MARION ZIMMER BRADLEY STORIE FANTASTICHE DI SPADE E MAGIA (Sword And Sorceress 1984) (Sword And Sorceress II 1985) INTRO...
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MARION ZIMMER BRADLEY STORIE FANTASTICHE DI SPADE E MAGIA (Sword And Sorceress 1984) (Sword And Sorceress II 1985) INTRODUZIONE Lo speciale sottogenere della fantasy chiamato Spada e Magia è stato l'ultimo ad integrare i ruoli dell'uomo e della donna. Fino a poco tempo fa, le storie d'avventura dominate dall'uomo erano l'ultimo baluardo dell'eroe maschio ed erculeo: la donne costituivano solo il premio o lo sprone per le avventure dei protagonisti, dalle quali però esse venivano escluse. Nel genere Spada e Magia, anche quando non era solo una "damigella urlante" che doveva venir salvata da draghi, pericoli di ogni tipo o perfidi maghi, la donna restava sempre dietro le quinte, emergendo solo di quando in quando per ricompensare l'eroe con un casto bacio o per portargli in dote il suo regno. Ma anche le donne leggono fantasy, e si sono stufate di doversi sempre identificare con un eroe di sesso maschile. Molte di noi volevano vivere le loro avventure in prima persona, come Jirel di Joiry, creazione di una scrittrice di fantasy del passato, C.L. Moore. Di tanto in tanto qualche personaggio femminile spiccava sugli altri. È il caso di Red Sonya, creata da Robert E. Howard, l'autore delle storie di Conan il Barbaro, la quale, dopo aver visto violentare ed uccidere la madre, si rifiuta di concedersi ad un uomo che non sappia superarla nel maneggiare la spada. E nella famosa saga creata da Michael Moorcock, Elric di Melnibone incontra ogni tanto donne guerriere o perfide maghe. Quando cominciai a scrivere e, più tardi, a pubblicare antologie di narrativa eroica che presentavano personaggi femminili, mi accorsi immediatamente che non avrei potuto scrivere lo stesso tipo di storia, mettendo una possente amazzone guerriera al posto di un baldanzoso eroe: generalmente le donne non si lanciano nelle avventure allo stesso modo degli eroi maschi. (Sorvoliamo sulle tre o quattro notazione di psicologia freudiana che spiegano le pulsioni delle donne guerriere in termini di invidia sessuale o di desiderio di possedere le prerogative maschili: diciamo che il loro atteggiamento è diverso.) È stato fatto notare da più di un esperto che la leggenda delle amazzoni,
che compare costantemente in quasi tutte le culture, non è stata inventata dalle donne. Alcuni esponenti di una corrente di pensiero per la verità alquanto dubbia hanno etichettato questa presenza universale della figura delle amazzoni come "prova" di una preesistente e primordiale "società matriarcale", nella quale erano le donne a detenere il potere e gli uomini ad obbedire. Personalmente, non ho trovato alcuna prova concreta dell'esistenza di una tale società e sono piuttosto infastidita quando sento le femministe parlare a sproposito dell'"epoca lontana del matriarcato", come se fosse un fatto assodato. Preferisco sempre mantenere un'attenta distinzione tra la storia e la fantasia. Se la teoria femminista ritiene che "se le amazzoni non esistessero, dovremmo inventarle", allora tanto peggio per la teoria femminista. Se non siamo capaci di accettare la verità, allora tanto peggio per noi. Ma il concetto di amazzone ci accompagna da molto tempo. In un suo eccellente libro, Abby Kleinbaum sottolinea che "né nella tradizione greca né in quella romana l'immagine dell'amazzone aveva lo scopo di glorificare le donne. Invece veniva usata da artisti, autori, e capi politici di sesso maschile". In questi racconti ricorrenti, le amazzoni esistono solo per essere sconfitte dagli uomini e di solito anche violentate ed umiliate sessualmente. "L'immagine dell'amazzone" continua la Kleinbaum, "è sempre sul punto di estinguersi o di scomparire". L'amazzone viene inventata per continuare ad essere sconfitta, convertita in una moglie obbediente oppure conquistata ed uccisa. "Ma viva o morta, alla fine la natura di amazzone che è in lei non sopravvive mai". La Kleinbaum fa notare che "tutto quello che ci si aspetta di ascoltare o di leggere è la storia della bellissima Regina delle Amazzoni il cui odio per gli uomini si spegne davanti al vigore sessuale e guerriero di un vero eroe". I Greci, secondo quanto dice la Kleinbaum, dovettero inventare le amazzoni per provare che erano in grado di conquistare le donne: non solo quelle donne mezze idiote opportunamente velate che effettivamente sposavano, ma anche la teorica "donna forte". Questa è un 'immagine molto suggestiva, ma anche molto inquietante, sia per gli uomini che per le donne. Quando, nelle storie dì Darkover, ho cominciato a scrivere delle Libere Amazzoni, molte donne si sentirono minacciate e sì posero sulla difensiva, giungendo perfino a scrivermi (a me, ad un 'estranea), per dirmi di quanto sì sentissero realizzate nel loro matrimonio e dì come non volessero in nessun modo venir associate ad una qualche idea di donne libere. Anche se la maggior parte delle femministe
considerarono le mie Libere Amazzoni, realistiche e relativamente docili, come uno "svendersi agli uomini, una scappatoia per sottrarsi alla sfida della creazione dì una vera società femminista", molti uomini e donne ritennero che mi fossi spinta invece un po' troppo oltre il lecito. Molte donne trovarono nelle Libere Amazzoni di Darkover un modello di ruolo e di libertà da seguire; eppure, per la maggior parte di esse le amazzoni darkovane erano, come tutte le amazzoni, una minaccia intollerabile. Vi fu chi definì il mio primo romanzo sulle Libere Amazzoni "il libro della liberazione femminista che ogni scrittrice dovrebbe scrivere". Eppure non erano solo uomini gli autori di quelle storie classiche che stavano a dimostrare che i maschi possono con tutta facilità sconfiggere l'immagine dell'amazzone; come non erano solo uomini coloro che inventarono l'amazzone per provare che poteva essere sconfitta. Anche le donne hanno scritto racconti sulle amazzoni per provare che potevano sconfiggere l'amazzone che era in loro stesse. Quando mi accinsi a pubblicare due volumi di racconti sulle Libere Amazzoni (visto che ricevevo due o tre storie su quel soggetto per ogni storia di Darkover), classificai le consuete storie sulle amazzoni con l'etichetta "tipo A". In genere, queste storie si riassumevano nella seguente formula: la Libera Amazzone trova un uomo da amare ed in cui può avere fiducia. Mentre cercavo di scoprire se le storie di Spada e Magia potessero davvero rappresentare la donna come maga e guerriera, mi accorsi che quel campo aveva già sviluppato i propri cliché. Come ho detto prima, uno stereotipo era quello della storia che sdrammatizzava l'ansia della donna di competere con gli uomini: la storia di tipo A, in cui la Libera Amazzone che si sentiva sola ed infelice in mezzo alle donne trovava un uomo da amare e di cui fidarsi, e fin troppo spesso, ohimè, era un uomo per il quale si sentiva obbligata a rinunciare alla sua indesiderata libertà. Personalmente, provo una certa repulsione per questo genere di storie. Eppure è evidente che esercitano un notevole fascino, altrimenti non vi sarebbero tante donne pronte a scriverle. Il secondo tema classico, o forse il primo per importanza, è quello della violenza e della vendetta. Red Sonya, di cui abbiamo già detto, incarna alla perfezione questa immagine classica. E lo stesso vale per la prima avventura di Jirel di Joiry, "Il bacio del dio nero" ("The Black God's Kiss", 1934). In questo racconto, scritto più di cinquant'anni or sono, Catherine Moore racconta la storia di Jirel di Joiry, presa prigioniera e umiliata da Guillaume, che si avventura in un terrificante mondo di magia aliena per
cercare la vendetta, vendetta che lei brama più dì ogni altra cosa. Dopo spaventose avventure nel mondo infernale, Jirel trova la sua vendetta nel Bacio del Dio Nero, che quando viene portato alla luce del sole e concesso al suo conquistatore, uccide Guillaume all'istante; ma questa morte fa sì, inoltre, che Jirel capisca di amare l'uomo che l'aveva conquistata, e quindi con la sua scomparsa scompare per lei anche la luce del mondo. Quindi una storia classica di donne, in cui l'orgoglio si erge come un ostacolo sulla strada della vera felicità, che è la resa nei confronti dell'uomo. Ma sono poche quelle fra noi lettrici, cresciute agli albori del genere eroico, che l'hanno interpretata così. Al contrario, ci esaltammo al pensiero di poter essere spadaccine libere ed indipendenti a pieno diritto. Molte di noi riuscirono persino ad ignorare il significato nascosto di questa storia, e cioè che questa vendetta ci avrebbe fatto più male di quanto potessero farcene i nostri conquistatori, o che la vera felicità dovrebbe essere nella resa. E molte di noi continuarono a creare donne che erano veramente autonome. A differenza di Jirel, le amazzoni guerriere del giorno d'oggi non amano e non si piegano ai loro conquistatori. Nel realizzare questa antologia, ho cercato di evitare quelle storie che si limitavano a ribaltare il vecchio cliché, facendo sì che fossero le donne a dominare gli uomini. Ho anche evitato le storie che mostravano le donne solo nel ruolo di "fedeli compagne indiane" o "fedeli scudiere del potente eroe", ma ho scartato anche quelle storie in cui le donne diventano le dominatrici di uomini sempliciotti. Credo che tutti questi racconti considerino gli uomini e le donne come persone, come esseri umani che sono in grado di lavorare fianco a fianco, senza che uno debba per forza dominare l'altro o conquistarlo. All'inizio avevo sperato di poter evitare storie che parlavano di violenza e vendetta, ma presto mi resi conto che questo è un archetipo ed un'immagine molto reale nella fantasy eroica. Una volta ho detto che nelle storie di spada e magia il motivo nascosto è sempre la violenza, e che quando gli uomini vanno in cerca di avventure, una delle cose che sembrano cercare sono le donne da distribuire come oggetti premio. Le storie che parlano di rivincita sono piuttosto comuni nella narrativa: l'uomo privato della casa, dei beni e dei suoi affetti, che va a cercarsi la propria vendetta. Uno dei temi più comuni nella narrativa che parla di donne, o anche scritta da donne, da Jirel di Joiry fino ai giorni nostri, è quello della donna che esige una vendetta onorevole per la violenza subita o per il proprio onore. Quindi il tema della donna che si vendica o che difende il proprio onore è
un tema rispettabile ed io ho scelto alcune storie di questo genere. In "Teste mozzate", la giovane eroina di Glen Cook si lancia in un'avventura per vendicare il suo onore, ma anche per un'altra ragione: il violentatore ha aggiunto all'insulto un atto ignobile, rapendo il figlio nato da quella violenza, e mentre lei avrebbe potuto sopportare la prima offesa, si rifiuta di sopportare la seconda. In "Sangue di magia" di Jennifer Roberson, la mutante prigioniera deve lottare per liberarsi o ridursi a vivere con il marchio della strega. E ne "La spada di Yraine", la giovane Shanna vede le sacerdotesse e le sue giovani amiche attaccate e violentate sotto i suoi occhi: deve sottomettersi anche lei allo stesso modo, o deve prendere la spada in propria difesa? Nessuna di queste storie ricalca il solito cliché: al contrario, richiedono tutte una scelta morale profonda e una responsabilità personale. Ci sono anche altri generi di storie. Il racconto di Phyllis Ann Karr su Fiordigelo e Spina, come pure "La creatura delle tenebre" di Emma Bull, raccontano di una donna guerriera e di un'altra molto più pacifica che viaggiano insieme e rappresentano le due facce dell'essere donna. Aynber, ne "La valle del Troll" dì Charles de Lint, è su di un piano di perfetta parità con il suo amico mago Thorn Hawkwood, proprio come fa Scorpia ne "Il cancello dei dannati" di Janet Fox. La guerriera del Dahomey, Dossouye, ne "Le canzoni di Gimmile" è vulnerabile nei confronti del musicista Gimmile. Perché le donne diventano guerriere e maghe? Le risposte sono tante quante le storie che vengono scritte. Come accade nella buona narrativa, nonostante questi racconti spazino dai toni più seri alle più alte vette della farsa, come è il caso dei gradevolissimi "Rubacuori" e "La valle del Troll", i personaggi affrontano avventure che li obbligano a compiere delle scelte personali su ciò che sono e ciò che vorrebbero essere. Del tema che ho voluto classificare come "violenza e vendetta" ho già detto, ma molte fra le storie che mi è capitato di leggere per questa antologia trattavano di un altro tema fondamentale, quello della "Fanciulla Prescelta". Forse la causa è da ricercare nel successo del film Dragonslayer (lì drago del lago di fuoco, 1981), perché uno dei temi della pellicola era una lotteria che si teneva ogni anno in un villaggio allo scopo di scegliere come capro espiatorio una fanciulla per placare il drago e salvare gli altri abitanti. Mi chiedo: è questo una specie di simbolismo di Cristo al femminile...? Ovvero, "è doveroso che qualcuno sacrifichi la propria vita per tutta l'umanità"? Penso di no. Nella mitologia greca, Andromeda viene incatenata davanti ad un drago finché non
giunge l'eroe Perseo con la testa della Gorgone per trasformare in pietra il drago. Nella versione originale del balletto dì Stravinsky, La sagra della primavera (1913), c'è una Danza della Fanciulla Prescelta, dove ella si sacrifica danzando fino alla morte rituale. Le Fanciulle Prescelte di queste storie, però, non aspettano un Eroe che le salvi dal fato che le attende. Ciascuna di queste Fanciulle Prescelte che ho deciso di presentarvi, affronta la cosa in modo diverso ed ognuna di esse è un 'eroina a pieno titolo. Credo che sia questo il valore della narrativa eroica, e cioè che essa ci obbliga a confrontarci con quanto dì eroico c'è in noi stessi e ad affrontare i nostri incubi e l'immagine che ci siamo costruiti di noi stessi. Non credo che questa esigenza sia limitata ai soli uomini o alle sole donne. Storie che si occupano solo di faccende maschili sono storie a metà, come lo sono quelle che parlano solo di faccende femminili: sono entrambe solo la metà della verità umana. In ognuno di noi c'è il maschile ed il femminile, e credo che sia gli uomini che le donne possano leggere queste storie e trovare sia il bene che il male che c'è in ognuno di noi. Il valore non ha razza, né colore, né sesso. Il fatto che io abbia scelto racconti che riguardano soprattutto le donne è una questione di preferenza personale, non un pregiudizio. Il fatto che abbia scelto storie che parlano sia di uomini che di donne, e scritte inoltre sia da uomini che da donne è, spero, un segno dei tempi ed una prospettiva per il futuro della narrativa eroica. E dal momento che la vita imita sempre l'arte, potrà anche essere un segno eroico per il futuro di entrambi, uomini e donne. Tutti possono scrivere narrativa maschilista, come tutti possono scrivere propaganda femminista. Io spero di evitare tutte e due le cose e, nel contempo, dì riuscire anche a divertirvi. Penso che questa antologia, che accoglie nomi nuovi accanto ad altri già affermati, abbia centrato il bersaglio. Ne sono orgogliosa, e spero che anche voi siate d'accordo. Perché, quali che siano state le convinzioni che mi hanno guidata nella scelta dei racconti, la narrativa ha un unico scopo ed è quello di divertire il lettore (o la lettrice) e di farlo riflettere. Marion Zimmer Bradley QUESTO VOLUME CONTIENE: "Il granato e la gloria" di Phyllis Ann Karr "Teste mozzate" di Glenn Cook
"Rubacuori" di Stephen L. Burns "La creatura delle tenebre" di Emma Bull "Le canzoni di Gimmile" di Charles R. Saunders "La valle dei Troll" di Charles de Lint "Imperatrix" di Deborah Wheeler "Sangue di magia" di Jennifer Roberson "Con quattro levrieri" di Pat Murhpy "La casa nella foresta" di Anodea Judith "La spada di Yraine" di Diana L. Paxson "Daton e le cose morte" di Michael Ward "Il cancello dei dannati" di Janet Fox "Il figlio di Orco" di Robin W. Bailey "Le cose vanno a tre per volta" di Dorothy J. Heydt "Una notte in due locande" di Phyllis Ann Karr "La Gilda rossa" di Rachel Pollack "Il bosco delle ombre" di Diana L. Paxson "Sangue di unicorno" di Bruce D. Arthurs "La terra senza ombre" di C. J. Cherryh "La maschera di Shiminege" dì Charles R. Saunders "La signora e la tigre" di Jennifer Roberson "La torre nera" di Stephen L. Burns "Tela di fuoco" di Deborah Wheeler "Freddo soffia il vento" di Charles de Lint "La spada della madre" di Dana Kramer-Rolls "Fame" di Russ Garrison "La prima volta che lessi le indicazioni della Bradley,ovvero storie che neanch'io vorrei leggere" di Elizabeth Thompson "La fanciulla prescelta" di Raul Reyes "Perle rosse" di Richard Corwin "Ferire la luna" di Vera Nazarian IL GRANATO E LA GLORIA di Phyllis Ann Karr Tra le migliori scrittrici di fantasy eroica bisogna certamente annoverare Phyllis Ann Karr, i cui due romanzi Frostflower and Thorn e il seguito Frostflower and Windbourne hanno dato un validissimo apporto alla lette-
ratura delle donne guerriere e maghe, senza dover ricorrere al solito stereotipo dell'"Amazzone nuda con reggiseno di metallo". La Karr ha anche scritto un eccellente romanzo del ciclo arturiano, Idylls of the Queen, ed è inoltre un 'appassionata nonché scrittrice di storie del mistero e di gialli, avendo pubblicato su quella prestigiosa rivista del genere che è l'Ellery Queen's Mystery Magazine. Phyllis Ann Karr vive nella regione americana del Middlewest, nel Wisconsin, ma è nata nell'Indiana. Si descrive come "non sposate e felice di essere tale", affermando che questa condizione la penalizza solo quando scrive romanzi moderni. E non è certo una perdita per il mondo letterario, almeno finché continuerà a scrivere le eccellenti storie di Fiordigelo e Spina, la maga e la spadaccina che viaggiano insieme e di frequente si trovano a dover combattere contro minacce sia terrene che magiche, come in questa avventura. Gli uomini di Vecchiacollina dissero a Fiordigelo che una nebbia come quella significava invariabilmente che Dathru il Terribile aveva chiamato a sé qualcuno da luoghi strani, luoghi che nessuno poteva raggiungere quando le nebbie si alzavano. Questi due uomini di Vecchiacollina erano chiamati Primofiglio e Terzofiglio. A dispetto del loro sesso, avevano l'apparenza di guerrieri, anche se di modi più gentili della maggior parte delle guerriere delle Terrestorte. Spiegarono che si erano appostati lì per tenere d'occhio coloro che Dathru chiamava alle sue "Grandi Camere". A volte quegli stranieri apparivano duri e terribili come lo stesso Dathru e allora le sentinelle rimanevano nascoste nella nebbia. Il più delle volte i nuovi venuti avevano l'aspetto di gente semplice ed onesta come Fiordigelo e la sua compagna, ed erano ignari del perché fossero stati chiamati. In quei casi le sentinelle si mostravano, invitandoli ad andarsene finché erano in tempo. Alcuni tornavano indietro. Altri insistevano sulla strada che misteriosamente li avrebbe condotti alle Grandi Camere di Dathru. A volte, dalle Grandi Camere giungevano alte grida, altre volte risate, o ancora musica o altri suoni. Fiordigelo avrebbe voluto seguire la misteriosa guida di cui Dathru si serviva per portare gli ospiti alla sua dimora. Nessuno stregone poteva usare il suo potere per scopi malvagi senza rischiare di perderlo; quindi la gente comune di Vecchiacollina, come pure quelli delle Terrestorte vedevano il male dove non esisteva. Ed un altro stregone avrebbe potuto impa-
rare molti segreti da chi padroneggiava un potere tale da permettergli di trasportare direttamente dei visitatori da luoghi lontani, così come Dathru aveva portato la giovane maga e la sua compagna guerriera Spina attraverso la nebbia che, alcune ore prima, era inspiegabilmente calata sul vecchio e pigro fiume Glant... e quando Fiordigelo aveva dissipato quella nebbia, le sponde del fiume non erano più quelle agitate e ricoperte di erbacce che tutti conoscevano, ma quelle rocciose di un fiume che gli abitanti di Vecchiacollina chiamavano Verso-la-Pace. Eppure Spina si manteneva cauta nei confronti delle magie sconosciute: un anno di amicizia con Fiordigelo non aveva completamente sopito l'odio e la paura che provava da sempre nei confronti della genia dei maghi. «Puzzo d'inferno, Fiordigelo» insistette la guerriera, «non conosci nemmeno tutta la magia delle Terrestorte. Per le unghie dei demoni, come fai ad essere sicura che nessuno di loro abbia trovato un sistema per aggirare la proibizione di fare del male a qualcuno? Proprio tu hai detto che non puoi essere sicura di come funzionano le tue stesse regole. E se questo Dathru è animato da buone intenzioni e vuole solo renderci felici e conversare amichevolmente sorseggiando sidro e mangiando formaggio, allora perché ha dato solo a te la facoltà di parlare il linguaggio di questo luogo maledetto? Per gli dèi, avrei scambiato quei bastardi, Primofiglio e Terzofiglio, per briganti, se tu non mi avessi spiegato che cosa ci stavano urlando.» «Forse» rispose dolcemente Fiordigelo, «Dathru ha potuto toccare solo la mia lingua perché io sono una maga. Il suo potere non può certo essere perfetto, altrimenti avrebbe toccato anche la mia mente oltre che la mia lingua, in modo che potessi accorgermi delle differenze mentre parlavo e ascoltavo i due diversi linguaggi.» Spina borbottò: «Puzzodidemone, non puoi limitarti a dire "non può avere cattive intenzioni poiché è un mago" e ignorare quello che i nostri amici Primofiglio e suo fratello stanno cercando di dirci.» Anche se Spina aveva cercato di nascondere quel pensiero con un atteggiamento spavaldo, Fiordigelo era sicura che all'inizio la sua amica aveva creduto che tutti e tre, lei, Fiordigelo e il cane Dowl, fossero annegati senza saperlo e che ora stessero vagando nella Palude Infernale, come credevano i contadini, o nel mondo dell'aldilà, secondo il credo dell'Unico Dio, o magari in una via di mezzo tra tutti e due. Potremmo essere morte, dopo tutto «disse la maga in tono malizioso.» Dathru... suona un po' come il nome di uno dei tuoi dèi, vero? Jehandru, Alrandru...
«Non si può tradurre» disse Spina. «Che cosa?» «Tutti gli altri nomi... Primofiglio, Vecchiacollina, Verso-la-Pace, quando li pronunci sono normali belle parole. Ma Dathru suona nello stesso modo sia quando lo dici tu che quando lo dicono loro. Quindi non significa altro che Dathru... qualunque cosa voglia dire.» «Forse ha un significato in qualche lingua antica, come i nomi dei tuoi dèi» suggerì Fiordigelo. «Sì. E non ha messo quella antica lingua nella tua mente perché forse il significato di "Dathru" è così orribile che avrebbe spaventato a morte anche te. Avanti, Fiorellino, torniamo alla barca e andiamocene finché possiamo.» «Se Dathru è tanto malvagio come ti piace pensare» disse la maga, «non potrebbe capitarci di continuare a vagare per sempre nella nebbia su di un fiume che non è il nostro Glant? Dobbiamo almeno riposarci un po' prima di provare, Spina!» Così, alla fine, andarono all'Avamposto con Primofiglio e Terzofiglio, per riposarsi in attesa che si alzasse la nebbia. Sia Primofiglio che Terzofiglio avevano moglie, Primafiglia (evidentemente di un'altra famiglia) e Probabile. Quelle donne avevano abbastanza coraggio da vivere lì con i loro mariti mentre i Tre-Figli si dividevano il compito di fare la guardia e di avvisare gli stranieri che arrivavano nella nebbia, ma non erano guerriere. E sembrava che tutti e cinque quelli di Vecchiacollina giudicassero terribilmente strano che Spina seguisse quella vocazione. Ma questo era nulla in confronto alla loro reazione quando videro il suo coltello, Stiletto, allorché lei si tolse il mantello impregnato dall'umidità della nebbia e ne poterono scorgere l'elsa che spuntava del vecchio fodero di pelle. Secondofiglio, Primofiglio e Probabile si avvicinarono immediatamente per afferrare l'arma. Primofiglio lo estrasse dal fodero e si chinò ad esaminarlo alla luce del camino mentre gli altri gli si affollavano intorno rumorosamente. Nel frattempo Primafiglia sembrò molto spaventata per il coltello della straniera e tenendosi il più lontano possibile, sfregò le dita sulla trave del camino imbrattata di fuliggine e si disegnò righe nere sulle guance e sulla fronte come per proteggersi, mentre Terzofiglio era d'impiccio a tutti cercando di aiutare Fiordigelo e calmare Spina. Come poi risultò, i Vecchiacollina furono solo stupiti ed attratti dall'enorme granato incastonato nel manico del coltello. Non avevano mai visto
gemme del genere, né grandi né piccole; ed anche se convenivano che l'ambra lucente che ornava l'elsa della spada, e di cui Spina era molto fiera, fosse anch'essa una bella pietra, era il granato quello che più li affascinava. Pensavano che potesse servire da amuleto e Primafiglia, tergendosi la fuliggine dal viso, propose di legare della corteccia intorno alla gemma, mettere la corteccia nel fuoco e immergerla nell'acqua per vedere se avrebbe continuato a bruciare. Rifiutandosi di fare quell'esperimento, Spina rimise il coltello nel fodero e lo assicurò con uno dei legacci dei pantaloni per evitare che potessero impradronirsene ancora. Quella sera Spina mangiò più di Fiordigelo. I Vecchiacollina avevano una notevole scorta di carne nella piccola dispensa, ma poca verdura e niente latte o latticini. Non volendo sconvolgerli facendo comparire davanti a loro delle altre verdure, Fiordigelo si accontentò di un piatto di zuppa, densa e fibrosa, e di una scodella d'acqua. Spina non beveva mai vino, ma non aveva nulla contro la bevanda scura ricavata dal sangue degli animali. Doveva essere fermentata, perché dopo averne bevuto una scodella, si rilassò notevolmente. Quando Fiordigelo andò a dormire in una specie di mangiatoia riempita d'erba, Spina, che pur senza parlare la loro lingua era riuscita ad insegnare ai nativi alcuni giochi delle Terrestorte, stava giocando a dadi con i Vecchiacollina. La partita era piuttosto rumorosa, la stanza piena di fumo e illuminata dal fuoco, e la maga sfinita e piuttosto affamata; ma almeno le erbe del suo giaciglio erano sufficientemente profumate da filtrare gli altri cattivi odori della stanza. Chiuse gli occhi, si concentrò nei semplici esercizi per dormire e presto sprofondò nel sonno. Quando si svegliò, il fuoco del camino era ridotto a poche braci, e nella stanza quasi completamente buia si sentiva russare. Una lama di luce, come un'ombra bianca su di uno sfondo nero, cadeva su Spina dall'apertura del soffitto da cui usciva il fumo, e lei vide che dormiva tranquillamente con indosso cintura ed armi. Fiordigelo sorrise, si alzò senza fare rumore e si fece strada fino alla porta. Solo Dowl si svegliò ed il suo guaito si confuse con lo stridio dei cardini della porta. Gli accarezzò la testa irsuta per qualche momento. Lui agitò la coda contro il pavimento, sospirò e si rimise a dormire. Lei scivolò fuori. La foschia si era diradata e il paesaggio si dispiegava grigio e lievemente ondulato tra l'avamposto ed una distante catena di colline dal profilo basso ma irregolare. Alberi e massi sembravano proiettare due ombre in direzioni
opposte. Sollevando lo sguardo, Fiordigelo vide tre lune, tutte al loro massimo splendore, di cui due dalla parte opposta del cielo ed una direttamente sopra di lei. Nessuna di esse era brillante come la luna che lei conosceva, ma insieme diffondevano abbastanza luce da offuscare ogni cosa tranne le stelle più luminose. Per un istante, la maga esitò. Poi, chiudendo gli occhi, avanzò con cautela finché i suoi piedi non sembrarono sicuri della direzione da prendere. Non avrebbe saputo dire come il mago la stesse guidando, ma quella che sembrava una impellente traccia di speranza indugiava nell'aria e aumentò di intensità mentre lei camminava. Una delle lune stava tramontando quando Fiordigelo si accorse che una parte delle colline era composta da nove forme cilindriche uguali, simili a massicce torri di guardia: le Grandi Camere di Dathru. L'atmosfera trasformava la luna al tramonto in un enorme ovale rossastro e muschiato che brillava dietro le Grandi Camere. Queste sembravano malinconiche e solitarie nonostante la vicinanza e il numero, ma certo non presaghe di male. Da loro non si levò nessun grido. Fiordigelo avanzò. La torre centrale si ergeva su di un muro semicircolare e quattro massicci pilastri. Dapprima il chiarore fu appena sufficiente perché riuscisse a distinguere i pilastri e gli archi, ma mentre si avvicinava la luce interna aumentò di intensità tanto da creare sul terreno cinque striature che illuminavano il verde dell'erba. Quando passò sotto l'arco di mezzo, la luce scomparve, lasciando solo una linea vivida e sottile, come un capello che correva attraverso il liscio pavimento di pietra. All'estremità la linea si divideva in piccoli segmenti che illuminavano una fuga di scale. Dathru doveva avere sulla luce lo stesso controllo che i maghi delle Terrestorte avevano sul tempo atmosferico e stava giocando con essa per il divertimento proprio e di quello dell'ospite. Sorridendo, Fiordigelo seguì la linea e salì le scale. In cima c'era una porta coperta da una tenda che sembrava intessuta di un materiale simile a morbide scaglie di pesce e intrecciata in strisce sottili e lucenti. Con circospezione, Fiordigelo scostò la tenda. La luce quasi la stordì. Poi vide Dathru. Indossava un abito rosso scuro ed intorno al collo una pesante collana d'oro con un pendente costituito da vari tipi di legno intagliato. Il viso, come il corpo, non era né grasso né magro. I solchi sulla fronte erano profondi ed aveva altre rughe agli angoli degli occhi. I capelli, folti e castani, con un tocco di grigio alle tempie, gli
scendevano con grazia sulle spalle mentre sul davanti alcuni riccioli si confondevano con la barba lussureggiante che arrivava fin quasi al pendente. Il vederlo per la prima volta le fece la stessa impressione che quasi dieci anni prima le aveva fatto Bellasperanza, all'epoca in cui entrambi avevano preso in considerazione l'idea di abbandonare i loro poteri magici per poter giacere uno nelle braccia dell'altro. L'attimo passò e lei vide Dathru solo come un altro stregone, saggio, erudito e benevolo, anche se poteva permettersi una dimora molto più ricca di qualunque altro stregone delle Terre-storte. La luce che l'aveva abbagliata proveniva da cinque cubi di vetro, ciascuno di colore diverso, che pendevano per mezzo di catene dal soffitto dipinto. Le pareti della stanza erano formate o rivestite da enormi pannelli lavorati in bronzo, oro e filigrana d'argento. Il pavimento era un mosaico geometrico costituito da singoli blocchi di marmo bianco, nero e rosso, perfettamente lisci e lucidati quasi si trattasse di una superficie metallica. Dathru sedeva su di una poltrona di vetro trasparente a schienale alto e indossava anelli, cintura e sandali incastonati di frammenti di metallo tanto lucenti che per un attimo Fiordigelo li scambiò per pietre preziose. Si alzò sorridendo e venne verso di lei a braccia tese. «Benvenuta, sorella, e perdonami. Da principio non mi ero accorto che il tuo è uno di quei rari mondi in cui il Potere dipende dalla verginità. È stata una svista imperdonabile, ma permettimi di dire che guardandoti, potrei davvero rimpiangere che tu non provenga da uno di quei numerosi mondi in cui vige la legge opposta.» Qualcosa nelle sue parole sembrava non adattarsi al suo aspetto e alle sue maniere. «Come potevo sapere» chiese Fiordigelo, «che tu eri davvero Dathru e non uno dei suoi compagni?» «Dathru non ha compagni.» Il suo sorriso si accentuò. «Qualche servitore, ma solo quando ne ho bisogno.» «Credo» disse lentamente Fiordigelo, «che quest'altra legge del potere, lo... l'opposto della verginità, non sia la sola differenza tra le tue usanze e le nostre.» Lui annuì. «Non tutti i miei ospiti sono così rapidi nel comprendere. Ma non disprezzerei un compagno permanente, se trovassi quello giusto.» Le prese le mani nelle sue. Qualcosa nel suo tocco la obbligò a liberarsi con un brivido. Lui sorrise e le toccò il braccio, questa volta come avrebbe potuto fare un padre o un maestro. «Non temere, dolce maga. Non farei nulla per derubarti del tuo potere. Come ti chiamano nel tuo mondo?»
«Fiordigelo» disse sorpresa. «Mi hai messo sulla lingua l'idioma della tua Vecchiacollina e non conosci il mio nome?» «Il linguaggio... è un'arte semplice. L'ho imparata da uno dei miei primi ospiti, Eriside del mondo dei due soli. È sufficiente lanciare l'incantesimo come una grande rete e questo funziona su quasi tutti i maghi, di qualunque mondo, il cui potere sia abbastanza simile al mio da potersi adattare al mio mondo. Ma il tuo nome non lo conoscevo. Deve essere un nome bellissimo nella tua lingua come lo è nella mia.» «Come mai allora mi hai scelta per portarmi qui? O forse getti quella rete in tutti i mondi di cui parli e trascini qui le prime creature che riesci a catturare?» «I mondi di cui parlo?» disse lui. «Vieni davvero da un posto così provinciale?» Rise. «No... ho visto il tuo mondo, o almeno quella piccola parte che la tua gente abita; e so quali arti» piuttosto scarse, in verità «riuscite a praticare con il potere. Ma non speravo di essere tanto fortunato nella mia "pesca" dei vostri maghi.» Batté su uno dei pezzi di legno del pendente. Un piedistallo di vetro apparve davanti alla sua poltrona. Su di esso c'era un sottile anello di oro bianco, del diametro di una spanna circa, che si innalzava su di una base di legno lucido. Dathru condusse Fiordigelo alla sedia. Sul sedile c'era un cuscino di velluto blu. Nessun mago delle Terrestorte usava seta o velluto, perché tali stoffe si ottenevano solo a prezzo della vita dei bachi; prima di sedersi, Fiordigelo tolse il cuscino e sentì un prurito alle dita per l'involontario disgusto. Dathru rimase in piedi dall'altra parte del piedistallo, guardandola attraverso l'anello. «Concentrati sulla base di legno.» Lei obbedì, mentre il desiderio di conoscenza prendeva il sopravvento sui tenui sospetti che aveva cominciato a provare verso di lui. Poi non si accorse più di quel viso che la fissava attraverso l'anello. Una nebbia perlacea cominciò a scaturire dalla base di legno. La seguì con lo sguardo, finché non riempì tutto l'anello. La nebbia si dissolse e l'interno dell'anello si riempì dell'immagine di una piccola parte delle Terrestorte. Vide due maghi che preparavano il pasto di mezzogiorno. Una figura stava facendo crescere del granoturco, prima rimanendo inginocchiata e poi alzandosi per poter tenere una mano sul gambo quando raggiungeva la maturazione. L'altra rimaneva in ginocchio, mentre una grossa melanzana viola le maturava tra le mani.
«Ho visto la tua gente crescere piante e curare malattie per mezzo di quella che ritengo essere una manipolazione del tempo» disse Dathru «e li ho visti dirigere i venti, le nuvole e i fulmini. Le vostre sciocche manipolazioni meteorologiche non mi interessano. Non ho bisogno di aspettare che i temporali si formino da soli; io posso farli comparire dal cielo sereno.» Per la prima volta nella sua vita, Fiordigelo provò quello che doveva provare la gente comune delle Terrestorte alla vista di quei 8 poteri con cui era sempre vissuta e che aveva studiato fin dall'infanzia. Lo spazio all'interno dell'anello divenne di nuovo nebuloso e poi si rischiarò per mostrare un paesaggio diverso, una foresta fitta come mai ne aveva viste, dove strane piante con immense foglie cariche di rugiada si intrecciavano le une alle altre, dove volavano uccelli dai colori vivaci e grossi insetti, mentre un uomo seminudo con la pelle luccicante ed una maschera di legno intagliato cuoceva qualcosa di fumoso su di un piccolo fuoco verdastro. Il terzo mondo che Dathru le mostrò sembrava essere ricoperto da un'immensa città, dove gli edifici a forma di calici si ergevano numerosi come pecore da un orizzonte all'altro, mentre le strade, poggiate su alti tralicci, si muovevano da sole tra gli edifici. Una quarta scena mostrò della sabbia nera sotto un cielo offuscato, dove due soli brillavano di una luce rossastra attraverso la foschia, ed un essere di aspetto umano tranne che per le membrane che crescevano dal braccio al ginocchio, planava come un pipistrello da un albero dalle rosse foglie verso una sorgente che di tanto in tanto lanciava in aria un alto spruzzo d'acqua. E Dathru continuò così, mostrando a Fiordigelo un mondo dopo l'altro, tutti silenziosi, perché l'anello non recava i suoni, ma tutti completi nei più minuti e vividi particolari, finché lei non bruciò di gelosia per il suo potere. Tra le conoscenze e le capacità di tanti mondi, gli usi e le interpretazioni del potere sviluppate da tante menti, dovevano certo esserci quelle risposte che Fiordigelo cercava. «Potrei imparare queste arti?» sussurrò, non osando toccare l'anello. «Ad usare quell'anello, a chiamare altri maghi da tutti quei mondi?» L'ultima immagine svanì e lei rivide il viso di Dathru. «Potresti imparare con facilità» disse, «ma io ho solo questo Cerchio.» «Se ne possono fare altri?» «Forse. Questo potere proviene dal mio mondo, piccola sorella Fiordigelo, ma forse potrebbe essere adattato ai materiali e alla capacità del tuo.» «Imparerò, volentieri, con gioia, se sarò in grado...» «E che cosa mi darai in cambio?» chiese Dathru.
