla pelle della balena?» «Sui sette centimetri?» «Porco Giuda.» Darling si alzò in piedi. «Questo calamaro gigante può essere grande quanto una balenottera azzurra.» «Una balenottera azzurra?» esclamò Sharp. «Per amor di Dio, Whip, è il doppio della tua barca. È più grossa di un dinosauro. La balenottera azzurra è l'animale più grande mai esistito.» «Sì, come massa corporea, ma forse non in lunghezza. Sicuramente non per cattiveria», replicò Darling. Mentre tornavano fuori, passarono nella sala da pranzo. Charlotte alzò gli occhi e disse: «Whip, cos'è questa storia su un calamaro gigante?» «Calamaro gigante...? Dimmi, sei anche telepatica?» «Ne ha parlato la radio poco fa. Qualcuno ha trovato qualcosa su una spiaggia, e uno degli scienziati dell'acquario ha detto...» «Sì, Charlie», rispose Darling. «Sembra che ci troviamo per le mani un calamaro gigante.» «Hanno organizzato una riunione in proposito per domani sera. Giù alla sala del Comune. Pescatori, subacquei, skipper. Tutta l'isola è in agitazione.» «Non mi stupisce.» «Quanto è grande quel tipo di animale?» «Molto.» «William», disse Charlotte alzandosi. Si avvicinò a Darling e lo prese per un braccio. «Promettimi una cosa.» «Via, Charlie, nessun uomo che non sia completamente rimbecillito andrebbe a caccia di una bestia come quella.»
«Uno come Liam St. John, per esempio.» «Cosa vuoi dire?» «St. John ha detto per radio che la prenderà. Per salvare Bermuda. Dice che sanno come fare, lui e quella che definisce 'la sua gente'.» «Siamo a posto», disse Darling. «Il dottor St. John finirà nella pancia della bestia, e ci saremo liberati di lui.» Si chinò a baciarla e guardò la pila di carte sul tavolo. «Che cosa state combinando voi ragazze? Volete comperare la General Motors?» «Niente», disse Charlotte, e lo baciò a sua volta. «Va' via.» Si diresse verso il tavolo, ma si fermò e disse: «C'è stata una chiamata per te». «Da chi? Cosa voleva?» «Non l'ha detto. Forestieri. Quello con cui ho parlato sembrava canadese. Volevano solo sapere se eri disponibile.» «Disponibile per che cosa?» replicò Darling. «Non importa, posso indovinare. Se chiamano di nuovo, rispondi che ero disponibile fino a dieci minuti fa. Adesso credo di essermi ritirato di colpo dagli affari.» 19. Che razza di scherzo, pensò Darling nel lasciare la sala comunale. L'avevano chiamata «riunione plenaria» ma non era stata altro che una farsa, un mezzo per consentire al premier, Solomon Tucker, di far vedere alla cittadinanza che era preoccupato, anche se non avrebbe mai fatto alcunché! Non che qualcuno potesse farci qualcosa, ma il premier non si era spinto fino ad ammetterlo pubblicamente. Come la maggior parte dei politici, si era nascosto dietro il dito, ma senza veramente arrendersi. Tutti avevano avuto l'opportunità di manifestare la propria rabbia e di fornire suggerimenti cervellotici su come affrontare quel mostro che pochissime persone avevano sentito nominare e che nessuno aveva visto. Ora, se le cose si fossero calmate, tornando alla normalità, il vecchio Solly avrebbe potuto attribuirne il merito alla «democrazia in azione»; se invece fossero peggiorate, avrebbe potuto riversare almeno metà della colpa sulla popolazione, che aveva chiesto di partecipare, ma non aveva trovato una soluzione. Tucker avrebbe vinto in entrambi i casi. Darling ispirò profondamente l'aria della sera e decise di tornare a casa a piedi. Era un percorso di circa tre chilometri e lui, dopo essere stato seduto per due ore, aveva bisogno di un po' di esercizio fisico. Prevedeva che la riunione sarebbe durata almeno un'altra ora, con la gente che si sarebbe ac-
capigliata per scegliere le parole da usare nel testo degli avvisi. Forse era troppo tardi per preoccuparsi. Grazie a Liam St. John e alla sua perenne crociata per la propria notorietà, il giornale del mattino era uscito con il titolo: ST. JOHN CONFERMA CHE IL MOSTRO È UN CALAMARO GIGANTE. Ormai la notizia stava arroventando i fili del telefono in tutto il mondo. Qualcuno aveva espresso la speranza che la regata Newport-Bermuda, già in corso, non venisse ostacolata. Tuttavia gli aspetti che avrebbero potuto dare profitto a Bermuda erano già compromessi. Le prenotazioni negli alberghi erano calate. Gli intermediari di commercio si trovavano senza affari da trattare, i tassisti se ne stavano fermi e ingannavano il tempo giocando a carte sul tetto delle vetture. Lo stesso Darling era riuscito a perdere un sacco di soldi che non aveva. A metà della riunione, Ernest Chambers, il sub che gli aveva offerto dei noleggi durante la pausa della regata, si era alzato in piedi ad annunciare che due terzi delle sue prenotazioni erano state annullate, domandando che cosa avrebbe fatto in proposito il governo. Com'era prevedibile, Liam St. John aveva aspettato che le cose fossero a un punto morto prima di alzarsi dalla sedia nella fila dei ministri. Aveva evidentemente fatto un tentativo - risultato vano - di sembrare più alto del suo metro e sessanta, cotonando la folta chioma color della zucca. Quando si era alzato a parlare, aveva chiesto l'appoggio pubblico al suo piano d'azione. Poiché nessuno sapeva abbastanza sul mostro per esprimere giudizi sul piano di St. John, Darling era stato invitato a gran voce a dire che cosa ne pensava. Dopo tutto, aveva fatto presente qualcuno, «Whip ha catturato almeno un esemplare di tutto ciò che Dio ha messo nell'oceano da queste parti». Darling aveva detto loro ciò che aveva letto e le conclusioni che ne aveva tratto: probabilmente la comparsa di un calamaro gigante nelle acque intorno a Bermuda era un puro caso, un incidente naturale; poiché le barche e gli esseri umani non costituivano il suo cibo ordinario, la bestia avrebbe quasi certamente finito per andarsene. Partire per andare a catturarla o distruggerla non aveva senso, perché secondo lui nessuno era in grado di farlo, benché il piano del dottor St. John fosse ambizioso. In sostanza, disse Darling, lasciamo in pace la bestia per un po' di tempo e stiamo a vedere. St. John aveva definito «disfattismo rinunciatario» l'approccio di
Darling, e ciò aveva scatenato un'altra rissa generale. Mentre usciva aprendosi la via a gomitate attraverso la folla, Darling aveva sentito qualcuno proporre l'emanazione di un «Avviso ufficiale ai naviganti», altri insistere per l'organizzazione di una conferenza stampa in cui poter sottolineare che ogni anno muoiono più persone per punture di insetti di quante ne vengano uccise da tutte le creature marine messe insieme. Inoltre udì il premier annunciare la costituzione di un comitato con l'incarico di vagliare le diverse possibilità... sotto la presidenza di Liam St. John. Darling si avviò verso Somerset pensando al da farsi. Una parte del problema, con quella gente, era rappresentata dall'epoca in cui viveva. Nei vecchi tempi avrebbe accettato senza discutere l'avvento di un essere come l'Architeuthis. L'inesplicabile, l'inevitabile facevano parte della vita e la gente imparava a convivere con essi. Oggi non più. La gente era viziata, non poteva accettare una situazione che richiedeva pazienza e non offriva soluzioni facili. Era giunto a una strettoia della strada, rinchiusa tra due alti muri di pietra calcarea, quando sentì arrivare un'automobile alle sue spalle. Uscì dalla carreggiata e si strinse contro il muro per lasciar passare la vettura, ma questa, dopo averlo superato, rallentò e si fermò davanti a lui. E allora? si chiese. Guardò il baule della macchina e vide lo stemma della BMW. Gente ricca... e stupida. In un Paese con un limite di velocità di trentadue chilometri orari, una BMW non era un mezzo di trasporto, ma un trofeo. Un uomo scese dalla parte del passeggero e venne verso Darling. «Il capitano Darling?» disse. Whip vide una giacca di tweed, pantaloni marrone, stivaletti da passeggio, ma non vide il volto dell'uomo. «La conosco?» domandò. «Sono il dottor Herbert Talley, capitano.» Talley. C'era qualcosa di familiare in quel nome, ma non riusciva a inquadrarlo. «Dottore in cosa?» «Malac... voglio dire, molluschi, capitano. Dottore in molluschi, potremmo dire.» «Non ha bisogno di parlarmi dalla cattedra. Conosco la parola 'malacologia'.» «Sicuro, mi scusi. Possiamo darle un passaggio fino a casa sua?» «Ho voglia di camminare», rispose Darling, e ripartì passando lungo la macchina, ma d'un tratto gli venne in mente qualcosa. Si fermò e disse:
«Talley, il dottor Talley. È lei che ha scritto quel libro, L'ultimo drago, vero?» Talley sorrise e disse: «Sì, l'ho scritto io». «Un buon libro, pieno di fatti. Almeno, io li ho interpretati come fatti.» «Grazie. Senta... capitano... vorremmo parlarle. Può concederci qualche minuto?» «Parlare di cosa?» «Dell'Architeuthis.» Un campanello d'allarme squillò nella mente di Darling: dev'essere lui l'uomo che ha telefonato. Charlotte aveva detto che la voce sembrava canadese, e il modo in cui Talley parlava lo qualificava immediatamente come tale. Darling ribatté: «Ho già detto tutto quello che ho da dire». «Allora forse potrebbe ascoltare noi, solo per pochi minuti... il tempo di un drink?» «Chi sarebbe 'noi'?» Talley fece un gesto verso la vettura. «Il signor Osborn Manning.» Vedendo che Darling non diceva una parola, come se il nome non gli dicesse nulla, Talley aggiunse: «Manning... il padre dei...» «Oh, sì. Mi dispiace.» «Noi... lui... gradiremmo scambiare qualche parola con lei.» Darling esitò: rimpiangeva che non ci fosse Charlotte. Lui non era bravo nelle schermaglie verbali con gente scaltra. D'altro canto non voleva essere scortese, soprattutto con l'uomo che aveva perso i suoi due figli. Come si sarebbe sentito lui se Dana fosse stata divorata da qualche...? Non riusciva neppure a immaginarlo e non ci voleva pensare. Alla fine disse: «E sia». «Splendido», ribatté Talley aprendo la portiera posteriore. «C'è un buon albergo dopo la...» Darling scosse il capo. «Andate avanti cento metri e fermatevi sotto l'insegna con la scritta 'Shilly'. Vi raggiungo là.» «La portiamo noi.» «Vengo a piedi.» Darling girò intorno alla BMW. «Ma...» «Shilly», ripeté Darling continuando a camminare. Un tempo Shilly era stato un distributore di benzina con una sola pompa; poi, in sequenza, era stato discoteca, boutique e centro per il noleggio di videocassette. Adesso era un ristorante con un'unica sala, e apparteneva a un ex pescatore di squali. La pubblicità dichiarava che era «la casa della famosa frittella di strombi di Bermuda», cosa che, per i locali, equivaleva a
una barzelletta, visto che gli strombi di Bermuda erano stati tutti pescati già da parecchi anni. Su richiesta, Shilly serviva ai clienti un piatto di quello che lui chiamava pesce fritto, ma fondamentalmente si guadagnava da vivere vendendo alcolici a basso prezzo. Nel parcheggio c'era ancora lo scheletro della vecchia pompa per benzina verniciato di viola. Darling avrebbe potuto farsi portare all'albergo: non aveva pregiudizi contro quelle utili istituzioni. Ma in albergo i suoi interlocutori sarebbero stati a loro agio, e lui non voleva che lo fossero. Voleva farli sentire sulle spine, e venire subito al sodo. Mentre passava nell'area di parcheggio, vide la BMW posteggiata in mezzo a due furgoni malandati. Entrò nel ristorante e si fermò per un momento, lasciando che i suoi occhi si adattassero all'oscurità. Sentì l'odore di birra stantia e di fumo, e anche l'aroma dolce e speziato della marijuana. Una dozzina di uomini era raccolta intorno al biliardo, gridando e facendo scommesse. Alcuni altri discutevano vicino a un flipper. Erano tipi duri e irascibili. Ed erano tutti di colore. C'erano diversi tavoli liberi vicino all'ingresso, ma Talley e Manning stavano in piedi in un angolo, come scolari puniti dal maestro. Un uomo enorme, nero come un haitiano e largo di spalle come un giocatore di football americano, scese da uno sgabello presso il bar e venne adagio verso Darling. «Whip...» disse. «Shilly...» «Sono con te?» Voltò la testa verso l'angolo dove c'erano Talley e Manning. «Sì.» «Va bene.» Shilly andò verso di loro e atteggiò il viso a una smorfia cordiale. «Accomodatevi, signori», disse. Prese una sedia dal tavolo più vicino e la tenne per Manning mentre si sedeva. Quando li vide tutti a posto, Shilly domandò: «Cosa posso servirvi?» Manning disse: «Vorrei una Stolichnaja con...» «Rum o birra», lo interruppe Shilly. «Porta tre 'Dark and Stormy', Shilly», intervenne Darling. «D'accordo», rispose l'omone, e partì verso il bar. Darling guardò Osborn Manning. Sembrava sulla cinquantina. Era impeccabile: le unghie in ordine e lucide, i capelli dal taglio perfetto. Quanto al completo blu, sembrava che glielo avessero stirato addosso mentre aspettava il tavolo. La camicia era candida e inamidata, la cravatta blu fer-
mata da una spilla d'oro. Ma erano gli occhi di Manning che Darling non poteva smettere di guardare. In tempi migliori sarebbero stati semplicemente infossati: la fronte sporgeva sopra gli occhi, e le sopracciglia erano spesse e scure. Ma adesso sembrava che nella fronte ci fossero due gallerie nere, che avevano inghiottito gli occhi. Forse è soltanto perché qui dentro è buio, pensò Darling. O forse è il modo in cui la sofferenza riduce un uomo. Manning notò che Darling lo stava osservando e disse: «Grazie per essere venuto». Darling fece un cenno d'assenso e si sforzò di trovare qualcosa di gentile da dire, ma non seppe escogitare nulla di meglio che: «Nessun problema». «Abita qui vicino?» domandò Talley per avviare la conversazione. «Abbastanza.» Darling indicò con il capo la parete a nord. «Dall'altra parte della Mangrove Bay.» Shilly portò i drink. Talley bevve un sorso e sentenziò: «Ottimo». Darling spiò la reazione di Manning al primo sorso: lo vide trasalire e reprimere una smorfia. Per un palato avvezzo alla vodka con ghiaccio, il rum con ginger ale doveva avere un gusto esecrabile, come, per esempio, quello delle acciughe con burro di arachidi. Seguì un silenzio imbarazzato, come se Talley e Manning non sapessero da dove cominciare. Darling aveva una vaga idea di ciò che volevano da lui, e fece fatica a respingere la tentazione di invitarli a parlare chiaro saltando i preliminari. Però non voleva sembrare impaziente; attraverso gli anni aveva guadagnato parecchi dollari tenendo il becco chiuso e ascoltando. Manning sedeva rigido, con la giacca abbottonata, le mani intrecciate sulle ginocchia, e fissava la fiammella dell'unica candela sul tavolo. Che diavolo, pensò Darling, non rischio niente a essere cortese. Si rivolse a Manning. «Mi dispiace molto per i due ragazzi.» «Sì.» Manning non seppe dire altro. «Non posso immaginare cosa... abbiamo una figlia... dev'essere...» Non trovò altro da dire, e tacque. Manning distolse lo sguardo dalla candela e alzò la testa verso di loro. I suoi occhi sembravano sempre nascosti nelle cupe caverne. «No, capitano, non può immaginarlo. Nessuno può, finché non succede a lui.» Manning si mosse sulla sedia. «Lo sa qual era stato il mio pensiero più doloroso prima di allora? Fu quando i ragazzi fecero domanda di am-
missione all'università. Era la prima volta che i miei figli erano minacciati da qualcosa contro cui non potevo proteggerli. La loro vita, il loro avvenire, in balia di estranei sui quali non avevo alcun potere. Non mi sono mai sentito così frustrato in vita mia. Un giorno mi accorsi che stavo perdendo la vista da un occhio. Andai dai medici, feci ogni genere di esami, non c'era alcunché che non andasse. Poi, una volta che giocavo a squash con un amico, gliene parlai, forse per scusarmi di come stavo giocando male. Mi rispose che, quando i suoi figli avevano fatto domanda all'università, a lui era venuta la colite ulcerosa. In quel momento io soffrivo di cecità isterica. Sparì appena i ragazzi furono ammessi al college. Giurai a me stesso che non mi sarebbe più capitato niente del genere.» Si torse le mani e scosse il capo. «Vuol sapere come mi sento? Come se fossi morto.» Talley bevve un altro sorso e proseguì: «Capitano Darling, ci è piaciuto ciò che lei ha detto alla riunione». «C'eravate? Come mai?» «In fondo alla sala. Volevamo vedere come avrebbe reagito la gente a questa situazione.» «La risposta è facile», disse Darling. «Sono tutti spaventati a morte. Vedono il loro mondo minacciato da qualcosa che non riescono a capire, e meno ancora ad affrontare.» «Ma lei non è... spaventato.» «Ha sentito che cosa ho detto stasera alla riunione. È come ogni altro aspetto grande e terribile della natura. Lasciatela in pace, lei lascerà in pace voi.» Pensò ai figli di Manning e aggiunse: «Di norma... in generale». «Quel dottore laggiù, quel St. John... è un imbecille.» «È una delle definizioni possibili.» «Ma c'è qualche punto su cui non concordo con lei. Ciò che sta succedendo non è accidentale.» «Che cos'è, allora?» Darling vide Talley guardare Manning. Poi Talley domandò: «Mi dica, capitano, che cosa sa dell'Architeuthis?» «Quello che ho letto, ciò che lei ha scritto, altra roba. Non moltissimo.» «Che cosa pensa di quell'animale?» Darling si fermò a raccogliere le idee. «Ogni volta che sento parlare di mostri», disse, «penso al film Lo squalo. La gente dimentica che Lo squalo era una storia inventata. Appena uscì quel film, ogni capitano di nave, qui come a Long Island o fino all'Australia del sud, cominciò a fantasticare su squali bianchi di dieci, dodici, quindici metri. La mia norma è: quando
qualcuno mi parla di un animale grande come un camion con rimorchio, io ne taglio un terzo o la metà.» «Saggio», approvò Talley. «Molto saggio. Però...» «Però», disse Darling, «con questa bestia mi pare che, quando se ne sente parlare, non conviene tagliarne nemmeno un poco. La cosa furba è raddoppiare.» «Esattamente!» confermò Talley. Aveva gli occhi che brillavano, e si sporse verso Darling come se fosse felice di avere incontrato l'anima gemella. «Le ho detto che sono un malacologo, ma la mia specialità è lo studio dei cefalopodi, e più specificamente degli Architeuthis. Ho passato la vita a studiarli. Ho usato elaboratori, tracciato diagrammi, sezionato, annusato, assaggiato il tessuto...» «Assaggiato? Che gusto ha?» «Di ammoniaca.» «Ne ha mai visto uno vivo?» «No. E lei?» «Nemmeno io», rispose Darling. «E vorrei continuare a non vederne.» «Più li studiavo, più mi rendevo conto di quanto poco si sa sui calamari giganti. Nessuno sa quali dimensioni e quale età possono raggiungere, perché ogni tanto si arenano nelle secche al largo o finiscono a riva morti... Non si sa nemmeno quante specie ne esistono. C'è chi dice tre, chi diciannove. È un classico esempio del vecchio detto 'più sai e più capisci quanto poco sai'.» Talley si fermò con aria imbarazzata. «Chiedo scusa, mi sono lasciato prendere dall'entusiasmo. Posso tagliare corto se lei...» «Proceda», disse Manning. «Il capitano Darling deve sapere.» Mi stanno incastrando, pensò Darling. Mi stanno pescando alla traina, mi adescano come se fossi un marlin affamato. «Io ho una teoria», riprese Talley, «buona quanto la maggior parte delle altre e migliore di alcune. Fino alla metà del secolo scorso nessuno credeva veramente all'esistenza dell'Architeuthis, o di altri cefalopodi giganti. I pochi avvistamenti furono bollati come farneticazioni di marinai impazziti. All'improvviso, intorno al 1870, ci fu una pletora di avvistamenti, di arenamenti, addirittura di attacchi a imbarcazioni e...» «Ne ho letto qualcosa», ammise Darling. «Il fatto è che i testimoni erano numerosi, e per la prima volta la gente fu costretta a credere. Poi tutto finì di nuovo sino ai primi anni di questo secolo quando, senza ragione apparente, si videro piovre in mare e arenate. Mi venne l'ida che potesse esistere uno schema. Pertanto raccolsi tutti gli
avvistamenti e gli spiaggiamenti, li immisi nel computer con i dati relativi ai principali eventi di natura meteorologica, variazioni di correnti e altre informazioni, poi dissi al computer di trovarmi un tema o un motivo costante. «Il computer rispose che lo schema degli avvistamenti e degli arenamenti coincideva con le fluttuazioni cicliche di certi rami della Corrente del Labrador, il grande flusso d'acqua fredda che corre lungo tutta la costa atlantica. Per la maggior parte del ciclo non si vedono Architeuthis, né vivi né morti. Ma nei primi dieci anni del cambiamento, per qualche motivo temperatura dell'acqua, disponibilità di cibo o Dio sa che cos'altro - la bestia ricompare.» «Quanto durano i cicli?» domandò Darling. «Trent'anni.» «E l'ultimo ha avuto inizio...» Sapeva la risposta prima ancora che le parole gli uscissero di bocca. «Nel 1960... ed è durato fino al 1962.» «Capisco.» «Sì», disse Talley. «Lei capisce. La bestia si trova qui perché è il suo momento.» Talley si sporse in avanti con le mani sul tavolo. «Purtroppo la verità è che posso darle un volume di fatti e documentarglieli, ma non sono assolutamente in grado di dirle perché i fatti sono così. Qualcuno pensa che l'Architeuthis resti intrappolato nelle correnti d'acqua calda, soffochi per mancanza d'ossigeno, muoia e finisca a riva. Altri pensano che sia vittima dell'acqua fredda, diciamo a temperatura vicina agli zero gradi centigradi. Nessuno lo sa.» Quest'uomo, pensò Darling, è innamorato del calamaro gigante. «Dottore», disse, «tutto questo è molto interessante, ma non ci dice una parola sul motivo per cui la bestia si mette di colpo a mangiare la gente.» «Invece sì!» esclamò Talley sporgendosi ancora di più verso Darling. «L'Architeuthis è quello che chiamiamo un mangiatore avventizio. Si nutre in modo casuale, mangiando qualunque cosa trovi. La sua dieta normale ho esaminato il contenuto dello stomaco - comprende squali, razze, pesci grossi. Però mangia qualunque cosa. Diciamo che le correnti cicliche lo obbligano a salire dalle profondità tra i seicento e i novecento metri dove solitamente vive. Supponiamo ora che scopra che le sue fonti abituali di cibo non ci sono più. Lei dovrebbe conoscere questo problema, capitano. A quanto ho sentito, il mare intorno a Bermuda è stato praticamente spopolato. Supponiamo poi che tutto ciò che trova da mangiare sia...»
Ci fu un rumore secco, che suonò come un colpo di fucile, e qualcosa passò davanti al volto di Darling. Osborn Manning aveva stretto tanto forte da spezzare il bastoncino di plastica con cui mescolava il suo drink. «Mi dispiace», disse. «Chiedo scusa.». «No», disse Talley. «Io chiedo scusa. Signore Iddio...» «Dottore», disse Darling dopo una pausa, «c'è una cosa di cui lei non ha parlato: la regola numero uno della natura, l'equilibrio. Quando ci sono troppi leoni marini, aumenta il numero degli squali bianchi che ristabiliscono le proporzioni. Quando un posto è sovrappopolato, nasce una calamità, come per esempio la peste. A me sembra che la presenza di questa creatura ci dica che la natura ha avuto un guasto. Perché?» «Ho una teoria», rispose Talley. «La natura non si è guastata, è la gente che ha scombinato la natura. C'è un unico animale che caccia l'Architeuthis, ed è il capodoglio. L'uomo li ha uccisi quasi tutti... Praticamente potrebbero già essere estinti. Pertanto è possibile che un numero sempre più alto di calamari giganti stia sopravvivendo, perciò adesso cominciamo a vederli. Qui.» «Lei intende dire che ce n'è più di uno?» «Non lo so. Personalmente credo di no, perché non ci sarebbe cibo sufficiente. Però potrei sbagliarmi.» Altre domande si affollavano nella mente di Darling, altre teorie vagavano tentando di organizzarsi. D'un tratto si rese conto che stava abboccando, e si costrinse ad arretrare, a impedire a Talley di agganciarlo all'amo. Fece il gesto di consultare l'orologio, poi spinse indietro la sedia. «È tardi», disse, «e domani devo alzarmi presto.» «Ah, capitano...» intervenne Talley. «Questa cosa, questa creatura, può essere catturata.» Darling scosse la testa. «Non ne è mai stato preso nessuno.» «Giusto. Non un vero Architeuthis. Non vivo.» «Perché crede di poterlo fare?» «So che possiamo.» «Ma perché, in nome di Dio, vuole catturarlo?» Talley trasalì. «Perché? Perché no, le domando. È unico. È...» Manning li interruppe. «Capitano Darling», disse, «questa... questa creatura, questa bestia... ha ucciso i miei ragazzi. Mia moglie è sotto sedativi da quando... ha tentato di...»
«Signor Manning», ribatté Darling. «Questa creatura è soltanto un animale...» «È un essere senziente. Il dottor Talley mi ha detto... e io lo credo... che la bestia conosce una forma di rabbia, che conosce la vendetta. La conosco anch'io. Mi creda, la conosco», mormorò Manning. «Ma è sempre solo un animale. Non può vendicarsi su un animale.» «Sì che posso.» «Ma perché? Che vantaggio...» «È una cosa che posso fare. Vuole che me ne stia seduto a prendermela con il destino e dire: 'Così va il mondo?' Non intendo farlo. Ucciderò quella bestia.» «No, non lo farà. Tutto ciò che riuscirà a fare è...» Talley intervenne. «Capitano, possiamo farlo. La bestia può essere catturata.» «Se lo dice lei, dottore. Ma mi lasci fuori da questa faccenda.» Fu Manning a parlare. «Capitano, quanto chiede per un giorno di noleggio?» «Io non...» «Quanto?» Ci siamo, pensò Darling. Non sarei mai dovuto venire qui. «Mille dollari», disse. «Le darò cinquemila dollari al giorno, più le spese.» Vedendo che i minuti passavano senza che Darling rispondesse, Talley aggiunse: «Non è solo una questione personale, capitano. Quella bestia deve essere presa». «Perché? Perché non si può semplicemente lasciarla andare via?» «Perché all'assemblea lei ha fatto un'altra affermazione sbagliata: la bestia non si fermerà. Continuerà a uccidere esseri umani.» «Cinque minuti fa era una teoria, dottore. Adesso è diventata un fatto, se capisco bene.» «Una probabilità», ammise Talley. «Se ha trovato una fonte di cibo, non vedo perché dovrebbe andarsene. E non credo che in mare ci sia un essere vivente capace di fermarla.» «Nemmeno io posso farlo. Cerchi qualcun altro.» «Non c'è nessun altro», dichiarò Manning. «A parte quell'asino di St. John...» «...con il suo grande progetto», completò Talley. «Quell'uomo crede veramente di poter prendere l'Architeuthis lanciando esplosivi nell'oceano? È
assurdo... è come giocare a mosca cieca!» Darling alzò le spalle. «Per lui conta vedere il suo nome su tutti i giornali. Senta, signor Manning, lei ha tutti i soldi che vuole, può ingaggiare qualche esperto di grande caratura, può armare una nave.» «Non creda che non abbia tentato. Pensa forse che io voglia lavorare con voi... con la gente del posto? Conosco gli isolani, capitano, conosco i bermudiani.» Manning mise un gomito sul tavolo e si sporse verso Darling. La sua voce era bassa, ma emanava un'intensità che la faceva sembrare un grido. «Ho una casa in questo posto da anni. So tutto delle isole piccole e delle menti piccole. So come andate in giro impettiti a ragliare per la vostra indipendenza. So che cosa pensate dei forestieri. Dal vostro punto di vista, io sono solo un altro yankee stupido e ricco.» Talley sembrava scosso. Darling si tirò indietro sulla sedia, sorrise e disse a Manning: «Vedo che lei sa scegliere le parole». «Sono stufo di queste stronzate, capitano. Ecco come stanno le cose: avrei potuto noleggiare una barca, in tutta la costa c'era gente che non vedeva l'ora di venire. Ma il vostro governo cocciuto ha un numero spropositato di leggi e regolamenti, di permessi e di licenze, di tasse e diritti. Ci sarebbero voluti mesi prima di poterci muovere. Perciò devo usare gente del posto, il che significa usare lei. Lei è il migliore. Per come la vedo, lei e io abbiamo un unico problema: il denaro. A quanto pare, non ho proposto la cifra giusta. Me la dica lei. Mi dica il suo prezzo.» Darling lo fissò a lungo, poi disse: «Mi permetta di dire come la vedo io, signor Manning. Lei è ricco ed è uno yankee, ma non ce l'ho con lei per questo. Ciò che fa di lei uno stupido è credere che i soldi possano ridarle i suoi figli. Lei crede che uccidere la bestia glieli restituirà. Ebbene, non è così. Lei non può comperarsi la pace.» «Devo tentare, capitano.» «Okay», disse Darling. «Lei ha messo le carte in tavola, ecco le mie. Io ho duecentocinquantamila dollari immobilizzati nella mia barca, e non c'è dubbio che i suoi soldi mi farebbero comodo. Ma l'unico altro cespite di cui dispongo è contenuto in questa camicia e in questi pantaloni; se lo perdo, il mio valore personale diventa zero.» Si alzò. «Pertanto la risposta è: no, grazie.» Fece un cenno del capo e uscì. «Ci pensi su, capitano», gli gridò dietro Manning. Quando Darling se ne fu andato, Talley finì il proprio drink, sospirò e disse: «Devo farle notare, Osborn, che lei è stato...»
«Non mi dica come devo condurre gli affari», sbottò Manning. «Non avremmo ottenuto nulla di più con le buone maniere. Ci comprendiamo bene, Darling e io. Forse io non piaccio a lui come lui non piace a me, però ci capiamo.» Fece un gesto a Shilly per chiedere il conto. Talley era furibondo. Non poteva finire così. Tutto era andato così bene. Aveva un assegno in bianco firmato da Manning, aveva fuso la propria ossessione con quella di Manning e creato un intento comune. Poteva comperare tutto ciò che gli serviva, e lo aveva fatto: l'attrezzatura più recente, la migliore, la più sofisticata. Ma soprattutto aveva un piano. Però l'elemento finale di cui aveva bisogno, l'ultimo ingranaggio della sua macchina elaborata, non era disponibile. Doveva nascondere a Manning il proprio scoraggiamento, per evitare di contagiarlo. Se avesse annullato l'assegno, trent'anni di ricerca, di sogni, di speranze sarebbero svaniti come fumo. Non parlarono più finché non furono nel parcheggio. Qui Manning chiese: «Quanto sappiamo su Darling?» «Conosciamo solo la sua reputazione. È il migliore, qui.» «No... su di lui personalmente.» «Nulla.» «S'informi in giro, veda che cosa può scoprire. Non esiste uomo al mondo che non abbia nemici. Ne scovi uno. Gli offra dei soldi. Gli dica che vuole sapere tutto ciò che c'è da sapere: panni sporchi, chiacchiere, menzogne, voci. Cominci dai pescatori. Piccola comunità, niente lavoro, niente denaro... Scommetto che sono peggio degli attori: venderebbero la propria madre per la possibilità di rovinare un concorrente.» «Vuole distruggere Darling? Perché?» «No, voglio controllarlo, ma non posso farlo finché non conosco quello che c'è da conoscere. Un vecchio assioma, Talley: la conoscenza è potere. Domani andrò in città, parlerò a qualche persona, raccoglierò notizie.» «Di cosa parlerà?» «Punti deboli, passività. Un altro detto antico: ogni uomo ha il suo prezzo. Non dobbiamo fare altro che scoprire quello di Darling, e quell'uomo sarà nostro.» Quando Darling giunse a casa, Charlotte stava aspettando in cucina. Dopo aver finito di raccontarle la serata, lei lo baciò e gli disse: «Sono fiera di te».
«Cinquemila al giorno.» Darling scrollò la testa. «Avrei potuto assicurarmi dieci giorni di lavoro, forse di più.» «Sì, ma dopo...?» Darling le mise un braccio intorno alle spalle. «Avresti potuto organizzarmi un grandioso funerale.» Charlotte non sorrise. Lo guardò e disse: «Ricorda soltanto la tua promessa, William. Non immischiarti con gente che non ha nulla da perdere». 20. La ruota del timone era enorme; per controllarla doveva usare due mani e la massima concentrazione. Era un cerchio di acciaio inossidabile di un metro e venti di diametro e sembrava che avesse una vita propria, che volesse sottrarsi a lei, imporre una strambata allo scafo e farlo poi scarrocciare nel letto del vento. Sembrava un cavallo ribelle. L'unica risposta possibile era farle vedere chi era il padrone, dopo di che la ruota si sarebbe comportata bene. Katherine non voleva commettere errori adesso, dopo avere atteso per tre giorni e tre notti l'occasione di prendere il timone, dopo avere ascoltato suo padre, Timmy, David e gli altri dire quanto era arduo controllare la barca con il vento al giardinetto; che ci voleva la forza di un uomo per governarla, che si doveva aspettare che il vento calasse e le condizioni fossero favorevoli... e via di seguito con quei bla bla. Sedeva diritta con le ginocchia strette contro il dritto del timone e stringeva la ruota con tanta forza che le stavano venendo i crampi alle mani. I muscoli delle braccia le dolevano già; presto, lo sapeva, sarebbero cominciate le fitte. Timmy riposava sul cuscino accanto a lei. Più avanti a prora David e Peter stavano sdraiati sulla coperta ad abbronzarsi. Per ora non avevano nulla da fare, se non aspettare il proprio turno. «Accosta un poco», disse Timmy. «Perché?» «Perché c'è un accenno di caduta poppiera della randa.» Timmy additò la sommità della vela. «Che cosa ne pensi?» Lei guardò stringendo gli occhi per il riverbero accecante della vela bianca contro il cielo azzurro. Timmy aveva ragione, e ciò la disturbava; avrebbe dovuto vederlo da sola. O udirlo. Accorgersene comunque. Ma la caduta era minima, insignificante, e lei non aveva pensato che fosse così
terribile. Fece forza sulla ruota girandola a destra finché non vide il bordo d'uscita della vela che smetteva di sbattere. La barca inclinò a dritta, e lei dovette puntare i piedi. «Ce l'abbiamo fatta», disse Tim. «Grazie al cielo. Sono contenta che tu l'abbia visto. Adesso vinceremo di sicuro.» «Attenta, Kathy... è una corsa.» «Potrebbero fregarmi.» Non c'erano altre imbarcazioni in vista. In quanti erano partiti? Cinquanta? Cento? Non ne aveva idea. La linea di partenza era stata un vero caos, con le barche che zigzagavano avanti e indietro, le persone che urlavano tra loro, le sirene che risuonavano. Ma, con il passare delle ore, il numero aveva cominciato a ridursi: sempre meno barche in vicinanza, poi sempre meno in vista, come se fossero state inghiottite una alla volta dal mare. Sapeva che non era così, che ogni skipper stava applicando una propria strategia per le andature portanti, usando il computer, l'esperienza, l'intuito e, per quanto ne sapeva lei, il voodoo per trovare la combinazione perfetta di vento, marea e corrente che potesse dargli un margine di vantaggio. Era comunque una sensazione strana essere soli in quel modo sull'oceano. La barca era lunga quasi quindici metri, e il sottocoperta sembrava grande come una casa. Invece di sopra - con le onde su ciascun lato, l'orizzonte che si stendeva senza fine e il cielo completamente vuoto - sembrava piccola come una cimice su un tappeto. Suo padre sporse la testa attraverso il portello. «Come va, Muffin? Lo aveva pregato di chiamarla Katherine. Solo per la durata del viaggio. Oppure Kathy. Con qualunque nome che non fosse Muffin. «Bene, papà.» «Come se la cava, Tim?» Sii gentile, pregò lei mentalmente. Non fare il tipico fratello stronzo. «Abbastanza bene...» disse Tim. Grazie... «...solo un po' distratta ogni tanto.» Pezzo di merda! «Abbiamo Bermuda sulla tangente dell'isometrica anulare delle cinquanta miglia.» «Magnifico!» esclamò Katherine sperando che fosse la cosa giusta da dire.