Per un attimo, lei rimase senza parole; non si era mai sentito di un mago che chiedesse qualcosa in cambio delle sue conoscenze. Eppure altre cose venivano vendute e comperate, e allora perché non l'insegnamento? «Che cosa posseggo» chiese, «che valga il prezzo di tale arte?» «La vostra capacità di manipolare il tempo. Troverei un mezzo per usarla.» «Il tempo?» Era la prima cosa che si insegnava ai bambini in ogni rifugio delle Terrestorte, dopo gli esercizi base. «Non avrei mai pensato che un mago che sapesse fare quello che fai tu non conoscesse quelle semplici arti del tempo che pratichiamo noi.» Dathru scosse il nobile capo. «Quello che sembra elementare in un mondo può essere una cosa mai udita in un altro. La tua gente, Fiordigelo, ha portato il controllo del tempo ad un grado di perfezione che nessun altro mondo ha raggiunto. Poter trasformare un nemico da giovane in vecchio con un semplice tocco!» Lei rabbrividì. Di tutte le pratiche di manipolazione del tempo, Dathru aveva scelto proprio la più triste, disperata e distruttiva... ed anche con evidente entusiasmo! «Ho paura che tu abbia visto meno di quanto creda delle nostre capacità» disse. «Nessun mago può usare quella facoltà a tal fine più di una volta senza perdere il suo potere. Né possiamo restituire la giovinezza. Possiamo solo rallentare o dilatare il processo in avanti, non invertire il suo corso facendo tornare il germoglio in seme.» «Nel tuo mondo, forse» disse Dathru, «puoi distruggere il nemico una volta sola. Ma in un altro mondo chissà quali adattamenti potrebbero svilupparsi?» Lei si sforzò di non vedere malizia in Dathru dove forse non ce n'era. «Forse» disse, «se il mio potere sul tempo è tanto raro nel tuo mondo, dovrei chiedere di più in cambio.» «Avrai di più.» Le accarezzò il braccio e lei cercò di reprimere un brivido. «Vivrai qui con me» proseguì lui, «o magari potremo sistemarci in un mondo più congeniale. Troveremo il luogo ed il modo per liberarti dalla regola della verginità, una perversa eccezione alla legge dell'universo, e io ti insegnerò le gioie dell'altra legge, quella comune e naturale, la legge del potere. Saremo i dominatori del nostro mondo, tu ed io... sempre riveriti, temuti, giovani per millenni per poter godere del nostro potere e del nostro benessere...» Lei cercò di alzarsi dalla sedia. Lui sporse entrambe le braccia oltre il
piedistallo con il suo Cerchio e toccò i braccioli della sedia, imprigionandola. «Non ti insegnerò nulla, Dathru» disse. «A meno che tu non riesca a persuadermi che quello che dice di te la gente di Vecchiacollina è falso come ciò che i contadini delle Terrestorte dicono di noi.» Lui sorrise. «Sono tutti così sciocchi ed ingenui i maghi nel tuo mondo, sorellina? Il potere è fatto per essere goduto appieno, per essere usato a proprio vantaggio e non sprecato in sciocche ed innocue bazzecole.» La sfiorò di nuovo. Grazie a Dio c'era il piedistallo di cristallo tra di loro! Almeno Dathru poteva toccarla solo con le mani. Lei afferrò il Cerchio con una mano ed il piedistallo con l'altra. «Lasciami andare, Dathru! Lasciami o io...» Lui rise e le afferrò entrambi i gomiti. Sollevando il Cerchio, lei spinse e scalciò sul piedestallo, cercando di fargli perdere l'equilibrio. Lui rise di nuovo e cadde in avanti su di lei. Il piedistallo non era più in mezzo a loro. Come l'aveva fatto apparire, così doveva averlo fatto scomparire. Cercò di gettargli in faccia il Cerchio prima che scomparisse anch'esso, ma non c'era già più. Lui era sdraiato su di lei e rideva contro la sua gola. Lei tremò e si irrigidì. «Lasciami andare, mago» disse, «o per il grande dio dei contadini, Jehandru, ti farò precipitare nella vecchiaia anche se con questo perderò il mio potere.» Lui si alzò immediatamente, ma nel farlo premette con il pollice il pendente di legno. Un peso bruciante schiacciò il petto di Fiordigelo, invisibile ed intangibile, ma così opprimente che per un attimo lei non riuscì a muoversi e a respirare. Poté solo guardare impotente mentre lui faceva salire dal pavimento di marmo una catena di rame che le si avvolse intorno al corpo come un serpente. Quando la catena si fu stretta ed indurita per tenerla ben ferma, Dathru tolse il pollice dal pendente e lei fu di nuovo in grado di respirare anche se continuava a sentire un bruciore all'altezza dello sterno. «Il mio pezzo di legno ti aveva toccato in quel punto» disse il mago. «Per questo sono in grado di usarlo per arrecarti dolore. Ingegnoso, vero? Uno strumento che ho ricavato dai poteri che mi sono stati insegnati da Jitasa, la donna-a-scaglie dei Luoghi Paludosi. Se avesse toccato un'altra parte del tuo corpo...» Le girò lentamente intorno. Lei chiuse gli occhi, sentendo le vibrazioni del suo passo attraverso il pavimento di marmo. Poi percepì lo spessore di
una stoffa sotto di lei, che si trasformava in soffici cuscini... cuscini di velluto! Dathru stava facendo crescere un letto sotto di lei. Avrebbe voluto cercare di rotolare via, ma aprendo gli occhi vide delle sbarre di rame e un rigido graticcio pure di rame che spuntavano dai bordi del letto. «Ho osservato abbastanza» disse Dathru, «per sapere che anche i maghi del tuo mondo, con tutto il potere che hanno sul tempo, non possono fare nulla ad una persona, se non la toccano. Forse un giorno imparerete ad indirizzare il controllo del tempo attraverso l'aria su di una persona con cui non siete in contatto fisico. Se tu mi insegnerai ed accetterai il mio insegnamento, bella Fiordigelo, potremo riuscire a perfezionare qui insieme quella tecnica. Ma per il momento, tu non puoi farmi del male.» Fiordigelo chiuse di nuovo gli occhi. Se fosse riuscita ad entrare profondamente in trance prima che lui cominciasse a fare quello che aveva in mente, forse... Sentì lo sbuffo del suo respiro colpirle la fronte. Lui pronunciò il suo nome. *
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Spina si svegliò sbuffando, con un forte mal di testa ed un'urgente necessità di svuotare la vescica. «Accidenti a quell'intruglio marrone» brontolò, ripensando alla bevanda di cui aveva bevuto due intere tazze a cena e mentre giocava a dadi. Doveva essere qualche tipo di vino e si maledì per non essersene accorta, accontendandosi di bere acqua, come aveva fatto Fiordigelo. Accertandosi che Stiletto fosse ancora nel fodero alla cintura, con il granato al suo posto, Spina si alzò e uscì. Sbattendo gli occhi alla vista delle tre lune piene, una molto bassa all'orizzonte... occidentale? orientale?... individuò il buco che i suoi ospiti usavano per le loro necessità. La nebbia si era alzata. Se al mattino fosse stato ancora limpido, avrebbero potuto partire subito per cercare la barca ed il fiume. Per gli dèi, era così chiaro che avrebbero potuto andarsene anche adesso... ma probabilmente Fiordigelo e il cane avevano bisogno di dormire. Spina sapeva che un po' di sonno avrebbe fatto bene anche a lei, ma risvegliarsi ancora in quella terra demoniaca le aveva messo di nuovo allo scoperto i nervi. Ritornò verso quella stalla per umani in cui vivevano i Vecchiacollina. Giunta alla porta, esitò. Non poteva biasimarli se chiudevano la porta per impedire alla luce delle lune di disturbarli... ma così chiudevano fuori an-
che l'aria pura. Decise di restare sulla soglia finché non le fosse venuto di nuovo sonno. Appoggiandosi allo stipite, fece scorrere lo sguardo per la stanza. Quando i suoi occhi si furono adattati, si accorse che il giaciglio in cui si era coricata Fiordigelo adesso era vuoto. Fiordigelo vagava in un luogo dal cielo grigio e dall'erba nerastra. Alberi neri si innalzavano qua e là sulla distesa pianeggiante: alberi spogli, contorti ed angolosi, con grandi rami duri che spuntavano a casaccio da ogni tronco, come coltelli lanciati da ogni direzione in un grosso pezzo di carne. Eppure in qualche modo quegli alberi emanavano la sensazione di essere non solo vivi, anche se mancavano i ramoscelli più sottili e i germogli, ma di poter crescere senza bisogno delle foglie e della luce del sole. L'unica luce di quel luogo proveniva da una luna doppia, simile a due uova cotte insieme in una padella. Pareva persino che avesse due tuorli, due macchie rotonde di un marrone più scuro all'interno dei cerchi rossastri. Quella luna non proiettava ombra. In lontananza c'erano dei rilievi, montagne scheletriche, pinnacoli di roccia irregolari. Intorno a lei non c'erano altro che alberi sulla distesa pianeggiante. Su alcuni dei rami erano drappeggiate, lunghe ghirlande rosse. Fiordigelo cominciò a camminare verso le montagne. Sotto i suoi piedi l'erba era scivolosa e allo stesso tempo leggermente paludosa, come se fosse satura d'acqua. Un odore sgradevole, come di sale, pepe e spezie conservanti mischiati al fetore di un mattatoio, rendeva difficile respirare. Nessun essere vivente, tranne Fiordigelo, si muoveva in quel paesaggio. Arrivò fino ad un ruscello, ma questo scorreva così denso, con un odore tanto pungente e salmastro, che non si azzardò a bere anche se era assetata. Quando sollevò lo sguardo dal ruscello, vide che gli alberi le bloccavano la strada da ogni parte. Chissà come, si era persa e aveva vagato in una radura nella foresta di alberi neri. Vide grandi masse gocciolanti ed anche le funi rosse, incastrate nei rami. Si costrinse ad avvicinarsi a due degli alberi e le apparve chiaro che si trattava di carcasse di animali appena macellati. La maga si voltò in fretta per tornare di corsa verso la radura. Non c'era più. Era in mezzo agli alberi, dove ignote creature carnivore ammassavano il loro pasto. Voltandosi ancora nella direzione che ora poteva solo sperare che conducesse alle montagne, chiuse gli occhi, protese le braccia e avanzò di qualche passo. Le mani toccarono un pezzo di carne umida ed ella indietreggiò di so-
prassalto, aprendo gli occhi. Era meglio vedere che toccare. La sua mano aveva incontrato un piccolo cadavere che sembrava essere di un cane... o di un bambino. Cominciò a correre, mantenendo abbastanza presenza di spirito per dirigersi verso le montagne. Calcolò male la distanza e la velocità ed andò a sbattere contro un albero, o meglio contro uno degli ammassi di carne penzolanti. Indietreggiando, vide che era un tronco umano, senza testa, senza gambe, e privo anche di un braccio, conficcato nel fusto per mezzo di un pugnale che trapassava l'altro braccio, inconfondibilmente il corpo nudo di una giovane donna. Allora Fiordigelo cominciò a correre disperatamente. Attraversò un ruscello color cremisi e si aggrappò ansante ad un tronco che a prima vista sembrava essere miracolosamente spoglio. Ma poi guardò in basso e vide la testa del piccolo Stellavento, il bambino che aveva lasciato al sicuro al Rifugio Ventoso; poi guardò in alto e vide la testa di Spina, impalata ad un ramo sopra di lei. Allora, finalmente, urlò. E l'urlo la ridestò. «Non so di che sogno si trattasse» disse Dathru, «ma so che era spiacevole e malefico. E posso continuare a mandarti quei sogni, all'infinito, senza fare del male al tuo corpo, finché non mi insegnerai quello che voglio sapere.» *
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Spina sferrò un pugno nelle costole a Dowl. Il cane si svegliò uggiolando e agitando la coda. «Stupido bastardo» mormorò la guerriera, «lei se n'è andata alla ricerca di quello stronzo di un mago. Perché diavolo non ti sei svegliato e non l'hai fermata... o almeno abbaiato?» Dowl uggiolò ancora e si alzò. Qualunque aiuto potessero darle i Vecchiacollina, non valeva certo tutte le urla che avrebbero dovuto lanciare per farsi capire. Spina si mise in marcia da sola, con la spada Tagliente, il pugnale Stiletto e la sua nuova lancia Valicacieli, che ora sapeva usare tanto bene da colpire uno scoiattolo in corsa. E Dowl trotterellò accanto a lei, fiutando le tracce di Fiordigelo. La maga sapeva di non poter sopportare altri sogni come quello. Né poteva sfuggire ai sogni con la semplice trance. Forse la disincarnazione? Era
pericoloso. Se Dathru si fosse accorto che lei non era nel suo corpo, avrebbe potuto distruggerlo. Eppure sarebbe stato preferibile, piuttosto che aiutarlo nelle sue malvagità. E forse lui aveva troppo desiderio di quello che lei poteva insegnargli. Aveva avuto tre incubi, in cui aveva trovato le teste ed i corpi smembrati di coloro che amava, Stellavento, il vecchio Luna-ferita, Bellasperanza, Spina... a volte aveva assistito alla loro morte, come quando aveva visto la propria madre e la sacerdotessa Inmara sbranarsi a vicenda in un luogo dove il vapore si innalzava da fenditure che solcavano un pavimento di metallo. La sua carne non aveva subito danni, ma Dathru le stava dando un po' di respiro per evitare che la sua mente crollasse. Fingendo di dormire, si concentrò. Non fu facile, ma alla fine si ritrovò fuori dal proprio corpo. Anche privato della sua essenza cosciente, il corpo continuava a respirare ed il cuore a battere. Dathru non sembrò accorgersi che l'essenza della sua vittima non era più legata dalla catena di rame. Ma era davvero libera? Dathru si avvicinò e le soffiò sulla fronte e poi pronunciò il suo nome. Lei ondeggiò. Questa volta il luogo in cui si inoltrava era una rossa palude, dove serpenti e insetti le graffiavano le gambe mentre lei sprofondava fino alle ginocchia in un limo acido. Ma questa volta, almeno, rimase cosciente del fatto che si trattava di una illusione. Combattendola, guardò il mago piegarsi sul suo corpo, studiandolo attentamente. Forse, grazie a Dio, Dathru non sapeva davvero nulla del potere della disincarnazione; sembrò non notare nulla di strano. Alla fine si sarebbe certo accorto che la sua vittima non era più completamente in suo potere. Nel frattempo, lei uscì in fretta dalla stanza e dalle Grandi Camere prima che lui riuscisse a risucchiare la sua coscienza nel profondo del sogno. A mano a mano che si allontanava da Dathru l'incubo diminuiva, ma le ultime tracce dell'orrore non scomparvero finché non fu a un centinaio di passi dalla dimora del mago. Allora si fermò, non volendo allontanarsi dal suo corpo più del necessario. Mentre aspettava, vide Spina e Dowl che venivano verso di lei nel chiarore della luna. A Spina non piaceva l'aspetto di quelle che, a detta di Fiordigelo, i Vecchiacollina chiamavano le "Grandi Camere" di Dathru. Be', quella ripugnante creatura sembrava avere abbastanza nemici: forse aveva bisogno di mura robuste oltre che della magia, per proteggersi. Ma se aveva bisogno
di circondarsi di tanta pietra, non poteva essere del tutto immune dalle ferite del normale ed onesto acciaio. Quel posto non sembrava piacere molto neppure a Dowl. Si fermò a circa un centinaio di passi di distanza, uggiolò e cominciò ad annusare intorno. «No, non è qui fuori, dannato cane» disse Spina. «Smettila di comportarti come uno stupido.» Dowl alzò il muso udendo la voce di Spina, guaì e riprese ad annusare in circolo. «Va bene» disse la guerriera, «resta qui e raffreddati le zampe, non mi servi più. Evidentemente Fiordigelo è entrata in quel dannato posto con le torri, quindi non venirmi tra i piedi.» La guerriera si avviò a grandi passi verso la torre centrale, domandandosi se l'arcata fosse così ampia come sembrava. Dopo un momento, Dowl la seguì in silenzio. Nelle Terrestorte, gli animali non potevano fiutare coloro che si erano disincarnati, eppure Fiordigelo era sicura che qui Dowl avesse sentito la sua presenza. Non aveva risposto al suo tentativo di toccarlo, ma aveva continuato ad annusare proprio nel posto che lei occupava. Il suo potere in questo mondo doveva aver subito delle sottili alterazioni. Cercò disperatamente di toccare la coscienza di Spina nello stesso modo in cui, del tutto inaspettatamente, aveva toccato quella di Dowl. Ma con gli altri esseri umani tutto era esattamente come nelle Terrestorte. E Fiordigelo non poteva mettere in guardia l'amica perché non entrasse nella fortezza di Dathru. Poteva solo seguirla. Ma a che scopo? Non solo non era in grado di aiutarla, ma a mano a mano che si riavvicinava a Dathru, le immagini degli incubi cominciarono di nuovo a sovrapporsi alla realtà. Eppure la maga rimase al fianco dell'amica, invisibile, non percepita e inerme. Sembrava troppo facile. Metà del pavimento della torre era un cortile aperto, di forma semicircolare, circondato solo da quattro pilastri collegati da ampi archi. In cima ad una breve scala c'era un'apertura nascosta solo da una tenda e da essa filtrava abbastanza luce perché Spina potesse salire le scale senza far rumore. Sperò che Dowl rimanesse in silenzio. Ripose Valicacieli nello stretto fodero che portava di traverso sulla schiena: per un onesto corpo a corpo, preferiva le sue prime armi, il pugnale e la spada. La tenda era di un materiale lucente che non somigliava a nulla che Spina avesse visto prima d'ora. Esitò per un attimo, ma se non avesse agito in fretta, Dowl avrebbe potuto abbaiare o uggiolare, facendole perdere il van-
taggio della sorpresa. Usando la mano che impugnava il coltello, scostò la tenda. Attraverso una foschia rosso sangue piena di forme vaghe e voluminose che quasi oscuravano la fine filigrana di metallo della stanza, Fiordigelo vide che Dathru sembrava non essersi ancora accorto che lei non si trovava nel proprio corpo, a soffrire sotto la morsa degli incubi. Ma non riusciva a vedere con chiarezza il suo corpo; questo era solo una forma scura nascosta alla vista dal graticcio di rame che circondava il letto. Nemmeno Spina sarebbe stata in grado di riconoscerla. Un moto di sbalordimento sembrò attraversare la stanza quando Dathru sollevò lo sguardo su Spina. Ma svanì rapidamente, lasciando al suo posto qualcosa che la maga poté ora riconoscere come l'esca gettata da qualcuno verso una persona dell'altro sesso. Un'esca che Spina, al contrario di Fiordigelo, era sempre lesta ad accettare. «Bene, bene» disse l'uomo vestito di cremisi, «un visitatore. Benvenuta, mia cara amica di un altro mondo.» Si accarezzò la morbida barba nera e Spina poté quasi sentire il piacere di quelle mani che le accarezzavano i capelli, la schiena, i fianchi... ma rimase sufficientemente padrona di sé per notare lo sguardo cupido che lanciò al suo pugnale. «Così adesso sei in grado di parlare la mia lingua» disse. «Perché non hai fatto in modo che io potessi capire quella gente là fuori?» «Non sei venuta sola? Ma sì, devi essere venuta sola. Nessuno degli sciocchi di questa terra si avvicina a me. Mi temono, vedi, e possono aver ragione... ma con una donna come te al mio fianco, che divida il mio potere...» Spina cercò di ignorare il fremito della propria carne. Strinse le mani sulle armi. «Non sono una maledetta maga, Dathru, e non ho intenzione di sistemarmi con uno di loro. Per qualche ora, magari... Perché diavolo guardi così il mio pugnale? Chi vuoi, me o Stiletto?» «Non sei una maga nel tuo mondo, forse» disse Dathru, «ma qui hai il potere. Non sei forse stata capace di scostare la mia tenda? Sì, una donna come te, ornata di sete e velluti... se mai dovessi deciderti di indossare...» Spina stava cedendo, Fiordigelo ne era certa. Dowl, diviso tra la percezione di Fiordigelo vicino a sé e l'odore del cor-
po di lei dall'altra parte della stanza, guaì, trotterellò fin quasi al letto e poi tornò indietro accucciandosi ai piedi di Spina. Lei lo allontanò con un calcio e fece un passo verso Dathru. Il mago venne avanti, come per incontrarla in mezzo alla stanza, per impedire che lei vedesse il corpo dell'amica nel letto. C'era solo una possibilità per mettere in guardia Spina. Nella mente di Fiordigelo l'incubo aveva seguito il suo normale svolgimento. Sentiva che stava avviandosi al culmine. Se lei fosse rientrata nel suo corpo, nella stretta morsa dell'incubo, con una vera gola per gridare e se il culmine fosse giunto abbastanza in fretta... Sarebbe stato difficile come camminare lentamente sulle braci ardenti, ma Spina aveva fatto un altro passo verso Dathru e lui verso di lei, con le mani protese come per ricevere il pugnale e la spada. ... il solo modo per uscire dal fango che si era richiuso sopra la sua testa era di arrampicarsi su di una forma scagliosa che le guizzava fra le mani. Con il naso e la bocca pieni di melma dall'odore putrescente, con i polmoni che le scoppiavano, lei si arrampicò, conficcando le unghie nelle scaglie spinose e guizzanti. Con la testa finalmente fuori dal fango, sputò e tossì finché riuscì ad espellere abbastanza melma dalla bocca per poter respirare. Aprì gli occhi, sbattendoli per liberarsi della fanghiglia acre e vide un'enorme testa ricoperta di scaglie tuffarsi verso di lei. Impalato nei denti inferiori, c'era il corpo mutilato di Spina. Fiordigelo urlò. L'urlo spezzò l'incantesimo di Spina. All'improvviso si rese conto di che cos'era quel fagotto scuro che giaceva nella delicata culla di rame e capì perché Dowl si era alzato di scatto ed aveva cominciato a leccarla. E in quell'attimo di disillusione, si accorse che Dathru non voleva il suo corpo, ma le sue armi. Era un maschio, ma era anche un fuorilegge ed un mago, e lei doveva agire prima che lui potesse di nuovo eccitare il suo desiderio. «Bramavi tanto Stiletto» gridò. «Prendilo!» e lanciò la lama dritta sul bersaglio, proprio sopra il pendente di legno sul petto di Dathru. Il grido aveva svegliato Fiordigelo dall'incubo. Quando Dathru cadde a terra, la catena di rame cadde dal suo corpo e il letto con i cuscini di velluto si dissolse nel nulla, lasciandola sul pavimento, a piangere sul pelo di Dowl. Con la punta di un piede Spina rivoltò il corpo del mago e ricuperò Stiletto. «Così potente» disse la spadaccina. «Poteva portarci qui, insinuare
un nuovo linguaggio nella tua mente e gli dèi sanno che altro ancora, ma un buon pugnale nel cuore l'ha finito come chiunque altro.» «Il granato» disse Fiordigelo, «il granato nell'impugnatura di Stiletto. Non hanno gioielli simili, qui, Spina... qui deve avere un grande potere.» La sedia di vetro di Dathru era scomparsa, come il letto, ma il Cerchio di oro bianco era ricomparso sul pavimento oltre il corpo di Dathru. Il letto e la sedia dovevano essere illusioni, mentre il Cerchio era reale e lui aveva solo fatto credere che fosse scomparso. Fiordigelo si trascinò verso di esso attraverso il pavimento di marmo, mantenendo una rispettosa distanza dal corpo di Dathru. Poi, tenendo l'anello di metallo in una mano e circondando il corpo di Dowl con l'altra, cominciò a piangere sommessamente, dondolandosi avanti e indietro, finché Spina non si avvicinò e la strinse a sé, come una madre. «Sei una maga molto più abile di quanto sia mai stato quello sciocco là a terra morto» disse Spina. «Puoi riportarci di nuovo nelle Terrestorte.» «Come?» «Se ci ha portato qui» disse Spina, «puoi scoprire come ha fatto. Tu sei in gamba, Fiordigelo, molto in gamba.» Fiordigelo sorrise: l'amica era tanto fiduciosa. Ma forse dopo tutto era in grado di imparare dalla stregoneria di Dathru, anche se avrebbe dovuto andare cauta con gli esperimenti. «Spina» disse, posando con cura il Cerchio sul pavimento accanto a lei e accarezzando Dowl con entrambe le mani, «mi porti il pendente... il pendente di legno che aveva intorno al collo?» Potete leggere a pagina 282 un'altra avventura di Fiordigelo e Spina, "Una notte in due locande" (N.d.R.) Titolo originale: The Garnet and the Glory Traduzione di Maria Cristina Pietri TESTE MOZZATE di Glen Cook Glen Cook, il cui "Teste mozzate" è un racconto di violenza e vendetta, sviluppa però su questo tema universale una storia insolita e commovente. Quando iniziai la lettura dei racconti di questa antologia, devo confessare
che avevo dei pregiudizi nei confronti di autori maschi che scrivevano fantasy eroica: pensavo dì avere letto troppi racconti stupidi nel vecchio stile della narrativa eroica ed il mio atteggiamento al riguardo era molto semplice: "Sangue e tuoni, coraggio e gloria. I racconti eroici mi son venuti a noia". Ma scrittori come Charles Saunders, Charles de Lint, Steve Burns e Robin Bailey, per menzionare solo alcuni fra coloro che sono presenti in questa antologia, mi hanno fatto cambiare idea molto rapidamente. Quando lessi "Teste Mozzate", pensai che Cook fosse un esordiente: una rapida inchiesta presso il suo agente mi rivelò che era invece un autore nuovo insolitamente prolifico, visto che in tre o quattro anni aveva scritto e venduto undici romanzi e due dozzine di racconti praticamente a tutte le riviste esistenti, incluse F&SF, Asimov's, Whispers, Night Voyages e molte altre. Narriman, l'eroina di questa storia, vive in prima persona la verità menzionata nel racconto e cioè che senza i nostri uomini non siamo che teste mozzate che rotolano per proprio conto nel deserto. Può essere questa una delle ragioni della stupida tendenza del vecchio genere di fantasy eroica (che gli ha procurato una pessima fama), e cioè che i primi scrittori, parlando solo di uomini, cadevano nella trappola di usare le donne nei racconto solo come espedienti narrativi, oggetti, figure di cartapesta senza una minima dimensione psicologica, che veniva invece garantita agli uomini? Quindi, anche i caratteri maschili erano solo "teste mozzate" che rotolavano nel deserto di una narrativa confusa e violenta, piena solo di sangue e budella, ma priva di una realtà emozionale. Glen Cook non è caduto in quella trappola. Neppure una volta. I Narriman aveva dieci anni quando il cavaliere nero arrivò a Wadi al Hamamah. Cavalcava eretto e con volto arrogante su di un destriero tanto bianco quanto la sua djellaba era nera. Guardava dritto avanti a sé passando in mezzo alle tende. I vecchi sputarono sugli zoccoli del suo cavallo. I bambini e i cani gemettero e fuggirono. L'asino di Makram ragliò in modo orribile. Narriman non era spaventata, solo confusa. Chi era questo straniero? Perché la sua gente era spaventata? Forse perché vestiva di nero? Nessuna
delle tribù che lei conosceva vestiva di nero. Il nero era il colore di ifrits e djinn, dei Maestri di Jebal al Alf Dhulquarneni, la montagna alta e scura che torreggiava su Wadi al Hamamah ed il luogo sacro di al Muburak. Narriman era coraggiosa. Spesso gli anziani la ammonivano, ma lei non voleva saperne di comportarsi come si conveniva al suo sesso. I vecchi scuotevano il capo e dicevano che dalla monella di Mowfik non sarebbe venuto nulla di buono. Lo stesso Mowfik era sospetto, poiché era andato a combattere le grandi guerre del Nord e quelli non erano affari che riguardassero gli abitanti di al Muburak. Narriman rimase a guardare il cavaliere. Questi fermò il cavallo davanti alla tenda di Mowfik che era discosta dalle altre, trasse un bastoncino nero dalla faretra e vi soffiò sopra. Le punte brillarono. Il cavaliere indirizzò la punta luminosa verso la tenda e tracciò un simbolo. I vecchi mormorarono e bestemmiarono fra di loro, sostenendo di aver sempre saputo che la sventura si sarebbe abbattuta sulla tenda di Mowfik. Narriman rincorse lo straniero che cavalcava nella valle verso il luogo sacro. La vecchia Farida la chiamò, ma lei finse di non sentire. Scivolò tra le ombre, tra una roccia e l'altra, fino al nascondiglio da cui spiava i riti degli anziani. Guardò il cavaliere attraverso il Cerchio con indomita arroganza. Non rivolse lo sguardo a Karkur, né tantomeno fece offerte o atti di sottomissione. Lei si aspettava che la Grande Morte lo colpisse prima di uscire dal Cerchio, ma lui continuò a cavalcare, incolume. Narriman rimase a guardare finché il cavaliere scomparve alla vista. Fissò la divinità: anche Karkur era un vecchio spaventato? Era molto scossa: l'ira di Karkur era una costante della sua vita. Ogni atto, ogni piacere doveva venir integrato con i suoi desideri. Era un dio iroso. Ma se ne era rimasto immobile come un blocco di pietra rossa mentre un infedele contaminava il suo Cerchio. Il sole stava per tramontare quando tornò al campo. Immediatamente la vecchia Farida la chiamò. Lei le raccontò quello che aveva visto. I vecchi mormorarono, con vaghi sussurri, facendo i loro segni. «Chi era, Farida? Che cos'era? Perché sei spaventata?» Farida sputò attraverso i denti mancanti. «Il messaggero del Maligno. Uno shaghûn del Jebal.» Farida volse lo sguardo sulle Montagne dei Mille Maghi e fece un segno magico. «È un atto di misericordia che tua madre non sia vissuta per vedere questo.» «Perché?»
Ma proprio in quel momento suonò il corno della guardia, con note trionfanti. I cacciatori erano tornati. Karkur aveva guardato con favore alla tribù. Narriman corse da suo padre per raccontargli dello straniero. II Mowfik aveva un'antilope legata alla sella, una fila di quaglie, delle lepri e persino una tartaruga. «Una grande caccia, Piccola Volpe. Non ne abbiamo mai avuta una migliore. Persino Shukri ha preso qualcosa.» Shukri non ne azzeccava mai una. Probabilmente lui sarebbe stato lo sposo di Narriman, perché lei era figlia di sua madre. Suo padre era talmente eccitato che lei non se la sentì di parlare dello straniero. Gli altri cacciatori lo seppero dai vecchi. Sguardi cupi si volsero verso Mowfik. Lei ebbe paura per lui finché non si accorse che erano sguardi di compatimento. Molte teste annuirono: la visita dello straniero aveva confermato i loro pregiudizi. Mowfik si fermò fuori della tenda. «Non dormiremo molto questa notte, Piccola Volpe. Spero che tu abbia raccolto molta legna.» Lei udì la stanchezza nella sua voce. Mowfik aveva lavorato più duramente degli altri: non aveva una donna che cavalcasse dietro di lui per pulirgli la selvaggina, né chi si occupasse della casa. Solo la vecchia Farida, la sorella di sua madre, era solita offrirgli il suo aiuto. Narriman prese le quaglie e le lepri e le dispose su di una stuoia. Raccolse i suoi arnesi, attizzò il fuoco e si mise al lavoro. Il sole tramontò tracciando una lieve curva a sud-ovest. Una lingua di fuoco baluginò tra i picchi e irruppe nel wadi, disperdendo le ombre. Mowfik sollevò lo sguardo. Impallidì. Aprì e chiuse la bocca. Poi mormorò con voce strozzata: «Che cosa?» Lei gli raccontò del cavaliere. Mowfik sedette a capo chino. «Ah, no. Non la mia Piccola Volpe.» Ed aggiunse: «Ci sono alcuni che nemmeno Karkur osa offendere. Il cavaliere è al servizio di qualcuno più potente di lui.» Proseguì con aria pensierosa: «Ma forse ci ha indicato la via. Ci deve essere qualcosa di più di una grande festa quando la selvaggina cade sotto l'arco del cacciatore.» Si alzò, camminando tra le ombre, e si fermò a contemplare quelle tremende montagne che nessuna tribù osava invadere. Poi disse: «Cuoci solo quella carne che potrebbe deteriorarsi prima di essere affumicata.»
«Dimmi cosa significa, Padre.» «Immagino che tu sia abbastanza grande. Sei una Prescelta. I Maestri lo hanno inviato per apporre il segno, in modo che tutti sapessero. È passato tanto tempo da quando è venuto uno shaghûn. L'ultima volta è stato all'epoca di mia madre.» III Mowfik era stato al nord e si era bagnato in acque straniere. I suoi pensieri sfioravano l'impensabile. Poteva addirittura vagheggiare di sconfiggere i Maestri. Attinse al suo bottino di guerra per comperare l'asino di Makram. Caricò tutti i suoi averi su due animali e si allontanò. Si voltò indietro una sola volta. «Non avrei mai dovuto tornare.» Si diressero a nord seguendo i sentieri di caccia, attraversando luoghi montagnosi ed evitando le altre tribù. Rimasero dodici giorni fra le colline prima di scendere verso una grande oasi. Per la prima volta, Narriman vide della gente che abitava nelle case. Rimase vicina a Mowfik; quella era gente strana. «Là, ad est. Quella è el Aswad, la fortezza del Wahlig.» Narriman vide una grande tenda di pietra sulla cima di una collina spoglia. «E là, a quattro giorni di viaggio, c'è Sebil el Selib, il passo che conduce al mare.» Indicò verso nord est. E poi con il braccio verso ovest: «Là si stende il grande erg chiamato Hammad al Nakir.» Il calore scintillava sopra il Deserto della Morte. Per un attimo, lei pensò di scorgere le magiche torri della distrutta Ilkazar, ma era solo la sua immaginazione, nutrita dalle storie che Mowfik aveva riportato dai suoi viaggi. Ilkazar era in rovina da quattro secoli. «Faremo provvista d'acqua, attraverseremo l'erg e poi ci sistemeremo. Lo shaghûn non ci troverà mai.» Ci vollero otto giorni, molti dei quali spesi inutilmente, per raggiungere Wadi el Kuf, l'unica oasi esistente nell'erg. Ed altri quattordici per trovare un luogo in cui sistemarsi. La nuova vita era sconcertante: la gente parlava la stessa lingua, ma il loro modo di vivere era completamente diverso. Narriman pensò che sarebbe impazzita prima ancora di riuscire ad imparare le loro abitudini. Ma le imparò: perché lei era coraggiosa, e poi era la figlia di Mowfik, e metteva in dubbio ogni cosa e credeva solo a ciò che più le conveniva. Lei e suo padre venivano pur sempre considerati degli estranei, ma qui lo erano assai
meno che in mezzo alla loro gente. A Narriman quella gente piaceva: le mancavano solo Karkur e la vecchia Farida. Mowfik continuava a dirle che Karkur era con loro in spirito. IV Quando il cavaliere riapparve, Narriman aveva dodici anni. Era nei campi con i suoi amici Ferial e Feras, in un appezzamento pietroso e quasi sterile. Il padre di Ferial l'aveva comperato a poco prezzo e aveva promesso a Mowfik un quarto dei profitti se lo avesse aiutato a renderlo fertile. Quella mattina, mentre i ragazzi raccoglievano le pietre formando con esse una specie di muro, Mowfik e il suo socio erano lontani. Feras aveva passato la mattina a lamentarsi di essere malato ed era il bersaglio dei lazzi di sua sorella e di Narriman. Fu lui a vedere per primo il cavaliere. Contro lo sfondo di ombre e di rocce scure era quasi invisibile, seminascosto da un masso da cui spuntava solo la testa del cavallo. Ma era lì. E guardava. Narriman rabbrividì. Come aveva fatto a trovarli? Lui era il servo dei Maestri: la loro arte magica era immensa. Mowfik era stato sciocco a pensare di potergli sfuggire. «Chi è?» chiese Ferial. «Perché sei spaventata?» «Non sono spaventata» mentì Narriman. «È uno shaghûn.» Lì nel nord, alcuni signori avevano i propri shaghûn, e poi aggiunse: «Cavalca per conto dei Maestri del Jebal.» Ferial rise. Narriman disse: «Se tu fossi vissuto all'ombra del Jebal, ci crederesti.» Feras disse: «La Piccola Volpe è bugiarda più di quanto dica il suo nome.» Narriman gli sputò sui piedi. «Tu sei molto coraggioso, eh?» «Non mi fa paura.» «Allora vieni con me a chiedergli che cosa vuole.» Feras guardò Narriman, poi Ferial e poi di nuovo Narriman. L'orgoglio maschile non gli permetteva di tirarsi indietro. Anche Narriman aveva il suo orgoglio. Mi avvicinerò solo un poco, si disse, solo quel tanto che basta a far tornare indietro Feras. Non arriverò fino là. Il cuore le diede un balzo. Feras aprì la bocca e si mise a correre per tenerle dietro. Ferial gridò: «Torna indietro, Feras. Lo dirò a nostro padre.»
Feras gemette. Se non fosse stata tanto spaventata, Narriman avrebbe riso. Feras era intrappolato tra l'orgoglio e la prospettiva di una punizione. La certezza che sarebbe stato punito, spronò il ragazzo ad andare avanti. Avrebbe fatto sì che le frustate valessero il gioco. Nessuna ragazza si sarebbe dimostrata più coraggiosa di lui. Erano a circa cinquanta metri quando Feras scappò. Narriman sentì lo sguardo duro dello shaghûn posarsi su di lei. Ancora qualche passo, solo per dimostrare di aver battuto Feras. Avanzò di cinque passi, con determinazione, e poi si fermò, sollevando gli occhi. Lo shaghûn rimase immobile. Il cavallo agitò la testa, scrollando via le mosche. Un cavallo diverso, ma l'uomo era lo stesso... incontrò il suo sguardo. Qualcosa le intrappolò l'anima. Lo shaghûn fece un cenno con il capo, un invito ad avanzare. I suoi piedi si mossero. Trenta metri. Venti. Dieci. La sua paura aumentò. Lo shaghûn smontò da cavallo, senza mai smettere di guardarla. La prese per un braccio, conducendola all'ombra del masso. Dolcemente, la spinse con la schiena contro la roccia. «Che cosa vuoi?» Lui si scoprì il viso. Era solo un uomo! Un uomo giovane, di non più di vent'anni. Sorrideva appena, e non era brutto, ma gli occhi erano freddi, spietati. La mano di lui si mosse e le scostò il velo che solo da pochi mesi aveva cominciato a portare. Narriman tremò come un uccello prigioniero. «Sì» mormorò, «bella come mi avevano promesso.» Le sfiorò la guancia. Non riusciva a sfuggire a quello sguardo. Dolcemente, molto dolcemente, le sue mani slacciarono, sfilarono e sollevarono, e lei si ritrovò nuda, completamente nuda come quando era nata. Nel suo cuore invocò Karkur. Karkur aveva orecchie di pietra. Tremò nel ricordare che Mowfik le aveva detto che c'erano poteri di fronte ai quali anche Karkur doveva inchinarsi. Lo shaghûn raccolse i loro abiti e ne fece un giaciglio. Quando lui si alzò lei spalancò la bocca e cercò di rompere l'incantesimo chiudendo gli occhi. Non servì a nulla. Le mani di lui afferrarono il suo corpo nudo e dolcemente la obbligarono a distendersi. Egli la penetrò con una lancia infuocata, punendola perché aveva osato fuggire. A dispetto della sua determinazione, lei gemette e lo implorò di fermarsi. In lui non c'era pietà.
La seconda volta il dolore fu meno forte. Era intorpidita. Serrò le palpebre e sopportò. Non volle dargli la soddisfazione di sentirla implorare. Quando la penetrò la terza volta, lei aprì gli occhi e incontrò il suo sguardo. L'effetto fu cento volte maggiore di quando l'aveva chiamata a sé. La sua anima si intrecciò con quella dello shaghûn. Divenne parte di lui. Il piacere fu tanto grande e soverchiante quanto lo era stato il dolore la prima volta. Implorò, ma non per chiedere pietà. Poi lui si alzò, afferrò i propri abiti e lei gridò ancora, vergognandosi doppiamente perché lui aveva fatto in modo che le piacesse quello che stava facendo. I movimenti dell'uomo non erano più languidi e sicuri: si vestì in fretta e senza troppa attenzione. Nei suoi occhi c'era paura. Saltò sul cavallo e lo spronò. Narriman rimase rannicchiata, sentendosi umiliata e infelice, e pianse. V Al nitrito dei cavalli s'intrecciarono urla concitate. «È andato da quella parte!» «Eccolo! Inseguiamolo!» Mowfik smontò e gettò il proprio mantello addosso a Narriman. Lei nascose il viso negli abiti di lui. Il tambureggiare degli zoccoli, le grida oltraggiate e il clangore delle armi contro gli scudi si allontanarono. Mowfik la sfiorò. «Piccola Volpe?» «Vai via! Lasciami morire.» «No. Questo passerà, sarà dimenticato. La morte invece non si può dimenticare.» La rabbia gli soffocò la voce. «Lo prenderanno. Lo porteranno indietro. Ed io ti darò il mio coltello.» «Non lo prenderanno. Lui ha il Potere. Non sono riuscita a combattere contro di lui. Lui ha fatto in modo che io lo volessi. Vai via. Lasciami morire.» «No.» Mowfik aveva partecipato alle guerre del nord e aveva visto violentare le donne. Sapeva che potevano sopravvivere. Certo, l'impatto era molto più forte quando la vittima era qualcuno del proprio sangue, ma quella parte di lui che era solo un uomo e non un padre oltraggiato, sapeva che non era finita. «Sai quello che diranno» Narriman si strinse nel mantello. «Ferial e Fe-
ras racconteranno quello che hanno visto. La gente penserà che ci sono andata di mia volontà. Mi chiameranno prostituta. E io dovrò diventare quella che tutti pensano. Quale uomo mi vorrà ancora, adesso?» Mowfik sospirò. Lei aveva ragione. Se i cacciatori fossero tornati senza essere riusciti a prenderlo entro i confini del loro stesso territorio, avrebbero cercato delle scuse per il loro fallimento e avrebbero visto le cose sotto una luce diversa. «Vestiti.» «Lasciami morire, padre. Lascia che tolga dalle tue spalle il peso della vergogna.» «Smettila. Vestiti, abbiamo da fare. Venderemo tutto mentre sono ancora disposti alla compassione. Come abbiamo ricominciato da capo qui, possiamo farlo anche da un'altra parte. Su, vestiti. Vuoi che ti vedano in questo stato? Ora è il momento di mostrarsi coraggiosi.» Per tutta la vita, ogni volta che la gente le faceva del male, lui aveva sempre detto: «È il momento di mostrarsi coraggiosi.» Piangendo, lei si vestì. «L'hai detto anche alla mamma?» Sua madre era stata una coraggiosa ragazza del nord, venuta al sud per amore. Era stata considerata un'estranea ancor più di Mowfik. «Sì, molte volte. E avrei dovuto tenere a freno la lingua. Sarei dovuto restare al nord. Niente di tutto questo sarebbe accaduto se fossimo rimasti tra la sua gente.» Il socio di Mowfik non cercò di approfittare della sua disgrazia. Pagò generosamente, e Mowfik non dovette attingere al bottino di guerra per andarsene. VI Un certo Capitano Al Jahez, sotto il quale aveva servito la guerra, gli offrì un posto come cacciatore. Mowfik e Narriman erano fuggiti a ottocento miglia da Wadi al Hamamah. Subito dopo il loro arrivo, Narriman cominciò a temere il peggio. Non disse nulla finché non poté più ingannare sé stessa. Andò da Mowfik perché non aveva nessun altro a cui rivolgersi. «Padre, aspetto un figlio.» Lui non reagì nel modo tradizionale. «Certo, il suo scopo era quello di generare un altro come lui.» «Che cosa faremo?» Era terrorizzata. La sua tribù non perdonava e la gente di quel luogo era solo un poco meno rigida in quelle faccende.
«Non bisogna farsi prendere dal panico. Ne ho discusso con il Jahez appena siamo arrivati. È un uomo duro e molto religioso, ma viene da el Aswad. Sa ciò che c'è nel Jebal. Il guardiano delle sue capre ormai è vecchio. Ci manderà sulle colline a prendere il suo posto. Staremo lontani per qualche anno, mentre lui imprimerà nella mente di tutti la storia che tu sei diventata vedova. Quando tornerai, sarai ancora giovane. Gli uomini faranno a gara per una vedova così.» «Perché sei così gentile? Non ho fatto altro che procurarti dei guai fin da quando il cavaliere è arrivato al wadi.» «Tu sei la mia famiglia, sei tutto quello che ho. Io seguo la via del Discepolo, non come tanti altri che la professano solo perché è politicamente utile.» «Eppure ti inchini a Karkur.» Lui sorrise. «Non bisogna mai tralasciare nessuna possibilità. Parlerò con Al Jahez. Partiremo prima della fine della settimana.» La vita sulle colline, ad occuparsi delle capre, non era spiacevole. Era una terra dura, che ricordava a Narriman quella di casa sua. Ma questa era meno selvaggia. C'erano pochi lupi e leoni. Era raro che i fanciulli venissero minacciati. Mentre il suo ventre si ingrossava e ci si avvicinava all'inevitabile, la sua paura crebbe. «Padre, sono troppo giovane per questo. Morirò, lo so.» «Non, non morrai.» Le disse che anche sua madre aveva avuto paura, che tutte le donne avevano paura. Non cercò di convincerla che i suoi timori erano infondati, solo che la paura era più pericolosa del parto. «Io sarò con te, non lascerò che ti accada nulla. E Al Jahez ha promesso che manderà la sua levatrice più brava.» «Padre, non capisco perché tu sia così buono con me, e neppure riesco a capire perché lui lo sia con te. Non può essere solo perché avete cavalcato insieme in guerra.» Mowfik scrollò le spalle. «Forse è perché gli ho salvato la vita nella battaglia dei Cerchi. E poi gli uomini giusti sono più di quanti tu creda.» «Non parli mai delle guerre, solo dei luoghi che hai visto.» «Non sono ricordi lieti, Piccola Volpe. Morti, uccisioni, massacri. Ed alla fine, nulla di guadagnato, né per me né per la gloria del Signore. Vorresti rievocare questi giorni quando sarai vecchia? Quei giorni non furono felici, ma vidi più cose di quante mai ne videro, prima o dopo di allora, gli abitanti di al Muburak.» Dei dieci volontari che erano partiti, lui fu l'unico sopravvissuto. Ed era
forse questa la ragione, più che la moglie straniera, per cui era diventato un reietto. I vecchi gli serbavano rancore perché lui era sopravvissuto mentre i loro figli erano morti. «Che cosa ne faremo del bambino, Padre?» «Quello che la gente fa di solito: lo alleveremo e ne faremo un uomo.» «Sarà un maschio, vero?» «Non dubito che lo sarà, ma anche una bambina sarà altrettanto ben accetta.» Ridacchiò. «Lo odierai?» «Odiarlo? Stiamo parlando del figlio di mia figlia. Posso odiare il padre, ma non il bambino. Lui è innocente.» «Hai viaggiato davvero in strane terre. Non mi meraviglio che gli anziani non ti amassero.» «I vecchi muoiono. Le idee sono immortali. Così dice il Discepolo.» Dopo quella conversazione si sentì meglio, ma le sue paure non svanirono del tutto. VII «Un bel rampollo» disse la vecchia con un sorriso sdentato. «Un bel rampollo. Ti predico fin d'ora, piccola padrona, che sarà un grande uomo. Guarda qui, la sua mano.» Sollevò la minuscola cosa urlante, rossa e piena di rughe. «Ed è uscito con la placenta. Solo coloro che sono davvero predestinati nascono così. Sì, hai dato la vita ad un potente.» Narriman sorrise, anche se non aveva udito neppure un decimo di quelle chiacchiere. Tutto quello che le importava era che la fatica fosse finita e che il dolore fosse scomparso. Voleva un gran bene al bambino, ma non aveva la forza di esprimerlo. Mowfik si affacciò alla tenda. «Sadhra, va tutto bene?» Era pallido in viso, e vagamente Narriman si rese conto che anche lui aveva avuto paura. «Ne sono usciti benissimo tutti e due. Al Jahez ha un figlioccio di cui può andare orgoglioso.» E ripeté le sue predizioni. «Vecchia Madre, forse è meglio che tu non gli dica queste cose: potrebbe interpretarle come superstizioni. È uno stretto osservante per quello che riguarda la religione.» «Ciò in cui credono gli uomini, siano essi creature comuni o Prescelti del Signore, non può cambiare le leggi naturali. I presagi sono presagi.» «Forse, forse. Non dovresti farle tenere il bambino, ora?»
«Sì, certo che dovrei. Ma continuo a cullarlo per poter dire un giorno di averlo avuto tra le braccia.» Appoggiò il neonato al seno di Narriman. Lui si attaccò al capezzolo, ma senza molto entusiasmo. «Non preoccuparti, piccola padrona. Presto succhierà di gusto.» «Grazie, Sadhra» disse Mowfik. «Al Jahez ha scelto bene. Sono in debito con tutti e due.» «L'onore è stato mio.» Ed uscì dalla tenda. «Che tipo, eh, Piccola Volpe? Lo esalta come il Martello del Signore ancor prima che tragga il primo respiro.» Narriman lo scrutò: non era solo stanco, qualcosa lo turbava. «Il cavaliere?» «È là fuori.» «Lo pensavo, ho avvertito la sua presenza.» «Ho cercato di avvicinarmi di nascosto, ma mi è sfuggito. Non ho osato allontanarmi troppo.» «Forse domani.» Ma mentre scivolava nel sonno, pensò: non lo prenderai mai, ti sfuggirà con il Potere. Nessun guerriero lo prenderà. La sua morte verrà solo con il tempo o con l'inganno. Dormì e sognò il cavaliere e quello che aveva provato la terza volta. Era un sogno ricorrente, ed era l'unica cosa che tenesse nascosta a Mowfik. Lui non avrebbe capito. Lei stessa non capiva. Forse, in fondo, era una prostituta. VIII Narriman chiamò il bambino Misr Sayed bin Hammad al Muburak, che significava che era Misr Sayed, figlio del deserto, della tribù di al Muburak. Hammad poteva anche essere un nome maschile, così divenne quello del marito che non aveva. Il nonno di Misr, invece, lo chiamò Mowfik elMasiri, o Piede di Cammello, per ragioni che lui solo trovava divertenti. Misr cresceva in fretta, imparava rapidamente ed era straordinariamente sano. Raramente si ammalava o provava dolore, e questo anche quando cominciò a mettere i primi denti. Era sempre allegro e mostrava sempre un grande affetto per il nonno. La cosa che continuava a sorprendere Narriman era il fatto di poter provare tanto amore per una sola persona. «Come fanno le donne ad amare più di un figlio?» chiese. Mowfik scrollò le spalle. «Per me è un mistero. Io ero figlio unico e così anche tu.»
I primi due anni furono stupendi. Le capre ed il bambino li tenevano troppo occupati perché avessero il tempo di pensare ad altro. Ma durante il terzo anno Mowfik cominciò a farsi scontroso. Il suo cuore era lontano dai giochi che faceva con Misr. Un giorno Narriman lo trovò mentre lucidava la spada e fissava le colline. Allora capì: aspettava il cavaliere. La prospettiva accese la sua fantasia. Spasimava per lo shaghûn. Tenne la mano sinistra sul fuoco fino a quando il dolore cancellò il desiderio. Poco tempo dopo il terzo compleanno di Misr, Mowfik disse: «Vado a trovare Al Jahez. È tempo che tu diventi la vedova di Hammad.» «Saremo al sicuro, là? Lo shaghûn non potrà arrivare a cavallo come ha fatto l'altra volta?» «Al Jahez pensa di no. Pensa che i sacerdoti potranno tenerlo lontano.» Narriman andò all'ingresso della tenda e volse lo sguardo verso le colline inospitali. «Vai a cercarlo. Ho paura di tornare in un luogo dove la gente può gridare alla vergogna, ma ho ancora più paura dello shaghûn.» «Speravo che tu la pensassi in questo modo.» Aveva cominciato ad essere meno tesa. La notte era trascorsa senza incidenti. Mowfik sarebbe tornato verso mezzogiorno: se avesse potuto trovare qualcosa da fare per non pensare... Era quasi mezzogiorno quando Misr la chiamò. «Mamma, sta arrivando il nonno.» Lei sospirò, mise da parte il rammendo e uscì per salutarlo. «Oh, no! Karkur, proteggici!» Non poteva biasimare Misr per l'errore: raramente aveva visto qualcun altro che non fosse Mowfik a cavallo. Lo shaghûn era lontano nella valle e veniva verso di lei. Le sembrò immenso, come una città lontana vista attraverso lo scintillio dell'erg. Si avvicinava senza fretta. L'andatura regolare del cavallo aveva un ritmo ipnotico. Sembrava che non si avvicinasse mai. «Vai nella tenda, Misr.» «Mamma?» «Ubbidisci, e non uscire se non te lo dico io, qualunque cosa succeda.» «Mamma, che cosa c'è?» «Vai, Misr!» «Mamma, mi fai paura!» Lei gli lanciò il suo sguardo più severo e lui sparì all'interno. «E chiudi la tenda.» Si voltò. Il cavaliere era due volte più grande, ma non sembrava essersi avvicinato. Non aveva accelerato il passo. La vergogna nel suo cuore crebbe con il calore che sentiva salirle dai lombi. Sapeva
che lui l'avrebbe presa ed una parte di lei lo invocava. Lui si fece più vicino. Narriman pensò di fuggire nelle colline, ma a cosa sarebbe servito? Lui l'avrebbe raggiunta e Misr sarebbe rimasto solo. Afferrò l'arco che Mowfik usava per la caccia e scoccò una freccia in direzione del cavaliere. Mancò il bersaglio. Era brava con quell'arma, più di suo padre, che continuava a stupirsi che una donna riuscisse a fare qualcosa meglio di un uomo. Non avrebbe dovuto mancarlo. Lanciò una seconda freccia e poi una terza. Tutte mancarono il bersaglio. La quarta si conficcò nella djellaba, ma solo perché era molto vicino. Non ne lanciò una quinta: aveva visto i suoi occhi. L'arco le cadde dalle mani. Lui scese da cavallo e venne verso di lei, a braccia tese. Solo un momento, dell'ora che seguì, le rimase impresso nella mente. Misr uscì dalla tenda, vide il cavaliere che la penetrava, corse verso di loro e lo morse nel fondo schiena. Quella era l'unica cosa che avrebbe ricordato, ogni volta che quel miscuglio di dolore e di piacere le tornava alla mente. Dopo, lo fissò negli occhi. La volontà dell'uomo la soggiogò: scivolò nel sonno. Venne svegliata dalle imprecazioni. Era un imprecare violento e selvaggio, carico d'odio. Si sentì troppo pigra per aprire gli occhi. Ricordò l'avanzare inesorabile dell'uomo in nero che risaliva la valle seguendo un percorso diritto come la freccia del tempo. Ricordò il suo tocco, la sua risposta febbrile. Sentì il sole accarezzare il suo corpo nudo e carico di vergogna. Si alzò di scatto, coprendosi con i vestiti. Mowfik lavorava di accetta su di un tronco caduto, continuando ad imprecare. Inveiva contro Karkur e contro il Signore del Discepolo. Spaventata, si affrettò a rivestirsi. Sfinito, Mowfik si fermò, si sedette sul tronco e pianse. Narriman si avvicinò per confortarlo. «Va tutto bene, padre. Non mi ha fatto del male. Ancora una volta mi ha coperta di vergogna, ma non mi ha fatto male.» Lo abbracciò. «Andrà tutto bene.» «Ha preso Misr, Piccola Volpe. Non voleva te, questa volta.» IX
L'espressione di Narriman cambiò, si indurì e si fece triste. La Narriman di Wadi al Hamamah non l'avrebbe riconosciuta, quella Narriman sarebbe stata spaventata a morte. Mowfik la portò da Al Jahez, e il capitano si sentì oltraggiato. Mandò i suoi uomini a rastrellare il paese, inviò un allarme per tutto il regno. Si appellò al Santissimo Tempio di Mrazkim per un Ordine di Anatema e per preghiere che invocassero l'intervento del Signore. «Questo è tutto quello che posso fare. E non servirà. Nessuno lo troverà. Coloro che servono i Maestri vanno e vengono a loro piacimento.» «Nessuno può fare qualcosa?» chiese Narriman. «Da quanto tempo va avanti questa cosa? Quante donne hanno dovuto sopportare una cosa simile?» «È così da sempre» disse Al Jahez. «È continuata per tutto il tempo dell'Impero. È continuata ancor prima che l'Impero nascesse e continuerà anche in futuro.» «Perché nessuno la ferma?» «Perché nessuno può farlo. Uno degli imperatori ci provò: inviò un esercito nel Jebal. Neppure un soldato tornò indietro.» Narriman stava sfogando la propria frustrazione, sapeva che era futile dare battaglia ai Maestri. No, si trattava di una cosa personale, di una cosa fra lei e lo shaghûn. I Maestri non erano che ombre oltre l'orizzonte, troppo nebulose per inserirsi in un'equazione emotiva. «Quell'uomo ha preso mio figlio. Mio figlio. Io non gli riconosco alcun diritto. Non ha fatto altro che obbligarmi a sdraiarmi sulla schiena.» «Narriman?» esclamò Mowfik sconcertato. «Rivoglio mio figlio.» «Non possiamo fare nulla» disse Al Jahez. «Lo shaghûn è quello che è e noi siamo quello che siamo.» «No.» «Narriman?» Mowfik era sempre più sconcertato. «Ci ho pensato tutto il giorno, padre. Vado alla ricerca di Misr.» Al Jahez disse: «Ma tu sei ancora una bambina. Ed una femmina.» «In questi anni sono cresciuta. Sono piccola di statura, ma non sono una bambina. E per quello che riguarda il mio sesso, dite quello che volete, non cambierò idea.» «Narriman!» «Padre, vuoi smetterla di pronunciare il mio nome? Sei stato al mio fianco quando ti ho pregato di non farlo. Mi hai inondato di un amore che
non meritavo. Stai al mio fianco ora. Dammi quello che mi serve per riavere Misr, insegnami quello che devo sapere.» Al Jahez scosse il capo. «Mowfik, avevi ragione: è un tipo in gamba.» «Piccola Volpe... Ci vorrà tanto tempo e io non sono ricco... non posso permettermi armi e cavalli...» «Un cavallo lo abbiamo. Abbiamo una spada. E poi tu eri un soldato. Io sono in grado di sopravvivere nel deserto, vengo da al Muburak.» Mowfik sospirò: «La spada è troppo pesante, ragazza. Narriman guardò verso Al Jahez. Il capitano cercò di mimetizzarsi tra i cuscini.» «Piccola Volpe, non voglio perderti, non riuscirei a sopportarlo.» La voce gli si spezzò. Narriman vide una lacrima nei suoi occhi. Sarebbe stato un bel colpo per le sue scarse riserve emotive. Non voleva vederla cavalcare lontano da lui. Il cuore gli diceva che non l'avrebbe mai più rivista. Il cavaliere nero gliel'aveva rubata, questo era certo come il fatto che avesse rubato Misr. Narriman buttò le braccia al collo di Mowfik. «Padre, debbo farlo. Tu non verresti a cercare me?» «Sì, sì, lo farei. Questo lo capisco.» Al Jahez disse: «Non è una cosa saggia. A parte l'impossibilità di lottare contro lo shaghûn e il Jebal, che cosa accadrebbe ad una giovane donna sola? Anche un uomo onesto la considererebbe un facile oggetto di piacere. Per non parlare dei banditi e dei mercanti di schiavi. Il Discepolo ha decretato che regnasse la legge, piccola mia, ma il Maligno, come sempre, governa gran parte della nostra terra.» «Questi sono problemi che affronterò quando si presenteranno.» Quello che lui aveva appena detto era giusto, non poteva negarlo. Le donne non godevano di protezione o di una posizione legale. Quando lo shaghûn l'aveva violentata, aveva offeso suo padre, non lei. Una donna non sposata non era una persona. Ma la sua decisione non vacillò. Al diavolo i problemi e tutti coloro che si mettevano sulla sua strada. X Quando voleva davvero qualcosa, Narriman la otteneva. Alla fine Mowfik si arrese. E quando vide che lui aveva ceduto, anche Al Jahez acconsentì con riluttanza a provvedere al suo addestramento. Narriman vi si dedicò con una tale determinazione da meritarsi persino il
rispetto degli uomini di Al Jahez. Cominciava presto e finiva tardi e lavorava molto più duramente di un ragazzo. Era resistente, non faceva caso a lividi o graffi. I suoi istruttori la chiamavano Vixen e indietreggiavano quando nei suoi occhi si accendeva il fuoco mortale. Un giorno costrinse suo padre a portarla dal capitano e disse ad Al Jahez: «Sono pronta, partirò domani.» Al Jahez si rivolse a Mowfik: «Tu lo permetterai? Una donna sotto le armi? È contro natura.» Mowfik scrollò le spalle. Narriman disse: «Non ostacolarmi, mio padre l'ha fatto per settimane. Io andrò con o senza la vostra benedizione.» «Mowfik, proibisci questa pazzia.» «L'hai sentita, capitano. Devo metterla in catene?» Al Jahez la guardò come se volesse imprigionarla per il suo bene. «Allora concedimi la sua mano, Mowfik.» Anche se era rimasta senza parole, Narriman capì. Al Jahez voleva i diritti legali del matrimonio, così avrebbe potuto impedirglielo, e avrebbe potuto invocare la legge se lei avesse insistito. E se lei si fosse ribellata, avrebbe potuto inseguirla come una schiava fuggiasca. Fu assalita dal terrore: guardò suo padre e vide che la proposta lo tentava. «Capitano, il mio cuore e la mia anima mi gridano di accettare. Ma non posso. Una voce più forte mi implora di lasciarla andare, anche se ciò mi causerà dolore.» Sconfitto, Al Jahez sospirò: «Come vuoi. Bambina, non arrecare dolore o vergogna a tuo padre.» Vedendo la sua espressione, corrugò la fronte. «Dolore o vergogna per mano tua. Ciò che è stato fatto dallo shaghûn non ricade su di te. Essi sono come le grandi tempeste nell'erg: chiunque, uomo o donna, non può fare altro che abbassare la testa finché non sono passate. Vieni, i sacerdoti benediranno la tua impresa.» Rimasero in attesa, vestiti con i migliori abiti da cerimonia. Gli occhi di Al Jahez luccicavano. «Vedi? Anche il vecchio capitano comincia a conoscerti.» «Forse.» Si domandò se non fosse troppo prevedibile. La cerimonia per lei era meno importante che per Mowfik o Al Jahez. La sopportò per amor loro. Karkur avrebbe cavalcato con lei. «Ancora una cosa» disse Al Jahez, «e poi non ti tormenterò più. Gamel,
la scatola.» Un prete si fece avanti con una scatola di legno di sandalo. Al Jahez la aprì. All'interno, su di un panno di seta bianca, c'era un ciondolo. Era una pietruzza verde chiaro, non molto diversa da tante altre che lei aveva visto per terra. Al Jahez disse: «Forse questo dono riuscirà a ripagarti, Mowfik.» E a Narriman: «Bambina, il Discepolo insegna che anche l'acquiescenza alla magia è un peccato, ma gli uomini debbono essere pratici. Anche lo stesso Discepolo ha dei consiglieri shaghûn.» "La pietra è un amuleto; ti avvertirà quando starai per avvicinarti a qualcuno che ha il Potere. Comincerà a diventare fredda quando ti troverai ad un miglio di distanza. Quando sarai molto vicina, emanerà una luce verde. È l'arma migliore che possa darti. Narriman cercò di controllare il tremito. Non ci riuscì e lasciò scorrere le lacrime. Abbracciò il capitano, il quale fu talmente sorpreso, che sobbalzò, ma il viso tradì la sua contentezza. «Vai con il Signore, Piccola Volpe. Ed anche con Karkur, se vuoi.» «Grazie» rispose lei. «Per tutto. Specialmente per essere amico di mio padre.» Al Jahez sbuffò. «Ah, bambina! Che cosa siamo, senza amici? Solo delle teste mozzate che rotolano sulla sabbia.» XI Narriman si voltò indietro solo nel momento in cui la fortezza di Al Jahez stava per scomparire alla vista. «Quella è ieri.» Guardò a sud, verso il grande erg. «E là c'è il domani, a ottocento miglia.» Afferrò le redini, toccando l'amuleto che le pendeva sul petto, le armi e la sacca che Mowfik aveva riempito con il bottino di guerra senza che lei se ne accorgesse. Aveva fatto di tutto per dissuaderla, e di tutto per aiutarla. Si guardò ancora alle spalle, domandandosi se il loro concetto di uomo e donna li avrebbe costretti a farla inseguire dalle guardie. «Vai, Fedele» disse alla giumenta. La fortezza scomparve. Il cuore le balzò in petto. Era in viaggio, da sola. Una testa mozzata che rotolava sulla sabbia, separata dal proprio corpo... anche con un po' di aiuto da parte del cavaliere. Se lo raffigurò come era il giorno in cui aveva portato via Misr. Di nuovo avvertì quella sensazione di calore e di eccitazione, ma non così forte come altre volte. L'odio aveva cominciato a spegnere quel fuoco.