«Lo è davvero. Significa che possiamo navigare tutta la notte e, se abbiamo fortuna, essere al canale subito dopo l'alba. Non vogliamo affrontarlo al buio.» «Mio Dio, no», disse Tim. «Ricordi l'anno scorso?» «Non farmici pensare.» Naturalmente, pensò Katherine. L'anno scorso. Quando io non c'ero. Sempre così i fatti emozionanti: accadono quando io non ci sono. Suo padre ritirò la testa, ma si fermò e disse: «Che strano... La radio del porto di Bermuda sta trasmettendo un 'Avviso ai naviganti' a proposito di un qualche animale che aggredisce le barche». «Una balena?» domandò Katherine. «Magari è malata.» «Non lo so. Suppongo che stiano solo tentando di incrementare il turismo sfruttando la leggenda del Triangolo delle Bermude. Comunque, non è il caso di correre rischi inutili. Agganciate la sagola di salvataggio ogni volta che vi muovete.» «Papà, il mare è poco mosso.» «Lo so, Muffin, ma, come si dice, 'meglio prudenza che sofferenza'.» Sorrise. «Ho promesso a tua madre che avrei vigilato in modo particolare su di te.» Fece un cenno a Tim, poi si ritirò in cabina. Tim si alzò a sedere, allungò la mano per prendere il giubbotto di salvataggio di Katherine, estrasse la sagola incorporata e inserì con uno scatto il moschettone nell'anello d'acciaio intorno al dritto del timone. «E tu?» domandò Katherine. «Non porti nemmeno il giubbotto di salvataggio.» «Ho fatto tre volte questa regata», disse Tim. «Credo di sapere come ci si muove su una barca.» «Anch'io!» «Dillo a papà, non a me. Io sto solo eseguendo gli ordini.» Le sorrise e tornò a coricarsi sui cuscini. Katherine piegò le dita per alleviare i crampi e spostò il peso del corpo per attenuare la tensione nelle braccia e nelle spalle. Era senza orologio, non aveva idea di quanto tempo ancora avrebbe dovuto combattere con quella stupida ruota. Non troppo a lungo, sperava, se no sarebbe stata costretta a chiedere a Tim di darle il cambio, e lui avrebbe fatto di certo qualche battuta che l'avrebbe umiliata. Magari niente di cattivo, solo qualche stupido commento maschilista. Non voleva arrendersi. Aveva implorato per partecipare alla regata ed era decisa a fare la propria parte, compresi i turni di guardia. Sapeva che il
fratello era stato contrario alla sua partecipazione. Se sua madre non avesse preso da parte il padre e parlato con franchezza con lui sulla lealtà e la parità dei diritti e tutto il resto, lei sarebbe rimasta a Far Hills a insegnare il tennis ai ragazzini di dieci anni... Aveva un impegno verso sua madre, e verso se stessa: dimostrare di essere una parte attiva e non un peso morto. Però non vedeva l'ora che finisse. Aspettava con impazienza di arrivare a Bermuda e passare un paio di giorni sdraiata sulla spiaggia, o girando l'isola in motocicletta, mentre suo padre e gli altri avrebbero discusso sull'arte della vela tra un bicchiere e l'altro allo Yacht Club... No, si corresse, là lo chiamano Dinghy Club. Carino. Poi avrebbe preso l'aereo e sarebbe tornata a casa. Così era stato convenuto. Grazie a Dio. Non riusciva ad afferrare la mistica della vela, anche se si fingeva entusiasta e faceva del suo meglio per afferrare il senso di termini oscuri come «cazzare le drizze» e «prendere una mano di terzaroli». Le piaceva andare in giro di giorno su una piccola barca lungo la spiaggia. Era divertente passare un paio d'ore sull'acqua a fare le corse con gli amici, comportandosi da bulli, magari capovolgendosi ogni tanto, ma poi andare a casa dove l'aspettava una doccia calda, una buona cena e una buona notte di sonno. Ma qui era tutt'altra cosa: una maratona di noia, di scomodità e di fatica. Nessuno dormiva più di quattro o cinque ore al giorno. Nessuno faceva il bagno. Aveva tentato una volta di fare la doccia, ma era caduta due volte e si era tagliata la fronte contro il portasapone, per cui si era rassegnata a passarsi la spugna sul corpo fin dove arrivava e ogni volta che poteva. Tutto sembrava fradicio, tutto puzzava di muffa e di salmastro. Tutto, sottocoperta, esalava il tanfo di una gigantesca scarpa da tennis bagnata. Per far funzionare i gabinetti ci voleva la laurea in ingegneria idraulica. Entrambi i wc erano intasati almeno una volta al giorno, e inevitabilmente la colpa veniva data a Katherine e all'unica altra donna a bordo, quella presuntuosa di Evan, la ragazza di David... come se le ragazze cospirassero contro gli impianti idraulici della barca. Katherine era stata nominata «cuoco di turno e lavatrice di bottiglie», cosa che risultò essere uno scherzo di cattivo gusto: come si poteva cucinare qualcosa di appetibile su una barca perennemente inclinata con un'angolazione che ti permetteva a malapena di stare in piedi? Tutto ciò che aveva potuto fare era stato di tenere caffè e brodo caldi a disposizione giorno e notte e, in un contenitore sigillato, l'occorrente per farsi dei sandwich se qualcuno ne aveva voglia.
Non avrebbe fatto tanto caso agli aspetti sgradevoli se fossero stati adeguatamente compensati da qualche aspetto gratificante. Però aveva potuto constatare che le regate - quanto meno, con il bel tempo - si riducevano in tutto e per tutto a chiacchierare all'infinito, a stare con le mani in mano, tranne un'ora al giorno di attività frenetica, alla quale poteva contribuire solo tenendosi fuori dei piedi. Katherine aveva concluso che tutto ciò doveva avere a che fare con una forma atavica di schiavitù e, se da un lato era contenta di aver visto di persona una regata, d'ora in poi sarebbe stata ancora più contenta di sentirne solo parlare e di sorridere educatamente quando i suoi fratelli avessero raccontato le loro epiche gesta su mari in burrasca. Adesso le sue braccia e le sue spalle gridavano; non aveva scelta, doveva cedere il timone a Tim. All'improvviso, per sua fortuna, fu l'ora del cambio. Suo padre e lo zio Lou scesero nel pozzetto a rilevare lei e Tim, mentre i due figli di Lou andavano a prora a sostituire David e Peter. «Bel lavoro, cara», disse suo padre prendendo posto alla ruota. «Sulla rotta giusta.» «Hai un'idea di come stiamo andando?» chiese Tim. «Difficile dirlo. Credo che possiamo aspirare a un secondo o terzo posto nella nostra classe. Vedo una quantità di barche sul radar, ma non posso capire di che classe sono.» Katherine sganciò il moschettone di sicurezza dall'anello e andò sottocoperta. Si tolse il giubbotto di salvataggio e lo gettò sulla cuccetta. Tim le passò accanto stringendosi contro la paratia, andò alla cabina di prua e si gettò in una delle cuccette. Non si tolse nemmeno le scarpe. Non c'era da stupirsi se la cabina puzzava come una palestra affollata. Katherine decise di bere una tazza di brodo e leggere per un po' fino ad addormentarsi. Non c'era altro da fare. Udì suo padre che gridava: «Siamo pronti?» Il calpestio martellò la coperta di fibra di vetro sopra la sua testa. Lei afferrò la ringhiera della cuccetta superiore, dove Evan dormiva russando come una sega a motore, e si tenne salda. «Mure a dritta!» ordinò suo padre. La barca si raddrizzò e restò in assetto per un secondo; appena il boma ebbe ruotato e le vele ebbero preso il vento con un vuump!, inclinò a sinistra. Dal lavello venne un acciottolio di stoviglie, mentre le tazze sporche sbattevano l'una nell'altra. Avrebbe dovuto lavare le tazze, era compito suo. Ma era anche lavoro di
Evan, che se n'era bellamente fregata e si era messa a dormire. Al diavolo, le avrebbe lavate più tardi. Risciacquò solo una tazza, la riempì di brodo e lo bevve. Ritornando alla cuccetta si fermò a guardare lo schermo radar. Era luminoso come un videogame. Una linea gialla ruotava in senso orario, illuminando segnetti dorati che rappresentavano le imbarcazioni. Sull'alto dello schermo si vedeva una macchia frastagliata. Salve, Bermuda, pensò. Conserva un po' di sole per me. E magari, mentre ci sei, anche un bel bagnino che detesti le barche a vela. Era contenta di aver guardato lo schermo radar, la faceva sentire meno sola. Si coricò nella cuccetta e prese La mummia di Anne Rice. Era il libro che la madre aveva scelto per lei, perfetto per un viaggio del genere: romantico, terrificante, lungo quanto bastava per parecchi giorni e parecchie notti, facile da posare e riprendere senza perdere il filo del racconto. Ritrovò il punto dov'era rimasta. Ramsete aveva riportato in vita Cleopatra, e Cleopatra si faceva sbattere da tutti gli uomini che incontrava e poi li uccideva, e... Doveva andare al gabinetto. Sospirando si alzò e si diresse a poppa, oltre il tavolo di carteggio; aprì la porta del WC. Fu investita dal fetore, peggio che ai gabinetti pubblici della Penn Station. Non aveva bisogno di guardare, ma lo fece e, sicuro come la morte, era intasato. Posò il piede sul pedale dello sciacquone e premette una volta, ma un suono - un gorgoglio soffocato - le consigliò di desistere. Andò all'altro servizio, a prora. Sulla porta era attaccato con lo scotch un foglio con la scritta a pennarello NON FUNZIONA. Che bellezza. Tornò alla cuccetta, aprì il cassetto sottostante e prese il suo wc di emergenza: un vaso da un litro di maionese, ovviamente vuoto. Andò di nuovo al gabinetto di poppa e cercò di non respirare mentre faceva pipì, pensando solo: fa' che domani arrivi presto, che io adesso mi addormenti e non mi risvegli finché non saremo all'ormeggio. Quando ebbe finito, avvitò il coperchio e fece per andare di sopra attraverso il portello. «Giubbotto di salvataggio», disse suo padre. «Voglio soltanto...» Fece vedere il vaso. «Tutti e due intasati?» «Già. Di nuovo.»
«Oh Dio! Pazienza, li ripareremo quando saremo in porto.» «Le donne...» disse lo zio Lou ridendo sotto i baffi. «Zio Lou...» disse Katherine. «Non ero molto forte in biologia, ma mi risulta che anche gli uomini vadano al gabinetto... qualche volta.» «Toccato», ammise lo zio Lou sorridendo. «Dammi», disse il babbo allungando la mano per prendere il barattolo. «Ci penso io», rispose lei. «Muffin...» «Lo faccio io.» «Allora mettiti il giubbotto.» «Papà... Oh, d'accordo.» Ridiscese, andò alla cuccetta e prese il giubbotto. Provava rabbia, imbarazzo e irritazione. Nessun altro indossava il giubbotto di salvataggio, però tutti correvano avanti e indietro e su e giù come scimmie. Doveva salire tre gradini per vuotare il vasetto fuori bordo, e suo padre la faceva vestire come un astronauta. Indossò il giubbotto e pensò: chi è lo stupido, ora? Perché non hai lasciato che lo vuotasse lui? Perché? Per quale motivo? Perché è una cosa... intima? Sciocca. Ti cambiava i pannolini quando eri piccola. Pazienza, adesso è troppo tardi. Passò attraverso il portello, girò di lato intorno alla ruota del timone e uscì dal pozzetto in coperta verso il lato sottovento. Il sole era basso nel cielo occidentale, tanto basso che le onde dell'oceano impedivano di vederlo. Nel punto in cui si trovava Karen, oscurato ulteriormente dall'ombra della grande vela, faceva buio quasi come se fosse sera. «Agganciati», disse suo padre. «Sì, signore.» Attaccò il moschettone della sagola alla battagliola. «So che non mi crederai, ma se ti ricordo certe cose non lo faccio per divertimento.» «No, signore.» Sapeva che quella risposta tradiva l'irritazione, ma non seppe trattenersi. Svitò il coperchio e, con le ginocchia puntate contro un montante, si sporse per vuotare il barattolo. Il recipiente era grande per la sua mano e, mentre lei lo capovolgeva, le sfuggì. D'istinto lei allungò l'altra mano facendo cadere il coperchio, poi si protese per ricuperare anche quello. Di colpo ci fu una brevissima accelerazione, un groppo di vento, che spinse più forte la barca. Improvvisamente le gambe di Katherine non trovarono più appoggio e, poiché la maggior parte del peso del corpo era fuori bordo, perse l'equilibrio e cadde in acqua con un salto mortale.
In quella frazione di secondo seppe che la sagola di ritegno l'avrebbe bloccata e riportata contro la barca, perciò irrigidì il corpo e alzò le mani alla testa. Ci fu uno strattone quando la sagola si tese. Katherine si accorse di gridare, ma sentì anche un altro suono, il rumore inquietante di qualcosa che si lacerava. Poi, quando si aspettava di sbattere contro il fianco della barca, trovò soltanto acqua. Era sommersa, capovolta, poi il giubbotto di salvataggio la raddrizzò e la riportò a ballonzolare in superficie. Non ci vedeva, aveva i capelli sugli occhi. Li scostò con una mano, ma non vide altro che il mare, una distesa ondulata di acqua blu scuro. Non era possibile! Che cos'era successo? Guardò il giubbotto e vide un buco irregolare dove la sagola di ritegno si era staccata strappando il tessuto. Udì gridare suo padre, e anche qualcun altro, parole confuse. Si aiutò con le mani a voltarsi e vide, profilata contro il sole al tramonto, la testa dell'albero che si allontanava da lei, la vela che sbatteva, e udì le voci che diventavano sempre più fioche. Un'ondata la sollevò, e lei poté vedere tutto l'albero e anche il tetto della tuga. Gridò, ma sentì, anzi seppe, che il vento stava portando via le sue parole e le scagliava a est, nella notte. L'ondata passò oltre, e lei scivolò nell'avvallamento; ora non vedeva più nulla della barca, nemmeno la testa dell'albero. Sentì nell'acqua qualcosa che l'avvolgeva, una pulsazione molto debole ma inconfondibile. Il motore. Avevano avviato il motore. Bene. Adesso avrebbero potuto manovrare, presto l'avrebbero trovata. Presto. Prima che scendesse la notte. Venne un'altra ondata, e dalla cresta lei poté rivedere l'albero, molto più lontano. A bordo avevano acceso tutte le luci: i fanali in testa d'albero, il fanale di posizione e quello di fonda, in modo che lei potesse vedere la barca. Gridò ancora e agitò le braccia, ma non potevano udirla. Per forza non potevano, con il motore che girava. Perché continuavano ad allontanarsi? Perché non invertivano la rotta? Poi la barca virò verso di lei descrivendo un lento semicerchio. Bene, l'avrebbero trovata. Di nuovo finì nel cavo dell'onda, dove non poteva vedere altro che acqua.
Se lei non li vedeva, come potevano vedere lei? Loro sporgevano di quindici metri con la testa d'albero. E lei, di quanto sporgeva? Di mezzo metro? Conserva le energie, si disse. Non gridare, non agitarti finché non sei sulla cresta dell'onda dove loro possono vederti. Un'onda la sollevò, e lei vide la barca, quasi per intero... ma si stava allontanando, andava nella direzione opposta! Gridò. Mentre ritornava in basso, voltò la testa a ovest. Il sole se n'era andato, lasciando solo un riverbero arancione all'orizzonte e nuvole bordate di rosa nel cielo che si scuriva. In alto vide le stelle. Presto sarebbe stato buio. Dovevano trovarla... dovevano... se no... Non voleva nemmeno pensarci. Dio, che freddo! Come poteva diventare tanto fredda così velocemente? Era in acqua da pochi minuti, ma le sue braccia e le sue gambe tremavano, la gola e la mandibola sussultavano con tanta violenza che aveva difficoltà a respirare. Fluttuava nel freddo strato intermedio d'acqua oceanica, non minacciata, indisturbata, alla deriva. Aveva mangiato di recente, si era riempita, pertanto non sentiva lo stimolo della caccia. Esisteva, semplicemente. Poi, da qualche punto lontano, sentì il battito di una pulsazione, deboli onde che si propagavano nell'acqua e bussavano al suo corpo. Curiosa più che preoccupata, mosse le pinne laminari e salì lentamente. Se avesse incontrato acqua calda si sarebbe fermata, perché l'unico imperativo era di sentirsi a suo agio. Ma lo strato freddo continuava, e la creatura si trasferì verso l'alto. Ora percepiva la luce, e la pulsazione era più vicina, ma c'era anche altro che disturbava l'acqua in superficie. Qualcosa di vivo. Un'onda portò in alto Katherine. Quando fu sulla cresta, la ragazza vide la barca, tutta la barca... vicina! Scorse una forma nera contro il cielo al crepuscolo, con le luci rosse e verdi che oscillavano in testa d'albero. Gridò e mosse le braccia, poi cadde di nuovo nel cavo dell'onda. Non l'avevano vista, non l'avevano sentita. Perché? Erano così vicini! Lei li aveva uditi, aveva udito il motore e forse una voce.
Era sottovento, ecco perché. Il suono viaggiava da loro a lei, ma non viceversa. Buio. Era buio, quasi notte, e faceva freddo. Anche profondo. Quanto profondo? All'infinito. Infine fu colta dal terrore, un terrore viscerale che le scorreva nelle vene e le lacerava tutte le terminazioni nervose. Suo padre aveva parlato di mostri, e lei ora sapeva che erano tutti in movimento per prendere lei. Nella sua mente balenarono immagini da incubo, immagini che non aveva più avuto da un'eternità, dall'età di sei o sette anni: tutte le bestie che avevano abitato sotto il suo letto, nell'armadio e tra gli alberi dalle foglie crepitanti oltre la sua finestra. Ogni volta sua madre era venuta nella stanza e l'aveva consolata, le aveva detto che tutto andava bene, che i mostri erano solo immaginari. Ma questa volta nessuno veniva a rassicurarla. L'immaginazione era diventata realtà. Si sentiva sola: una solitudine di cui non aveva mai conosciuto l'esistenza, come se lei fosse stata l'unico abitante del pianeta. I pensieri si affollavano nella sua mente: perché aveva insistito per partecipare a quel viaggio? Perché non aveva permesso a suo padre di vuotare il barattolo? Perché, perché, perché? Tentò di pregare, ma i suoi pensieri non seppero andare più in là di: «Adesso mi corico e dormo». Stava per morire. No! Gridò ancora, non di proposito, non per farsi sentire; era il grido di una persona che si ribella alla morte. Fu portata sulla cresta di un'onda e vide la barca ancora più vicina, ma qualcosa era cambiato. Non si muoveva più, si era fermata. Non udiva il suono pulsante del motore. Mentre scivolava nell'avvallamento, udì una voce: suo padre che parlava con il megafono. «Katherine, mi senti? Noi non ti sentiamo, ma abbiamo spento il motore, spento tutto in modo da poterti udire. Se tu mi senti, attendi che io smetta di parlare e poi grida, amore, urla con tutto il fiato che hai in corpo, chiaro?... Grida, ora!» Pensò: mi ha chiamata Katherine. Gridò.
Era trenta metri sotto la superficie. Indugiava lasciando che i suoi sensi raccogliessero informazioni. La pulsazione dall'alto era cessata, ma c'era disturbo in superficie, qualcosa di piccolo che si muoveva. La cosa viva. Salì lentamente. «Ti sento, Katherine! Ancora! Ancora!» Lei urlò di nuovo; aveva una voce stridula, non forte, ma raccolse tutte le proprie energie e si sforzò di gridare, gridare... Di nuovo fu in balia di un'onda che la sollevò; poté vedere un riflettore che la cercava. Pregò di non finire in basso prima di essere trovata dal raggio di luce, ma sentì che scendeva. Agitò le braccia. Non l'avrebbero vista! All'ultimo istante il raggio illuminò le sue mani - Katherine vide la luce sulle proprie dita contratte - e smise di ruotare. Sentì la voce che attraverso il megafono gridava: «Ti abbiamo individuata!» La pulsazione c'era di nuovo... più vicina, più distinta. Eccitata, la bestia salì, cambiando colore. Era eccitata non dalla fame, non dal senso di una battaglia imminente, di un pericolo, ma dal desiderio di uccidere. Cominciò a sentire il moto ondoso perché era vicina alla superficie. Quando Katherine fu sul picco di un'onda, la luce la colse in pieno viso e l'accecò. Però la barca era lì: poteva sentire il battito del motore, fiutare il gas di scarico. Uno sciacquio accanto a lei, qualcosa di grosso, poi sentì un braccio intorno alla vita e una voce che diceva: «Ti tengo... va bene... va tutto bene». Era Timmy. Gli gettò le braccia al collo, poi si sentì tirare e le sue mani toccarono il fianco duro della barca. Era là, la cosa viva, esattamente sopra di lei, e si dibatteva. Una preda. Non solo una preda. Cibo. La creatura risucchiò una massa d'acqua nelle cavità del proprio corpo, la espulse dall'imbuto sotto il ventre e guizzò verso l'alto. Le mani afferrarono Katherine e la tirarono su con tanta energia che si
sentì quasi staccare le braccia dalle articolazioni. Ma poi fu tra le braccia di suo padre, che la stringeva forte a sé dicendo: «Oh tesoro... oh piccola...» Altre mani issarono a bordo Tim, che cadde sul ponte. Qualcuno disse: «Che odore è questo?» Katherine udì il rumore metallico degli ingranaggi che si innestavano, e sentì muovere la barca. Poi, mentre il padre la portava al pozzetto, ci furono altre voci: «Ehi, guarda!» «Cosa?» «Laggiù.» «Dove?» «Qualcosa in acqua.» «Non vedo niente.» «Là! Proprio là!» «Cosa? Che cos'è?» «Non lo so. Qualcosa.» «Forse è solo la nostra scia.» «No, non credo.» «Non è niente, non pensarci più. Abbiamo salvato Katherine.» La pulsazione si allontanava un'altra volta, la cosa vivente se n'era andata. La creatura dondolò tra le onde e scrutò il mare con i giganteschi occhi bianco-giallastri. Alzò i tentacoli e li fece scorrere sulla superficie, tastando. Non trovò alcunché, e sprofondò di nuovo nell'abisso. Avvolta nelle coperte, Katherine giaceva nella sua cuccetta, e suo padre le faceva bere il brodo caldo, ridendo e piangendo nello stesso tempo. La sua mano tremava tanto che Katherine prese la ciotola e bevve da sola. Evan l'aveva spogliata - non più sussiegosa, anzi molto gentile -, l'aveva lavata con acqua calda e le aveva infilato una delle proprie tute. Timmy, che stava andando alla doccia, si fermò senza dire nulla, si chinò su di lei e la baciò sulla fronte. David, Peter e lo zio Lou, tutti quanti, vennero uno dopo l'altro a dirle qualche parola, e nessuno di loro fece commenti antipatici. Lei si sentiva una specie di celebrità, e la cosa le piaceva. Per una volta aveva una storia da raccontare, mentre tutti gli altri si vantavano e basta.
Una volta tanto la cosa emozionante era accaduta a lei. Aveva le palpebre pesanti. Pensò che le sarebbe piaciuto dormire tutto il tempo fino a Bermuda. 21. Whip Darling, mentre inspirava, si rese conto che l'aria arrivava lenta, con riluttanza, come quando si succhia da una bottiglia di gazosa vuota. La sua bombola era quasi esaurita. Poteva respirare ancora una volta, due al massimo, prima di essere costretto a tornare in superficie. Poco male, era solo a un metro e mezzo di profondità. Se avesse inspirato a vuoto, avrebbe tolto il boccaglio, espirato e sarebbe risalito. Però non aveva voglia di tornare su, cambiare bombola e ridiscendere solo per finire quello stupido, dannato lavoro che avrebbe dovuto occuparlo per una ventina di minuti e invece gli aveva già preso più di un'ora. Sostituire le boe governative era un lavoro facile: poteva farlo chiunque sapesse usare un paio di pinze, e lui stesso l'aveva fatto centinaia di volte. Bastava liberare la boa dalla catena, applicare alla catena un galleggiante provvisorio, issare la boa a bordo, gettare in acqua quella nuova, attaccarla alla catena e ricuperare il galleggiante. Liscio come l'olio. Non questa volta. In primo luogo, Mike non gli aveva dato il maniglione giusto per la catena, poi anche il perno era della misura sbagliata. In seguito Darling aveva lasciato cadere il perno giusto ed era risalito a cercarne un altro, perché Mike era così scosso dal fatto che Darling fosse là sotto da solo che non sarebbe stato in grado di trovare le proprie natiche nemmeno aiutandosi con le due mani. Poi, mentre Darling era a bordo a cercare il perno, Mike aveva fatto cadere la gaffa con cui teneva la boa. Così la boa se n'era andata alla deriva, costringendoli a levare l'ancora e a inseguirla, perché nessun uomo era in grado di saltare in acqua e trascinare una boa d'acciaio del peso di centocinquanta chili che aveva deciso di andare per i fatti suoi. Sarebbe toccato a Mike stare sotto, con Darling a passargli il materiale giusto pezzo dopo pezzo... e ci sarebbe andato se Darling non avesse capito che Mike era così terrorizzato all'idea di essere masticato da qualche grossa creatura mostruosa che poteva dimenticarsi di respirare e morire affogato. Pertanto Darling aveva deciso di eseguire personalmente il lavoro. Trattenne il respiro, inserì il perno nel maniglione e lo fece entrare a martellate. Nell'acqua il martello si muoveva al rallentatore, e la maggior
parte della sua energia si disperdeva prima dell'impatto, per cui Darling dovette assestare una seconda botta. La sua visione era distorta dall'acqua, dalla maschera e dal dondolio della boa, per cui colpì di traverso la coppiglia di vincolo, che si sfilò dal perno e affondò nell'acqua. Darling urlò «Merda!» nel boccaglio e osservò la coppiglia mentre affondava. Fece l'ultima inspirazione dalla bombola succhiando fino all'ultima molecola d'aria, ed estrasse la coppiglia di riserva dalla cintura del costume da bagno. Lo batté con il martello, e la coppiglia entrò nello stesso modo in cui una lama affilata penetra nel pesce fresco. La torse con la pinza, poi si guardò attorno sott'acqua per assicurarsi che non circolassero animali capaci di attaccarla mentre risaliva. Tolse il boccaglio, espirò e con qualche colpo di pinna si portò fuori alla luce del sole. Mike lo aspettava sulla plancia sotto il barcarizzo. «Fatto?» domandò prendendo la bombola e la cintura dei pesi che posò in coperta. Darling annuì e si tirò sulla plancia dove restò faccia sotto a riprendere fiato. «Che cosa stiamo a fare qui, Michael?» disse quando poté parlare. «Dovremmo starcene seduti in un condominio di Vero Beach a bere un 'Pink Lady' e guardare il tramonto, invece di buttarci in mare e quasi restare affogati, il tutto per un compenso da fame.» «Ci paga il carburante.» «A malapena», replicò Darling, ma poi volle dire qualcosa di gentile a Mike perché si sentisse meno colpevole di non essersi immerso lui. «Ma solo per merito tuo.» Mike aveva stabilito che, manipolando un poco il motore, lo si poteva alimentare con una miscela di gasolio e kerosene, riducendo di un terzo i costi del carburante. Ciò voleva dire che potevano cavare un profitto di qualche dollaro da lavori pidocchiosi come quello. Da anni Darling non aveva avuto bisogno di lavorare alle boe governative, e si era illuso di non doverlo fare mai più. Ma quando aveva sentito che il governo voleva cambiare una delle boe del canale principale e metteva all'asta il lavoro, aveva partecipato alla licitazione e, con sua grande sorpresa, per non dire imbarazzo, aveva scoperto di aver fatto la proposta migliore. Ora stavano eseguendo il lavoro per 500 dollari e, poiché usavano carburante meno caro, potevano realmente guadagnare 250 dollari al giorno. Non proprio di che arricchirsi, ma sempre meglio che stare seduti in cortile a contare i peli del gatto del vicino.
Non c'erano altri lavori a disposizione: quanto meno, nessuno che Darling sarebbe stato disposto a fare. La mensilità dell'acquario era sfumata, la pausa della regata era finita senza che nessuno rimediasse un noleggio da parte di subacquei. Quando i partecipanti alla regata avevano toccato terra e letto l'articolo di Newsweek con la foto della piovra gigante ospitata nel Museo di storia naturale di New York, avevano concluso che non era il caso di fare immersioni... nemmeno presso le scogliere basse dove il rischio più grave era quello di graffiarsi un ginocchio sui coralli. Erano passate due settimane dall'ultima volta che qualcuno aveva visto un segno della presenza del calamaro gigante, ma nessuno si era ancora arrischiato ad andare in acqua. Era piuttosto logico. Però, secondo Darling, molte altre cose non lo erano affatto. Ben presto avrebbe sentito parlare di gente che rifiutava di fare la doccia per timore che un calamaro gigante uscisse da uno dei forellini o salisse dallo scarico e la divorasse. Per contro, altre persone stavano trovando lavoro. Il proprietario di una barca con fondo di vetro aveva pitturato un nome nuovo, CACCIATORE DI PIOVRE, sullo specchio di poppa e portava i turisti ai limiti delle scogliere facendoli guardare in acque profonde trenta metri, mentre il capitano, vestito come Indiana Jones, li spaventava a morte recitando idiozie attraverso il sistema d'amplificazione di bordo, imitando alla meno peggio la voce di Vincent Price. Era una sciocchezza, ma Darling non ce l'aveva con quel tale: anche lui doveva guadagnarsi in qualche modo la pagnotta. Alcune delle barche che usavano portare in giro i sub avrebbero potuto benissimo restare in bacino di carenaggio. I visitatori avevano paura di avvicinarsi all'acqua, e non erano disposti a pagare trenta dollari per andare fuori e sentirsi raccontare le cose invece di vederle. Un intraprendente proprietario di un negozio di articoli regalo stava già vendendo una linea di bigiotteria sul tema del calamaro gigante, roba di nessun valore fatta con conchiglie e filo d'argento. Si diceva pure che un pescatore avesse fatto fortuna catturando piccoli calamari che, congelati e immersi in un blocco di plexiglas, diventavano «autentiche miniature dei mostri del Triangolo delle Bermude». Erano venuti rappresentanti di gruppi ambientalisti di Paesi lontani; passavano di porta in porta a raccogliere fondi per la campagna «Salviamo la piovra». Darling, invitato a fare da portavoce locale per quella campagna, aveva rifiutato affermando che l'Architeuthis se la stava cavando benissi-
mo da solo, senza bisogno del suo aiuto o di quello di chiunque altro. I salvatori della piovra erano a Bermuda da quarantott'ore quando si trovarono impegnati in una zuffa con il partito opposto, i ricchi pescatori sportivi che stavano inviando da tutti i punti cardinali i loro Rybovic, Hatteras e Merritt a pescare i mostri. Due di loro, troppo impazienti per aspettare le proprie barche, avevano tentato di noleggiare quella di Darling, ma lui aveva declinato la loro proposta così come aveva rifiutato quella di Manning e del dottor... come si chiamava? Ah, sì, Talley. Ma, come voleva il detto, Talley e Manning erano tipi da trattare con le pinze, preferibilmente pinze dal manico lungo. Charlotte aveva detto che appartenevano entrambi, ciascuno a suo modo, alla categoria più pericolosa di persone con cui associarsi: quella di chi non ha niente da perdere. Darling non si era mai preso il tempo e la pena di stabilire per chi o per che cosa valeva la pena di rischiare la vita, a parte Charlotte e Dana, ma sapeva con certezza che non l'avrebbe fatto per creature che mangiavano esseri umani a colazione e barche a cena. Inoltre, la sua situazione non era proprio disperata. Un ristorante in città aveva bisogno di far riparare il proprio pontile; se lui si fosse assicurato l'incarico, sarebbe stato un lavoro da mille dollari al giorno. Aveva sentito che la società dei telefoni voleva forse posare un cavo... un compito ingrato, pompare fango per scavare una trincea in cui posare il cavo, ma comunque un lavoro onesto che non distruggeva nulla e che gli avrebbe dato di che pagare qualche fattura. Era questo che voleva: lavoro. Non sapeva come facesse Charlotte a fargli trovare i pasti in tavola, le luci accese e l'assicurazione pagata, però in qualche modo ci riusciva. Darling fece la doccia per togliersi il sale di dosso e s'infilò un paio di short, mentre Mike stivava il materiale e friggeva uno sgombro tirato fuori dalla cassetta frigorifera. Avevano previsto di usare lo sgombro come esca, ma poiché non c'era niente da pescare, tanto valeva che se lo mangiassero loro. Dopo pranzo navigarono a sud-est lungo il margine esterno della scogliera, costeggiandolo in direzione di casa. Darling aveva intenzione di fermarsi al molo cittadino e presentare le proprie fatture alla Marine & Ports. In quell'amministrazione lavorava un suo amico che aveva promesso di pagarlo in contanti. «Guarda là», disse Mike dal flying bridge indicando qualcosa in acqua. La barca stava passando in mezzo a due pesci azzurri che galleggiavano a
pancia in su. Un attimo dopo ne videro altri due, poi un pagro, un pesce angelo e quattro o cinque pesci sergente. Tutti morti, tutti gonfi. «Che Cristo sta succedendo?» disse Darling. Poi udirono un rumore in lontananza, un vuump profondo e risonante, e sentirono sotto i piedi un colpo sordo attraverso l'acciaio, come se qualcuno stesse martellando la carena con un maglio. Sulla destra, a mezzo miglio di distanza, sulle acque profonde, videro una barca e, davanti a essa, un torrente di schiuma che scendeva su quella che sembrava una gobba sulla superficie dell'oceano. Sotto i loro occhi la gobba si appiattì, e la schiuma divenne una macchia bianca in superficie. Mike prese il binocolo e mise a fuoco l'imbarcazione: «È la barca dell'acquario», comunicò. «Cristo onnipotente», disse Darling. «Liam si è fatto rilasciare il permesso di bombardare la bestia.» Herbert Talley leccò il sale depositato sui suoi occhiali da sole e li asciugò con un lembo della camicia. Trovò il pesciolino grigio che era stato scagliato fuori dall'acqua e lo aveva colpito alla nuca, e lo gettò in mare dove gli altri - uccisi a decine, a centinaia dall'esplosione - dondolavano sulla superficie con i ventri bianchi rivolti al sole. «Questa era vicina», disse, trattenendosi dal proferire certe altre parole che aveva sulla punta della lingua, come «pazzo» e «idiota». «Non proprio, dottore», intervenne St. John, i cui riccioli inzuppati d'acqua e scomposti dallo spostamento d'aria pendevano come liane della giungla. «Ho fatto uno studio sugli esplosivi. Eravamo al sicuro.» Poi guardò fuori bordo riparandosi gli occhi per vedere sotto lo strato di pesci morti. Si raddrizzò, fece un passo avanti e gridò agli uomini a prora: «Armatene un'altra! Regolatela per centottanta metri!» Il timoniere, studente di un corso di specializzazione post-universitaria, un ragazzo tutto muscoli che sembrava il divo di un film di surf e sesso, sporse la testa dalla timoniera e disse: «Dove dobbiamo andare per trovare centottanta metri?» «Usa l'ecoscandaglio, per amor di Dio! Lo sai usare, sì o no?... O devo fare tutto io?» «Lo abbiamo appena scassato con l'esplosione.» «Allora va' da quella parte!» disse St. John agitando il braccio nella di-
rezione generica delle acque più scure. Poi si rivolse a Talley e gli domandò: «Lei mi conferma che l'animale, quando lo avremo ucciso, starà a galla?» «Se», rettificò Talley. «Se lei ucciderà l'animale. Sì.» Mi conferma? Era stato lui a dirlo a St. John, che non possedeva nemmeno le nozioni più elementari sulla biologia dell'Architeuthis. «Anche quando lo avremo fatto a pezzi?» «Sì.» Talley non sentiva il bisogno di motivare la propria affermazione, perché secondo lui le probabilità che St. John uccidesse l'Architeuthis erano pari a quelle di un bambino che cerca di colpire un passero con la fionda. «Verrà in superficie anche da centottanta metri?» «Da qualunque profondità. Come le ho detto, l'ammoniaca contenuta nei suoi tessuti è più leggera dell'acqua di mare. Galleggerà come fa l'olio, come fa...» «Lo so, lo so», disse St. John dirigendosi a prua. Talley trangugiò la bile e si concentrò sul modo di sottrarsi a quel piccolo bullo che lo trattava come un apprendista. Non avrebbe mai dovuto accettare l'invito di St. John ad andare con lui. Però, quando gli aveva telefonato, St. John era stato gentile, accomodante, perfino ansioso di fare assistere Talley al proprio tentativo di uccidere il calamaro gigante. Aveva dato il benvenuto a Talley a bordo del battello dell'acquario, una barca di dieci metri. Lo aveva presentato al suo equipaggio di quattro elementi, incluso il giovane addetto agli esplosivi che sembrava colpito dalla nausea, forse per nervosismo o perché soffriva in anticipo di mal di mare. Aveva poi tenuto a Talley una conferenza sul tema di cui il canadese aveva fatto lo scopo della propria esistenza. Un discorso misto di nozioni raccolte, immaginava Talley, dai fumetti, dai film dell'orrore e dai giornalini venduti nei supermercati. Talley aveva contraddetto una delle affermazioni fasulle di St. John, ma non in modo scortese né in tono accademico. Aveva solo affermato che non esistevano prove definitive per l'asserzione di St. John secondo cui esistevano solo tre specie di Architeuthis, perché alcuni scienziati ritenevano che ce ne fossero ben diciannove specie con sottili differenze tra l'una e l'altra. La risposta di St. John era stata un secco: «Assurdo!» Quindi aveva cambiato argomento, dal che Talley aveva concluso che il suo interlocutore non era disposto a imparare nulla e si aspettava da lui solo plauso e approvazione per tutto ciò che faceva.
Il fatto sorprendente era che St. John ignorava quanto era ignorante, e credeva veramente nelle idiozie che spifferava. Sembrava che il suo cervello avesse collezionato dati da tutte le fonti - attendibili, marginali e fantasiose - scegliendo poi quelli che gli piacevano, eliminando gli altri, e fabbricando una sua personale verità da accettare come Vangelo. St. John si era tenuto a distanza da Talley per la maggior parte del viaggio, gli aveva raccomandato di piazzarsi a poppa «dove sarebbe stato al sicuro», mentre lui catechizzava l'equipaggio sui calamari giganti e sugli esplosivi subacquei. Una volta sola si era degnato di rivolgersi nuovamente a Talley, ma non in forma di domanda, bensì come una riflessione speculativa sulla galleggiabilità di certi tipi di tessuti. Era stato quando uno dei ragazzi aveva sollevato il problema di come si sarebbero potuti accertare della morte del mostro considerando che, se non aveva vescica natatoria, forse sarebbe andato a fondo... St. John era apparso colpito quando Talley aveva spiegato di propria iniziativa che i tessuti dell'Architeuthis erano dotati di galleggiabilità intrinseca, informazione che poi aveva elargito a tutti come se fosse scaturita per intero dalla cornucopia della sua mente. A Talley non importava affatto di fornire informazioni a St. John. A quel punto la cosa cui teneva di più era scendere da quella barca prima che St. John commettesse qualche bestialità ammazzando tutti quelli che si trovavano a bordo. Peccato che lui e Manning non fossero riusciti a noleggiare un battello per conto loro. Avevano tentato, ma non avevano trovato alcun natante di dimensioni adeguate, se non un vecchio traghetto che aveva bisogno di una completa revisione. C'erano alcune imbarcazioni governative di taglia media ma, quando si erano informati sulla possibilità di averne una, si erano imbattuti in una confusione burocratica predisposta - Talley ne era persuaso - da St. John, che voleva il mostro tutto per sé. Manning aveva fatto un altro tentativo di far venire una barca dagli Stati Uniti, ma la durata del viaggio di trasferimento, i permessi, le ispezioni e le imposte rischiavano di non fargliela avere che fra parecchi mesi. Nel frattempo Talley si rendeva conto che la sua opportunità, forse l'unica che avrebbe mai avuto, di vedere, studiare e filmare l'animale che lo ossessionava da oltre trent'anni si allontanava ogni giorno di più. I cambi stagionali delle correnti, della temperatura dell'acqua, del flusso della Corrente del Golfo avrebbero potuto indurre l'Architeuthis a spostarsi. Pertanto la loro unica speranza era Whip Darling. Da quanto avevano
sentito su di lui e appreso dalla conversazione al bar di Shilly, sapevano che era l'uomo perfetto per quel lavoro: esperto, ingegnoso, sensato, duro e deciso. Anche il suo motopeschereccio era perfetto per quel compito. Talley e Manning avevano affittato una barchetta e una sera, dopo aver visto Darling e sua moglie andar via di casa in taxi, avevano remato attraverso la Mangrove Bay. Nell'ombra lunga del crepuscolo erano saliti a bordo, avevano studiato la poppa larga, che avrebbe potuto comodamente ospitare grandi bobine di cavo, ispezionato il motore e gli scaffali delle parti di ricambio, osservato persino l'inclinazione della prua e il disegno della carena, che rassicurava sulla solidità e sulla stabilità della barca. Avevano discusso la possibilità di comperarla da Darling, ma dopo alcune conversazioni artificiosamente casuali con il personale di Cambridge Beaches e con gli operai del cantiere navale, Talley aveva appreso che l'uomo e la barca erano inseparabili. Comperare la barca voleva dire comperare l'uomo, e questi aveva detto a chiare lettere di non essere in vendita. Dovevano ancora scoprire in Darling una debolezza da sfruttare, ma Osborn Manning non si arrendeva. Insisteva a dire che, con un po' di tempo, era capace di trovare pecche segrete anche in un santo. Aveva ancora alcuni conoscenti con cui parlare, e qualche favore da chiedere. Talley, da parte sua, non sapeva più chi interrogare né quali tentativi esperire. Doveva ancora vedere una persona quella sera, ma prevedeva che l'incontro si sarebbe risolto in una richiesta di denaro in cambio della promessa di qualche pettegolezzo gustoso su Darling. Ce n'era già stato qualcuno, ma Talley aveva rifiutato di aprire il portafoglio finché non avesse avuto le informazioni, e in ognuno di quei casi erano state chiacchiere che non valevano un soldo bucato. Però la sera prima aveva ricevuto una telefonata da un tale che aveva detto di chiamarsi Carl Frith e di essere un pescatore. Aveva saputo che Talley stava facendo una specie d'inchiesta su Whip Darling, e riteneva di potergli essere utile. L'unico motivo per cui Talley aveva rifiutato di vederlo subito era il fatto che Frith aveva affermato di non volere soldi. Voleva giustizia... qualunque cosa ciò potesse significare. «Piazzata!» gridò una voce da prua. St. John si rivolse al timoniere. «Siamo in posizione?» «Sì, signore.» «Quanto siamo lontani dalla carica?» «Circa cento metri.» «Vai più vicino. Voglio essere sicuro che riceva il segnale.»
«Ma...» «Più vicino, maledizione! Vuoi che funzioni, sì o no?» «Sì, signore.» Come il timoniere ebbe inserito la marcia e dato gas, Talley si spinse il più indietro possibile a poppa. Batté la mano sulla fibra di vetro per capire se aveva galleggiabilità intrinseca. Poi St. John gridò: «Fuoco!» e il timoniere si voltò ad azionare il detonatore. Per un attimo non accadde nulla, ci fu solo il silenzio, poi venne un rombo accompagnato dalla sensazione che una mano gigantesca avesse afferrato la barca e stesse tentando di alzarla nel cielo. Infine l'acqua eruttò intorno a loro. La barca ricadde e la schiuma si dissolse. St. John venne a poppa e si sporse dal parapetto. Sull'acqua galleggiavano dei piccoli pesci rosa, rossi, bianchi e marrone. «Più profondo», disse. «Dev'essere ancora più in profondità. Dovremo provare più in basso.» Il timoniere uscì dalla cabina e disse: «Dottore, imbarchiamo acqua». «Dove?» «Si è incrinato il vetro dell'oblò di osservazione, nel gavone di prua.» «Perché sei andato così vicino?» «Cosa? Me l'ha detto lei...» «Tu sei responsabile della sicurezza di questo battello. Se pensavi che fosse pericoloso andare così vicino, avevi il dovere di rifiutare l'ordine.» Il timoniere si limitò a guardarlo. «Idiota!» lo investì St. John. «Quanto è pericolosa l'infiltrazione?» «Forse dovremmo tornare in porto, per prudenza.» «Sciocchezze. Riparate la falla con resina epossidica.» Talley pensò: fantastico, stiamo per colare a picco, e forse mi toccherà annegare in mezzo al nulla. Si guardò attorno nella timoniera cercando qualche oggetto capace di galleggiare. Vide il coperchio in legno di un boccaporto e lo sganciò in modo che fosse libero e disponibile se la poppa fosse stata sommersa. Guardò verso la riva calcolando la distanza... Tre miglia? Quattro? Non era in grado di capirlo, ma sembrava molto, molto lontana. Poi si voltò e vide una barca non troppo distante. Non faceva nulla, stava semplicemente là, con la prua puntata verso di loro. Era un grosso motopeschereccio. Ringrazia il cielo, si disse. Almeno c'è qualcuno che potrà salvarti.
Udì il motore di quell'imbarcazione mettersi in moto, poi vide la barca che affrontava una virata e si dirigeva verso riva. St. John uscì tutto sudato dalla cabina, con il volto paonazzo per lo sforzo o per la rabbia. «C'è una barca laggiù», disse Talley. «Forse dovremmo...» «La vedo», ribatté St. John e gridò: «Ehi!» Il timoniere sporse la testa dalla porta. «Sì, signore?» «Vedi quella barca laggiù? Chiamala per radio e ordinale di seguirci mentre rientriamo.» «Glielo ordino, signore?» «Sì, Rumsey... glielo ordini. Comunica chi siamo e ordina che ci seguano, per il caso che abbiamo bisogno di aiuto. Lo faranno, ci puoi contare.» «Sì, signore.» Mentre il timoniere rientrava nella cabina, St. John gli domandò: «L'hai riconosciuta?» «Sì, signore.» «Chi è?» «Privateer... È Whip Darling.» «Oh», disse St. John, ed ebbe un attimo di esitazione prima di aggiungere: «Lascia perdere». «Signore?» «Lascia perdere. Non chiamarla. Pensa solo a portarci a casa.» Il timoniere aggrottò la fronte, poi alzò le spalle e tornò in cabina. «Guarda come sta viaggiando», disse Mike. «Bassa sull'acqua», confermò Darling. «Si è bucata.» «Dobbiamo seguirla?» «Se vogliono aiuto, ce lo chiedano», rispose Darling. «Mi piacerebbe, ma non credo che Liam lo farà.» Girò completamente la ruota del timone, spinse la manetta dell'acceleratore alla tacca di massima potenza e si diresse verso la boa che segnalava il Western Blue Cut. Si tenne nell'acqua profonda, e per qualche minuto la prua arò i corpi di pesci morti. Mike disse: «Ha ridotto tutto in briciole». «Peccato che la stupidità non sia un reato», commentò Darling. «Se lo fosse, potremmo farlo condannare all'ergastolo.» «Cosa avrà usato?» Darling si strinse nelle spalle. «Non credo che lui lo sappia, gli basta che faccia bum. Gelatina esplosiva... C-4... forse la buona vecchia dinamite.».
«Non è roba che puoi comperare dal droghiere.» «Sì, invece. Guarda tutta la polvere da sparo che abbiamo noi. Basta dire che devi sbancare per fare delle fondamenta o costruire un pontile. L'impiegato che rilascia i permessi non tiene mai conto del fattore stronzaggme.» «Eppure c'è da chiedersi... Ehi!» Mike stava guardando a nord e additava qualcosa di luccicante che dondolava tra due onde lunghe. Darling girò la ruota e la barca oscillò sotto l'impatto dell'onda verso poppa. «Mi venga un accidente», disse Darling. «Ancora di quelle uova... se sono uova.» Era un'altra di quelle ciambelle gelatinose, un ovale che misurava circa due metri per sessanta o novanta centimetri, oblunga, con un buco nel mezzo. Darling mise il motore in folle, si appoggiò al parapetto e guardò in basso. «Direi che si tratta di vomito di balena», disse. «Sai, l'ambra grigia, quella roba che le balene lasciano in giro.» «Non è abbastanza scura», obiettò Mike. «E non puzza.» «Infatti... Devono essere uova, ma mi venga un accidente se so di quale bestia.» Darling rifletté. «Dovremmo prenderne un po' da mostrare al dottor Talley.» «Vuoi che vada giù?» «Perché no?» Mike discese la scaletta, trovò il guadino a manico lungo e andò a poppa, dove il bastingaggio era basso e lui poteva raggiungere l'acqua senza difficoltà. Darling fece girare la barca in un cerchio stretto e manovrò in modo che la massa gelatinosa scivolasse verso la fiancata. Mike si sporse e la prese nella rete. Come l'ebbe toccata, la gelatina si frammentò. «Accidenti», disse. «Si è disfatta.» «Ne hai preso un po'?» «Provo un'altra volta.» Darling arretrò un poco la barca; Mike strinse il manico del guadino e allungò il braccio. Appena la rete toccò l'acqua, fu afferrata e tirata da qualcosa. Mike batté gli stinchi contro il bastingaggio basso e, poiché la maggior parte del suo
peso era fuori bordo, cominciò a cadere. «Ehi!» gridò cercando presa con la mano libera ma trovando solo aria. «Lasciala andare!» urlò Darling, ma Mike non lo ascoltò. Come se la mano fosse saldata al manico di alluminio, continuò a tenerlo e fu trascinato in acqua. Fece un mezzo salto mortale e cadde in mare di schiena. Soltanto allora lasciò andare la rete. Darling si lasciò scivolare giù per la scaletta del flying bridge e corse a poppa. Il motore era già in folle, e pertanto Mike non rischiava di essere ferito dall'elica. Però Darling temeva che, preso dal panico, bevesse e finisse annegato. Mike era veramente in preda al panico. Dimenticò di saper nuotare. Gridò parole sconnesse e girò le braccia come un mulino a vento... a meno di un metro e mezzo dalla prua della barca. Darling prese una sagola, attaccò una caviglia a un'estremità e tenne in alto l'altra. «Michael!» gridò. Ma Mike non lo sentiva, continuava a dibattersi e a urlare. Darling arrotolò la sagola, mirò alla testa di Mike e lanciò. La sagola colpì in pieno viso Mike, che la ignorò, ma poi le sue mani la trovarono e, per riflesso, la afferrarono. Darling lo tirò fino alla plancetta a poppavia, si chinò, lo agguantò per il colletto e lo tirò su. Mike giacque sulla plancetta piagnucolando e vomitando acqua. Poi tossì, ansimò, si mise in ginocchio e disse: «...a farsi fottere». «Andiamo, Michael», disse Darling sorridendo. «Era solo una grossa, vecchia tartaruga, tutto lì. L'ho vista. Credo che abbia voluto attaccarti per via delle uova.» «Che vada a farsi fottere. Va' a farti fottere. Tutto vada a farsi fottere. Per sempre.» Darling rise. «Stai bene?» «Voglio fare il tassista.» Quando Mike si fu tolto i panni bagnati e si fu avvolto in una coperta, Darling tornò al timone e girò intorno alla rete che galleggiava in superficie. Mise il motore in folle e lasciò che l'inerzia portasse la barca verso la rete. La prese con la gaffa e la tirò a bordo. La tartaruga aveva forato la rete, dove però era rimasta qualche goccia spessa di materia. Darling ne prese una e la guardò nella luce del sole. Conteneva dei corpuscoli piccolissimi, troppo minuti per capire che cosa fossero. Fu tentato di staccarli dalla rete e metterli in un barattolo, ma non valeva la pena, la quantità era infima. Pertanto gettò la materia gelatinosa
in acqua, posò la rete in coperta e risalì sul flying bridge. Pochi minuti dopo, quando la barca si fu immessa nell'ingresso del Western Blue Cut, Mike comparve con due tazze di tè. «Non mi piace», disse porgendo a Darling una delle tazze. «Una caduta in mare può rovinarti una giornata.» «No, voglio dire tutto quanto. Mi fa impazzire.» «Non glielo devi permettere. Una cattiva giornata può capitare a chiunque.» «Non capita a chiunque di diventare scemo. La maledetta creatura mi ha spaventato. Vorrei quasi che Liam riuscisse a farla schiattare con la dinamite. Chi avrebbe mai detto che uno stronzo di calamaro mi avrebbe fatto uscire di testa?» «Fermati, o sarai tu stesso a mandarti fuori di testa...» «Già fatto. Non c'è più speranza.» Darling guardò Mike avviluppato nell'asciugamano, con le mani che tremavano, e pensò: questa cosa ha aperto una porta oscura nella mente del ragazzo. Le cose strane, incomprensibili, possono evocare dei demoni che non sapevamo di avere in noi. Erano nell'acqua bassa, con la fortezza di Dockyard in lontananza a sinistra e i cottage rosa di Cambridge Beaches che facevano capolino tra le casuarine a destra quando Mike, che stava appoggiato al parapetto e guardava indietro, disse: «Mai visto quella roba prima d'ora». Darling si voltò a guardare. A nord, a non meno di tre miglia da loro, si stava avvicinando all'imbocco del profondo canale settentrionale una piccola nave lunga non più di trentacinque o quarantacinque metri, con lo scafo bianco e un unico fumaiolo nero. «Non è di qui», disse Mike. «Direi di no.» «Non è neppure della Marina. Sembra una di quelle navi private da ricerca.» Darling prese il binocolo, puntò i gomiti sul parapetto e mise a fuoco la nave. Vide una scialuppa di salvataggio appesa a un paranco a dritta e, a poppavia rispetto al cassero, una grande gru d'acciaio. Posata su centine sotto la gru, c'era una cosa ovale con degli oblò. «Che mi venga un colpo, Michael», disse Darling. «Quella nave, a chiunque appartenga, porta un minisommergibile, uno di quei sottomarini minuscoli, sistemato a poppa.»
PARTE III 22. Il capitano Wallingford era chino sulla scrivania a firmare moduli di richiesta di materiale quando Marcus Sharp arrivò, bussò due volte sul montante della porta e disse: «Capitano?» «Che cosa c'è, Sharp?» domandò Wallingford senza alzare la testa. «No, aspetti, non mi dica nulla. Lei ha sentito dei bla bla bla a proposito della nave da ricerca che è arrivata qui piena zeppa di congegni dell'era spaziale, compreso un avveniristico minisommergibile da due milioni di dollari, per dare la caccia al calamaro gigante. Le è giunto all'orecchio che noi della Marina imbarcheremo uno dei nostri su quel minisub quando si immergerà, e si è precipitato a offrirsi volontario perché crede di essere la persona più adatta per quella missione.» Wallingford alzò lo sguardo e sorrise. «Allora?» «Io... si, signore.» Sharp entrò nell'ufficio e si fermò davanti al tavolo del capitano. «Perché proprio lei, Sharp? Lei è un pilota di elicotteri, non un sommergibilista. E perché dovrei mandare un ufficiale e non un marinaio semplice? Tutto ciò che serve, là sotto, è un paio d'occhi, una persona che tenga d'occhio quella brava gente e le impedisca di andare dove non deve, e di scassare per sbaglio un cavo telefonico della Marina.» «Io sono un sommozzatore, capitano», disse Sharp. «Conosco il mondo subacqueo. Sono in grado di riconoscere i nostri impianti segreti. Posso vedere cose che altri non vedono.» Riprese fiato. «Ho fatto l'addestramento per il servizio di demolizione subacquea.» «Demolizione subacquea?» esclamò Wallington. «Cristo, Sharp, quella gente non è venuta qui per fare esplodere qualcosa. Sono inviati speciali di una rivista, e vogliono essere i primi a fotografare un calamaro gigante vivo... un animale che, a quanto ho sentito dire, a quest'ora forse si trova a mille miglia di qui.» «E come la mettono con il governo di Bermuda? Mi era sembrato che l'ultima cosa che desiderava fosse dell'altra pubblicità.» «Quattrini, Sharp. Che altro? Bermuda ha dei problemi finanziari. Il turismo è in ribasso. Gli alberghi e i ristoranti sono nei guai, la pesca sportiva è ferma. L'attività sportiva subacquea ha praticamente chiuso. Quando quei tipi del Voyager...»
«Voyager?» «È il nome della rivista. Una pubblicazione nuova, fondata da un grande industriale dei cuscinetti a sfera che possiede valanghe di denaro. Avevano alle isole Cayman il loro minisub nuovo di zecca, costruito in Finlandia. Lo stavano usando per fotografare bestie strane nelle acque profonde. Quando hanno sentito parlare della piovra gigante hanno visto l'occasione di segnare un punto al loro attivo... uno scoop in grado di catapultarli al livello del National Geographic. La Geographic Society non dispone di mezzi subacquei del genere. Nessuno ce li ha, a parte noi della Marina, ma il nostro non vale una cicca. Comunque sia, il governo di Bermuda si è detto: perché non farli venire? Se trovano la piovra, bene, forse potranno escogitare il modo di ammazzarla. Se non la trovano, spendano pure tempo e denaro nella ricerca. Quando avranno concluso che il mostro non c'è, potremo pubblicizzare il fatto che il mostro se n'è andato e annunciare a tutto il mondo che Bermuda è di nuovo un posto sicuro.» «E in che cosa c'entra la Marina? Voglio dire, queste sono acque di Bermuda, e mi sembra...» «In che cosa c'entriamo? Suvvia, Sharp, Bermuda non ha acque sue. Secondo la legge, queste sono acque della NATO, anche se, di fatto, sono americane. Ogni goccia di queste acque lo è. Crede davvero che siano stati i bermudiani a installare quel rivelatore sonar? Crede che siano stati loro a posare tutti quei cavi per monitorizzare i movimenti dei sottomarini sovietici? Solo gli americani sono in grado di farlo, Sharp. Quando quelli del Pentagono hanno saputo di questa faccenda, della nave da ricerca con le attrezzature supersofisticate, mi sono piombati addosso per assicurarsi che avrei messo un uomo della Marina degli Stati Uniti a bordo della nave e del minisub. Nessuno, cittadino americano o suddito del re degli elfi, deve ficcare il naso nelle nostre strutture sottomarine senza avere uno di noi a fianco, a guardare di sopra la sua spalla.» Wallingford si sprofondò nella poltrona. «Così stanno le cose, Sharp», concluse. «Ora veniamo a lei. Perché vuole andare sott'acqua su quel coso? Pensa di trovare relitti per il suo amico Whip Darling?» «No, signore», si affrettò a rispondere Sharp, con un po' d'imbarazzo. Non gli era mai passato per la mente che Wallingford sapesse che lui usava l'elicottero per volare sopra la barriera alla ricerca di relitti. Avrebbe dovuto capirlo, perché sull'elicottero era sempre in compagnia di una o due persone, e la base aeronavale era una piccola comunità i cui membri disponevano di un mucchio di tempo per spettegolare. «D'altronde, che senso a-
vrebbe?» aggiunse. «Anche se vedessi qualche cosa d'interessante a centocinquanta o trecento metri di profondità, non ci sarebbe modo di ricuperarla.» «Che cos'è, allora?» insisté Wallingford. «Che cosa la spinge a scendere dove avrà mezzo miglio di oceano sopra la testa, chiuso in una piccola bara d'acciaio insieme a gente che non conosce, a cercare qualcosa che probabilmente non c'è e che, se ci fosse, potrebbe ammazzarla?» «Perché...» Sharp esitava, consapevole del fatto che il suo ragionamento sarebbe riuscito incomprensibile alla maggior parte delle persone. «Perché è una cosa che non ho mai fatto. Vorrei vedere com'è.» «Anche sulla luna non c'è mai stato. Ci andrebbe, se qualcuno glielo proponesse?» «Sì, signore, ci andrei di sicuro.» «Dio onnipotente, Sharp», esclamò Wallingford scuotendo la testa. «Okay, ha vinto. Si trovi al Dockyard alle sedici. Contano di uscire in mare verso sera, stare all'ancora tutta la notte e immergere il minisub per prima cosa domani mattina.» «Grazie, signore», rispose Sharp. «Quanto è ufficiale questa cosa? Devo mettermi in divisa?» «No, ma si porti maglione e calze di lana. Mi dicono che fa freddo, oltre che buio, a novecento metri di profondità.» «Sì, signore.» Sharp fece il saluto e si voltò per uscire. «Sharp.» La voce del capitano lo fermò sulla soglia. «Avrei mandato lei anche se non si fosse offerto volontario», disse con un sogghigno. «Volevo solo sentire come avrebbe sostenuto la sua causa.» Ritornato al suo alloggio, Sharp preparò una sacca per la notte, aggiungendo un walkman, qualche cassetta e un libro. Quando ebbe fatto una doccia e indossato un paio di jeans e una camicia di cotone erano quasi le tre del pomeriggio. Il Dockyard era dalla parte opposta di Bermuda, a un'ora di motocicletta. Sharp prese la sacca e uscì. Sulla porta si ricordò che per l'indomani aveva in programma un'immersione con Darling; rientrò e andò al telefono. Gli rispose la moglie di Darling; prima ancora che Sharp potesse lasciare un messaggio, lo informò che Whip era fuori sulla barca, poi uscì a chiamarlo. Mentre aspettava, Sharp era incerto se rivelare a Darling dove stava andando. Sapendo quanto la Marina andava pazza per i misteri, riteneva che la missione fosse segreta, anche se vi partecipava una rivista a diffusione nazionale che ne avrebbe pubblicato la documentazione fotografica.
Però alla Marina piaceva tenere nascosta ogni cosa, dal numero delle patate acquistate per la mensa al prezzo dei calzini dei marinai. Al diavolo la segretezza, si disse. Per di più, era probabile che Darling ne fosse già informato. «Hai fatto bene a chiamarmi, Marcus», disse Darling quando fu all'apparecchio. «Ti avrei telefonato. Che cosa ne diresti di controllare le previsioni del tempo per l'immersione di domani? C'è un gruppo di persone di una qualche rivista che vuole far scendere un sottomarino tascabile a fotografare il calamaro. Mi hanno ingaggiato come barca di appoggio.» «Ci vai? E che cosa intendono per 'barca di appoggio'?» «Non sanno dove cercare la cosa. Non sanno dove comincia la scarpata continentale, dove forma dei gradini, dov'è l'inizio delle acque abissali. Hanno uno scandaglio acustico, un sonar a scansione orizzontale e, se si prendessero la pena di farlo, potrebbero sbrigarsela da soli. Però quella nave, quando si muove, deve costare diecimila dollari al giorno, per cui hanno pensato alla mia collaborazione come a una specie di scorciatoia.» «E tu hai accettato? Credevo che...» «Marcus, sono mille dollari al giorno. Mi limiterò a far vedere loro dove andare, dove puntare fotocamere e telecamere, e girerò sopra il minisub in caso che debba affiorare lontano dalla nave.» Darling rise. «Puoi essere sicuro al cento per cento che non scenderò in quel congegno.» «Whip», disse Sharp, ma si fermò perché sentiva scemare il proprio entusiasmo. «Io devo andare con loro.» «Tu? Per farci cosa?» «La Marina teme che possano curiosare intorno alle nostre apparecchiature sonar, e magari giustificare i loro costi facendo un servizio su quanti soldi sprechiamo per monitorizzare dei sottomarini sovietici inesistenti.» «Come fa Wallingford a essere così sicuro che non troveranno la piovra?» chiese Darling. «La Marina pensa che se ne sia andata», rispose Sharp. «Ed è anche l'opinione dell'Amministrazione Oceanografica.» «Ebbene, io la penso diversamente. Anche Tally, se no sarebbe ritornato in Canada. No, per me la creatura è ancora là sotto, Marcus. Ne sono quasi sicuro.» Ci fu un momento di silenzio, poi Darling aggiunse: «Hai detto che vai con loro. Non vorrai scendere con quel minisommergibile?» «Invece sì», rispose Marcus. «È proprio questo il mio incarico.» «Non andarci.» «Devo farlo, Whip.»
«No, Marcus.» Darling fece una pausa, poi disse: «Dovremmo ricordare entrambi una cosa: c'è una grossa differenza tra l'essere coraggiosi e l'essere stupidi». 23. Il porto della marina militare di sua maestà britannica, chiamato «Dockyard», era stato costruito nel diciannovesimo secolo da galeotti designati con il nome di transports perché erano stati trasportati dall'Inghilterra. Le autorità li avevano alloggiati negli scafi di navi in disarmo che fungevano da prigione, sul fondale basso e fangoso della Grassy Bay. I muri di pietra del porto avevano uno spessore di più di tre metri; le strade selciate erano state pavimentate a mano. Il Dockyard occupava tutta l'estremità settentrionale dell'isola Ireland, e per un certo periodo era stato una comunità a sé, con caserme per centinaia di soldati, cucine, carceri, velerie, magazzini, corderie e armerie. Ora, mentre Sharp si dirigeva verso la piccola nave ormeggiata al molo una banchina che occasionalmente ospitava navi di linea britanniche e americane -, passò davanti a boutique, caffè, negozi di souvenir e un museo. La scritta sullo specchio di poppa designava la nave come Ellis Explorer di Fort Lauderdale. Sharp, mentre camminava sul molo lungo la nave, ne misurò a passi la lunghezza: circa quarantacinque metri. Era in gran parte del tipo a poppa aperta. A metà strada tra lo specchio di poppa e la cabina, il minisommergibile, coperto da un telone, posava sul proprio supporto. La nave era palesemente nuova, costruita in Grecia o in Olanda, a giudicare dalla sua linea agile ed elegante, ed era tenuta con la massima cura. Non c'era nemmeno un puntino di ruggine sullo scafo, né una scrostatura o una tacca nella vernice. Le cime in coperta erano arrotolate in ordine perfetto, e la sovrastruttura d'acciaio e alluminio scintillava nel sole pomeridiano. Chiunque sia il padrone di questa nave, pensò Sharp, non ha problemi finanziari. Una giovane donna, in piedi a prua, gettava pezzetti di pane a un banco di pesciolini. «Salve», disse Sharp. La ragazza si voltò verso di lui e rispose: «Salve!» Era sui ventisetteventotto anni, abbronzatissima. Indossava jeans corti, una camicia Oxford da uomo con i lembi annodati in vita, al polso un orologio Rolex submariner. I capelli castani schiariti dal sole erano tagliati corti e pettinati indie-
tro. Portava un paio di occhiali da sole appesi a un cordoncino intorno al collo. «Sono Marcus Sharp... il tenente Sharp.» «Oh...» disse lei. «Bene, venga a bordo.» Sharp salì la passerella e giunse in coperta. «Io sono Stephanie Carr», disse la ragazza sorridendo e tendendogli la mano. «Faccio fotografie.» Lo guidò a poppavia, nella cabina. La cabina era grande e confortevolmente arredata. C'erano due tavoli pieghevoli a sospensione cardanica, una pila di sedie in plastica, scaffali di libri in edizione tascabile e, su una mensola, un televisore e un videoregistratore. Alle due estremità si vedevano due scalette di pochi gradini. Quella di prua saliva al ponte di comando, quella di poppa scendeva alla cambusa e alle cabine dei passeggeri. Un uomo piccolo con i capelli a spazzola, dall'aria energica e un'età indefinibile fra i trenta e i quarantacinque anni, sedeva in coperta e guardava un film di James Bond registrato su videocassetta. «Questo è Eddie», disse Stephanie. «È lui che comanda il sub. Eddie, questo è Marcus.» Eddie rispose con un gesto distratto dicendo: «Ehi». Sharp notò che uno dei tavoli era coperto di macchine fotografiche, flash, esposimetri e rullini di pellicola. «Si è portata un redattore per i testi?» domandò a Stephanie. «No», rispose lei. «Faccio tutto io. E poi, se riusciamo a fotografare il mostro, non ci sarà bisogno di parole.» Indicò la scaletta di poppa. «Là sotto ci sono due cabine libere. Può scegliersene una e metterci la sua roba.» Sharp gettò la sacca su una sedia. «Chi è Ellis?» domandò. «Quello del nome, Ellis Explorer.» «Barnaby Ellis... Cuscinetti a sfera Ellis... la Fondazione Ellis... le Edizioni Ellis. I cuscinetti hanno finanziato la fondazione, e questa è proprietaria della nave. Quando una delle riviste ne ha bisogno, la prende in prestito dalla fondazione», spiegò Stephanie. «Lavora per Ellis?» «No, sono una freelance. Lavoro per il Geographic, per il Traveler, per chiunque sia disposto a pagarmi.» «Ehi, marina!» chiamò una voce dal ponte di comando. «Venga, le presento Hector», disse Stephanie, e gli fece strada fino alla plancia. Hector dimostrava quarantacinque anni. Era un tipo massiccio, dalla pel-
le scura; indossava una camicia bianca inamidata con le spalline da capitano, pantaloni neri dalla piega perfetta e scarpe nere lucidate a specchio. Stava armeggiando con matita e righello su una carta nautica di Bermuda. «Quel Darling!» disse. «Mi consiglia di gettare l'ancora qui» - indicò un punto sulla carta - «ma è un posto dove non c'è fondale.» «Le ha spiegato come arrivarci?» domandò Marcus. «Ogni passo. Intorno alla punta qui, poi a nord per la boa, quindi a nordovest fino al punto in questione. Però, secondo la carta, il fondale è a novecento metri. Non ci si può ancorare a quella profondità.» «Faccia come le ha detto», disse Sharp. «Se lui afferma che c'è un fondale, ci sarà. Può esserci un guyot, uno di quei picchi vulcanici dalla sommità erosa.» «Ma la carta...» «Capitano», lo interruppe Sharp, «a Bermuda, se dovessi scegliere tra un cartografo del Servizio Costiero e Geodetico e la parola di Whip Darling, mi atterrei ogni volta alle istruzioni di Darling.» Erano le cinque passate quando si lasciarono alle spalle la punta del Dockyard e puntarono a nord verso le boe del canale. Sharp e Stephanie stavano sull'ala di plancia a guardare le piccole nubi a cumulo che cambiavano colore a mano a mano che il sole al tramonto le irradiava da angolazioni diverse. «Dove abita?» domandò Sharp. «A San Francisco, più o meno. Per la verità, in nessun posto. Ho un minialloggio laggiù tanto per avere un luogo in cui tornare, ma sono fuori casa dieci o undici mesi all'anno.» «Quindi non è sposata.» «Improbabile», rispose lei. «Chi può volermi? Uno che non mi vedrebbe mai? Quando ho cominciato questa professione, appena uscita dal college, lavoravo per un piccolo giornale del Kansas, ma come secondo lavoro facevo fotografie della wildlife. Mi resi conto che dovevo prendere una decisione, che non potevo tenermi entrambi i lavori. Molti miei amici sono fotografi specializzati nel genere che tratto io: sport, avventura, animali. Di quelli che si sono sposati, il novanta per cento ha già divorziato.» «Il gioco vale la candela?» chiese Sharp. «Finora sì. Sono stata in tutte le parti del mondo, il mio passaporto è spesso come la guida del telefono. Ho conosciuto un'infinità di gente, fatto un mucchio di cose folli, fotografato di tutto, dalle tigri alle formiche, però
comincio ad averne abbastanza. Di quando in quando penso a sistemarmi, a mettere su casa, ma ogni volta squilla il telefono, e io parto per una nuova destinazione.» Fece un gesto verso il mare. «Come adesso.» «Che cosa sa del calamaro gigante?» «Nulla. Diciamo, quasi nulla. Ho letto un paio d'articoli durante il viaggio. Mi sembra di capire che nessuno l'abbia mai fotografato, e tanto mi basta. Non succede spesso, nel nostro mestiere, di poter fare una cosa che nessuno ha mai fatto prima.» «C'è un motivo, lo sa. Sono animali rari e pericolosi.» «Bene», disse lei, «è questo l'aspetto interessante. Vedila in questo modo, Marcus», aggiunse passando al tono confidenziale. «Siamo pagati per fare ciò che il resto della gente non potrebbe fare nemmeno se avesse tutto il denaro del mondo: correre rischi e fare scoperte. Si chiama 'vivere'.» Sharp, mentre la guardava, sentì un dolore pungente che non provava da molti mesi: il dolore di ricordare Karen. «Le dico», ripeté Hector indicando l'ecoscandaglio, «che qui non c'è un fondale adatto.» Una debole luce arancione ruotava su uno schermo circolare, lampeggiando più viva quando passava sul contrassegno degli ottocentocinquanta metri. «È sicuro di essere nel posto giusto?» domandò Sharp. «Il SatNav conferma che sono esattamente sulla verticale, proprio dove ha detto Darling.» Sharp guardò fuori del finestrino. Nulla nel colore del mare denunciava la presenza di una secca; le acque erano di un grigio uniforme come acciaio brunito. «Getti l'ancora», disse. «Facile da dire per lei, uomo della Marina», replicò Hector. «Quest'ancora e questa catena da duemila dollari non sono mica roba sua.» «Getti l'ancora. Se la perde, mi tufferò e andrò a riprenderla personalmente.» Hector lo fissò, poi disse: «Merda», e premette il pulsante che liberava l'ancora. Udirono uno splash, seguito dallo sferragliare della catena nell'occhio di cubia. Un uomo dell'equipaggio, in maglietta a righe, stava sul boccaporto del gavone di prua e guardava scorrere la catena. «Le dispiace se accendo il sonar orizzontale?» domandò Sharp. Hector annuì. Sharp girò l'interruttore del sonar a scansione orizzontale e premette la fronte contro l'oculare paraluce di gomma. Lo schermo verde s'illuminò;
comparve una linea bianca, creata dagli impulsi sonar riflessi, che mostrava il profilo del fondale a circa un chilometro di distanza. Dov'è? si chiese. Dov'è il picco segreto che fermerà l'ancora? Udì Hector esclamare: «Che mi venga un colpo», e proprio in quel momento apparve un puntino bianco sullo schermo del sonar, nell'angolo alto a sinistra. Lo sferragliare della catena cessò. «Settantotto metri», disse Hector. «Come diavolo faceva Darling a saperlo?» «Ha passato venticinque anni su questo mare, ecco come faceva», rispose Sharp. «Whip conosce ogni lentiggine della piattaforma, e sapeva pure che il flusso della corrente avrebbe fatto derivare la sua ancora.» «E non è che, per caso, sa anche dove si trova il calamaro gigante?» «Nessuno lo sa», rispose Sharp, e discese la scaletta per andare in cabina. Cenarono nel salone: hamburger cotti nel forno a microonde, pasta scaldata a vapore, insalata. Quando ebbero lavato i piatti, Eddie e i due uomini dell'equipaggio si raccolsero davanti alla TV a guardare Caccia a Ottobre Rosso, registrato su videocassetta. Hector ritornò al ponte di comando. Stephanie versò il caffè per sé e per Sharp, prese una sigaretta dalla custodia di una delle sue macchine fotografiche e guidò Marcus fuori, verso la poppa aperta. La luna era così luminosa che faceva scomparire le stelle attorno a sé. Il mare era liscio come uno specchio. «E tu?» domandò. «Sei sposato?» «No», rispose Sharp e poi, senza sapere bene perché, le raccontò di Karen. «Brutta faccenda», commentò lei quando Marcus ebbe finito. «Non credo che potrei convivere con un dolore come quello.» Prima che Sharp avesse il tempo di rispondere, udirono Hector gridare: «Ehi, marina!» dalla plancia. Si diressero a prua lungo un passaggio sul ponte di coperta e salirono i quattro gradini d'acciaio che portavano alla plancia. «Venga qui», disse Hector. Sharp entrò. Nell'oscurità, il ponte di comando sembrava un nightclub abbandonato, perché non c'erano altre luci all'infuori delle spie rosse, verdi e arancione delle apparecchiature elettroniche. «Che mi dice di questo?» domandò Hector additando il sonar a scansione laterale.