Desiderò che ci fosse un modo in cui una donna potesse fare ad un uomo ciò che lui aveva fatto a lei. Quelle zone selvagge si rivelarono molto simili a come le erano state descritte. Aspre, implacabili e abitate da gente che rifletteva l'asprezza del paesaggio. Per due volte incontrò uomini che la considerarono come un dono del cielo. La prima volta riuscì a sfuggire. La seconda, messa alle strette, combatté. E fu sorpresa di uscirne vittoriosa. Anche se aveva sempre sostenuto di essere uguale ad un uomo, nel profondo del suo cuore non ci aveva mai veramente creduto. Era possibile che la saggezza di secoli si sbagliasse? Continuò il suo viaggio, più matura e fiduciosa. Il grande erg era più vasto di come se lo ricordava. Più caldo e tormentoso. Non c'era nulla e nessuno che la distraesse. "La testa mozzata deve rotolare senza il suo corpo". Spesso esprimeva ad alta voce i propri pensieri: chi poteva sentirla? Non ebbe altra scelta che entrare a Wadi el Kuf. Ed essi rimasero stupiti nel vederla: una donna in abiti maschili, carica di armi, che parlava come un mercenario errante. Anche le prostitute si scandalizzarono. Nessuno sapeva cosa pensare. Lei comprò acqua, fece alcune domande e ripartì prima che avessero il tempo di riprendersi. Qualcuno la inseguì, ma una freccia gli fece subito cambiare idea. Cavalcava con i demoni della polvere come compagni. Quelli di al Muburak credevano che i demoni della polvere fossero ifrit danzanti. Lei chiamò ad alta voce, ma essi non risposero. Dopo qualche giorno cominciò ad avere strani pensieri, a sospettare che fossero delle spie dei Maestri. Si fece beffe di loro e li schernì. Essi la ignorarono. Alla fine controllò l'amuleto. Non si era raffreddato né spandeva luce verde. «Ecco cosa valgono le vecchie storie.» Uscì dall'erg e si fermò all'oasi che aveva visitato procedendo verso nord. Qui, come a Wadi el Kuf, chiese di un uomo vestito di nero con un bambino. E qui, come a Wadi el Kuf, nessuno aveva visto un tale viaggiatore. «Naturalmente» mormorò a sé stessa «e forse dicono la verità. Ma è un essere umano. Doveva fermarsi a Wadi el Kuf.» Ma forse non si era mostrato come uno shaghûn del Jebal. Non aveva importanza, lei sapeva dove era diretto. Passarono quattordici giorni. E poi giunse a Wadi al Hamamah. Quelli di al Muburak non c'erano. In quel periodo dell'anno erano molto
più ad est, a caccia di cammelli selvaggi per accrescere le loro mandrie. Si accampò nel solito posto e quando cadde la notte, andò da Karkur. Dopo i doverosi convenevoli ed atti di obbedienza, gli raccontò la sua storia, nel caso che Mowfik si fosse sbagliato sulla sua capacità di seguire dovunque un al Muburak. Karkur rimase seduto ad ascoltare, mentre la luce del fuoco faceva danzare le ombre sul suo orribile viso. «Mio padre dice che non sei potente come avevo creduto: che ci sono altri più potenti di te per cui a volte non osi recare aiuto. Ma se c'è un modo in cui puoi intervenire, aiutami a portare a termine quello che devo fare.» Fissò la statua. E la statua ricambiò lo sguardo. Il tempo passò. Il fuoco si spense, e sorse la luna, che riempì il Cerchio di ombre in movimento. «Karkur, c'è un uomo di nome Al Jahez. Segue il Discepolo, ma è un uomo onesto. Puoi ricompensarlo? Puoi dire a mio padre che sono giunta salva fin qui?» Pensò: "Sto parlando ad un mucchio di pietra come se potesse davvero fare qualche cosa." «Di' ad Al Jahez che la testa mozzata diventa un po' matta dopo che è stata tagliata.» La luna era piena ed il suo enorme disco inondava il wadi di luce argentea. Si appoggiò all'indietro e guardò. Qualcosa la scosse. Sciocca, pensò, ti sei addormentata. Prese il pugnale. Scrutò le ombre, ma non vide nulla. Rimase in ascolto. Nulla. Annusò l'aria. Ancora nulla. Venne scossa da un brivido. Faceva freddo, più freddo di quanto ricordasse nelle notti di questo periodo dell'anno. Si strinse nel mantello. E si rese conto che il freddo aveva origine in un punto preciso. L'amuleto! Lo tirò fuori di scatto. Verde! Emanava la luce verde. Scrutò le ombre: lo shaghûn era forse venuto ad incontrarla? La pietra emise un bagliore e si incrinò. Da essa, un serpente di smeraldo uscì contorcendosi, strisciando verso Karkur. Un vento freddo turbinò nel Cerchio. Foghe secche le volteggiarono intorno. Sollevò lo sguardo. No, il cielo era sereno. Le stelle brillavano, a migliaia. La luna splendeva, placida. Il serpente di smeraldo mutò in color ambra con venature rosso sangue. Narriman boccheggiò. Questa era la combinazione che veniva indicata quando qualcuno parlava della Grande Morte. Il serpente morì. La pietra si fece meno fredda, e si tramutò semplicemente in un pezzo di roccia verde chiaro nel palmo della sua mano. Volse
lo sguardo verso Karkur. «Che cosa hai fatto? Che cosa mi hai dato? Certo non il potere della Grande Morte?» La statua ricambiò lo sguardo, muta come sempre. Lei provò la tentazione di imprecare. Ma Karkur non era un dio che amasse gli ingrati. Era un dio che puniva, piuttosto che venire in aiuto. «Ma è leale con la sua gente» disse. «Grazie, Karkur.» Si affrettò ad eseguire i rituali di saluto e ritornò al campo. Si addormentò, ancora sorpresa che Karkur avesse risposto alla sua preghiera. Fece dei sogni, e le immagini erano assai vivide. Cavalcava nel Jebal, perfettamente sicura della via da seguire. Sapeva con esattezza quando aspettarsi la prima prova. Il sogno finì: il sole l'aveva svegliata. Si sentiva riposata e in piena forma. Ricordava ogni particolare del sogno. Guardò oltre il wadi: un muto dio di pietra? Esaminò la gemma di Al Jahez. Quel mattino aveva il suo aspetto consueto. XII I sentieri erano indicati a malapena, ma lei li seguì fiduciosa. Una volta notò un sasso che era stato capovolto e con il lato superiore annerito. Qualcuno era passato di lì da poco. Scosse le spalle. L'amuleto l'avrebbe avvertita. Le montagne erano silenziose. Tutto il mondo è silenzioso quando si cavalca da soli. Il grande erg era stato pervaso da una quiete immensa come quella della morte. Si sarebbero dovuti udire dei suoni, anche solo il richiamo dei falchi dalla coda rossa in volo: ma gli unici suoni erano quelli della brezza tra le querce scheletriche e lo scorrere di un ruscello. Cominciò a salire sempre più in alto. Ogni tanto volgeva lo sguardo indietro, al di là delle colline, dove c'era il wadi, lontano ed immobile nella nebbia prodotta dal calore. Agli al Muburak avrebbe fatto bene godere di quella vista. Cadde la notte. Si accampò senza accendere il fuoco. Bevve acqua e mangiò carne affumicata e si addormentò allo spuntare delle stelle. Una volta si svegliò spaventata, ma la pietra non annunciava alcun pericolo. Le montagne erano immobili e il vento sussurrava in modo insolito tra i pini. Prima di riaddormentarsi contò più di una dozzina di meteore. Fece dei sogni molto vividi. In uno, suo padre diceva ad Al Jahez che
era arrivata sana e salva fino a Wadi al Hamamah. Le montagne si facevano sempre più impervie. Si fermò più spesso per riposarsi. Verso mezzogiorno si inoltrò in un territorio distrutto dal fuoco. Quella distesa nera e desolata era un paesaggio alieno. La vegetazione cambiò: le querce si fecero più rare e aumentarono i pini. Le montagne divennero qualcosa che lei non aveva mai visto. Grandi spuntoni di roccia si ergevano dai fianchi dei rilievi, con striature orientate in senso verticale invece che orizzontale, visibili anche quando erano ricoperte da erba o terriccio. Viste con la luce giusta, le montagne in lontananza avevano la stessa striatura delle zebre. Ancor più in alto, le querce scomparvero. E poi, sul fondo di un canyon incontrò alberi tanto grandi che dodici uomini, stringendosi in cerchio non sarebbero riusciti a circondare il tronco. Alla loro ombra Narriman si sentì insignificante. Il quarto giorno lo trascorse percorrendo quel canyon. La sera calava sempre più presto. Quasi non vide il segno che avvertiva che stava avvicinandosi al primo guardiano. Considerò la luce del giorno che moriva. Non era il momento di affrettarsi. Cercò un rifugio e si accampò. Qualcosa la svegliò. Ascoltò, annusando, e si accorse che l'allarme non veniva dall'esterno: aveva sognato di dover aggirare il posto di guardia. «Vieni, Fedele» sussurrò. Afferrò le redini in una mano e si allontanò. Sapeva esattamente dove andare ma fu difficile ugualmente. Quel fianco della montagna non era fatto per essere scalato; era ripido e fitto di cespugli. Avanzò di qualche metro e rimase in ascolto. I cespugli lasciarono il posto ad un ampio spiazzo. Il suolo era secco e scivoloso. Rischiò di cadere parecchie volte. Poi la giumenta scivolò verso il basso con un nitrito. Lei si tenne aggrappata. L'animale si fermò. «Buona, buona. Stai ferma.» In basso apparve una luce e questo la sorprese: si era arrampicata più in alto di quanto pensasse. La luce si mosse lungo il canyon. Non posso fallire ora. Non al primo ostacolo. Il cuore le martellava in petto. Le venne voglia di gridare contro la propria stupidità, la propria goffaggine e gli scherzi del fato. La luce si spostò verso il fondo del canyon, salì sull'alto fianco e tornò indietro. Passò a lato di Narriman e scese di nuovo. Ripeté la ricognizione ma non si avventurò mai troppo lontano dal fondo del canyon. Non si avvicinò mai abbastanza da far brillare l'amuleto. Finalmente cessò. Ma Narriman non si fidò del fatto che fosse scomparsa. Attese un quarto d'ora.
Il cielo stava schiarendo quando si sentì al sicuro. Era esausta. «Brava, Fedele. Accampiamoci.» XIII Il nitrito di un cavallo la svegliò. Si slanciò verso Fedele e le chiuse le mani intorno al muso. Il suono degli zoccoli sul greto si fece più vicino. L'amuleto divenne un blocco di ghiaccio, e attraverso gli alberi intravide a sprazzi un cavaliere nero. Questo era più massiccio del suo shaghûn. Il suo shaghûn? L'aveva toccata così profondamente? Guardò dentro di sé, cercando l'odio per il cavaliere e l'amore per il figlio che l'avevano portata nel Jebal. E l'odio, per nulla sminuito da sentimenti positivi, era sempre vivo. Poi il cavaliere scomparve verso il fondo del canyon. Andava dal guardiano? Non ricordava nulla nel sogno a proposito del canyon al di là del guardiano. Perché no? Non poteva Karkur raggiungere il regno dei Maestri? L'incertezza divenne troppo grande. Smontò da cavallo e si avviò a piedi. Non era il caso di buttarsi a capofitto nei guai. Qualche minuto più tardi udì dei tonfi cadenzati davanti a sé. Qualcosa rimbombava fragorosamente sollevando echi nel canyon. Avanzò con maggiore cautela, scivolando tra riparo e l'altro. Non sapeva da dove venissero, ma all'improvviso se li trovò davanti, dall'altra parte del ruscello. Camminavano come creature umane, ma erano pelosi, scuri e grandi. Erano in quattro. Il più alto emise un ringhio. «Dannazione!» Scoccò una freccia mentre uno caricava ringhiando. La freccia gli si conficcò nello sterno. Lui si fermò e la estrasse. Gli altri ruggirono e si lanciarono verso di lei. Narriman lanciò due frecce in rapida successione, ma una mancò il bersaglio; allora estrasse la spada e corse verso un masso. Se fosse riuscita a salire in cima... Nessuno dei due mostri feriti cadde. Entrambi si lanciarono verso la cavalla mentre gli altri due puntarono su di lei. Fedele cercò di correre, ma inciampò e lanciò un nitrito. Le belve le furono addosso. Con la spada affilata come un rasoio, Narriman vibrò un fendente su di un ventre enorme. Il bruto barcollò per alcuni passi, guardò la ferita e ri-
cacciò all'interno le proprie viscere. Schivando le altre belve, Narriman lanciò un'occhiata alla cavalla. Le creature ferite la stavano picchiando con delle grosse pietre. Un pugno si abbatté nel fianco di Narriman. Lei barcollò, senza fiato. L'attaccante ruggì e la strinse con forza. Lei cercò di sollevare la spada, ma questa le scivolò dalla mano. Non aveva la forza di impugnarla. La creatura la colpì facendole quasi perdere i sensi. Poi la annusò e grugnì. Era un incubo. La creatura si sistemò a terra tenendo Narriman in grembo, fra le cosce. Lei sentì il sesso della belva che le premeva contro la schiena. Tutto il Jebal era assetato di violenza? «Karkur!» La creatura le afferrò gli abiti. Un'altra grugnì e cercò di toccarla. La belva che teneva Narriman lo colpì. Per un attimo, lei fu libera. Sgattaiolò via. La belva ruggì e cercò di inseguirla. Lei strinse l'amuleto fra le mani. «Karkur! Dammi la forza di sopravvivere a questa prova!» La belva lanciò un grugnito selvaggio e poi uno strano urlo stridulo che fece vibrare le pareti del canyon. Si allontanò barcollando, avvolta in una luce color ambra striata da venature rosso sangue. Un'altra belva le si lanciò contro. Le sue grida si unirono a quelle del compagno. A carponi, Narriman raggiunse la spada. L'ultima belva, con una freccia nel petto, la fissò con sguardo vitreo e indietreggiò. Lei si rimise a posto gli abiti e corse da Fedele. «Povera Fedele!» Che cosa avrebbe fatto, ora? Come poteva fuggire dal Jebal senza un cavallo per Misr? Le belve avvolte nell'ambra continuavano a gridare. La Grande Morte era una orribile tortura. Contorceva i muscoli finché le ossa non si spezzavano. Alla fine le urla cessarono. In distanza si udirono delle voci. In gran fretta, fece un fagotto delle sue cose e poi si arrampicò lungo la parete del canyon. Trovò una sporgenza da cui poteva osservare la confusione a cui era appena sfuggita. Quelle creature! Ripensò alla loro mole e all'odore e si sentì male.
Coloro che vennero ad investigare erano uomini comuni muniti di utensili. Quando trovarono le belve furono presi dall'eccitazione e si fecero cauti. Narriman udì parecchie volte la parola shaghûn. «Continuate a pensare a quello» mormorò. «Non fatevi venire l'idea che ci sia un estraneo nel Jebal.» Smise di tremare. Offrì i suoi ringraziamenti a Karkur e guardò oltre il fianco della montagna. Che cos'erano quelle belve? Quegli uomini le temevano. Si mosse tenendo in mano la spada. Gli investigatori erano venuti da un accampamento costruito in legno. Vide gli uomini che trascinavano un tronco lungo una strada verso l'entrata del canyon. Perché? Scrollò le spalle. Doveva essere un ordine dei Maestri. Dopo aver superato l'accampamento, prese quella strada. Quel pomeriggio udì il rumore di zoccoli e si nascose nei cespugli. «Dannazione!» Il cavaliere aveva due delle sue frecce e la sella di Fedele. Afferrò l'arco, saltò nella strada e gridò: «Ehi, aspetta un momento!» Il cavaliere tirò le redini e guardò indietro. Lei agitò una mano, e lui si voltò. La sua freccia non mancò il bersaglio. Lui cadde all'indietro, mentre il cavallo fece un balzo in avanti. Narriman lo afferrò mentre le passava accanto. Trascinò il corpo nei cespugli e montò in sella, domandandosi quanto ci avrebbero messo ad accorgersi della scomparsa del cavaliere. Le pareti del canyon si restrinsero e il ruscello scomparve. Raggiunse la cima. La strada scendeva serpeggiando, verso una coltre di fumo in lontananza. Ci dovevano essere molti fuochi, laggiù. XIV Viaggiò per due giorni. Le uniche persone che vide erano uomini che trasportavano tronchi lungo la strada. Li evitò. La seconda sera raggiunse una cresta ricoperta di pini e vide la città. Continuava a pensare a Misr. Doveva scendere ora nella città? Era in anticipo sulle notizie che potevano giungere dall'accampamento. Ma Misr poteva anche non essere lì. E lei era stanca, e non sarebbe stata in grado di agire con efficacia in una situazione disperata. E poteva anche darsi che la sua capacità di giudizio fosse offuscata. Si accampò fuori dalla strada. Le sarebbe piaciuto accendere un fuoco, perché le notti sulle montagne erano fredde. Addentando la carne affumi-
cata, borbottò: «Venderei l'anima per un pasto decente.» Con il sonno arrivarono i sogni. Essi le mostrarono la città ed anche un luogo in cui erano rinchiusi dei bambini. Vide dove vivevano gli shaghûn e oltre la città vide una torre che si ergeva solitaria ma densa di oscure promesse. Si svegliò sapendo esattamente cosa fare. Al calar della notte sarebbe scivolata in città, sarebbe entrata nel nido dei bambini e avrebbe preso Misr. Poi sarebbe scappata, tendendo un'imboscata lungo il sentiero, con la speranza che ad inseguirla sarebbe venuto il suo shaghûn. Il suo piano andò subito a rotoli: la sua cavalcatura aveva spezzato le pastoie e le sue orme portavano verso la città. Che cosa avrebbero pensato? Sarebbero venuti ad investigare? Naturalmente. Era meglio andarsene. Si diresse a sud, girando intorno alla città. Ogni tanto doveva deviare per evitare delle fattorie. Al tramonto era di nuovo esausta. Doveva essere quella notte, pensò. Non c'era più tempo. Che cosa avrebbe usato come cavalcatura? Le sue speranze di fuga erano riposte nel tentativo di farsi inseguire su di un terreno scelto da lei stessa. Si accampò al limitare della città. «Karkur, svegliami quando è ora.» Era notte fonda, senza luna. Le nuvole oscuravano metà del cielo stellato. Narriman si svegliò tremando e i suoi nervi non migliorarono per parecchio tempo. Le strade erano strane per una ragazza che non aveva mai camminato su quella pavimentazione. I tacchi degli stivali continuavano a ticchettare e le pareti ne rimandavano gli echi. «Troppo tranquillo» mormorò. «Dove sono i cani?» Non si levò neppure un guaito, neppure un cane venne ad investigare. I suoi nervi si tesero ancor di più. Cominciò ad immaginare che qualcosa la osservasse, che la città fosse una trappola che aspettava solo che lei la facesse scattare. Si asciugò parecchie volte le mani strofinandole sulle cosce. Il borbottio del suo stomaco rifiutava di calmarsi. Continuò a guardarsi alle spalle. Fece un largo giro intorno al luogo in cui vivevano gli shaghûn e si avvicinò al nido d'infanzia. Perché i più giovani erano rinchiusi? Era forse quello il posto per i bambini come Misr? La città non aveva alcun senso e lei non cercò di dargliene uno. L'unico avvertimento fu il fruscio della stoffa. Narriman si voltò di scat-
to, colpendo con la spada sguainata. Fu una mossa automatica, fatta senza riflettere. Si trovò faccia a faccia con uno shaghûn ferito a morte. Lui sollevò una mano guantata mentre cadeva sul pavimento lastricato. Le sue dita ondeggiarono. Stregoneria! Narriman tagliò quella mano e sferrò un colpo al collo. Continuò a colpirlo, dando sfogo alla paura e alla tensione nervosa. «Che cosa ne farò di lui?» si domandò. Lo esaminò: poteva avere la sua età. Sentì una fitta di rimorso. Si guardò intorno: la strada era tranquilla e a pochi passi dal corpo si apriva un comodo vicolo. Si chiese cosa stesse facendo in giro quello shaghûn: i sogni le avevano suggerito che durante la notte nessuno si aggirava per le strade, tranne una sentinella notturna con un permesso speciale. Forse il cavallo li aveva messi in allarme? Avrebbe dovuto affrontare altri shaghûn? Lo stomaco le si contrasse. Forse suo padre e Al Jahez avevano ragione: forse le donne non erano in grado di fare quel genere di cose. «E magari anche gli uomini si sentono a pezzi come mi sento io» mormorò. Lasciò cadere il corpo nell'ombra. «Dammi un'ora, Karkur.» E si avviò verso il nido. L'impazienza riuscì quasi a soverchiare la reazione all'uccisore. Provò ad aprire una porta. Era chiusa dall'interno. E così anche una seconda. C'era una terza porta verso il fondo, ma lei pensò che fosse chiusa anch'essa. In alto, quasi invisibili, c'erano le finestre del secondo piano, alcune con le persiane aperte. Se avesse potuto... Schizzò nell'ombra e si accucciò con la spada in mano. Una figura emerse dalla notte dirigendosi verso di lei. Shaghûn! Erano tutti di ronda? Avanzò a non meno di dieci passi da lei. Narriman trattenne il respiro. Che cosa stavano facendo? La stavano cercando? O le sue erano solo paure egoistiche ed infondate? C'era un passaggio largo circa due metri che collegava il nido all'edificio a sinistra. Una scala saliva in cima a quell'edificio ed uno spiazzo si apriva davanti ad una delle finestre del ricovero. Narriman nascose le sue cose sotto la scala e salì. La scala scricchiolò, ma lei non se ne accorse neppure. Tutto quello a cui riusciva a pensare era Misr. La finestra era aperta ed era solo ad un passo dallo spiazzo. Si mise a cavalcioni della ringhiera. Qualcuno aprì la porta verso cui conduceva la scala: la luce inondò il pianerottolo. Un uomo grasso chiese: «Ehi, tu! Che cosa...»
Narriman gli si lanciò contro. Lui afferrò la lama e lei perse l'equilibrio e quasi cadde. Si aggrappò alla ringhiera. Questa cedette e lei saltò verso la finestra. L'uomo grasso barcollò, si sporse verso di lei e cadde attraverso l'apertura della ringhiera. Narriman rimase aggrappata all'intelaiatura della finestra e guardò in basso. L'uomo si contorceva a terra. «Karkur, fai che non dia l'allarme.» La stanza davanti a lei era buia. Un bambino borbottò qualcosa. Alle spalle di Narriman, una donna fece una domanda. Narriman entrò nella stanza. Il bambino non era Misr. Qualcuno gridò. Narriman guardò fuori, e vide una donna che guardava in basso. Narriman scivolò in un corridoio su cui si aprivano altre camere da letto. Quale? Tanto valeva cominciare dalla più vicina. Trovò suo figlio nella quinta camera. Dormiva pacificamente. Il viso era angelico. Sembrava in buona salute. Si lanciò su di lui, piangendo, e rimase così, dimenticando tutto il resto finché non si accorse che era sveglio. «Mamma! Che cosa stai facendo qui?» Misr la abbracciò con una intensità dolorosa. Anche lui piangeva. Lei ne fu lieta. La sua più segreta paura era che lui l'avesse dimenticata. «Sono venuta per portarti a casa.» «Dov'è il nonno?» «A casa, che ci aspetta. Vieni.» «L'uomo, mamma. L'uomo in nero. Non ci lascerà andare.» Cominciò a tremare. Il suo corpo era sano, ma avevano fatto qualcosa alla sua mente. «Non ci fermerà, Misr. Non glielo permetterò. Vestiti, in fretta.» C'era qualcuno che parlava in corridoio. Misr fece come gli era stato detto. Lentamente. Qualcuno entrò dalla porta. «Che cosa succede...?» La spada di Narriman gli solleticò la gola. «Vai laggiù.» «Una donna? Chi sei tu?» La punta della spada era premuta contro il petto dell'uomo. «Le domande le faccio io. Tu rispondi.» Lui tacque e si mosse. Dei bambini piccoli guardavano dalla porta. «Quanti shaghûn ci sono in questa città?» Sul suo volto comparve un'espressione strana. Non voleva rispondere. Narriman lo punzecchiò. «Quattro! Ma uno è andato all'accampamento di legno tre settimane fa. Non è tornato. Sei la sorella del bambino?»
«Misr, ti vuoi sbrigare?» Quattro shaghûn. Ma uno era fuori città e l'altro era morto. Un altro pattugliava le strade. Il quarto era il suo uomo? «Non puoi portare il bambino fuori di qui, donna.» Lei lo punzecchiò di nuovo. «Tu parli troppo, Misr!» «Lui appartiene agli Anziani.» Misr finì di prepararsi e le rivolse uno sguardo pieno di attesa. Ed ora? Andarsene per la strada da cui era venuta? Si portò alle spalle del prigioniero e lo colpì con l'elsa della spada. Lui si accasciò. Misr spalancò gli occhi, e lei lo spinse verso la finestra. Lui si rivolse agli altri bambini: «Vado a casa con mia madre.» «Sembrava orgoglioso.» Lei era stupita di quanto fosse cresciuto. E si comportava anche da grande. Ma non c'era tempo per quelle considerazioni. Lo aiutò ad arrivare sul pianerottolo, saltò e si affrettò giù dalla scala. Ricuperò le sue cose. La donna del grassone continuava a lamentarsi ad alta voce. «Stai zitta!» Singhiozzando, la donna rientrò. Narriman guardò nella strada. Si stava radunando gente. «Da questa parte, Misr.» Si ritirò sotto il portico. «Un cavallo» mormorò. «Dove trovo un cavallo?» Stava per lasciare il portico quando sentì dei passi di corsa. «Torna indietro, Misr, e stai zitto.» Si accucciò. L'uomo che correva svoltò nel portico. Shaghûn! Lui cercò di fermarsi. Narriman gli conficcò la lama nel petto. Lui barcollò all'indietro e lei lo colpì ancora. Era lo shaghûn che le era passato accanto prima. Sul suo volto apparve un sorriso crudele: che fallisse o riuscisse nell'impresa, si sarebbero ricordati di lei. «Vieni, Misr.» Alla sua destra c'era gente che gridava. Si diresse a sinistra, anche se non era quella la direzione in cui avrebbe preferito andare. Misr corse accanto a lei. Frugò fra i ricordi del sogno cercando una stalla, ma non la trovò. La speranza della fuga emerse come da un sogno ad occhi aperti che la colpì come un pugno in pieno petto, facendola barcollare. Karkur voleva che andasse verso est. Là c'era una strada attraverso le montagne. Non si sarebbero aspettati che fuggisse da quella parte. Se fosse riuscita a raggiungere il mare, avrebbe potuto riattraversare le montagne a Sebil el Selib, dove i Maestri non avevano alcun potere. Ma quella strada correva intorno alla tremenda torre che aveva visto nel sogno. Chissà cosa avrebbero potuto fare i Maestri? Se i loro shaghûn non
erano che delle ombre rispetto a loro, dovevano avere un terribile potere. Era spaventata, ma non si fermò. Karkur finora non l'aveva abbandonata. E Karkur aveva ragione. Quella era la strada migliore. Non vide nessuno e nessuno la notò. E la torre nera la salutò con un'indifferenza che le sembrò quasi deprimente. Era così poco degna della loro attenzione? Lei aveva assassinato due dei loro shaghûn. «Continua a camminare, Misr. Ci stancheremo ma dobbiamo continuare. Altrimenti gli uomini neri ci prenderanno.» Il viso di lui esprimeva determinazione. Le rimase accanto. Il sole era già alto prima che decidesse di fermarsi. XV «Narriman!» La voce rimbombò nella foresta, riecheggiando sulle montagne. «Narriman!» C'era dell'ira nel tono della voce, come quando lei era impaziente con Misr. Era lui. Non si era lasciato ingannare. Misr si strinse a lei. «Non lasciare che mi prenda, mamma.» «No» promise staccandosi da lui, «non ti prenderà.» Gli diede della carne secca. «Mangia questa. Tornerò tra poco.» «Non andare via, mamma.» «Devo andare. Tu stai nascosto. Ricordati quello che è successo l'ultima volta che non hai fatto come ti ho detto.» Dannazione, questo non era giusto. Avrebbe pensato che tutto era stato per causa sua. Sputò, provò l'arco, scelse tre buone frecce e si accertò che le sue armi fossero a posto. La caccia era iniziata. «Narriman!» Era più vicino. Perché si comportava come se non fosse in grado di trovarla? Karkur, naturalmente. Il vecchio ammasso di pietra non osava interferire nel Jebal, non voleva che si riconoscesse la sua mano, ma poteva confondere i suoi nemici. Gli arbusti scricchiolarono. Narriman si immobilizzò. Era vicino. Lei si acquattò nell'ombra, con la freccia incoccata. «Narriman!» La voce tuonava. Poi parlò fra sé: «Maledetta pazza di una donna! Userò la sua pelle per rilegare i libri!» Era furente ma si controllava. La paura serpeggiò attraverso l'odio che Narriman provava. I ricordi si affollarono. La sua cavalcata verso Wadi al Hamamah. Il giorno in cui l'aveva violentata. E poi quando era venuto a rapire Misr. Le
ginocchia le si indebolirono. Lui era uno shaghûn. L'aveva conquistata con facilità. Era una sciocca a volerlo sfidare. Gli arbusti scricchiolarono ancora più vicino. Vide qualcosa di bianco che si muoveva tra gli alberi... Il suo cavallo. Era lui. E veniva proprio verso di lei. Eccolo. Il cavaliere nero. Amante d'incubo. Il padre di Misr. Davanti agli occhi le apparvero Mowfik e Al Jahez. «Tu!» alitò. «Per quello che hai fatto a mio padre.» Mentre tendeva l'arco, un ramoscello si spezzò. Il cavallo drizzò la testa, agitando gli orecchi. La freccia gli si conficcò in gola. Avrebbe dovuto colpire lo shaghûn al cuore. L'animale continuò ad indietreggiare nitrendo, con gli zoccoli che battevano l'aria. Il cavaliere cadde all'indietro. Narriman udì l'esplosione del suo respiro quando colpì il terreno. Lei saltò, tirando ancora. La freccia colpì la sua djellaba mentre lui rotolava per terra, inchiodandolo per un istante. In quell'istante lei lanciò la sua ultima freccia. Questa scivolò lungo il fianco dell'uomo, lasciando una scia di sangue sulla natica sinistra. Lui indietreggiò di un passo, barcollando, cadde e poi si rialzò con un gemito. Narriman sfoderò la spada e avanzò con cautela. La mente ribolliva per tutte le cose che voleva dirgli prima di ucciderlo. Il cavaliere riacquistò il controllo ed estrasse la spada. Un sorriso tirato gli aleggiò sulle labbra. Narriman avanzò con circospezione. Lo attaccherò a destra, pensò, in modo che sia obbligato a forzare la gamba ferita. È indebolito e sanguina, sarà lento. Posso batterlo. «Piccola Volpe. Piccola sciocca. Perché sei venuta qui? Gli estranei non vengono nel Jebal. E se ci vengono, non ne escono.» Allora sarò la prima, pensò lei. Ma non parlò. Tutte le cose che voleva dire le risuonarono nel cervello, ma nessuna raggiunse le labbra. Si avvicinò silenziosa ed implacabile, come aveva fatto lui prima di violentarla. Fece tre rapidi affondi. Lui li parò, ma sembrò turbato. Lei non avrebbe dovuto fare di queste cose, vero? Avrebbe dovuto cadere preda del suo incantesimo. «Narriman! Guardami!» Il tono di comando la fece obbedire. Incontrò il suo sguardo. Il fuoco la percorse da capo a piedi. Il suo corpo bruciava per lui. E con
sua sorpresa, lei lo ignorò. Colpì mentre lui aveva la guardia abbassata e lo ferì ad una guancia. Lui impaludi e spalancò gli occhi. Non riusciva a crederci. Lei colpì ancora. Lui parò e attaccò a sua volta, riuscendo quasi a colpirla. Sapeva che non aveva più davanti una ragazzina. Contrattaccò e poi indietreggiò. Un lamento soprannaturale scaturì da lui, anche se le labbra non si mossero. Le foglie fremettero. Si alzò un vento gelido. La punta della spada di Narriman si afflosciò come una candela al sole. Lei la passò nella mano sinistra, estrasse il pugnale e lo lanciò. Glielo aveva insegnato Mowfik. Il pugnale colpì lo shaghûn alla spalla sinistra, facendolo rotolare. Il vento gelido cessò. Narriman si avvicinò con la sua bizzarra spada. Gli occhi dello shaghûn si riempirono di paura. Si strappò il pugnale dalla spalla ed emise di nuovo quegli strani suoni. La ferita cominciò a chiudersi. La sorpresa era stata l'arma migliore di Narriman e il destino ora l'aveva cancellata. Cominciò a temere di non farcela. Si lanciò in un attacco furioso. Lui indietreggiò, barcollò e cadde. Lei lo colpì parecchie volte prima che si rialzasse. Ma lui aveva ritrovato la fiducia. Lei non poteva ucciderlo. Sorrise. Frecce, spada e pugnale. Lei aveva esaurito le sue possibilità. Aveva del veleno, ma lui si sarebbe fatto avanti per prenderlo? Aveva anche una garrotta, datale da uno degli uomini di Al Jahez, un po' come pegno d'amore e un po' come buon augurio: ma lui sarebbe rimasto fermo mentre lei la usava? I cespugli scricchiolarono. Lei girò su sé stessa. «Misr! Ti avevo detto...» Lo shaghûn le si avventò contro, facendole cadere la spada. Le sue dita si chiusero intorno al suo viso e la obbligarono a voltarsi verso di lui. XVI Aveva perduto! gemette dentro di sé. Avrebbe dovuto dare ascolto a Al Jahez e Mowfik. Di nuovo il fuoco la possedeva e non poteva fermarlo. Lui la spogliò adagio, traendo piacere dalla sua umiliazione. La fece distendere sui sassi e tra gli aghi di pino e rimase in piedi sopra di lei, sorridendo. Si spogliò lentamente. E Misr rimase lì a guardare, troppo terrorizzato per muoversi.
Con le lacrime che le scorrevano sulle guance, Narriman chiuse gli occhi. Era stata tanto vicina! Solo un ramoscello che si era spezzato. Lo sentì abbassarsi, e poi muoversi mentre la penetrava. E sentì se stessa che rispondeva. Maledizione, lei lo odiava! Riuscì a provare abbastanza odio per spingerlo lontano da sé, ma solo per un attimo. Lui le fu di nuovo sopra, spingendole le mani contro il petto. «Karkur» pianse lei. Lo shaghûn gemette piano e smise di muoversi. L'incantesimo che avvinceva Narriman diminuì. «La Grande Morte!» sussurrò lei. Era su di lui, ma lui la stava combattendo. La luce color ambra gli turbinava intorno, tremolando. In essa c'erano poche venature color sangue. Lui aveva la bocca aperta come se stesse per gridare, ma gorgogliò solo un lamento diverso da quello precedente. Narriman non riuscì a guardare. Non le venne in mente che uno shaghûn, anche se era uno shaghûn del Jebal, potesse sopraffare la Grande Morte di Karkur. Stava solo rimandando l'inevitabile. A carponi cercò i propri vestiti. Misr disse qualcosa, ma lei non poté guardarlo, la sua vergogna era troppo grande. «Mamma, fai qualcosa.» Allora lei guardò dove indicava Misr. Il viso dello shaghûn era contorto. I muscoli del braccio sinistro erano annodati. L'osso era rotto. Ma restava solo una sfumatura di ambra, che tremolava estinguendosi. Aveva battuto la Grande Morte! Un silenzioso lamento di paura la pervase. Non c'era modo di fermarlo! Resa furente dall'ingiustizia, agguantò un ramo caduto e lo percosse con quello. Misr afferrò un legnetto e cominciò a colpire anche lui. «Misr, fermati.» «Mamma, ti ha fatto del male.» «Tu smettila. Io posso farlo, ma non tu.» Aveva senso? Come poteva spiegarglielo? È tuo padre, Misr? Io posso ucciderlo, ma tu no? No, certe cose non si potevano spiegare. «Allontanati.» Colpì ancora. Lo shaghûn cercò di parare con il braccio ferito, ma non ci riuscì. L'impatto lo mandò lungo e disteso a terra. La Grande Morte fu sopra di lui, lo avvolse di nuovo. Lei colpì ancora.
Lui la fissò con lo sguardo del condannato. Non pregava, ma non voleva morire. La guardava. Non c'era incantesimo nei suoi occhi. Non c'era altro che paura, disperazione e, forse, rimorso. Non era uno shaghûn, ora. Era solo un uomo che moriva prima del tempo. Il ramo le scivolò dalle mani. Si voltò e raccolse i suoi abiti. «Misr, prendiamo le nostre cose.» Per una ragione che non riuscì a capire, le vennero in mente le parole di Al Jahez a proposito delle teste mozzate. Raccolse la spada dello shaghûn, rifletté per un attimo e poi gli usò la misericordia che lui non aveva avuto per lei. «L'hai ucciso, mamma. L'hai ucciso davvero.» Misr era felice. «Stai zitto!» Avrebbe potuto dimenticare le sue grida, ma il suo viso morente l'avrebbe perseguitata per sempre. Non c'era scampo. Quando ogni altra cosa gli era stata strappata, di lui era rimasto solo l'uomo. Ed una volta una madre aveva pianto per lui mentre un cavaliere nero lo portava verso il sole che sorgeva. Titolo originale: Severed Heads Traduzione di Maria Cristina Pietri RUBACUORI di Stephen L. Burns Una delle cose più difficili da trovare nel genere Spada e Magia è un tocco di umorismo. Ma quando capita, allora tutti i miei preconcetti sul contenuto del racconto vengono spazzati via, compresa la mia indicazione originaria "niente protagonisti maschili". In questa storia Clea ha decisamente un ruolo subordinato... o no? Lascio a voi deciderlo. Stephen Burns ha, dice lui, trent'anni e divide la sua casa con un gatto. Vive su di un'isola del fiume San Lorenzo: in quel luogo le stagioni sono nettamente definite e forse per questa ragione anche la sua produzione è stagionale, e coincide con i rigori dell'inverno; per il resto dell'anno fa qualunque mestiere per finanziare il suo lavoro di scrittore. Questo è il terzo racconto che riesce a vendere, ma le prime due riviste che hanno comperato le sue storie hanno cessato l'attività prima di poterle pubblicare. Quindi, sfidando la sua reputazione di iettatore, siamo lieti di pubblicare il suo primo (ma speriamo non ultimo!) lavoro.
La quiete delle ore dopo la mezzanotte nella Fortezza-dei-Ladri di Yuelianq terminò bruscamente quando un pugnale comparve saettando nel buio. Il coltello andò a conficcarsi di punta nella parte dello sgabello di legno che spuntava tra le gambe del carceriere notturno. Sgabello, carceriere, e la fiasca di vino che quest'ultimo stava per portarsi alla bocca, caddero all'indietro. Non aveva neppure toccato il pavimento, che una voce roca e sommessa uscì dalla stessa oscurità da cui era saettato il coltello. «Zitto, se ti preme la vita! Quanto ti pagano, Guardia?» Il carceriere si azzardò a sbirciare furtivamente sopra lo sgabello rovesciato, al di là del coltello. «Poco» sussurrò. «Abbastanza da rischiare la tua vita questa notte?» Il carceriere scosse il capo con tale violenza che i suoi orecchini tintinnarono. Un frammento di oscurità si staccò dal corridoio non illuminato e divenne una piccola figura vestita ed incappucciata di nero. «Alzati» disse la voce. Il cappuccio nero nascondeva il viso, ma la lama di un coltello appuntita e lucente spuntava da una delle lunghe maniche. Il carceriere si affrettò ad alzarsi, tenendo gli occhi fissi sul coltello. «Le chiavi, guardia. Faremo una visita al ladro Raalt.» Il coltello che spuntava dalla manica scomparve e, sotto lo sguardo dello stupito guardiano, il pugnale dal manico scuro che era conficcato nello sgabello si liberò e gli passò accanto come un uccello saettante, scomparendo nella manica dalla parte dell'impugnatura. «Prendi la lanterna e fai strada.» Il carceriere si fermò davanti ad una cella dell'umido corridoio di pietra e indicò con un gesto la porta di ferro. Una manica nera si protese in avanti. «Aprila.» La voce sommessa del visitatore non aveva un tono apertamente intimidatorio, ma si avvertiva comunque un'ombra di minaccia, come un fodero di cuoio che cela l'acciaio tagliente di una spada pronta ad essere sguainata. Il carceriere udì quella minaccia silenziosa ed aprì la porta facendo tintinnare nervosamente le chiavi. Raccolse la lanterna ad olio e con un sospiro infelice entrò nella cella. Raalt il ladro era un uomo dai capelli biondi, robusto, muscoloso e piuttosto avvenente. Dormiva su di un mucchio di paglia maleodorante all'altro
capo della cella. Robuste catene orlate di ruggine partivano dalle manette che gli cingevano i grossi polsi ed erano fissate con un massiccio anello di ferro al muro di pietra della cella. Anche le caviglie erano imprigionate da catene altrettanto robuste. La luce che gli piovve negli occhi lo svegliò. «Una visita» sussurrò con voce rauca il carceriere. Raalt guardò oltre il carceriere e vide la forma misteriosa, in parte avvolta dall'oscurità, del visitatore in nero. Questa gli si avvicinò in un silenzio minaccioso. Raalt si accucciò, sbiancando in volto, ma non distolse lo sguardo. «Sei Arrmik, sei venuto a riprendere il tuo Cuore?» Era proprio il Cuore di Arrmik che aveva rubato, e dopo una lunga caccia ed una strenua lotta Raalt era stato catturato. Aveva sopraffatto quattordici tra guardie e soldati prima di venir atterrato da un colpo di picca sulla testa. Era ancora vivo solo perché era riuscito a nascondere il Cuore prima della cattura. E desideravano ardentemente che lo restituisse. La figura ammantata si fece ancor più vicina. I muscoli di Raalt si contrassero mentre lui si preparava a lottare contro quella cosa. Poi all'improvviso, una risata squillante riempì la cella. Le mani ricoperte dalle ampie maniche gettarono indietro il cappuccio ed abbassarono il velo nero, rivelando una donna dai capelli corti e nerissimi e con grandi occhi scuri. Il viso da elfo brillava di malizioso piacere. «Clea!» gemette Raalt. Fece una smorfia per la rabbia e si lasciò cadere sulla paglia con un aspro suono di catene. «Ti piacerebbe uscire da questo posto orrendo, caro Raalt?» Sorrise ed ammiccò. «La reputazione del Grande Ladro Raalt può sopportare l'onta di venir salvato da una donna?» Raalt si domandò quale divinità ce l'avesse tanto con lui. «Naturalmente, c'è un prezzo! Mi prendo la metà di quello che vale il Cuore di Arrmik oppure ti lascio qui.» Scosse il capo con tristezza. «La tortura comincerà all'alba. Ho sentito dire che possono tenere in agonia un uomo per giorni... anche settimane, se è molto resistente...» Raalt gemette di nuovo. Essere catturato era già abbastanza penoso, ma essere salvato era peggio ancora. Che poi fosse Clea a liberarlo e a quel prezzo, era decisamente un boccone troppo amaro da mandare giù. Pensò agli uncini, ai martelli, alle pinze e ai ferri roventi che sondavano la carne. Rabbrividì. Non aveva scelta. «Accetto» disse cupo, ripromettendosi una terribile rivincita.