«Di cosa?» «Abbiamo girato intorno all'ancora. Mi sa che ci siamo ancorati alla parte alta di un relitto.» Mentre si chinava sullo schermo, Sharp pensò a quale ironia sarebbe stata se avessero scoperto un'antica nave colata a picco centinaia d'anni prima, tuttora non vista e non esplorata. Loro disponevano del minisommergibile, pertanto potevano giungere al relitto, fotografarlo, forse anche ricuperarne qualcosa. Whip si sarebbe stupito. Sharp chiuse gli occhi, poi li riaprì e li mise a fuoco sullo schermo grigio. Sapeva che le immagini del sonar a scansione orizzontale possono essere molto nitide se l'oggetto individuato ha una forma precisa ed è isolato su un fondale piatto. Aveva visto sul National Geographic una foto-sonar di una nave affondata nell'Artico. La nave posava con la chiglia sul fondo, con gli alberi e la sovrastruttura chiaramente visibili, e sembrava in procinto di salpare. Ma quella nave era affondata mentre era all'ancora in novanta metri d'acqua. Se sotto il punto in cui si trovavano ora c'era un relitto, forse la nave era scivolata per un chilometro lungo la scarpata, sfasciandosi nella discesa. Era possibile che fosse ridotta a un mucchio di rottami alla base del picco sommerso. Ciò che vedeva era una macchia informe. Guardò le cifre della taratura alla base dello schermo: la macchia risultava essere lunga venti o trenta metri, forse la dimensione giusta di un relitto. «Potrebbe essere», disse. «Le dia un'occhiata domani dal minisub», suggerì Hector. «Parecchie navi sono andate perdute qui durante la guerra. Forse è una di quelle. Mi dia i dati del loran, per favore.» Sharp si staccò dallo schermo del sonar e andò al loran dall'altra parte della plancia. Lesse ad alta voce le cifre per Hector, che le annotò su un foglietto. Nessuno guardò più lo schermo del sonar. Se lo avessero fatto, si sarebbero accorti di un cambiamento nella macchia informe. Avrebbero visto svanire alcune linee, comparirne delle altre, mentre la cosa a novecento metri di profondità cominciava a muoversi. 24. Le braccia tese di Karen lo cercavano, i suoi occhi lo imploravano di aiutarla, mentre lei gridava in una lingua che Marcus non conosceva. Tentò
di raggiungerla, ma le gambe non volevano funzionare. Gli sembrava di arrancare in una distesa di fango trasparente, oppure di essere frenato da qualcuno che lo costringeva a muoversi al rallentatore. Quanto più lui si avvicinava, tanto più la ragazza sembrava allontanarsi. Poi c'era qualcosa che la inseguiva, una cosa che lui non vedeva, ma che doveva essere enorme, terrificante, perché la paura di Karen si trasformava in panico, e le sue urla diventavano sempre più acute. Poi, d'un tratto, lei scompariva e anche la cosa che le dava la caccia sembrava svanita: non restava altro che un ronzio lacerante. Sharp si svegliò, e per un attimo non seppe dove si trovava. Restava solo il ronzio, una sollecitazione insistente all'interno della sua testa. Si rotolò nella cuccetta e vide un interfono sulla paratia. Prese il ricevitore e borbottò il proprio nome. «Sorgi e risplendi», disse Stephanie. «È ora di andare.» Mentre lei riattaccava, Sharp si sentì percorrere da un flusso di adrenalina. Si era offerto volontario per quella missione: il giorno prima gli era sembrata eccitante, ma adesso cominciava a spaventarlo. Non era mai stato in un minisommergibile, meno che mai in uno le cui dimensioni erano sì e no un terzo di quelle di un vagone della metropolitana. Lui detestava gli ascensori affollati - d'altronde, a chi piacevano? - e si sentiva a disagio nelle cabine interne delle navi. Chissà, forse stava per scoprire che soffriva di claustrofobia. Bene, si disse, lo saprai fra poco. Mentre si radeva, e poi indossava jeans, camicia, calze e pullover di lana, l'apprensione cedette di nuovo il posto all'entusiasmo. Almeno questa era azione, una sfida: qualcosa di nuovo. Come avrebbe detto Stephanie, era vita. Il sole si era appena alzato sopra l'orizzonte quando Sharp entrò nel salone e si versò una tazza di caffè. Attraverso gli oblò al fondo della cabina vide Eddie e uno dei marinai togliere il telone che copriva il minisub. Stephanie era sul ponte di poppa, e stava montando una videocamera nella custodia impermeabile. Marcus guardò a destra e vide il Privateer attraccato alla murata sinistra della nave. Si mosse per uscire dal salone, ma si fermò quando udì la voce di Darling alle sue spalle. Era sul ponte di comando e parlava con Hector. «Buongiorno, Marcus», disse Darling quando Sharp lo raggiunse sulla plancia. «Sei sempre convinto di voler andare là sotto a congelarti le chiappe?»
«Sì», rispose Marcus. «Sono convinto.» Darling si rivolse a Hector. «Dirò al mio secondo di allontanarsi un poco finché lei mette in acqua il minisommergibile, e poi di seguirlo con le apparecchiature della mia barca.» «Che cosa conti di fare, Whip?»» domandò Sharp. «Vegliare su di te, Marcus», rispose Darling e sorrise. «Sei troppo prezioso, non voglio perderti.» Uscì dalla plancia e andò a poppavia a parlare con Mike che era sul Privateer. Sharp si diresse con il suo caffè verso poppa. In cima alla scaletta trovò Stephanie che stava salendo. La ragazza gli fece segno di seguirlo oltre una porta a tenuta stagna sopra il salone e a poppavia della plancia. Era la sala di controllo per il sommergibile, buia, con solo una lampadina rossa in alto e quattro monitor televisivi su cui si vedevano delle strisce colorate. Uno dei marinai (Sharp ricordava che si chiamava Andy), con in testa un set auricolari-microfono, sedeva davanti a una console costellata di pulsanti e di spie colorate. «Andy sorveglia tutte le nostre apparecchiature», disse Stephanie. «Il tuo amico Whip starà qui con lui, potremo parlargli in qualunque momento.» Sharp additò gli schermi televisivi. «Il minisub è collegato via cavo con la superficie?» «Tutto è registrato su videonastro, per la Fondazione. Se ne occupa un cavo coassiale a fibre ottiche collegato al minisub. Io ho delle videocamere all'interno e all'esterno del sottomarino, più le macchine fotografiche. Posso dartene una? Staremo a due oblò differenti ed è probabile che vedremo cose diverse.» «Sicuro», rispose Sharp. «Spero solo che tu abbia una macchina fotografica adatta a un imbecille. Che cosa devo fotografare? Gorgonie? Coralli neri?» «Niente di tutto ciò, sciocco», disse Stephanie con un'allegra smorfia. «Non ci sono, a quella profondità. Voglio mostri, soltanto mostri. Grandi e grossi. Enormi.» Visto da vicino, il minisommergibile sembrava una gigantesca capsula di antistaminico munita di bracci. Ogni braccio aveva delle pinze d'acciaio all'estremità. In uno spazio tra i bracci era alloggiata una telecamera in una custodia con oblò di ripresa a calotta sferica. Adesso il sole era più alto, e non spirava neppure un alito di brezza.
Sharp aveva la fronte imperlata di sudore quando si introdusse nella capsula attraverso il portello rotondo. Il marinaio addetto alla gru lo salutò alzando il pollice, e lui gli rispose con un sorriso assente. Stephanie era già dentro, e anche Eddie, che indossava un giubbotto imbottito di piumino. Era chinato in avanti a verificare gli interruttori e i quadranti degli apparecchi. L'interno della capsula era un tubo lungo tre metri e mezzo, largo un metro e ottanta e alto uno e cinquanta. C'erano dei piccoli oblò, uno a prua per Eddie, più uno su ciascun lato per Stephanie e per Marcus. Un cuscino era posato sul pavimento davanti all'oblò di Sharp, che andò a installarcisi camminando a quattro zampe. Constatò che poteva sedersi con le gambe incrociate, o inginocchiarsi con il volto premuto contro l'oblò, oppure stare prono con i piedi alzati. L'unica cosa che non poteva fare era distendersi, in verticale o in orizzontale. E se gli fossero venuti i crampi? Come avrebbe fatto a liberarsene non potendosi muovere? Non pensarci, si disse. Fa' ciò che devi fare. «Quanto tempo ci vuole per toccare il fondo?» domandò. «Mezz'ora», rispose Stephanie. «Scenderemo alla velocità di trenta metri al minuto.» Non era troppo male. Nel peggiore dei casi, poteva sopravvivere per un'ora. «E quanto tempo passeremo là sotto?» «Quattro ore al massimo.» «Quattro ore!» Mai, pensò Sharp. Impossibile. Udì lo sportello che sbatteva sopra di lui, poi un sibilo metallico mentre veniva chiuso e assicurato. Stephanie gli affidò una macchina fotografica da 35 mm con obiettivo grandangolare: «Carica e pronta per l'uso. Devi solo schiacciare il pulsante», gli disse. Sharp fece per prendere l'apparecchio, ma gli sfuggì dalle mani sudate, e Stephanie lo acciuffò al volo due centimetri prima che battesse sul pavimento d'acciaio. «Hai un aspetto orribile», gli sussurrò. «Non ne dubito.» Sharp si asciugò le mani sui pantaloni e riprese la macchina fotografica. «Di che ti preoccupi? Questo è un aggiornatissimo minisommergibile di profondità, ed Eddie è un pilota altamente specializzato, un vero esperto.» Sorrise. «È vero, Eddie?» «Puoi ben dirlo», rispose Eddie. Mormorò qualcosa nel microfono appeso alla cuffia, e all'improvviso la capsula vibrò e cominciò a salire quando
la gru la sollevò dal supporto e la tenne sospesa di fianco alla nave. Per un momento dondolò avanti e indietro come un'altalena del luna park, e Sharp dovette tenersi forte per non farsi sbattere sul pavimento. Poi la capsula scese lentamente fino a toccare l'acqua, dove il movimento si tramutò in una lieve oscillazione. Sharp provò a guardare attraverso l'oblò e vide le onde che lambivano il vetro. Dall'alto giunse il suono metallico del fermo di ritegno che scattava bloccando il gancio di alaggio. La capsula cominciò a inabissarsi. Adesso l'acqua copriva gli oblò. Sharp premette la guancia contro il vetro e alzò gli occhi, cercando per l'ultima volta la luce del sole. Per effetto della rifrazione dell'acqua in movimento, l'azzurro del cielo, il bianco delle nubi, il giallo dorato del sole danzavano insieme producendo un effetto ipnotico. Poi i colori si spensero, sostituiti da una foschia azzurrognola. Tutti i rumori cessarono, meno il lieve ronzio del motore elettrico del minisommergibile. Il mondo intero era stato inghiottito dal mare. Il sudore evaporava rapidamente dalla fronte di Sharp, anche dalle ascelle e dalla schiena. Si sentì gelare. In meno di un minuto la temperatura era scesa di circa trenta gradi. Lui continuava a sudare, ma non per il calore, bensì per la paura, e per un principio strisciante di claustrofobia. Guardò attraverso l'oblò e vide il blu delle acque scurirsi. Si obbligò a guardare in basso. I raggi di luce solare sembravano combattere con la luce diffusa nell'acqua, ma furono dispersi e assorbiti. Il blu cedette il posto al nero, e fu notte. Scesero lentamente senza vedere o sentire alcunché. Poi Sharp si rese conto che quel nulla gli dava conforto e ne comprese il motivo: gli stava tornando alla mente ciò che Darling gli aveva raccontato sulle creature che vivevano in quel buio, in quella notte infinita. Ebbe un brivido. 25. Sharp si sentiva gelare. Le sue calze di lana erano inzuppate dalla condensa formatasi all'interno della capsula d'acciaio. In superficie l'umidità era sembrata fresca e non sgradevole, ma adesso i calzini di lana non erano asciugati anche dopo che la condensa era evaporata. Le dita dei piedi erano insensibili, le piante gli prudevano. Infilò le mani sotto il maglione e poi sotto le ascelle. Distolse lo sguardo dall'oblò per osservare Eddie alle prese
con i suoi strumenti. La temperatura esterna era di quattro gradi centigradi, circa quaranta Fahrenheit. All'interno non faceva molto più caldo, circa dieci gradi centigradi. Erano a seicento metri di profondità e continuavano a scendere. Eddie parlò nel microfono. «Attiviamo l'illuminazione», disse, e fece scattare un interruttore. Le lampade da 1000 watt sopra la capsula si accesero gettando un fascio di luce gialla che penetrò per cinque o sei metri prima di essere inghiottita dalle tenebre. Un universo di vita esplose sotto gli occhi di Sharp. Piccoli animali planctonici turbinavano entrando e uscendo nel cono di luce, creando un'animata tormenta di vita marina. Un gamberetto minuscolo aderì all'oblò e si mise a camminare con determinazione sul vetro. Un altro animale - che rassomigliava a un nastro grigio e rosso con gli occhi gialli e una raggiera di piccole spine - venne serpeggiando fino all'oblò, si contorse per un attimo e poi sgusciò via. «Guardate», disse Eddie additando il proprio oblò. Sharp si sporse per vedere, ma la cosa additata da Eddie non c'era più. Ritornò al suo posto di osservazione, e un attimo dopo la vide. Sembrava il parto di un'immaginazione folle e girava tranquillamente intorno alla capsula. Era un pesce pescatore: tondo, bulboso, di un marrone giallastro che si trascinava appresso le pinne brevi e mucose. I suoi occhi sporgevano come due lividi verde-azzurri, aveva zanne simili ad aghi di diamante, mentre il suo corpo era intersecato di vene nere. Sembrava una ciste con i denti. Dal punto in cui avrebbe dovuto avere il naso partiva un peduncolo bianco in cima al quale, luccicante come un faro, c'era una piccola luce. Sharp aveva già visto delle foto di quei pesci. Usavano il peduncolo come richiamo, facendo dondolare la luce davanti alla propria bocca spalancata per attirare prede curiose e sprovvedute. Poiché sullo sfondo non c'era nulla con cui confrontarlo, Sharp non aveva alcuna idea delle dimensioni e della distanza di quel pesce. «Quanto è grande, secondo lei?» domandò a Eddie allargando le mani di mezzo metro. Eddie ridacchiò alzando la mano con il pollice e l'indice aperti ad angolo. Il pesce non misurava più di dieci centimetri. Sharp udì il motore dell'apparecchio di Stephanie che scattava una foto dopo l'altra. Teneva l'obiettivo contro il vetro e ruotava la ghiera dei diaframmi, con la speranza di ottenere delle buone immagini scattando a casaccio.
«Credevo che volessi solo dei mostri», disse Sharp. «E questi che cosa sono, secondo te?» Stephanie fece un gesto verso il suo oblò. «Santo Dio, guarda un po' quello!» Sharp vide passare un lampo dorato. Si voltò e attese che l'animale terminasse il giro intorno alla capsula. La creatura sembrava priva di pinne; la si sarebbe potuta paragonare a una freccia gialla, se non avesse avuto tutto il sistema digestivo - stomaco e intestino - che usciva da un'apertura e penzolava, pulsando. La sua mascella inferiore era irta di denti simili a spilli, gli occhi bianchi e neri sporgevano dalla testa come bottoni rotondi. Ben presto altri animali sciamarono intorno alla capsula, attirati dalla luce, curiosi e senza paura. C'erano creature simili a rettili che sembravano avere capelli sulla schiena; anguille dai grandi occhi con gibbosità sulla testa che parevano tumori. Esseri traslucidi a forma di globo che sembravano ospitare unicamente una bocca. Sharp trasalì quando la voce di Darling tuonò all'improvviso dall'altoparlante alloggiato nella capsula. «Hai un diavolo di zoo da vedere là sotto, Marcus», disse. «Se quelli dell'acquario ricominciano a ragionare, so dove poserò le nasse la prossima volta.» «Aspetta che vedano queste foto, Whip», rispose Sharp. «Torneranno da te in ginocchio.» Dimenticando la paura, ignorando il freddo, Sharp riprese la macchina fotografica che gli aveva dato Stephanie e mise a fuoco. S'inginocchiò sul cuscino e attese il passaggio del successivo mostro in miniatura. 26. Mike si diede uno schiaffo, e il bruciore lo riscosse per un momento. Ma appena i suoi occhi ritornarono allo schermo dello scandaglio sonar, sentì le palpebre appesantirsi di nuovo. Si alzò, si stirò, poi con uno sbadiglio tornò a guardare dal finestrino. La nave era a un quarto di miglio dal Privateer e, dietro la nave, sullo sfondo, si vedeva la gobba scura di Bermuda. A parte la nave e l'isola, il mare era deserto da un orizzonte all'altro. Whip gli aveva detto di tenere gli occhi incollati allo scandaglio - lo chiamava il sonar a scansione laterale dei poveri - e Mike lo aveva fatto per più di un'ora. Però l'immagine non era mai cambiata: c'era la linea che segnava il profilo del fondale, e sopra questa il puntino in movimento che corrispondeva al minisommergibile. Nient'altro. Non una riga spezzettata
che indicasse la presenza di un banco di pesci, certamente nessun segnale grosso e denso come quello che avrebbe designato una balena di passaggio. Normalmente a Mike non sarebbe piaciuto rimanere solo sulla barca, ma questa volta era diverso. C'era una nave a breve distanza, sulla nave c'era Whip; tutta l'azione si svolgeva a mezzo miglio di distanza e non esigeva il suo intervento. Soprattutto non lo costringeva a prendere decisioni. La radio si fece viva crepitando, e Mike udì la voce di Whip: «Privateer... Privateer... Privateer... rispondete». Mike prese il microfono, premette il pulsante di trasmissione e disse: «Ti ascolto, Whip». «Come va, Michael?» «Fra poco mi addormento. Una noia tremenda, peggio che guardare la vernice mentre asciuga.» «Non sta capitando niente. Prenditi un momento di pausa.» «D'accordo», disse Mike. «Farò un poco di caffè, prenderò una boccata d'aria fresca e lavorerò su quella stupida pompa.» «Tieni alto il volume e lascia la porta aperta, così mi senti se ti chiamo.» «Roger, Whip. Resto in ascolto.» Mike riattaccò il microfono al gancio. Guardò ancora una volta lo schermo, vide che l'immagine non era cambiata e scese sottocoperta. Nella timoniera lo schermo dello scandaglio continuava a luccicare. Per qualche momento l'immagine rimase immobile come una fotografia. Poi, sul lato destro del monitor, a un terzo dell'altezza, comparve un nuovo segnale. Era un'unica massa compatta, che cominciò a muoversi lentamente attraverso lo schermo in direzione del minisommergibile. 27. C'era stato un cambiamento nella creatura. Fino ad allora aveva vissuto in modo avventizio, derivando con la corrente e mangiando il cibo che si trovava davanti. Ma ora il cibo non era più copioso come una volta, e la passività non assicurava la sopravvivenza. Gli istinti della creatura non erano cambiati - facevano parte della sua programmazione genetica: erano immutabili - ma era alterato l'impulso alla sopravvivenza. Rispondeva in modo più attivo alle sollecitazioni dell'ambiente. Non poteva più vivere di carogne, era costretta a diventare predatrice.
Fluttuando alla confluenza delle due correnti che giravano intorno al vulcano, la creatura divenne agitata; qualcosa stava interferendo e disturbava il ritmo del mare. Captò un mutamento nell'ambiente circostante. Nell'acqua c'era una pulsazione debole ma persistente: il movimento degli animali ne alterava la pressione. L'occhio umano, piccolo e relativamente debole, non avrebbe percepito alcuna luce, ma gli occhi enormi della creatura erano ricchi di bastoncelli che captavano e registravano anche la più fievole scintilla di luce. Adesso percepiva più di una scintilla. Da qualche parte, in lontananza, c'era una grande luce che si muoveva emettendo un suono pulsante e galvanizzava gli altri animali. La creatura non mangiava da parecchi giorni e, pur non essendo consapevole del tempo in quanto tale, era mossa dai cicli del bisogno. Aspirò acqua nel corpo e la espulse dall'imbuto, lanciandosi verso la fonte della luce. Diede inizio alla caccia. 28. «Si direbbe che hai freddo, Marcus», disse Stephanie. Sharp annuì. «È vero», rispose. Teneva le braccia incrociate sul petto, con le mani infilate sotto le ascelle, ma non riusciva a fermare i brividi. «Come fai a non avere freddo anche tu?» «Ho uno strato di lana su uno strato di seta sopra uno di cotone.» Si rivolse a Eddie. «Dov'è il caffè?» Eddie lo indicò con un gesto. «Là nella scatola.» Stephanie si allungò, aprì una scatola di plastica e ne estrasse un termos. Riempì di caffè il coperchio e lo passò a Sharp. Il caffè era forte, tra l'acido e l'amaro, senza zucchero e aspro ma, quando l'ebbe nello stomaco, Sharp fu riconfortato dal calore. «Grazie», disse. Guardò l'orologio. Erano immersi da quasi tre ore alla profondità di settecentocinquanta metri, circa centocinquanta sopra il fondale, e non avevano visto nulla se non le piccole creature strane che si raccoglievano incuriosite intorno alla capsula e poi svanivano nell'oscurità. «Che cosa ne dice se porto la capsula sul fondo?» disse Eddie nel microfono. Dall'altoparlante venne la voce di Darling. «Potrebbe farlo», disse. «For-
se vedrà almeno uno squalo.» Eddie spinse avanti la barra multifunzione; la capsula cominciò a scendere. Il fondale era come le foto della superficie della luna: deserto, polveroso, ondulato. Il minisommergibile spingeva una lieve onda di pressione davanti a sé; il fango si alzò e fluttuò via mentre la macchina continuava ad avanzare. D'un tratto Eddie si raddrizzò esclamando: «Cristo!» «Cosa?» domandò Sharp. «Che cos'è?» Eddie fece un gesto verso l'oblò di Sharp. Marcus si riparò gli occhi e premette il viso contro il vetro. Serpenti, pensò dapprima. Un milione di serpenti che brulicavano su un corpo morto. Poi, osservando meglio, si disse: non possono essere serpenti, sono anguille. Invece no, non erano neppure anguille, poiché avevano le pinne. Erano pesci, un'assurda specie di pesci che si agitavano, si contorcevano e strappavano la carne. Pezzi di carne si staccavano e fluttuavano, subito circondati, ingeriti e ridotti in molecole da branchi di altri, più piccoli, mangiatori di carogne. Una delle cose a forma di serpe o di anguilla si staccò dal cibo, arretrò e, confusa o irritata dalle luci, attaccò il minisommergibile. Sbatté il muso contro l'oblò di Sharp e lo percosse, come se volesse risucchiare la macchina intera. Il muso si trasformò completamente in una bocca contornata da denti aguzzi, con la lingua che guizzava. Il corpo girava su se stesso come un cavatappi, nel tentativo frenetico di praticare con il muso un foro nella preda. Una lampreda marina, si disse Sharp, uno dei demoni da incubo che scavavano buchi nel corpo di animali più grossi e li rosicavano a morte. Eddie fece virare la capsula sull'ammasso sferico di pesci, spinse la prua in mezzo a loro disperdendoli, e solo allora Sharp poté vedere di che cosa si stavano cibando. «Un capodoglio!» gridò. «È la mascella inferiore di un capodoglio. La vedi, Whip?» «Sì», rispose la voce piatta e distante. «E quale essere al mondo può uccidere un capodoglio?» Darling non rispose ma, nel silenzio, Sharp pensò subito: io lo so. Cominciò a sudare. Strinse gli occhi nel tentativo di vedere oltre il cerchio di luce. I pesci guizzavano da ogni parte, comparendo e scomparendo, ma
senza svanire nel buio, fantasmi che vagavano attraverso il bordo luminoso. Era confortato da loro e da ciò che essi segnalavano. Una volta, Whip gli aveva detto che finché si vedevano pesci non ci si doveva preoccupare degli squali perché, molto prima che l'uomo imparasse a farlo, i pesci decifravano gli impulsi elettromagnetici che rivelavano l'intenzione dello squalo di attaccare. Solo quando i pesci sparivano era il caso di preoccuparsi. D'altra parte, ricordò Sharp a se stesso, l'Architeuthis non è uno squalo. Alzò la macchina fotografica al livello dell'oblò. 29. Gli occhi della creatura raccoglievano sempre più luce, e gli altri sensi registravano l'aumento delle vibrazioni nell'acqua. C'era qualcosa, poco distante, che si muoveva. Il suo sistema olfattivo non individuava segni di vita né conferme della presenza di prede. Se fosse stata meno affamata, la creatura avrebbe potuto agire con maggiore cautela: si sarebbe fermata nel buio ad aspettare. Però i bisogni del suo corpo sollecitavano il cervello a un comportamento temerario: continuò ad avanzare verso la fonte luminosa. Presto vide le luci, piccoli punti brillanti che perforavano il nero, e sentì in tutto il corpo le vibrazioni tambureggiami che la cosa emanava. Il movimento significava vita, e così pure le vibrazioni. Pertanto, sebbene non avesse ancora percepito precisi segnali di vita, decise che la cosa era vivente. Si lanciò all'attacco. 30. «La cosa non è quaggiù», disse Eddie. «Emersione.» Tirò la barra dei comandi. Sharp guardò il display digitale della profondità sulla console davanti a Eddie. Era tarato in metri e, mentre Sharp osservava, le cifre cambiavano... troppo lentamente, si disse; avrebbe voluto costringere i numeri a mutare più in fretta. Infatti la lettura passò da 970 a 969 metri. Sospirò massaggiandosi gli alluci, e si domandò se non erano congelati. All'improvviso la capsula sobbalzò e si inclinò su di un fianco. Sharp, in ginocchio, perse l'equilibrio e cercò di afferrarsi a qualche cosa per non
cadere. La capsula si raddrizzò e riprese a salire. «Che diavolo era?» domandò. Eddie non rispose. Stava chino in avanti, con le spalle contratte. Stephanie premeva la schiena contro la paratia e puntava le mani contro il pavimento. «Che cos'era, Eddie?» «Non ho visto», rispose Eddie. «Ho avuto l'impressione di colpire una sacca d'aria, come se una nave fosse passata sopra di noi.» «Vuoi dire una corrente?» «Escluso», disse la voce di Darling dall'altoparlante. «Non ci sono correnti là sotto.» Fece una pausa. «C'è qualcosa.» Appena la sua mente ebbe registrato le parole di Darling, Sharp sentì un peso dentro di sé, come se avesse un sacchetto di sassi nello stomaco. Dio mio, si disse, ci siamo. Vide che la sua macchina fotografica era rotolata sul pavimento. La raccolse e, mentre verificava la regolazione e aggiustava la messa a fuoco, sentì che le sue dita non funzionavano bene. Tremavano e parevano indipendenti l'una dall'altra, indifferenti ai messaggi che provenivano dal cervello. Una goccia di sudore cadde dalla punta del suo naso sull'obiettivo, e lui l'asciugò con un lembo della camicia. Guardò Stephanie. Gli voltava la schiena, tenendo l'obiettivo del proprio apparecchio contro l'oblò. Poi premette il pulsante, e il motore trascinò la pellicola per una dozzina di scatti nel giro di due secondi. «Fa qualche foto, Marcus», gli disse di sopra la spalla. «Di che cosa?» domandò lui. «Non vedo niente.» «L'obiettivo è un fisheye: ha un'angolazione maggiore di quella del tuo occhio. Forse lui vedrà qualcosa.» Prima che Sharp potesse replicare, la capsula ebbe un altro scossone, molto forte, e sbandò a sinistra. Un'ombra passò davanti alle luci, le oscurò e scomparve. «Maledizione!» urlò Eddie, e azionò la leva per raddrizzare la capsula. Sharp appoggiò la macchina fotografica all'oblò e premette il pulsante, fece avanzare manualmente la pellicola e scattò di nuovo. La capsula stava di nuovo salendo. Sharp lesse la profondità: 960 metri, 959, 958... 31. Il calamaro gigante si muoveva veloce nel buio, colto da un parossismo
di rabbia e di frustrazione. I suoi tentacoli scattarono con gli uncini eretti, poi si avvolsero e si distesero di nuovo, come se volessero frustare il mare. I colori della creatura passarono dal grigio al marrone al rossiccio e al rosa, poi di nuovo al bianco cenere. Era passata una volta sopra la cosa illuminata per valutarla; poi aveva tentato di ucciderla, benché i segnali che essa emetteva fossero vaghi e incerti. La cosa era risultata dura, una corazza impenetrabile, e aveva reagito all'attacco con movimenti energici e suoni alieni. Poiché l'aggressione non aveva prodotto un'incoraggiante fuoruscita di sangue o una lacerazione di tessuti, il calamaro non aveva insistito nell'attacco. Si era spostato alla ricerca di altro nutrimento. Però le sue cellule non erano abituate a essere respinte. I suoi succhi gastrici avevano cominciato a fluire pregustando il pasto, e adesso mettevano la creatura in uno stato di dolore, confusione e rabbia. Si mosse attraverso l'acqua alla ricerca di cibo, qualunque cibo, dirigendosi lentamente verso l'alto, a grande distanza dalla luce che si ritirava, ma senza darle la caccia. La seguiva. 32. «C'era qualcosa», disse Stephanie uscendo dal portello e sedendosi sul bordo. Sorrise a Darling e Hector che stavano in coperta. Sharp si strinse nelle spalle per passare attraverso il portello e sedette accanto alla ragazza. Inspirò profondamente gustando l'aria fresca... e la salvezza. «L'avete vista?» domandò Hector. «Abbiamo visto le creature più incredibili del mondo, saranno state più di un milione», disse Stephanie. «Esseri di cui non immaginavo l'esistenza, e che certamente non ho mai fotografato prima d'ora.» «No, alludo alla cosa che vi ha sbatacchiati là sotto. Chi ha fatto sbandare la capsula?» «Non lo so, non l'ho proprio vista.» «Nemmeno io», disse Sharp guardando Darling. «E tu, hai notato qualcosa sul video, Whip?» «Soltanto un'ombra», rispose Darling, e si mise a girare intorno al minisub, esaminandolo e toccando la vernice qua e là. Eddie, che era stato il primo a uscire dalla capsula e stava aiutando i due
marinai ad assicurarla al supporto, disse: «Qualunque cosa fosse, non voleva attaccare il minisommergibile. Ha dato uno sguardo e poi se n'è andata per i fatti suoi». «Può darsi», ammise Darling. Aveva smesso di girare intorno alla capsula e stava toccando qualcosa. Sharp si chinò a guardare il punto in cui le dita di Whip palpavano la vernice. Vide cinque tracce lunghe più di mezzo metro. Qualcosa aveva raschiato la vernice e messo a nudo il metallo. «È la piovra, vero?» Darling annuì: «Sembra anche a me», disse. «Ebbene, se è stata lei, ci ha solo dato uno sguardo ed è ripartita.» «Saremo pronti per lei la prossima volta», disse Stephanie. «Devo regolare diversamente le videocamere.» Estrasse le gambe dal portello, si lasciò scivolare lungo la capsula e domandò a Eddie: «Quanto tempo abbiamo a disposizione?» «Quattro ore», rispose Hector dopo aver guardato l'orologio. «Dovremmo essere pronti a immergerci di nuovo alle tre e mezzo. Comunque non più tardi delle quattro.» Io no, pensò Sharp. Per oggi ho avuto abbastanza emozioni. «Io resto disopra», disse. «Ciò che posso vedere sui monitor basta largamente ad accontentare la Marina.» «Non potrebbe venire nemmeno se volesse», rispose Hector. «Lei è già stato escluso.» «Da chi?» Poiché Hector non rispondeva, Sharp guardò Darling e gli vide un'espressione di disgusto sul viso. Poi Darling si voltò a sputare dal parapetto. 33. Herbert Talley guardò il furgone malandato che si allontanava lungo il viale, poi si voltò ed entrò in casa. Attraversò il soggiorno, percorse un corridoio e aprì la porta della camera da letto di Manning. «Si alzi, Osborn», disse. La stanza sapeva di chiuso e di cognac. Talley andò alla parete opposta, aprì le tende e spalancò la finestra. Manning emise un brontolio. «Che ore sono?» chiese. «Quasi mezzogiorno. Ci vediamo sulla terrazza.» Mentre Manning si lavava i denti e si versava una tazza di caffè, Talley restò sulla terrazza a guardare la baia di Castle Harbour. Sopra l'aeroporto, a un paio di chilometri di distanza, un 747 si preparava all'atterraggio.
Quando il pilota inserì gli inversori di spinta, il sibilo fu così forte da far tremare il cucchiaino nella tazza di Talley. Che cosa aveva di speciale Tucker Town, si domandò Talley, per indurre la gente ricca e famosa a comperare e ristrutturare enormi case praticamente ammucchiate l'una contro l'altra, godendo, per di più, del discutibile privilegio di udire venti volte al giorno quel rumore assordante? L'esclusività, si rispose: il cancello al fondo del viale con la scritta: «Privato». Manning uscì in accappatoio dalla cucina, portando la propria tazza. «Che succede?» domandò. «Quel pescatore, quel Frith. È stato qui. Ha ascoltato qualche dialogo interessante alla radio circa un'ora fa, tra una nave di ricerca e la base della Marina. Un certo tenente Sharp stava facendo rapporto.» «Ebbene?» Manning era nervoso e impaziente, e i fumi dell'alcool non miglioravano la situazione. Quando vide Talley sorridere e prendere tempo, sbottò: «Maledizione, Herbert, la smetta di fare il furbo. Che sta succedendo?» «La nave si chiama Ellis Explorer. Ha un minisommergibile a bordo. È qui per cercare l'Architeuthis. Credo che l'abbiano trovato, anche se non ne sono completamente sicuri.» «Ellis», mormorò Manning. «Barnaby Ellis?» «Non so, ma credo di sì. La questione, Osborn, è che il calamaro gigante si trova qui e ha ancora fame. E c'è una nave attrezzata per portare gente negli abissi marini. Da quel minisub potremmo vedere la bestia, studiarla, filmarla, saperne di più. E lei potrebbe ucciderla, se...» «Se cosa?» lo interruppe Manning. «Se potessimo salire a bordo. Lei ha il potere, Osborn. Questo è il momento di usarlo.» Manning era incerto. Rifletté brevemente, poi si alzò e rientrò in casa. Talley lo udì premere i tasti del telefono. Talley andò fino al bordo della terrazza e guardò in basso, verso la grande piscina ovale. Sull'orlo della piscina c'era una bombola da sub completa di cinghie e di erogatore. Talley intuì che era lì da parecchi giorni - se non da diverse settimane - perché era coperta di aghi di pino, e una salamandra si era fatta il nido tra le cinghie. Si chiese se la bombola era appartenuta a uno dei figli di Manning, e se il padre l'aveva lasciata dov'era come una specie di macabro monumento alla memoria. Talley cominciava a essere irrequieto. Manning passava le serate in compagnia della bottiglia, e Talley sentiva che la collera viscerale dei pri-
mi giorni, per colpa dell'inerzia e del disappunto, si stava trasformando in disperazione. Lo sentì parlare al telefono e pensò: «Meno male, forse torneremo a fare qualcosa». Manning uscì e disse: «Tutto a posto. Ho parlato a Barnaby in persona. La nave è qui per conto di una delle sue riviste. Ha accettato di escludere la sua gente e darci un'opportunità domani». «Domani?» obiettò Talley. «Perché non oggi? Frith mi ha detto che ci sarà un'immersione questo pomeriggio.» «Il minisommergibile è al completo. Il governo di Bermuda ci manda qualcuno dei suoi. Sembra che abbiano un piano per uccidere la piovra.» «Come?» Talley si sentì un attacco di nausea. «Come pensano di poter uccidere quella bestia?» «Non ne ho idea», rispose Manning, «ma non me ne preoccuperei.» «Come può essere così indifferente? Lei ha speso...» «Credo che abbiano una probabilità su un milione», rifletté Manning. «Perché?» «Perché il master mandato dal governo per questa caccia alla piovra è il suo amico Liam St. John.» 34. Sharp e Darling stavano sul ponte d'osservazione e guardavano St. John scaricare il suo materiale dalla barca dell'acquario. C'erano quattro casse d'alluminio, due scatole di pesce fresco e una trappola per pesci modificata, di circa novanta per novanta centimetri, fatta di fil di ferro e di tondino d'acciaio. St. John si consultò con Eddie e Stephanie. Eddie chiamò due uomini dell'equipaggio che portarono le casse nel minisommergibile e si misero a fissare la gabbia metallica sulla sommità della capsula, davanti al portello. Stephanie salì all'ala di plancia. «Questo dovrebbe essere interessante», disse. «Ha perfino messo in agitazione Hector, ed è tutto dire.» Additò il ponte di poppa, e videro Hector che seguiva St. John rivolgendogli delle domande. Darling guardò Stephanie. «A volte c'è un motivo per cui certe cose non sono mai state fatte, ed è che non possono essere fatte», disse. «Lo so», convenne Stephanie, «ma questa non mi sembra impossibile. Rischiosa, ma non impossibile.»