Il sorriso di Clea fu come una pugnalata. «Giura su tuo padre e tua madre che mi obbedirai e non cercherai di tradirmi finché non avremo ricuperato e venduto il Cuore.» «No!» gridò Raalt. «Mi chiedi troppo!» «Probabile.» Clea si girò per andarsene. «Aspetta!» La faccia di Raalt era come di chi avesse inghiottito qualcosa di molto duro e indigesto. Ed era così: aveva inghiottito il suo orgoglio. «Lo giuro» ringhiò a denti stretti. «... e giuro anche che pagherai per questo!» Clea fece spallucce e il suo sorriso non mutò a quella minaccia. «Liberalo.» Il carceriere si affrettò ad obbedire. «Ed ora lascerò un piccolo rompicapo a tuo nome.» Mentre Raalt si liberava dalle catene, Clea andò alla parete a cui era fissato l'anello di ferro. Con un pezzo di gesso che prese da una tasca, disegnò intorno ad esso un grosso quadrato che partiva dal pavimento e che sembrava una piccola porta con al centro l'anello. Tracciò un simbolo ad ogni angolo del quadrato e sopra scarabocchiò la parola ATTENTI. Poi prese un pizzico di polvere da un sacchetto di pelle nera e lo strofinò sulla pietra proprio sopra l'anello. Raalt sentì un formicolio alla schiena mentre percepiva l'addensarsi della magia. «Ora.» Lei mosse la mano ed istantaneamente in essa comparve uno dei coltelli con l'impugnatura nera. Sussurrando una strana cantilena, batté con il manico del coltello sul punto in cui aveva strofinato la polvere. Ci fu un suono, come un lungo sospiro, e l'intero quadrato divenne nero, come se una sezione della parete si fosse improvvisamente aperta sulla più tenebrosa delle notti. L'anello di ferro cadde a terra con un sordo clangore, perché la parte che l'ancorava al muro era scomparsa con esso. Raalt fissò il buco come se si aspettasse di vedere da un momento all'altro qualche terribile creatura strisciare fuori. Clea fece un largo sorriso, chiaramente compiaciuta del proprio lavoro. «Questo dovrebbe dargli qualcosa su cui riflettere.» Con la punta del piede fece cadere l'anello oltre la soglia scura. Questo cadde, trascinandosi dietro manette e catene. Non si udì il rumore dell'anello che toccava il fondo. «Ora penseranno che sei scappato grazie a qualche potere che non conosco e questo li terrà occupati per un po'.» Ammiccò a Raalt. «Questo non danneggerà di sicuro la tua reputazione. Ti crederanno un mago, ed ora ti temeranno di più!» «Hai pensato a tutto» mormorò Raalt con malcelata ammirazione. Do-
veva ammettere che era un piacere vedere al lavoro la subdola mente di Clea... quando non era rivolta contro di lui. «Non lo faccio sempre?» Clea condusse Raalt in un luogo appena fuori delle mura della Fortezzadei-Ladri e lo costrinse a fermarsi dietro un folto gruppo di cespugli. Sotto i cespugli, tre soldati legati ed imbavagliati si contorcevano come serpenti in armatura. Lei prese una tunica, un mantello con il cappuccio, spada, fodero e cintura e glieli porse in silenzio. Quando Raalt si fu vestito, posero una discreta distanza tra loro e le tetre mura della Fortezza. Era Clea a fare l'andatura, muovendosi in silenzio come l'ombra di un falco sul terreno. Raalt le camminava accanto a grandi passi, irritato per il patto che era stato costretto a stringere. Solo il giuramento e il ricordo delle esperienze di altri tempi riuscivano a frenarla. L'ultima volta si era imbattuto in Clea due anni prima. Lei era comparsa giusto in tempo per cambiare le sorti di uno scontro con un'orda inferocita appartenente alla Tribù di Nariman, che voleva alleggerire lui e i suoi due compari del bottino ricavato da una rapina ad un mercante di gioielli. Clea si era buttata nella mischia con la furia di un demone incarnato, con quegli incredibili coltelli dall'impugnatura nera che partivano e tornavano nelle sue mani come fulmini taglienti, e non mancavano mai il bersaglio. La scaramuccia stava avviandosi al termine quando Raalt era riuscito a fuggire a cavallo con il cesto di gemme. Non aveva mai avuto intenzione di dividere il bottino e gli importava poco di come sarebbe finita la battaglia. Clea lo aveva visto e si era aperta un varco fra sei uomini, facendoli volare come foglie. Lo aveva raggiunto a piedi e l'aveva fatto cadere da cavallo. Lui aveva cercato di difendere il bottino con la spada, ma lei aveva schivato ogni colpo. Poi lo aveva trascinato via dal cesto, disarmandolo, e gli aveva preso la spada, il cavallo e le gemme, lasciandolo inerme e dolorante ad affrontare i suoi furenti compari. Aveva salvato la pelle per un pelo. Quella non fu la prima volta che si incontrarono. Ed ora lei era di nuovo qui e l'aveva costretto a fare quel maledetto giuramento... cosa che gli rendeva molto più difficile trovare un sistema per controllarla. Clea interruppe i suoi pensieri. «Adesso dovremmo essere abbastanza lontani. Dimmi dove hai nascosto il Cuore.» Raalt raddrizzò le ampie spalle. Una cosa per volta. Recuperare il Cuore
e poi trovare un modo per tenerlo lontano da lei. Doveva esserci un modo. «Non ho avuto molto tempo per nasconderlo. Avevo le guardie alle calcagna...» «Perché stupidamente eri troppo sicuro della tua forza per programmare con cura il furto» disse Clea con scherno. «Ti sei limitato ad afferrarlo e a correre, vero?» Raalt si adirò e portò la mano all'elsa della spada. «Perché fare in modo diverso?» ringhiò. «Io non sono una donnicciola che cerca di evitare la lotta. Ho messo fuori combattimento quattordici guardie, da solo, e messo al sicuro il Cuore!» Si interruppe, e trasse un profondo respiro per padroneggiare l'ira. Permettere che lei lo provocasse non lo portava certo più vicino al Cuore. Parlò in tono freddo: «Ho buttato il Cuore nella fontana della vecchia Piazza Orientale.» Lo disse con aria arcigna, come se invece si trovasse in una grotta sorvegliata da un migliaio di spettri affamati. Clea aggrottò la fronte, perplessa. «Non è poi un posto tanto stupido.» «Grazie. Ma dobbiamo anche tirarlo fuori, in qualche modo...» Clea scosse le spalle. «Entri nella fontana e ti tuffi... l'acqua non può essere tanto profonda.» Raalt impallidì. «In tutta quell'acquai Mai!» Il solo pensiero lo faceva rabbrividire. Avrebbe preferito affrontare Spettri-di-sangue e Fauci-disabbia. Una volta, per scommessa, si era arrampicato ridendo nella gabbia di un gûr-rhakhar per lottare con lui, sprezzante di qualsiasi cosa che avesse artigli, denti o lame. Ma l'acqua non la sopportava: lui era figlio di una terra arida e nuda e non poteva cambiare. Clea si massaggiò la fronte come se avesse mal di capo. «Allora come facciamo a recuperare il Cuore se tu hai paura dell'acqua?» «Io non ho paura!» scattò Raalt. «Semplicemente quell'acqua maledetta non mi piace! E per quel che riguarda il Cuore... penso che minaccerò qualcuno perché vada a prenderlo... immagino di non averci pensato, non ancora.» «No, non è probabile che tu l'abbia fatto.» Clea scosse il capo con tristezza. «Vieni, andiamo a prenderlo adesso. Non ti bagnerai, lo prometto.» *
*
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Si avvicinarono alla Piazza Orientale attraverso un vicolo non illuminato e cosparso di rifiuti. Quando giunsero in fondo al vicolo sporsero il capo
oltre una pila di balle di paglia, assicurandosi di non essere visti. «C'è poca gente in giro» sussurrò Clea. «Riflettiamo e facciamo un piano.» «Perché prendersi questo disturbo?» Raalt estrasse a metà la spada dal fodero. «Noi... tu tiri fuori il Cuore da quell'acqua maledetta, io ti copro, e chiunque tenterà di interferire si ritroverà il ventre pieno di acciaio! Tu» e sottolineò con scherno la parola, «come faresti?» Clea lo fissò desolata. «Raalt, tu sei davvero forte e veloce come il migliore di loro, e conosci la tua lama meglio di chiunque altro. Sei un buon ladro, ma la tua mancanza di cautela un giorno sarà la tua fine.» Si voltò, lasciando che Raalt decidesse se si trattasse di un complimento. Scrutò attentamente la piazza illuminata dalla torce e dalla luna, e ai suoi acuti occhi neri non sfuggì nulla. «Non vedo guardie o soldati in giro, ma non si può mai dire... In che punto è affondato esattamente il Cuore?» «Proprio nel centro della fontana. È affondato in fretta.» Clea annuì ed indicò una procace prostituta con gli occhi bistrati che oziava davanti ad un uscio a poca distanza dal loro nascondiglio. «Ci serviremo di lei, penso.» Indicò un'osteria ancora aperta. «... e di quella. Aspetta qui.» Prima che Raalt potesse obiettare o fare domande, lei se n'era già andata. «Accidenti a lei» borbottò, rassegnandosi ad aspettare e pensando ai vari modi in cui avrebbe potuto strapparle il Cuore dalle mani. Il giuramento con cui l'aveva legato riduceva di molto le altre possibilità. Clea riapparve quasi subito. «È tutto combinato» disse in tono molto compiaciuto. «Ecco il piano. Tu ed io fingeremo di essere ubriachi.» Raalt non disse nulla, desiderando essere ubriaco... e solo. «Andremo verso l'osteria e ci procureremo una fiasca di vino... ecco il denaro. Ci scambieranno per una coppia in cerca dei piaceri della notte che compra una fiasca di vino prima di rifugiarsi in un posticino appartato. Mi segui?» Raalt si rabbuiò, ma accennò di sì. «Dovremo cercare di ridere spesso e di assumere un aspetto innocuo e felice. Dopo aver comperato il vino, andremo verso la fontana. Ma prima di arrivarci, io ti sfuggirò, ridendo e prendendomi gioco di te. Quando arriverò alla fontana, mi ci tufferò e sembrerà che io stia facendo la sciocca. Tu mi seguirai, raccogliendo i miei abiti, e ti avvicinerai al bordo della fontana sempre facendo la tua parte. Ci sei?» Raalt pensò che il piano di Clea si faceva più ridicolo ad ogni istante che
passava. Ma avrebbe lasciato che facesse a modo suo... sarebbe arrivato anche il suo momento. Annuì brevemente. «Il segnale per la prostituta è il momento in cui mi allontanerò da te. Allora lei andrà all'osteria e comincerà a litigare per il prezzo di una fiasca di vino. Le ho detto di fare molto rumore e di usare espressioni vivaci, così gli astanti dovranno dividere la loro attenzione tra noi e lei.» "Non appena troverò il Cuore tu dovrai avere pronti i miei abiti vicino al bordo della fontana, così potrò vestirmi in fretta. Ti passerò il Cuore in modo che nessuno veda che ho preso qualcosa dalla fontana. Poi ce ne andremo, continuando la nostra recita; solo due amanti ubriachi e nient'altro!" Raalt lasciò esplodere la propria impazienza. «Ma perché inscenare tutta questa buffonata, Clea?» Indicò la piazza con un gesto. «Nessuno guarda ed anche se qualcuno lo farà e cercherà di interferire, morirà pentendosene amaramente!» Raalt aveva imparato la sua arte dal Grande Ladro Wegan e questi gli aveva sempre detto che i piani elaborati erano per coloro che non avevano né la forza né la capacità di prendersi semplicemente quello che volevano. Chiunque non si trovasse bene con questa tattica diretta, era meglio che facesse il borseggiatore o il prete, se voleva continuare a rubare, poiché gli mancava il fegato per usare sistemi da uomo. «Qualcuno ti ha visto quando hai rubato il Cuore?» Clea gli rivolse uno sguardo fiammeggiante. «Ero sicuro di no» sbraitò lui stringendo i pugni. «Sono riuscito a scappare!» «Ma solo per poco! Usa la testa e il braccio! Questo ti renderà due volte più forte. Mai lasciare niente al caso... mail» Clea frenò il suo scherno e continuò più gentilmente: «Rubare è un gioco e un'arte; sii sempre almeno dieci passi avanti agli altri e fa che ogni mossa sia perfetta.» Raalt aveva sopportato abbastanza l'insolenza di Clea. Tremò di violenza repressa e fu sul punto di infrangere il giuramento, ma lei gli toccò il braccio e disse: «Scusami.» Lui sentì uno strano formicolio spandersi dal suo tocco e percepì un vago sentore di qualche spezia dolciastra. La rabbia sembrò evaporare all'improvviso e per conto proprio. Clea lo prese sottobraccio con un suadente sorriso di scusa. «Pronto, socio?» Lui si strinse nelle spalle, a disagio, domandandosi dove era finita la sua rabbia. Il formicolio era svanito ed anche il profumo, ancor prima che riu-
scisse ad individuarlo. Il sorriso di Clea si trasformò in un ghigno cameratesco. «Al lavoro, allora!» Sottobraccio, uscirono dal vicolo e si avviarono nella piazza illuminata dalla luna. La risata acuta, dolce e femminile di Clea suonò sciocca per il troppo vino. Si aggrappava al braccio di Raalt come se temesse di vederlo fuggire, e i suoi fianchi urtavano contro quelli del complice ad ogni passo. Sembrava in tutto e per tutto una ragazza frivola. Dapprima rigido e impacciato, Raalt cominciò a farsi più spavaldo mentre entrava nella parte. Anche il cambiamento avvenuto in Clea lo aiutò. Lei non rassomigliava per niente alla creatura polemica e dalla lingua tagliente che ancora una volta era venuta a rovinargli la vita. Ora che apparentemente non si sforzava di prenderlo per il verso sbagliato, gli sembrava più attraente, più simile al genere di donne che conosceva, e che era in grado di piegare al suo volere. Il modo in cui si aggrappava al suo braccio gli fece capire quanto in realtà fosse minuta e fanciullesca e che quindi anche lei doveva avere i suoi punti deboli. Poi si ricordò di qualcos'altro che Wegan gli aveva insegnato, una cosa di cui anche lui era convinto: che il punto più debole di una donna era il suo cuore. Fu come se si fosse accesa una luce. C'erano tutti i segni: lei l'aveva cercato e salvato, gli aveva portato dei bei vestiti ed un'arma. Persino il suo atteggiamento polemico poteva essere interpretato come una forma di corteggiamento indiretto, come accade con i bambini. Una parte del piano prevedeva che lei si stringesse a lui con aria romantica. Se non le avesse fatto piacere, avrebbe trovato un altro piano. Raalt abbassò lo sguardo su Clea, sorridendo alla luce di questa sua nuova consapevolezza. Sul suo viso apparve quella smorfia sorridente che aveva trascinato centinaia di donne nel suo letto. Il punto debole di una donna è il suo cuore; quello sarebbe stato in parte il modo con cui avrebbe superato in astuzia Clea la Volpe. La strinse a sé e ammiccò con fare cospiratorio. Il sorriso con cui la donna gli rispose fu aperto e tenero. Vulnerabile. Raalt rise forte. Arrivarono all'osteria. Entrando nello spirito della cosa, Raalt mercanteggiò a lungo sul prezzo. Nel mezzo della contrattazione, Clea lo tirò per una manica, facendogli capire che voleva sussurrargli qualcosa. Lui si chinò per ascoltare, ma invece delle parole, sentì una lingua umida che gli ti-
tillava l'orecchio, provocando una risata da parte del mercante barbuto e dal profilo aquilino. La cosa continuò più a lungo di quanto si fosse aspettato, anche se non quanto avrebbe desiderato, e non sembrava certo una finzione. Di nuovo colse quel vago profumo... forse cinnamomo. Conclusa la contrattazione, e con la fiasca di vino in mano, si avviarono verso il centro della piazza. Clea rideva spesso e continuava a strofinarsi contro di lui mentre camminavano. Di tanto in tanto qualcuno si voltava dalla loro parte e si accigliava, ma poi generalmente annuiva con aria di approvazione. Erano quasi a metà strada, quando Clea si divincolò, ridacchiando e stuzzicandolo. Si sfilò l'abito dalla testa, ridendo quando ricadde a terra. Fece un passo indietro, danzando, con gli occhi neri e ridenti. Le piccole dita volarono sui bottoni della sottoveste di cotone mentre lei si inarcava all'indietro. Appena prima di raggiungere la fontana, si aprì l'ultimo bottone e l'indumento di cotone cadde ai suoi piedi, lasciandola pallida e nuda nella luce brillante della luna. Raalt si fermò incespicando, con gli occhi che non vedevano altro che la fiamma bianca e guizzante di quel corpo minuto. Una parte della sua mente era stata occupata a trovare un modo di sottrarle il Cuore una volta che avesse conquistato il cuore di Clea, ma il castello dei suoi piani crollò miseramente nel momento in cui lei catturò tutta la sua attenzione semplicemente con la sua bellezza. Gli sembrò di udire alle sue spalle la voce stridula di una donna. Clea balzò sull'orlo della fontana, chiamandolo. Gli lanciò un bacio poi si voltò tuffandosi nella fontana. Raalt si chinò a raccogliere l'abito, mentre paura e desiderio lo attanagliavano. Provava l'impulso irresistibile di tuffarsi dietro di lei. Ma prima che potesse raccogliere il coraggio per un simile atto di eroismo, il rumore dell'alterco diventò particolarmente vivace. Lui lo udì e si ricordò di quello che avrebbe dovuto fare. Si affrettò a raccogliere l'indumento di cotone e poi raggiunse quasi di corsa il bordo della fontana. Rimase in attesa a fissare l'acqua, appoggiandosi prima su di un piede e poi sull'altro, pensando che non sarebbe mai stato veramente capace di seguirla. La piazza ritornò silenziosa. Giocherellando con la spada, si voltò di nuovo verso la fontana, cominciando a temere che Clea fosse annegata... o peggio. Era sotto da molto tempo e chissà quali orrori poteva nascondere tutta quell'acqua? All'improvviso la testa della ragazza emerse dalla superficie inondata
dalla luce della luna, proprio di fronte a lui. La mano uscì dall'acqua e gli gettò il sacchetto di pelle che conteneva il Cuore il giorno in cui l'aveva rubato. Raalt lo afferrò saldamente con un senso di sollievo... si era domandato se l'acqua l'avrebbe restituito senza protestare. «Presto, i miei vestiti» boccheggiò Clea con il fiato corto per la lunga immersione. Raalt glieli allungò, sempre tenendo stretto il sacchetto e leccandosi le labbra alla vista di lei che si drappeggiava l'abito sulle spalle; gli si spezzava il cuore a vederla di nuovo coperta. Quando il sacchetto gli aveva sfiorato le mani, lui aveva provato il forte impulso di prendere il Cuore e gli abiti di lei e di fuggire, rovesciando così la situazione. Ma il ricordo di come l'aveva vista poco prima gli aveva infiammato le mente come un faro luminoso da cui non era possibile allontanarsi. Ed era rimasto. Non appena si fu rivestita, Clea gli si avvicinò e lo abbracciò accarezzandogli la schiena con le mani umide, facendolo rabbrividire. «Ho delle stanze già pronte per noi» sussurrò. «Andiamo a festeggiare!» Raalt la sollevò dal bordo della fontana e la posò a terra. Clea gli prese il braccio e lo tenne stretto. Insieme si allontanarono dalla fontana e attraversarono la piazza. «Vedi che cosa possiamo fare insieme, socio?» mormorò dolcemente Clea, guardandolo con un sorriso. «E la notte è ancora giovane» rispose lui fermandosi a baciarla. Lei rispose con notevole passione. Raalt ne fu certo... quel profumo seducente ed elusivo era cinnamomo. Oltrepassarono il limite della piazza; Raalt era raggiante: il Cuore era di nuovo nelle sue mani e Clea era praticamente sua. Giurò a se stesso che al mattino seguente Clea lo avrebbe supplicato di tenersi la sua parte di quello che avrebbe ricavato dal Cuore. Lui avrebbe tenuto fede al giuramento: sarebbe stata lei a tradirsi. Al pensiero di vedere Clea abbassare la cresta, il suo sorriso si allargò. Raalt stentava a credere al lusso delle stanze che Clea aveva preparato: erano due camere spaziose, che comunicavano attraverso un arco da cui pendeva una tenda di perline luccicanti. La stanza principale era la più grande ed aveva una porta che dava sulla strada. Quella più piccola, con il bagno e la cucina, si apriva invece su di un piccolo giardino. Le pareti di pietra intonacate erano ricoperte da drappi di seta e da arazzi di cotone a vivaci colori. Su di un lato della stanza verso la porta sulla
strada, c'era una montagna di soffici cuscini riccamente ricamati. Dall'altra parte invece c'era un enorme letto racchiuso da cortine di seta. Tutti i mobili erano di un ricercato tipo di legno scuro o di pietra intagliata. Nelle gabbie di vimini, gli usignoli cantavano riempiendo di dolci suoni l'aria profumata di incenso. La stanza era illuminata da fragranti candele di cera d'api, mentre vino, formaggio, frutta e pane erano a portata di mano. Meravigliato, Raalt fece il giro della stanza, dimentico del sacchetto ancora umido che stringeva in mano. La stanza confermava le sue supposizioni circa le intenzioni di Clea: quello era un nido d'amore, se mai ce n'era stato uno. Clea stava voltandosi dopo aver versato il vino, quando vide che lui stava per aprire il sacchetto. Impallidì e quasi fece cadere le coppe. «Non aprirlo!» gridò, con un fremito di paura nella voce. Incerto, Raalt si fermò. «Perché no?» «Dèi! Quello è il Cuore di Arrmik!» Si avvicinò solo di un passo e si fermò come se fosse pronta a fuggire all'istante. «E allora?» fece lui a disagio, con le dita sul laccio che chiudeva il sacchetto. «Il Cuore è maledetto! Solo i sacerdoti di Arrmik possono guardarlo e continuare a vivere... è per questo che viene tenuto chiuso! Non lo sapevi? Non ti prendi mai la pena di imparare qualcosa su quello che rubi?» «Be'» cominciò Raalt infelice, sentendo che il controllo che aveva su di lei diminuiva. Non voleva ammettere che non lo faceva mai: gli bastava sapere che si trattava di qualcosa di valore. Era tentato di aprire comunque il sacchetto, solo per provare che le sue paure erano infondate, ma decise di non farlo, nel caso sfortunato che lei avesse ragione. Con le maledizioni non si può mai sapere: a volte erano parole vuote per spaventare i creduloni, ma di tanto in tanto avevano un potere che era meglio non stuzzicare. Clea gli si avvicinò. «Mi dispiace, ma non volevo perderti.» Il sorriso che gli rivolse avrebbe incrinato il viso di una statua di pietra, presa dal desiderio di ricambiare. «Per questa notte mettilo al sicuro nella tua cintura.» Gli tese la coppa di vino. «Dovrò trovare qualcosa d'altro che tu possa slacciare e gradire.» Raalt sorrise con bramosia a quell'esplicito invito e mise da parte il sacchetto. Poi bevve il suo vino. Clea lo guardò al di sopra dell'orlo del bicchiere e disse in tono disinvolto: «È un bene che tu non abbia aperto il sacchetto mentre lo rubavi... ti a-
vrebbero trovato morto con quell'oggetto ancora tra le mani. Saresti annegato in una terra arida!» A Raalt andò per traverso il vino. Clea dovette battergli parecchie volte sulla schiena prima che lui riuscisse a respirare di nuovo. «Sa... sarei an... a...» Non riuscì a pronunciare la parola ad alta voce. Clea ridacchiò e con la punta delle dita gli accarezzò la guancia, poi il collo, scendendo sul petto. «Arrmik è il Dio dell'Acqua del Deserto» sussurrò. «Si dice che una volta abbia sommerso un'intera città che aveva smesso di adorarlo.» Le sue dita accarezzarono sapientemente il petto di Raalt, facendogli trattenere il respiro e allontanando un poco la visione dell'annegamento. Bevve un'altro sorso di vino. Le dita di Clea continuarono a muoversi, facendolo impazzire. Lei si passò la lingua sulle labbra e lo guardò in trepidante attesa. Raalt si costrinse ad allontanare le ultime visioni dell'acqua e posò la coppa di vino. Prese Clea tra le braccia, stringendo il minuscolo corpo contro il suo, di nuovo avvolto dal profumo di cinnamomo, e godendo di sentirla aggrapparsi disperatamente a lui. Le loro bocche si incontrarono e lei si strinse ancor più disperatamente. Raalt interruppe il bacio e quando vide lo sguardo velato di quegli occhi neri venne preso dal desiderio di gridare con espressione di trionfo. La Volpe era quasi scuoiata. Mentre le faceva scivolare le mani lungo la schiena, inaspettatamente lei si sciolse dall'abbraccio. «Aspetta!» disse, con espressione maliziosa sul viso da elfo. «Non facciamo le cose in fretta! Voglio farmi un bagno prima di andare più in là... l'acqua di quella fontana era lurida!» Storse il naso per fargli capire quello che intendeva. «Lo credi davvero?» sogghignò Raalt, avanzando con le braccia pronte ad afferrarla. Lei gli sfuggì e agitò un dito verso di lui, ridendo. «Non vorrai andare a letto con una donna che puzza di acqua stagnante e di cammello. Finisci il vino e io tornerò prima che tu abbia il tempo di sentire la mia mancanza.» Raalt aprì la bocca per protestare. Clea balzò in avanti e gli posò un dito sulle labbra. «Non protestare o ne farò fare uno anche a te!» Raalt le rivolse il suo sorriso più rapace. «Io bevo. Tu fai in fretta.» «Certo» disse lei con voce profonda, guardandolo negli occhi. Raalt lasciò che lei lo conducesse verso il grande mucchio di cuscini e si rilassò mentre lei, come una schiava, gli toglieva il mantello, la spada e la cintura. Si lasciò cadere sui cuscini e prese la fiasca di vino e la coppa che
lei gli porgeva, beandosi di questa nuova Clea. Ormai era sua e prima dello spuntare del giorno anche il Cuore sarebbe stato suo. La guardò mentre si muoveva dall'altra parte della stanza con i fianchi che ondeggiavano invitanti. Lei gli lanciò un sorriso pieno di tenere promesse, poi scomparve dietro la tenda di perline. Ascoltando il rumore dell'acqua, Raalt batté sul sacchetto e bevve il vino, pienamente soddisfatto. Aveva del buon vino, una stanza lussuosa, il Cuore, la sua libertà e soprattutto la dolce consapevolezza di aver finalmente trovato il punto debole di Clea... e lei stava arrendendosi senza combattere. Già si vedeva a contare la parte di bottino di Clea... anche se lei, a rigore, non ne avrebbe avuto diritto. Che splendida rivincita; lei aveva cercato di prendere il suo Cuore, ma lui invece aveva catturato il suo. Clea la Volpe aveva trovato un suo pari in Raalt il Ladro, finalmente! Stava bevendo la quinta coppa di vino, quando decise che ormai lei aveva sguazzato abbastanza, accidenti. Si alzò vacillando e si stirò, tendendo con piacere tutti i muscoli. Fece un sorriso diabolico, si tolse la tunica e poi il resto. Dopo un ultimo sorso di vino si diresse verso la tenda di perline, vestito solo di un largo sorriso. Raalt oltrepassò le perline tintinnanti sorridendo e grattandosi l'inguine. Un'occhiata e lei sarebbe uscita di corsa dalla vasca. Quando il suo sguardo cadde sulla vasca, il suo sorriso si ridusse in polvere e le ginocchia furono sul punto di cedere. Là, nella grande vasca di legno, c'era la prosperosa prostituta dagli occhi bistrati che si trovava nella piazza della fontana. Clea non si vedeva da nessuna parte. La prostituta gli lanciò un'occhiata lasciva e ammiccò. «Sei proprio uno stallone! La giovane padrona aveva detto che eri pronto per spassartela e direi che è proprio così! Ehi, sembri davvero...» «Dov'è?» ruggì Raalt, mentre il bel viso diventava nero di rabbia e le mani cercavano la spada che aveva lasciato nell'altra stanza. Strinse i pugni e avanzò verso la donna nella vasca. La donna si rannicchiò, spruzzando acqua. «Se n'è andata, padrone» gridò. «Mi ha lasciata qui come regalo! Un Dito d'oro per litigare con l'oste e altri due per nascondermi nel giardino e poi aspettarti nella vasca, padrone!» Raalt gemette e fece dietrofront, correndo verso i suoi vestiti per cercare il sacchetto. Quando lo trovò, si diede da fare con il laccio, imprecando ad alta voce, con il terrore sul viso.
Alla fine il laccio si aprì. Lui capovolse il sacchetto e da esso uscì una grossa pietra bagnata. Strizzò gli occhi incredulo e strinse la pietra nel pugno, lasciandosi cadere sui cuscini, sconfitto. Clea lo aveva battuto di nuovo: gli aveva fatto percorrere il sentiero di rose solo per farlo precipitare nel letame. Sentì qualcuno che gli toccava la spalla. Sollevò lo sguardo e vide la cortigiana corpulenta e gocciolante che si rivolse a lui con voce timorosa. «Me ne ero quasi dimenticata, ma la Padrona mi ha detto di dirti che faresti meglio a ricordarti quello che aveva detto a proposito di "essere almeno dieci passi avanti".» La povera donna temeva quasi che lui la picchiasse. Di nuovo Raalt strinse i pugni, ma dopo un attimo li lasciò ricadere. La pietra gli scivolò dalle dita, cadde sui cuscini e poi rotolò a terra. Serrò le mascelle per trattenere un altro gemito e abbassò il capo per nascondere il viso. La prostituta con gli occhi bistrati sapeva cosa fare. Si avvicinò a lui e gli fece appoggiare la testa sull'ampio grembo. Gli circondò il capo con tenerezza e gli passò le dita fra i capelli. «Su, su» lo cullò, «bravo, bravo il mio bambino.» Proprio mentre aveva luogo quell'attimo di tenerezza, Clea era in groppa ad un cavallo veloce e galoppava lontano da Yuelianq. Si era già liberata del Cuore di Arrmik e le sue borse da sella erano piene d'oro. Era stato facile... troppo facile, in verità. Ma il gioco era stato divertente e proficuo. Si rammaricò per non essere potuta rimanere a vedere la faccia di Raalt: doveva valere la metà dell'oro. Preziosa quasi quanto l'oro era la diceria che aveva sentito a Yuelianq: sembrava che Timoor di Morn non sapesse perdere e che le avesse messo una grossa taglia sulla testa. Quella sembrava una sfida interessante: vendere la propria testa, intascare la 'taglia e cercare di mantenere la testa sulle spalle. Ma con un piano molto accurato... Clea ricacciò indietro il cappuccio e piantò i talloni nei fianchi del cavallo, spronandolo al galoppo. Rise forte lasciandosi Yuelianq alle spalle, e si diresse verso la luna che tramontava. Potete leggere a pagina 412 un'altra avventura di Clea, "La torre nera" (N.d.R.)
Titolo originale: Taking Heart Traduzione di Maria Cristina Pietri LA CREATURA DELLE TENEBRE di Emma Bull Quando cominciai a leggere il materiale per questa antologia, mi imbattei in questo racconto e capii che l'avrei immediatamente acquistato. Aveva tutti i necessari requisiti per questo genere di storie: una donna forte come protagonista, personaggi ben delineati ed un'atmosfera inequivocabilmente magica. Ma sapevo anche che la scelta della prima storia avrebbe inevitabilmente influenzato anche le scelte successive, dal momento che, consciamente o inconsciamente, avrei incluso dei racconti che potessero imitare e controbilanciare la mia decisione originaria. E c'era un problema: uno dei miei punti fermi era che non avrei scelto storie di fantascienza, ma solo quelle di fantasy del genere Spada e Magia. E questa storia, pur avendo un'ambientazione fantasy come volevo io, usava in parte il linguaggio della fantascienza: infatti vediamo un mondo che ritrae la vita di un villaggio senza la nostra tecnologia, e inoltre si parla di mutanti. Alla fine scelsi il racconto a dispetto di ogni regola prefissata, e per due ragioni: una abbastanza semplice, e cioè quasi tutta la migliore fantasy degli anni quaranta e cinquanta, e praticamente tutta quella scritta da Leigh Brackett e C.L. Moore, impiegava il linguaggio della fantascienza per strutturare l'idea fantastica quando ancora la fantasy era impopolare o tabù. E l'altra ragione era semplicemente la straordinaria qualità del racconto. Come la maggior parte di queste storie, inizia con un viaggio: una spadaccina ed una donna cantore arrivano in un luogo strano; poi la narrazione continua esplorando l'alienazione e il terrore, fino a giungere ad un finale che ho trovato di struggente intensità... non sembra anche a voi? Classificazioni a parte, fui molto contenta di averla come uno dei cardini sul quale poi sviluppare questa antologia. E fui ancora più sorpresa quando scoprii che una storia scritta con mano tanto sicura era il lavoro di una esordiente; questo è il primo lavoro che Emma Bull pubblica come professionista. L'autrice mi comunica di avere ventotto anni, di vivere a Minneapolis con il marito e due gatti, e i-
noltre afferma che le piace disegnare ed ascoltare musica. Aggiunge poi che in genere le piace molto scrivere, ma normalmente si tratta di un impulso, come quello di mangiarsi le unghie. Marya strinse le redini e si voltò sulla sella, strizzando gli occhi contro la neve che si infittiva nell'aria del crepuscolo. Sorrise alla figura minuta e imbacuccata che cavalcava al suo fianco. «Sai, credo di averti sentito imprecare, poco fa.» Kit sbuffò. «Ho detto "Madre dei maialini!". Mi avevi promesso che Sallis era a due giorni di viaggio dalla valle di Lyle. E adesso siamo a due giorni di viaggio dalla valle di Lyle, e io ho freddo e sono tutta bagnata. E diventerò ancor più infreddolita e bagnata e poi non vedo nessuna città.» Marya rise. «Perché mai ti ho chiamata Picchio? Sei garrula come una ghiandaia.» «Maledizione, Marya, dov'è la città?» «Oltre la prossima collina, donna di poca fede. E se starai buona, pagherò io il primo giro, quando arriveremo.» «E io pagherò il secondo e il terzo, come al solito, e tutto questo dove porta?» disse Kit imbronciata. «Oh, sulla strada di una bella sbronza. Ehi, laggiù!» Marya sollevò il braccio sinistro per indicare, e la luce riflessa dalla neve scintillò su quei tendini e su quegli artigli di un nero brillante. Sotto di loro, appena visibile attraverso la neve che cadeva, brillava una debole fila di luci a gas. «Io non sbaglio mai» disse Marya. «Debbo ricordarti di quella bestia da soma che hai comperato a Hobarth?» «Un errore è concesso a tutti.» «Povera orfana! Avanti, andiamo!» Kit batté sui fianchi del cavallo con gli stivali e si affrettò giù per la collina attraverso la neve. Ma Marya esitò. Aveva forse visto un'ombra tremare tra i rami dei pini? Scosse il capo. Sono stanca. La luce non è abbastanza forte per gettare ombra. Il vento gemette dietro di lei mentre seguiva Kit verso la città di Sallis. Quando raggiunse il cancello, Kit era già arrivata e imprecava con eleganza. «Usa il batacchio» disse Marya. «Ho usato il batacchio. Due volte» scattò Kit, e strattonò di nuovo la
corda: il braccio di ferro rimbombò contro il legno. Lo spioncino del guardiano si aprì. «Che cosa volete?» «Entrare, tesorino» rispose Marya. «Tu che cosa vuoi quando bussi ad un portone, eh?» «È tardi, c'è brutto tempo e...» «Ragione di più per non lasciarci qui fuori» scattò Kit. «Deve essere proprio una bella città, se avete paura di due viaggiatori.» «Volevo solo dire...» «Ecco, forse questo ti rallegrerà.» Kit si avvicinò allo spioncino e ricacciò indietro il mantello, mostrando la manica con il pezzo di stoffa rosso e azzurro dei cantori. «Ti chiedo perdono, Cantore, non...» «Ti prego, il cancello» disse Kit; Marya pensò, e non era la prima volta, a quanto fosse facile per una voce addestrata far udire un finto sospiro. Il ghiaccio scricchiolò quando la pesante sbarra venne tolta e Marya e Kit trottarono all'interno. Il tipo grosso e cordiale decise Marya dopo aver visto il guardiano. Quello che preferisco. Si tolse il cappuccio e gli sorrise. «Grazie. Mi scuso per la lingua tagliente della mia compagna.» Kit sbatté le palpebre e la fissò mentre il guardiano diceva: «No, no, sono io che...» «Abbiamo cavalcato tutto il giorno e il tempo...» Lui assunse un'espressione comprensiva. «Quest'anno è in anticipo» disse strusciando la punta del piede nella neve. «I lupi sono già scesi dalla collina e circolano storie di cose... sarà un brutto anno, credo.» «È stato un brutto anno per almeno gli ultimi sei» disse Kit con voce strascicata. Marya le lanciò uno sguardo corrucciato e sorrise di nuovo al custode. «È meglio che troviamo una locanda, prima che si mangi uno degli abitanti. Ce n'è una più avanti?» «Ce n'è una sola. A sinistra della casa con il tetto verde...» e indicò con una mano, «... e poi poco più in giù su quella strada. Si chiama "da Amali".» «Grazie. Uhm, quando smonti?» «Tra un'ora e mezza.» Sollevò lo sguardo verso di lei. «Passa di là quando hai finito. Probabilmente lei canterà qualcosa.» Marya sorrise e indicò Kit con il pollice. «E naturalmente recherà le Notizie.»
Il sorriso di lui era timido e affascinante. «Non me lo perderò.» «Avanti, Marya!» gridò Kit. «Se resto ancora un po' su questo animale, mi congelerò in sella.» Aveva girato la cavalcatura e si era avviata lungo la strada. «Grazie di nuovo. Oh» disse Marya, «qualcosa per tenerti caldo.» E finalmente la sua mano sinistra, che teneva una moneta, uscì da sotto il mantello. Il guardiano rimase a bocca aperta, fissando quella mano. Anche Marya la guardò, cercando di vederla in modo meno familiare del solito: ossa sottili, tendini e lunghi artigli ricurvi e crudeli, tutti di un nero luccicante, che reggevano la moneta come una gabbia di ferro scuro. Inaspettatamente, lo stomaco le si contrasse per l'amarezza. Guardò quel viso mentre piegava le dita e vide il terrore nei suoi occhi quando il tocco di un artiglio fece tintinnare la moneta. Lui sollevò di scatto lo sguardo verso di lei. Lei lo ricambiò con solennità, senza parlare. Dopo un momento, gli gettò la moneta. Lui non si mosse per prenderla. Entrambi rimasero a guardarla mentre sprofondava nella neve; poi lei girò il cavallo e proseguì sulla strada dietro a Kit. «Bene» disse Marya quando ebbe raggiunto il Cantore «La mia serata è sfumata.» «Uhh?» Lei sollevò la mano sinistra e agitò le dita nere. «Gli ha dato fastidio?» «Direi proprio di sì.» «Provinciali superstiziosi, viscidi e senza madre.» Sembrava che Kit cominciasse a scaldarsi. «Ignoranti, sporchi pecorai, farabutti, ritardati...» «Oh, piantala» la interruppe Marya. «Ti brucia solo perché pensi che se non faccio l'amore con qualcuno non dovresti farlo nemmeno tu.» «Questo non è vero!» strillò Kit. Marya fece una smorfia maliziosa. «Se io riuscissi a far abboccare i pesci come fai tu, sarei una delle donne più ricche della costa.» Le indicazioni del guardiano erano esatte. La locanda era piccola e immacolata e sembrava calda e accogliente come il fuoco di un caminetto. «Beati noi» sospirò contenta Kit. «Li porto io alla stalla» si offrì Marya scendendo di sella. «Sei un tesoro. Ti ordinerò un pranzo stupendo.» «Non mangiartelo tutto prima che arrivi io.» Kit fece una smorfia e scomparve nella locanda.
Marya trovò rapidamente la stalla; era pulita e ben illuminata e il carbone secco che bruciava nella stanza dei finimenti impediva alla temperatura di essere troppo rigida. Guardò con approvazione mentre il mozzo di stalla dissellava i loro cavalli e li strigliava. «Scommetto che non avete molto da fare con un tempo simile» commentò. «No» disse il ragazzo e le lanciò un sorriso prima di chinarsi a spazzolare una lunga barbetta. Passò sotto il ventre dell'animale e si alzò. «Ma quando arriva l'estate le cose vanno meglio.» «Come ti chiami?» «Gerry, signora.» Sollevò lo sguardo e sorrise. «Al suo servizio.» Le fece un largo inchino burlesco, agitando la striglia che teneva in mano. «Bene» rise Marya. «Se riuscirai a togliere i nodi dal mantello di quelle bestie, sarà davvero un buon servizio.» Gerry sorrise di nuovo e tornò al suo lavoro. Mentre asciugava la sella, lo guardò con la coda dell'occhio. Fece attenzione a tenere il braccio sinistro coperto dal mantello. Alla fine disse: «Ci sai fare con gli animali: sei molto giovane, dove hai imparato tanto bene?» Un sorriso pensoso gli attraversò il viso. «Mi ha insegnato mio padre. Mio padre è Evan Tentrees ed è il migliore... era... il migliore...» All'improvviso distolse lo sguardo. «Ho... detto qualcosa di male?» I capelli castani del ragazzo ondeggiarono per la violenza con cui scosse il capo. «Sei fortunato» continuò Marya, «io non riconoscerei mio padre nemmeno se mi prendesse a calci.» «Devo... andare a prendere qualcosa.» Si precipitò nella stanza dei finimenti. Quando, poco dopo, ritornò a mani vuote, Marya lo guardò con aria interrogativa. «Non l'ho trovata» disse lui, a voce troppo alta. Seguì un silenzio opprimente. Infine Marya lo interruppe dicendo: «Mi spiace. Immagino di aver detto qualcosa di stupido. Vuoi parlarmene?» Lui scosse di nuovo il capo e Marya vide il cavallo ritrarsi per la forza con cui maneggiava la striglia. Poi lui disse: «Mio padre è stato... ucciso.» «Uhm.» A Marya sembrò di aver trattenuto il respiro. «Recentemente?» «La settimana scorsa. Era sulle colline, a caccia di animali selvatici. Il mattino dopo sono andati a cercarlo. Era... era...» Lei sentì che la voce gli tremava e lo interruppe: «Era stato sorpreso da una tempesta?»
Gerry scosse il capo: «C'era qualcosa... l'aveva dilaniato, fatto a pezzi. Qualcosa di grosso.» «Un lupo? Un felino?» «Più grande.» Questo mi suona familiare, pensò Marya. Finì il suo lavoro, augurò la buonanotte a Gerry e si avviò di corsa dentro la locanda. Kit la chiamò agitando furiosamente la mano da un tavolo vicino al camino della sala da pranzo. «Aspetta di vedere la cena!» si vantò con un largo sorriso. «Il cibo ti solleva sempre lo spirito, Picchio. Le uniche volte in cui ti comporti con cortesia è quando sta per arrivare il pranzo.» «Stella marina in salsa di vino, pasticcio di cacciagione, zucca al forno e mele, pane fresco, insalatina e sidro. Ah, eccolo che arriva!» La locandiera era una donna corpulenta, con il viso ancora arrossato per il gran affaccendarsi in cucina. Posò il vassoio sul tavolo e sorrise a Marya. «So che effetto ha sull'appetito viaggiare con questo tempo, cara, come ho detto alla tua amica Cantore. Nessuno soffre la fame, da Amali.» «Immagino che Amali sia tu non è vero?» «Proprio io.» «Felice di fare la tua conoscenza.» «E quella del tuo pasticcio di cacciagione» aggiunse Kit. Amali ridacchiò. «Mangiate pure con calma, mie care. E se lo gradite» continuò con improvvisa timidezza, «saremo lieti di avervi con noi al bar, dopo.» Marya lanciò un'occhiata a Kit e vide che sorrideva. «Penso che lo faremo» disse Kit. «E se non vi spiace, potrei anche sentirmi in vena di cantare un po'.» «Sarebbe un onore» disse Amali raggiante. «Buon appetito.» Marya aspettò che Amali si allontanasse prima di dire: «Mah, un altro anno così, e sarai viziata senza più rimedio.» «Non con te al mio fianco che mi freni.» «Una pesante responsabilità.» «Taci e mangia.» «Obbediente, Marya si mise in bocca una forchettata di zucca e la inghiottì prima di continuare:» Ho appena sentito una cosa strana. Kit sollevò lo sguardo e poi posò la forchetta. «Questo tono significa "penso che dovremo fare qualche cosa". Avanti, parla.» Marya le raccontò del padre di Gerry.
«Un orso?» chiese Kit quando ebbe terminato. «È quello che ho pensato in un primo momento. Ma tu non Porti Notizia dalla valle di Lyle a proposito di un orso in quelle colline?» «Sì, ne hanno ucciso uno due settimane fa.» «È quello che ho pensato. Due orsi nelle stesse colline? Ed entrambi in giro ad inverno avanzato?» «Improbabile.» «Molto. E allora che cosa c'è là fuori?» Marya infilzò con enfasi la forchetta in una porzione di pasticcio. «Come faccio a saperlo? Ascolta, io sto andando a Samarty per prendere un manoscritto per la Gilda. E lungo la strada, diffondo le notizie. Non combatto i draghi liberando stupide donzelle dalle trecce bionde rinchiuse in una torre, né abbatto i mulini a vento. Che cosa vuoi fare, organizzare una battuta di caccia?» «Be'... sì.» Kit appoggiò la guancia al palmo della mano e la guardò. «Oh, Marya Dito-ad-Artiglio, sei senza speranza!» «No, invece. Stai usando il tono "non posso ragionare con lei perciò mi arrendo".» «Ne riparleremo domani mattina. Mangia.» L'ultimo accordo di chitarra aleggiò nell'atmosfera del bar e gli ascoltatori provarono riluttanza a spezzarlo con un applauso. Marya sorrise vedendo Kit alzare la testa ed ammiccare, come se uscisse da uno stato di trance. Quel piccolo gesto diede il via ad un uragano di applausi. Che cosa meravigliosa, rifletté Marya, la simbiosi tra il pubblico e l'esecutore. È un istinto o alla Gilda insegnano anche queste cose? Poi Kit posò la chitarra, alzandosi in piedi lentamente e la stanza piombò nel silenzio. Tutti i presenti avevano aspettato quel momento, quando il Cantore avrebbe recato le Notizie. Marya si appoggiò allo schienale per godersi lo spettacolo. «Da nord e da est» proruppe la voce di Kit avvolgendo la stanza. «Dalla Sandyn dai tetti d'argento e dalla casa del Fuoco, io vengo. Io sono la voce e il testimone del passato. Che cosa volete sentire da me?» Il prologo di Kit provocò la consueta reazione. Nella folla qualcuno gridò: «La valle di Lyle!» e gli altri assentirono con un mormorio. Kit annuì lentamente e chiuse gli occhi. Sembrò che tutta la stanza si protendesse nell'attesa. Poi, alta e chiara, monotona eppure squillante, la
voce di Kit intonò: Allysum Gredy ha avuto un figlio con la prima neve di novembre. Poi la neve è andata e tornata e la polmonite si è presa il vecchio Francis Berne bilanciando la nascita e la morte. La drogheria di Etin Yama è bruciata, ed Etin ha dato la colpa a Jo Hurlisen. Il consiglio ha multato Jo con tre mesi di paga, e gli ha imposto di rinunciare ai sigari. Proteggendo le greggi sul pendio di Canwit, Rey Leyne e Winsey Wittemer hanno ucciso un orso color dell'inverno, ma qualcosa ancora uccide mucche e pecore lungo il versante meridionale. Nil Sabek e Margrete Durenn si sono scambiati la Promessa, e Hary Lil, con gli stivali della festa, passeggia ogni giorno con la vecchia Pent. «Vita, morte, affari e amore; tutto bene nella valle di Lyle.» Quando Kit ebbe terminato, le conversazioni riempirono la stanza: vicini che ridevano e si scambiavano pettegolezzi sulle notizie. Marya sorrise e attese che chiedessero notizie di un'altra città e che Kit ricominciasse. La porta del bar si spalancò. «Ehi!» gridò qualcuno e poi si fermò. Il ragazzo sulla porta era il mozzo di stalla, Gerry: la ragazza che teneva tra le braccia era una sconosciuta, tutta sporca di sangue. «Nan!» gridò Amali. Il vassoio che aveva in mano cadde al suolo con fragore e lei corse a sostenere la ragazza. Marya si fece strada verso la porta a gomitate. Qualcuno si alzò e allungò la propria sedia ad Amali, che vi fece distendere Nan. «È mia figlia» disse Amali fuori di sé rivolta a Marya, che si domandò che importanza avesse. «Sei ferita?» chiese Marya, cercando il polso sul braccio macchiato di sangue e scrutando gli occhi della ragazza, cogliendo i sintomi dello
shock. Non scosse il capo. «Portatela vicino al camino e avvolgetela in una coperta» ordinò Marya. «Datele del tè alla menta o dell'acqua. Niente alcolici.» «E poi chiedetele che cosa è successo» disse Kit comparendo al fianco di Marya. «Al cancello» disse Nan, ancora con il fiato corto. «Cal. È morto. E Jimy.» Marya sentì un rumore in fondo alla stanza, un piccolo grido. «Come?» chiese Amali con voce tesa. «Cal... Cal aveva il corpo aperto dalla gola all'inguine. Letteralmente squarciato. La gola di Jimy... era stata strappata via per metà.» Nan cominciò a singhiozzare piano. Un movimento improvviso richiamò lo sguardo di Marya verso la porta. Gerry aveva fatto un passo nella stanza e la sua bocca era ancora aperta come se stesse per parlare. Si aggrappò allo stipite della porta, con lo sguardo che guizzava per la stanza. Poi si voltò e si precipitò fuori. «Uno di voi» gridò Amali, «mi passi quella coperta... oh.» Guardò Marya con gli occhi colmi di panico. «Oh, no! Allora qualcuno... qualcosa... deve essere entrato dal cancello.» «Che cosa? Perché?» «Cal è il guardiano del cancello.» «Il guardiano?» sussurrò Marya sollevando il viso verso Kit, con gli occhi spalancati. Kit tese un braccio e strinse la spalla sinistra di Marya; attraverso la camicia, lei avvertì il calore delle dita del Cantore e quel contatto sembrò infonderle nuovo vigore. «Andiamo a vedere.» Il suono della propria voce parve a Marya quello di una lugubre campana. Fuori c'erano due serie di impronte che attraversavano la neve smossa: quelle di Nan che si dirigevano esitanti verso la locanda e le altre, dritte e sicure, che si allontanavano in direzione del cancello. Marya si rabbuiò, accosciandosi per vedere meglio, e tenendo la spada in equilibrio sulle ginocchia. Poi imprecò. Erano le impronte di stivali senza tacco, con la suola adatta a camminare su pavimenti sporchi e bagnati, stivali di un contadino o di uno stalliere. «Che cosa c'è?» chiese Kit. «Gerry» chiese Marya, lasciando cadere quel nome come un sasso in un pozzo. «È andato a dare la caccia alla cosa che ha ucciso suo padre. Vieni.»
E si misero a correre. Marya sfoderò la spada mentre correva nella neve. Udì Kit imprecare: «Marya, che le tenebre possano inghiottirti, aspettami!» Ma lei aveva paura di rallentare il passo. Il cortile del cancello era dietro quell'angolo... Svoltò con decisione... e si fermò, con la spada a mezz'aria, paralizzata dal terrore e dall'incredulità. Gerry era in piedi in mezzo al cortile. Il viso contorto dall'orrore, con entrambe le mani teneva spianato di fronte a sé un pezzo di legno. Forse qualche momento prima aveva potuto considerarlo come un randello, ma ora era l'unica cosa solida che si frapponeva fra lui e la creatura che gli stava davanti. La creatura... sembrava che neri brandelli di essa continuassero a sfrondarsi, come vapore nero, in un vento che soffiava solo in quel punto della strada, eppure niente cadeva nella neve e la massa sembrava non diminuire affatto. Camminava eretto, alto come un orso e macilento come un albero mezzo bruciato. Udì la voce di Kit al suo fianco. «Oh, madre... come potrò descriverlo nella prossima città?» Una forma scura simile ad un braccio roteò velocemente in fuori e colpì il ragazzo. Il legno cadde al suolo, spezzandosi in due. «Gerry, vai via!» Marya si slanciò sulla cosa, brandendo la spada e sferrando un colpo contro il torace scuro. Gerry continuava a gridare, poi all'improvviso il suo urlo cessò e si staccò dall'abbraccio di quell'ombra indistinta, con il petto e la gola che fiorivano di un rosso brillante e lucente, mentre bolle rossastre gli uscivano dalla bocca che cercava ancora di urlare. La lama di Marya fendette l'ombra... e si arrestò, come se si fosse conficcata nella pietra. Pietra che le riempiva le vene della mano destra, calcificandole i nervi, sbriciolandole le ossa e aprendosi la strada lungo la spalla e il petto. La spada cadde nella neve mentre lei barcollò all'indietro e cadde sulle ginocchia, con il braccio umano intorpidito e penzolante. Lo fissò incredula. E l'ombra avanzò verso di lei, la bocca spalancata, gli occhi che ardevano di putredine... lei voleva chiudere gli occhi, inginocchiarsi e aspettare che se ne fosse andata. Le braccia nere si protesero, per stringerla in un'oscena parodia di conforto. «No!» urlò Kit e si slanciò, con il pugnale che scintillava come una scheggia di luce nella sua mano. «Torna indietro!» gridò Marya, ma Kit conficcò l'acciaio brillante in
quella propaggine di oscurità cenciosa... «... e si arrestò. Kit spalancò la bocca per la sorpresa. Intorno a lei si ricompose l'ombra impenetrabile della creatura.» «Kit! Vattene! Torna indietro!» gridò di nuovo Marya. Kit sembrò risvegliarsi e si buttò all'indietro. La cosa nera colpì. Il sangue macchiò la neve nel punto in cui Kit cadde. «Kit!» Marya scivolò al suo fianco. «Mi sta strappando l'anima attraverso la ferita nel braccio» mormorò Kit. «Che cosa?» «Sento che se ne va. Non c'è molto nutrimento nelle anime...» La testa di Kit scivolò di lato. La creatura, piegata su di loro come una fiamma scura, sembrava gonfiarsi e pulsare. Freneticamente, Marya afferrò la sua spada. O cercò di afferrarla. Il braccio umano non le obbedì. Si alzò di scatto dalla neve, dall'altro lato della creatura. «Qui!» gridò. «Da questa parte, brutto maiale! Maledetto!» Raccolse una manciata di ghiaia e la lanciò con la mano sinistra contro la forma scura. Quella bocca da incubo si aprì lanciando un sibilo che le penetrò nel cranio ed avanzò verso di lei. Vorrei che non avesse funzionato tanto bene, pensò Marya mentre colpiva con la mano ad artiglio. Le dita affondarono nell'ombra. Il calore salì lungo il braccio di Marya mentre il sibilo si trasformava in un ringhio improvviso ed acuto. L'ho ferito! pensò Marya esultante. La sua pelle scottava e formicolava. Chiuse gli artigli nella materia d'ombra della cosa e questa la colpì selvaggiamente alla testa, con un grido che sembrava lo stridio dell'acciaio sulla pietra. Il sangue scorreva più caldo che se avesse avuto la febbre. Mi sta bruciando... poi il terrore si trasformò in stupore. No... io sto bruciando. Lei non era materia combustibile, ma il fuoco stesso; il mondo si stendeva davanti a lei come carbone. Con una forza immane, guizzò per bruciare le stelle, per nutrirsi della loro potenza... La forma scura fece un balzo all'indietro, ululando, lasciando l'oscurità pulsante che si dissolveva nel pugno di lei. All'improvviso lei non fu altro che una bestiolina infreddolita inginocchiata nella neve e tutto il suo potere si era dissolto. Voleva urlare per il desiderio, lacerarsi la carne, frantumare la pietra, pur di rientrarne in possesso. Si slanciò dietro l'oscurità che si contorceva. Questa cercò ancora di colpirla, mancando il bersaglio, e allora si voltò, fuggendo come una foglia
scura attraverso il cancello nel buio notturno. Il potere l'aveva abbandonata. Lei si guardò selvaggiamente intorno, invidiando persino il bagliore dei lampioni. Ma doveva rimanere umana: c'era qualcosa che un essere umano doveva fare... Poi vide la figura dai capelli rossi sdraiata nella neve. «Kit» gridò. «Picchio...» Cadde in ginocchio, e passò il braccio scuro intorno al corpo del Cantore ascoltandone il respiro. Un alito tiepido le accarezzò la guancia: sì, respirava. Adesso la spalla... Frugò tra i suoi abiti e quelli di Kit alla ricerca di qualcosa che non fosse bagnato di sangue o di neve e bestemmiò ad alta voce non riuscendo a trovare nulla. «Oh, Madre Luminosa. Tieni» disse una voce sommessa sopra di lei ed un panno pulito apparve a pochi centimetri dal suo viso. Lei lo afferrò e lo avvolse strettamente premendolo sulla ferita di Kit e legandolo con la propria sciarpa. «Ho bisogno di un mantello per lei, di una coperta, qualcosa...» mormorò Marya. Una cappa di lana azzurro brillante comparve davanti a lei. Vi avvolse il corpo di Kit. Perché non è cosciente? Marya si scostò i capelli dagli occhi: di fronte a lei i lampioni della strada mostravano la neve annerita, il cancello finalmente chiuso e tre persone per cui non c'era più niente da fare... Le faceva male la testa e si sentiva troppo fiacca per muoversi. «Dobbiamo portarla alla locanda?» udì una voce dietro di sé. Si voltò. «Amali!» «Sono qui da un po'... ma tu eri...» Amali agitò le mani grassocce. «Il termine che cerchi è probabilmente "scontrosa".» Marya si riscosse dall'inerzia e sollevò Kit, aggiustando il mantello fradicio di neve in modo che nascondesse il braccio sinistro. «Niente di male» disse Amali con una scrollata di spalle. «I medici sono sempre strani quando lavorano.» «Hmm.» «Ma non credevo che Coloro che Pagano il Prezzo sapessero coltivare le arti mediche.» Marya appoggiò il piede con un po' troppa forza e i denti si chiusero con uno schiocco. «Un che cosa?» disse. «Uno di Coloro che Pagano il Prezzo. Ho visto il tuo braccio mentre ti occupavi del Cantore.» «Davvero?» Di certo, pensò, la vecchia terrà la bocca chiusa... «Non dovresti cercare di nascondere il tuo marchio, sai. Lo porti per
mostrarci l'ira della Madre contro chi ha osato interferire con i Suoi sacri segreti...» «Basta così!» sibilò Marya. Amali aprì e richiuse la bocca. «Mi spiace» disse Marya. «Io non sono... religiosa.» Amali la fissò con aria diffidente. «Pregherò per te» disse poi. «Andrò avanti a prepararle un letto.» Marya annuì e Amali si incamminò nella neve. «Le sue intenzioni sono buone» gracchiò la voce di Kit da sopra la spalla. «È solo male informata.» «Picchio? Come ti senti?» «Come se avessi... afferrato la parte sbagliata di un fulmine.» «C'è una parte giusta per afferrare un fulmine?» Kit aprì un occhio e corrugò la fronte. «Sei isterica?» chiese debolmente. «Quello che dici non ha senso.» «Continua a parlare.» «No, non dovrei farlo. Dovrei riposare. Se tu non fossi isterica lo sapresti.» Marya sbuffò. «Mai cercare di parlare in modo razionale con qualcuno che ha perso molto sangue.» «Non sangue» Kit scosse debolmente il capo. «Piuttosto... forza.» «È quello che succede quando si perde sangue.» «No. È quello che intendevo quando parlavo... del fulmine.» «Eh?» «Invece di ricevere una scarica di qualcosa... è come se quella... quella cosa mi avesse strappato qualcosa.» «Strappato qualcosa...» ripeté Marya. Era quello che aveva provato al braccio destro, come se la forza le venisse risucchiata attraverso di esso. «Mi fa male la spalla» disse Kit con voce quasi normale. «E ho freddo. Non stare qui ferma.» «Maialino, sei esigente.» Marya sorrise e si avviò a grandi passi sulle tracce di Amali. La luce del sole si riversò in pieno attraverso la porta quando Marya la socchiuse. «Kit? Sei sveglia?» «Questo posto è illuminato come una maledetta nave in porto e lei mi chiede se sono sveglia» borbottò Kit. Marya cacciò la testa nella stanza e sorrise. «Posso curare il tuo corpo, ma non il tuo stato d'animo.» Si sedette in fondo al letto. «Allora, come ti
senti?» «Piuttosto bene, in verità. Molto meglio di quanto mi aspettassi, considerando come mi sentivo là fuori nella neve.» «Ummm» fece Marya. «Lasciami vedere il braccio.» «Era come se...» Kit si interruppe mentre Marya sfasciava la ferita, «come se potessi sentirmi morire, il che è ridicolo, visto che non è poi una gran ferita.» «Infatti, non lo è. È anche pulita e sta guarendo normalmente.» «Quindi penso che fosse solo paura. Esempio letterale dell'essere spaventati a morte.» «Forse.» Marya tornò a sedersi e incrociò le braccia, intrecciando la pelle con una superficie nera e lucente. «E forse no.» «Forse no?» Marya si alzò e mise il paletto alla porta. «Marya?» «C'è qualcosa che voglio farti vedere.» «La mamma mi aveva detto di stare attenta alle donne come te...» «Molto divertente, Guarda qui.» Marya si accosciò davanti alla stufa di ferro accanto al letto ed aprì lo sportello. «È acceso, vero?» «Se non lo fosse stato» disse Kit, «penso che lo avremmo notato.» «Certo, ma vedi le fiamme, vero?» Kit sospirò. «Facciamola contenta. Sì, le vedo.» «Bene.» Marya allungò il braccio sinistro attraverso lo sportello e distese le lunghe dita ad artiglio, simili ad una rete nera, sopra il fuoco. Sentì ondate di calore attraversarle il corpo... e nient'altro. Sono impazzita? Si domandò con improvvisa paura. Ero pazza la notte scorsa, quando ha funzionato? Poi cominciò a sentire un formicolio nella spalla. Un calore simile alla febbre si propagò partendo dal braccio sinistro, e fu presa da un senso di vertigine. Il battito stesso del suo cuore era assordante. Fra le dita vide le fiamme lottare, abbassarsi; i carboni si scurirono, da arancioni diventarono rossi, poi viola e poi neri e alla fine color cenere. «Urk...!» esclamò Kit alle sue spalle. Marya si appoggiò sui calcagni e si sfregò gli occhi. «È questo che mi piace di te; sai sempre cosa dire in occasioni come questa.» «Madre al Timone...» «Non è magia, maledizione!» scattò Marya. «Calmati. Fa parte del... del
cambiamento. E tu lo sai perfettamente.» Kit posò con fermezza le mani sulle ginocchia con un gesto deciso e trasse alcuni respiri profondi. «Hai ragione. Sono calma, perfettamente calma. Sapevi di poterlo fare? Prima di adesso?» «Ho provato la notte scorsa in camera mia. Non penso che avrei potuto farlo prima di allora.» «E allora da dove viene?» «Ho una teoria...» Kit chiuse gli occhi. «Odio quando dici così.» «Vuoi sentirla?» «Scusami.» «Va bene. Ricordo un esperimento che mia madre mi fece fare con una nidiata di piccoli leprotti quando ero bambina. Metà li allevai in un recinto all'aperto, l'altra metà in casa. Quelli rimasti fuori cambiarono colore come fanno sempre le lepri, marroni d'estate e bianche d'inverno. Quelli allevati all'interno rimasero sempre di color marrone.» Kit si accigliò. «Avrai combinato qualche pasticcio. Le lepri non fanno niente di simile... e poi che cosa c'entra con lo spegnere il fuoco, comunque?» «Ci sto arrivando. Fai attenzione. Mia madre mi spiegò che il mio piccolo progetto mostrava come le creature viventi possono ogni tanto nascere con delle caratteristiche che non si manifestano finché non sono stimolate da qualcosa di esterno.» Marya piegò le dita nere. «Penso che l'altra notte sia stata stimolata una mia caratteristica.» Kit scosse il capo con impazienza. «Hai avuto paura altre volte, e anche freddo. Che cosa...» spalancò gli occhi. «Stimolata da... quella... cosa?» Marya annuì. «No.» «Qual è la tua teoria: una coincidenza?» «Perché avrebbe dovuto avere un simile effetto su di te?» «Perché» disse Marya con voce atona, «quella cosa e il mio braccio sono... collegate.» «Questa è una bestialità. Una grossa...» «Posso usare il braccio per assorbire calore, l'hai visto. Penso che la cosa che abbiamo affrontato ieri notte possa fare lo stesso. Credo che sia per questo che squarta le sue vittime. È chiaro come il sole che non le mangia.» «Stai sbagliando.» Il viso di Kit era pallido e tirato.