«Credi che ci sia qualche probabilità?» domandò Sharp. «Sì. E non c'è dubbio che si sia portato esca in quantità industriale. Cinquanta chili di tonno fresco dovrebbero richiamare tutti gli esseri che vivono là sotto e tenerli occupati abbastanza a lungo per ciò che noi dobbiamo fare.» «Come crede che voglia ammazzarlo?» domandò Darling. «Con due armi», disse Stephanie indicando i bracci meccanici del minisommergibile. «Sono attaccate entrambe ai bracci, e lui può azionarle dall'interno della capsula. Una è un fucile subacqueo caricato con una siringa che contiene abbastanza stricnina per uccidere un elefante. L'altra è una lupara subacquea: spara proiettili calibro 12 caricati con gocce di mercurio, che si dilatano come shrapnel velenosi. Non so molto sul calamaro gigante, ma mi sembra che St. John disponga di una potenza di fuoco sufficiente per ammazzarlo due o tre volte. Anche Eddie la pensa così.» «Capisco che a lei sembri tutto sensato», disse Darling, «ma non avete tenuto conto del fatto che questa bestia non conosce il buon senso. Non gioca secondo le nostre regole. Fa lei le regole.» «Anche questo è stato considerato», precisò Stephanie. «In che modo?» «Se le armi non la uccidono, St. John è convinto che la piovra si avvolgerà intorno alla capsula. In questo caso potrebbe essere portata in superficie con il cavo di alaggio ed essere uccisa quassù.» «Santo Dio, ragazza», esclamò Darling. «È come cercare di catturare una tigre infilandole un braccio nelle fauci e gridando: 'L'ho presa!' Non sa che razza di animale è?» «Comunque non potrà stritolare il sommergibile», disse Stephanie. «A me sembra una buona idea.» «Per me, invece, è una completa idiozia», rispose Darling e scese dal ponte. «Non andare sotto», disse Sharp a Stephanie quando Darling se ne fu andato. «Lascia che St. John ci provi da solo. Potrai andare con l'immersione successiva.» «Sei gentile a preoccuparti per me, Marcus», rispose la ragazza carezzandogli una guancia. «Ma voglio andarci. Sono qui per questo.» Darling andò in plancia, chiese a Hector il permesso di usare la radio e chiamò il Privateer, che a quel punto era finito un miglio a nord. La risposta di Mike non fu immediata. Darling pensò che fosse a poppa,
a sonnecchiare o lavorare alla pompa. «È solo una chiamata di controllo, Mike», gli disse. «Sei sveglio?» «A fatica. Va bene se metto in acqua una lenza e cerco di procurarmi qualche pesce azzurro?» «Sicuro, ma prima vieni qui con la barca. Fermati a duecento metri, spegni il motore e lasciala derivare. Così sarai in condizione di vedere i movimenti del sottomarino.» «Okay. Quando lo immergono di nuovo?» «Fra circa un'ora. Ah, Michael, quando sarai qui cerca di non sonnecchiare. Ti voglio all'erta e in piena efficienza. Potremmo aver bisogno di te.» «Roger, Whip», confermò Mike. «Privateer rimane in ascolto.» 35. Mike disinserì la marcia e mise il motore in folle. Guardò la superficie del mare e cercò di valutare la distanza dalla nave. Centocinquanta metri, si disse, forse duecento. Quasi quella giusta. Spense il motore. Prese il binocolo dalla mensola davanti alla ruota del timone e lo mise a fuoco sul minisommergibile. Il portello era aperto, e la gente continuava ad armeggiare con i bracci meccanici. C'era ancora un sacco di tempo. Andò a poppa e tagliò in due lo sgombro che aveva messo al sole a scongelare. Attaccò due ami su una lenza, infilò mezzo sgombro su ciascuno, poi fissò un piombo di zavorra all'estremità della lenza e la gettò in acqua. Lasciò scorrere il filo tra le dita finché giudicò che gli ami fossero a trenta metri di profondità. Poi la fermò e rimase appoggiato al parapetto, tenendo il filo tra le dita e dando qualche strappo ogni tanto per dare alle prede potenziali l'impressione che ci fosse un pesce vivo in difficoltà. Vide ai propri piedi il secchiello in cui c'era stato lo sgombro. Era pieno a metà di acqua sporca di sangue, di scaglie e di pezzetti di carne. Prese il secchiello, versò il contenuto fuori bordo e osservò la piccola chiazza di sangue e olio che si formava a poppa. Passati cinque minuti senza che nulla abboccasse, gli venne in mente che forse i pesci erano molto più in basso o molto più in alto delle esche. Lo scandaglio radar era ancora acceso: tanto valeva usarlo e vedere se gli dava qualche suggerimento. Assicurò la lenza a una galloccia ed entrò nella timoniera. Lo schermo presentava un quadro caotico. Mike non aveva mai visto
una confusione del genere. Se non avesse saputo con certezza di essere su acque profonde novecento metri, avrebbe giurato che la barca era in secca. Sembrava che una parte degli impulsi emessi dall'apparecchiatura rimbalzassero dietro la barca, mentre altri seguivano il loro corso venendo però deviati verso il profondo. Lo schermo era pieno di scintillii indistinti. Forse qualche cosa era rimasta incastrata nel bulbo sotto la chiglia che conteneva il trasponditore dell'apparecchio. Quando fossero ritornati a riva, si sarebbe armato di bombola e maschera e sarebbe andato a dare un'occhiata alla chiglia. O forse l'apparecchio si era guastato. Ormai tutte le cose erano fatte di chips, di circuiti stampati e di cose magiche e invisibili, che soltanto i giapponesi, attraverso i microscopi, riuscivano a capire; pertanto era impossibile per un uomo normale guardare un congegno elettronico e cavarne una diagnosi accettabile. Decise che, appena finito di pescare, quando il minisub fosse stato sott'acqua, avrebbe tolto il pannello per vedere se per caso non si trattava di un problema da poco, per esempio di un filo staccato. Ritornò a poppa, prese la lenza e si rese subito conto che qualcosa non andava; era troppo leggera. Il peso si era staccato, e probabilmente anche gli ami e le esche. Imprecando, cominciò a riavvolgere il filo. 36. La creatura espulse un gran volume d'acqua dall'imbuto e si lanciò attraverso l'acqua azzurra cercando la sottile traccia di odore di cibo che aveva trovato, perduto, ritrovato, e poi perso definitivamente. Non si sentiva bene così vicina alla superficie. Non era avvezza all'acqua calda e non ci si sarebbe trattenuta se non fosse stata mossa dalla fame. Aveva trovato due pezzi di cibo e li aveva deglutiti, poi si era fermata nell'ombra fredda di qualcosa che stava al disopra. Però si era sentita martellare da un fascio di impulsi irritanti provenienti da quella cosa, perciò si era spostata di nuovo. Scese dall'acqua blu a quella verde-blu, poi risalì nel mondo azzurro. Non trovò alcunché. Però, quanto più saliva, quanto più si avvicinava alla superficie, tanto più promettente sembrava l'acqua. Non conteneva sostanza, ma vibrava di impulsi che stuzzicavano acutamente la piovra, come se l'acqua vicino alla superficie contenesse dei residui di cibo.
Salì ancora più in alto, avvicinandosi a un oggetto scuro sovrastante, e gli andò contro muovendo grandi masse d'acqua davanti e dietro di sé. 37. Dannati squaletti, pensò Mike mentre esaminava l'estremità della lenza. Abbandonala per un momento, e quelli arrivano di soppiatto e la tranciano con un morso. La barca si alzò sotto di lui, come se la sollevasse un maroso improvviso, e Mike staccò gli occhi dalla lenza e guardò il mare piatto. Strano che l'onda decumana potesse comparire in quel modo, dal nulla. Vide in lontananza la gru dell'Ellis Explorer alzare il minisommergibile dal supporto e farlo oscillare fuori bordo. Quanto tempo impiegava il minisub a toccare il fondo? Mezz'ora, gli avevano detto. Aveva ancora il tempo di mettere in acqua un'altra lenza. Questa volta, però, non l'avrebbe lasciata, l'avrebbe tenuta in mano e, se qualche squaletto avesse tentato di attaccarla, avrebbe avuto una brutta sorpresa. Mike prese un nuovo cavetto di acciaio dalla scatola portaoggetti a mezzanave, si accucciò vicino al parapetto e alzò l'amo da squali e l'estremità del cavetto per vederci meglio mentre cercava di infilarlo nell'occhio dell'amo. La prima volta lo mancò. Sto invecchiando, si disse, presto avrò bisogno degli occhiali da nonnetto. Ci fu un vago rumore dietro di lui, un suono strusciante. Una parte della sua mente lo registrò, ma lui era concentrato a infilare il cavetto. Questa volta ci riuscì. «Fatto», esclamò. Udì di nuovo quel suono, ma più vicino, e anche un rumore raschiante. Si voltò in quella direzione. Aleggiava anche un odore, familiare, ma non riuscì ad associarlo a nulla. All'improvviso il mondo di Mike divenne buio. Aveva delle cose avvolte intorno alla testa e al petto, cose strette e umide. Le mani di Mike tentarono di afferrarle, ma scivolarono. Intanto la stretta si faceva più forte. Sentì un dolore, come se mille punteruoli da ghiaccio gli forassero la carne. Mentre sentiva i suoi piedi staccarsi dalla coperta e tutto il suo corpo veniva alzato in aria, si rese conto di ciò che gli era successo. 38.
Andy sedeva alla console nella sala di controllo. Darling stava dietro di lui, con il set auricolari-microfono; al suo fianco c'era Sharp. Poiché erano in funzione solo due videocamere, i primi due monitor erano spenti. Il terzo mostrava l'interno della capsula: Eddie teneva la barra multifunzione e guardava dall'oblò anteriore, St. John controllava i comandi dei bracci, Stephanie regolava l'obiettivo di una delle sue macchine fotografiche. Il quarto monitor presentava la scena all'esterno della capsula: l'aureola luminosa delle lampade, la cascata di plancton, i vortici rossi evanescenti del sangue di pesce colato dalla gabbia e portato via dalle correnti. Ogni tanto un pesce piccolo sfrecciava davanti alla telecamera, frenetico e furioso per non essere riuscito a passare attraverso la rete metallica da cui giungevano le tracce di cibo così invitanti. «Ottocentoquaranta metri», disse Andy. «Sono quasi arrivati.» Videro avvicinarsi il fondale. La turbolenza prodotta dall'elica alzò il fango e formò una nube che oscurò gli obiettivi delle telecamere. La capsula si assestò, e la nuvola cominciò a dissiparsi. Improvvisamente un'ombra passò rasente al fondale, sparì, poi ricomparve diretta nel senso opposto. «Squalo», disse Darling. «Liam non ha previsto gli squali. Questo andrà probabilmente a cercare l'esca.» L'immagine sul monitor vibrò a causa dell'oscillazione della capsula. Udirono St. John domandare: «Che cos'è?» «Uno squalo, dottore», disse Andy nel microfono. «Soltanto uno squalo.» «Fate qualcosa, allora!» esclamò St. John. Darling rise. «Liam, siamo a mezzo miglio di distanza, Che cosa vuole che facciamo?» Andy premette un pulsante, poi spostò un cursore a leva. Il monitor della telecamera esterna sembrò scrutare intorno, poi guardare verso l'alto. Adesso potevano vedere la gabbia di rete metallica. «È uno squalo capopiatto», disse Darling. «Piuttosto raro.» Era color cioccolato, con occhi verdi che brillavano e sei fessure branchiali vibranti. Mordeva l'angolo della gabbia e ruotava il corpo prima da una parte e poi dall'altra, tentando di lacerare la rete metallica. Pesci più piccoli sostavano sullo sfondo, simili ad avvoltoi che si preparassero a reclamare la loro parte del festino. «Perché non sono fuggiti, quei pesci?» domandò Sharp. «Credevo che si tenessero lontano dagli squali in caccia.»
«In questo momento lo squalo è concentrato», spiegò Darling, «e non su di loro. Gli altri lo capiscono. Sta emettendo segnali elettromagnetici che quei pesci decodificano con assoluta chiarezza. Se lo squalo rinuncia a ciò che sta facendo e rivolge l'attenzione su di loro, oppure se ne arriva un altro, sta' pur sicuro che li vedrai sfrecciare via.» Sull'altro monitor vedevano St. John strisciare in avanti e impugnare le leve che comandavano uno dei bracci meccanici. Incassato nel pannello di controllo c'era un monitor in bianco e nero da quattro pollici che ripeteva le immagini viste dalla camera esterna. Con la stessa perizia di un chirurgo che esegue un'artroscopia, St. John inclinò una leva: il braccio si fletté. Spinse l'altra: il braccio si alzò e ruotò, puntando verso la gabbia metallica la siringa montata sull'asta del fucile subacqueo. «Oh-oh», esclamò Darling. Premette il pulsante di trasmissione e parlò nel microfono. «Non lo faccia, Liam. Lasci tranquillo quel maledetto squalo.» La voce di St. John rispose dall'altoparlante: «Perché devo permettergli di prendersi l'esca?» «Ascolti. Non può portare via la sua gabbia. Un capopiatto non ha denti adatti a lacerare. La torcerà, la piegherà, ma non può distruggerla.» «Questo lo dice lei.» Darling sospirò, cercando un altro modo per convincerlo: «Senta, Liam, se lei vuole suicidarsi, è affar suo, ma ha altre due persone a bordo che forse non sono altrettanto ansiose di andare a suonare l'arpa in paradiso». Videro Stephanie avvicinarsi a St. John e la udirono dirgli: «Dottore, se lei spreca una delle sue armi su uno squalo, dimezza le sue probabilità». «Non si preoccupi, miss Carr», rispose St. John. «Ne restano più del necessario per compiere la missione.» Videro su un monitor St. John premere il pulsante che comandava il grilletto; sull'altro monitor comparve una scia di bolle dietro l'asta sparata dal fucile subacqueo, che colpì lo squalo proprio dietro le fessure branchiali. Per qualche secondo lo squalo non sembrò accorgersi della ferita. Poi, all'improvviso, il suo corpo si arcuò, la coda e le pinne pettorali s'irrigidirono, la bocca si staccò di colpo dalla gabbia e rimase spalancata. Rigido e scosso da fremiti, lo squalo restò sospeso nell'acqua, poi virò a destra come un aereo da caccia che si stacca dalla formazione. Infine ruotò su se stesso, rimbalzò su un fianco della capsula e cadde nel fango. I pesci piccoli si avvicinarono, girando curiosi intorno al cadavere, poi tornarono a rivolgere la loro attenzione all'esca nella gabbia.
Su uno dei monitor si vide Stephanie premere l'apparecchio fotografico contro l'oblò e scattare fotografie. «Uno squalo morto non richiama altri squali?» domandò Sharp. «No», rispose Darling. «Sotto questo aspetto gli squali sono strani. Si uccidono fra loro, ma se uno di essi muore, si tengono a distanza. Si direbbe che siano in grado di leggere in lui la propria morte.» Darling si fermò a riflettere e guardò lo schermo. «Alcune cose rifiutano di avere a che fare con la morte», disse. «Altre vivono e prosperano su di essa.» 39. Il calamaro gigante si era nutrito ma, dopo una privazione così prolungata, le proteine che aveva assunto non avevano soddisfatto la sua fame, anzi l'avevano stimolata, innescando l'avidità di averne di più. Perciò la bestia continuò a cacciare. All'improvviso i suoi sensi furono aggrediti da segnali nuovi e contrastanti. Erano segnali di cibo: di prede vive, di prede morte, di luce, di movimento, di suono. Si mise a scorrazzare avanti e indietro, confusa, famelica, aggressiva e difensiva al tempo stesso. Si mosse verso l'alto cercando la fonte di quella confusione, ma non trovò alcunché. Allora si lasciò andare in basso, verso il fondale soffice. I bastoncelli nei suoi occhi individuarono bagliori di bioluminescenza in piccoli animali vicini, ma la bestia li ignorò. Poi vide trapelare sempre più luce. Agitata, captando tanto l'opportunità quanto il pericolo, immise acqua nel proprio corpo e poi la espulse con violenza, slanciandosi lungo il fondale. A mano a mano che la bestia si avvicinava alla fonte luminosa, la luce si faceva più cruda, più repellente. L'esperienza suggerì alla creatura di ritirarsi nella tenebra, ma i suoi sensori olfattivi cominciarono a ricevere ondate forti e incalzanti di sentore di cibo: preda uccisa di fresco, ricca e nutriente. La fame spinse la bestia a muoversi. Si alzò dal fondo, sopra la luce, e si lasciò trasportare nel buio dietro di essa. Si fermò lì, dove i segnali di minaccia erano scomparsi, e dove poteva concentrarsi sul sentore della preda in basso. Discese. 40.
Sharp sbadigliò, si stirò le membra e scrollò la testa; faceva fatica a stare sveglio. Stavano seguendo l'immersione da più di un'ora e non c'era stato movimento su nessuno dei due monitor. L'effetto era ipnotico. Nel minisommergibile, Stephanie, St. John ed Eddie non avevano praticamente scambiato una parola e non si erano mossi. Stephanie aveva scattato qualche foto degli animali strani che comparivano davanti al suo oblò, ma adesso stava inginocchiata a osservare. St. John guardò la videocamera nel sommergibile e domandò: «Da quanto tempo siamo immersi?» «Da novanta minuti», rispose Andy dalla sala di controllo. St. John annuì e tornò a guardare fuori. La videocamera esterna era stata regolata di nuovo, e adesso mostrava l'immagine dello squalo morto, che giaceva a pancia in su nel fango. In precedenza una lampreda marina si era diretta verso il corpo dello squalo e aveva cercato di scavarvi un buco, ma la pelle era troppo dura; pertanto il pesce aveva rinunciato ed era partito alla ricerca di prede più facili. La porta della sala di controllo si aprì e Darling entrò portando due tazze di caffè. Ne diede una a Sharp e disse: «Non ho trovato della panna decente, e allora... accidenti!» «Cosa?» disse Sharp, seguendo lo sguardo di Darling sui monitor. «I pesci. Se ne sono andati.» Mentre Darling si metteva la cuffia-microfono e armeggiava cercando il pulsante di trasmissione, Sharp capì il motivo del suo allarme. Nessuna creatura abissale pattugliava la soglia delle tenebre, nessun pesce si aggirava intorno allo squalo abbattuto, nessun piccolo mangiatore di carogne inghiottiva i pezzettini di tonno usciti dalla gabbia. «Liam!» gridò Darling attraverso il microfono. «Stia attento!» Si udì un suono soffocato, poi uno raschiante, uno scricchiolio non dissimile da quello che produce una nave nell'arenarsi. Poi la capsula fu sollevata e inclinata in avanti. Sulla telecamera interna si videro Stephanie e St. John precipitare addosso a Eddie, e rotolare tutti e tre sulla console di controllo. La telecamera esterna non faceva vedere altro che fango. Eddie imprecò, St. John impugnò le leve del braccio meccanico e tentò di azionarle. «Il braccio è bloccato dal fango!» urlò. «Accelerate!» ordinò Darling a Eddie. «L'elica disturberà la bestia.» Videro Eddie tirare la barra e aumentare il regime del motore; udirono prima il sibilo, poi lo stridore del regime massimo di giri.
La capsula si raddrizzò, liberando il braccio meccanico. «La videocamera!» gridò St. John. Eddie azionò i comandi della videocamera esterna, mentre St. John fletteva e alzava il braccio meccanico, tenendo il dito sul grilletto dell'arma. Sul monitor si vide la telecamera che ruotava per osservare le acque tutto attorno. Il fango fu sostituito dall'acqua; ci fu un movimento indistinto su un lato della capsula, poi a... «Che diavolo era?» esclamò Sharp. Sul monitor si vide una serie di cerchi di un grigio rosato, ciascuno vibrante sul proprio peduncolo, ciascuno irto di denti e munito di un artiglio color dell'ambra. «Cattive notizie, ecco che cos'era», rispose Darling, e gridò nel microfono: «Spari adesso, Liam!» Poi lo schermo fu vuoto. La telecamera esterna era stata strappata dai supporti. La creatura stritolò la videocamera con un tentacolo e la gettò via. Tornò a occuparsi dei resti disfatti del cibo, con le otto braccia corte che frugavano e artigliavano alla ricerca di altro nutrimento per il becco vorace. Non c'era più nulla. La creatura era perplessa, perché tutta l'acqua era pervasa dal sentore del cibo. I sensi le dicevano che c'era del cibo, la sua fame ne esigeva, ma dov'era? Percepì una corazza grande e dura, che associò con l'odore del cibo. La avvolse con i due tentacoli lunghi e si accinse a distruggerla. «Non ci vedo!» gridò St. John. «Dov'è andata?» «Faccia fuoco, Liam!» urlò Darling. «Spari! Quella maledetta bestia è così grande che il colpo non può andare a vuoto!» Videro St. John azionare il grilletto per sparare con la lupara subacquea. «Il dardo non è partito!» gridò, continuando a tirare il grilletto. «Guardi!» urlò Stephanie additando l'oblò. «Nel fango. Il fucile subacqueo. La bestia l'ha strappato via.» Si vide la capsula sobbalzare e rollare. St. John scivolò e cadde su Stephanie, mentre Eddie si teneva attaccato ai comandi. Le immagini attraverso gli oblò si formavano e cambiavano come frammenti di vetro in un caleidoscopio: fango, acqua, luce, tenebra. La capsula sussultò di nuovo. Si udirono degli scricchiolii.
Guardando l'unico monitor attivo, Sharp si sentì sopraffatto dalla propria impotenza. «Dobbiamo fare qualcosa!» esclamò. «Per esempio?» domandò Darling. «Tirare su la capsula. Mettere in moto la gru. Forse il movimento spaventerà la bestia.» «Ci vogliono dieci minuti per alare il lasco del cavo. E loro non hanno dieci minuti a disposizione. Ciò che deve accadere, accadrà ora.» La creatura cercava un punto debole. Doveva esserci da qualche parte. Tutte le prede l'avevano. La cosa era grande metà della creatura e, pur essendo forte e densa, non combatteva. La creatura la sollevò senza difficoltà con i due tentacoli lunghi e poi la rivoltò tastandola alla ricerca di un punto debole, di una fessura. Poi la tirò a sé e l'avviluppò con le otto braccia corte. Aprì il becco e ispezionò la superficie con la lingua, lentamente, leccando, raschiando, frugando. «Che cos'è questo rumore?» domandò St. John a denti stretti. Dal suono si sarebbe detto che una lima stesse sfregando lo scafo. Adesso la capsula era capovolta, e i tre occupanti stavano inginocchiati sul soffitto tenendosi in equilibrio con l'aiuto delle mani. «Sta giocando con voi», disse Darling attraverso il microfono. «Come un gatto con un gomitolo. Se avete fortuna, si stancherà e vi lascerà tranquilli.» St. John inclinò la testa come se ascoltasse un altro suono. «Il motore si è fermato.» «Appena la creatura vi mollerà, vi tireremo su. Non ci vorrà più molto.» Sharp attese che Darling avesse rilasciato il pulsante di trasmissione e disse: «Lo credi davvero?» Darling meditò per qualche secondo, poi rispose: «No. Quell'essere maledetto troverà il modo di entrare». La lingua si muoveva come un serpente sulla superficie, esaminando la consistenza e cercando una fessura. Ma la superficie era tutta uguale: dura, insipida, inerte. La lingua, impaziente, tastò più in alto. Un segnale lampeggiò nel cervello e si spense. La lingua si fermò, rientrò, riprese a leccare più lentamente. Il segnale riapparve, stabile.
La consistenza era diversa; meno dura, più debole. Più accessibile. Stephanie doveva avere udito un rumore dietro di sé, perché sul monitor la videro voltarsi a guardare il suo oblò. Ciò che vide la fece arretrare, urlando. St. John guardò, e gli si fermò il respiro. «Cosa?» domandò Darling. «Sembra... una lingua», ansimò St. John. Andy cambiò l'angolo di ripresa della videocamera nel sommergibile e mise a fuoco l'oblò. Anche loro poterono vederla: una lingua. Leccava descrivendo dei cerchi, coprendo il vetro di carne rosa. Poi si ritrasse e mutò forma: divenne un cono e percosse il vetro. Produceva il suono di un martello che pianta dei rivetti. Poi la lingua si staccò, e per un momento l'oblò apparve nero. Ci fu uno stridore assordante. St. John prese una torcia elettrica dalla paratia e diresse il fascio di luce sull'oblò. Potevano vederne solo una parte, perché era più grande dell'oblò, molto più grande: un becco curvo come una falce, color dell'ambra, con la punta aguzza che premeva sul vetro. Stephanie si appiattì contro la paratia opposta, mentre St. John si inginocchiava in silenzio tenendo la torcia puntata sull'oblò. Eddie voltò il viso verso la telecamera gridando: «Maledizione!» Seguì uno scricchiolio e, dopo una frazione di secondo, un'esplosione d'acqua, un rimbombo, urla... infine il silenzio, mentre il monitor si spegneva. Continuarono a fissare in silenzio lo schermo vuoto. 41. Non appena si fu seduto nel taxi, Darling si tolse la cravatta e la mise nella tasca della giacca. Si sentiva soffocare. Abbassò il vetro del finestrino e lasciò che la brezza gli rinfrescasse il viso. Detestava i funerali. Anche gli ospedali. Non solo perché erano associati alla malattia e alla morte, ma perché rappresentavano la perdita definitiva del controllo. Erano la prova dell'esistenza di un punto debole nel precetto che lui aveva adottato come norma della sua vita: un uomo intelligente e attento può sopravvivere calcolando i rischi e astenendosi dal superare una
certa linea. Gli ospedali e i funerali dimostravano che, talvolta, quella linea si spostava. Inoltre, Darling pensava che i funerali fossero inutili per il morto, e servissero soltanto a gratificare i vivi. Mike la pensava come lui. Molto tempo prima avevano stipulato un patto: se uno dei due fosse morto, l'altro l'avrebbe sepolto in mare, senza cerimonie di sorta. Ebbene, Mike era sepolto in mare, su questo non c'era dubbio, ma non nel modo che avevano previsto. Era stata una cerimonia semplice, cui avevano partecipato solo Darling e la famiglia di Mike. Avevano cantato un paio di inni e un prete portoghese aveva detto qualche parola. Non c'erano state domande, recriminazioni o discussioni su ciò che era successo, tutt'altro. La vedova, i suoi due fratelli e le sue due sorelle avevano avuto il loro da fare per consolare Darling. Naturalmente, ciò lo aveva rattristato ancora di più. Non aveva detto loro la verità su come era morto Mike. Lui e Sharp erano i soli a conoscerla, e nessuno aveva motivo di sospettare che le cose fossero andate diversamente. Darling e Sharp non avevano ritenuto utile raccontare ai congiunti di Mike una storia che li avrebbe perseguitati per il resto dei loro giorni. Pertanto Darling aveva detto che Mike era caduto in mare ed era affogato: forse aveva battuto la testa sulla plancetta sotto il barcarizzo ed era svenuto. Avevano raccontato la stessa versione alla polizia, senza alcun rimorso per avere nascosto la verità. Le videocassette dell'immersione contenevano scene di massacro più che sufficienti a soddisfare un'orda di ghouls, i fantasmi divoratori di cadaveri. Una vittima in più sarebbe stata irrilevante. Darling, quando non aveva avuto risposta dal Privateer, aveva deciso che avrebbe fatto una tremenda lavata di capo a Mike per essersi addormentato mentre era di guardia. Lui e Sharp avevano preso in prestito lo Zodiac di Hector e avevano attraversato a gran velocità lo specchio d'acqua che li separava dal motopeschereccio. Sharp era ancora sotto shock, sembrava uno zombie. Ma quando avevano scoperto che Mike non era a bordo, si era ripreso in fretta. Per i primi quindici o venti minuti avevano creduto che fosse caduto in mare. Avevano verificato il flusso della corrente e la deriva della barca, e avevano perlustrato un miglio o più di oceano con il veloce e manovrabile Zodiac. Poi si erano resi conto di aver bisogno dello spazio e della prospettiva che potevano avere solo dall'alto del flying bridge del Privateer, ed erano ritornati al motopeschereccio. Mentre si avvicinavano da dritta, ave-
vano visto i graffi nella vernice. Quando, saliti a bordo, avevano fatto correre le mani sulla paratia, avevano sentito sotto le dita la melma rivelatrice e fiutato l'odore che ormai conoscevano. Darling, com'era ovvio, non si trovava sulla barca al momento dell'incidente ma, anche se ci fosse stato, non avrebbe potuto fare granché. Però il senso di colpa non lo abbandonava, anzi cresceva. Sapeva che quel suo stato d'animo era in massima parte irrazionale, ma sentiva che conteneva un nucleo di verità. Mike non era mai stato capace di prendere decisioni: aveva sempre aspettato che Darling gli dicesse qual era la cosa giusta da fare. Inoltre, non gli era mai piaciuto stare sulla barca da solo, e Whip sapeva anche questo. Basta, si disse. Non serve a niente. Il tassista aveva acceso la radio, che in quel momento stava trasmettendo il notiziario del pomeriggio, con altre tristi notizie sull'economia di Bermuda. Nella settimana successiva al disastro del sommergibile, il movimento turistico era diminuito quasi del cinquanta per cento. La gente faceva pressione sul governo affinché prendesse un'iniziativa per eliminare il mostro, ma nessuno aveva avanzato proposte concrete, e il governo continuava a consultare scienziati della California e di Terranova, che però non riuscivano a mettersi d'accordo tra di loro. La conclusione sperata da tutti era: prima o poi il calamaro gigante se ne andrà. Nessuno voleva più affrontare la bestia... nessuno, tranne il dottor Talley e Osborn Manning. Avevano scritto a Darling, avevano tentato di telefonargli, gli avevano inviato dei telegrammi. Avevano addirittura provato a convincerlo che, in un certo senso, era suo dovere morale aiutarli a uccidere la piovra, simbolo e sintomo dello squilibrio della natura. La distruzione della bestia avrebbe rimesso le cose in ordine. Avevano aumentato l'offerta a un livello tale che, se Darling avesse deciso di portarli sulla sua barca per un massimo di dieci giorni, avrebbe ricevuto centomila dollari. La sua risposta era stata della massima semplicità: che beneficio danno centomila dollari a un morto? Non gli era stato difficile respingere quella proposta generosa perché, dal suo punto di vista, entrambi gli interlocutori erano, ognuno a modo suo, pazzi furiosi. Manning era ossessionato dal desiderio di portare a termine una vendetta personale, mentre Talley voleva a tutti i costi dimostrare che la sua vita era servita a qualcosa. Darling venne a sapere che avevano anche preso contatto con la Marina.
Secondo Marcus, Manning si era rivolto a un senatore degli Stati Uniti, il quale aveva sottoposto il problema al Dipartimento della difesa. Quest'ultimo aveva chiesto l'opinione del capitano Wallingford sul modo migliore di raggiungere ed eliminare l'animale. La richiesta aveva messo Wallingford in stato di grande agitazione, in parte perché interpretava ogni richiesta del Pentagono come una critica, in parte perché era un codardo. Non voleva dispiacere a un senatore che forse un giorno avrebbe potuto aiutarlo a fargli cambiare l'aquila di capitano di vascello con la stella d'argento di commodoro. Pertanto Wallingford aveva riversato la propria insicurezza su Marcus, e aveva tentato di attribuire a lui tutta la colpa dell'insuccesso. Però l'indagine aveva scagionato Sharp e fatto cadere il biasimo ufficiale sui capri espiatori più facili, cioè sui morti: su Liam St. John, autore di quello che, con il senno di poi, era visto come un progetto sconsiderato e su Eddie, che aveva acconsentito ad attuarlo. Mentre il taxi svoltava nella Cambridge Road, il telegiornale giunse alla fine; Darling aveva notato che le parole «piovra» o «calamaro gigante» non erano state pronunciate nemmeno una volta. La sua preoccupazione immediata era quella di trovare il modo di guadagnarsi da vivere. Aveva deciso che era tempo di vendere la sua prediletta bottiglia massonica, e l'antiquario di Hamilton gli aveva comunicato che c'era un discreto interesse per quell'oggetto. Se fosse stato possibile mettere in concorrenza tra loro due acquirenti potenziali, forse Darling ne avrebbe ricavato qualche migliaio di dollari. Sapeva che, qualche tempo addietro, Charlotte aveva interpellato per lettera Sotheby's sulla possibilità di inserire in una delle loro aste la collezione di monete che aveva ereditato da suo padre. Darling pensava di esaminare a uno a uno gli oggetti che aveva in casa per vedere se c'era qualcosa di raro che valesse la pena di vendere. Detestava quell'idea, gli sembrava di separarsi da alcune parti del suo passato, o addirittura di se stesso, ma non aveva scelta. Gli restava comunque una speranza concreta: l'acquario lo aveva cercato e desiderava discutere un nuovo accordo. Ora che St. John non c'era più, la direzione poteva decidere secondo concetti pratici, e non per gratificare l'Ego di un unico individuo. L'incarico, se lo avesse ottenuto, avrebbe pagato il carburante. Però lui e Charlotte non potevano nutrirsi di gasolio. Il sentiero di terra battuta che portava alla casa di Darling era sbarrato da una catena. Lui pagò l'autista, scese dalla macchina e sganciò la catena. Mentre andava verso la casa notò l'auto di Dana parcheggiata nel viale.
Che cosa ci faceva a quell'ora del pomeriggio? Non lavorava? Qualcuno doveva lavorare, in famiglia. Fece una smorfia e pensò: magnifico, ancora un piccolo passo e sarai un vero parassita. Udì una voce che lo chiamava: «Capitano Darling!» Si voltò e vide Talley e Manning avanzare verso di lui. Manning era il primo, elegantissimo nel suo vestito grigio con camicia azzurra e cravatta a righe; portava una ventiquattr'ore. Lo seguiva Talley, il cui aspetto diede a Darling l'impressione che fosse nervoso e a disagio. «Che cosa volete?» domandò Darling. «Parlare con lei», rispose Manning. «Non ho niente da dire.» Si voltò e ripartì verso casa. «Parli con noi adesso, capitano», disse Manning, «o dovrà parlare fra qualche giorno in tribunale.» Darling si fermò. «In tribunale?» disse. «Che tribunale? Non avete niente di meglio da fare che minacciare la gente?» «Non ho minacciato nessuno, capitano. Ho solo enunciato un fatto.» «Okay. Reciti la sua battuta e se ne vada.» «Non potremmo», propose Manning facendo un gesto verso la casa, «andare a sederci e discutere la cosa da...» «Non sono una persona civile, signor Manning. Sono un pescatore che ne ha le scatole piene ed è mortalmente stufo di sentirsi dire...» «Come preferisce, capitano. Il dottor Talley e io le abbiamo già fatto quella che reputiamo un'offerta generosa in cambio della sua collaborazione. Alla luce dei fatti recenti, siamo disposti ad aumentare l'offerta.» «Gesù Cristo, signor Manning, non ha ancora capito che razza di nemico desidera affrontare? Non sa che...» «Sì, capitano, lo sappiamo. Però siamo convinti di poter uccidere il calamaro gigante. Non noi due da soli, non lei da solo, ma noi tre insieme.» «Ucciderlo? Forse potrete vederlo, ma in tal caso sarà l'ultima cosa che vedrete in questa vita. Ucciderlo? Non c'è nemmeno una probabilità. Non vedo come si possa avere la meglio su quell'animale.» «Capitano», disse Talley, «mi permetta...» «Zitto, Herbert», sbottò Manning. «Le parole non serviranno a convincerlo.». Si rivolse a Darling. «Un'ultima offerta, capitano. Se lei ci porta sulla sua barca a dare la caccia al calamaro gigante, io le verserò duecentomila dollari. Se non lo troveremo - se l'animale se ne fosse andato, se non riuscissimo a trovarlo - i soldi saranno suoi ugualmente. Il suo unico impegno sarà di fare uno sforzo onesto e in buona fede.»