Marya chiese sottovoce: «Come fai a saperlo?» «Perché tu non sei come quella cosa! Se stai cercando di dirmi che sei...» «No, no, no! Sono umana... lo ero, lo sono ancora. Solo perché quei conigli non sono diventati bianchi, non significa che non fossero conigli.» «Non parlarmi dei tuoi maledetti conigli.» All'improvviso Marya ebbe voglia di gridare contro di lei. Invece si morse un labbro e trasse un profondo respiro. «D'accordo, stavo solo dicendo...» «Non voglio sentire...» Il paletto della porta si mosse. «Cantore?» disse la voce di Amali dall'esterno. «Va tutto bene?» «Ssst!» sussurrò Marya e balzò ad aprire la porta. «Va tutto bene?» ripeté Amali, con il viso pienotto atteggiato ad una bonaria preoccupazione. Portava un paio di secchi di ottone e rame. «Ecco dell'acqua calda. Hai dormito bene? La spalla ti fa ancora male?» Gentilmente, Kit ringraziò per l'acqua calda e seguì la locandiera nella stanza da bagno, senza rispondere al resto del discorso. «La spalla va bene» disse Marya quando la locandiera ritornò con i secchi vuoti. «L'ho visitata. Ci sono altre novità?» «Novità?» chiese Amali rassettando le coperte sul letto di Kit. «Della cosa di ieri notte.» «Di sicuro non si è più vista.» «Di sicuro?» Amali aggrottò la fronte e sprimacciò un cuscino prima di dire: «Quelle cose possono muoversi fra di noi solo di notte, quando la Madre è nel mondo dei sogni.» Una divinità che se ne va a dormire quando tu hai più bisogno di lei, pensò Marya. Magnifico. «Sei sicura che non sia proprio la Madre la responsabile di amabili creature come quella?» «La Madre non crea il male» disse blandamente Amali come se stesse tenendo una lezione. «Il male è dentro di noi. Ma Lei permette che il male cammini in mezzo a noi per indicarci i nostri errori. Quando avremo imparato e ci saremo corretti, Lei libererà il mondo da quelle cose terribili.» «Allora tutto quello che dobbiamo fare è essere molto, molto buoni e la creatura se ne andrà.» Amali ammiccò. «La mancanza di rispetto non si addice a uno di Coloro che Pagano il Prezzo, cara.»
Marya serrò i denti. «Almeno qualcuno ha organizzato una caccia al mostro?» «I lupi scendono dalle montagne d'inverno» sorrise Amali. «Tu vai a cacciarli in ogni stagione, o almeno prendi qualche sensata precauzione?» «Non stiamo parlando di lupi.» «Sono molti i pericoli quando si è così lontani dalle città. Qui viviamo in modo diverso.» «E morite anche in modo diverso, a giudicare da quella creatura» scattò Marya. Kit uscì dal bagno già vestita, strofinandosi i capelli con un asciugamano verde. «Che cos'è questo discorso sulla morte?» chiese. «Niente di cui preoccuparsi, Cantore» disse Amali. «Contate di rimettervi in viaggio, oggi? Il tempo è bello...» Qualcuno bussò furtivamente alla porta. «Amali?» disse la voce di Nan, molto sommessa. «Scendi subito. Tutta la città è qui sotto. Stanno per uscire e...» aprì la porta e scivolò dentro. Vedendo Marya e Kit si portò una mano sulla bocca. «Oh. Oh, Madre.» «Ho da fare dabbasso» disse in fretta Amali e freneticamente si voltò verso Nan e in direzione della porta. «E prima hai qualcosa da fare qui sopra.» Marya stese il braccio, nero e lucido, e richiuse la porta. Amali si voltò e Marya vide che la maschera dell'allegra locandiera era caduta. Gli occhi della donna erano pieni di lacrime. «La verità, per piacere» concluse in tono più dolce. Nan emise un suono strozzato; Amali chiuse gli occhi e deglutì. «Aspettate un attimo» disse Kit. «Che cosa mi sono persa?» «Non lo so ancora, Picchio» rispose Marya, «ma qui sta succedendo qualcosa fuori dall'ordinario...» e sollevò un sopracciglio in direzione di Nan ed Amali, «... e penso che loro due possano dirmi di che cosa si tratta.» Amali scosse il capo. «No, mi dispiace. Tu dovresti sapere la verità: proprio a te, fra tutte le persone, dovrebbe essere rivelata la verità, ma non ora.» «Che cosa? Perché no?» «C'è gente di sotto pronta ad uccidere ciò che invece dovrebbe solo compatire. Forse riesco ad impedire... che trovino... quello a cui danno la caccia.» «La creatura» disse Marya. Amali distolse lo sguardo e annuì.
Marya la guardò per un attimo prima di dire: «Ha ucciso tre persone, l'altra notte.» «Non potrebbe...» cominciò Amali e poi annuì. «Dobbiamo andare!» sibilò Nan rivolta ad Amali. «Dabbasso...» Il viso di Amali era una maschera di angosciata determinazione. «Potremmo essere in grado di aiutarvi» disse Marya. Amali si morse un labbro. «Se te lo dico, promettimi che lo lascerai andare.» «Se potremo» disse Marya. «Ehi, aspetta un attimo...» cominciò Kit, ma Marya le fece segno di tacere. Amali spostò lo sguardo da Marya a Kit, poi lo posò a terra. «La creatura... a cui diamo la caccia» disse alla fine, «è mio figlio.» Marya era troppo sconvolta e non poté far altro che battere le palpebre. Lo sapevi che era una mutazione, si disse. Doveva essere il figlio di qualcuno, ma non di questa donnetta grassoccia, comune e dal viso rubizzo... Amali continuò: «Nan è la mia primogenita. Poi ho avuto... questo. Era un ritardato, bisognava nutrirlo e tenerlo pulito...» la voce le si spezzò e tacque, portandosi le mani alle labbra prima di continuare. «Pensai che Lei mi avesse giudicata abbastanza forte da allevare uno di Coloro che Pagano il Prezzo. Che Lei mi aiuti, io avevo pensato di essere abbastanza forte.» Si volse verso Marya e sollevò il capo in segno di orgoglio, o forse di sfida. «Per quindici anni Nan ed io ci siamo prese cura di lui. Lo tenevamo rinchiuso, per paura che la gente della città gli facesse del male.» O non era invece, pensò Marya, che non volevi che Sallis sapesse che avevi un mutante in famiglia? Amali esitò e poi si rituffò nel racconto. «Qualche mese fa... cominciarono ad accadere delle cose. Io... Nan ed io... la Madre mi perdoni, un giorno chiudemmo a chiave la porta della sua stanza ed andammo alla Valle di Lyle. Tornammo due settimane dopo.» Le lacrime cominciarono a scorrere sulle guance di Amali. «Lo seppellimmo quando scese la notte, qui ai piedi delle colline. Era così... Doveva essere morto, doveva esserlo! La Madre l'ha riportato indietro per punirmi, perché non avevo avuto fiducia in lei, per la mia paura, per... non averlo amato.» Amali nascose il viso fra le mani e singhiozzò. Kit tese un braccio verso la spalla di Amali e si fermò. «La cosa può essere catturata e rinchiusa?» chiese infine Marya. «Che cosa?» La voce di Kit era un po' stridula. Amali rispose «Penso di sì.»
«Perché?» gemette Kit. «Allora hai tempo finché non lo troviamo per convincerci che dobbiamo farlo» disse Marya e si avviò alla porta. «Fermati immediatamente!» disse Kit con una voce che fece tremare i vetri della finestra. «Stai uscendo di senno?» «No» rispose paziente Marya. «Sto andando fuori con il gruppo di cacciatori.» Kit aprì e richiuse la bocca. «Allora vengo anch'io» disse alla fine. «Ma la tua spalla...» dissero quasi all'unisono Marya ed Amali. «Dov'è il mio mantello?» Dallo sguardo di Kit, Marya riconobbe l'Ultima Parola. Le colline si stendevano tetre intorno a loro, bagnate dalla luce rossa del sole al tramonto e fittamente ricoperte di pini. Marya socchiuse gli occhi alla raffica di vento gelido, passò le redini nella mano ad artiglio e mise l'altra sotto l'ascella per scaldarsela. Qui, da qualche parte, pensò, c'è un demone che divora le anime. No, da qualche parte c'è una povera forma mutante che vive dì pura energia. Vorrei poter indurre Amali a raccontarmi tutto quello che sa. Si guardò la mano nera; rifletteva il sole come un coltello insanguinato. Lei si concentrò su di essa cercando di trarre calore dal tramonto estivo come aveva fatto con il fuoco, ma essa rimase completamente fredda e immobile. Strinse le gambe contro i fianchi del cavallo e questo trotterellò nella neve fino al punto in cui stava procedendo Amali. Dietro di sé sentì la cavalcatura di Kit che si portava dall'altro lato di Amali. «Bene» disse Marya, «abbiamo dirottato il resto del gruppo e ti abbiamo seguito da un punto all'altro nell'ultima ora. Che cosa farai quando lo troveremo?» «Amali!» gridò la voce di Nan. Marya alzò lo sguardo e la vide in cima alla cresta più vicina, mentre girava intorno ad un mucchio di neve gelata. «È qui vicino! Ci sono delle tracce, qui, e anche un morto...» Marya scese da cavallo e balzò nella neve, ancora prima di capire che cosa stesse facendo. Un movimento pesante tra i rami dei pini, un'ombra... il suo cavallo nitrì e la neve intorno a lei si macchiò di sangue. «Tornate indietro!» urlò, ma Kit ed Amali si erano già lanciate lontano dall'animale che si contorceva, morente, con il mostro nero sulla schiena. Marya sguainò la spada, poi si rese conto che con quella non poteva fare nulla. Se solo concentrasse il suo interesse sulla preda abbastanza a lungo
per darmi il tempo di trovare un modo per fermarlo, pensò. Ma quegli occhi che parevano finestre sull'inferno si volsero verso di lei e quello si alzò per affrontarla. La mente di un ritardato di sedici anni, si rese conto... Io l'ho ferito. Comprende la vendetta. Sollevò il suo braccio malaugurato davanti agli occhi e pensò alla morte. L'impatto della creatura che le saltò addosso la mandò a cadere nella neve. La spalla picchiò contro il ghiaccio e la roccia e lei gridò, ma il braccio nero reggeva saldamente il peso, tenendo lontano quel viso da incubo. All'improvviso il braccio venne percorso dal calore e la creatura sibilò colpendola. Marya sentì un dolore paralizzante alla tempia e capì che le aveva fatto un taglio. Il mondo sembrò dividersi in frammenti che si allontanavano l'uno dall'altro. Ho la febbre. Mi si sta cuocendo il cervello. Udì un colpo e sentì freddo al viso. Sentì un altro colpo e di nuovo la sensazione di freddo, e poi l'ombra demoniaca non fu più sopra di lei. «Marya!» udì Kit gridare. «Da questa parte!» Una manciata di neve le saettò vicino alla testa. Guardò nella direzione da cui proveniva la voce. «Stai lanciando palle di neve?» gridò. «Vuoi muoverti?» gridò Kit di rimando e afferrò un'altra manciata di neve. Ai suoi piedi era accucciata Amali che sembrava stesse cercando di infilarsi in bocca entrambi i pugni guantati. «Questo non funzionerà... No, eccolo che viene! Muoviti!» Marya si tuffò versò Kit e atterrò al suo fianco proprio nel momento in cui il Cantore lanciava un'altra palla di neve. La creatura arretrò barcollando ma poi avanzò di nuovo. «Palle di neve?» chiese Marya. «Be', lo stanno rallentando» rispose Kit. «Ma perché?» La cosa assorbe energia, si rese conto Marya, e le palle di neve hanno energia di moto. Come la mia spada e il coltello di Kit, quando l'altra notte li abbiamo usati contro di essa. Ma alle palle di neve non c'è attaccato nulla... «Neve!» gridò Marya. «Sì, e allora?» gridò Kit. Nan si stava facendo strada verso di loro attraverso la neve. Dietro di lei, Marya vide l'enorme ammasso di neve che torreggiava sulla sommità della cresta vicina, arcuatosi fino a formare una mezza galleria. «Da questa parte!» Quasi trascinò Kit verso la cresta. Dietro di loro, Nan ed Amali si gettarono di lato mentre il mostro si lanciava in avanti.
«Prendi la mia spada» disse Marya con il fiato corto, porgendola a Kit dalla parte dell'impugnatura. «Lo farai cadere...» disse indicando l'arco di neve «... sulla creatura. Appena sarò riuscita a portarlo là sotto, taglia il ghiaccio vicino alla sommità della cresta.» Kit assunse un'espressione dubbiosa. «Funzionerà?» «Non lo so» disse Marya. Con la coda dell'occhio, vide un'ombra che s'ingrandiva rapidamente. «Vai, muoviti!» Si piegò di lato quando la creatura partì alla carica. Se fosse riuscita a restare in piedi, continuando ad indietreggiare... Ora in quelle fattezze selvagge poteva cogliere segni di umanità: nella forma delle tempie e degli zigomi, nel modo in cui si aprivano le mascelle... e il terrore le faceva desiderare di rannicchiarsi tremante nella neve. Continuò a muoversi. L'ombra dell'arco di neve divise il terreno sotto di lei in una parte di luce crepuscolare e in un'altra dalla tinta azzurrina. La figura nera si accucciò, pronta a spiccare un balzo. Marya si gettò di lato appena in tempo. Cadde violentemente sulla neve, riempiendosi la bocca di ghiaccio e pietrisco. «Kit!» boccheggiò, «ora!» Rotolò veloce e si alzò barcollando nella neve alta, pronta a balzare via dalla traiettoria della valanga di neve e ghiaccio... «... che non cadde.» Kit! «urlò di nuovo,» falla cadere! «La creatura le stava di nuovo venendo addosso.» «Non vuole cadere!» gridò Kit. Marya lanciò un'occhiata alla base della cresta: Kit menava terribili fendenti, ma questo non bastava a far cadere l'arco di neve. Marya riportò lo sguardo su quel viso tenebroso che era un po' troppo vicino al suo e lanciò un grido strozzato, senza riuscire a trattenersi. «Salta!» gridò una voce da qualche parte sopra di lei. «Che cosa? Chi...» Il mostro si acquattò preparandosi a saltare. «Vieni via!» udì di nuovo. «In fretta!» Dietro di sé sentì del legno scricchiolare e poi un ruggito improvviso. Gli occhi e la bocca le si riempirono di neve. «Marya?» chiamò Kit con furia. «Stai bene?» Marya si mise a sedere e si scrollò la neve dal viso. «Credo di sì; che cosa è successo?» Kit si inginocchiò al suo fianco e la ispezionò con aria critica, poi indicò verso la cresta. Il cumulo di neve non c'era più: ai piedi della collina c'era una piccola montagna di neve e ghiaccio. Accanto ad essa, giaceva una delle loro cavalcature, ancora sellata. Nan, inginocchiata a fianco del cavallo, lo acca-
rezzava e gli parlava. L'animale cercò di alzarsi ma non ci riuscì. «Nan ha visto cosa stavo facendo e si è accorta che non ci riuscivo» disse Kit. «Allora ha portato l'animale sull'arco per farlo cadere di sotto.» Marya annuì e si rimise in piedi. «Sei sicura di stare bene?» chiese Kit. «Sono tutta indolenzita» rispose Marya. «Non è nulla.» Si trascinò vicino a Nan. «Ha una zampa rotta» disse Nan. «Lo immaginavo. Mi spiace.» Nan le sorrise, anche se un po' a fatica. «Si trattava di te o del cavallo.» «È vero, ma mi dispiace ugualmente.» Nan scosse il capo, si spostò vicino alla testa della bestia ed estrasse il coltello dal fodero che portava alla cintura. Marya distolse il fretta lo sguardo, voltandosi verso il cumulo di neve caduta. Quello era forse un braccio nero piegato? No, era solo un ramo che era scivolato insieme alla neve. Quando riuscirà a venire fuori sarà troppo indebolito per lottare, ed Amali potrà riavere il suo mutante. Mi domando quanto tempo passerà prima che le torni il desiderio di ucciderlo. In risposta ai suoi pensieri, Amali apparve al suo fianco. «È morto?» «Non credo. È una creatura dura a morire, lo sai.» Amali distolse lo sguardo. «Neppure tu capisci.» «Lo ammetto, faccio fatica a simpatizzare con strani bambini, neri come il carbone, che succhiano la vita dalle altre creature.» «Al principio lo amavo» mormorò Amali. Marya corrugò la fronte e la guardò. «È così difficile per te crederci? Le madri amano i figli che hanno un piede deforme, amano i loro figli ritardati; il mio non era diverso da loro.» «Non era diverso?» La sorpresa rese stridula la voce di Marya. «Un demone deforme...» «Non era così!» gridò Amali. «Per questo pensavo che tu potessi... era ritardato e il piede sinistro era nero, contorto e duro come la pietra. Solo l'anno scorso ha cominciato a cambiare e ad uccidere. Prima lui...» Marya sentì che gli occhi le dolevano per averla fissata con tanta intensità; aveva la lingua secca. Voltò le spalle ad Amali e vide che Kit la guardava ad occhi spalancati. «Non guardarmi così» disse con voce roca. «Non è vero.» Ma ricordò l'incredibile sete di sangue che aveva provato nel cortile vicino al cancello, quando aveva sottratto energia al bambino mutante.
«Marya...» Kit si protese verso di lei, ma la sua mano si arrestò a metà strada. Per un attimo Marya fissò quella mano, poi un singhiozzo le salì in gola, si voltò di scatto e corse via. Inciampò nella neve alta e cadde in avanti. Per un momento rimase a guardare le braccia sprofondate fino al gomito in un mucchio di neve e poi ricordò: la valanga. Se fosse caduta anche su di me! Nella distesa di neve davanti a lei si aprì un piccolo buco: una nuvola di polvere s'infilò nell'apertura che si allargò. E all'improvviso la massa davanti a lei si agitò e cominciò a muoversi e quattro rametti contorti spuntarono dalla neve. Quando si chiusero, li riconobbe. Liberò la mano sinistra dalla neve ed afferrò le dita del mutante, tirando con forza finché tutto il braccio non emerse dal mucchio di neve. Poi scavò finché non trovò il volto. Sembrava ancor più umano ora che la debolezza lo aveva rimpicciolito. Lottò, agitando la testa ed il braccio libero. Lei si protese e affondò la mano artigliata intorno e dentro alla sua gola. Il calore bruciante che si diffuse lungo il braccio era quasi familiare. Sotto di lei, la creatura si contorceva, opponendo resistenza e lanciando deboli grida. Dietro di sé udì anche un grido umano prima che il ruggito nelle sue orecchie diventasse assordante e la trascinasse nell'oscurità. Dopo qualche tempo, le sembrò di svegliarsi, ma il concetto di risveglio le parve in un certo modo sbagliato; il luogo, forse... Qualcuno stava singhiozzando disperatamente. Marya sentì qualcuno che le toccava la spalla. «Uh?» «Madre al Timone! Sei ancora viva.» «Kit? Dove... Che cosa stiamo...» «Facendo qui? Non ha importanza, te lo ricorderai fin troppo presto.» E d'un tratto, riconoscendo il pianto di Amali, Marya ricordò. «Oh» disse, «Oh, oh, oh, oh...» Lo schiaffo di Kit le infiammò la guancia. «Buona, va tutto bene. Stai bene. Alla fine qualcuno lo avrebbe ucciso comunque. Ce la fai ad alzarti?» «Non lo so.» «Be', prova. Voglio andarmene da qui.» Marya annuì. La testa le faceva male. Kit la sostenne ed insieme si avviarono barcollando verso uno degli animali da sella. «Ce ne andiamo così?» chiese Marya. «Non dovremmo aiutare...»
«In questo momento, nessuna di noi due sarebbe di molto aiuto. Nan porterà Amali a casa. Io voglio tornare alla locanda, prendere la nostra roba ed andarmene.» «Viaggiare di notte?» «C'è una luna.» Marya scrollò le spalle e Kit la aiutò a salire in sella. Il Cantore si issò davanti a lei e spinse la cavalcatura al rapido trotto. Per mezz'ora Marya osservò le ombre dei rami degli alberi che si facevano più profonde e più scure sulla neve. «Vuoi parlarne?» chiese Kit alla fine. «Be'... no, veramente no. Quello che vorrei è che non fosse mai successo.» «Allora siamo d'accordo: non è mai successo.» «E se capitasse a...» «Non capiterà a te» disse Kit. «Non puoi saperlo.» Ci fu un lungo silenzio. «No, non lo so. Ma che cosa dovrei farci? Consegnarti ad un custode della pace? "Ho qui un pericoloso mutante, signori ufficiali"» disse Kit con voce roca. «"Be', penso che non sia ancora pericoloso, ma potrebbe diventarlo, un giorno...". No, grazie, mi sentirei stupida.» Marya cercò qualcos'altro da dire, ma non trovò nulla. Cavalcarono per un altro mezzo chilometro prima che riuscisse a mormorare: «Grazie.» «Mmmm» disse Kit. «Per avere fiducia in me, voglio dire.» Kit si voltò sulla sella e l'animale si fermò. «Hai intenzione di continuare a compiangerti?» «Che cosa? No.» «Bene, sei uno strazio quando ti compiangi. Immagino che tu non abbia portato niente da mangiare?» «C'è della frutta secca nelle bisacce della sella» disse Marya. «Frutta secca. Io chiedo del cibo e tu mi parli di frutta secca. Il freddo ti ha rovinato il cervello» borbottò Kit. «Passami della maledetta uva passa.» E continuarono a cavalcare. Titolo originale: The Rending Dark Traduzione di Maria Cristina Pietri
LE CANZONI DI GIMMILE di Charles R. Saunders Charles Saunders, nativo della Pennsylvania, vive in Canada da quattordici anni, dove dal 1971, quando non insegna psicologia, sociologia o tiene "saltuariamente seminari di narrativa creativa", scrive fantasy di ambiente africano. È apparso su Best Fantasy Stories of the Year, nelle antologie Amazons I e Hecate's Cauldron ed ha scritto due romanzi per la DAW: Imaro e Quest for Cush. In questo momento lavora al terzo romanzo di Imaro. Il mio primo incontro con Charles Saunders è collegato ad un altro autore di questo volume, Charles de Lint, con il quale Saunders ha fondato l'ottima casa editrice Triskell Publications. Dopo tre o quattro anni, nacquero Dragonbane, curata da Saunders, Beyond the Fiels We Know, a cura di de Lint (alla quale abbiamo collaborato sia io che Diana Paxson), e le due riviste vennero poi riunite in Dragonfields. Saunders dice di possedere una kalimba, "ma non c'è nulla di magico nel suo suono" ed aggiunge una notazione storica: che le donne guerriere del Dahomey sono realmente esistite, e non si tratta di una tribù immaginaria, anzi forse erano addirittura le originarie Amazzoni. Tra le duecento storie e più che ho letto per questa antologia, "Le canzoni di Gimmile" è stata l'unica che ho praticamente accettato senza esitazioni. Noterete che inizia più o meno nello stesso modo del racconto di Janet Fox "Il cancello dei dannati", con una donna guerriera che nuota in un fiume e viene scorta da alcuni uomini che non fanno mistero delle loro intenzioni... ma credo che le due storie non potrebbero essere più dissimili. Le rive del fiume Kambi erano basse e nebbiose, affollate di cervi e di uccelli da guado e di alberi ricoperti da un fitto muschio verde. Dossouye, che una volta era una ahosi, una donna soldato del regno di Abomey, cavalcava verso il Kambi. Lentamente l'ahosi guidò il suo bufalo verso le sponde del fiume. Sapeva che il Kambi scorreva nel Mossi, un regno scarsamente popolato che confinava con l'Abomey. Tra le poche città del Mossi si stendevano miglia di savana punteggiata da macchie di bassi alberi. Dossouye guardò la luce del sole scintillare attraverso il velo di umida foschia che si alzava dal Kambi. «Gbo... fermati» ordinò, quando il bufalo giunse sulle sponde del fiume.
Alla vista dell'enorme bestia munita di corna, gli uccelli volarono via in nubi multicolori e i cervi fuggirono verso la protezione offerta dagli alberi. Il bufalo si fermò. Dossouye guardò al di là del fiume che scorreva pigro. «Che cosa facciamo adesso, Gbo?» mormorò. «Attraversiamo il fiume o continuiamo lungo la riva?» Il bufalo sbuffò e agitò le corna ricurve. Nella forma e nelle dimensioni, la cavalcatura di Dossouye non era molto diversa dal bufalo selvatico da cui erano discesi i suoi antenati molte generazioni prima. Anche se il carattere selvaggio era ora meno spiccato, il bufalo era un'arma oltre che una cavalcatura. Dossouye aveva chiamato il suo Gbo, che significava "protezione". Con un movimento fluido, l'ahosi smontò. La leggera armatura di cuoio si era incollata fastidiosamente alla pelle. Erano passati parecchi giorni dall'ultima volta che aveva avuto l'opportunità di fare un bagno. Facendo scorrere lo sguardo lungo la riva del fiume, non vide nessuna creatura più grande di una libellula. La prospettiva di potersi immergere nelle calde profondità del Kambi affrettò la sua decisione. «Attraverseremo il fiume, Gbo» disse, come se l'animale potesse capire le sue parole. «Ma prima ci divertiremo!» Così dicendo liberò il proprio corpo alto e snello dall'armatura e la depose sulla sponda del fiume insieme alla spada, lo scudo e la lancia. Sapendo che anche Gbo avrebbe preferito nuotare senza bardature, gli tolse la sella e le briglie. Il suo corpo nudo era tutto ossa e muscoli, con appena un accenno di fianchi e di seno. La pelle luccicava come raso color indaco, nera come il pelo del suo bufalo. Quando si tolse l'elmo, i capelli apparvero come una chioma aggrovigliata. Avanzò nell'acqua tiepida. Gbo si tuffò prima di lei, schizzandole in viso la schiuma del Kambi. Ridendo, Dossouye si immerse nel fiume. L'acqua era tanto limpida da permetterle di vedere le scaglie argentate dei pesci che si allontanavano guizzanti a causa della sua improvvisa intrusione. Dossouye tornò alla superficie, inspirò una boccata d'aria e si immerse di nuovo, nuotando verso il fondo melmoso del Kambi. Quando toccò il fondo con i piedi, scalciò per tornare alla superficie. All'improvviso, sentì un colpo ad una spalla, leggero, ma sufficiente a spostarla di lato. Per un momento, Dossouye fu colta dal panico, mentre l'aria le mancava nei polmoni. Poi vide una massa scura ed enorme galleggiare al suo fianco.
Gbo! Allora afferrò le corna e lo spinse verso la superficie. Con uno scatto potente, Gbo si slanciò verso l'alto, facendo quasi perdere la presa a Dossouye. In una cascata abbagliante, emersero in superficie. Sempre aggrappata alle corna del bufalo, Dossouye rise: per la prima volta si sentì libera dal velo di tristezza che l'aveva oppressa fin dal momento dell'amara partenza da Abomey. Pigramente, si distese sul dorso di Gbo mentre il bufalo cominciava a nuotare verso riva. Di colpo, Gbo si irrigidì; Dossouye sentì un fremito improvviso percorrere i muscoli poderosi che erano sotto il suo corpo. Strizzando gli occhi per liberarli dall'acqua, guardò verso riva... ed anche i suoi muscoli si tesero come quelli di Gbo. Sulla sponda del fiume c'erano due uomini armati, a cavallo. Le lance dei due intrusi erano puntate contro Dossouye e Gbo. Gli uomini indossavano larghi pantaloni di cotone serico. Sul capo avevano turbanti della stessa stoffa, mentre sul petto portavano solo una bandoliera decorata di ottone in cui erano infilate le spade ricurve del Mossi. Oltre le spade, avevano lance con la lama lunga e scudi di pelle di rinoceronte di forma rotonda ornati di borchie di ferro. Uno dei cavalieri aveva la barba, l'altro invece era glabro. Dossouye non vide altre differenze in quei visi magri e bruni come la terra. Gli occhi scuri fissavano direttamente i suoi. Sedevano sulle selle come animali da preda che contemplano le loro vittime. Dossouye riconobbe i cavalieri per quello che erano: daju, uomini d'arme nomadi, che a volte servivano come mercenari, anche se il più delle volte non erano che ladri saccheggiatori. I daju sciamavano come cani selvatici nelle terre aride che si stendevano tra le città del Mossi. Grazie alla fortuna e alla propria abilità, finora Dossouye era riuscita ad evitare spiacevoli incontri con i daju. Ora... la fortuna l'aveva abbandonata. Le sue armi e la corazza giacevano al di là dei cavalieri. Con il viso incorniciato dalle corna di Gbo, Dossouye era distesa immobile, e il sole faceva brillare le gocce d'acqua sulla sua pelle nuda. I due daju sorrisero... Dossouye strinse le ginocchia sulla schiena di Gbo e lentamente il bufalo sguazzò lungo il letto in pendenza del fiume. Il daju con la barba parlò in tono tagliente e le sue parole in Mossi non avevano alcun significato per Dossouye ma il gesto con la lancia che accompagnò la frase era inequivocabile. Il suo compagno sollevò la propria arma, piegando il braccio pronto
a lanciarla. Gbo continuò ad avanzare. Dossouye si appiattì sul dorso dell'animale, mentre la tensione le faceva irrigidire i lunghi muscoli della schiena e delle cosce. Mentre il bufalo si avvicinava, il daju barbuto ripeté il gesto, ma questa volta parlò in un abomeano confuso ma comprensibile; ordinava a Dossouye di smontare immediatamente. Sussurrando un ordine, Dossouye premette con forza l'alluce nel fianco destro di Gbo. Insieme si mossero con una rapidità incredibile, che colse di sorpresa persino gli astuti daju. Con gli zoccoli che sollevavano schizzi di fango dalla sponda del fiume, il bufalo si aprì la strada tra i due cavalli spaventati. Poi Gbo puntò a sinistra, agitando la testa cornuta come un gigantesco randello e colpendo in pieno il fianco dell'animale del cavaliere barbuto. Con un grido quasi umano, il cavallo crollò a terra, mentre il sangue scorreva da due ferite molto distanziate fra loro. Anche se il daju era riuscito a saltare prima che il cavallo cadesse, atterrò goffamente e giacque semistordito mentre Gbo incornava la bestia che scalciava e nitriva. All'inizio della carica di Gbo, Dossouye era scivolata sul fianco del bufalo. Quando Gbo colpì il cavallo del daju lei rimase per un attimo aggrappata al mantello scivoloso dell'animale con le dita delle mani e dei piedi. Stava giocando d'azzardo, sperando che l'attacco inaspettato disorientasse i daju abbastanza a lungo da permetterle di raggiungere le sue armi. Quando il cavallo cadde al suolo, Dossouye saltò via, atterrando sulla sponda del fiume con la stessa leggerezza di un gatto che salta da un albero. La fortuna era di nuovo con lei; il cavallo del secondo daju si era impennato e scalciava in aria, mentre il cavaliere cercava di controllarlo imprecando e tirando selvaggiamente le redini. Una rapida occhiata mostrò a Dossouye che nessun ostacolo si frapponeva fra lei e le sue armi. Mentre si lanciava verso di esse, urlò un altro ordine a Gbo che era dietro di lei. Un rumore di zoccoli tambureggiò alle sue spalle. Sempre correndo, Dossouye afferrò la spada e fece un giro su se stessa per affrontare il daju che si stava avventando contro di lei. Il guerriero senza barba caricò furiosamente, mentre maledizioni Mossi gli uscivano dalle labbra. Senza esitare, Dossouye piegò all'indietro il braccio e con la propria arma colpì in pieno il petto dell'animale che si avvicinava. Anche se la distanza non era grande, il colpo di frusta del braccio dell'ahosi mandò la punta della lancia a conficcarsi profondamente nella carne del destriero daju. In quella frazione di secondo che aveva avuto a
disposizione per decidere, Dossouye aveva scelto il bersaglio più grosso. Se avesse mirato all'uomo, questi avrebbe potuto schivare o deviare la lancia e poi avrebbe potuto facilmente ucciderla. Con un acuto nitrito di dolore, il cavallo cadde sulle ginocchia. L'arresto improvviso lanciò in aria il daju e lo mandò ad atterrare a pochi passi da Dossouye; mentre si chinava per prendere la spada, all'ahosi parve di vedere un bagliore dorato, un raggio di sole che dardeggiava dal corpo del daju mentre questi cadeva. La curiosità di Dossouye per quel bagliore durò solo un istante. Per salvare la propria vita, ora doveva muoversi con la stessa velocità di quando era sui campi di battaglia di Abomey. Con la spada saldamente stretta in mano, in due balzi felini raggiunse il daju caduto. Questi aveva perso la lancia e stava tentando freneticamente di estrarre la spada dal fodero, quando la lama di Dossouye gli penetrò alla base del cranio, uccidendolo all'istante. Distogliendo lo sguardo dal corpo del daju, Dossouye osservò la scena di quell'improvviso massacro. Il cavallo che aveva colpito con la lancia aveva raggiunto il suo padrone nella morte. La sua stessa caduta aveva fatto penetrare la lancia di Dossouye fino al cuore. Anche il destriero del daju barbuto era morto e il sangue continuava ad uscire dalle ferite inferte dalle corna. Il daju con la barba giaceva a faccia in giù nel fango. Gbo torreggiava sopra di lui, premendo un corno insanguinato sulla schiena del ladro. Il daju tremava visibilmente, rendendosi conto di essere vivo solo grazie all'ordine che lei aveva lanciato al bufalo. Poiché il daju parlava abomeano, Dossouye voleva interrogarlo. Senza il comando dell'ahosi, Gbo avrebbe calpestato l'uomo fino a ridurlo in una poltiglia irriconoscibile. Come una grande ed agile pantera, Dossouye si avvicinò con cautela al daju a terra. Sentiva ribollire la rabbia dentro di sé: la serenità che prima si era concessa, era scomparsa, lasciando le sue emozioni nude come il suo corpo. Raggiunto Gbo, Dossouye gli accarezzò un fianco, mormorandogli parole di elogio nell'orecchio. Ancora una volta, il bufalo era stato all'altezza del proprio nome. Dossouye gli diede un altro ordine e Gbo sollevò il corno dalla schiena del daju... ma di poco. Quando l'uomo cercò di alzarsi, la schiena batté contro le corna di Gbo. Immediatamente, si lasciò di nuovo cadere nella melma. Riuscì a voltare la testa quel tanto che bastava per guardare con un occhio solo l'ahosi in piedi accanto alla sua cavalcatura
con una smorfia sul viso. «Risparmiami» gracchiò il daju. Sbuffando con disprezzo, Dossouye si inginocchiò accanto alla testa dell'uomo. «Dov'è il resto dei tuoi cani?» chiese. «Da quello che ho sentito, voi daju viaggiate in branco.» «Solo... Mahadu e io» rispose esitante il daju. «Per piacere... dov'è il moso? L'aveva Mahadu...» «Che cos'è un moso?» «Un moso è... una figurina... in bronzo. Molto valore... lo dividerò... con te.» «So esattamente cosa volevi "dividere" con me!» scattò Dossouye, ma poi si ricordò del lampo brillante che aveva scorto quando il daju senza barba era caduto da cavallo. Di valore? «Non ho visto nessun moso» disse. «Ora dirò al mio bufalo di allontanarsi da te. Poi voglio che tu ti alzi e corra. Non voltarti indietro: non pensare neppure di ricuperare le tue armi. Voglio che tu scompaia dalla mia vista molto in fretta. Capito?» Il daju annuì con forza. Al comando di Dossouye, Gbo si allontanò dall'uomo sdraiato. Senza proferire parola, il daju si rimise in piedi e corse via senza voltarsi indietro. Scomparve rapidamente in un folto di alberi avvolti dalla foschia. All'ordine di Dossouye, Gbo si agitò come se questo fosse immobilizzato da una catena. Dossouye gli passò una mano lungo il collo e la schiena, calmandolo. Non avrebbe saputo spiegare perché aveva risparmiato il daju. Nell'esercito di Abomey, aveva ucciso a comando, disciplinata come lo era Gbo. Ora uccideva solo per proteggersi. Non provava rimorso per aver ammazzato il daju chiamato Mahadu, colpendolo alle spalle. Eppure aveva appena permesso di vivere ad un nemico ugualmente pericoloso. Forse si era stancata di dispensare morte. Impaziente, si riscosse da quello stato d'animo. Di nuovo le venne in mente il fuggevole riflesso che aveva colto qualche minuto prima. Un moso, aveva detto il daju. Di valore... Fu allora che udì quattro note musicali, limpide ed acute, dietro di sé. All'unisono, Dossouye e Gbo si girarono per affrontare quest'ultimo intruso. Un uomo solo era in piedi accanto al corpo di Mahadu e del suo cavallo. Ma questo non assomigliava ad un daju. In realtà, Dossouye non a-
veva mai incontrato uno come lui. Era una sinfonia di sfumature brune: la pelle di un intenso color tabacco, i pantaloni e la blusa aperta di una tonalità più tenue, quasi color ruggine, gli occhi del colore dell'argilla appena smossa. I capelli erano pettinati in trecce che gli arrivavano sulle spalle, ognuna intrecciata con fili di perline multicolori. Sotto le trecce, il viso ovale appariva aperto, amichevole, dominato dagli occhi caldi e da un sorriso rapido e sincero. Sul labbro superiore aveva baffi neri ed un accenno di barba sulle guance. Era un viso giovane: non poteva avere più delle venti piogge di Dossouye. Era snello come lei, ma non così alto. Tra le mani, lo straniero teneva lo strumento che aveva suonato le quattro note. Era una kalimba, una cassa armonica di legno, vuota all'interno, con otto tasti che producevano il suono battendo contro un bordo di metallo sollevato. Tenuto con entrambe le mani, le note venivano eseguite dal tocco delle dita del suonatore sui tasti. L'occhio esperto di Dossouye non vide nessuna arma. Ma più di una lama poteva nascondersi nelle pieghe della blusa dello straniero. Come se avesse colto quel pensiero, lui sorrise dolcemente. «Non intendevo spaventarti, ahosi» disse con voce gentile e sommessa. Il suo abomeano aveva un accento scandito, ma le sue parole erano come musica. «Ho udito il suono di una lotta mentre passavo» continuò. Con il pollice toccò uno dei tasti centrali della kalimba. Una nota profonda schizzò sulle sponde del fiume... sangue, morte. Gbo muggì e agitò le corna macchiate di sangue. La mano di Dossouye si contrasse sull'elsa della spada. «Ora vedo che la battaglia è finita; e certamente tu non hai nulla da temere da me.» Toccò un altro tasto. Una nota alta e melodiosa si innalzò nel cielo come un uccello... pace, gioia. Gbo muggì dolcemente come un giovenco al pascolo; Dossouye sorrise ed abbassò la lama. Erano passate tante pioggie dall'ultima volta che aveva conosciuto la serenità incarnata da quella singola nota. Ma era stata ingannata anche altre volte. «Chi sei?» chiese. «Sono Gimmile, un bela... un cantore» rispose lui sempre sorridendo. «Puoi posare la spada e vestirti, sai. Non ti farò del male. Anche se volessi, non credo che ne sarei in grado. Una ahosi abomeana, a quanto sembra,
vale due daju... e io certamente non sono un daju.» Dossouye sentì su di sé lo sguardo dell'uomo che indagava il suo corpo nudo. Sapeva di essere magra e sgraziata... ma non era questo che Gimmile vide. L'aveva osservata mentre si muoveva, aggraziata e micidiale come un grande gatto. Ora vide i lineamenti forti del suo viso, le profondità turbate degli occhi. Dossouye non si fidava di Gimmile. Ma aveva detto la verità quando aveva affermato di non poterle fare del male: non finché lei aveva una spada in mano e Gbo al suo fianco. «Tienilo d'occhio» disse al bufalo. Mentre Dossouye si dirigeva verso la sua armatura, Gbo affrontò il bela. Gimmile non trasalì alla vista della mole e della ferocia dell'animale di Dossouye; invece allungò un braccio e toccò il muso del bufalo. Vedendo il pericolo che il bela correva, Dossouye aprì la bocca per gridare l'ordine che avrebbe salvato Gimmile dall'incornata a cui stava inconsapevolmente andando incontro. Ma Gbo si limitò a sbuffare piano e permise a Gimmile di accarezzarlo. Mai, a memoria di Dossouye, un bufalo a cui era stato comandato di fare la guardia, si era lasciato toccare da un estraneo. Chiuse la bocca e cominciò ad infilarsi l'armatura. «Stavi per attraversare il Kambi quando i daju ti hanno attaccato, ahosi?» chiese Gimmile, mentre tirava gentilmente le orecchie di Gbo. «Il mio nome è Dossouye. E la risposta è sì.» «Bene, Dossouye, sembra che io sia in debito con te. Penso che quei daju avrebbero potuto essere un pericolo per me, se non fossi arrivata tu.» «Perché un pericolo?» chiese Dossouye guardandolo attentamente mentre si allacciava la corazza di cuoio. «Le canzoni di un bela possono essere... di valore» fu l'energica risposta di Gimmile. «Indirettamente, puoi avermi salvato la vita. La mia abitazione non è lontana da qui. Mi piacerebbe dividere le mie canzoni con te. Ho anche del cibo. Sono... sono rimasto solo molto a lungo.» Toccò un altro tasto della kalimba... un suono ossessionante, malinconico. Ed allora Dossouye seppe che i suoi sentimenti facevano eco a quelli di Gimmile. Il suo evitare qualunque contatto umano da quando aveva lasciato Abomey, aveva scavato una profonda solitudine dentro di lei: la sua anima era silenziosa, vuota. Guardò il bela; vide Gbo che si strofinava il muso sul palmo della mano: Gbo si fidava di Gimmile. Ma i sospetti continuavano ad insinuarsi nella
mente di Dossouye. Perché Gimmile era solo? Un cantore non avrebbe forse avuto bisogno di un pubblico, proprio come un soldato ha bisogno di una battaglia? E che cosa possedeva Gimmile, che avrebbe potuto avere un valore per dei ladri? Dì certo non le sue canzoni o la kalimba, si disse. All'improvviso Dossouye provò un tremendo desiderio di udire le canzoni di Gimmile, di parlare con lui, di toccarlo. Erano passate settimane da quando aveva incontrato una persona che non fosse una minaccia alla sua vita. I suoi sospetti persistevano, ma decise di non prestarvi attenzione. «Verrò con te» decise. «Ma non per molto.» Gimmile tolse la mano dal muso di Gbo e suonò un coro gioioso sulla kalimba. Cantò mentre Dossouye fissava la sella sul dorso massiccio del bufalo. Lei non capiva le parole Mossi della canzone, ma il suono della sua voce la blandiva mentre ripuliva dal sangue del daju la propria spada e le corna di Gbo. Poi salì in groppa al suo bufalo. Volgendo lo sguardo verso Gimmile, che aveva smesso di cantare, Dossouye provò l'impulso improvviso di piantare i talloni nei fianchi di Gbo e di attraversare di corsa il fiume... Gimmile alzò il braccio, aspettando che Dossouye lo aiutasse a salire sulla schiena del bufalo. C'era calma nei suoi occhi, e la promessa di conforto nel suo sorriso. Dossouye gli prese la mano e lo sollevò verso l'alto. Lui si sistemò davanti a lei. Erano entrambi tanto snelli che sulla sella c'era posto per tutti e due. Il suo tocco, la schiena di lui premuta contro il suo seno, il modo in cui si adattava al suo abbraccio mentre lei stringeva le redini di Gbo... la presenza del bela stava riempiendo un vuoto che finora Dossouye si era sforzata di ignorare. «Da che parte?» chiese. «Lungo la riva, verso il tramonto» la indirizzò Gimmile. Anche in preda a quelle emozioni che si erano risvegliate dentro di lei, Dossouye riuscì a notare che Gimmile aveva indicato una direzione opposta a quella presa dal daju. Eppure, mentre spronava Gbo, i suoi sospetti svanirono. E il ricordo della luce dardeggiante che il daju senza barba aveva fatto cadere svanì dalla sua mente come la nebbia del mattino. Un solitario pinnacolo di pietra si levava alto e incongruente al di sopra delle cime degli alberi. Era come se una divinità burlona avesse strappato quella guglia dalle rovine di pietra di Axum e l'avesse depositata a caso nel mezzo della foresta del Mossi. Intorno al picco di granito grigio, le liane e i rampicanti si avvolgevano come festoni formando gallerie e finestre verdi
intagliate nella pietra viva. Quella era l'abitazione di Gimmile. Dossouye si era sistemata su di una sedia di pietra ricoperta di stoffa imbottita, in una camera scavata al centro del pinnacolo. I mobili erano intagliati nella pietra. Intricati arazzi ravvivavano il grigiore delle pareti. Prima Dossouye aveva ammirato i saloni e le scale ricavati un po' ovunque nella roccia. Mentre finiva il pasto a base di banana bollita che Gimmile aveva preparato, Dossouye ricordò le storie che aveva udito a proposito delle città delle rocce del Dogon. Ma il Dogon era un paese desertico: in una terra di alberi come era il Mossi, un pinnacolo di pietra come la torre di Gimmile era un'anomalia. Durante il pranzo avevano parlato poco. Sembrava che Gimmile comunicasse più facilmente con la kalimba. Le melodie che si levavano dagli otto tasti avevano dissipato i suoi dubbi, che erano riaffiorati quando il bela aveva insistito perché Gbo venisse tenuto in un recinto di pietra alla base del pinnacolo. «Non vorrai che se ne vada» l'aveva ammonita. Dossouye sapeva che ci sarebbe voluto un elefante per far muovere Gbo dopo che lei gli aveva ordinato di rimanere in un determinato luogo. Ma Gimmile aveva suonato le sue canzoni suadenti, aveva sorriso in quel modo irresistibile e Dossouye aveva portato Gbo nel recinto fermandosi a guardare mentre, mostrando una forza simile alla sua, lui rimetteva al suo posto la sbarra di pietra del recinto. Continuò a suonare e sorrise accompagnando Dossouye lungo le scale serpeggianti sulle quali cadevano sottili lame di luce che entravano dalle piccole aperture per la ventilazione. Cantò per lei mentre faceva cuocere le banane da seme che aveva preso da un vaso in cui venivano conservate. Mentre lei mangiava, lui pizzicò la kalimba. Gimmile non mangiò nulla: Dossouye avrebbe voluto chiedergliene la ragione, ma non lo fece, perché era felice ed in pace con se stessa. Eppure... lei era ancora un'ahosi. Quando Gimmile portò via la tazza di legno in cui aveva mangiato, lei domandò bruscamente: «Gimmile, come mai tu, un cantore, vivi in una fortezza che farebbe invidia ad un re?» Il sorrise di Gimmile si spense. Per la prima volta, Dossouye vide nei suoi occhi il dolore. Si pentì immediatamente, ma ormai la domanda era stata fatta. «Mi dispiace» disse esitante, «tu mi hai offerto cibo e rifugio e io ti ho
chiesto qualcosa che non è affar mio.» «No» disse il bela, «tu hai il diritto di chiedermelo, hai il diritto di sapere.» «Sapere cosa?» Gimmile si sistemò a terra vicino ai suoi piedi e la guardò con gli occhi di un bambino. Ma la storia che raccontò non era quella di un bambino. Quando era un giovane bela alle prime armi, Gimmile era giunto alla corte di Konondo, re di Dedougou, una città-stato del Mossi. Per un capriccio, il re aveva permesso che il giovane bela si esibisse per lui. Tanta era la bravura di Gimmile con la voce e con la kalimba, che aveva suscitato l'invidia di Bankassi, il bela ufficiale di corte. Bankassi sussurrò parole velenose all'orecchio del re e Konondo giudicò offensive e irrispettose le canzoni di Gimmile, anche se in realtà non lo erano affatto. Quando Gimmile richiese al re il kwabo, il piccolo dono che ogni monarca fa tradizionalmente ai bela, Konondo ruggì: «Ti prendi gioco di me e poi osi chiedere il kwabo. Te lo darò io il kwabo! Guardie, prendete questo ribaldo, dategli cinquanta frustate e cacciatelo via da Dedougou!» Dibattendosi selvaggiamente, Gimmile venne trascinato via dalla sala del trono. Bankassi gongolò, poiché la sua posizione alla corte di Konondo non correva più pericolo. Un altro uomo avrebbe potuto morire per la crudele punizione di Konondo, ma l'odio bruciava profondo in Gimmile. L'odio lo tenne in vita mentre il sangue che scorreva dalla sua schiena lacerata macchiava il sentiero che egli seguiva incespicando mentre si allontanava da Dedougou. L'odio lo portò nel profondo di un'oasi proibita della foresta del Mossi, al tempio nascosto di Legba... (Dossouye spalancò gli occhi nell'udire il nome maledetto di Legba, il dio degli apostati e dei corrotti. Il suo culto, il suo stesso nome, erano stati da lungo tempo banditi dai regni che costeggiavano il Golfo di Otongi. Al nome di Legba, Dossouye si scostò da Gimmile.) In un'unica notte, amara e blasfema, Legba aveva soddisfatto la supplica di Gimmile; la baraka, un potere mistico che veniva dalla mano stessa del dio, si trasfuse nella kalimba di Gimmile... e invase la sua anima. Con le ferite miracolosamente rimarginate, e la mente desiderosa di vendetta, Gimmile era emerso dal tempio del male. Ora era più di un bela: era un portatore di baraka, un uomo da temere. In una notte senza luna, Gimmile si trovò fuori dalle mura di Dedougou.
Note aspre risuonarono dalla sua kalimba. E lui cantò... Il re di Dedougou è calvo come un uovo, il suo ventre è cadente come quello di un elefante, i suoi denti sono radi come quelli di una faraona, e il suo bela non ha voce... Alla corte di Konondo tutti gridarono d'orrore vedendo le ciocche di capelli del re cadere a terra una ad una. Konondo gridò di paura e di dolore vedendo i propri denti cadergli dalla bocca come noci scosse da un albero. Il dolore divenne un'agonia quando il suo ventre si distese, lacerando la stoffa delle vesti regali. Solo la voce del bela Bankassi non si unì al coro di terrore e sgomento che presto dilagò per tutta Dedougou. Mugolii strozzati e inumani uscirono dalla gola di Bankassi, e nient'altro. Gimmile aveva avuto la sua vendetta. Ma presto il bela imparò che la baraka, dono di Legba, non era una benedizione. Perché i doni di Legba avevano sempre un prezzo ed il prezzo di Legba era sempre una maledizione. Gimmile poteva ancora cantare le grandi gesta dei guerrieri del passato, le varie divinità e la creazione del mondo o il linguaggio segreto degli animali. Ma la maledizione che accompagnava la baraka di Gimmile era questa: le canzoni che cantava sui vivi, compreso se stesso, si avveravano! «E questa è una maledizione, Dossouye» disse Gimmile quando ebbe finito il racconto, e le sue dita rimasero immobili sulla kalimba. «La notizia di ciò che ero in grado di fare si sparse per tutto il Mossi. La gente mi cercava come gli avvoltoi cercano i cadaveri. Volevano che li cantassi ricchi, belli, coraggiosi o intelligenti. Io non volevo farlo; avevo solo voluto ripagare Konondo e Bankassi per il trattamento che mi avevano riservato. Ma la baraka era con me... una maledizione, che io non volevo. Uomini come i daju che hai ucciso, mi circondavano come locuste, cercando di costringermi a cantare per loro città d'oro. Invece io cantai per allontanare me stesso da tutti loro.» «E tu... hai cantato questa roccia, dove nessuna roccia del genere dovrebbe esistere?» chiese Dossouye con voce tesa per l'apprensione. «Sì» disse Gimmile. «Io canto e Legba provvede...» «Legba ti ha mandato questa torre» disse Dossouye lentamente, cominciando a capire mentre Gimmile si alzava in piedi. Gimmile annuì. «E Legba ha mandato anche...»
«Te» confermò Gimmile. Il suo sorriso rimase caldo e sincero, per nulla sinistro, mentre le sue dita volavano sui tasti della kalimba e lui cominciava a cantare... La mano di Dossouye si chiuse sull'impugnatura della spada. Voleva fare a pezzi la kalimba per far tacere il suo incantesimo... ma era troppo tardi per farlo. Le dita di Gimmile volarono veloci sulla tastiera. La mano di Dossouye si allontanò dalla spada; slacciò il fermaglio della cintura che le legava la spada al torace; con un tonfo lieve, il fodero urtò il pavimento ricoperto di stoffa. Gimmile posò la kalimba su di una tavola lì accanto e parlò con la stessa voce che Dossouye usava quando dava un comando a Gbo. Poi le si avvicinò e lo strumento continuò a suonare, anche se Gimmile non lo toccava più. Dossouye fece poca attenzione a quest'ultima manifestazione della baraka di Gimmile. Prendendole le mani, Gimmile fece alzare l'ahosi: lei non gli resistette. Gimmile le cantò il suo amore mentre con le dita armeggiava con i lacci della corazza. Celebrò con il canto lo splendore dei suoi occhi color onice. Lei scostò le sue mani e, per la seconda volta in quel giorno, si tolse l'armatura. Lui le modellò il corpo snello con dolci parole che le mostrarono la sua vera bellezza, quella bellezza che lei aveva celato a se stessa per paura che gli altri la convincessero che in realtà non esisteva. Gli abiti scivolarono dal corpo di Gimmile come foglie da un albero battuto dal vento. Magro e asciutto, il corpo del cantore era una versione maschile di quello di Dossouye. Cantando, la strinse in un abbraccio. Mentre Gimmile la portava verso un letto di pietra reso morbido da molti strati di soffici tessuti, l'ahosi che era in Dossouye si ribellò protestando, ma senza successo. Come ahosi aveva conosciuto l'amore, ma sempre con altre donne soldato, mai con un uomo. Accettare il seme di un uomo significava rischiare la gravidanza, ed un'ahosi incinta era un'ahosi morta. Le ahosi erano le spose del re di Abomey. Il re non le toccava mai e per qualunque altro uomo che osasse farlo sarebbe stata morte sicura. Quelle remore non significavano nulla, ora, mentre Gimmile cantava. Le dita di Dossouye giocherellarono con le perline intrecciate nei capelli di Gimmile. La sua bocca tracciava cerchi umidi e roventi sul petto e sulle spalle di lui. Solo quando la adagiò sul letto, Gimmile smise di cantare. Poi la canzone divenne di entrambi, non solo sua, ed essi la cantarono insieme.
E quando i loro corpi e le loro bocche si incontrarono, Gimmile non ebbe più bisogno degli insidiosi poteri della baraka di Legba. Ma la kalimba continuò a suonare. D'improvviso, a disagio, Dossouye si svegliò. Un odore di muffa le colpì le narici. Qualcosa di appuntito le premeva sulla gola. Spalancò le palpebre. La luce nella stanza di Gimmile era fioca: Dossouye era sdraiata sul dorso, con la pelle nuda che sfregava la ruvida superficie della pietra. Il suo sguardo si spostò verso l'alto, lungo un oggetto di acciaio brillante e ricurvo... una spada! Allora la mente e la vista si misero a fuoco istantaneamente, mentre i ricordi del giorno e della notte precedente che ancora indugiavano vennero prontamente allontanati, mentre fissava lo sguardo sul daju barbuto a cui lei aveva risparmiato la vita. «Dov'è il moso?» domandò il daju. «Lo hai tu... lo so.» Dossouye non capiva di che cosa parlasse. Si spostò un poco, allontanando la gola dalla punta della spada. Qualcosa le si conficcò sotto la scapola sinistra. Ignorando il daju, si voltò facendo scivolare la mano sotto la spalla e afferrò un piccolo oggetto dai bordi appuntiti. Si sollevò su di un gomito e osservò la cosa che aveva in mano. Era una figurina scolpita nell'ottone, alta non più di dieci centimetri, raffigurante un bela che suonava una kalimba. Capelli intrecciati di perline... un viso aperto, sorridente... ogni dettaglio era stato colto alla perfezione dall'ignoto artista. La gioia che aveva provato la notte precedente e la paura che stava cominciando a provare ora erano secondarie rispetto alla fitta di tristezza che provò nel riconoscere Gimmile in quel minuscolo viso di ottone. «Quello è... moso!» gridò eccitato il daju. Con avidità si sporse verso la figurina. Ignorando la spada del daju, Dossouye sottrasse il moso dalle mani del ladro. Rapidamente, i suoi occhi ispezionarono la stanza. Con un fremito di orrore, si accorse di essere sdraiata sul nudo pavimento di pietra vicino ad un letto in rovina. «Ahh!» scattò il daju, «Tu sai come ridare vita a... un moso. Legba ha... trasformato Gimmile in moso... come prezzo per la baraka. Ma il moso... può ritornare in vita... e cantare... rendendo veri i desideri. Mahadu ed io... trovammo il moso qui vicino... Non riuscimmo a... riportarlo in vita. Stavamo portando il moso ad un uomo-baraka, ma poi abbiamo visto te. O-
ra... tu devi dire come riportare in vita... moso. Dillo e potrei... lasciarti vivere.» Dossouye levò lo sguardo sul daju. Cupidigia e crudeltà trasparivano su quel viso volpino, mentre la punta della spada era sospesa a poca distanza dalla sua gola. E lei non aveva la più pallida idea di come poter far rivivere Gimmile. Con velocità impressionante, lanciò il moso al di là del letto distrutto; la figurina rimbalzò su di uno spuntone di roccia e scomparve. Con un'imprecazione strozzata, il daju guardò il punto in cui era scomparso il bottino, diméntico per un istante della sua prigioniera. Dossouye spostò il braccio del daju che reggeva la spada e con il tallone lo colpì al ginocchio. Gridando di dolore, il daju barcollò, mentre la spada gli cadeva di mano. Dossouye si rialzò rapidamente. Aggirando il daju, si tuffò verso la sua spada ed una pioggia di stelle infuocate le esplosero davanti agli occhi quando lo stivale del daju la colpì alla tempia. Dossouye cadde pesantemente, rotolò e rimase a terra indifesa, sdraiata sulla schiena, e assalita da ondate di nausea. Ripresa la spada, il daju le si avvicinò zoppicando, con il viso deformato dall'odio. «Io porterò... il moso in vita... senza di te» ringhiò. «Ora... cagna abomeana... muori!» Sollevò la lama ricurva; Dossouye giaceva intontita e inerme, senza una spada, e neppure la sua velocità di ahosi ben addestrata poteva salvarla, ora. Si irrigidì per ricevere il colpo che l'avrebbe uccisa. Il daju abbassò l'arma, ma prima che questa raggiungesse il petto di Dossouye, una figura vestita di bruno si frappose sulla traiettoria della lama. Il metallo morse la carne, una voce gridò di dolore straziante... e Gimmile giacque a terra tra Dossouye e il daju. Il sangue sgorgava da una ferita che gli squarciava il fianco. Il daju fissò Gimmile a bocca aperta, con gli occhi stralunati per l'incredulità e il terrore. Dossouye, pervasa da una furia belluina, balzò in piedi, strappò la spada dalla debole stretta del daju e affondò tanto profondamente la lama nella carne, che la punta perforò anche la schiena in una pioggia di sangue. Senza un suono, né un mutamento nell'espressione sconvolta che aveva sul viso, il daju si accasciò sul pavimento. La morte lo raggiunse più rapidamente di quanto avrebbe meritato. Dossouye si inginocchiò accanto a Gimmile. Il bela giaceva a faccia in
giù, immobile. Dolcemente, Dossouye lo girò, accogliendo in grembo quella testa dai capelli intrecciati. Anche se la sua vita se ne andava con il rivolo scarlatto che sgorgava dal suo fianco, il viso di Gimmile non tradiva dolore. Le mani stringevano la kalimba, ma lo strumento era rotto e non avrebbe suonato mai più. «Io non ti ho mai mentito, Dossouye» disse Gimmile, con quella voce ancora musicale. «Ma non ti ho detto tutto. Sono trecento piogge che il re di Dedougou è morto. Ed anch'io. Dopo aver cantato la mia vendetta contro Konondo e Bankassi, e dopo aver cantato questa torre per sfuggire a coloro che volevano usarmi, la verità della maledizione di Legba divenne chiara. Sarei stato per sempre un moso, una cosa di metallo senza vita. Solo le grandi emozioni, gioia, odio, amore, dolore, possono ridarmi la vita. Ma quella vita non dura mai molto.» "È stata la tua rabbia contro i daju che mi avevano rubato a riportarmi in vita vicino al fiume. Ti vidi... ti desiderai, proprio come ti desideravano i daju. La baraka di Legba fece sì che tu fossi mia. Vorrei... non aver avuto bisogno della baraka per avere il tuo amore. Ora... la kalimba è rotta, e la baraka se n'è andata da me. La sento scorrere via con il mio sangue. Questa volta, non ritornerò in vita." Dossouye chinò il capo e chiuse gli occhi. Non voleva vedere o sentire altro, non avrebbe mai più voluto vedere e sentire nulla. «Dossouye.» La voce del bela non aveva più alcun effetto magico, ora, ma Dossouye aprì gli occhi e guardò in quelli di Gimmile. In quelle profondità brune come la terra non c'era né inganno né paura: solo rassegnazione... e pace. «Conosco i tuoi pensieri, Dossouye. Tu porti il seme di... un fantasma. Non ci sarà alcun figlio dentro di te. Ora, ti prego, allontanati da me. Non voglio che tu mi veda morire.» Chiuse gli occhi. Dossouye gli toccò le guance e le labbra. Poi si alzò; il sangue di Gimmile le aveva macchiato le cosce nude. Con una fitta di dolore, tornarono i ricordi che la lotta con il daju aveva allontanato. Anche mentre fissava con struggimento i resti ricoperti di polvere degli arredi della stanza di Gimmile, Dossouye ricordava il suo calore, la sua gentilezza, l'amore che avevano condiviso troppo brevemente. I ricordi le infiammarono gli occhi. Dossouye e Gbo stavano in silenzio presso le rive del Kambi. Il sole era sorto e tramontato una sola volta da quando avevano visto la bruma alzarsi
dal fiume. Dossouye accarezzò il fianco dì Gbo, grata che Gimmile lo avesse chiuso nel recinto la sera prima. Per quanto il bufalo fosse un animale formidabile, il daju avrebbe anche potuto ferirlo con un colpo fortunato di spada o di lancia. Nella mano che teneva la spada, Dossouye aveva la figurina di ottone di un bela con la kalimba rotta. Macchie nere gocciolavano come sangue lungo il fianco di metallo del moso. «Non hai mai avuto bisogno di Legba, Gimmile» mormorò Dossouye con tristezza. «Avresti potuto cantare la tua vendetta in altre città e tutti i re del Mossi avrebbero riso della meschinità di Konondo e quelle risa sarebbero arrivate fino a Dedougou. L'asprezza delle tue canzoni sarebbe sopravvissuta molto più a lungo della crudeltà delle sue frustate.» Strinse il moso nella sua mano. «Non avevi bisogno di Legba neppure con me, Gimmile.» Sollevando il braccio all'indietro, Dossouye lanciò il moso nel Kambi. La figura si inabissò con uno spruzzo minuscolo come l'inveire di un uomo e di una donna contro gli dèi. Montando in groppa a Gbo, Dossouye lo spinse nell'acqua. Ora avrebbe ripreso a guadare il fiume dove era stata interrotta il giorno prima. La sua strada non portava da nessuna parte. Ma Gimmile cantava nella sua anima. Potete leggere a pagina 380 un'altra avventura di Dossouye, "La maschera di Shiminege" (N.d.R.) Titolo originale: Gimmile's Songs Traduzione di Maria Cristina Pietri LA VALLE DEL TROLL di Charles de Lint Charles de Lint racconta di aver passato la vita vagabondando da un paese all'altro: nato in Olanda, da una famiglia con antenati olandesi, spagnoli, francesi e giapponesi, ha vissuto un po' dovunque, dalla Francia alla Turchia, ma circa dieci anni fa si è stabilito in Canada, "con un 'infinità di libri ed un gatto arancione di nome Gurgi". Nell'introduzione ad un altro racconto di questa antologia, ho menzionato il suo legame con la
Triskell Press, una casa editrice di piccole dimensioni ma di grande livello culturale e professionale, e l'amicizia con Charles Saunders. I due protagonisti di questa storia, la spadaccina Aynber e il suo compagno, il mago Thorn Hawkwood, erano già comparsi su Dark Fantasy, una piccola ma notevole rivista di fantasy pubblicata da Gene Day, e su Sorcerer's Apprentice, a cura di Liz Danforth. Dell'eroina e del suo amico, de Lint afferma che "ci sono in gestazione un altro paio di storie" ed aggiunge che spera di poterle magari riunire in un romanzo. Lo speriamo anche noi. De Lint mi ha anche pregato di aggiungere questa piccola nota: " "La valle del Troll" fu acquistato nel 1978, subito dopo essere stato scritto, da Gene Day della Shadow Press, ma poi, al momento della morte prematura e sfortunata di Gene, l'opera si è ritrovata nuovamente a vagare in cerca di pubblicazione. Mi domandavo se non vi sarebbe dispiaciuto dedicare il racconto a Gene, dal momento che fu lui il primo ad acquistare il racconto di Aynber tanti anni fa: un uomo meraviglioso, che ci mancherà per la sua arte e soprattutto per essere stato un individuo straordinario". Poiché fu lui il primo a pubblicare Aynber e Thorn Hawkwood, siamo lieti ora di dedicare questa avventura della coppia alla sua memoria. «Hanno due ore di vantaggio su di noi, Hawkwood, forse tre» disse Aynber. Sollevò gli occhi dal sentiero, spinse indietro il cappello e si asciugò la fronte. «Ti dico» replicò Hawkwood al di sopra del sordo scalpiccio degli zoccoli dei cavalli, «che dovremmo cercare un tesoro, non qualche insignificante taglia.» «Non parliamo più di tesori.» Scosse il capo con decisione. «Abbiamo la certezza di mille pezzi d'oro sulla testa di Guil, con un altro centinaio per ognuno dei suoi uomini. Dannazione! L'ultima caccia ad un tesoro a cui mi hai costretta, per poco non mi è costata la vita...» «Ma pensa al tesoro» continuò imperterrito lui. «Montagne d'oro, cacciatrice! Più di quanto potremmo spendere in una dozzina di vite.» Aynber sospirò. Le dissertazioni del suo compagno le erano ormai diventate familiari nelle ultime due settimane in cui avevano cavalcato strenuamente in quelle lande desolate, seguendo la pista del bandito Guil e della sua banda. Si rilassò sulla sella e sfiorò con un dito una sottile cicatrice sulla guancia. Certamente gli dèi avrebbero avuto pietà di lei e ad Hawkwood sarebbe venuta la laringite o magari gli sarebbe caduta la lin-
gua. Lanciò un'occhiata speranzosa verso di lui. Sotto la falda del cappello, la chioma di Aynber aveva il colore del grano maturo ed incorniciava un viso ovale dalle labbra piene e dagli occhi distanziati, per poi ricadere sciolta sulla schiena. Portava una casacca di camoscio, con pantaloni anch'essi di pelle di camoscio, lunghi fino al ginocchio, ma quell'abbigliamento non nascondeva le curve gentili del seno e dei fianchi. Sopra portava un tabarro di lana pesante, mentre dalla cintura pendevano un pugnale, una lunga spada sottile ed un sacchetto di pelle che conteneva mezza dozzina di lessen-yaln, le stelle della morte degli Elfi, piccoli dischi a cinque punte in argento. «Gioielli con cui potremmo comperare un regno» stava dicendo Hawkwood. «Sì, e poi oro ed argento in grande quantità...» «No, no» fece irritata Aynber aggrottando la fronte. Gli abiti di lui erano sobri, di colore grigio e nero. Aveva i capelli neri, il naso affilato, zigomi alti ed un ciuffo di baffi che, ogni volta che parlava, fremevano come quelli di un gatto. Sotto il piccolo cappello a punta, gli occhi, due fessure di un azzurro intenso, brillavano di inconfondibile passione per le ricchezze di cui stava vagheggiando. «È una maledetta strada che non finisce mai» aggiunse lei, «attraverso terre così incivili, che non ho ancora visto una taverna, né bevuto qualcosa da quando abbiamo lasciato Calthoren. E per quello che riguarda il tuo tesoro, non ti sembra un tantino strano che tutto quello che dobbiamo fare sia di arrivare e prendercelo?» «Be', così ha detto il vecchio Grimble» replicò Hawkwood, «e in tutti gli anni da quando lo conosco non mi ha mai ingannato.» «Sì, lo dici tu. Allora, se è così semplice, perché non ha mosso il suo grasso sedere e non è venuto lui a scarpinare fin qui, eh?» «Aynber, Aynber... è un vecchio e, al contrario di noi, non è adatto alla vita dura. E poi, in cambio della mappa, gli ho promesso un terzo...» «Tu cosa?» La voce aveva cominciato ad assumere un tono decisamente irritato. Conoscendo fin troppo bene il suo brutto carattere, Hawkwood la ignorò, fischiettando un motivo stonato tra i denti. «Hawkwood...» cominciò lei minacciosa. «Davvero una campagna deliziosa, non credi?» domandò lui con un sorriso. «Mi ricorda la mia terra, davvero, anche se è un po' più selvaggia e certo non così ospitale. Sst! Che cos'è quello?» Indicò le ombre alla base di un vecchio frassino che si tendeva precario
sulla strada. Aynber seguì il dito con gli occhi, mentre una mano le correva all'elsa della spada, quando un grosso coniglio selvatico spuntò dall'ombra. Lanciò un'occhiata ai due, con le orecchie che fremevano, e poi si allontanò a grandi balzi. Hawkwood rise. «Un terzo non è molto, davvero» disse. Aynber tolse la mano dalla spada e lo guardò furente. «Ammettendo di cercare il tesoro, cosa che non facciamo, e ammettendo di trovarlo, il che non sarà, puoi pensare anche solo per un momento che lo dividerei con quel rospo grasso e ridacchiante? No, non mi caccerò in un'impresa da sciocchi. La taglia di Guil è più che sufficiente per me, grazie tante.» Hawkwood non replicò. *
*
*
Il mattino seguente, dopo aver fatto riposare i cavalli, proseguirono sulle tracce dei banditi. Aynber si piegò in avanti, appoggiando il palmo delle mani sul pomo della sella. «Si sono divisi» disse. «Guil e quello con la cavalla ferrata male hanno seguito la strada, mentre un altro ha tagliato per i campi in questo punto.» Parlando, indicava le tracce con un dito e con gli occhi scrutava il bordo della strada. «Ah, e gli altri due si sono diretti a sud. Be', è Guil che voglio.» Diede uno strattone alle redini e la sua cavalcatura fece un balzo in avanti; Hawkwood la seguì borbottando. La strada si inoltrava attraverso boschetti di faggi grigi, fiancheggiati da fitti cespugli di biancospino e di erica ed infine raggiungeva la cima di una collina. Di lì la strada conduceva in una piccola valle. In fondo ad essa scorreva un fiume profondo anche se non molto ampio, che la tagliava come una ferita per tutta la lunghezza. Un ponte di legno tenuto insieme da grosse funi attraversava il fiume ed accanto ad esso c'era una rozza capanna di pietra e piote. «È questa!» gridò Hawkwood. Aynber si voltò sulla sella e lo vide armeggiare nel sacco. Dopo un attimo era occupato a scrutare attentamente una mappa disegnata su di un rotolo di pelle animale, i cui lembi continuavano ad arrotolarsi. Borbottò fra di sé mentre lottava con gli angoli della pergamena. Alla fine sollevò lo sguardo e disse: «Combacia con la mappa, vedi? Be', a parte il ponte. De-
vono averlo costruito da poco, o almeno dopo che è stata disegnata la mappa.» Aynber si avvicinò con il cavallo per poter osservare la mappa. «È proprio così» rifletté. «Mi domando chi viva qui.» Hawkwood si schermò gli occhi con una mano per vedere meglio. «Ci sono tante di quelle macerie intorno... scommetto che sono almeno cinque anni che qui non ci viene più nessuno... a parte... no!» Si voltò verso Aynber, con l'angoscia chiaramente dipinta in viso. «Credi che Guil sia stato qui prima di noi ed abbia preso il tesoro?» «Be', la sua pista conduce là e se non l'ha preso lui, sono sicura che chiunque sia giunto qui prima di noi ci ha provato.» «Senza la mappa?» chiese Hawkwood sdegnato, ritrovando il controllo. «Avanti, andiamo.» Piantò i tacchi nei fianchi del cavallo e si avviò al trotto. Aynber scosse la testa, seguendolo ad andatura più moderata. La capanna poteva anche essere un rifugio per fuorilegge braccati. Sì, e i cespugli che crescevano a fianco della strada erano abbastanza alti e fitti da nascondere un'imboscata. «Sembra un tantino precario» commentò Hawkwood quando lei lo raggiunse nei pressi del ponte. Due spesse funi, legate intorno a due ceppi d'albero erano tutto ciò che teneva ancorata quella struttura mal costruita. «Ma sono sicuro che reggerà il nostro peso. Vedi là?» Indicò la riva opposta dove una piccola apertura si stagliava nera contro il granito grigio della roccia, proprio sopra il pelo dell'acqua. «Quella deve essere la caverna indicata nella mappa.» Mentre lui cominciava ad attraversare, Aynber indugiò nei pressi, ispezionando ancora una volta la capanna deserta e il terreno intorno. C'era qualcosa di strano nell'aria che non la convinceva, un elemento intangibile che non riusciva ad identificare. Rinunciando, sospirò e si accinse a seguire Thorn, quando improvvisamente lo vide: un lungo braccio rugoso che si insinuava da sotto il ponte, protendendosi per afferrare la zampa del cavallo di Hawkwood. «Hawkwood! Attento!» Lui si voltò sorridente e la vide mentre indicava il lato del ponte. «Oh, no!» replicò allegro, «non mi inganni così facilmente.» Ricordando lo spavento di Aynber del giorno prima davanti al coniglio selvatico, scosse il capo di fronte ad un tentativo tanto palese di prendersi una rivincita. Il suo cavallo nitrì, interrompendo le sue fantasticherie. Spalancando la bocca per lo stupore, sentì che la cavalcatura gli veniva levata da sotto il cor-
po. Cadendo all'indietro, vide un enorme viso che lo fissava con una smorfia maligna: con una mano teneva il cavallo, che nitriva di terrore, mentre l'altra si stava protendendo verso di lui. «Un orco!» Indietreggiando di scatto, quasi cadde dall'altra parte del ponte. Con movimenti confusi dettati dal panico, tornò correndo verso il punto in cui Aynber era ferma ad aspettare. Una volta là, si voltò indietro e vide il cavallo che veniva trascinato giù dal ponte, con le zampe che si agitavano furiosamente nel tentativo di sfuggire al suo catturatore. «No, credo che sia un troll» disse Aynber osservando la figura ansimante al suo fianco dall'alto della sella. «Ma il mio cavallo...» «Perduto, direi, o grande Thorn Hawkwood, potentissimo mago, fierissimo guerriero» rispose Aynber con una risata di scherno. «Ed ora? Hai qualche incantesimo per sistemare quel mostro? O magari avanzi e lo trafiggi con un colpo della tua infallibile spada?» «Al diavolo il troll! Che ne è del mio cavallo?» «Ah, ma con il tesoro del troll potrai comperarti un'intera scuderia di nobili stalloni. Tutto quello che devi fare è entrare come se niente fosse e prenderlo.» Hawkwood tacque per un momento. «Penso che dovremo scordarci del tesoro» mormorò alla fine. «Ho sentito delle storie a proposito dell'oro dei troll. È maledetto, dicono. Ti fa venire le verruche, ti tramuta in fango e...» «Sembra che alla fin fine ci sia un tesoro» lo interruppe la sua compagna. «Ed io penso che sia ora di studiare un piano per prenderlo.» *
*
*
Più tardi, mentre riposavano in un boschetto di betulle ed aceri sulla cresta della collina dalla quale avevano proseguito per la valle del troll, Hawkwood sentì rinascere il proprio entusiasmo ed anche un po' di modestia. Il fatto che ora anche Aynber fosse davvero interessata al tesoro era per lui un altro motivo di orgoglio. «Appena il mio incantesimo avrà il suo effetto - e, aggiungo, è un incantesimo molto difficile che solo i più grandi iniziati potrebbero tentare - tu ti avvicinerai alla caverna del troll, scavalcherai in silenzio il suo corpo addormentato, e tornerai carico di gemme ed oro!»
«Direi che il tuo piano ha un piccolo punto debole» ribatté Aynber, seguendo distrattamente con un dito la linea della cicatrice sulla guancia mentre parlava. «Generalmente, i tuoi incantesimi hanno la tendenza a non funzionare affatto o a produrre degli effetti collaterali: normalmente su di me, se non sbaglio. Come quella volta nelle Paludi della Morte vicino a Franwath, quando dovevi trasformare una lucertola gigante in un tenero uccellino e il mio...» «Questa è una cosa diversa. È un incantesimo tra i più semplici, che anche un apprendista potrebbe tentare senza difficoltà.» «Ah» fece Aynber sorridendo. «In questo caso...» Hawkwood aggrottò la fronte e borbottò qualcosa di inudibile sotto i baffi. Aynber era in piedi sul bordo della collina e guardava verso Hawkwood che stava estraendo dalla sua sacca da viaggio fialette e bustine con strane polveri, disponendo il tutto ordinatamente davanti ad un piccolo fuoco. Trasse un respiro profondo e si levò il tabarro e gli stivali. Sopra di essi mise la spada e il cappello, e si legò alla cintura un sacco nel quale raccogliere l'ipotetico tesoro. Con un'ultima occhiata ad Hawkwood, oltrepassò il bordo della fenditura. Con circospezione si incamminò verso il fiume. Giunta sulla sponda, per rassicurarsi batté sul sacchetto di lessen-yaln, controllò il legaccio che teneva assicurato il pugnale e si tuffò. L'impatto con l'acqua fredda del fiume le tolse il fiato, ma presto lo sforzo di nuotare la riscaldò. Giunta davanti all'imboccatura della caverna, si issò tra le rocce con gli abiti gocciolanti. Si strizzò l'acqua dai capelli rivolgendo di nuovo lo sguardo al luogo in cui sedeva Hawkwood intento ad approntare il suo incantesimo. Quando lui le fece un cenno fiducioso con la mano, Aynber si voltò di nuovo verso l'ingresso della caverna e, piegando la testa, entrò. Era appena scomparsa alla vista, quando una grande nuvola di fumo verdastro si levò dal fuoco di Hawkwood. Quando gli turbinò intorno, lui si accasciò in avanti, rischiando di cadere nel fuoco, e giacque profondamente addormentato sull'erba. Dentro la caverna era buio pesto ed umido, con un fetido odore di escrementi di troll che la fecero boccheggiare. Una torcia le avrebbe fatto comodo e si maledisse per non averci pensato prima. Sciogliendo il nodo del pugnale, prese una stella della morte dal sacchetto e si incamminò, sfiorando con la punta delle dita la superficie viscida della parete della galleria. Lentamente, avanzò.
Maledizione! pensò mentre avanzava, mi sento accapponare la pelle! I ricordi le affollarono la mente, interferendo con i suoi sensi che avrebbero dovuto avvertirla della presenza del troll. La caccia agli Yarg nell'oscura boscaglia sopra le brughiere di Boscawen si sovrapponeva alle immagini di decine di altre battaglie e scaramucce. Sì, e quella volta quando gli abitanti delle paludi si erano sollevati contro la gente del suo clan ed il giovane Kalin era stato ucciso. Oh, Kalin... All'improvviso inciampò contro qualcosa che giaceva di traverso sul sentiero. Fece un balzo indietro, sguainando il pugnale e tenendo pronti i lessen-yaln: rimase immobile, cercando di calmare il flusso di adrenalina che la scuoteva. Non udiva altro che il suono del proprio respiro affannoso. Con cautela, fece un passo in avanti e con mani tremanti toccò la cosa davanti a sé. Era il troll e, per tutti i miracoli degli dèi, stava dormendo. Una volta tanto, uno degli incantesimi di Hawkwood aveva funzionato. Ancora scossa, scavalcò la figura addormentata e si ritrovò ad immergere il piede in quelli che dovevano essere i resti del cavallo di Hawkwood. Un'ondata di nausea le salì dalla bocca dello stomaco e si sentì male. Proseguì rabbrividendo, la gola piena dell'acre sapore della bile ed incespicò in un mucchio di ossa. Il rumore sembrò sollevare un enorme frastuono nello spazio angusto della galleria. Aynber rimase immobile fin quando non fu certa che il troll non si fosse svegliato. Quando non le giunse nessun suono dal luogo in cui era sdraiato, trasse un sospiro di sollievo e proseguì. Mentre la sua schiena scompariva dietro l'angolo, nella faccia immobile del troll un occhio luccicante si aprì. Con una larga smorfia sorridente, si alzò in silenzio e la seguì. La strada che Aynber stava seguendo cominciò ad inclinarsi verso il basso. Il fondo della galleria divenne sempre più fangoso e cedevole tanto che i suoi piedi nudi vi sprofondavano, ed ogni volta che li sollevava, un lieve risucchio echeggiava sordo tutt'intorno. Tremò al pensiero delle pallide sanguisughe o di altri animali viscidi che potevano celarsi nel fango e... quello era forse il rumore di qualcuno che si trascinava nella mota dietro di lei? Si fermò per ascoltare. Alzando le spalle, lo attribuì all'eco dei propri passi e proseguì. Di fronte a lei, una pallida luce dorata rischiarava la galleria, che fino a quel momento era stata immersa nella più totale oscurità. Aynber sorrise tra sé mentre la strada diventava più visibile. A breve distanza riusciva a distinguere i riflessi di una luce tenue che poteva solo essere il tesoro. Al-
lora c'era davvero qualcosa. Non solo il suo incantesimo aveva funzionato, ma per una volta anche le informazioni di Hawkwood erano esatte. Quando entrò nella stanza, il suo sorriso si allargò. Poteva anche avere le pareti, il soffitto e il pavimento ricoperti di fango, ma era piena di tali e tante ricchezze che rimase a bocca aperta per la gioia. Si aggirò per la stanza, sollevando qui una collana d'oro tempestata di zaffiri e giade, là un diadema con un enorme brillante, qua una coppa finemente cesellata in un metallo sconosciuto e tempestata di pietre preziose di inestimabile valore. Dappertutto luccicavano e splendevano monete d'oro, d'argento, di rame, alcune risalenti almeno ad un secolo prima. Ne trovò persino una con l'effigie di Lord Tanlan, il fondatore di Calthoren agli albori dei Regni Orientali. Aynber riempì il sacco che aveva alla cintura più in fretta che poté. Sapendo bene che ci sarebbe voluta una vita per portare via tutto il tesoro, si impadronì solo dei pezzi migliori. Era così intenta nel suo lavoro, che quasi non si accorse del lieve suono di risucchio, come un piede pesante che venisse sollevato dal fango. Quando se ne rese conto, un brivido le corse lungo la spina dorsale. Lentamente si girò e vide il troll sulla soglia della camera, stagliato nella luce fosforescente della stanza del tesoro contro lo sfondo nero della galleria. «Garna ti ha preso, fanciulla dai capelli biondi» disse con voce maligna, rauca e profonda per lo scarso uso. Aynber arretrò davanti alla sagoma mostruosa che avanzava verso di lei. Occhi rossi e minacciosi brillavano senza ammiccare, enormi in quel viso dalle fattezze contorte, e denti gialli balenavano tra le ciocche arruffate della barba. «Garna ti vuole» ridacchiò di nuovo. Il troll fece un passo avanti e Aynber ne fece uno indietro, ma si ritrovò con la schiena contro le pareti viscide e incrostate della stanza e non poté più arretrare. Il pugnale e il lessen-yaln le balzarono in mano dal punto in cui li aveva appoggiati prima di mettersi a raccogliere il tesoro. Il sacco era pieno e pesante, allacciato alla sua cintura. «Accidenti a te, Thorn Hawkwood! pensò. Se mai esco viva di qui, ti ucciderò.» «Capelli d'oro» disse il troll. «Garna vuole giocare con te.» E avanzò ancora. «Sì» disse Aynber a denti stretti, «incrocio deforme tra un maiale ed una verruca! Ma prima devi prendermi!» Parlando, liberò la stella della morte che teneva in mano. Essa volò dritta
e sicura ed andò a conficcarsi con un tonfo sordo nella grande fronte del troll. Questi scosse il capo divertito, come se sulla sua fronte si fosse posato solo un moscerino e si protese verso di lei. Collane d'oro e diademi si infransero sotto i suoi piedi mentre avanzava verso di lei con passo strascicato. Aynber fissò atterrita la creatura che si avvicinava rapidamente con la stella della morte inutilmente conficcata nel cranio. All'ultimo momento riuscì ad evitare che la afferrasse. Mentre si lanciava verso la porta, un lungo braccio le afferrò la casacca e la tirò indietro. Disperata, tagliò con il pugnale il davanti della casacca. Il troll cadde all'indietro, sempre tenendo stretto un lembo della sua camicia. A seno scoperto, fuggì su per la galleria, tenendo il coltello in una mano e con l'altra reggendo il sacco che le sbatteva contro le cosce. «Torna indietro, capelli d'oro!» ruggì il troll dietro di lei. Le lanciò dietro un gioiello grande come un pugno. La gemma la colpì al braccio, che s'intorpidì lasciando cadere il pugnale. Ma lei non se ne curò e continuò a correre. Dietro di lei, il troll strillava infuriato, cercando di aggrapparsi alle ruvide pareti della stanza finché si lanciò al suo inseguimento con passi pesanti. Dapprima lei riuscì a tenerlo a distanza, avendo le gambe più lunghe ed un vantaggio iniziale, ma il fango la frenava, ed una volta in moto la velocità del troll aumentò, finché quasi schizzò per la galleria dietro di lei. Il terreno sotto i suoi piedi si fece più solido e lei poté andare più veloce, ma anche il troll aumentò l'andatura. Lanciò un inutile sguardo alle sue spalle, perché era troppo buio per vedere l'inseguitore, ma poteva sentirne il respiro gracchiante ed il rumore dei pesanti passi a non più di dieci metri di distanza. Di nuovo cadde lunga e distesa sulla carcassa del cavallo di Hawkwood. Dibattendosi tra i resti imbrattati di sangue, il suo unico pensiero era quello della salvezza ormai vicina. In un attimo si rimise in piedi, con il sacco del tesoro ancora saldamente legato. Con i polmoni che le scoppiavano e fitte dolorose che le trapassavano un fianco, fece un ultimo balzo e si gettò fuori dall'imboccatura della galleria, rischiando di cadere nel fiume. Nell'attimo prima di tuffarsi, si rese conto di due cose: una, che il sacco con il tesoro l'avrebbe appesantita e, due, che il troll probabilmente era in grado di nuotare molto più velocemente di lei. Nel tempo necessario per formulare quei pensieri, si girò, cercando degli appigli sul fianco della collina e cominciò ad arrampicarsi. Il troll raggiunse l'apertura della caverna prima che lei fosse a metà stra-
da. Guardando indietro, Aynber vide che temeva il contatto dell'acqua. Il troll si accorse di lei, fece un orrenda smorfia e la seguì su per il fianco della collina. Raggiunta la cima, lei scagliò una roccia che colpì pesantemente il troll, facendolo ruzzolare sulla sponda del fiume. Un'idea improvvisa le balenò nella mente: deve avere paura dell'acqua. Si lanciò verso il ponte, mentre il troll ricominciava a scalare la collina e lo raggiunse proprio nel momento in cui la testa della creatura si affacciava sull'orlo. Lo attraversò di corsa e raggiunse il mucchio dei suoi abiti: sguainò la spada dal fodero e ritornò verso il ponte dondolante. Selvaggiamente, con il cuore che le batteva forte ed i polmoni che annaspavano in cerca di aria, tagliò le funi di sostegno mentre il troll stava quasi per raggiungerla. Quando recise l'ultima fune, le parve quasi di sentire l'alito fetido del troll sopra di lei. L'intera struttura scivolò via; con un tremendo schianto, troll e ponte sbatterono contro la roccia dall'altra parte. Il troll si rimise in piedi, tremante di rabbia e tossendo per la polvere. Sul bordo dell'acqua esitò (Aynber sapeva che avrebbe voluto disperatamente tuffarsi per rincorrerla), e poi saltò sulle rocce per gridare la sua rabbia verso di lei. Ma non vi fece caso. Allora chiamò il suo cavallo, gettò sulla sella il sacco con il tesoro e si rimise gli stivali e il tabarro. Prese il cappello e, mentre faceva quel gesto, lanciò un'occhiata al corpo addormentato di Hawkwood. «Mago! Bah! Per tutto l'aiuto che mi hai dato, potrei anche lasciarti qui.» Con un sospiro, sollevò quella figura addormentata e la mise di traverso sulla groppa del cavallo. Lanciò un'ultima occhiata al troll: ridendo gli mandò un bacio, afferrò le redini e spronò il cavallo al galoppo verso casa. Dietro di lei, il troll ruggiva ancora. Quando scomparve alla vista, si acquattò sui calcagni strappando manciate di terra. Schegge di pietra e zolle di terra gli filtrarono tra le dita, finché un pensiero non si fece strada lentamente nel suo cervello. Le grosse dita si sollevarono dal suolo e tracciarono in aria rozzi segni cabalistici, mentre lui continuava a mormorare fra di sé: «Garna non avuto capelli d'oro, capelli d'oro non avuto oro, Garna non avuto...» Aynber spronò la sua cavalcatura sovraccarica più velocemente che poté. Solo quando si sentì sicura di avere messo una distanza sufficiente fra sé ed il troll, rallentò il passo. Maledicendo Hawkwood che dormiva ancora, si interrogò sui movimenti di Guil e dei suoi uomini. Era molto probabile che si fossero incontrati in qualche punto oltre la valle del troll e che ora fossero già distanti.