«Lei continua a credere che bastino i soldi», ribatté Darling. «Ebbene, non bastano. Si ubriachi, se può darle sollievo. Preghi per i suoi figli, offra a nome loro del denaro a una buona causa. Almeno i soldi serviranno a qualcosa.» Manning guardò Talley; Darling notò che lo scienziato chiudeva gli occhi ed emetteva un sospiro. «È la sua ultima parola?» domandò Manning. «La prima, l'ultima... la chiami come preferisce.» «Mi dispiace, capitano, ma lei non mi lascia scelta. Abbiamo bisogno di lei. Lei è l'unica persona che possiede la capacità, la conoscenza e la barca adatta. Pertanto...» Manning esitò, poi riprese: «Ecco: la informo che entro dieci giorni da oggi lei dovrà consegnarmi un assegno circolare dell'importo di dodicimila dollari. Se non lo farà entro tale scadenza, avrà trenta giorni di tempo per trasferire la sua persona e i suoi averi fuori della sua casa». Darling fissò Manning e riascoltò mentalmente quelle parole. Poi guardò Talley, che stava osservando il suolo. «Aspetti un attimo», disse Darling. Forse non aveva capito esattamente, forse c'era un errore. «Chiariamo bene le cose. Se non la porto in mare io devo darle diecimila dollari; in caso contrario lei mi sbatte fuori di casa mia.» «Esatto. Vede, capitano, io sono il proprietario della sua casa... o, per essere preciso, lo sarò molto presto.» Darling rise. «Buona, come battuta. Fra poco mi dirà che lei è il mio trisavolo e che ha costruito la casa per me nel 1770.» Si voltò dicendo: «Mi sa che voi due fumate un allucinogeno molto potente». «Capitano...» Manning estrasse una cartellina dalla ventiquattr'ore e porse un pezzo di carta a Darling. «Legga questa.» L'atto era scritto in linguaggio legale, pieno di pertanto e di si conviene tra le parti. I soli elementi che Darling poté verificare erano il nome della casa, l'indirizzo, alcune cifre e una specie di cessione a favore di Osborn Manning. Forse Charlotte ci avrebbe capito qualcosa. «Devo andare a prendere gli occhiali», disse. «Lo faccia. Ma tanto vale che io la metta al corrente dei fatti. Sua moglie ha preso in prestito del denaro, usando la casa come garanzia. Ha tre mesi di ritardo nei pagamenti ed è stata avvisata due volte del rischio di essere dichiarata inadempiente. Ho rilevato la cambiale dal creditore. Entro dieci giorni precluderò il riscatto.»
«Stronzate», disse Darling guardando il documento. Quella carta non poteva dire tutte quelle cose, per il semplice motivo che quelle cose non potevano essere accadute. «Un pezzo di carta non significa nulla. Charlie non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Mai.» «L'ha fatta, capitano.» «Stronzate», ripeté Darling, poi andò verso la casa stringendo in pugno il documento. Charlotte e Dana sedevano insieme al tavolo di cucina. La porta a zanzariera sbatté alle spalle di Darling, che entrò con passo deciso dal corridoio. «È incredibile ciò che quel...» Si fermò quando vide in volto le due donne. Avevano pianto e ora, nel vederlo, ripresero a singhiozzare. «No», disse lui. «No.» E aggiunse: «Perché?» «Perché dovevamo vivere, William.» «Vivevamo. Avevamo da mangiare, avevamo il necessario.» «Avevamo da mangiare perché Dana ce ne portava. Come ho potuto pagare le bollette della corrente elettrica? Come ho potuto pagare le tasse della casa? Quando il freezer si è guastato e le tue esche si sono disfatte, come ho potuto farlo riparare? E la crepa nella cisterna... saremmo rimasti senz'acqua. Stavano per tagliarci il gas.» Charlotte si asciugò gli occhi e lo guardò. «Come credi che abbiamo vissuto in tutti questi mesi?» «Ma... voglio dire... potevamo vendere certe cose. Le monete...» «Le ho vendute. Anche le tre bottiglie antiche, la caraffa, e... tutto. Non c'è più niente da vendere.» «Andrò alla banca. Per amor di Dio, Derek non può...» «Non è la banca», disse Dana. «Non ti avrebbero mai concesso un'ipoteca. Non hai un introito regolare. Ho offerto di avallare gli effetti, ma anche così non hanno accettato.» «Ma allora chi ha fatto il prestito?» «Aram Agajanian», disse Charlotte. «Agajanian?» si mise a gridare Darling. «Quel pervertito?» Aram Agajanian era un immigrato recente che si era fatto una fortuna vendendo videocassette pornografiche soft-core alle reti televisive canadesi via cavo e aveva scelto Bermuda come asilo fiscale. «Perché sei andata da lui?» «Perché si è offerto di aiutarci. Dana teneva la contabilità per una delle sue aziende, e gli ha fatto qualche domanda sui prestiti ipotecari, e lui... insomma, si è offerto.» «Cristo!» imprecò Darling rivolto a Dana. «Dovevi proprio stendere i
nostri panni sporchi davanti a quell'armeno depravato?» «Vuoi sentirmi dire che mi dispiace, papà? Va bene, mi dispiace. L'ho detto: ti senti meglio, ora?» Dana si sforzava di reprimere i singhiozzi. «Ma sappi che lui si è offerto spontaneamente. Nessuna clausola capestro, nessuna scadenza per i rimborsi. Pagherai quando potrai, mi ha detto. Non avrei mai pensato che potesse cedere la cambiale. Non aveva intenzione di farlo.» «Perché l'ha ceduta, allora?» «Credo che il signor Manning gli abbia fatto una di quelle offerte che non si possono rifiutare. Il signor Manning è proprietario di diverse reti via cavo.» «Come ha fatto Manning a sapere della cambiale?» «Agajanian crede che l'abbia saputo da Carl Frith.» «Come? È rimasto qualcuno su quest'isola che non sappia i fatti nostri?» Darling si accorse che stava di nuovo urlando. «Come ha fatto lui a saperlo?» «Stava lavorando sul pontile di Agajanian, e deve avere origliato qualcosa.» «Magnifico... splendido.» Darling si sentiva tradito e confuso. Guardò attorno e, senza sapere perché, toccò una delle pareti. «Duecentovent'anni.» «È solo una casa, William», disse Charlotte. «Troveremo un altro posto in cui vivere. Dana vuole che andiamo a stare da lei per un po' di tempo. È solo una casa.» «No, Charlie, non è così. Non è solo una casa. Rappresenta duecento e più anni di Darling. È la nostra famiglia.» Guardò sua moglie e la ragazza. «Mio padre l'ha trasmessa a me e, se io ho un obbligo in questa vita, è di continuare a trasmetterla per il futuro.» «Lasciala andare, William. Siamo vivi, siamo insieme. È questo che conta.» «Non conta un accidente», disse Darling. Si voltò e uscì dalla stanza. «Un fottuto accidente.» 42. Quando ritornò in fondo al viale, Darling trovò il quadro immutato: Talley continuava a camminare nervosamente avanti e indietro; Manning, immobile, sembrava un manichino di Bond Street.
Darling fece loro segno di seguirlo e, mentre li precedeva lungo il viale, immaginò che Manning stesse gongolando, e dovette fare uno sforzo per non voltarsi a guardarlo. Con un gesto li invitò a sedere al tavolo nella veranda. «Dunque, lei tende a credere che la bestia sia ancora da queste parti», disse a Talley. «Sì.» «Perché?» «Perché nulla è cambiato, per ora. Non ci sono cambiamenti nelle stagioni, e neppure le correnti; non ci sono stati cataclismi di portata significativa. Mi sono fatto dare ieri sera dei dati da quelli della NOAA. Loro pensano - ed è una previsione affidabile - che la Corrente del Golfo non inizierà il suo spostamento stagionale per almeno un mese.» Talley sentiva ritornare l'entusiasmo, che cancellava in lui l'imbarazzo per essere stato partecipe del ricatto manovrato da Manning. «Frattanto l'Architeuthis sta trovando cibo... non il suo normale, ma comunque cibo. Non ha avuto motivo per andarsene.» «Non aveva nemmeno un motivo per venire.» «Vero, però è venuto ed è qui. La cosa essenziale da tenere in mente, capitano, è di non demonizzare l'Architeuthis. Esso, o essa, è un animale, non un diavolo. Ha i suoi cicli, risponde a ritmi naturali. Credo che sia affamato e abbia le idee confuse. Non sta trovando le sue prede normali. Credo di poterlo indurre a reagire a una illusione di normalità.» «Qualunque cosa ciò possa significare.» «Lasci a me questo aspetto.» «E lei crede davvero di poter battere quella creatura?» «Lo credo, sì.» «Prima che uccida qualcuno?» «Sì, lo credo.» «Come?» Talley era esitante. «Glielo dirò... presto.» «È un segreto di Stato o qualcosa del genere?» «No. Mi scusi, ma non sto facendo il misterioso. I mezzi dipendono dalle circostanze, da come si comporta l'animale. È possibile... c'è una probabilità... insomma, voglio provare a farlo autodistruggere.» Darling guardò Manning e lo vide fissare, con viso impassibile, la baia, come se quei particolari lo annoiassero. «Certo, dottore», disse Darling. «L'Architeuthis può anche prendere il
volo e andare su Venere, ma non ci conterei troppo. Credo di avere il diritto di...» «No, capitano», disse Manning, il cui interesse si era risvegliato. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso sottile. «Lei non ha diritti. Lei ha un dovere: condurre la barca e aiutare noi.» «Senta, Osborn...» disse Talley. «Non credo...» «Perché no, Herbert? Non siamo persone civili, lo ha detto il capitano Darling, e io lo rispetto per questo. L'educazione è una forma d'inganno, e fa perdere tempo. Meglio sapere esattamente dove stiamo, fin dall'inizio.» Darling sentì un dolore pungente dietro gli occhi, suscitato, lo sapeva, dalla collera e dal senso d'impotenza. Si premette le tempie sperando di scacciare la sofferenza. Avrebbe voluto picchiare Manning, però quell'uomo aveva ragione: aveva scoperto il prezzo di Darling e lo aveva comperato, inutile raccontarsi delle favole. «Quando vuole che partiamo?» domandò Darling. «Appena possibile», rispose Manning. «Dobbiamo solo caricare le attrezzature.» «Devo acquistare i viveri e il carburante. Potremmo partire domani.» «Carburante», ripeté Manning. Mise una mano nella ventiquattr'ore e ne estrasse una mazzetta di biglieti da cento dollari. «Diecimila per cominciare?» «Direi di sì.» «Ora, le condizioni.» Manning chiuse la valigetta con uno scatto. «Il dottor Talley conta di poter localizzare e attirare la piovra entro settantadue ore, perciò lei rifornirà la barca per tre giorni. Sia che prendiamo l'animale, sia che non lo prendiamo, al ritorno io distruggerò la cambiale e le pagherò il resto dei duecentomila dollari. Il suo ricavo netto, dopo avere riscattato la casa, dovrebbe essere un po' superiore ai centomila dollari. D'accordo?» «No», ribatté Darling. «Come sarebbe a dire?» «Ecco le mie condizioni», disse Darling guardando Manning. «Lei brucerà la cambiale adesso, davanti a me. Prima che salpiamo mi darà cinquantamila dollari in contanti che resteranno qui, nelle mani di mia moglie. Il saldo, sempre a nome di mia moglie, in deposito a garanzia presso una banca, per il caso che noi non ritorniamo.» Manning esitò, poi aprì di nuovo la valigetta, estrasse la cambiale e un accendino Dunhill d'oro. «Lei è un uomo d'onore, capitano», disse mentre accostava alla carta la fiamma dell'accendino. «Ma lo sono anch'io. Lei
deve avere fiducia in me.» «La fiducia non c'entra», rispose Darling. «Voglio solo provvedere a mia moglie.» Darling guardò Talley e Manning andarsene lungo il viale ed entrare nel parcheggio di Cambridge Beaches, poi mise in tasca il fascio di banconote e ripercorse il sentiero per tornare alla barca. Avviò il motore, salì sul flying bridge e stava per inserire la marcia quando si ricordò all'improvviso che il motopeschereccio era ancora ormeggiato alla banchina. Si sentì come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Espirò con forza e si appoggiò al parapetto. Era la prima prova concreta del fatto che Mike non c'era più. Rimase così per un momento, finché quella sensazione non fu svanita, poi scese a sciogliere le cime. Mentre doppiava la punta di Mangrove Bay, diretto alle pompe di carburante del Dockyard, Darling provò a pensare a qualcuno da ingaggiare come secondo. Nulla gli faceva pensare che Talley e Manning sapessero governare la barca, o tenere la prua contro il vento, o sbrigare qualunque altra delle numerose incombenze della navigazione. No, concluse, non c'era nessuno. Aveva amici e conoscenti capaci che forse sarebbero stati disposti a venire, ma non voleva chiederlo a loro. Non intendeva accollarsi la responsabilità di un'altra morte. Avrebbe fatto da sé. Ma non proprio. Aveva un alleato, in una cassetta tenuta nella stiva, cui avrebbe fatto ricorso in caso di necessità. Un'occasione, signor Manning, pensò. Le sto dando un'occasione. Se la fallisce, penserò io a mandare all'inferno quell'essere maledetto. Impiegò quasi tre ore a pompare settemilacinquecento litri di gasolio e duemilacinquecento litri d'acqua nei serbatoi del Privateer, nonché a comperare sei sacchi di prodotti alimentari: frutta e verdure fresche e secche, scatolette di carne e di tonno, formaggio cheddar, pane, stufato di carne e verdure, fagioli e altri legumi. Finito di mangiare tutta quella roba, pensò, sarebbero stati a casa oppure morti. Quando ritornò al molo stava scendendo la sera. Scaricò dalla barca le attrezzature superflue: nasse rotte, bombole per autorespiratore, i pezzi di un compressore smontato. Trovò la pompa che Mike aveva tentato di riparare. La tenne in mano e la guardò, come se sentisse in quell'oggetto l'energia di Mike. Non essere stupido, si disse, e posò la pompa in banchina.
Charlotte era in cucina intenta a fare ciò che solitamente faceva quando le cose andavano male e lei non sapeva che altro fare: cucinava. Aveva arrostito un cosciotto intero d'agnello e fatto un'insalata di dimensioni adatte a nutrire un reggimento. «Abbiamo ospiti?» domandò Darling; poi andò da lei e la baciò sul collo. «Dopo ventun'anni», disse lei, «credevo di avere il diritto di sapere che cosa conti di fare.» «Sono stupito anch'io. Fino a oggi credevo che ci fossero solo due cose al mondo cui tenevo veramente.» Aprì il frigorifero e prese una birra. «Chissà che cosa avrebbe detto mio padre.» «Che sei un povero pazzo.» «Ne dubito. Era un uomo che dava molta importanza alle radici: per questo lui e quelli prima di lui amavano questa casa. Rappresentava le loro radici. Rappresenta le nostre radici.» «E noi?» Carlotte alzò il viso verso di lui, con gli occhi pieni di lacrime. «Non ti bastiamo come radici, Dana e io?» «Non saremmo noi senza questa casa, Charlie. Come potremmo vivere in un condominio in città, oppure nella camera per gli ospiti a casa di Dana? Due poveri vecchi che aspettano il tramonto. Noi non siamo così.» Il telefono squillò nell'ingresso; Darling rispose, mandò al diavolo l'interlocutore e ritornò in cucina. «Un giornalista», disse. «Temo che non ci siano numeri fuori elenco, in questo paese.» «Poco fa ha telefonato Marcus», riferì Charlotte. «Gli hai detto che cosa sta succedendo?» «Sì. Ho pensato che forse lui avrebbe trovato il modo di fermarti.» «L'ha trovato?» «Naturalmente no. Ti vede come uno che può camminare sulle acque.» «È un bravo ragazzo.» «No. Solo un altro povero svitato.» Darling le guardò la schiena. «Ti amo, Charlie», disse. «Non lo dico spesso, ma tu sai che ti amo.» «Non abbastanza, temo.» «Ebbene...» Sospirò, sforzandosi di trovare parole di conforto con cui intessere un discorso. «O forse non ami abbastanza te stesso?» disse Charlotte, frullando una salsa.
Era la domanda più strana che Darling avesse mai sentito. Che cosa voleva dire, amare se stesso? Non riusciva a trovare una risposta, perciò accese la televisione per sentire le previsioni del tempo. Tennero accesa la televisione durante la cena, lasciando che lo speaker locale riempisse i silenzi, perché sentivano entrambi che tutto era stato detto, e che da qualunque tentativo di conversazione potevano nascere parole che avrebbero rimpianto in seguito. Dopo cena Darling uscì sul prato e guardò la baia. C'era ancora un po' di luce - il viola tenero che prelude alla sera - e poté vedere due aironi bianchi che stavano di sentinella nelle secche vicino alla punta, sperando forse di procurarsi un pasto serale a base di triglie. Un lieve suono, una specie di frullio, annunciò l'arrivo di un banco di pesciolini in fuga sul pelo dell'acqua cristallina. Quando era piccolo, aveva passato le serate guardando la baia, rapito dallo spettacolo come altri bambini lo sono davanti alla televisione o ad ascoltare la radio, perché dalla baia venivano suoni, e a volte immagini, che eccitavano la sua immaginazione più di qualunque altro prodotto dall'uomo e dalla sua tecnologia. I barracuda in caccia sfrecciavano attraverso banchi di sgombri, e l'acqua ribolliva di spuma rossastra. Venivano anche gli squali, a volte solitari, a volte in coppie o in terzetti, con la pinna dorsale che fendeva la superficie, mentre loro incrociavano calmi in cerca di prede, esercitando il rito primevo del saccheggio. La baia era vita e morte, e ciò aveva dato un tempo a Darling un senso di pace e di sicurezza che non sapeva esprimere. Portava con sé la rassicurazione e la continuità. C'era ancora vita nella baia, anche se meno di allora; c'era ancora molto da amare. La luna piena faceva capolino di sopra gli alberi a est, lanciando frecce di luce che colpivano gli aironi e li accendevano come statue dorate. «Charlie», chiamò Darling, «vieni a vedere.» Udì i passi nella casa, che però si fermarono sulla soglia. «No», disse. «Perché no?» domandò lui. Lei non rispose, pensando: oh, William, sembri un vecchio indiano che, seduto sulla collina, si prepara a morire. PARTE IV 43.
Darling fu risvegliato dal suono del vento che sibilava tra gli alberi dietro la casa. Era ancora buio, ma lui non aveva bisogno di vedere per capire che tempo faceva. Le sue orecchie gli dicevano che il vento veniva da nord-ovest e soffiava a una velocità tra i quindici e i venti nodi. In quel periodo dell'anno il vento di nord-ovest era un vento instabile; presto avrebbe girato per diventare un vento costante da sud-ovest, oppure si sarebbe trasformato in vento di nord-est producendo una tempesta di entità moderata. Whip sperava quasi che ci fosse la tempesta: forse navigare su un mare agitato avrebbe fatto star male Manning e Talley e li avrebbe indotti a desistere. Ma era impossibile, si disse. Quei due erano spinti da forze che forse non comprendevano e non erano in grado di contrastare; ci sarebbe voluto almeno un uragano per farli desistere dal loro progetto. Charlotte dormiva accanto a lui respirando profondamente, rannicchiata come una ragazzina. Si chinò a baciarle la nuca, inspirando il suo profumo e trattenendo il fiato, come se volesse portare con sé il ricordo di lei. Quando si fu rasato, ebbe fatto il caffè e messo a scaldare un po' dell'agnello della sera prima, il cielo si stava schiarendo a est, e i kiskadee si stavano radunando sull'albero di poinciana per annunciare la nascita del giorno. Si fermò sul prato a guardare il cielo. Spirava ancora una brezza pungente, si vedevano nuvole basse spinte verso sud-est. Però una catena di alti cirri avanzava lentamente verso nord, annunciando che il vento avrebbe presto girato a sud. A mezzogiorno le onde dell'acqua bassa non sarebbero più state spezzettate, e l'onda lunga sarebbe scomparsa dalle acque al largo. La barca tendeva le cime d'ormeggio e rollava dolcemente. Whip stava per salire a bordo quando ebbe la sensazione improvvisa che ci fosse qualcuno nella tuga. Non sapeva che cosa gli avesse dato quell'idea, perciò si fermò ad ascoltare. Sopra gli scricchiolii ordinari e lo sciabordio dell'acqua contro lo scafo, udì il respiro di una persona addormentata. Qualche ficcanaso di giornalista, pensò, uno di quei ragazzini petulanti per i quali «no» significa «continua a insistere», persuasi come sono d'essere autorizzati per diritto divino a invadere la privacy altrui. Percorse la passerella, mise piede sul ponte d'acciaio e disse: «Conto fino a tre, e quando avrò finito sarà bene che le tue chiappe siano in terraferma, altrimenti dovrai prepararti a una lunga, lunga nuotata». Varcò la
soglia della tuga dicendo: «Uno...» In quel momento vide Marcus Sharp alzarsi a sedere di scatto battendo una zuccata contro la cuccetta superiore. Sharp sbadigliò, si strofinò la testa con una mano, sorrise e disse: «Buongiorno, Whip...» «Mi venga un accidente», esclamò Darling. «A che cosa devo il piacere?» «Ho pensato che forse oggi avresti avuto bisogno di un po' d'aiuto.» «Gradirei di certo un amico che mi desse una mano, ma che cosa ne dirà lo zio Sam?» «È stato lo zio Sam a mandarmi... in un certo senso. Scienziati di tutto il Paese - anzi, di tutto il mondo - hanno tentato di convincere la Marina a organizzare una spedizione per dare la caccia alla piovra, ma la Marina afferma di essere a corto di soldi. La verità, a mio avviso, è che la Marina non ha voglia di affrontare una situazione a cui non è preparata e rischiare una figuraccia. Così si sono rivolti a Wallingford, come se lui potesse escogitare una formula magica. Quando gli ho detto che saresti partito per questa impresa, ha pensato che sarebbe stato bene far partire anche qualcuno della Marina - cioè me -, giusto per fare sventolare la bandiera stellata. Dovrei creare l'impressione che Wallingford sta facendo qualcosa di concreto.» Sharp si interruppe. «Ti ho cercato per telefono. Pensavo che tu non... Insomma, spero che non ti dispiaccia.» «No, che diavolo. Però ascoltami bene, Marcus. Voglio che tu sappia in che avventura ti stai imbarcando. Questa gente...» «Ho visto la bestia, Whip... quasi.» «Va bene, allora. Sei specializzato in demolizioni, vero?» «Ho fatto un corso di un anno.» «Buono, ne avremo bisogno.» Darling sorrise. «Intanto, la cosa più urgente è fare un po' di caffè.» Salparono alle sei e trenta. Attraversarono lentamente la baia fino al molo cittadino, dove Talley e Manning erano in attesa accanto a una camionetta a noleggio su cui si vedeva una pila di casse. Talley era in giacca a vento, pantaloni cachi e stivaletti di gomma. Manning sembrava uscito dalle pagine di un catalogo: scarpe da skipper, pantaloni stirati di fresco, camicia beige con il logo di un club sul petto, una giacca a vento Gortex ognitempo nuova. «Perché tutta quella roba?» domandò Darling dal flying bridge, mentre Sharp ormeggiava la barca alla banchina. «Volete costruirvi un grattacie-
lo?» Nessuno dei due rispose, e Darling si rese conto che c'era tensione fra di loro. Strano, si disse, perché mai? Hanno ottenuto ciò che volevano, tutto dovrebbe andare d'incanto. Scaricarono un totale di ventidue casse, che sistemarono a bordo sotto la supervisione di Talley. Questi ordinò che alcune fossero messe nella tuga, protette contro gli agenti atmosferici, ma la maggior parte del materiale fu caricata in coperta, sul ponte di poppa. Quando tutte le casse furono a bordo, Manning estrasse una lunga custodia dalla cabina del veicolo. Da come Manning lo portava, e da come stava attento a non farlo sbattere contro l'attrezzatura, Darling capì che era un oggetto abbastanza pesante e molto prezioso. «Che cos'è?» gli domandò. «Non la riguarda», rispose Manning. È così, dunque? si disse Darling. Bene, staremo a vedere. Un furgoncino della TV di Bermuda comparve dall'angolo del viale e si fermò sul bordo della banchina. Un giornalista scese, seguito da un cameraman che si mise subito a montare la sua attrezzatura. «Capitano Darling!» chiamò il reporter. «Possiamo parlarle, per favore? Per la ZBM.» «No», rispose Darling dal flying bridge. «Soltanto un minuto.» Il giornalista si guardò alle spalle per accertarsi che il cameraman stesse riprendendo la scena. «State andando a dar la caccia al mostro. Che cosa vi fa...» «Nemmeno per sogno. Diamine, figliolo, nessuna persona sana di mente farebbe una cosa simile.» Guardò a poppa e disse a Sharp: «Molla gli ormeggi, Marcus». Appena ebbe visto a bordo l'ultima cima, inserì la marcia avanti. Il motopeschereccio si avviò lentamente passando in mezzo a una dozzina di barche ormeggiate nella baia. Darling attese finché non fu sicuro che nessuno potesse udirlo dal molo, poi si sporse dal flying bridge e disse: «Signor Manning, vorrebbe venire qui per un secondo?» Manning salì la scaletta e andò verso Darling dicendo in tono impaziente: «Che c'è?» «Che cosa tiene nella custodia?» «Le ho detto tutto ciò che lei ha bisogno di sapere.» «Uh-uh», mormorò Darling. «Capisco.» Un centinaio di metri più avanti uno schooner di diciotto metri era di traverso sulla loro rotta, fiancheggiato
da due pescherecci di sedici metri. «Bene, allora...» Afferrò una mano di Manning e la posò sulla ruota del timone. «A lei.» Si voltò e scese dal flying bridge, diretto verso la tuga. «Che cosa fa?» urlò Manning. «Vado sottocoperta a fare un pisolino.» «Come?» «È il suo spettacolo. Lo diriga lei.» «Torni qui!» gridò Manning guardando avanti. Adesso lo schooner era a cinquanta metri, e il Privateer gli stava andando addosso. Manning non sapeva dove girare, c'erano barche dappertutto. Darling cominciò a scendere la scaletta. «Mi chiami quando sarà sul posto.» Manning tirò indietro la manetta e girò la ruota, ma la barca sbandò senza fermarsi. Stava andando dritto sullo schooner. Manning tirò tutta indietro la manetta, il motore invertì la rotazione e cominciò ad arretrare verso la poppa di un peschereccio. «Che cosa vuole?» «Lei intende dirigere questo circo: va bene, lo diriga.» «No!» protestò Manning. «Io... aiuto!» Spinse la manetta tutta in avanti, e la barca ripartì verso lo schooner. Darling aspettò ancora per un secondo, finché Manning, colto dal panico, levò le braccia in alto e barcollò rischiando di cadere. A quel punto Darling salì i pochi gradini che lo separavano dal flying bridge, venne avanti e si mise alla ruota. La girò, spinse a fondo la manetta e, come un sarto che inserisce il filo nella cruna, puntò la barca tra la prua dello schooner e la poppa del peschereccio, passando a non più di quindici centimetri da entrambi. «Divertente, no?» esclamò Darling appena furono oltre. «Le cose che il denaro non può comperare.» Manning era furibondo. «Non era neces...» «Era assolutamente necessario», lo interruppe Darling. «Senta, signor Manning, dobbiamo lavorare insieme. Non possiamo avere sulla barca quattro persone che recitano ciascuna un proprio copione. Talley conosce l'animale, ma non l'oceano. Marcus conosce l'oceano, ma non l'animale. Io so qualcosa dell'oceano e dell'animale e lei, per quanto posso immaginare, non sa niente di niente, tranne il modo di fare quattrini. Dunque, che cosa c'è in quella custodia?» Manning esitò prima di rispondere: «Un fucile». «Come l'ha fatto passare? Bermuda non è molto tollerante in fatto di ar-
mi.» «Smontato. Ho distribuito i pezzi nelle casse di Talley. Ci sarebbe voluto un armaiolo per capire che cos'erano.» «Che tipo di fucile?» «Un fucile d'assalto finlandese. Un Valmet. Normalmente usa una cartuccia calibro 7.65 mm.» «Cosa vuol dire 'normalmente'? Ha fatto fare qualche modifica?» «Sì, alle munizioni. Nei caricatori ogni terzo proiettile è un tracciante al fosforo. Gli altri sono pieni di schegge al cianuro.» «E lei crede di poter uccidere la bestia con quella roba?» «Questa è la nostra intesa. Talley la troverà, farà tutti gli studi che vuole, e io la ucciderò.» «Dev'essere lei a ucciderla?» «Sì.» Darling rifletté per un momento, poi disse: «Crede veramente di poter fare qualcosa per i suoi figli, a questo punto?» «Non riguarda loro, non più. Riguarda me. So solo che devo farlo.» «Capisco», disse Darling con un sospiro. «Va bene, signor Manning, ma accetti un consiglio: veda di farcela al primo tentativo, perché io le darò solo una possibilità. Da quel momento in poi sarà affar mio, prenderò io il comando.» «E che cosa farà?» «Ridurrò in briciole quella creatura. Quanto meno, ci proverò.» «Mi sembra giusto», disse Manning. «Vuole del caffè?» «Sì. Nero.» Manning andò verso la scaletta. «Dirò al secondo di portarglielo.» «Il secondo, signor Manning», replicò Darling, «è un tenente della Marina degli Stati Uniti. Non gli dica di portarmi il caffè, glielo chieda. E aggiunga 'per favore'.» Manning aprì la bocca, poi la richiuse. «Mi scusi», disse, e scese sottocoperta. All'uscita dalla baia, Darling puntò a nord. Mentre doppiava la punta e si dirigeva verso il canale, guardò indietro. Fra due pini di Norfolk all'estremità della punta c'era Charlotte con la camicia da notte che sventolava nella brezza. La salutò con la mano, e lei gli rispose, poi si voltò e andò verso casa attraverso il prato. Sharp portò il caffè a Darling e rimase con lui sul flying bridge. Guardarono a nord-ovest, al punto sul limite delle acque profonde dov'era stato al-
l'ancora l'Ellis Explorer. Per un momento nessuno dei due parlò, poi Darling disse: «Quella ragazza ti piaceva». «Sì. Pensavo addirittura... ma non ha più importanza.» «Invece ne ha.» Talley venne sul flying bridge e restò in disparte. Sembrava teso, emozionato. «Ha passato molto tempo sul mare, dottor Talley?» domandò Darling. «Un poco, anni fa, a pescare ottopodi. Ma niente di questa portata. Ho atteso tutta la vita l'occasione di trovare un calamaro gigante. È il mio drago.» «Per lei è un drago autentico, eh?» «Sì. Per questo ho intitolato il mio libro L'ultimo drago. L'uomo ha bisogno dei draghi, da sempre, per spiegare l'ignoto. Quando dovevano designare terre sconosciute sulle carte geografiche, gli antichi cartografi scrivevano: 'Qui vivono i draghi', e con questo avevano detto tutto. È un gran privilegio poterne finalmente avvicinare uno, capisce?» «Dottore, a me sembra che certi draghi sarebbe meglio lasciarli perdere.» «Per gli scienziati non è così.» Talley s'interruppe, alzò la mano additando qualcosa e disse: «Guardi!» Sette od otto pesci volanti si alzarono davanti alla prua e planarono sul pelo dell'acqua per una cinquantina di metri prima di ricadere sollevando una miriade di spruzzi. Il volto di Talley si animò di stupore. Giunsero a un banco di sargassi che sembrava una pista nel mare: chiazze di vegetazione giallastra distaccate l'una dall'altra, ma che sembravano seguirsi in fila come formiche verso l'orizzonte. «Formano sempre una linea retta?» domandò Talley. «Danno questa impressione. È un mistero, come quello che circonda le uova che abbiamo visto. Non capisco che razza di roba siano, da dove vengano o dove vadano...» «Quale roba? Che aspetto ha?» Darling descrisse le grosse, oblunghe formazioni gelatinose con il buco nel mezzo. Disse che sembravano ruotare, come per esporre ogni loro parte alla luce del sole. Talley fece delle domande, incalzò Darling per avere maggiori dettagli, e sembrava sempre più eccitato dopo ogni risposta. «È un sacco ovigero», disse infine. «Nessuno l'ha visto da almeno un se-
colo a questa parte. Crede di poterne trovare ancora?» «Chissà? Non mi era mai successo fino all'altro giorno. A tutt'oggi ne ho visti due. Abbiamo tentato di raccoglierne uno, ma si è disfatto.» «È normale. Una volta rotto l'involucro, gli animali al suo interno muoiono.» «Quali creature vivono in un sacco come quello?» Talley guardò il mare, poi si voltò lentamente a guardare Darling. «Che cosa ne pensa lei, capitano?» «Come posso saperlo...?» Rifletté per un attimo, poi esclamò: «Gesù Cristo! I figli della bestia? In quella materia gelatinosa?» «Centinaia», confermò Talley. «Forse migliaia.» «Moriranno, vero?» domandò Sharp. «Normalmente sì. La stragrande maggioranza.» «Mangiati da qualche animale», disse Darling. «Sì», confermò Talley. «Sempre che là sotto ne sia rimasto qualcuno per farlo.» 44. «Ha mai letto Omero?» domandò Talley pescando da una delle sue casse e passando a Darling un uncino d'acciaio inossidabile lungo quindici centimetri. «Omero e il suo mare scuro come il vino.» «Non posso dire di averlo letto», rispose Darling. Infilò la punta dell'amo in uno sgombro, che poi gettò su un mucchio di altri pesci. «Sai, è quello che ha scritto l'Iliade», intervenne Sharp. Stava attaccando gli snodi agli occhielli degli ami, poi legava un cavetto di titanio lungo un metro e ottanta a ciascuno snodo. «Proprio lui», disse Talley. «Qualcuno crede, e io sono uno di quelli, che tremila anni fa Omero abbia parlato del calamaro gigante. Lo chiama Scilla e lo descrive così: 'I piedi son dodici, tutti invisibili; e sei colli ha, lunghissimi; e su ciascuno una testa da fare spavento; in bocca, su tre file, i denti fitti e serrati, pieni di nera morte....' Questo animale ce l'ha in modo particolare con il genere umano», spiegò Talley, «e ogni volta che ne ha l'occasione, dice Omero, 'ghermisce con ogni testa un uomo, afferrandolo dalla nave'.» Talley sorrise. «Suggestiva come descrizione, no?» «A me sembra», commentò Darling agganciando i cavetti di titanio alle stecche divergenti del palamito a ombrelli predisposto da Talley, «che il vostro Omero avesse un'immaginazione piuttosto scarsa.» Portò la raggiera
di aste metalliche attraverso il ponte e la depose vicino ad altre due. «Niente affatto», obiettò Talley. «Immagini di essere marinaio in quei tempi lontani, quando mostri e draghi erano la risposta a ogni mistero. Immagini di avere visto l'Architeuthis. Come lo avrebbe descritto agli altri, una volta ritornato a terra? O, venendo ai tempi moderni, supponga di essere su un trasporto truppe durante la seconda guerra mondiale, e che un calamaro gigante attacchi la sua imbarcazione. Come descriverebbe il mostro enorme scaturito dal nulla che ha tentato di strappare il timone e portarselo via?» «Hanno fatto questo?» Darling fece scattare il bocchettone con flangia autobloccante del dispositivo a ombrello, rendendolo solidale alla cima. «Parecchie volte, al largo delle Hawaii.» «Per che motivo un calamaro gigante assalirebbe una nave?» «Nessuno lo sa», disse Talley. «Questo è l'aspetto meraviglioso del...» A breve distanza da loro si udì una salva di spari, trenta colpi d'arma da fuoco così ravvicinati da produrre un suono simile a quello di una tela strappata. Si voltarono e videro a poppa Manning in piedi, che impugnava il suo fucile d'assalto. Nella scia della barca c'erano piume e pezzi insanguinati di un petrello smembrato dai colpi. «Perché?» domandò Talley. «Un po' di esercizio», rispose Manning togliendo il caricatore vuoto dall'arma e inserendone uno nuovo. Impiegarono un'ora a filare il palamito, per quella che Talley definiva la «fase uno» dell'operazione. Il palamito era formato da novecento metri di cima da dodici millimetri di diametro. Da questa partivano, distanziati a diversi livelli di profondità, gruppi di sei stecche metalliche aperte a ventaglio, simili allo scheletro di un ombrello. Ogni stecca portava dieci esche attaccate a cavetti di titanio. Nessun animale avrebbe potuto spezzarli, e nemmeno piegare gli ami, il cui stelo aveva un diametro di dieci millimetri. Nessun animale, all'infuori di uno squalo, poteva avere la tentazione di prendere una delle esche. Secondo il ragionamento di Talley, se uno squalo fosse rimasto agganciato a un amo, nel lottare per liberarsi avrebbe emesso segnali di angoscia che avrebbero potenziato l'effetto del richiamo. Se invece l'Architeuthis avesse afferrato un'esca, avrebbe mosso le sue molte braccia e (così voleva la teoria di Talley) si sarebbe fatto agganciare da numerosi altri ami fino a restare immobilizzato. «Quanto crede che pesi la bestia?» aveva domandato Darling quando
Talley gli aveva esposto il piano. «Impossibile dirlo. Ho pesato i tessuti dei calamari morti: il peso specifico è esattamente uguale a quello dell'acqua. Pertanto è possibile che un calamaro gigante veramente degno di questa definizione pesi da cinque a dieci tonnellate.» «Dieci tonnellate! Non potrei mai caricare dieci tonnellate di carne morta su questa barca, e la bestia in questione sarà probabilmente viva. Potrei rimorchiare dieci tonnellate, però...» «Nessuno glielo chiede. Noi tireremo su la bestia con il paranco e, quando Osborn l'avrà ammazzata, io taglierò dei campioni di tessuti.» «Con che cosa, con un temperino?» «Ho visto che lei ha una motosega portatile là sotto. Funziona?» «Lei è ambizioso, dottore, glielo concedo», aveva commentato Darling. «Ma supponga per un momento che la bestia non giochi secondo le sue regole.» «È un animale, capitano», aveva risposto Talley. «Solo un animale, non lo dimentichi mai.» Quando il palamito fu immerso, Darling e Sharp legarono tre gavitelli di plastica rosa a una cima che annodarono all'estremità del palamito e gettarono fuori bordo. «E adesso?» domandò Sharp. «Inutile recuperare il palamito prima di due ore», disse Darling. «Mangiamo un boccone.» Dopo il pasto, Talley aprì alcune delle sue casse, installò un monitor e provò due apparecchi di ripresa, mentre Manning sedeva su una cuccetta a leggere una rivista. Darling fece cenno a Sharp di seguirlo fuori. La barca aveva derivato insieme ai gavitelli, ma un po' più velocemente; pertanto i gavitelli adesso erano un centinaio di metri dietro la poppa. «Il dottore ha ragione su un punto», disse Darling osservando i gavitelli. «Chiunque incappa in questo congegno complicato sa di essere preso.» «Talley non vuole ucciderla.» «No, quello sciocco vuole solo vedere la fottuta bestia e imparare altre cose su di lei. Questo è il guaio con gli scienziati, non sanno mai quando smettere di rompere le scatole e lasciare in pace la natura.» «Forse si ammazzerà da sola imbrigliandosi al palamito.» «Certo, Marcus», rispose Darling con un sorriso. «Ma teniamoci pronti lo stesso, per il caso che la bestia la pensi diversamente. Dammi la gaffa.»