Quante miglia avevano percorso dalla valle di Garna? Rifletté anche su questo, smettendo solo quando lo sfinimento fu tale che riuscì a malapena a concentrarsi nello sforzo di restare in sella. Era tutta indolenzita, ancora inzuppata e la lana ruvida del mantello le irritava la pelle. Ma il tesoro valeva quei piccoli inconvenienti. Fermandosi su di un piccolo sentiero vicino alla linea degli alberi, fece cadere Hawkwood dalla sella e per poco non cadde anche lei. Ma guanto tempo deve durare questo dannato incantesimo? si chiese. Smontò di sella, diede una strigliata al cavallo e lo legò ad un albero. Ormai l'oscurità aveva sopraffatto le ultime luci del crepuscolo, quando lei si lasciò cadere esausta ma soddisfatta tra le coperte, senza nemmeno curarsi di dare uno sguardo al tesoro. Mentre cedeva alla stanchezza, il suo ultimo pensiero fu quello di andare incontro al pericolo, dormendo così all'aperto. Mentre era quasi decisa ad alzarsi e a trovare un posto più sicuro, cadde in un sonno profondo. «In piedi, puttana!» Una voce aspra si intromise nel sogno di un giovane dai bei riccioli e dalla figura snella. Aynber lottò per svegliarsi. «Che cosa?» cominciò. Un coro di risate sgradevoli ed un calcio nel fianco furono la sola risposta. Qualcuno afferrò i lembi del tabarro e la sollevò di peso. Lei aprì gli occhi e cercò di schiarirsi il cervello annebbiato dal sonno. Era notte, una pallida luna spuntava da sopra gli alberi, quasi a voler deridere la sua impotenza. «Così questa è la grande Cacciatrice?» Mise a fuoco lo sguardo su chi aveva parlato e, con grande stupore, lo riconobbe. Era Guil! Guil, e con lui quattro dei suoi uomini. Ondeggiavano davanti a lei nella luce della luna, mentre lottava impotente. Lui sorrise con aria di approvazione e si chinò a slacciarle i pantaloni. «È una donna, proprio una donna, anche se si comporta come un uomo» mormorò. Aynber gli si avventò contro, trascinandosi dietro l'uomo che la teneva. Sollevò un ginocchio e lo colpì sulla guancia mentre si chinava verso di lei. L'uomo cadde all'indietro, con gli occhi che luccicavano. Scuotendo la testa, si alzò e la colpì con un pugno in pieno viso. «Lasciala stare, Draln!» gridò Guil. «Dannazione! Siete tutti pazzi? Kesser ne ha offerti diecimila in oro per averla tutta d'un pezzo, e senza un graffio. Vuole strapparle fino all'ultimo grido di dolore per quello che ha
fatto alla gilda dei ladri a Nalbur.» Aynber fissò incredula il barbuto malvivente. «Sì» disse lui ridendo. «La cosa ti sorprende? Una taglia per una cacciatrice di taglie? Lo vedrai molto presto. Hai mandato a monte un giro molto redditizio e Kesser non ha dimenticato. I ladri sono molto uniti e l'oro è oro, mia coraggiosa cacciatrice. Ah! E prenderlo è così facile.» Inutilmente Aynber si divincolò nella stretta del suo sequestratore. «Legatela come l'altro» disse Guil con un gesto sdegnoso della mano. «E ricordatevi che tutti e due valgono denaro. Duemila per lei e altri cinquanta per chiunque sia con lei.» Aynber lottò come una tigre, ma nonostante i suoi sforzi fu presto sopraffatta. Digrignò i denti con furia impotente. Una volta legata, la lasciarono cadere a terra e lei giacque a faccia in giù con le braccia legate dietro la schiena. Con un'improvvisa ondata di speranza, sentì sotto di sé il sacchetto che conteneva le stelle della morte. «E questo che cos'è?» gridò Draln prendendo dalla sella il sacco con il tesoro. Guil gli si avvicinò mentre lo apriva. «Accidenti!» borbottò il capo, «la cagna aveva un tesoro con sé.» Si sfregò le mani con cupidigia. «Che notte! Ah, che notte!» Si radunarono intorno al fuoco che avevano preparato; in un attimo l'acciarino incendiò la legna. Alla luce delle fiamme, guardarono il tesoro del troll. Fiasche di vino vennero prese dalle selle, esclamazioni di meraviglia riempirono l'aria e in tutta quell'animazione, Aynber cercò di arrivare ai dischi taglienti che aveva nel sacchetto. Lanciò un'occhiata ad Hawkwood, che giaceva appena fuori dal cerchio di luce del fuoco. Sentendosi osservato, lui alzò lo sguardo e sorrise. Ombre che potevano essere graffi gli solcavano il viso. Lui rotolò su sé stesso in modo che lei potesse veder le funi che lo legavano e gli occhi di Aynber si spalancarono per lo stupore: sottili volute di fumo si alzavano dalle corde. Dopo un momento, lui liberò le mani: era libero. Lei scosse la testa incredula mentre Hawkwood con cautela si slegava le gambe e si avvicinava a lei strisciando sull'erba. «Come hai fatto?» chiese con un sussurro quando le fu vicino. «Un semplice incantesimo» rispose lui con una scrollata di spalle. C'erano dei graffi sul suo viso. «Qualche volta dovrai farmi vedere» disse lei. «Ci vogliono anni di autodisciplina» spiegò lui, e si lanciò in un lungo discorso fino a quando Aynber lo riportò alla realtà con un brusco sussur-
ro. «Dannazione a te! Vuoi deciderti a slegarmi?» Si acquattò accanto a lei e cominciò a sciogliere i nodi. «Lasciami un po' di pelle, ti dispiace?» si lamentò lei, lanciando un'occhiata nervosa ai loro sequestratori sdraiati accanto al fuoco, le cui voci continuavano a farsi sempre più rumorose ed impastate a mano a mano che il vino scorreva nel loro sangue. Taglia o non taglia, lei era sicura che quando il vino avesse cominciato a fare effetto, le sarebbero stati addosso. «Questo è l'ultimo» mormorò Hawkwood. Con una smorfia, Aynber piegò le braccia. La testa le girava ancora per i colpi che aveva ricevuto. «Come faremo a catturarli?» chiese Hawkwood. Lei lo fissò, incapace di credere alle sue parole. «Sei pazzo? Mi sono rimaste solo due stelle della morte e senza altre armi come pensi che potremmo tenerli a bada? No, no, verrà anche il loro momento... per ora, fuggiamo.» In silenzio, strisciarono fuori dalla debole luce del fuoco da campo finché l'oscurità circostante non li inghiottì. Draln scosse il fiasco vuoto e lo gettò via con un'imprecazione. Si grattò gli ispidi peli delle guance e si alzò per liberare la vescica. Slegando i lacci dei pantaloni, lanciò un'occhiata al luogo in cui avrebbe dovuto trovarsi Aynber. «È fuggita!» gridò. Guil si alzò in piedi incerto. «Maledetti stupidi!» ululò. «Chi era di guardia?» «Ah!» disse Draln con un'ispirazione dovuta al vino, «eri tu. Guil.» «Sì» confermarono gli altri, seguendo l'imbeccata, «eri tu.» Guil li guardò con gli occhi che fiammeggiavano per la rabbia, poi scoppiò in una risata selvaggia. «Montate in sella» disse alla fine senza fiato. «Dèi! Non avrei mai pensato che avreste avuto il fegato di pensare una cosa del genere! Avanti, se ci muoviamo possiamo ancora prenderli...» si interruppe, guardò il sacco del tesoro e ricominciò a ridere. «Ah, vada pure al diavolo. Tutto l'oro che ci serve lo abbiamo qui.» Una settimana più tardi, fuori dalla Lingua del Serpente, nella cittadina costiera di Thistral, c'erano sei cavalli sfiancati legati al palo mentre all'in-
terno si stava svolgendo una vivace discussione. «Potete prendere il vostro fango e il vostro letame ed andare a spargerlo da un'altra parte, mascalzoni!» gridò il padrone della taverna, spalleggiato da una mezza dozzina di giovanotti del luogo, alti, robusti e più che pronti a menare le mani. Guil ed i suoi uomini fissavano il sacco del tesoro a bocca aperta. Come avevano potuto i gioielli e l'oro che loro ricordavano trasformarsi in questo? Non c'era tempo per cercare una risposta all'indovinello, adesso, perché gli uomini alle spalle dell'oste stavano avanzando verso di loro. I malviventi batterono rapidamente in ritirata raggiungendo i cavalli. All'improvviso, Draln si portò una mano alla gola: dalle dita sgorgò un fiotto di sangue e rantolando, cadde a terra. Quando la mano si staccò dalla gola, Guil e gli altri videro la lessen-yaln che vi era conficcata. «Posso prendervi vivi o morti» disse una voce conosciuta, che risuonò nella strada. Sollevarono lo sguardo e si trovarono davanti la Cacciatrice avvolta nel tabarro sporco di fango. Nella mano sinistra aveva un'altra stella della morte e nella destra una lunga lama sottile. Appoggiato con aria noncurante al muro di un edificio dietro di lei c'era Thorn Hawkwood, con la spada in pugno ed un sorriso feroce sulle labbra. Fece un passo avanti e si portò accanto ad Aynber. Quattro spade uscirono dai foderi. Nello stesso istante, un'altra lessenyaln saettò dalla mano di Aynber ed andò a conficcarsi nel petto di Guil. Mentre lui cadeva in avanti con un grido che gli morì sulle labbra, gli altri avanzarono, poi ci ripensarono e lasciarono cadere le armi. Qualche anno nelle prigioni di Calthoren era meglio che non una morte sicura. Attraversando la strada, Aynber rise. Più tardi, nella locanda, restituì la spada ad uno dei giovani. «Grazie per avermela prestata.» Con un gomito sulla tavola, Aynber trangugiò un boccale di birra, si pulì la bocca con soddisfazione e sorrise nell'udire che Guil ed i suoi uomini avevano cercato di comperare cibo e bevande con un sacco pieno di letame. Ma quando pensò al sacco del tesoro che aveva riempito con le sue mani, aggrottò la fronte e rimase perplessa. «Come...?» «La maledizione!» gridò Hawkwood facendo schioccare le dita. «Ti ricordi che ho parlato di una maledizione?' Il troll ha lanciato una maledi-
zione sull'oro!» Aynber si portò alle labbra un altro boccale. Toccandosi la cicatrice sulla guancia, lanciò un'occhiata attraverso la porta, verso i ladri legati sui loro cavalli. «Be', non ci sarà nessuna maledizione su quell'oro» disse indicandoli. «Almeno questo è sicuro.» Titolo originale: The Valley of the Troll Traduzione di Maria Cristina Pietri IMPERATRIX di Deborah Wheeler Deborah Wheeler rappresenta un'eccezione nella tradizione degli scrittori di fantasy che descrivono imprese eroiche stando seduti in poltrona: come Robin Bailey, che comparirà più avanti in questo volume, lei è cintura nera di karatè. Lavora come paramedico ed ha una figlia di tre anni, Sarah. Questa è la sua prima opera ad essere pubblicata. Arrivai tardi agli incontri per l'Ingaggio di Reymuth e dovetti aprirmi la strada a gomitate per trovare un posto da cui avere un'ottima visuale. La folla si stringeva attorno a me: mercanti alla ricerca di guardie del corpo, signorotti alla ricerca di rimpiazzi per i soldati uccisi, mercenari in cerca di nuovi arruolamenti e borseggiatori pronti ad approfittare di ogni occasione. Il quadrato polveroso era davanti a me, vuoto. Un sospiro si levò quando l'arbitro issò i vessilli per l'incontro seguente: rosso e nero per un principiante e poi una lunga attesa mentre frugava nella sacca per trovare l'altro... porpora! Un soldato brizzolato accanto a me scosse il capo. «Un Weire, e con la luna piena! Tra poco vedremo uno stupidissimo novizio diventare un novizio morto stecchito.» «Questi incontri non sono all'ultimo sangue, vero?» chiesi incerto. Reymuth era lontana da casa e gli usi e costumi differivano molto in quei tempi disperati. «Prova a dirlo ad un Weire arrabbiato» replicò lui sbuffando. Il Weire emerse dalla tenda dei contendenti e sdegnosamente lasciò cadere il mantello di seta color porpora ai suoi piedi. Prima di allora ne avevo visto uno solo e certo non a distanza così ravvicinata. La sua mole e la
sua vitalità mi sorpresero, e così la sua totale ed intrinseca alienità. La luce che ardeva in quei quattro occhi neri non poteva in nessun modo essere umana, e neppure le zanne lunghe come dita ed appuntite come aghi, che avevano raggiunto la loro massima lunghezza ora, con la luna piena. Scosse le spalle sotto l'elaborata armatura di cuoio tempestata di pietre preziose e ruggì con aria minacciosa. «Forsennato!» sibilò il veterano accanto a me. Lei era già uscita dalla tenda ed era in piedi, senza mantello e assolutamente immobile, al centro dell'arena. Non appena posai gli occhi su di lei, non potei più distoglierli. Non era il corpo alto, con i muscoli simili a corde ben tese, racchiuso nel morbido cuoio, che mi aveva colpito, e nemmeno quegli occhi che brillavano di una febbrile luce azzurra dietro la maschera tradizionale. Non ebbi tempo di esaminare i miei sentimenti perché l'arbitro alzò la mano per dare inizio alle scommesse. La folla si agitò irrequieta nonostante le quote molto basse. «Che cosa succede? Perché non fanno le offerte?» chiesi al soldato. «Non sono scemi, sai» rispose lui. «Quale cittadino normale vorrebbe lavorare con un Weire senza avere con lui un vincolo di sangue? E per quello che riguarda quella pazza incosciente, anche se non dovesse uscirne morta o storpiata, sta solo dimostrando di non avere buon senso.» «Forse è molto brava...» «O molto disperata.» Mi voltò le spalle disgustato e scomparve tra la folla. L'arbitro continuava a sollecitare offerte, sempre molto al di sotto delle mie disponibilità. Alzai la mano. «Vincente o perdente?» Entrambi «dissi io. I miei vicini sgranarono gli occhi. Tutte le puntate vincenti erano per il Weire, ma io volevo mantenere l'opzione nel caso fosse sopravvissuta.» Per un attimo, mentre prendeva posto al centro del quadrato, mi lanciò un'occhiata fuggevole. In quegli ardenti occhi azzurri vidi, o forse credetti di vedere, una volontà così spietata che non seppi se desiderare di più la sua vittoria o la sua morte. «Armi?» chiese l'arbitro. «Reti» gridai io. «No, a mani nude» ruggì la folla, insorgendo come un mostro a molte teste sempre assetato di sangue. Il Weire raggiunse il proprio posto, sovrastandola di almeno due spanne. Io trasalii, pentendomi di aver scommesso e di non essermene andato in quel momento. L'arbitro diede un colpo di gong e fu troppo tardi. Il Weire ringhiò mettendosi in posizione, con i muscoli che guizzavano
sotto la pelliccia color perla, e sollevò le braccia dalle giunture snodate. Mi venne in mente il vecchio adagio: chi comanda i Weire, comanda il regno. Ma chi poteva sfidare un tale enorme ed indomabile mostro? In un istante la ragazza divenne una forma confusa in movimento, parando il colpo di quel braccio massiccio, mentre l'altra mano scattava in avanti e poi in alto verso il punto vulnerabile alla base della gola del Weire. In un batter d'occhio, gli fece lo sgambetto e con le dita schiacciò in profondità nel punto vitale. Il Weire cadde, tossendo e ruggendo di rabbia, rotolando su sé stesso per cercare di liberarsi della presa con la sola forza della sua massa imponente. La folla all'improvviso si fece tremendamente silenziosa. Il Weire si sollevò sulle ginocchia, ma lei era già scivolata alle sue spalle per assestargli un tremendo calcio alla base del cranio. Un'altra rapida piroetta la portò dietro la schiena della creatura, e con un ginocchio fra le sue scapole gli affondò il viso nella polvere. Su di un uomo avrebbe funzionato, ma i Weire non vengono storditi con tanta facilità e la creatura si puntellò con la zampa anteriore balzando subito in piedi. Vidi negli occhi della giovane un lampo feroce mentre gli girava intorno cercando un altro spiraglio. Furente, non si sarebbe fermato per il dolore, ora. Avrebbe dovuto metterlo fuori combattimento od ucciderlo, altrimenti non avrebbe lasciato viva il ring. Il Weire si avvicinò a velocità impressionante, roteando verso la testa dell'avversaria un pugno simile ad un maglio, impossibile da bloccare per la sua enorme potenza. Lei si rannicchiò girandogli intorno e, afferrandolo per il collo come se fosse un compagno di danza, lo fece roteare in aria sfruttando il suo stesso slancio. La grande bestia barcollò, sfiorandola con gli artigli e facendola cadere sulle ginocchia. Si piegò verso di lei nello stesso momento in cui la ragazza, puntellandosi con le mani, gli sferrò un calcio con lo stivale. Il Weire ululò e cadde all'indietro; lei si rimise in piedi e indietreggiò, tesa e pronta a scattare. Per abilità o per fortuna, lo aveva sicuramente stordito, perché il Weire giaceva a terra, grugnendo e sfregandosi gli occhi nella polvere grigia. L'arbitro si avvicinò e contò fino a cinque, dichiarandola vincitrice, mentre la folla mormorava, privata della morte che si aspettava. Mi diressi al banco del cassiere dietro la tenda e registrai la quota di ingaggio. Lei arrivò, portando il tradizionale coltello lungo ed una piccola sacca di cuoio che depose ai miei piedi per apporre la sua firma sull'atto di rilascio. Per un istante sembrò che stesse per scrivere il proprio nome, cosa che na-
turalmente un mercenario da ingaggio non poteva essere in grado di fare, ma poi tracciò il normale e goffo simbolo a svolazzo, la firma dei novizi, e si volse verso di me. Indossava ancora la maschera da combattimento, ma il cassiere le fece cenno di restituirla... quelli non regalano niente. Si slacciò la maschera continuando a fissarmi con quegli ardenti occhi azzurri. Il suo viso era come il suo corpo, forte e deciso, indice di un carattere che non scendeva a compromessi. Mi colpì profondamente, per ragioni che non sapevo descrivere. «Nome?» chiesi forse un po' troppo bruscamente. «Charlla. Chi devo servire?» La sua voce era di intensità media, limpida come il suono di una campana. «Io sono Eddard e tu sei per il mio padrone, non per me.» «Bene» disse lei, raccolse il suo sacco e ci dirigemmo alla locanda. Era alta come me, ma il suo passo veloce e sicuro quasi superava il mio. Volevo chiederle cosa l'avesse spinta ad accettare la sfida di un Weire senza padrone, ma le consuetudini lo vietavano. I regolamenti dei combattimenti per l'Ingaggio significavano che lei aveva giurato sotto prova della verità di essere libera e di non avere una taglia di sangue sulla testa; questo era tutto quello che un datore di lavoro aveva il diritto di sapere. Ma dove aveva imparato a combattere così? Certo non in qualche lontana guarnigione dì mia conoscenza. Avevo sentito i racconti degli ubriachi a proposito dei Padroni dei Weire, ma si riferivano tutti all'antico sangue reale. Quando superammo il portone della locanda, per la prima volta venni assalito dai dubbi. Una sconosciuta novizia, per quanto fiera, non era quello che aveva in mente il mio padrone. Ci serviva qualcuno che ci proteggesse in modo affidabile finché non fossimo giunti al rifugio di Har Ynion. Perché mai avevo scommesso su di una scelta così poco realistica? Avevo ricevuto un'istruzione molto superiore a quella che veniva fornita alla maggior parte dei combattenti e non credevo alle streghe, ma in lei c'era qualcosa che mi colpiva, che mi attraeva, riempiendomi di speranza in questi tempi oscuri. Salimmo la stretta scala di legno fino al piccolo appartamento privato. Aprii la porta ed entrai per primo. Lui, il mio signore, era sdraiato su di un letto duro, ma i suoi occhi erano sempre acuti come quelli di un'aquila. «Eddard» disse, facendomi cenno di avanzare, «hai avuto fortuna?» Mi portai al suo fianco e mi inchinai. Charlla si avvicinò al letto con il suo passo deciso, mentre i suoi occhi diventavano due pozze misteriose nella stanza poco illuminata. Lentamente piegò un ginocchio come era do-
veroso, ma lo fece con una tale grazia ed energia, che quel gesto non sembrò di obbedienza, ma di cortesia. «Questo è tutto quello che sei riuscito a trovare!» disse infuriato il mio signore. Tremai leggermente, ma non perché avessi paura di lui; le ferite che aveva ricevuto nell'ultimo terribile assedio gli erano costate care, e non poteva permettersi il lusso di inutili scoppi d'ira. «Ha battuto un Weire» protestai. Si sollevò sul braccio sano e la guardò da sotto le sopracciglia folte e scomposte. «Davvero?» Lei si mosse, un accenno di forza controllata sotto quell'apparenza calma ed insondabile. Lui abbassò lo sguardo. «Può andare, per ora.» Lei si toccò le labbra e la fronte con le dita, nel gesto formale. «Lord Bardon.» «Eddard...» «Mio signore, giuro che non sono stato io a dirle...» Lei azzittì con un gesto la mia protesta e si alzò. «Mio signore, dal momento che ora io sono il vostro scudo, devo avvertirvi che Reymuth non è più un luogo sicuro per voi. Voi siete un uomo segnato e le truppe dell'Imperatore sono ad un solo giorno di marcia.» «Bambina, come è possibile che tu conosca il mio nome e le notizie che riguardano l'Imperatore?» Lei scosse il capo con un gesto orgoglioso, come se i suoi capelli fossero sciolti e non strettamente raccolti sotto un copricapo di cuoio. «Io non sono una bambina!» La voce di Lord Bardon assunse quel tono gentile ma inflessibile a cui per anni avevo rispettosamente obbedito. «Io sono il tuo padrone, bambina, e tu sei ciò che io decido di chiamarti. O hai forse gettato il disonore sul tuo giuramento quando hai fatto la promessa solenne di servire negli incontri per l'Ingaggio?» «Mio signore» Charlla si trattenne dal rispondere e chinò il capo, con un piccolo tremito. «Ho visto un vostro... ritratto, ho sentito parlare dell'assedio e della caduta della Torre di Bardon. In quanto al resto, sono solo voci, ma provengono da una fonte di cui mi fido.» Io caddi in ginocchio accanto a lui. «Non possiamo fermarci più a lungo, mio signore. Un altro giorno non migliorerà le vostre forze e non dobbiamo farci tagliare fuori dalle strade interne.» Inspirò profondamente, raccogliendo ciò che restava della sua energia, un tempo enorme, e mi mandò di sotto a pagare il conto e a far preparare le
nostre cavalcature. Per uscire dalla città passammo dalla porta dei mercanti, quasi deserta a quell'ora del giorno. Un paio di borseggiatori si pararono dinanzi a noi mentre ci avvicinavamo alla foresta settentrionale, ma Charlla si sbarazzò di loro con il suo lungo coltello come fosse ordinaria amministrazione. Il mio signore sorrideva quando lei tornò verso di noi dopo averli inseguiti fin nel folto di un bosco. Respirai più liberamente, sapendo che era compiaciuto. «Questa notte non ci accamperemo, ma seguiremo a ritroso il cammino del sole» disse. Cominciai a protestare, ma Charlla mi zittì dicendo «L'hai detto tu stesso, Eddard: ritardando non faremo che aumentare il pericolo. Le nostre cavalcature sono ancora fresche e quando avremo trovato il punto di ingresso, potremo rilassarci un po'. Fino ad allora dobbiamo forzare l'andatura.» Proseguimmo nella foresta che si infittiva, con Charlla che ci guidava con una piccola torcia, seguita dal mio signore accasciato sulla sella per la debolezza, e da ultimo io. Le foglie cadute di molte stagioni attutivano il rumore degli zoccoli delle nostre cavalcature ed io trasalii più di una volta agli innocui rumori causati dagli ammali notturni. Una volta Charlla ci fece fermare bruscamente, intimando il silenzio e, schermando la fiamma della torcia, rimase in ascolto. Sembrava un sogno seguirla nella notte, avendo sempre davanti agli occhi il chiarore della sua torcia come guida... benché fossi preoccupato per il mio signore e per le sue profonde ferite non ancora rimarginate, spaventato inoltre dalla possibilità che qualche suono indicasse la presenza delle terribili truppe dell'Imperatore, tuttavia la forza e la determinazione di Charlla mi infondevano un tale conforto, che il tempo passò in fretta. Decise di fare una sosta e spense il mozzicone della torcia. Al di sopra della cresta degli alberi, le stelle brillavano nella loro lenta danza circolare. Una sfumatura lattea tingeva il cielo ad oriente: era quasi l'alba. «Siamo quasi arrivati» disse piano. «Sentite l'odore?» «Pensavo che solo quelli...» cominciai io. «Ssst!» disse Lord Bardon. «Fai strada, bambina. Queste vecchie ossa hanno bisogno di riposo.» Nel debole chiarore distinsi l'ombra del sorriso di Charlla. Fece voltare il suo cavallo, tornando indietro per la strada da cui eravamo venuti... e all'improvviso la ragnatela color smeraldo della strada interna ci circondò, accecandoci con la sua luce brillante. Lord Bardon scivolò dalla sella con un grido di sollievo, perché ogni sentiero nel mondo interno era distinto,
unico e impossibile da rintracciare. Ora non dovevamo più temere di essere inseguiti, almeno fino a quando fossimo arrivati a Har Ynion. Balzai di sella e andai ad occuparmi di lui, lasciando a Charlla il compito di provvedere agli animali. Lei accettò quell'incombenza senza protestare e presto si unì a noi con le sacche del cibo e le fiasche dell'acqua. «Ho dato alle bestie una misura di farina» disse, estraendo il coltello per tagliare una fetta di formaggio per il mio signore. «Per il foraggio dovranno aspettare: quello che hanno sotto i piedi sembra erba, ma non ha alcuna sostanza.» Presi le fette di formaggio e di pane e lo nutrii con piccoli bocconi e sorsi finché non cadde nel sonno, esausto. Osservai il suo viso, che si stagliava nettamente nella luce verde. Il grigio, come un nemico silenzioso e segreto, gli aveva invaso i capelli e la barba dal giorno dell'immotivata distruzione della nostra dimora. «Maledetto l'Imperatore e tutti i suoi seguaci!» mormorai con improvviso e rabbioso senso di protezione. Charlla, seduta a gambe incrociate di fronte a me, sollevò lo sguardo con gli occhi che brillavano come strane pietre preziose. «È una tragedia quando tanti uomini di animo gentile devono soffrire così» disse. «Tragedia!» tenendo la voce bassa per non disturbarlo. «È il male incarnato, quel mascalzone assetato di sangue con la sua smodata sete di potere. Si è impadronito di un reame dopo l'altro ed ora non si potrà più arrestare il suo regno del terrore.» «Lo spargimento di sangue è un errore, non lo sopporto più di quanto riesca fare tu. Lo condanno, ma... non condanno il sogno di unire tutto il paese. Una volta eravamo una nazione, sai, nell'Età d'Oro, quando furono costruite le strade interne e quando i Weire arrivarono nel nostro mondo e insieme a loro molte altre cose meravigliose, quando gli uomini potevano vivere in pace con i loro vicini senza essere continuamente in guerra.» «È diritto dell'uomo difendere ciò che è suo» ribattei io. «Tramite la legge e la giustizia, e non il saccheggio indiscriminato che innesca una faida di sangue senza fine.» «Chi sei tu per dare voce ad una così nobile filosofia?» Mi ritrassi un poco davanti all'intensità del suo tono. Dopo tutto, lei aveva accettato la sfida di un Weire; poteva essere capace di qualunque cosa... «Io sono...» si interruppe bruscamente e la fiamma di quegli occhi azzurri si affievolì sotto il suo ferreo controllo. «Sono solo stanca dei massacri. Perpetrati da qualche signorotto o dai mastini dell'Imperatore, non importa.
La gente muore e muoiono anche i loro sogni.» «Sogni!» gridai io, mentre la visione della Torre di Bardon che crollava in rovine fumanti mi ritornava davanti agli occhi. «Che cosa puoi sapere tu di sogni perduti?» «Perché anch'io ho un sogno, il sogno di una terra unita ed in pace, il sogno di un popolo che vive la propria vita in armonia e buona volontà.» «Allora è meglio che ti tagli subito la gola sperando di poterlo vedere nell'aldilà, perché certo quella fantasia non si avvererà per mano dell'Imperatore» scattai, sopraffatto dall'amarezza per la rovina del mio signore e del nostro esilio di terrore. Mi strinsi il mantello intorno alle spalle e le voltai la schiena. Non volevo sentire le parole che sussurrò in seguito, benché fossero pronunciate fra sé. «Io lo vedrò.» Era ancora di guardia quando il mio signore si svegliò, pallido ma riposato. Montammo in sella alle bestie ancora affamate e viaggiammo attraverso l'intensa luce verde. Dal momento che non avevo sangue nobile, non ero in grado di determinare la nostra esatta posizione in quella distorsione elastica dello spazio che segnava le strade interne. So solo che avanzammo per un certo tratto in quella curiosa sospensione temporale fino a quando Lord Bardon ci fece segno di fermarci. «Har Ynion» sussurrò. «Siamo sulla soglia.» Guardò Charlla e lei annuì. «Devo andare prima io, mio signore» disse deferente. Fece voltare il suo cavallo e di nuovo ci condusse in quella manovra a ritroso che apriva le porte di quegli strani sentieri di smeraldo. All'improvviso, la normale luce gialla inondò i nostri sensi. Sollevai una mano per schermare gli occhi che lacrimavano e scrutai tutt'intorno. Ci trovavamo sul limitare di un boschetto appena fuori dai confini di Har Ynion. Oltre un dolce declivio erboso si vedevano le mura schermate del rifugio. La strada si apriva invitante davanti a noi. Incitai la mia cavalcatura a proseguire. Charlla sollevò una mano per indurci alla cautela e snudò il lungo coltello. «Questa è la parte più pericolosa» ci ammonì. «Dobbiamo stare pronti.» Lanciammo i nostri cavalli ad un trotto sostenuto, scrutando i dintorni in cerca di imboscate. Udii il mio signore gridare quando la sua cavalcatura inciampò riprendendosi subito, sballottandolo crudelmente. I miei nervi si tesero per la paura e guardai Charlla che cavalcava alla nostra testa, come se per lei fosse una cosa innata. Scendemmo lungo il fianco di una collina ed attraversammo la pianura sottostante, scorgendo le rocce ed i cespugli
che prima erano stati nascosti alla nostra vista. Il rifugio si faceva sempre più vicino, con i cancelli spalancati come braccia pronte a darci il benvenuto. L'ululato di battaglia dei Weire infranse le nostre speranze quando fummo ad un passo dalla nostra meta. Il mio cuore quasi cessò di battere quando li vidi avanzare verso di noi girando intorno alle stesse mura: un piccolo manipolo di guardie personali dell'Imperatore con alla testa un gigantesco Weire che portava la fascia delle guardie della casa reale. Tirammo le redini e fermammo i cavalli. Charlla roteò verso di noi. «Andrò per prima e li attirerò verso di me» gridò nel crescente frastuono. «Eddard! Porta Lord Bardon a destra, verso il cancello orientale. Non fermatevi ad aspettare me!» «Sei pazza?» gridai io di rimando. La mia cavalcatura, in preda all'eccitazione, cominciò a agitarsi girando in cerchio. Ci erano quasi addosso. Vedevo le zanne appuntite del Weire, la luce nera in quei quattro occhi, mentre scendeva ventre a terra dall'ultima collina. «Obbedisci!» mi ordinò, ed il tono di regale comando della sua voce non ammise repliche. Voltammo i cavalli e ci buttammo al galoppo come aveva ordinato. Dapprima riuscii solo a sentire il rumore degli zoccoli del mio destriero che sovrastava il battito del mio cuore, e tenni gli occhi fissi sul mio signore disperatamente aggrappato alla sella. All'improvviso udii la voce di Charlla levarsi come un peana al di sopra del fragore, gridando, intonando parole selvagge in qualche lingua antica ed aliena. La testa mi doleva per il loro suono, e il cuore mi balzò in gola per la loro bellezza e potenza. Eravamo quasi ai cancelli. Colpii con la frusta la groppa del cavallo del mio amato signore e questo si lanciò frenetico attraverso la soglia verso la salvezza: poi tirai le redini della mia cavalcatura. Voltandomi indietro, la vidi eretta come una dea sul destriero che si impennava, con un braccio proteso mentre il Weire danzava e ringhiava davanti a lei. I soldati giravano in tondo, confusi, mantenendosi a distanza. Trassi un profondo respiro per chiamarla, ma l'eco del suo ordine mi trattenne. Lentamente, tra la generale incredulità, il Weire si inginocchiò davanti a lei, chinando il capo massiccio e terribile. Un'ondata di sbalordimento serpeggiò tra le file dei soldati ed udii il loro grido: «Padrona dei Weire!» Lei spinse la cavalcatura verso il Weire inginocchiato e gli parlò con una voce troppo sommessa perché potessi udire le parole. Vidi un'ombra di dolcezza illuminarle per un attimo il viso mentre appoggiava una mano su
quel cranio peloso. Allora capii che nell'arena aveva deliberatamente risparmiato il Weire, poiché aveva un così grande potere su quelle creature. Tremai mentre il mio cavallo scalpitava nervosamente, quando la vidi avvicinarsi a me seguita dal Weire, docile ed obbediente. Il capitano dei soldati riportò una parvenza di ordine tra i suoi uomini e rimase ad osservare, in attesa. Un movimento al cancello richiamò la mia attenzione: il mio signore era là in piedi, sostenuto da due degli abitanti di Har Ynion, un popolo gentile e semplice che offriva rifugio e anonimato a tutti coloro che vi capitavano. I suoi occhi brillavano fieri come quelli di un falco quando lei fermò la sua cavalcatura davanti a noi e smontò di sella. «Mio signore, non posso rimanere» disse a voce bassa. «Ora lui saprà dove sono e se resto porterò solo la distruzione su di voi. Vi prego di licenziarmi dal vostro servizio.» «Bambina» disse lui piano, e si sporse per toglierle il copricapo di cuoio dalla sua testa china. L'ultima corsa aveva allentato i nodi ed il copricapo venne via con facilità, rivelando capelli di un nero cupo tranne che alle radici, dove l'argento puro ed iridescente del sangue imperiale splendeva come la luce lunare. Sul volto di lei comparve un fuggevole sorriso, incontrando il suo sguardo. «Temevo che avresti potuto riconoscermi dopo tutto il tempo che hai passato alla corte di mio padre.» Allora tu eri più giovane, mia signora Charalldana, e tuo fratello... «Mio fratello è Imperatore, ora» esclamò lei con rabbia improvvisa. «E in questa sua caccia al potere sta smembrando il paese, uccidendo capi e gente innocente senza distinzione. Lasciai la sua corte sanguinaria quando non volli più avere parte in questa cosa, io...» si interruppe, posando le mani sull'impugnatura del lungo coltello, mentre le lacrime brillavano luminose nei suoi occhi. «Pensai di poter forgiare un mondo per me, per i miei sogni, cominciando come mercenaria. Ora capisco che posso solo portare alla rovina coloro che hanno avuto fede in me. Persino queste sacre mura non fermeranno quelli che lui manderà per riportarmi indietro.» «Che cosa farai, mia signora?» «Mio fratello ha ragione: devo ritornare. Ma non per sostenere il suo trono insanguinato, ma per regnare in vece sua.» Il fuoco azzurro dei suoi occhi brillò più intenso, sfidando lo splendore dei capelli d'argento. «È un suicidio» sbottai io, ritrovando finalmente la voce. «Non riuscirete mai a strappargli il potere.»
«Non avrò bisogno di sfidarlo con la forza delle armi, ma con quella del diritto» rispose lei tranquilla. «È l'ultima cosa che mio fratello si aspetterà da me. Non sarà pronto per una mossa simile. E inoltre, lui non ha il dono sui Weire; essi lo seguono solo per l'antica lealtà nei confronti di mio padre. È per questo che ha bisogno di me per consolidare il suo potere. Lui...» Un ringhio improvviso del Weire la fece voltare e tendere i muscoli della schiena come le spire di un serpente pronto a scattare. La gigantesca bestia uggiolò, un suono incongruo, data la sua mole e la sua ferocia. Charalldana gli parlò in quella strana lingua imperativa che aveva usato poco prima e la creatura si acquietò. Trattenni il fiato, vedendo il luccichio delle armature e gli stendardi reali emergere dalla foresta, accompagnando le schiere di soldati armati. Ci fu un agitarsi frenetico nella piccola squadra che era stata mandata a tenderci l'imboscata. Il loro capo spinse la sua cavalcatura verso di noi ad una velocità tale che questa si fermò davanti a Charalldana piegando le ginocchia. «Signora» disse lui senza fiato «solo chi comanda i Weire, come abbiamo visto fare a te, ha il diritto di regnare. Sarà duro sconfiggere il nostro signore Imperatore, ma siamo con te.» «Capitano, non c'è bisogno che versiate il vostro sangue per me» rispose lei voltandosi sulla sella «Io regnerò con la forza del diritto, non con quella delle armi.» «Lasciate venire anche me» dissi all'improvviso. «No» rispose lei nuovamente affabile. «Tu ed il tuo amato signore mi avete mostrato un altro modo di governare, ispirando l'amore invece del terrore. Ho bisogno di sapervi vivi per ricordarmi di questa verità.» E quindi rimasi, trattenuto dal tono deciso della sua voce, mentre lei si apriva la strada verso quell'esercito che si ammassava sempre con il Weire al suo fianco, come un'ombra massiccia tra gli uomini a cavallo. Adagio, molto adagio i due gruppi si avvicinarono e la tensione in me crebbe ad un punto tale che immaginai di vedere l'aria distorta da quei due poteri. Charalldana sedeva alta ed eretta in sella ed una figura massiccia con un'armatura dorata e piume d'argento si fece avanti per incontrarla. Doveva essere suo fratello, l'Imperatore. Tesi le orecchie per sentire e aguzzai gli occhi, ma erano troppo lontani. Un fermento irrequieto percorse l'esercito regale. All'improvviso l'Imperatore fece un gesto, sollevando un braccio in un inequivocabile atto di sfida. Charalldana lasciò cadere le redini sul collo
della cavalcatura alzando le braccia nel gesto che aveva usato per sottomettere il Weire durante la nostra fuga precipitosa. Potei quasi sentirla cantare quella magica, inquietante canzone aliena. Benché fosse inafferrabile, mi eccitò il sangue facendomi desiderare impossibili misteri. Dall'ombra degli alberi emerse un gigantesco Weire che superava gli altri di almeno una spanna, e poi un altro e un altro ancora sfilarono in una minacciosa processione accanto ai due in lotta. Ognuna di quelle creature massicce chinò il capo in segno di lealtà passando sotto le braccia levate di Charalldana finché si schierarono in semicerchio dietro di lei, una massa compatta di incorruttibile potere. L'Imperatore lasciò cadere le braccia e mi parve di vedergli chinare il capo. I Weire strinsero le fila. Le truppe reali si ritirarono, non saprei dire se in segno di sottomissione o di paura. «Che cosa succede?» esclamai, raddrizzando le spalle e stringendo i pugni per la tensione. Il mio cavallo si agitò infastidito ed io allentai la stretta del morso. «Non è persona che ceda facilmente» mormorò il mio signore, «ma non ho mai sentito dire che qualcuno possa andare contro la volontà dei Weire.» Ancora una volta ricordai il detto: chi comanda i Weire, comanda il regno. «Potrebbe ribellarsi.» «Potrebbe.» E così attendemmo, rigidi e immobili, presi tra la speranza nei sogni di Charlla e gli incubi della rovina della nostra casa, mentre un soldato usciva dai ranghi e cavalcava verso di noi. Speranza nella speranza, sorrideva, ansando un poco come se anche lui avesse fatto di corsa il tratto tra la foresta e i cancelli di Har Ynion. «Sì, che cosa c'è?» brontolò il mio signore. «Charalldana Imperatrix vi saluta» disse lui sorridendo. «Mi prega di dirvi che l'amore non si impara con un solo esempio, ma con il richiamo costante ad esso, e vi invita alla sua corte quando sarete abbastanza in forze da viaggiare.» «E l'Imperatore?» chiese Lord Bardon. «I Weire non lo accettano, ora che una vera Padrona dei Weire reclama il trono, e nessuno osa contestare la loro scelta» rispose il soldato. «Il suo destino è nella misericordia della mia signora.» Sospirò ed il suo viso si rilassò come se avesse passato anni di paura e tensione. «E penso che finalmente tutto il regno conoscerà di nuovo la misericordia.»
Io sorrisi e mi voltai per aiutare il mio signore a raggiungere il riposo di Har Ynion, ora luogo di guarigione e non di rifugio. Nei miei ricordi, i suoi capelli d'argento e i suoi occhi azzurri continuarono a splendere toccandomi nel profondo dell'anima, facendomi desiderare di essere al suo fianco. Sperai che ciò sarebbe avvenuto presto. Titolo originale: Imperatrix Traduzione di Maria Cristina Pietri SANGUE DI MAGIA di Jennifer Roberson Jennifer Roberson ha pubblicato presso la DAW Books il suo primo romanzo, intitolato Shapechangers, che ha un seguito, The Song of Homana, ambientato nello stesso mondo di "Sangue dì magia". I Cheysuli sono una razza di maghi in grado di mutare aspetto, ed uno dei prossimi romanzi sui Cheysuli, che sarà intitolato The Warrior Princess, avrà come protagonista Keely, l'eroina di questo racconto. Ho già parlato dell'importanza del tema di "violenza e vendetta" nella narrativa di Spada e Magia scritta da e sulle donne; ebbene, "Sangue di magia" tratta questo tema universale offrendo un risvolto assolutamente unico. Jennifer sostiene di "essere incapace di NON scrivere; è un impulso irresistibile". Si è laureata nel 1982 all'università dell'Arizona, e la sua tesi di dottorato venne respinta perché troppo commerciale. "Immagino che fosse vero: ho venduto il mio primo romanzo un mese dopo". Ha lavorato come cronista investigativa, e come redattrice di una pubblicazione interna per un'agenzia di pubblicità. Le piace partecipare ai rodei, istruire cani ed essere tiranneggiata da due gatti: è anche una cantante dilettante piena dì entusiasmo, ed ha partecipato a "Rodeo Miss America" anche se non ha vinto. Come dice lei stessa, ha "29 anni, non è sposata, e vive a Phoenix con due cani, due gatti ed una macchina da scrivere gelosissima". Le "Cronache dei Cheysuli", che "cominciano con la protagonista femminile di Shapechangers, mostrano al lettore l'odissea durata cento anni delle lotte dinastiche di una razza di metamorfi odiata e temuta dagli uomini." Dopo aver letto "Sangue di magia", penso che sarete anche voi ansiosi come me di vedere quale seguito Jennifer darà alla serie.
I ricordi cominciarono a tornarle lentamente, un frammento alla volta. Li trattò con cura, come gemme preziosissime, raccogliendoli in grembo ad uno ad uno, per poter cercare i difetti in ognuno di essi: non trovandone nessuno, ne fu compiaciuta e li mise da parte. Lentamente, il mucchietto crebbe, finché non ebbe le mani piene di pietre lucenti: guardandole, vide i colori dell'arcobaleno, ed anche qualcosa di più. Osservandole tutte insieme vide il riflesso di se stessa. Ed allora conobbe di nuovo se stessa, dopo un tempo ed un luogo infiniti in cui si era smarrita. Lei era Keely, Keely di Homana. Principessa per nascita ed educazione, figlia dello stesso Mujhar, che regnava sul reame di Homana. Ma soprattutto lei era Cheysuli, una metamorfa. La figlia di un uomo che poteva trasformarsi in lupo a suo piacimento. Forma di lir la chiamavano i Cheysuli, evitando la parola homanana "metamorfa" con tutte le sue connotazioni demoniache, poiché era la manifestazione esteriore del legame misterioso e divorante che univa l'uomo e l'animale. Guerriero e lir. Solo i Cheysuli avevano quel potere e fra essi solo i guerrieri e per di più maschi. Tranne Keely. Lei sapeva perché, unica eccezione fra tutti, aveva la capacità di assumere la forma di qualunque animale. Diversamente dagli altri, che erano uniti ad un unico lir, lei era libera di assumere qualunque forma. Il Sangue Antico, che era così instabile, scorreva potente nelle sue vene, donandole il potere magico che le permetteva una libertà sconosciuta da secoli. Per troppo tempo solo i guerrieri avevano detenuto quel potere e solo sotto forma di un unico animale. Per troppo tempo il Sangue si era diluito e l'antica magia era andata perduta. Ora quell'antica magia, la magia degli dèi, era tornata a vivere ed era il destino di Keely, il suo tahlmorra, tramandare il Sangue Antico ai suoi figli. Questo, unito al suo rango come unica Principessa di Homana, faceva di lei un partito estremamente ambito. E così suo padre l'aveva promessa in sposa all'erede di un regno vicino quando entrambi erano ancora bambini e ancora non sapevano cosa il futuro avrebbe riservato loro. Keely, spirito ribelle e spavaldo, si era sempre risentita per questo fidanzamento che la sminuiva, così come si risentiva persino per la sua nascita che aveva stabilito il suo futuro fin dalla culla. Sarebbe andata ad Erinn, avrebbe sposato il principe dell'isola, gli avrebbe generato dei figli e poi, una volta finito il suo compito, avrebbe trascorso nel grigiore i suoi ultimi anni. Questo era il futuro che attendeva ogni donna di nobile nascita il cui primo dovere era l'obbedienza e la lealtà alla casa regnante: venir usate
come pedine di un gioco per acquisire terre, alleanze, ricchezze. Keely voleva bene a suo padre, onorava la sua eredità Cheysuli e i poteri magici del suo sangue, ma non onorava certo gli obblighi derivanti dall'essere femmina. E così aveva abbandonato gli interessi femminili e si era dedicata ad occupazioni tipicamente maschili, imparando a maneggiare la spada fino a raggiungere l'abilità dei suoi fratelli. Era una principessa, ma anche una Cheysuli: nata guerriera, e allevata come tale, anche se era una donna e nessuno osava negarle la sua eredità. Avrebbe seguito i dettami del suo tahlmorra, che la volevano moglie e madre, ma si sarebbe offerta ad un uomo per quello che era. Lo spirito e l'arroganza che facevano dei Cheysuli i migliori guerrieri del paese li sentiva come propri, non avrebbe abdicato alla sua natura. Ma il suo spirito indipendente la metteva in pericolo, così come il suo rango la poneva nella precaria condizione di essere in balìa nelle mani di Strahan l'Ihlini, il mago straniero che praticava le oscure arti apprese dagli dèi degli inferi. Strahan ambiva solo al potere su tutti gli uomini e tutti i regni, e per conquistarlo aveva bisogno del sangue dei Cheysuli, che regnavano ora su Homana. Aveva bisogno di un figlio, un sangue misto allevato fin dalla nascita nell'oscurità dell'Ihlini e per avere quel figlio gli serviva una donna. Una donna Cheysuli il cui sangue la imparentasse, e lui insieme a lei, al trono di Homana. L'aveva presa prigioniera a Hondarth, la città portuale sulle rive dell'Oceano Idriano. Lei era caduta nella sua trappola cieca e fiduciosa come una bambina. E non era una bambina, non era cieca e non concedeva facilmente la sua fiducia, e inoltre non sopportava il fatto di aver contribuito alla propria cattura. E così adesso Strahan la teneva prigioniera nel vecchio castello sull'Isola di Cristallo, che solo dieci leghe di mare separavano dai moli del porto di Hondarth. Durante la sua infanzia aveva conosciuto l'Isola di Cristallo come un luogo di mistero e di segreti appena sussurrati, il luogo di nascita dei suoi antenati Cheysuli che erano giunti ad Homana per edificare un regno per i propri discendenti. Adesso nessuno viveva sull'Isola di Cristallo e tutti la evitavano perché l'alito degli dèi l'avvolgeva nella nebbia e nella magia, e gli Homanan, che continuavano a temere la magia metamorfica della loro casa reale, temevano anche una qualche forma di punizione se si fossero recati in quel luogo. Ed anche i Cheysuli, che sapevano di essere benvoluti dagli antichi dèi, stavano alla larga: la loro vita era ad Homana, ora, e l'Isola di Cristallo apparteneva al passato. E così Strahan ne aveva fatto il suo regno, il suo presente. La fanciulla
era sua ospite e sua prigioniera, e Strahan giaceva con lei ogni notte per poter concepire il bambino. Quel figlio delle tenebre che lentamente, abilmente e con pazienza, avrebbe infiltrato la magia Ihlini nella Casa di Homana, fino al momento in cui il Mujhar e tutta la sua razza sarebbero caduti, e Homana sarebbe diventato il regno degli Ihlini. Il regno della magia nera e dei demoni. La trappola era scattata con facilità: Keely era stata chiamata ad Hondarth per il primo incontro con il suo fidanzato che arrivava dal reame isolano di suo padre. Lei era andata, riluttante a sposarlo e a perdere la sua libertà, ma consapevole dei doveri del suo tahlmorra ed era caduta nella trappola. Strahan, travestito da principe di Erinn, l'aveva convinta a bere l'acqua che l'aveva privata dell'anima. E così lei perse la sua magia, il suo passato, il suo presente, il suo futuro e la cognizione di se stessa. Finché il suo sangue manteneva la nera colorazione della magia, lei era inerme, privata del suo potere Cheysuli e incapace di respingere l'indesiderata intimità di Strahan. Ma ora la consapevolezza stava tornando: la magia di Strahan le aveva fatto perdere la memoria per svariati giorni, ma ora era in grado di contarli, sapeva chi era ed in che situazione si trovava. E sapeva quale nemico aveva di fronte. E sapeva, con tutta la forza, la determinazione e la volontà di cui era capace, che in qualche modo si sarebbe liberata di lui. La finestra aperta della sua stanza era stretta e alta, ma spingendo una panca sotto di essa e salendovi sopra, Keely riuscì a vedere quello che si stendeva al di là dei muri della stanza, che era la sua prigione, anche se confortevole. C'erano colline ricoperte d'erica e fitte foreste, spiagge sinuose che brillavano argentee nella luce della luna e di un bianco accecante di giorno; oceani color ardesia e cieli senza fine. Foschia e spuma del mare erano sospesi sull'isola come un velo: l'alito degli dèi; denso al mattino, plumbeo di notte e di un bel colore dorato nella luce del giorno. Se solo avesse potuto stendere la mano e scostare il velo nebbioso, avrebbe potuto strapparlo e vedere Homana al di là dell'Oceano Idriano. Dal mare giunse una brezza leggera che si insinuò attraverso la finestra e fra i suoi capelli color del rame, scompigliandoli allegramente. Ora li portava sciolti, lasciandoli cadere sulle spalle fino alla vita, perché Strahan li preferiva così. Ma a Keely non piaceva, e la prima volta si era ribellata e, strappando una striscia di tessuto dal suo lungo abito blu, se li era annodati. Strahan era rimasto in silenzio e, senza toccarla, con una mano spettrale aveva sciolto il nodo e li aveva fatti ricadere liberi sulle spalle. Keely tre-
mava ogni volta che ricordava l'episodio e da allora non li aveva più intrecciati. Era in piedi sulla panca, e stringeva il davanzale di pietra della finestra come un bambino che desidera ardentemente qualcosa che non può avere. Appoggiò la guancia fredda contro la pietra altrettanto fredda e volse lo sguardo oltre la spiaggia, oltre la foschia, cercando di vedere Homana. «Un uccello in gabbia» disse lui con voce sommessa. «Un fanello, forse, o un passero, ma certo non il falco, che non lo sopporterebbe, o lo sparviero di Homana, che non cade nelle mani del cacciatore.» Keely non si voltò; rimase sulla panca sotto la finestra, ma strinse con tanta forza la pietra che finì per spezzarsi le unghie. Le mani di Strahan furono su di lei, facendola scendere a terra e costringendola a voltarsi. Keely guardò quel viso attraente e barbuto e quegli occhi misteriosi: uno azzurro ed uno marrone, e sentì nascere dentro di sé l'ormai nota repulsione. «Non devi addolorarti» le disse con quella sua voce gentile e seducente. «Le donne che sono tristi non piacciono agli uomini che le desiderano. E io ti desidero. Keely.» Lei chiuse gli occhi mentre lui faceva scivolare le mani sotto il suo abito per accarezzarle i seni. Come sempre, il suo tocco le fece accapponare la pelle. Lui sembrò compiaciuto, come se gli bastasse suscitare in lei una reazione qualunque. Ma lui era più di un uomo, era un Ihlini. Stregone. Figlio degli dèi che gli avevano regalato una vita senza limiti. L'unica cosa che le impediva di sentirsi male di fronte a lui era la consapevolezza che Strahan avrebbe potuto credere che lei fosse incinta e questo non glielo avrebbe mai rivelato. Perché era quello che lui voleva. «Ti terrò qui per tutto il tempo che ci vorrà» sussurrò tra i suoi capelli. «Se invecchierai, ti manterrò giovane finché non avrai concepito, finché non mi avrai dato un figlio.» Lei non guardava in quegli occhi misteriosi, quegli occhi che avevano un loro potere. Quel gesto avrebbe significato ammettere la sconfitta e quello lei non l'avrebbe mai fatto. Aveva imparato a non lottare contro di lui quando la prendeva, perché lottare gli avrebbe dato modo di usare la magia su di lei e questo gli era insopportabile ancor più dell'intimità con Strahan. Lei era una Cheysuli, e la stregoneria Ihlini era per lei una maledizione. Se avesse avuto tutti i suoi poteri, avrebbe potuto resistere alla magia nera, perché il suo sangue le conferiva una protezione naturale, ma lui le aveva corrotto il sangue, rendendolo nero e denso. Fin quando non
avesse ricominciato a scorrere rosso e generoso, sarebbe stata in suo potere. «Keely» disse lui piano, «ti ho portato qualcuno.» Lei non rispose. Strahan smise di accarezzarla e la lasciò sola, e quando lei riaprì gli occhi vide nella sua camera il suonatore di arpa. Taliesin. L'uomo dai capelli bianchi che non aveva età grazie al dono del padre Ihlini di Strahan, perché la sua abilità nel suonare e la voce magnifica gli avevano procurato fama e fortuna. Ma il dono dell'immortalità non aveva portato a Taliesin la pace, perché lo stesso Strahan aveva punito l'uomo che chiamava traditore, trasformandogli le mani in piccole cose contorte e deformi che non potevano più suonare l'arpa. E Taliesin aveva reagito a quella definitiva crudeltà di Strahan diventando veramente un traditore, proprio come lui sosteneva: perché Taliesin, il suonatore di arpa, era anch'egli un Ihlini ed era un amico di Homana. E quindi anche lui, come Keely era stato preso prigioniero a Hondarth. Keely, che per troppo tempo non aveva visto nessuno all'infuori di Strahan, pensò che si trattasse di uno scherzo dei suoi occhi. Ma il suonatore di arpa fece un sorriso triste e attraversò la stanza, tendendo verso di lei le sue mani deformi. Lei si rifugiò tra le sue braccia, aggrappandosi a lui come se avesse potuto salvarle l'anima. «Come te la passi?» le chiese, quando lei si fu ripresa. Keely fece una smorfia. «Abbastanza bene. Ho cibo, vino ed una salute perfetta. Se ne prende cura personalmente.» Taliesin la prese per mano e si sedette lentamente sulla panca. Sedendosi accanto a lui, Keely pensò che aveva cominciato ad apparirle vecchio: per un uomo immortale, la cosa sembrava strana. «E tu?» sussurrò. «Che cosa ti ha fatto?» L'arpista fece un tenue sorriso. «Come te, mi ha tenuto sottochiave. Solo. Forse per un altro uomo sarebbe dura, ma io ho la mia voce. Strahan ha tolto alle mie mani la magia dell'arpa, ma non può distruggere la mia voce e il ricordo di ciò che avevo.» «Mi dispiace» disse lei sottovoce. «Tu non dovresti essere qui, era me che voleva. Se tu non fossi venuto con me a Hondarth...» «Non importa» disse lui dolcemente. «Preferisco di gran lunga essere qui con te, in questa situazione, che saperti da sola con quell'uomo. E verrà il momento in cui riusciremo ad andarcene da questo posto.» Keely tacque a lungo e poi lo implorò di darle la fibbia della sua cintura di cuoio. Dapprima lui la fissò, sconvolto da quella veemenza, ma quando
glielo chiese di nuovo, la accontentò. Lentamente si sfilò la cintura, tolse la fibbia di bronzo e la porse a Keely. Lei la strinse nel pugno. Voltò il braccio sinistro, scoprendo il polso e lui vide le pallide cicatrici che segnavano la pelle traslucida. Per un attimo Keely strinse le mascelle, poi spostò la fibbia e conficcò la punta nel polso. Taliesin gridò e le afferrò la mano, strappandole la fibbia; Keely non parlò. Rimase seduta immobile a guardare il sangue che usciva. «Vedi?» chiese. «Vedi che cosa ha fatto?» Il sangue usciva piano dalla ferita e scorreva lungo il braccio, lasciando una scia di un nero brillante come la bava di un serpente demoniaco. L'arpista tremava mentre le stringeva il polso con la mano, fermando il sangue. Era pallidissimo. Gli occhi, azzurri proprio come i suoi, avevano un'espressione d'orrore e Keely, fissandoli e leggendovi la sofferenza, provò un insopprimibile senso di repulsione. «Sono contaminata» disse con voce roca, «impura.» «Keely...» «Non posso fermarlo. Il dono del lir se n'è andato, perduto nella nera sozzura del mio sangue. Tutte le notti mi porta nel suo letto, per concepire un figlio, un figlio che rovescerà la Casa di Homana.» Fu scossa da un tremito convulso. «Per molto tempo non ho ricordato nulla, ho cominciato a ricordare solo da pochi giorni ed ora è peggio di prima. Se sapesse che ora ricordo di essere una Cheysuli, potrebbe farmi di nuovo dimenticare.» «Keely, lascia che ti bendi la ferita.» Lei sorrise con tristezza e allontanò la sua mano, mostrandogli la ferita. Il sangue aveva già cominciato ad uscire più lentamente. «Si fermerà da solo, come sempre. Sì» disse, vedendolo trasalire per la sorpresa. «L'ho fatto altre volte. Non per uccidermi, ma per vedere il mio sangue... per vedere se ero libera. Non lo sono.» «Questa è l'Isola di Cristallo!» disse lui con forza. «Il luogo del potere dei Cheysuli. Devi solo invocare gli antichi dèi e sarai libera.» «Li ho invocati» gli disse. «Ho supplicato. Essi non sentono.» Keely toccò il liquido nero sul braccio. «Non rispondono.» Si alzò di scatto, allontanandosi da Taliesin con le movenze aggraziate di un felino. Quando si voltò verso di lui, era pallidissima. «Ho concepito. Aspetto un figlio... un figlio di Strahan...» «Keely...» Lei rabbrividì violentemente. «Ho sempre detto che non volevo nessun figlio. Ho paura. Sono perduta, non farò altro che generare figli, e non sarò
più Keely. Sarò una cavalla da monta, servita dai migliori stalloni.» Sorrise senza allegria, stringendo sconvolta le mani sul ventre. «Prima lo stallone doveva essere il principe di Erinn, ora è Strahan. L'Ihlini! E il figlio che porto sarà una parodia di me stessa.» Strinse i pugni. «Per gli dèi, arpista! Ho paura! Non voglio questo bambino! Prima era perché non volevo figli. Ora devo perderlo perché è il figlio di Strahan!» Taliesin si alzò e le si avvicinò. Conosceva l'orgoglio e la forza di Keely come conosceva i propri e vedeva riflesse in lei le virtù che facevano della sua gente i guerrieri migliori del paese. Quello stesso orgoglio e quella stessa forza che l'avevano portata ad imparare l'arte della spada e del coltello come se fosse stata una guerriera come suo padre e i suoi fratelli. Era una principessa di Homana, una donna Cheysuli nelle cui vene scorreva il Sangue Antico ed una combattente pari a qualunque uomo lui avesse mai conosciuto. Per lei, essere stata intrappolata da Strahan, intrappolata da quell'ultimo tradimento del suo stesso sangue, era una condanna peggiore di qualunque galera. Ma non poteva mentirle. «Non puoi desiderare che il bambino non nasca, Keely.» Lei si umettò le labbra. «C'è certamente qualcosa che posso fare.» «È un essere vivente, Keely, certo è il figlio di Strahan, ma non dimenticarti che la madre sei tu. Nessun bambino che sia per metà tuo può essere totalmente malvagio.» «Lui me lo porterà via» disse. «Lo corromperà, ne farà un'immagine di se stesso.» Si aggrappò alle sue braccia. «Taliesin... Io devo perderlo!» Lui trasse un respiro profondo e lo esalò adagio. Keely riacquistò il controllo di se stessa e alla fine lui le disse: «Ci sono dei modi per liberarti di un bambino indesiderato. Puoi prendere delle erbe. Ad Homana ci sono, se tu potessi arrivarci.» Sospirò. «Non posso perdonarti, ma capisco le tue paure, hanno un valore. Ma come ti proponi di farlo, mentre Strahan ti tiene prigioniera?» Lei strinse i denti. «Troverò un modo. Mi getterò sul pavimento, più e più volte se sarò costretta, e in quel modo lo perderò.» Sorrise divertito dalla sua determinazione, anche se conosceva le conseguenze di una tale follia. «Keely, non è così facile come pensi.» Sentì un dolore al petto quando respirò. «Rischierò qualunque cosa pur di liberarmi di questo figlio del demonio. Devo farlo!» Lo fissò intensamente. «È il momento che io serva il mio tahlmorra. Il mio destino. È il momento che io sacrifichi qualunque cosa per servire gli dèi. Il tahlmorra
è una prerogativa Cheysuli, ma non può essere negata. Il farlo scatenerebbe l'ira degli dèi, che stabiliscono il fato per tutti noi. Io ho accettato il mio: andrò dal mio promesso sposo quando riuscirò a fuggire da questo luogo e partorirò dei figli suoi. Ma resterò me stessa. Questo nessun uomo potrà negarmelo.» Lui era un Ihlini. Era vincolato al suo futuro senza fine, al suo destino senza fine, ma comprendeva quello che spingeva Keely. Il tahlmorra, il volere degli dèi, animava un'intera razza, perché ogni Cheysuli che nasceva, viveva per servire gli dèi. Il tahlmorra di Keely, e suo padre, avevano decretato che lei sposasse un Erinn per legare il loro sangue a quello di Homana, ma per poterlo fare, lei doveva prima liberarsi di Strahan. «Cosa che non farà mai» disse la voce dello stesso Strahan. Keely girò su se stessa e lo vide in piedi nella stanza dove prima c'erano solo lei e il suonatore di arpa. Una nebbia violacea lo circondava come un sudario, ammantandogli il capo e le spalle. Strahan era in grado di usare una porta come qualsiasi uomo, ma sapeva che la sua magia era un'arma proprio come il coltello di cui raramente si serviva. «È tempo che tu te ne vada, arpista» disse dolcemente. «Keely è giunta ad apprezzare la sua solitudine. E la mia compagnia.» Un sorriso comparve tra i riccioli della barba nera e ben curata, mentre i denti bianchissimi spiccavano sui lineamenti scuri. Sarebbe stato una bellissima donna, e come uomo era decisamente avvenente. «Sei stanco di questa vita, Taliesin?» domandò. Taliesin, l'uomo dai capelli bianchi e dal viso giovane, si limitò a sorridere. «Tu farai quello che vuoi, qualunque sia la mia risposta. Quindi non te ne darò nessuna.» Keely, accorgendosi che Strahan stava mettendo alla prova il suo amico, si portò a fianco del suonatore di arpa. «Non gli farai del male!» «Non voglio fargli del male» rispose Strahan. «Voglio solo porre un termine alla sua vita.» Gli occhi dai due colori si fissarono su Taliesin. «Il tempo finisce per ognuno di noi, arpista. Anche per te.» Taliesin prese la mano di Keely tra le sue, spezzate e deformi. «Non temere per me. E non temere neppure per te stessa, perché sei più forte di quanto credi.» «Arpista» disse Strahan, e Taliesin la lasciò di nuovo sola. «Non fargli del male» disse allo stregone con voce tranquilla. «Farò quello che voglio.» Il suo sguardo si spostò da lei verso la finestra aperta. «Sono stufo di questo sole.»