«Cosa ne vuoi fare?» «Ci prepariamo una piccola polizza di assicurazione.» Darling discese la scaletta del boccaporto di poppa e scomparve nel gavone. Quando Sharp ebbe trovato la gaffa a prua e l'ebbe portata in coperta, Darling era in piedi a mezzanave e stava aprendo un cartone grande il doppio di una scatola da scarpe. Su un lato del cartone era stampigliata un'unica parola scritta in una lingua straniera. «Che roba è?» domandò Sharp. Darling mise una mano nella scatola e ne estrasse quello che sembrava un salame lungo quindici centimetri e con diametro di sette, coperto da un involucro di plastica rosso scura. Lo alzò verso Sharp. «Semtex», disse. «Semtex!» esclamò Sharp. «Santo Dio, Whip, è roba da terroristi.» Aveva sentito parlare del Semtex, ma non lo aveva mai visto. Prodotto in Cecoslovacchia, era in quel momento l'esplosivo più usato dai terroristi di tutto il mondo perché era molto potente, malleabile e, soprattutto, stabile. Solo un individuo stupido e pasticcione avrebbe potuto farlo detonare per errore. Il mangianastri che aveva fatto esplodere l'aereo del volo Pan Am 103 nel cielo di Lockerbie, in Scozia, era imbottito di Semtex. «Dove l'hai preso?» «Se la gente sapesse in compagnia di cosa viaggia quando prende l'aereo, Marcus, nessuno si muoverebbe più di casa. Questa roba è arrivata con una partita di ricambi per compressore che avevo ordinato in Germania; deve essere stato un errore di chi ha fatto l'imballaggio. Dio sa dove era destinato. Lì per lì non compresi che cos'era, e non lo capì nemmeno l'ispettore della dogana, però pensai: perché dare via una cosa che potrebbe tornarmi utile un giorno o l'altro? Così dissi all'ispettore che era un lubrificante. A lui non importava. Fu solo due settimane più tardi che vidi una fotografia del Semtex in un libro e mi resi conto, porco diavolo, di che cosa mi ero messo in magazzino.» Darling voltò un'estremità del salame verso Sharp. Aveva il colore dello zabaione. «Ne abbiamo quanto basta per far saltare metà di Bermuda e farla arrivare fino a Haiti. Però c'è un piccolo problema.» «Quale?» «Non abbiamo detonatori. Mike deve averli portati a terra e dimenticato di rimetterli a bordo. A Mike non piace...» - Darling s'interruppe, inspirò e si corresse - «...non piaceva navigare con roba che poteva farci colare a picco.» «Dovremmo essere in grado di fabbricarcelo.»
«Che cosa ti serve?» «Benzina... normale benzina.» «Sottocoperta ne abbiamo un fusto per il fuoribordo.» «Glicerina. Hai qualche scaglia di sapone?» «In cambusa, sotto il lavello. È tutto?» «No, mi occorre un innesco, qualcosa per accenderlo. Se per caso hai una scatola di fiammiferi da cucina, potremmo...» «Non c'è problema. Manning ha duecento proiettili traccianti al fosforo. Quanti ne vuoi?» «Uno mi basta. Si ottiene molto da una piccola quantità. Però, Whip... non l'ho mai fatto prima. Ho letto qualcosa in proposito, ma non l'ho mai fatto con le mie mani.» «Anch'io non ho mai dato la caccia a un calamaro da dieci tonnellate», replicò Darling. «Non sembra una bomba», disse Sharp quando ebbero finito. «Piuttosto un ordigno pirotecnico da pochi soldi.» «O uno scherzo di società concepito da un macellaio», confermò Darling. «Credi che funzionerà?» «Bisogna, non ti pare?» «Consolati, Marcus: se non funziona, non ci sarà nessuno a sgridarti.» Avevano mescolato la benzina e le scaglie di sapone fino a farne una pasta compatta, che poi compressero come un bolo di chewing gum sull'estremità del salame di Semtex. Sharp aveva aperto uno dei traccianti di Manning, lavorando con le mani immerse in un recipiente pieno d'acqua, perché il fosforo s'incendia al contatto con l'aria. Dopo avere staccato il proiettile dalla cartuccia, aveva versato il residuo di fosforo, polvere pirica e acqua in un flaconcino di vetro per pillole, che aveva poi sigillato e incorporato nella pasta. Usarono nastro isolante per fissare la bomba artigianale alla punta della gaffa, che era lunga tre metri. Darling la scosse per accertarsi che la bomba fosse ben attaccata. «Che cosa succede se la bestia ingoia la bomba prima di rompere la bottiglietta?» domandò. «Succede che non scoppia», rispose Sharp. «Se il fosforo non viene a contatto con l'aria, non si accende. Se non si accende, non innesca il resto del detonatore. Conclusione: la bomba fa cilecca.» «Allora vuoi che io obblighi la bestia a morderla.» «Solo per un secondo, Whip. Poi salta subito in acqua, perché altrimen-
ti...» «Lo so, lo so. E poi, se abbiamo fortuna, il piano di Talley funzionerà e non avremo bisogno della bomba.» Darling fece una pausa. «Però la vera fortuna sarebbe quella di non trovare affatto la creatura.» Salì al flying bridge, andò alla ruota del timone, fece virare la barca a sud e cominciò a cercare i gavitelli. Avevano impiegato un'ora a manipolare l'esplosivo e avvitare un reggicanne al parapetto in cui tenere la gaffa in posizione verticale e fuori portata degli altri. In quel frattempo non si era preoccupato dei gavitelli, non ci aveva nemmeno pensato. Fu stupito di non vederli subito. La barca non poteva avere derivato a più di mezzo miglio dai gavitelli. In una giornata limpida come quella le sfere rosa avrebbero dovuto essere visibili da un miglio di distanza. Però sapeva esattamente dov'erano. Aveva traguardato i punti di riferimento quando li aveva posati. Forse le onde erano più alte di quanto ricordava, e i gavitelli erano nel cavo di un'onda. Li avrebbe trovati in un minuto. Non fu così. Non li trovò in un minuto né in due né in tre. Dopo che ebbero percorso per cinque minuti un tratto di mare verso sud, capì dai suoi riferimenti di avere superato il punto in cui aveva messo in mare i gavitelli. Non c'erano più. Prese il binocolo e lo mise a fuoco su una scia di sargassi. Se i gavitelli avevano derivato con il flusso di marea, dovevano essere andati nella stessa direzione dei sargassi. Seguì con il binocolo quel percorso fino all'orizzonte. Nulla. Udì dei passi dietro di sé, poi la voce di Manning che diceva: «Li ha persi?» «Non proprio», rispose Darling. «Ma non li ho ancora trovati.» «Maledizione! Se non avesse sprecato tutto quel tempo...» Darling alzò una mano. Poi, improvvisamente, s'irrigidì. Aveva udito, captato qualcosa. «In nome di Dio, che...» Ora Darling aveva capito, anche se stentava a crederlo. «Figlio di puttana!» gridò. Spinse da parte Manning con una spallata e andò al parapetto a scrutare l'azzurro senza fondo. Fu allora che comparve l'unico gavitello rimasto intatto: sembrava salire con la velocità di un missile. Attraversò la superficie con un forte suono di risucchio, come un vuusc, e si alzò di tre metri sull'acqua. Poi ricadde tirandosi appresso i frammenti degli altri due gavitelli. Talley e Sharp avevano udito il rumore ed erano usciti dalla tuga; quan-
do Darling scese in coperta, Sharp aveva già afferrato la cima con un rampino e issava a bordo il gavitello. Darling lo staccò, poi avvolse la cima al cilindro del verricello, che mise in moto. «È lui?» domandò Manning. «Il calamaro?» La cima vibrava e spandeva gocce d'acqua. Darling la tastò con i polpastrelli. «Non posso ancora dirlo, signor Manning, ma di una cosa sono certo: qualunque essere tanto forte da trainare un chilometro di cima di polietilene, affondare tre gavitelli d'ormeggio in grado di tenere a galla mezza tonnellata ciascuno e portarli a una profondità tale da farne implodere due, ebbene, quello è un gigantesco figlio di puttana.» Si sporse dal parapetto, poi mormorò: «Comunque non posso dire se è ancora qui oppure no». «Se fosse agganciato a un amo», disse Talley, «sarebbe qui. Non può piegare quegli ami né spezzare i cavi.» «Mai dire mai, dottore, quando si ha a che fare con un essere fuori dei parametri ordinari.» Si rivolse a Sharp. «Prendi un coltello, Marcus, e affilalo bene, che tagli come un rasoio. Poi torna qui e piazzati dietro di me.» Sharp andò nella tuga; Talley lo seguì e si mise a caricare le sue videocamere. «Un coltello, capitano?» domandò Manning. «Per farne cosa?» «Se questo è un vero mostro, se le sue dimensioni sono anche solo la metà di quelle che gli attribuisce il dottore, e se gli è rimasta una minima scintilla di vita, io taglierò la cima e lascerò che la maledetta bestia se ne vada.» «Non se lo sogni nemmeno. Non prima che io abbia sparato al mostro.» «Staremo a vedere.» «Senza dubbio», disse Manning, e partì verso la tuga. Talley collocò un treppiede sul flying bridge e montò su di esso una delle sue videocamere, mentre Manning prendeva posizione appoggiato al parapetto, impugnando il suo fucile munito di un caricatore bifilare curvo da trenta colpi. In basso, Darling comandava il verricello e Sharp arrotolava la cima in un fusto di plastica. Quando il fusto fu pieno a metà, Darling tastò la cima, poi fermò il verricello, afferrò la cima e la tirò. «Se n'è andata», disse. «Se c'era, adesso non c'è più. Qui abbiamo soltanto la cima.» «Non è possibile», protestò Talley. «Lo sapremo tra un minuto», replicò Darling, e avviò di nuovo il verricello.
«Allora non era veramente agganciata.» «Vorrebbe dire che ha tirato giù i gavitelli solo per il gusto di farlo?» Il primo «ombrello» affiorò, e Sharp lo issò a bordo. C'erano ancora tutte le esche, intatte. Un momento dopo venne su il secondo attrezzo seguito dal terzo. Nessuno aveva mangiato le esche. Quando il quarto ombrello fu in vista, Sharp alzò una mano e Darling fermò il verricello. «Signore Iddio», mormorò Sharp allungando la mano verso l'attrezzo. «Sembra che questa roba sia passata sotto un treno.» L'attrezzo era stato stritolato, con i cavetti di titanio attorcigliati intorno alla cima. Tra la cima e i cavetti erano rimasti dei filamenti di tessuto muscolare fibroso. Due esche erano intatte, ancora attaccate agli ami, ma le altre non c'erano più, e degli ami restavano solo cinque centimetri di stelo contorto. Talley stava filmando. Darling alzò uno degli ami a beneficio della ripresa. «Non potevano essere piegati, vero? Ebbene, dottore, la cosa, l'essere che c'è là sotto, non si è accontentata di piegarli, li ha tranciati a morsi.» Sharp prese alcune fibre dall'attrezzo a ombrello, che lasciarono un puzzo acre sulle sue dita. Fece una smorfia e si ripulì le mani sui pantaloni. «È l'Architeuthis», disse Talley. «Sentite l'odore di ammoniaca? Ci ha lasciato il suo biglietto da visita.» «Non c'è nient'altro che sappia di ammoniaca?» domandò Darling. «Non quanto l'Architeuthis, capitano. È la sua firma, e la ragione principale per cui sappiamo qualcosa su di lui perché nessuno lo ha mai visto. Certo, negli anni '40, uno di questi mostri uccise alcune persone, ma accadde di notte e nessuno lo vide. A Terranova, invece, negli anni '60, due dei mostri furono trovati in riva al mare. Il motivo per cui finirono spiaggiati invece di affondare - non sono come i pesci, non hanno la vescica natatoria - sta nel fatto che i loro tessuti sono pieni di ioni di ammonio, il cui peso specifico è leggermente inferiore a quello dell'acqua di mare: 1,01 contro 1,02, se volete le cifre. Ho visto le piovre morte, capitano. È improprio dire che avevano odore di ammoniaca: ti soffocavano con quel fetore.» Si rivolse a Manning con una smorfia compiaciuta. «È lui, Osborn, ed è qui, non ci sono dubbi. L'abbiamo trovato.» «Ascolti, dottore», disse Manning. «O lei è pazzo, oppure non ci ha detto tutto. Non si può catturare un calamaro gigante con un amo, ma nemmeno con un sommergibile. E allora, in nome di Cristo, come pensa di catturarlo?»
«Gli esseri viventi sono mossi da due istinti primordiali», spiegò Talley. «È vero o no, capitano? Il primo è la fame. Qual è l'altro?» Darling guardò Sharp, che sì strinse nelle spalle e disse: «Non so. Il sesso?» «Sì», confermò Talley. «Il sesso. Intendo catturare il calamaro gigante facendo appello al sesso.» 45. Talley aveva numerato le sue casse, e aveva incluso la descrizione dettagliata del loro contenuto nel manifesto d'imbarco. Ora consultò il documento e, con l'aiuto di Sharp e di Darling, scelse i contenitori e li dispose in ordine preciso sul ponte di poppa. Manning si tenne da parte a guardare l'acqua. A Darling sembrava che si fosse ridotto all'ombra di se stesso, al suo unico scopo, staccandosi di dosso gli strati del condizionamento sociale, lasciando solo il puro desiderio di uccidere. Darling aveva conosciuto in passato persone come Manning, individui che avevano perso ogni considerazione per la sicurezza; su una barca non poteva esserci nulla di più pericoloso. Quando Talley fu soddisfatto della disposizione delle casse, invitò Darling e Sharp a raggiungerlo vicino a un lungo contenitore d'alluminio simile a una bara, chiuso con fermagli a scatto. Li aprì e sollevò il coperchio. «Ditelo francamente», proclamò con orgoglio. «Non è la cosa più sexy che avete mai visto?» Protetto da cuscinetti di gommapiuma, c'era quello che a Darling sembrava un birillo lungo un metro e ottanta, fatto di plastica e dipinto di rosso brillante. Su tutto l'oggetto erano sparsi centinaia di piccoli ganci d'acciaio appesi a snodi. Dalla sommità del birillo sporgeva un anello di acciaio inossidabile del diametro di sette centimetri. Talley alzò l'oggetto e lo diede a Darling. Non poteva pesare più di cinque chili; quando Darling gli batté sopra una mano emise un suono cavo. «Ci rinuncio», disse Darling, e passò la cosa a Sharp. «È l'opera di un genio», dichiarò Talley. «Evidentemente», disse Sharp. «Ma quale tipo di genio?» Talley riprese l'oggetto da Sharp, lo afferrò per le due estremità e lo alzò davanti a sé. «Dovete vederlo», spiegò, «come la parte più estesa del corpo: la testa e il torso, quello che noi chiamiamo il mantello, dell'Architeuthis. Di norma, il corpo di un calamaro gigante - di qualunque specie, dux,
japonica o sanctipauli - rappresenta all'incirca un terzo della sua lunghezza totale. Pertanto questo corrisponde a un animale della lunghezza complessiva di cinque o sei metri, compresi le braccia e i tentacoli.» «Un piccolo», commentò Sharp, «un cuccioletto.» «Non necessariamente. In ogni caso, non ha importanza. L'impulso sessuale non si preoccupa delle dimensioni. Anche se il nostro animale è, come credo, quattro o cinque volte più grande di questa cosa, il suo impulso sarà di procreare con lei. Se l'animale è maschio, vorrà depositarci lo sperma; se è femmina, vorrà che le sue uova vengano fecondate.» «Ma per quale motivo al mondo il mostro vorrebbe fare qualcosa con un pezzo di plastica?» domandò Darling. «È qui che interviene il genio.» Talley svitò l'anello d'acciaio. «Ho dedicato anni a elaborare un composto chimico che riproduce alla perfezione il richiamo sessuale dell'Architeuthis. Con il tempo ho potuto raccogliere campioni di tessuti da due esemplari morti. Ho prelevato l'ovidotto da una grande femmina finita a riva in Nuova Scozia; due anni fa, invece, ebbi notizia che il mare aveva gettato sulla spiaggia presso Cape Cod una parte del mantello di un maschio. Quando ci arrivai non ne restava più molto: uccelli e pesci se ne erano serviti a sazietà. Tuttavia una parte era stata coperta dalla sabbia, e io potei ricuperare l'intero sacco spermatico, lungo quasi un metro. Per mesi e mesi ho analizzato entrambe le parti, maschili e femminili, con microscopi, spettrografi e computer. Alla fine sono riuscito a sintetizzare il richiamo ormonale.» «L'ha già sperimentato?» chiese Darling. «Sul campo? No. Solo in laboratorio. Dal punto di vista scientifico ha una logica inoppugnabile. Non vi annoierò con i particolari tecnici. In breve: come il cane emette un 'muschio', come gli esseri umani sono responsivi al testosterone e a tutti i nostri messaggi ormonali, il calamaro gigante risponde ai composti chimici che i suoi simili secernono nel periodo analogo a quello che nei mammiferi viene chiamato 'estro'.» Mise un dito nel foro lasciato aperto dalla rimozione del tappo a vite solidale all'anello metallico. «Una fiala di liquido versato qui dentro e diluito con acqua di mare filtrerà attraverso i piccoli fori sotto gli uncini. Produrrà una specie di usta che viaggerà per miglia e miglia. L'Architeuthis sentirà che un suo simile è pronto per l'atto riproduttivo: un richiamo della natura cui non potrà resistere.» «Non capirà che è fasullo?» domandò Sharp. «No. Non dimenticate che, nelle profondità in cui vive, la luce è quasi
del tutto assente, per cui l'animale non si basa molto sulla vista. Sappiamo che può cambiare colore, ma ignoriamo se vede i colori. Per andare sul sicuro ho pitturato il richiamo di rosso, che sappiamo essere il colore dell'eccitazione. La forma del richiamo è giusta. Attaccheremo delle luci chimiche vicino a esso in modo che, se l'animale è abituato a usare gli occhi per conferma, l'immagine illuminata riesca abbastanza convincente.» Talley fece una pausa. «Forse abbiamo fatto più del necessario», disse. «L'usta potrebbe funzionare anche se la versassi semplicemente dalla fiala. Però costruire un simulacro della forma e del colore giusti non è costato molto e non può nuocere. Quando si gioca a carte con l'ignoto, è meglio tenersi tutti gli assi nella manica.» «Okay», convenne Darling. «La bestia arriva e scopa follemente con quella cosa. E poi?» «La bestia ha otto braccia e due tentacoli, e li avvolgerà tutti intorno all'oggetto. Premerà il proprio corpo contro il calamaro di plastica.» Talley diede un colpetto ad alcuni gancetti, che tintinnarono. «Ognuno di questi uncini si conficcherà nelle carni del mostro anche se non tanto da metterlo in allarme o causargli dolore. Però, quando lui cercherà di andarsene, non potrà farlo. Allora noi lo tireremo su, abbastanza vicino alla superficie perché io possa fotografarlo e Osborn riempirlo di proiettili. Poi taglierò alcuni campioni.» Talley passò lo sguardo da Sharp a Darling e sorrise. «Una cosa è sicura», commentò Darling. «Quando lo tireremo su, sarà un calamaro incazzato nero.» «Non credo. Secondo me, sarà preoccupato di una cosa sola: la sopravvivenza. Il cambiamento rapido della temperatura dell'acqua potrà intontirlo, lo sbalzo di pressione potrà ucciderlo prima che raggiunga la superficie. Forse sarà esausto al punto che non riuscirà più a ossigenarsi. Ma qualunque cosa succeda», spiegò Talley voltandosi a indicare Manning, «quello sarà il momento in cui interverrà Osborn.» Manning confermò con un breve cenno del capo. «Lo sa che cosa mi spaventa?» disse Darling. «Siete troppo sicuri di tutto. Ho visto troppi piani perfetti finire a puttane.» Si voltò verso Sharp. «Marcus, sono veramente felice che abbiamo fabbricato la nostra bomba.» «La userà, capitano», replicò Talley. «Vedrà.» «Lo spero. Ma da quanto ho visto finora, la creatura mi sembra un personaggio da non sottovalutare.» Ci vollero più di tre ore per montare il congegno di Talley, un vero ca-
polavoro di complessità che implicava chilometri di cime, centinaia di metri di cavetti, un cavo coassiale per TV, una videocamera da ripresa con obiettivo ad alta luminosità alloggiata in uno scafandro di plexiglas grande come la sfera di cristallo di un veggente. Talley non si era reso conto che gli oggetti attaccati a lunghe cime sott'acqua hanno la tendenza a ruotare in modi imprevedibili. Si era basato sulla premessa erronea che la sua videocamera sarebbe rimasta appesa accanto al finto calamaro e l'avrebbe tenuto a fuoco. Pertanto Darling dovette scendere nella stiva a prendere la sega a motore, cercare un travetto da dieci per dieci centimetri, tagliarlo e legarlo tra la videocamera e il calamaro di plastica come staffa di fissaggio. «Per quanto tempo può girare la videocamera?» domandò mentre Talley inseriva il cavo di alimentazione nel portabatterie. «La videocassetta dura centoventi minuti», rispose Talley, «e la batteria al litio incorporata farà avanzare il nastro nella videocamera e fornirà l'illuminazione necessaria. Però noi non la lasceremo funzionare indiscriminatamente. Un timer la spegnerà per un minuto ogni cinque. Per contro, io posso azionarla di qui ogni volta che lo desidero.» Era il crepuscolo quando il congegno fu finalmente installato. Il vento era caduto, e il mare sembrava una distesa di onde d'acciaio. Sharp vide una coppia di gabbiani fermi sulla poppa ad aspettare un po' di pane o di pesce da esca, e poi volare via. Mentre li seguiva con lo sguardo verso il sole al tramonto, vide in lontananza qualcosa che si muoveva sulla superficie del mare. Dapprima credette che fossero spruzzi di uccelli volanti, ma poi vide che duravano troppo a lungo, e l'acqua saliva troppo in alto, come un getto. Allora capì. «Guarda, Whip», disse indicando con la mano. «Balene.» «Bello», rispose Darling. «Almeno ne è rimasta qualcuna.» «Che cosa sono? Balenottere azzurre?» «No, capodogli. Le balenottere non sostano in questo modo. I capodogli si riuniscono sempre all'ora del crepuscolo, non so perché, forse per ritrovarsi e stare in compagnia.» Talley guardò le balene, poi si mise le mani a imbuto davanti alla bocca e gridò loro: «Andate via!» Darling scoppiò a ridere. «Che cos'ha contro le balene, dottore?» «Niente. Non voglio che spaventino l'Architeuthis. Mangiano i calamari, lo sa.» «Io non me ne preoccuperei», disse Darling. «Non conosco un essere creato da Dio capace di mettere in fuga quella bestia. Le balene non sono
stupide come noi: sanno benissimo quando è il caso di lasciare in pace qualcuno.» Talley andò nella tuga; quando ritornò, le balene si erano immerse, e il mare si era richiuso sopra di loro. Talley portava in mano un fialone da duecento centimetri cubi pieno di un liquido trasparente. Su istruzioni di Talley, Darling e Sharp tennero in piedi il calamaro di plastica e gli versarono dentro un secchio dopo l'altro di acqua di mare. Poi Talley svitò il coperchio della fiala e l'alzò davanti a loro. «Per la scienza», disse. Darling esitò, poi alzò le spalle e disse: «Al diavolo... non mi capita tutti i giorni di annusare un calamaro arrapato». Prese il polso di Talley e avvicinò il naso alla fiala. Si sentì come se le mucose del suo naso si fossero incendiate. Gli occhi lacrimarono, lo stomaco ebbe conati di vomito. Darling arretrò tossendo. Talley rise e disse: «Come le sembra?» «Come mi sembra?» Darling si sentiva soffocare. «Ammoniaca, zolfo... la roba che i drogati usano per darsi una scossetta al cuore... nitrato di amile e qualche altra cosa. In sostanza, roba semplicemente cattiva.» «Cattiva?» obiettò Talley. «Cattiva nel vero senso della parola? Non esistono animali cattivi.» «Lo dice lei, dottore. Io comincio a pensarla diversamente.» Talley vuotò il fialone nel simulacro pieno d'acqua e serrò l'anello col tappo a vite. Attaccarono la cima all'anello e poi, con Darling che teneva un'estremità del travetto e Sharp che teneva l'altra, calarono il simulacro da poppa e lo lasciarono andare. Lo videro galleggiare per un momento, finché non ebbe espulso tutta l'aria, e poi s'immerse in un turbinio di bolle. Darling e Sharp azionarono i due verricelli salpareti fissati ciascuno su un lato della poppa. Filarono in mare prima il cavo coassiale, poi le cime, fermandosi ogni tre metri e mezzo per consentire a Talley di assicurare il cavo della videocamera alla cima. Frattanto era scesa la sera. Le stelle spargevano scintillii d'argento sul mare tranquillo, e la luna nascente proiettava un sentiero dorato dall'orizzonte orientale alla poppa della barca. A questo si aggiunse il caldo riflesso delle luci della tuga. Infine, alle nove, il segnale degli 880 metri passò nelle loro mani. Fermarono i verricelli e fissarono le cime al falcone di poppa, che passava attraverso la coperta e scendeva fino alla chiglia. «Vuole mangiare qualcosa, signor Manning?» domandò Darling mentre
si dirigeva a proravia insieme a Sharp. Manning scosse la testa e continuò a fissare l'acqua. Talley sedette al tavolo nella tuga e si mise a regolare la videocamera, il monitor e la centralina di comando. Darling si mise alle sue spalle a guardare il monitor: il richiamo era inquadrato e oscillava avanti e indietro; dalle centinaia di forellini nella plastica uscivano rivoletti di liquido che si disperdevano nell'oscurità. Darling si accorse che Talley era sudato, e che le sue mani tremavano mentre girava i pomelli della centralina. «Ha fifa anche lei, dottore?» gli chiese. «Qualche volta è meglio che i sogni non si avverino...» «Io non ho paura, capitano», rispose seccamente Talley. «Sono emozionato. Da trent'anni aspetto questo momento. No, non ho paura.» «Io sì», disse Darling, ed entrò nella timoniera. Guardò attraverso i finestrini il calmo mare notturno. Non c'erano altre luci in vista, nessun peschereccio, nessuna nave di passaggio. Erano soli. Si sentì passare nella schiena un piccolo brivido, e si scosse per cacciarlo via. Osservò lo scandaglio. Uno stilo tracciava il grafico sulla carta, e Darling lesse la profondità. Il fondale era a novecento metri. Pertanto, se lui e Sharp avevano misurato con precisione, la cima, il simulacro e la videocamera erano sospesi trentasei metri sopra il fondo. Ripartì verso la tuga, si fermò, allungò una mano ad accendere lo scandaglio a indicazione luminosa e ne regolò la scala di lettura a novecento metri. Appena lo schermo si fu acceso, il fondale produsse una linea retta. Tutto il resto dello schermo era vuoto. «Quel liquido si diffonderà dappertutto, di qui fino alle Azzorre», disse Darling entrando nella tuga. «Non ci sono né un pagro né uno squalo tra la nostra chiglia e il fondale.» «No», ammise Talley, «non possono esserci. I pesci sanno quando devono tenersi a distanza.» Riprese la videocamera e impostò il timer. Darling andò alla porta e girò un interruttore. La lampada alogena montata sul flying bridge si accese e inondò di luce la parte poppiera della coperta. Darling vide dal finestrino che Manning non si era scomposto, come se non si fosse accorto di quell'improvvisa esplosione di luce. Sedeva sul coperchio del boccaporto, con le spalle incurvate, il fucile posato sulle ginocchia. Sharp portò un panino a Darling. Poi indicò Manning e chiese: «Devo portarne uno anche a lui?» «Non gli interessa mangiare», rispose Darling. «Si sta divorando di den-
tro.» «Osborn è sfortunato», commentò Talley prendendo un pezzo di pane e del formaggio. «Tre settimane fa era un uomo che deteneva il potere e sapeva usarlo. Avevamo stipulato un patto che dava a lui la possibilità della vendetta. Lo considerava un buon affare. Ma adesso quel progetto si è trasformato in un'ossessione.» «Può dargli torto?», domandò Sharp. «Naturalmente. Si comporta in modo irrazionale.» «Peggio ancora», intervenne Darling. «In modo pericoloso.» «Passerà. Lo lasceremo sparare all'Architeuthis, e lui ridiventerà quello che è sempre stato: un vincitore.» «È così semplice, vero?» «Gli animali sono prevedibili, capitano.» «Anche l'Architeuthis?» «Oh, certo. È programmato con la stessa precisione di una macchina. Una volta che si hanno i codici, il suo comportamento è prevedibile, nel modo più assoluto.» Alle dieci e mezzo il timer aveva attivato una dozzina di volte la camera, e ogni volta essi si erano raccolti intorno al monitor. Avevano visto la piovra di plastica oscillare in mezzo allo schermo, e il liquido che usciva in forma di piccoli nastri. Nella corrente a monte del pupazzo, piccoli crostacei lampeggiavano come lucciole attraverso lo schermo, lasciandosi dietro brevi scie di fosforescenza. Passato l'oggetto, la corrente diventava di un nero bituminoso. La barca, sotto l'effetto della corrente, andava alla deriva rollando sul mare calmo, oscillando dolcemente. «Supponiamo che non venga stanotte», disse Darling a Talley. «Allora dovremo attendere il mattino o il pomeriggio. Ma verrà.» «Se è così, potremmo anche dormire un poco. Dovrebbe farlo anche lei.» Sharp andò nel vano delle cuccette, sottocoperta. Talley guardò il monitor ancora per un ciclo, poi si lasciò andare contro la spalliera della panca e chiuse gli occhi. Darling uscì dalla tuga. Manning sedeva ancora sul coperchio del boccaporto, ma di traverso: si era accasciato e dormiva. Darling verificò le cime: scendevano verticali, immobili, intatte. Poi guardò verso terra. Bermuda era un miraggio roseo luminoso contro il cie-
lo scuro. Darling poté distinguere le luci del faraonico Southampton Princess Hotel, e il raggio rotante del faro di Gibbs Hill. Era a dieci miglia di distanza, ma traeva conforto dalla consapevolezza che laggiù c'era la sua casa. Pensò a Charlotte che dormiva nel loro letto, e d'un tratto fu invaso dalla solitudine. Quando rientrò, lo schermo televisivo era di nuovo acceso e proiettava ombre pallide sul volto di Talley. Darling salì alla timoniera e restò in silenzio ad ascoltare i suoni della notte. Il generatore borbottava, lo stilo dello scandaglio a indicazione grafica strideva nel tracciare la deriva della barca lungo la linea del fondale a novecento metri, lo scandaglio sonar ronzava e il suo schermo mostrava un vuoto desolato. Ascoltò lo sciabordio dell'acqua che carezzava la carena d'acciaio, e udì il respiro di Talley. Andò nella cabina e si coricò su una cuccetta, Desiderava dormire ma, per quanto fosse esausto, sapeva con certezza che la sua mente avrebbe rifiutato di rinchiudersi in un confortante torpore. Fin da quando, ancora ragazzo, si era imbarcato, ogni volta che dormiva su una barca una parte del suo cervello restava sempre vigile, attenta a ogni minima alterazione nei ritmi dell'oceano. La sentinella nella sua mente aveva prestato servizio in tempi migliori, quando la barca aveva navigato su risorse di vita apparentemente infinite, quando l'essere svegliato durante la notte significava una promessa, non una minaccia. La vedetta non aveva allentato l'attenzione neppure negli ultimi, cattivi tempi, in cui le notti erano piene soprattutto di speranze vane. Darling sapeva che la scolta invisibile sarebbe stata all'erta adesso, quando, per la prima volta nella sua vita, la sua speranza più sincera era che il fondale sotto di lui continuasse a essere una distesa piatta e senza vita. La sua respirazione rallentò, il cervello cedette alla fatica. La vedetta continuò a stare all'erta, sentinella solitaria. 46. Il calamaro gigante espanse il mantello, aspirò acqua nel corpo e la espulse dall'imbuto. Proiettò la propria massa enorme attraverso il mare notturno con una forza che spingeva avanti onde di pressione e si lasciava dietro dei mulinelli. Animato dall'impulso più fondamentale, andò veloce in una direzione, si
fermò e si proiettò in un'altra, tendendo i propri sensi per captare un numero sempre maggiore di quei segnali dispersi che lo stavano eccitando sino alla frenesia. L'organizzazione chimica del suo corpo era confusa, i cromatofori cambiarono il colore dei tessuti passando dal grigio pallido al rosa, poi al marrone rossiccio e infine al rosso, riflettendo emozioni che spaziavano dall'ansia alla passione. I segnali che riceveva erano in parte alieni e in parte familiari, ma il suo cervello registrava solo il fatto che erano irresistibili. Perciò continuò ad avanzare veloce, spostandosi in alto e in basso, a destra e a sinistra, come un aereo fuori controllo o un gigantesco uccello da preda impazzito. D'un tratto s'imbatté in un flusso di segnali: una traccia intensa e sicura La creatura si fece guidare da quella, escludendo ogni altra cosa. 47. Darling si svegliò senza sapere che cosa l'avesse destato. Rimase per un momento in silenzio, ascoltando rumori e sensazioni. Udì i suoni familiari: il ronzio del frigorifero, lo stridore dello stilo sulla carta, il respiro di Talley. Registrò le visioni consuete: il buio, interrotto solo dalla fievole luce rossa proveniente dalla chiesuola. Tuttavia sentì una differenza nel movimento della barca: una riluttanza, come se si opponesse al flusso della corrente invece di assecondarlo. Si lasciò cadere dalla cuccetta, andò alla porta e uscì. Nel momento stesso in cui i suoi occhi colsero il movimento dell'acqua, seppe che cosa lo aveva svegliato: la barca stava andando a ritroso. Qualcosa la stava tirando indietro. Guardò la poppa e vide piccole onde sbatterle contro, alzando della schiuma. Le cime erano quasi perpendicolari, ma vibravano, e anche da lontano lui udiva il frinire acuto delle fibre in tensione. È così, dunque, pensò. Ci siamo. Infilò la testa nella tuga e gridò: «Marcus!» Talley si alzò a sedere sulla panca e disse: «Cosa c'è?» «Accenda il suo monitor, dottore», disse Darling, poi chiamò ancora: «Marcus! Andiamo!» «Perché?» Talley era ancora intontito. «Che cosa...» «Perché abbiamo agganciato il figlio di puttana, ecco perché. E ci sta trascinando indietro.» Darling passò davanti a Talley e premette il pulsan-
te. Dopo qualche lampeggio, il monitor s'illuminò. L'immagine era priva di definizione, un vortice di bolle e di ombre, luce che splendeva contro le tenebre, una scena di caos e di violenza. «Il simulacro!» esclamò Talley. «Dov'è finito?» «Lui l'ha afferrato», rispose Darling. «Sta cercando di portarselo via.» Proprio in quel momento Sharp comparve; Darling gli fece un cenno e uscì. Manning era in piedi a poppa, bagnato dagli spruzzi, e fissava le cime vibranti. «È lui...?» domandò. «O abbiamo preso la bestia, o abbiamo agganciato il diavolo in persona.» Darling ordinò a Sharp di mettersi al verricello di dritta, mentre lui andava a quello di sinistra. Cominciarono insieme a ricuperare le cime. Per un paio di minuti non registrarono il minimo progresso. Il peso era così grande che i verricelli non riuscivano a sollevarlo, i cilindri slittavano sotto le cime. La barca continuava a muoversi all'indietro, alzando baffi di spuma con la poppa. Poi le cime si allentarono di colpo, e la barca si fermò. «Non c'è più tensione», disse Sharp. «Si sarà staccata?» «Può darsi. Oppure sta solo girando. Non posso dirlo. Continua ad avvolgere.» Lavorarono in tandem, ricuperando trenta centimetri di cima al secondo, diciotto metri al minuto. A Darling dolevano i muscoli delle braccia, che poi cominciarono a bruciare. Dopo pochi giri era costretto a cambiare mano. «Whip, dev'essersene andata strappando tutto», disse Sharp quando i segnali dei trecentosessanta metri passarono sul tamburo dei verricelli e caddero ai loro piedi. «Deve averlo fatto.» «Non lo credo», rispose Darling. Teneva una mano sulla cima e la tastava, sforzandosi di interpretarla. C'era peso sulla cima, ma non tensione; peso morto, ma nessun movimento. «Si direbbe che c'è ma non sta tirando. Forse si è presa un attimo di riposo.» «O magari è morta», suggerì Sharp speranzoso. «Continua ad avvolgere, Marcus», ordinò Darling. Talley uscì dalla tuga. «Non vedo niente sul video», disse. «Solo un gran casino.» «Lo tenga acceso comunque.» «D'accordo.» Talley si piazzò dietro di loro, premendosi contro la tuga. Aveva estratto un'altra videocamera da una custodia; si affrettò a caricarla
e a collegarla alla batteria. All'improvviso Sharp disse: «Whip! Guarda...» e fece un gesto. Le cime non scendevano più verticali; avevano cominciato a muoversi lentamente, allontanandosi dalla barca. Però non c'era ancora sforzo sui verricelli; la cima continuava ad avvolgersi. «Sta affiorando!» urlò Darling, pensando che il comportamento della bestia era simile a quello di un pesce spada che vuole aprirsi un varco: si ferma, raccoglie le forze e prepara la sua strategia. Guardò Manning e disse: «Tenga pronto il fucile. È il momento che lei aspettava». E a Talley: «Se vuole delle immagini, dottore, farà bene a filmare in fretta. La bestia non si fermerà a lungo». Nei dieci minuti successivi nessuno parlò. A Darling quel silenzio sembrava la calma ingannevole nell'occhio del ciclone. Darling e Sharp azionarono le leve dei verricelli, e la cima affluì a bordo, poi la parte libera finì e i grossi maniglioni rintronarono contro il parapetto, seguiti dai primi tratti di cavo metallico. «Novanta metri, Marcus», disse Darling. «Ancora uno o due minuti.» I cavi cambiarono inclinazione, quasi orizzontali, tesi e vibranti, ma continuarono ad avvolgersi. La creatura doveva essere vicina alla superficie, ma non potevano dirlo con sicurezza, né stabilire a che distanza si trovava. Guardarono l'acqua dietro la poppa cercando di seguire la traccia argentea dei cavi, di vedere oltre il confine della chiazza di luce proiettata dalle lampade alogene. «Fatti vedere, bastardo!» gridò Darling, e si rese conto che la sua paura era diversa. Ciò che provava adesso non era spavento, orrore o cupo presagio, ma la paura galvanizzante di affrontare un avversario più formidabile di qualunque altro mai immaginato. Era come una scossa elettrica, una paura positiva, pensò, che si mescolava alla febbre della caccia. Era a quel punto delle sue riflessioni quando i verricelli si arrestarono per un attimo, i cilindri girarono a vuoto e il cavo che era appena stato issato e avvolto in coperta cominciò a filare in acqua sibilando. «Che cosa sta facendo?» urlò Sharp. «Fugge di nuovo!» rispose Darling. Afferrò la leva di arresto del verricello e la spinse, ma il verricello rifiutò di obbedire, il cilindro ruotò e il cavo continuò a scendere in acqua. «No!» gridò Manning. «Fermi la bestia!» «Non posso!» disse Darling. «Nulla può fermarla.» «È lei che non vuole. Ha paura. Le faccio vedere io come si fa.» Man-
ning posò il fucile, si chinò sul rotolo ai suoi piedi e afferrò un tratto libero di cavo. «Non lo faccia!» urlò Darling, e fece per correre verso Manning. Prima che Darling potesse fermarlo, Manning aveva lanciato il cavo verso il falcone, gli aveva dato volta e lo aveva annodato. «Ecco», disse Manning. Il cavo continuò a scorrere veloce, sibilando mentre passava sopra il parapetto d'acciaio. Manning si voltò verso poppa, riprese il fucile e restò in attesa di veder comparire la creatura. Nel voltarsi scivolò e in quell'attimo, evidentemente, la creatura si mosse più in fretta, le spire del cavo si alzarono di colpo e volarono in mare. Mentre Manning si agitava per rimettersi in equilibrio, pose un piede in un viluppo del cavo, che si avvolse strettamente intorno alla sua coscia sollevandolo dalla coperta come una marionetta. Per una frazione di secondo Manning restò sospeso sotto le luci. Non emise alcun suono, e il fucile gli sfuggì di mano. Poi una forza immensa tese il cavo, e Manning sembrò volare all'indietro, tirato per la gamba prigioniera, le braccia larghe come se stesse per tuffarsi a volo d'angelo. La luce illuminò per un istante il suo viso, in cui Darling non vide orrore né agonia né protesta... soltanto sorpresa, come se l'ultima sensazione di Manning fosse la meraviglia nel vedere che il fato aveva la temerarietà di opporsi a lui. Un colpo partì dal fucile caduto in coperta; il proiettile rimbalzò contro il parapetto e passò in alto sibilando. Darling credette di vedere la gamba staccarsi dal corpo di Manning, perché qualcosa sembrò cadere dal cavo. Invece non udì alcuno sciabordio, perché tutti i rumori erano coperti dalla vibrazione del cavo che si tendeva al limite della rottura sul falcone di poppa. Di colpo il cavo fu quasi orizzontale, e la barca fu trainata velocemente indietro. Le onde sbatterono contro lo specchio di poppa bagnando fino alle ossa i tre uomini a bordo. Poi Darling vide il cavo angolarsi appena sopra l'orizzontale e gridò: «È venuta su!» «Dove?» chiese Talley. «Dove?» Udirono uno sciabordio, un suono come il soffio di un mantice, e sentirono un odore acre. Gli spruzzi che caddero su di loro si trasformarono all'improvviso in una pioggia di nero inchiostro. Darling era caduto in ginocchio e si stava rialzando quando vide, tre o quattro metri oltre la poppa, uno scintillio d'argento e seppe d'istinto che
cos'era: i fili dei trefoli del cavo si stavano spezzando e si attorcigliavano su se stessi. «Abbassatevi!» gridò. «Cosa?» domandò Talley. Darling si slanciò contro di lui e lo abbatté sulla coperta con un placcaggio da rugby. Mentre cadevano, udirono uno schianto dietro la barca, come un colpo di pistola magnum sparato in una galleria, seguito immediatamente da un fischio acuto. Un tratto di cavo sibilò sopra di loro e frantumò i finestrini sul retro della tuga. Un secondo tratto di cavo sibilò subito dopo, e si udì il rumore della telecamera di Talley che si disintegrava contro una paratia. La barca beccheggiò e sbandò per un momento, poi si rimise in assetto. «Gesù Cristo...» mormorò Talley. Darling si allontanò da lui rotolando sulla coperta e si alzò in piedi. Guardò a poppa, nelle tenebre. Non restava una traccia, nulla a confermare che c'era stato qualcosa, non un intorbidimento dell'acqua, non un suono. Solo il sussurro lieve della brezza sul mare silenzioso. 48. Talley era bianco in volto come un foglio di carta. Mentre si alzava dalla coperta tremava così forte che aveva difficoltà a stare in piedi. «Non avrei mai pensato...» cominciò a dire, ma la voce gli mancò. «Non importa...» disse Darling. Lui e Sharp stavano ricuperando i grovigli di cima sparsi sulla superficie dell'acqua intorno alla barca. «Aveva ragione lei», disse Talley. «Su tutti i punti. Non c'era assolutamente modo di...» «Mi ascolti, dottore...» Darling guardò Talley e pensò: quest'uomo è disperato, ancora un minuto e crollerà. «Quando saremo a riva, avremo tutto il tempo di arrabbiarci e di lagnarci. Diremo delle nobili parole sul signor Manning e faremo le cose che dovremo fare. Ma in questo momento io voglio una cosa sola: andarcene lontano di qui. Scenda in cabina e si corichi.» «Sì», disse Talley. «Ha ragione.» Si diresse verso la tuga. Quando ebbero ricuperato il resto della cima, Sharp si sporse dalla poppa e disse: «Spero solo che una parte della cima non si sia avvolta sull'elica». «Vuoi scendere in acqua a controllare?» domandò Darling andando a
proravia. «Io non lo farei.» Poi aggiunse: «Talley aveva ragione su un punto: quel bastardo è stato veramente attirato dal richiamo. Ma adesso? Non ci capisco più niente. Tutto ciò che so è che voglio essere lontano mille miglia quando la bestia capirà che si è fatta fregare». Nella tuga Talley sedeva al tavolo. Aveva riavvolto il nastro della videocassetta e si accingeva a guardare il replay. «Che cosa cerca?» domandò Darling. «Qualunque cosa», rispose Talley. «Qualsiasi immagine.» Darling fece un passo verso la timoniera e disse a Sharp di sopra la spalla: «Controlla la compressione, Marcus, per favore». Sharp aprì il boccaporto del vano motore e scese. Di colpo Talley sussultò sulla sedia e gridò: «Gesù, Giuseppe e Maria!» Fissava il monitor con gli occhi spalancati, e annaspava alla ricerca dei comandi del registratore. Sharp e Darling andarono a mettersi dietro di lui, che finalmente trovò il pulsante «pausa» e lo premette. Sullo schermo si vedeva un'immagine di spuma e di bolle. Talley premette il pulsante di «avanzamento a fotogramma singolo», e l'immagine cambiò. «Questo è il simulacro», disse additando una chiazza densa e lucente. Sullo schermo bianco e nero appariva grigio scura. Nell'immagine successiva era scomparsa, poi riapparve sull'alto dello schermo. Talley indicò la parte bassa del monitor e disse: «State a vedere». Una specie di mongolfiera grigia salì dal fondo del monitor e, nel movimento a scatti dell'avanzamento a fotogramma singolo, diede l'impressione di camminare verso l'alto fino a riempire tutto lo schermo. I fotogrammi si susseguirono, e la forma grigia continuò a salire. Poi la parte bassa dello schermo fu invasa da qualcosa di biancastro, curvo sull'alto. Si muoveva all'insù, come per occupare tutto il quadro. La cosa doveva essersi allontanata dalla videocamera, perché poco per volta il campo si allargò, e l'oggetto prese la forma di un perfetto cerchio bianco sporco. Al suo centro c'era un altro cerchio nero come l'ebano. «Dio mio», disse Sharp. «È un occhio?» Talley annuì. «Di che dimensione?» «Non posso dirlo», rispose Talley. «Non c'è nulla con cui confrontarlo. Ma se la distanza dall'obiettivo è di circa un metro e ottanta e l'occhio riempie tutto lo schermo, dev'essere grande... così.» Alzò le mani distanziate di sessanta centimetri, quasi incredulo di fronte a quella misura. Poi,
con voce che era poco più di un sussurro, disse: «La bestia dev'essere lunga ventisette metri, forse di più». Alzò gli occhi verso Darling. «Potrebbe essere un esemplare di trenta metri.» «Quando saremo a casa», rispose Darling, «ci metteremo tutti in ginocchio e ringrazieremo Dio per non essere andati più vicini di così a quel fottuto mostro.» Si voltò e salì i due gradini che portavano alla timoniera. Stava spuntando l'alba. Il cielo a oriente si era schiarito fino al grigio azzurrino, e il sole nascente proiettava una striscia rosa all'orizzonte. Darling premette il pulsante di avviamento aspettando di udire dal vano motore i rumori consueti e il suono ansimante della messa in moto. Sentì solo uno scatto, poi nient'altro. Premette di nuovo. Questa volta, silenzio assoluto. Imprecò ripetutamente, poi diede una manata alla ruota del timone perché, non appena ebbe compreso che il motore non sarebbe partito, ne capì anche il motivo. Non si udiva il ronzio del generatore. Il silenzio gli disse che durante la notte il generatore doveva essere rimasto senza carburante. Le batterie erano subentrate automaticamente ma, alla fine, dopo avere alimentato per ore le lampade, il frigorifero e gli ecoscandagli, si erano esaurite. Erogavano ancora un po' di energia, ma non abbastanza per avviare il grosso motore diesel. Quando si fu calmato, rifletté su quale delle due batterie cariche del compressore sarebbe stata più facile da trasferire al motore principale, ne scelse una e ripassò mentalmente i passi da compiere per staccarla dai supporti, farla scivolare attraverso il labirinto delle attrezzature e piazzarla vicino al motore. Un lavoro scomodo, ma non era la fine del mondo. Mentre attraversava la timoniera diretto al vano motore, pensò che avrebbe dovuto spegnere tutti gli strumenti. Tutta l'energia dell'accumulatore carico doveva essere concentrata sull'accensione. Girò l'interruttore dell'ecoscandaglio, e lo stilo si immobilizzò. Il comando del secondo scandaglio, invece, era più lontano. Mentre si allungava per raggiungerlo, i suoi occhi si posarono sullo schermo. Non era più vuoto. Per un attimo pensò: Dio, sta tornando. Poi guardò più da vicino, e capì di non avere mai visto un'immagine simile a quella. Non c'erano i puntini luminosi che segnalavano pesci sparsi, o le macchie corrispondenti a banchi di pesci più grossi. L'immagine sul monitor era un'unica massa compatta di qualcosa di vivo, che saliva veloce e stava per affiorare in superficie.
49. La bestia si lanciò verso l'alto con la velocità di un siluro. Un osservatore avrebbe potuto credere che fosse in fuga perché si muoveva all'indietro, ma non stava fuggendo. La natura l'aveva progettata in modo che potesse andare a ritroso con grande celerità ed efficacia. Stava attaccando, e l'appendice triangolare dell'estremità caudale era come la punta di una freccia che la guidava verso il bersaglio. La bestia era lunga più di trenta metri, dalle estremità palmate dei tentacoli alla punta della coda, e pesava dodici tonnellate. Però non aveva alcuna idea della propria dimensione né della propria superiorità nel mondo marino. In quel momento i tentacoli erano contratti, le otto braccia raccolte e strette fra loro, perché la bestia aveva una forma idrodinamica che le garantiva la velocità di penetrazione. La sua organizzazione chimica era iperattiva, e i suoi colori erano mutati parecchie volte, mentre i sensi si sforzavano di decifrare messaggi contrastanti. Prima c'era stato l'impulso irresistibile a procreare, poi la perplessità quando aveva tentato di accoppiarsi e non c'era riuscita; la confusione perché la cosa aliena continuava a emettere il richiamo sessuale; l'ansia quando aveva cercato di liberarsi della cosa e scoperto di non poterlo fare perché l'oggetto le si era attaccato come un parassita; infine la rabbia quando aveva percepito una minaccia dalla cosa e si era impegnata con i tentacoli e con il becco a distruggere il nemico. Adesso restava la rabbia, ed era rabbia di una dimensione nuova. Il colore della livrea della bestia era diventato di un rosso cupo e viscoso. Prima di allora il calamaro gigante aveva sempre risposto agli impulsi di rabbia con immediati spasmi di distruzione esplosiva che avevano esaurito, dissipato il furore. Questa volta la rabbia non diminuiva, al contrario si evolveva. Aveva uno scopo, un obiettivo. Il predatore salì, avido non solo di distruzione, ma di morte. 50. Trecento metri, calcolò Darling mentre tarava l'ecoscandaglio a indicazione luminosa. La bestia era a trecento metri e saliva come un proiettile. Avevano cinque minuti di tempo, non di più, probabilmente meno.
Ridiscese nella tuga. «Prendi la gaffa, Marcus», disse. «E assicurati che il detonatore sia pronto ad agire.» «Cosa c'è che non va?» domandò Talley. «Il bastardo sta venendo di nuovo ad attaccarci», rispose Darling, «e la mia maledetta batteria è scarica.» Scomparve tornando al vano motore. Sharp salì al flying bridge, prese la gaffa ed esaminò la bomba. L'impasto di glicerina e benzina si era indurito, ma era ancora umido, e lui lo spalmò in modo omogeneo sulla parte superiore dell'esplosivo. Premette il flaconcino di vetro per farlo penetrare più profondamente nella pasta affinché non potesse cadere nemmeno se la gaffa fosse stata scossa con violenza. Il dispositivo era semplice, non c'era motivo perché non funzionasse. Appena l'aria avesse toccato il fosforo, l'avrebbe incendiato innescando una reazione a catena che avrebbe fatto esplodere il Semtex. L'unica cosa essenziale era che la bestia mordesse il flacone o lo sgretolasse con un tentacolo. Non dovevano fare altro che mettere la bomba in bocca o nel tentacolo di un mostro di trenta metri, e levarsi di mezzo prima di essere sbriciolati dall'esplosione. Tutto lì. All'improvviso Sharp fu colto dalla nausea. Guardò il mare tranquillo, screziato dal sole nascente. Tutto era in pace. Come faceva Whip a sapere che la creatura stava salendo? Come poteva esserne sicuro? Magari la forma che aveva visto sullo schermo era quella di una balena. Smettila, si disse. Smetti di fantasticare e tienti pronto. Darling strisciò attraverso il vano motore spingendo davanti a sé la pesante batteria a dodici volt. Aveva le nocche insanguinate e i crampi alle gambe. Quando stimò che la batteria fosse abbastanza vicina per poterle attaccare i cavi, li staccò dalla batteria scarica senza preoccuparsi di togliere questa dalle staffe. Non gli importava che la batteria nuova potesse liberarsi strappando i cavi, o sbatacchiasse tutto attorno. Una volta avviato il motore non ne avrebbe più avuto bisogno. Si prese il tempo di verificare che i cavi fossero collegati ai poli giusti positivo con positivo, negativo con negativo - poi serrò i bulloni. Fatto questo, si alzò e corse su per la scaletta.
51. La preda era esattamente sopra di lei. Poteva vederla con gli occhi, percepirla con i sensori distribuiti nel corpo. Non si fermò ad analizzare il bersaglio, non cercò segnali di vita o sentori di cibo. Però, siccome la preda era aliena, l'istinto disse alla creatura di essere cauta, di valutarla prima di agire. Così, come lo squalo gira intorno alle cose sconosciute, come la balena emette impulsi sonar e analizza i segnali di ritorno, l'Architeuthis passò una volta sotto la preda e la scrutò con gli occhi. La forza del suo passaggio fece salire verso l'alto un'onda di pressione. All'improvviso la preda emise suoni fragorosi, poi si mosse. La bestia interpretò quei suoni come segni di fuga. Ruotò prontamente l'imbuto nel proprio corpo, si distese in tutta la lunghezza e attaccò. 52. Quando aveva sentito la barca alzarsi sotto di sé, Darling aveva trattenuto il respiro; poi aveva premuto il pulsante, e, un attimo dopo, aveva udito il rombo del grosso motore diesel. Non aspettò che si scaldasse: spinse avanti la manetta e ci si appoggiò con tutto il proprio peso. Dapprima la barca balzò in avanti, poi si fermò di colpo, come se fosse stata ancorata a poppa. Si impennò alzando la prua, e Darling fu scagliato indietro contro la paratia. Poi la barca ricadde e immerse la prua. Però non poté andare avanti. Il suono del motore era passato dal ruggito a un urlo lamentoso. Poi cominciò a scoppiettare. Tossì due volte, infine si spense, e il motopeschereccio rimase inerte sull'acqua. Gesù santo, pensò Darling, la bestia ha scassato l'elica, l'ha bloccata, o forse l'ha piegata contro l'albero. Sentì improvvisamente freddo. Scese dal flying bridge e andò a poppa. Talley era in piedi vicino al boccaporto e guardava intontito il mare. Quando vide Darling, disse: «Dov'è? Mi sembra che lei abbia detto...» «Esattamente sotto di noi», rispose Darling. «Ci ha incastrati come meglio non si poteva.» Andò a poppa e si sporse a guardare l'acqua. Vicino alla fiancata, sotto il barcarizzo, si vedeva un tentacolo torcersi come un serpente. Talley, che stava al fianco di Darling, disse: «Deve aver tentato di affer-
rare l'elica». «Adesso ha perso un braccio», commentò Darling. «Forse l'avrà scoraggiata.» «Lo escludo», replicò Talley. «Può solo averla fatta infuriare.» Darling guardò verso il flying bridge e vide Sharp che impugnava il fucile di Manning. Mentre si avviava su per la scaletta, sentì Talley dire: «Capitano...» «Cosa c'è?» \ «Mi dispiace. È tutta colpa della mia...» «La smetta. Scusarsi è una perdita di tempo, e noi ne abbiamo poco. Si metta un giubbotto di salvataggio.» «Stiamo affondando?» «Non ancora», disse Darling. La gaffa era in posizione verticale in un reggicanne. Darling la prese e la soppesò. «Lo farò io», disse Sharp indicando la bomba attaccata alla gaffa. «No, Marcus», rispose Darling sforzandosi di sorridere. «Privilegio del comandante.» Guardarono entrambi la superficie del mare, e in quel momento il sole si alzò sopra l'orizzonte passando dall'arancione all'oro; il colore del mare cambiò dal grigio opaco all'azzurro acciaio. La bestia si contorse nell'oscurità, sconvolta dal dolore e dalla confusione. Un liquido verde colava dal moncone del tentacolo amputato. Non era inabilitata, non avvertiva una perdita di potenza. Sapeva solo che quella che aveva percepito come preda era più di una preda, era un nemico. Salì di nuovo in superficie. Darling e Sharp stavano guardando dalla prua quando dietro di loro si alzò la voce di Talley che gridava: «No!» Si voltarono di scatto verso poppa, e si sentirono gelare. Qualcosa stava venendo da sopra il parapetto. Per un momento sembrò loro di veder colare una gigantesca ameba viola. Poi la parte anteriore si curvò all'indietro come un labbro, cominciò a salire e a espandersi fino a quando fu larga più di un metro e alta due metri e mezzo, tanto da coprire i raggi del sole. Era coperta di dischi palpitanti simili a bocche affamate, e in ognuna di esse Darling vide una lama lucida colore dell'ambra. «Spara, Marcus!» urlò Darling. «Spara!»
Ma Sharp restava a bocca aperta, come ipnotizzato. Poi, sotto di loro, Talley udì qualcosa, si voltò a sinistra e gridò. A mezzanave avanzava strisciando l'altro tentacolo della bestia. Il grido riscosse Sharp, che ruotò su se stesso e sparò tre colpi. Uno andò alto, un altro colpì la paratia, il terzo andò a segno nell'estremità palmata del tentacolo. I tessuti non reagirono, non sanguinarono, non si ritrassero. Sembrarono inghiottire la pallottola. Altre braccia invasero la coperta a poppa, torcendosi come serpi e ricadendo in mucchi di carne violetta, in cui ciascuna cellula si muoveva, pulsava e vibrava come se avesse un proprio scopo individuale. Sembravano sentire la presenza di vita, di movimento sulla barca, e cominciarono a spostarsi sulle ventose, come ragni alla ricerca della preda. Talley sembrava paralizzato. Non arretrò, non fece alcun movimento per fuggire, e rimase immobile, pietrificato. «Dottore!» gridò Darling. «Si tolga di lì, presto!» Quando entrambi i tentacoli furono riuniti a poppa, smisero di muoversi per un attimo, come se la creatura esitasse; poi, d'un tratto, si gonfiarono per la tensione muscolare, e la poppa fu spinta in basso. L'oceano sembrò salire dietro la barca, come se stesse dando forma a una montagna. Ci furono un suono di risucchio e un ruggito. «Gesù Cristo!» urlò Darling. «Sta venendo a bordo!» Arretrò tenendo la gaffa all'altezza della spalla come una lancia. Si videro prima le braccia, ormai ridotte a sette, che avvilupparono la poppa e, come un atleta alle parallele, si misero a spingerla verso il basso per far salire il corpo. Poi si vide un occhio bianco-giallastro, di una grandezza impossibile, come un'eclissi anulare di sole. Al centro dell'anello spiccava un globo di un nero insondabile. La poppa fu spinta in basso fino a essere inondata. L'acqua si riversò a bordo e andò verso prua colando nei boccaporti. Sta per farlo, si disse Darling. Il bastardo sta per affondarci, e poi ci prenderà uno per uno. Comparve anche l'altro occhio e, come la creatura voltò la testa verso di loro, gli occhi sembrarono fissarli. Tra un occhio e l'altro le braccia vibravano e si contorcevano. Alla giunzione delle braccia con la testa, simile al centro di un bersaglio, il becco di mezzo metro, aguzzo e sporgente, sbatteva per azione riflessa chiedendo di essere imboccato. Produceva il suono di una foresta nella bufera, di grandi tronchi scricchiolanti sotto la violenza
del vento. Finalmente Talley ritornò in sé. Si voltò, corse alla scaletta e cominciò a salire. Era a metà strada per il flying bridge quando la creatura lo vide. Uno dei tentacoli si raccolse, salì nell'aria e scattò in avanti verso di lui. Talley lo vide arrivare e cercò di scansarlo, ma il suo piede scivolò sulla scaletta e lui rimase appeso per le mani a uno dei pioli. Il tentacolo si avvolse intorno alla scaletta, la strappò dalla paratia e la tenne sospesa sopra il flying bridge, con Talley che pendeva come una marionetta. «Si lasci andare, dottore!» urlò Darling mentre l'altro tentacolo sibilava in alto e sferzava Talley. Talley lasciò la presa e cadde, e i suoi piedi toccarono l'estremità del flying bridge. Per un secondo restò barcollante dov'era, con le braccia che mulinavano nel tentativo di trovare la battagliola. Aveva gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Poi, quasi al rallentatore, cadde di schiena in mare. Il tentacolo stritolò la scaletta e la gettò via. Sharp sparò sulla bestia fino a vuotare il caricatore. I proiettili traccianti penetrarono nei tessuti viscidi e scomparvero in essi. La coda della creatura scattò in avanti, spingendo il corpo più in su nella barca; dal basso giunse il rumore di attrezzi, sedie e piatti che si frantumavano contro le paratie d'acciaio. «Va', Marcus!» ordinò Darling. «Va' via tu. Lasciami...» «Vattene, per Dio!» Sharp guardò Darling, fece per parlare, ma non c'era niente da dire. Si tuffò. Darling si voltò verso poppa. Faticava a reggersi in piedi; il ponte di coperta era inclinato, e lui si accovacciò, puntando un piede contro il parapetto. La creatura stava demolendo la sovraccoperta. I tentacoli sventolavano a casaccio, afferrando tutto ciò che toccavano - un rotolo di cima, un coperchio di boccaporto, l'antenna -, per poi spezzarli e gettarli in mare. Nell'aspirare aria nel proprio mantello ed espellerla dall'imbuto, la bestia produceva suoni simili al grugnito di un maiale. Poi quella violenza cessò e, come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa, la grande testa, la faccia che sembrava un nido di vipere, si voltò verso Darling. I tentacoli scattarono, attaccandosi alla battagliola del flying bridge. Darling vide i tessuti gonfiarsi per la contrazione dei muscoli. I tentacoli tirarono, e la creatura venne avanti.
Darling piazzò un piede sulla battagliola, l'altro ben saldo sulla coperta, e alzò la gaffa sopra la testa come una fiocina. Tentò di valutare la distanza tra sé e il becco dell'animale. La creatura sembrava rovesciarsi verso di lui. Le bracca si allungarono; Darling si concentrò sul becco che sbatteva e colpì. La gaffa gli fu strappata di mano, e lui fu scagliato contro il parapetto metallico. Vide uno dei tentacoli sollevare la gaffa e farla cadere in mare. L'unico pensiero di Darling fu: sto per morire. Le braccia si tesero verso di lui, che le scansò, ma i piedi scivolarono. Cadde slittando oltre il bordo del flying bridge, e finì sul ponte di poppa inclinato. Si trovò nell'acqua fino alla cintola. Arrancò verso il parapetto. Se avesse potuto lanciarsi fuori bordo, allontanarsi dalla barca, forse sarebbe riuscito a nascondersi tra i relitti, forse la creatura avrebbe perso interesse, forse... La bestia apparve dalla sommità della tuga, torreggiante sopra di lui, con i tentacoli che danzavano oscillando come cobra. Le sette braccia corte, e anche il moncone stillante dell'ottavo braccio, si allungarono verso di lui per spingerlo nelle mascelle dal colore ambrato. Darling si voltò e tentò di raggiungere l'altro lato della barca. Un braccio percosse l'acqua a breve distanza; Darling scartò, inciampò e si riprese. Quanti passi distava ancora? Cinque? Dieci? Non ce l'avrebbe mai fatta. Continuò ad avanzare perché non aveva alternative, e perché qualcosa dentro di lui rifiutava di arrendersi. Un ostacolo lo bloccò. Tentò di spingerlo da parte, ma era troppo pesante, non si muoveva. Lo guardò per vedere se poteva tuffarcisi sotto. Era il coperchio del boccaporto, che galleggiava. Sopra il coperchio era posata la sega a motore. Darling non si fece domande, non esitò, non pensò nemmeno. Afferrò la motosega e tirò il cavetto d'avviamento. Ebbe fortuna al primo colpo, e il piccolo motore cominciò a girare in folle con un minaccioso borbottio. Premette il pulsante e la lama azionata dalla catena entrò in rotazione spruzzando gocce d'olio. Sentì se stesso dire: «Okay», e si voltò verso la bestia. Questa sembrò fermarsi per un istante; poi, con un grugnito prodotto dall'espulsione dell'aria, allungò i tentacoli verso di lui. Darling premette di nuovo il pulsante, e il rumore della sega divenne un urlo lacerante.
Uno dei bracci passò davanti al viso di Darling, che lo affrontò con la sega. I denti penetrarono nella carne, e Darling fu inondato e mezzo soffocato dal puzzo di ammoniaca. Il motore faticava, rallentò come se stesse tagliando legno bagnato, e Darling pensò: no! Non fermarti, non adesso! Il rumore cambiò, salì di tono, e i denti tagliarono in profondità, sparando su Darling grumi di carne. Il braccio fu troncato e cadde. Un suono venne dalla bestia, un suono di rabbia e di dolore. Un altro braccio assalì Darling, e un altro ancora, e lui si difese con la motosega. Quando i denti facevano presa, i bracci si ritraevano, scattavano indietro e poi, come se fossero spronati dal cervello frenetico della creatura, tornavano all'attacco. Una pioggia di frammenti di tessuto esplose intorno a Darling, che fu inzuppato di melma verde e di inchiostro nero. D'un tratto sentì qualcosa toccargli una gamba, sott'acqua, salire ed avvolgerglisi intorno alla vita. Era stato afferrato da uno dei due tentacoli lunghi. Si voltò per individuarlo e amputarlo con la sega prima che la presa fosse troppo stretta, ma, nella massa di membra che si contorcevano, non riuscì a distinguere il tentacolo dalle braccia. Quando il tentacolo si fu avvolto intorno a lui, cominciò a stringere, come un pitone, e Darling sentì un dolore penetrante prodotto dagli uncini delle ventose che gli laceravano la pelle. Sentì che il tentacolo lo sollevava, che i suoi piedi si staccavano dalla coperta; sapeva che, una volta alzato in aria, poteva considerarsi morto. Contorse il corpo per mettersi di fronte al becco che continuava ad aprirsi e richiudersi. Mentre il tentacolo lo stringeva levandogli il respiro, Darling si sporse verso il becco brandendo la motosega. Il becco si aprì e Darling poté vedere per un secondo la lingua rosa che guizzava, cosparsa di raspe simili a denti. «A te!» gridò, e spinse la sega nel becco spalancato. La sega sobbalzò, con i denti che non riuscivano a scalfire il becco osseo, e scivolò via. Mentre Darling l'alzava di nuovo, uno dei bracci saettò davanti al suo viso, afferrò la sega e la gettò lontano. Adesso, pensò Darling, sono morto davvero. Il tentacolo strinse, e Darling intuì che la nebbia davanti ai suoi occhi annunciava l'oblio, la fine imminente. Si sentì salire, vide il becco venire verso di lui, respirò un fetore rancido. Vide uno degli occhi, scuro e vacuo, implacabile.
Poi, all'improvviso, sembrò che la bestia si alzasse come spinta da una forza proveniente dal basso. Ci fu un suono che non somigliava a nessun altro mai udito da Darling, fluido e al tempo stesso ruggente. Qualcosa di nero-bluastro era esploso dalle viscere del mare tenendo in bocca il calamaro. Il tentacolo che stringeva Darling si contorse violentemente; Darling si sentì scagliare, poi precipitare, nel nulla. 53. «Tiri!» gridò Sharp. Talley allungò le braccia nell'acqua cercando alla cieca la cintura di Darling. La trovò e tirò. Sharp lo sosteneva sotto le ascelle e, fra tutti e due, lo issarono sul coperchio capovolto del boccaporto. Era immerso nell'acqua, ma il legno di cui era fatto era massiccio e sano, e abbastanza grande per ospitare loro tre. La camicia di Darling era sbrindellata, il suo ventre e il suo petto erano solcati da strisce sanguinose là dove gli uncini della bestia avevano lacerato la pelle. Sharp tastò un'arteria giugulare. La pulsazione era forte e regolare. «Se non ci sono lesioni interne, dovrebbe farcela. Okay.» Nella nebbia cupa in cui era piombato, Darling udì la parola «okay» e gli sembrò di nuotare verso la luce. Aprì gli occhi. «Come ti senti, Whip?» «Come se mi fosse passato addosso un camion. Un camion pieno di coltelli sporgenti.» Sharp sollevò Darling e gli sostenne la schiena. «Guarda», gli disse. Il motopeschereccio non c'era più, l'animale era scomparso. «Cosa è successo?» domandò Darling. «Chi è stato?» «Un capodoglio», rispose Sharp. «Si è preso il calamaro tutto intero. Lo ha morsicato dietro la testa.» Ci fu un movimento improvviso nell'acqua, e Darling trasalì. «Va tutto bene», lo rassicurò Talley. «È solo vita, solo natura.» La superficie del mare era costellata di brandelli di carne, masse di tessuti, e ciascuno di essi subiva un assalto. Intorno al relitto c'era un tumulto come se fosse suonata la campana del pranzo per convocare le creature dalle secche e dalle acque profonde. Tra gli avanzi galleggianti passò la pinna dorsale di uno squalo. La testa di una tartaruga spuntò, si guardò in-
torno e si immerse di nuovo. I bonitos pullulavano in superficie e si lanciavano su quei resti freschi e impotenti. Sgombri e pesci azzurri si ignoravano l'un l'altro e sfrecciavano in quell'acqua straordinariamente ricca di cibo. «Bello», disse Darling. «Questo è il tipo di vita che mi piace.» «Non so dove siamo né dove stiamo andando», disse Sharp. «Non vedo la terra, non vedo un accidente.» Darling inumidì un dito e lo sollevò. «A casa», rispose. «Vento di nordovest. Stiamo andando a casa.» 54. Era stata creata negli abissi e c'era rimasta per settimane, aderente alla sporgenza del pendio sottomarino. Adesso si era staccata, come aveva programmato la natura, e, tenuta a galla da una concentrazione di ioni di ammonio, aveva cominciato lentamente a salire verso la superficie. In altri tempi avrebbe potuto essere divorata mentre saliva, perché costituiva una ricca fonte di cibo. Ma nulla l'aveva aggredita; nulla aveva leso la sua integrità provocando un afflusso di acqua marina che avrebbe ucciso le piccole creature contenute nella cosa. Pertanto era giunta senza danni in superficie e si crogiolava nella luce solare indispensabile alla sua sopravvivenza. Fluttuava sull'acqua calma, indifferente al vento e alle altre condizioni atmosferiche: tanto sottile da essere quasi trasparente. Invece la sua pelle gelatinosa era eccezionalmente robusta. Era ovale, con un buco nel centro. Agiva in conformità a eoni di istruzioni genetiche e ruotava nella luce del sole, esponendosi per intero ai fotoni che le giungevano da centocinquanta milioni di chilometri. Eppure era vulnerabile. Avrebbe potuto essere mangiata da una tartaruga, o squarciata da uno squalo. La natura aveva stabilito che molte delle sue creature dovevano morire, nutrendo altre specie e mantenendo l'equilibrio della catena alimentare. Tuttavia, poiché la natura stessa era squilibrata, l'ovale gelatinoso ruotò per giorni e notti fino al completamento del proprio ciclo. Infine, quando giunse il momento, si aprì e disperse nel mare migliaia di capsule ialine piccolissime, ciascuna delle quali conteneva una creatura completa. Ognuna delle creature sentì che era venuto il tempo di vivere, lacerò la membrana, uscì e si mise subito in cerca di cibo.
I piccoli esseri erano cannibali, e quelli che poterono farlo si avventarono sui propri fratelli e li mangiarono. Ma erano molto numerosi e si dispersero così rapidamente nell'acqua che la maggior parte di loro sopravvisse e scese nel freddo confortevole del mare profondo. Quasi tutte le creature avrebbero dovuto essere mangiate prima di raggiungere la sicurezza sul fondale o nelle fenditure del vulcano sommerso. Il tasso di sopravvivenza non avrebbe dovuto superare l'uno per cento. Ma i predatori voraci non c'erano più. Vennero, sì, alcuni cacciatori solitari a riscuotere il proprio pedaggio, ma non esistevano più le schiere numerose che un tempo avevano funzionato da equilibratori naturali. I grandi branchi di bonitos e di sgombri, gli sciami di piccole seppie bianche, i pesci azzurri, le tribù di tonni, i voraci wahoo e barracuda, erano tutti scomparsi. Fu così che, quando le creature ebbero attraversato un chilometro di acque aperte e trovato rifugio negli scogli, una discreta percentuale di esse forse cento, forse due o trecento individui - viveva ancora. Fluttuarono, ognuna per conto proprio perché non erano una specie gregaria, aspirarono acqua nei loro mantelli e la espulsero dall'imbuto che avevano nel ventre. La loro fiducia aumentava con ogni ossigenazione. I corpi si sarebbero evoluti lentamente, e per un anno o più avrebbero dovuto guardarsi dagli altri predatori. Ma sarebbe venuto il tempo in cui sarebbero state consapevoli della propria unicità, della propria superiorità, e si sarebbero avventurate nelle acque abissali. Fluttuavano e aspettavano. FINE