Keely, che stava per aprire la bocca per chiedergli cosa volesse dire, tacque quando lo vide sollevare una mano in aria. Per un attimo rimase sospesa, come in un gesto di benedizione. Poi tracciò una misterioso segno nell'aria immobile, e quando questo scomparve nella sottile nebbia violacea anche lui non c'era più. Il temporale si scatenò all'improvviso dalle profondità di una notte così buia che Keely pensò di essere diventata cieca. Si sedette sul letto e socchiuse gli occhi alla luce di un lampo che balenò dalla finestra aperta. Il vento si insinuò nell'apertura come un demone capriccioso, riempiendo di foglie la stanza. Keely, che indossava solo una sottile camicia da notte, si strinse le coperte sulle spalle. Alla luce di un altro lampo, vide la pioggia battente che cadeva all'esterno. Il vento portava gli spruzzi nella stanza, ricoprendole i capelli di una sottile rugiada. Il tuono si abbatté sul castello e rombò nella stanza. Poi lei si accorse che non si era trattato di un tuono, ma di una porta, la sua, che ora si apriva verso il corridoio. Quando una figura entrò nella stanza, Keely aprì la bocca per gridare. La luce di un lampo illuminò il viso di Taliesin, mostrando i capelli bianchi e gli occhi azzurri, e Keely trasse un sospiro di sollievo. Lui la chiamò con un cenno delle mani deformi. «Keely! Vieni, presto! Questa è la tua possibilità di fuggire!» «Strahan...?» «È da un'altra parte» rispose lui impaziente. «Vieni con me!» In fretta uscì dal letto, sistemò le pieghe della camicia da notte, poi afferrò la sua mano ed insieme corsero lungo il corridoio. Il cuore le martellava in petto mentre si rendeva conto di quanto fosse vicina alla fuga, di quanto fosse vicina alla libertà. E di quanto poco ci volesse ad essere scoperti se non stavano attenti. La condusse lungo un corridoio tortuoso e poi all'esterno, verso le alte mura della cerchia esterna. Keely non aveva visto nulla del castello, tranne le sue stanze; si fermò inciampando, mentre Taliesin cercava di trascinarla avanti. La pioggia le appiccicava i capelli sulla testa e penetrava fino alla pelle attraverso la stoffa sottile della camicia da notte. Taliesin indicò con una mano: «I cancelli... là! Vieni, Keely!» Corsero insieme verso l'enorme cancello, boccheggiando, quando una raffica di vento si avventò contro di loro e minacciò di far perdere l'equili-
brio a Keely. Si passò una mano sul viso, cercando di togliersi l'acqua dagli occhi, ma era una fatica mutile. Taliesin la trascinò contro un muro quando un lampo scaturì dal cielo nero illuminando i bastioni. Keely ne approfittò per chiedergli che cosa era accaduto. «Strahan aveva creduto che fossi morto, ed io glielo lasciai credere. Quando se ne andò, lasciò la porta aperta, immaginando che io fossi con gli dèi degli inferi, e così ho potuto raggiungere le tue stanze. Il castello è quasi deserto; pensavo che con lui ci fossero altri Ihlini, ma non ce ne sono. Ma questa è l'Isola di Cristallo, ed anche se egli la usa per i suoi scopi malefici, deve sapere che non è certo il benvenuto, qui. Un Ihlini tra gli dèi Cheysuli? No, essi lo puniranno.» «Perché ha pensato che tu fossi morto?» chiese lei bruscamente. Il viso di lui era una macchia confusa nell'oscurità. «Mi ha tolto il dono di suo padre.» «Che cosa dici?» domandò Keely, terribilmente spaventata per lui. Taliesin trasalì allo scoppio di un tuono sopra le loro teste. «Suo padre mi aveva donato l'immortalità. Il figlio me l'ha tolta.» «Tolta...» Prese il viso bagnato di lei tra le sue mani contorte. «Sto morendo, Keely. Finalmente. Ho vissuto più di cento anni, ma la mia vita sta finendo. Strahan si è ripreso il dono.» «No!» «Non so dire con esattezza come» disse in tono dolce, «ma lo ha fatto. Già le mie ossa si fanno fragili e il cuore perde colpi. Io non fuggirò da questo luogo, ma farò in modo che tu possa fuggire.» «Taliesin...» «Vai, mia orgogliosa principessa-guerriera Cheysuli. Non indugiare più. Sto offrendo la mia vita in cambio della tua.» Lei fissò quel viso senza età che stava invecchiando e si aggrappò alle sue mani come per infondergli un po' della propria forza. Lui sorrise, e capì. «I cancelli sono chiusi ma incustoditi. Ti solleverò più in alto che potrò, e poi tu dovrai arrampicarti. Puoi farcela?» Attraverso la pioggia, Keely scrutò l'alto cancello di legno con le pesanti cerniere di ferro e le massicce sbarre trasversali; non erano certo fatte per essere scalate. «Se solo potessi assumere la forma-lir» sussurrò. «Mi tramuterei in un falco, volerei sopra le mura e raggiungerei la stessa Homana.» Sospirò e rabbrividì, asciugandosi la pioggia dagli occhi. «Ma non
posso, per cui devo superarle in qualche modo.» Intrecciò le dita deformi, e le rivolse un sorriso incoraggiante. Keely, guardando il debole appoggio che lui gli offriva, gli gettò impulsivamente le braccia al collo. «Taliesin...» Lui sciolse le mani e la strinse a sé per un lungo istante. Poi si staccò da lei. «Devi andare prima che io diventi troppo debole. Vai, Keely.» Lei attese mentre Taliesin si piegava e intrecciava le mani. Lentamente posò su di esse un piede nudo, sentì che lui si tendeva e si sporse in alto mentre la sollevava. Sentì le braccia e le spalle di lui vibrare mentre la sollevava più in alto, spingendola verso la sommità del cancello. Graffiò il legno con le dita alla ricerca di un appiglio e posò un piede sui ruvidi cardini che sostenevano il battente di sinistra dell'enorme cancello. Le dita dei piedi vennero graffiate dalle schegge e si ritrassero al contatto del freddo metallo, ma lei strinse i denti e cercò una rientranza. La cima era ancora molto lontana. Keely si tese verso l'alto sfregando il corpo contro il legno, gemendo per lo sforzo e sbattendo le palpebre per liberarsi della pioggia che le cadeva negli occhi. Il tessuto leggero della sua camicia da notte si strappò ed i suoi seni strusciarono contro il legno. Keely si morse il labbro inferiore mentre le mani cercavano disperatamente un appiglio. Con un piede raggiunse una delle sbarre trasversali; vi si appoggiò con cautela, aggrappandosi con una mano al cardine di ferro mentre spostava il peso verso l'alto. Ora non si appoggiava più a Taliesin, ma era aggrappata al cancello come un ragno alla sua tela. Sentì l'arpista gemere sotto di lei. Sentì sotto le dita dei piedi i pesanti perni di ferro che sporgevano dal legno a sufficienza per potersi agganciare. Con cautela, fece scorrere il piede sulla fila di perni, cercando un appoggio, e finalmente ne trovò uno che sporgeva più degli altri. Il cardine superiore era al di sopra della sua mano tesa, ma con una spinta ben calibrata poteva sperare di raggiungerlo. Strinse il perno con un dito, premette contro la sbarra trasversale e si issò verso l'alto. La sua mano destra afferrò il cardine superiore, e lei vi si aggrappò con tutta la forza, sfruttando la spinta per issarsi più in alto. Respirava affannosamente e i polmoni quasi le scoppiavano. Il perno le feriva la carne, ma lei ignorò il dolore, continuando a strisciare verso l'alto. La sbarra era molto più in basso e non aveva più appoggi per i piedi. Keely si aggrappò al cardine superiore e tirò con tutta la sua forza cercando di raggiungere la sommità del cancello. Se fosse caduta ora...
Alla fine la afferrò. Per un attimo rimase lì appesa con entrambe le mani, mentre i piedi scivolarono contro il legno viscido, poi strinse i denti e infilò un piede nella fessura tra il cancello ed il muro. Per un attimo la caviglia rimase incastrata e sfruttando l'opportunità, si issò verso l'alto, lanciando un gemito mentre si trascinava verso la cima. Sporse il mento oltre l'orlo. Di nuovo sollevò il piede e lo spinse contro il muro, guadagnando qualche centimetro. Poi, con gli occhi chiusi e la guancia premuta contro il margine di ferro del cancello, allungò la gamba sinistra più in alto che poté e passò il ginocchio oltre l'orlo. Per un attimo perse l'equilibrio; con le braccia e una gamba raggiunse la sommità, ma il piede destro era ancora incastrato tra il muro ed il cancello. Keely strinse i denti ed ignorando il dolore improvviso che le trapassò la carne, riuscì a liberarlo. Si issò sulla cima, restando sdraiata sul ventre in precario equilibrio. Guardò in basso e vide Taliesin. Aveva il viso rivolto verso l'alto per seguire i suoi progressi e nella breve luce di un lampo lei vide il suo sorriso trionfante. Nel lampo seguente, lo vide accasciato a terra e comprese che era morto. Per un attimo il dolore le strinse talmente il petto che le parve di soffocare. Esalò un debole e muto lamento, ondeggiando selvaggiamente il capo. Poi si aggrappò al cancello con tutta la sua forza e si obbligò a reprimere il dolore che provava per lui, a dimenticarlo... Il suo dono a Taliesin sarebbe stato quello di riuscire a fuggire da quel luogo. Elevò una fervente preghiera agli dèi e poi scivolò dall'altra parte del cancello per iniziare la discesa. Fu al tempo stesso più facile e più difficile. Facile perché doveva solo allentare cautamente la presa mentre si spostava verso il basso, ma se lo avesse fatto sarebbe scivolata, cadendo e sfracellandosi sul terreno. Più difficile perché doveva aggrapparsi saldamente, scivolando verso il basso a poco a poco, cercando alla cieca gli appigli per i piedi che potevano rallentare la sua discesa. Usò i cardini, procurandosi graffi sulla guancia, sui seni e sulle ginocchia, mentre i gomiti si ridussero a brandelli sanguinanti. Il sangue brillava nero alla luce dei lampi. Un piede trovò il cardine inferiore e l'altro la sbarra trasversale. Per un attimo Keely rimase aggrappata al cancello, assicurandosi di essere in equilibrio, poi voltò la testa per guardare il terreno sotto di sé. Era fangoso e impregnato d'acqua, ma era meglio del selciato nella cerchia interna di mura. Keely si staccò dal cancello e saltò.
Atterrò duramente sui piedi e cadde in avanti sulle mani e sulle ginocchia, e poi finì lunga e distesa. Per un momento giacque ansante nelle pozzanghere che si formavano intorno al suo viso, poi si trascinò a sedere e si tolse l'acqua dagli occhi. Era viva. Era libera. Keely rise sommessamente, volgendo lo sguardo al cielo in tempesta: la pioggia continuava a cadere e le nuvole oscuravano le stelle e la luna, ma era libera. Strahan non poteva toccarla. Il cancello alle sue spalle gemette e scricchiolò. Keely si volse di scatto, vide i catenacci che si muovevano e balzò in piedi. Quando il pesante cancello si aprì cigolando, cominciò a correre. Felci e sterpaglie le si avvinghiavano alle gambe mentre si apriva la strada nella fitta vegetazione: si era lasciata alle spalle la spiaggia e l'erba morbida ed era fuggita nelle profondità di una strana foresta. I lampi le indicavano la strada mentre correva, illuminando il sentiero davanti a lei con una magica luminescenza verdastra. Keely sollevò i lembi della camicia da notte inzuppata sopra le ginocchia e saltò gli ostacoli che le si paravano dinnanzi. Inciampò parecchie volte, cadendo malamente, ma ogni volta si rimise in piedi, continuando a correre. L'istinto le diceva che Strahan era alle sue spalle, vicino, e lei non poteva fare ricorso alla magia per assumere la forma di un animale, la forma-lir. Se l'avesse raggiunta, l'avrebbe catturata. Alla fine si accasciò esausta contro un tronco, rendendosi conto di non poter più proseguire: le gambe le tremavano talmente che pensò di essere sul punto di cadere, solo perché era aggrappata all'albero riusciva ancora a restare in piedi. Per un attimo chiuse gli occhi, ansimando dolorosamente nella pioggia, poi una luce accecante le penetrò sotto le palpebre. Aprì gli occhi e vide un colonna di fumo rossastro che sibilava nel cielo nero. Per un istante fissò stupita quella colonna che prendeva forma, avvinta dalla sua smagliante bellezza, poi vide la forma delinearsi più chiaramente e Strahan fu di nuovo con lei. «Che sciocchezza» la rimproverò dolcemente. La luce svanì lentamente, sibilando, quando lui allungò una mano. Keely disse qualcosa di incomprensibile persino per se stessa, poi si staccò dall'albero e riprese a correre. «Perderai il bambino» le gridò lui. Keely tremò, rendendosi conto che lui lo aveva sempre saputo, ma nella sua voce udì anche una nota di genuina preoccupazione. Se avesse perso il bambino che lui voleva tanto... Rise selvaggiamente mentre correva. «Bene. Bene!» La pioggia e il fo-
gliame si chiusero dietro di lei come una cortina. La luce di un lampo illuminò una pietra che si profilava davanti a lei; un secondo fulmine la illuminò con maggior chiarezza ed ella vide che erano le rovine di una vecchia cappella. Keely vi si infilò e si lasciò cadere contro il muro umido e freddo, gettando indietro il capo nel tentativo di riprendere fiato. Sentì l'odore della muffa e del tempo. La pietra era scivolosa al tatto, e ricoperta di licheni. Gran parte del tetto era crollata. Keely vide le tracce delle vecchie travi di legno, anche se la maggior parte erano crollate a terra all'interno dei muri della cappella. Assi di legno si appoggiavano disordinatamente alle pareti di pietra diroccate. Da un lato l'interno era riparato dalla furia degli elementi, ma in gran parte era aperto al vento e alla pioggia turbinante. Le pareti umide brillavano argentee alla luce della luna. Keely, rendendosi conto che il temporale stava passando, gettò il capo all'indietro e vide la luna e le stelle che splendevano sullo sfondo nero dell'arazzo degli dèi. Si scostò dalla soglia in rovina. Un raggio di luce lunare si posò sui resti di un altare. Lei si avvicinò con cautela, provando un po' di timore per quel luogo. Aveva già sentito parlare di posti simili, negli angoli più lontani di Homana, ma mai sull'Isola di Cristallo. Eppure, era dall'Isola di Cristallo che erano venuti i Cheysuli, i figli degli dèi, e forse quel luogo era anche suo. Si inginocchiò sulla terra umida e ricoperta di foghe davanti all'altare. Sulla pietra inclinata che le stava di fronte c'erano delle rune, consumate e scalfite dal passare del tempo, ma pur sempre rune. Sporse una mano e le sfiorò, senza accorgersi di quanto sporche, graffiate ed insanguinate fossero le sue dita. Non sapeva leggere l'Antica Lingua, ma riconobbe alcuni dei simboli e si rese conto di essere capitata in una cappella costruita dai Cheysuli per onorare quegli dèi che lei stessa venerava. Un rumore di passi alle spalle la fece balzare in piedi e voltare di scatto. Strahan era fermo sulla soglia. Vide che indossava pantaloni di pelle nera ed un'ampia veste di velluto color cremisi. Non portava coltello alla cintura. Non gli serviva. Fece un gesto con quella grazia melliflua che lei odiava perché le ricordava quella della sua gente. «Rendi omaggio a questo posto finché puoi. Sarà l'ultima volta che vedrai una cappella Cheysuli. D'ora in avanti ti terrò rinchiusa come una prigioniera e rimpiangerai di essere fuggita.» «Ero prigioniera anche prima!» Lui sorrise, e la dolcezza di quel viso la fece rabbrividire. «Ma una pri-
gioniera trattata con grande cura. E lo sarai ancora... per un po'. Finché non sarà nato il bambino. Allora ti metterò nelle celle sotterranee... finché non avrò di nuovo bisogno di te.» Keely sentì l'altare in rovina dietro le ginocchia, e le pareti sembrarono richiudersi sopra di lei. Strahan bloccava l'unica via di uscita e per questa notte non era più in grado di arrampicarsi. «Sono caduta» gli disse con tono sorpreso. «Prima, mentre correvo... sono caduta, e perderò il bambino.» Sentì un fremito di paura rendendosi conto della verità di quelle parole, ma anche una gioia feroce perché lui non avrebbe avuto quello che voleva da lei. «Non avrai nessun mezzosangue da me, Ihlini!» Lui fece un passo avanti. «Può darsi che tu menta come può darsi di no. Ma non ti servirà a molto, mia principessa metamorfa. Se perderai questo bambino, io te ne farò concepire un altro.» Sorrise vedendo la sua smorfia di repulsione. «Non avresti preferito risolvere la questione questa volta?» «Forse perdendolo morirò» rispose fiera, sperando che questo potesse avvenire, se serviva a liberarla da lui. «Forse morirò, come muoiono molte donne, e così non avrai nulla!» Strahan si avvicinò. Keely cercò di indietreggiare, incontrò l'altare e cadde al di là di esso. Gridò di dolore, cadendo pesantemente a terra, poi all'improvviso si ritrovò sotto le dita qualcosa di affilato. Istintivamente lo afferrò, per usarlo come arma, come il suo maestro d'armi le aveva detto tante volte: "Quando sei in pericolo, usa qualsiasi arma che hai sottomano, anche se non è realmente un'arma"... e balzò in piedi, lanciandosi contro Strahan. Vide il coltello conficcarsi nel petto del mago. Keely gridò. Strahan barcollò cadendo in ginocchio, con entrambe le mani strette attorno al pugnale conficcato fino all'elsa. I suoi occhi, metà azzurri e metà marroni, la fissavano spalancati con espressione selvaggia e la bocca si aprì in un orribile grido strozzato. Cadde contro l'altare, conficcando il coltello ancor più in profondità, poi scivolò lentamente di lato e giacque sulla schiena. Keely rabbrividì. Si sedette tra le rovine cadenti di un antico altare e non smise di tremare finché le ossa non le fecero male. Portò una mano alla bocca come se si sentisse male, poi strinse i denti e chiuse gli occhi. Avevo già combattuto, pensò confusamente. Avevo già combattuto con spada e pugnale, ma sempre in allenamento, sempre contro il maestro d'armi. In tutti i miei anni di ribellione, quando seguivo le abitudini dei guerrieri e non quelle delle donne, non ho mai saputo cosa volesse dire
realmente prendere la vita di un altro. Deglutì con sforzo, combattendo la bile che le saliva in gola. Per gli dèi... dopo tutto non è una cosa tanto semplice essere un guerriero! Infine aprì gli occhi e sollevò lo sguardo attraverso il soffitto diroccato. Vide la luna piena. Il vento era calato ed il rombo dei tuoni ormai si udiva solo in lontananza. Solo una debole foschia che si levava dagli alberi sgocciolanti penetrava nelle rovine, bagnandole il volto. Keely si passò distrattamente una mano sul viso e guardò Strahan. Aveva gli occhi aperti. Anche nella morte rimanevano vivi in modo innaturale: uno marrone e uno azzurro, il marchio del demone. Di nuovo, un brivido scosse Keely mentre si avvicinava strisciando per chiuderglieli, non volendo che il mago continuasse a guardarla neanche dopo morto. Il suo corpo era ancora caldo e un rivolo di sangue gli usciva dalla bocca e gli scendeva fin sulla barba. Il coltello sporgeva dal petto, bagnato di sangue, ma Keely strinse i denti ed afferrò l'impugnatura con entrambe le mani e lo estrasse dal suo fodero di carne. Uscì con riluttanza, ma alla fine lo ebbe fra le mani. Sollevò una piega dell'abito cremisi di Strahan e pulì la lama, facendo attenzione a togliere tutto il sangue dell'Ihlini. Poi, per la prima volta, lo guardò attentamente e si rese conto che le sue dita, afferrandolo, lo avevano riconosciuto anche in quell'estremo frangente. Sull'impugnatura vide il leone rampante con un rubino come occhio. Tratto per tratto, con grazia e forme ondeggianti, ricalcava il disegno del suo stesso coltello, che portava lo stemma reale di Homana. «Ma questo non è il mio» sussurrò meravigliata. «Strahan me lo aveva portato via...» Fissò l'impugnatura facendo scorrere incerta le dita sul leone. Non c'era dubbio che provenisse dalla casa di Homana, era simile a quelli portati da suo padre e dai suoi fratelli. Ma che cosa ci faceva in una cappella in rovina sull'Isola di Cristallo? Una debole brezza s'insinuò nella cappella. Keely, con indosso quella camicia da notte umida e strappata, rabbrividì a quel soffio leggero. Cercò di ignorarlo e si accorse di non riuscirci. Alla fine sollevò lo sguardo verso il cielo scuro e vide le stelle che brillavano tremolando, come se cercassero' di parlarle. Afferrò il coltello per il manico e fece scivolare la punta contro la carne del braccio sinistro, facendosi un piccolo taglio. Il sangue sgorgò, libero e
vivace, d'un rosso brillante alla luce della luna. Sorrise guardando il sangue. Vide il coltello e le ritornarono alla mente le storie di un membro della famiglia che era morto sull'Isola di Cristallo più di quarant'anni prima. «Devi solo evocare gli antichi dèi, e sarai libera!» aveva detto Taliesin. Lei non ci aveva mai veramente creduto. Per tutta la vita le era stato insegnato ad onorare gli dèi, ma il farlo era diventata un'abitudine più che un vero omaggio, ed allora capì perché prima non le avevano mai risposto. Allora non aveva avuto bisogno di loro. «Vi ringrazio» sussurrò nell'oscurità. «Ringrazio il mio congiunto Taliesin, e il maestro d'armi che mi ha istruita così bene. Ma soprattutto ringrazio tutti gli dèi.» Rimase accosciata ancora un momento e poi si inumidì le labbra. «Non posso avere questo figlio. Forse non lo avrò, dopo la violenza di questa notte, ma qualunque cosa succeda, devo perderlo. Non posso distruggere la mia stessa casa.» Le ombre non risposero. Alla fine, sapendo di non poter tornare ad Homana con una camicia da notte che mostrava i contorni del suo corpo, Keely superò il proprio disgusto e prese l'abito cremisi dal corpo di Strahan. Per qualche attimo tenne l'abito fra le mani, combattendo la repulsione che le ispirava il sangue ancora fresco, poi se lo fece scivolare sopra la camicia da notte. Lo accorciò tagliando il bordo con il coltello, prese la cintura di Strahan, la adattò alla sua misura e se la legò in vita. Si chinò ed afferrò un braccio di Strahan rivestito di cuoio. Era pesante ed inerte, ma lei strinse i denti e lo trascinò lontano dalle rovine, in modo che non potesse profanarle. Lo lasciò all'esterno. Poi tornò indietro e si inginocchiò ancora davanti all'altare, facendo scivolare il coltello nell'oscurità. «Lo lascio qui» disse sommessa. «Non è mio. L'ho usato nel momento del bisogno ed ora lo lascio per chi potrà in futuro aver bisogno dell'aiuto degli dèi.» Esitò un attimo, domandandosi se le avrebbe parlato. Poi si alzò e si allontanò dalla cappella: passando accanto al corpo di Strahan pensò di udire la risata degli dèi. Keely era sulla spiaggia bianca illuminata dalla luna. Sulla costa lontana ammiccavano le luci delle lanterne di Hondarth. Homana. La sua patria. Doveva solo assumere la forma-lir diventando un falco o uno sparviero e
Homana sarebbe stata di nuovo sua. Voleva andare a casa, voleva sentirsi di nuovo salva e sicura nel grande palazzo di suo padre, circondata dai suoi nobili fratelli, dai suoi parenti, dai suoi amici. Voleva impugnare la spada, allenarsi di nuovo con il maestro d'armi, sentire la libertà dell'anima e dello spirito in quei movimenti. Voleva del tempo per restare sola, per poter affrontare la perdita del bambino. Desiderava volare, sentire il vento sulle ali; librarsi tra le nuvole e le correnti e danzare tra gli dèi. Non essere più legata alla terra, ma libera di veleggiare, tuffarsi, volteggiare e restare sospesa, cadere per innalzarsi di nuovo volteggiando. Abbandonare le cure, le preoccupazioni ed il suo eterno tahlmorra nell'alito degli dèi che le avevano donato la vita, lo spirito, l'orgoglio e il tahlmorra che faceva di lei quella che era. Keely sorrise. Tese le braccia che fremevano di desiderio, innalzandole verso i cieli infiniti e volò. Verso casa. Verso Homana. Titolo originale: Blood of Sorcery Traduzione di Maria Cristina Pietri CON QUATTRO LEVRIERI di Pat Murphy Pat Murphy racconta di "aver frequentato nel 1978 il seminario del Clarion e di essere riuscita a sopravvivere". La sua principale attività è quella di scrittrice scientifica e lavora attualmente all'Exploratorium, il Museo della Scienza di San Francisco, unico nel suo genere. Nonostante il suo bagaglio scientifico, scrive sia fantascienza che fantasy, mescolando spesso le due cose in una categoria difficile da definire. La prima storia che inviò per questo volume, nonostante fosse eccellente e molto ben scritta, dovette essere respinta in quanto mi sembrava troppo fantascientifica per il tenore di questa antologia; la rifiutai con rammarico e poco tempo dopo fui piacevolmente sorpresa di ricevere un racconto che era inequivocabilmente fantasy. Pat mi disse che la storia che io avevo respinto perché troppo fantascientifica era stata rifiutata dal mercato della fantascienza perché troppo vicina al genere fantasy, ed aggiunse: "Il mio metodo personale per distinguere tra fantasy e fantascienza è questo: se si vende una storia nel mercato della fantasy, questa è fantasy; se si vende in quello
della fantascienza, allora è fantascienza." Secondo questi parametri, la maggior parte della sua produzione è stata di fantascienza: ha pubblicato racconti su Galaxy, Amazing/Fantastic, Isaac Asimov's S-F, e varie antologie, Elsewhere, Universe e le antologie Chrysalis 5, 6 e 9. Molte delle storie che ricevo che trattano dì divinità femminili sono tentativi dilettanteschi di descrivere ridicole religioni oppure stridenti polemiche femministe. Questa è una piacevolissima eccezione; ma sotto la superficie di una storia di fantasy ben narrata, c'è un chiaro messaggio per il mondo di oggi (cosa che io considero il marchio distintivo di un buon racconto). Non ha importanza, potete ignorare o anche non vedere il messaggio, senza per questo perdere nulla del piacere che vi offrirà questa storia. Cominciamo con una ladra: una ragazza alta e snella, con i capelli grigio cenere e gli occhi dello stesso colore del cielo d'inverno. Nessuno sapeva quanti anni avesse e a nessuno importava. Abbastanza matura per imbrogliare, di età appena giusta per essere portata a letto. Tarsia correva per sfuggire ad un fornaio che la inseguiva. La pagnotta che aveva sotto il braccio era ancora calda. Si intrufolò tra due banchetti del mercato, dirigendosi verso un luogo dove sapeva che avrebbe potuto scalare le mura in rovina che circondavano la città. Da lì avrebbe potuto correre sicura sui tetti di tegole, e nascondersi dietro i camini. Creatura del vento e del cielo, poteva sfuggire ad ogni inseguimento. Udì il fischio di avvertimento di una guardia ed i suoi passi di corsa. Sfortuna: la guardia si trovava proprio fra lei ed il muro. Dietro di lei, il fornaio imprecava a gran voce. Cambiò direzione all'improvviso, infilandosi nell'imbocco di una strada e troppo tardi si accorse dell'errore. Le pareti erano di pietra scivolosa. Anche se fosse stata in grado di arrampicarsi come una scimmia, non poteva scalarle. L'altra estremità della via era bloccata da un nuovo edificio. Una strada senza uscita. Udì il fischio della guardia echeggiare lungo le fredde pareti di pietra e riprovò la sensazione delle manette che le stringevano i polsi. Sentì le ossa indolenzite al ricordo della gelida prigione. Un nugolo di cartacce sospinto dal vento frusciò in fondo alla strada. Un ratto fissò Tarsia: un grosso ratto grigio che la guardava con aria arrogante e sdegnosa, poi si girò e si infilò veloce in un'apertura nascosta nell'ombra. Era un buco scuro e umido, largo giusto quanto le spalle di una giovane ladra.
Tarsia udì un rumore di passi all'inizio della strada e come ogni ladro che ha una sana preoccupazione per la propria pelle, si rintanò dentro il buco. Le spalle scivolarono contro la pietra umida. Tarsia, creatura dei tetti e della luce, si contorceva avanzando nell'oscurità. Strisciando sul ventre avanzò a tentoni, rammentando a se stessa che i topi erano solo pipistrelli senza ali. Come figlia dei tetti, conosceva i pipistrelli, ma il battito del suo cuore riecheggiava nello stretto passaggio di pietra, e non poteva sollevare il capo senza urtare la parete. Avanzò a fatica, e si disse che certamente il condotto conduceva ad un passaggio più largo, e che di sicuro non poteva diventare più stretto, più buio e più umido... Una folata di vento freddo le sfiorò il viso, portando con sé l'odore di acqua stagnante, pietra umida e fogna: Finalmente poté alzare il capo. Sentì qualcosa di morbido toccarle la caviglia, come una lieve brezza che la sfiorava, con un piccolo accenno di pelo ed una lunga coda. Uscì dal condotto in uno spazio più ampio, sollevandosi maldestramente ma in fretta per il desiderio di muoversi liberamente. Avanzò nel buio, fece un passo in avanti nel nulla e incespicò, aggrappandosi ad un bordo invisibile nell'oscurità, ma scivolò e cadde nel breve volgere di un istante che non poté ricordare. Un battito d'ali dei piccioni che volteggiavano in alto, il sentore di un fuoco di carbone, squallido e umido nel primo mattino, che si levava ondeggiando da un camino. Il tetto di tegole era freddo sotto i piedi nudi di Tarsia e il vento del nord penetrava attraverso la sua camicia sottile. In una mano teneva stretta la camicia umida che aveva preso da una fila di panni stesi ad asciugare sul tetto. Stava ascoltando. Aveva udito un suono, ma non era lo scricchiolio della maniglia della porta sul tetto. E neppure i piccioni. Forse era solo il vento? Eccolo di nuovo: un brontolio simile al suono di tamburi ed un fischio dolce e sfrenato come quello dei pifferi in una parata. Da dietro una nuvola apparve il carro della Signora dei Venti. Ella portava il sole con sé. Una mezzaluna d'argento le ornava la fronte ed un sole d'oro splendeva sul petto. Capelli color cenere le fluttuavano dietro le spalle come un manto. Quattro levrieri, i venti del nord, del sud, dell'est e dell'ovest, correvano ridenti nel cielo al suo fianco. La Signora volse lo sguardo in basso e guardò Tarsia con occhi saggi, sorrise e tese una mano. Tarsia si protese per sfiorarla.
La testa le doleva ed aveva i piedi gelati. Aprì gli occhi nel buio, abbandonando il luminoso sogno di un ricordo che non era mai stato. Tarsia aveva visto la carovana che portava i tributi alla Signora lasciare la città diretta a nord, ma non aveva mai visto la Signora. La mano con cui si era aggrappata al bordo era indolenzita e rigida: quando se la portò alle labbra, sentì il gusto del sangue. Era immersa per metà in una corrente d'acqua fredda che le lambiva i piedi. Non poteva tornare indietro, ma solo proseguire. Cominciò a camminare piano, tenendo sempre una mano appoggiata alla parete e annusando l'aria nella speranza di sentire odore di polvere e di cavalli, gli odori della città. Davanti a sé udì un rombo che le ricordò quello delle ruote sul selciato ed affrettò il passo. La galleria sbucava in una caverna, una formazione naturale nelle viscere della Terra. Sulle pareti, gruppi di funghi spandevano una luce dorata, più debole di quella della luna. Il gigante sdraiato nel centro della caverna russava facendo un suono simile a quello prodotto dalle ruote di un carro sui ciottoli. Dormiva in un giaciglio di roccia, fuso intorno a lui, o almeno così sembrava, dagli stessi movimenti del suo corpo. L'aria che soffiava attorno al gigante, provenendo dall'oscurità dietro di lui, profumava di erba e di libertà. Un gigante le bloccava la strada e lei era solo una piccola ladra. Non aveva mai rubato nella casa del mago o dal banchetto del venditore di erbe; conosceva solo quei piccoli incantesimi che la aiutavano a infrangere le protezioni di un'abitazione. Il gigante aveva una faccia enorme, larga e color della terra. Si agitò nel sonno e Tarsia vide che aveva una catena alla caviglia, fissata con un lucchetto al pavimento. Gli anelli erano spessi e grossi come la sua gamba e il lucchetto arrugginito era grosso come la sua testa. Si domandò chi lo avesse imprigionato e che cosa avesse fatto per meritarsi una punizione simile. Cercò di valutare la lunghezza della catena e giudicò che fosse abbastanza lunga per permettergli di afferrare chiunque cercasse di oltrepassarlo. La brezza gli scompigliò i capelli ed il brontolio del suo russare cessò. Le narici fremettero annusando l'aria. «Sento il tuo odore» disse lentamente. «Conosco il tuo profumo, strega. Che cosa vuoi adesso da me?» Parlava come se la conoscesse. Tarsia non si mosse: teneva una mano appoggiata al muro e l'altra stringeva inutilmente il coltello. Gli occhi del gigante scrutarono le ombre e la
trovarono. «Ah» disse. «Gli stessi occhi, gli stessi capelli, lo stesso odore... non la strega, ma la figlia della strega.» Fece una smorfia sorridente e a Tarsia non piacque la luce nei suoi occhi. «Hai aspettato tanto per venire.» «Io non sono la figlia di nessuno» disse lei. Giganti e streghe... lei non c'entrava in tutto questo. Sua madre? Lei non aveva madre. «Sono solo una povera ladra della città. E voglio tornare indietro.» «Non puoi oltrepassarmi se non mi liberi, figlia della strega» disse lui. «Liberarti?» scosse la testa incredula. «Come? Rompendo la catena?» Il gigante si incupì. «Una goccia del tuo sangue sul lucchetto mi libererà. Dovresti saperlo.» La sua voce aveva un tono incredulo. «Come puoi sperare di conquistare il trono di tua madre, quando non sai neppure...» «Chi è mia madre?» lo interruppe con voce incerta. «Tu non lo sai.» La sua voce assunse quel tono che lei aveva sentito usare dagli uomini grandi e grossi a cui non capitava spesso di dover apparire scaltri. «Liberami e te lo dirò.» Raccolse le gambe sotto di sé, accucciandosi goffamente e battendo la testa contro il soffitto della caverna. «Solo una goccia di sangue e ti lascerò passare. Anche se il tuo sangue non mi libererà, ti lascerò andare.» «Davvero?» chiese lei diffidente. «Dubiti tanto di te stessa?» Alzò le spalle. «Anche se non basterà a liberarmi.» Lei fece un passo avanti, cautamente, e pronta a lanciarsi di nuovo nel passaggio. Tenendo gli occhi fissi sul gigante accucciato, si grattò il graffio sulla mano, in modo che il sangue uscisse di nuovo ed una goccia cadde sul lucchetto arrugginito. Lei indietreggiò. Gli occhi del gigante erano fissi sul lucchetto e sul fumo che si innalzava da esso, avviluppandosi lungo la catena. Tarsia raggiunse l'estremità opposta della caverna e da quel luogo sicuro gridò: «Chi è la strega che ti ha incatenato qui, gigante? Mantieni la tua parola. Chi...?» «Ecco!» Con un gesto trionfante, il gigante tirò la catena ed il lucchetto si spezzò. «Chi è la strega?» gridò di nuovo Tarsia. «Grazie per il tuo aiuto, figlia della strega.» Si lanciò in avanti, immergendosi nell'oscurità dove il soffitto diventava più alto. «Ed ora andrò a svolgere il mio ruolo nel portare a compimento le profezie.» «Ma chi è mia madre?» urlò lei. «Avevi promesso che me lo avresti det-
to.» Lui le lanciò un sorriso da sopra la spalla. «Chi potrebbe essere abbastanza forte da incatenare un figlio della terra? Nessun altro all'infuori della Signora dei Venti.» E scomparve nell'oscurità. «Che cosa?» gridò Tarsia incredula, ma l'unica risposta fu l'eco della sua voce. Udì il gigante allontanarsi a grandi passi nell'oscurità mentre un battito d'ali e il latrato di quattro levrieri le invasero la mente. Si lanciò dietro al gigante e, pur sapendo che non sarebbe mai riuscita a raggiungerlo, corse ugualmente. L'odore di aria fresca e di vegetazione si fece più forte. «Aspetta» gridò, ma il gigante se ne era andato. L'aria profumava di terra appena smossa. Corse verso una luce splendente, quella del sole del tardo pomeriggio. Vedeva i segni lasciati dalle mani del gigante dove lui aveva frantumato le rocce per aprirsi la strada. I suoi piedi avevano lasciato impronte scure sull'erba morbida e le tracce conducevano giù dalle colline verso il fiume che scintillava in lontananza. Credette di vedere uno spruzzo, minuscolo e distante, nel fiume, che avrebbe potuto essere quello sollevato da un gigante che nuotava. Inciampando e scivolando sull'erba, corse giù per la collina, seguendo le impronte. Continuò a correre finché le gambe non rallentarono contro la sua volontà. Arrancò lungo la sponda del fiume mentre le ombre si allungavano, e decise di puntare a nord. Le montagne erano a nord e la corte della Signora era fra le montagne. La luce stava svanendo lentamente quando si fermò a riposare. Si sedette solo un momento, perché doveva continuare. Rabbrividendo nel gelido crepuscolo, sprofondò in un'oscurità più fitta di quella della galleria sotto la città. Sentì puzzo di fumo e di carbone, squallido e umido nel primo mattino, ma lei non si trovava su di un tetto di tegole. Il vento che portava l'odore del fumo le ricacciava indietro i capelli ed era circondata ovunque da un gran stormire d'ali. Era a fianco della Signora nel suo carro ed accanto a loro correvano i quattro levrieri dei venti. Molto più in basso, si vedevano i tetti dalle tegole grigie e i panni stesi che ondeggiavano. E ancora più in basso, le antiche torri della città, le mura in rovina, le bancarelle della piazza del mercato. «Il posto che ti spetta è questo, figlia mia» disse la Signora con voce dolce come la brezza che soffiava tra le torri. «Sopra il mondo al mio fianco.» La Signora prese la mano di Tarsia e il dolore svanì.
Tarsia udì il frastuono delle ruote di un carro che correvano sui ciottoli. Molto più in basso, vide le torri ondeggiare ed un viso color della terra si volse verso di loro. Scuotendosi di dosso la polvere del buco da cui era emerso, il gigante si arrampicò velocemente sulla cima delle mura della città. Sembrava più grande di come se lo ricordava sotto terra. Rimase in piedi sulla sommità di un'antica torre di pietra e si sporse verso di loro. Tarsia gridò, timorosa che il gigante riuscisse ad afferrarle e a trascinarle a terra, giù verso il fumo e la polvere. L'odore di fumo era reale. Sotto di sé Tarsia sentiva l'erba umida della riva del fiume, ma non aveva freddo. Una coperta che odorava vagamente di cavallo era stesa sopra di lei. Si costrinse ad aprire gli occhi. La riva di un fiume al mattino presto: la rugiada che luccicava sull'erba, un cavallo bianco che pascolava, il fumo che si innalzava in ampie volute da un piccolo fuoco, un uomo magro con i capelli castani ed un abito verde tutto spiegazzato che la fissava. «Sei sveglia» disse. «Come ti senti?» Aveva un dolore alla testa. Si sollevò a sedere a fatica, stringendosi addosso il mantello verde che le era servito da coperta. Abituata ai modi della città e sentendosi quindi a disagio, borbottò: «Sopravviverò.» Lui continuò a guardarla. «Sei molto lontana da qualunque luogo abitato. Dove stai andando?» Il suo accento ricordava quello dei mercanti del sud che ogni tanto visitavano la città. Si girò per guardare le colline dietro di lei. Non riusciva a vedere la città e si domandò quanta strada avesse fatto in quella galleria tortuosa. «Sono venuta dalla città» disse, «e me ne sto allontanando» Ora molto più sveglia, Tarsia studiò il cavallo bianco: sembrava ben nutrito. La sella appoggiata a terra lì accanto era consunta, ma si vedeva che un tempo era stata di prima qualità. Il mantello che la copriva era di morbida lana pregiata. Accanto alla sella c'era un liuto avvolto nella stessa stoffa del mantello. «Sono un menestrello» disse l'uomo. «Sto viaggiando verso nord.» Tarsia annuì, pensando che quando una persona dava spontaneamente delle informazioni, il più delle volte erano false. Nessun menestrello poteva permettersi una sella di quel genere. Guardò quegli occhi castani, notando anche l'anello d'oro che portava al dito. Seppe di potersi fidare di lui come di un altro ladro. Almeno, per quanto ci si potesse fidare di un ladro, e lei non sapeva fin dove poteva spingersi questa fiducia, dal momento che aveva sempre preferito lavorare da sola.
«Anch'io stavo pensando di andare a nord» disse. «Se mi prendi con te, potrei aiutarti. So accendere un fuoco che brucia senza fare troppo fumo...» volse lo sguardo alle braci fumanti e lasciò in sospeso la frase. Sapeva di apparire piccola ed indifesa e sperò che il suo viso fosse pallido e sporco. «Immagino di non poterti lasciare qui» disse lui con tono un po' seccato. «Ti porterò fino alla prossima città.» Lei si alzò lentamente in piedi, avendo cura di apparire molto debole. Ma si rese utile, attizzando il fuoco in modo che i ramoscelli bruciassero. Arrostì il pane che il menestrello tolse dalle sue provviste e spalmò il formaggio sulle grosse fette. Lo aiutò a sellare il cavallo bianco. Con il pretesto di sistemare le sacche della sella, vi infilò una mano e trovò una scarsella con il denaro. Rapidamente, si impadronì di una, due, tre monete e con mossa furtiva le nascose nella sua tasca, riservandosi di guardarle più tardi. Anche se l'avesse portata solo fino alla città più vicina, avrebbe comunque tratto profitto dall'essersi unita a lui. Si sistemò sulla sella dietro a lui e insieme seguirono la riva del fiume. «Quanto a nord stai andando?» «Fino alle montagne» rispose lui ed intonò un motivo sul liuto. «Alla corte della Signora dei Venti» tirò ad indovinare Tarsia, e represse un sorriso quando lo vide aggrottare la fronte. Dove altro poteva andare un menestrello diretto verso le montagne? Si corresse: dove poteva andare un ladro? «Posso venire con te?» «Perché?» Lei scrollò le spalle, come se il motivo avesse scarsa importanza. «Non sono mai stata in una corte, prima. Ho sentito dire che la Signora è molto bella.» Il menestrello scosse il capo. «Bella ma malefica.» «Posso pagarmi il viaggio» disse Tarsia, domandandosi se avrebbe riconosciuto le sue monete. Ma lui scosse di nuovo la testa e il motivo che stava suonando cambiò, tramutandosi in una dolce melodia che lei conosceva fin dall'infanzia. Le parole non le ricordava, tranne il ritornello che parlava della Signora e dei quattro levrieri del vento che erano al suo fianco. La Signora era la sorella del sole e la figlia della luna. Quando il menestrello attaccò il ritornello, il suo tono era cinico e beffardo. Le strofe cantavano di come la Signora avesse incatenato lo spirito della Terra, dell'Acqua e del Fuoco e di come avesse catturato i quattro
venti e li avesse imprigionati nella sua torre, e di come il mondo sarebbe stato infelice finché i venti non fossero stati liberati. «Non è così che ricordo la canzone» disse Tarsia quando il menestrello finì. Lui si strinse nelle spalle. «Nel mio paese, non paghiamo alcun tributo alla Signora. Da cinque anni la nostra terra è arida e i raccolti sono stati scarsi. Non amiamo la Signora.» Tarsia ricordò la parata che si teneva ogni anno in onore della Signora quando le venivano offerti i tributi. La città era rinomata per i suoi oggetti d'argento, ed ogni anno ciò che di meglio gli artigiani avevano prodotto veniva mandato alla corte del nord. E i venti soffiavano tra le torri e portavano la pioggia per i contadini che vivevano intorno alle mura della città. L'anno prima, al termine di una giornata spesa a borseggiare gli spettatori della parata," Tarsia si era arrampicata sulle mura della città e aveva guardato dall'alto delle porte la carovana che si dirigeva a nord lungo la strada serpeggiante, tra le capanne dei contadini ed i campi verdi. Il vento, da quell'alto punto di osservazione, l'aveva congelata, ma lei era stata contenta di trovarsi al di sopra della folla. L'ultimo cavallo della carovana portava una statua in argento della Signora, raffigurata con lo sguardo rivolto lontano ed una mano poggiata sul capo di uno dei levrieri. Allora Tarsia aveva sentito un'affinità con la Signora, orgogliosa e solitaria al di sopra del mondo. «Perché non pagate il tributo?» chiese al menestrello. «Siete troppo poveri?» «Troppo orgogliosi» rispose lui. «Il nostro re non lo permette.» «Che sciocchezza!» Il menestrello fece un sorriso forzato. «Forse. Tutta la famiglia è sciocca, credo. Idealista e poco incline a piegarsi.» «Così la gente della vostra terra morirà di orgoglio.» Lui scosse il capo. «Forse. E forse no. Forse accadrà qualcosa.» Sospirò. «Non lo so, però il re sembra orientato ad affidarsi alla fortuna. Sembra incline a pensare che la profezia si avvererà.» Tarsia si accigliò. «Perché vai alla corte della Signora se non l'hai in simpatia?» «Un menestrello non si preoccupa di magie e di venti.» Cominciò a suonare un'altra canzone, come per evitare altre discussioni. Le note echeggiarono sulle acque verdi e pigre del fiume e il rumore costante degli zoccoli del cavallo si aggiunse come ritmo di sottofondo. Cantò di un'ondina, una
ninfa del fiume che ebbe un amante umano, poi lo tradì, consegnandolo alle acque che si sollevarono annegandolo. Alberi dalle lunghe foglie bagnavano i loro rami nell'acqua. Il sentiero si snodava intorno ai tronchi contorti. Si inoltrarono fra le ombre ed il fiume sembrò racchiudere in sé la luce del sole, lasciandola splendere in circoli ondeggianti, ma senza permetterle di fuggire. Sul lato opposto del fiume, la riva si sollevava in una collinetta ricoperta di felci, muschio e da un vivace tappeto di fiori. «Che bella campagna» disse Tarsia. «Campagna traditrice» disse il menestrello. «Se provassi ad arrampicarti, scopriresti che quei fiori crescono su rocce instabili, pronte a cedere sotto i tuoi piedi o a franarti in testa.» All'imbrunire erano ancora nel bosco e tutti gli alberi sembravano uguali. Si accamparono in una invitante valletta, ma il minuscolo fuoco che Tarsia accese sembrava irradiare poca luce. Credette di sentire un fruscio tra gli alberi e ad un tratto, mentre stava arrostendo il pane e il formaggio per la cena, le parve di vedere una luce bianca che brillava in lontananza oltre il fiume. Si avvolse nel mantello di scorta del menestrello e si rannicchiò da sola accanto al fuoco. Per un attimo pensò di trovarsi nella caverna sotto la città: era buio e faceva freddo. Ma il vento che le batteva sul viso odorava di acqua corrente e di vegetazione, e sopra di sé vedeva le stelle. La Signora era al suo fianco, presenza orgogliosa e muta. Erano sfuggite al gigante e Tarsia si rese conto che costui, da solo, non poteva rappresentare una minaccia per la Signora. Si avvicinarono alla terra e lei vide il percorso ondulato del fiume che brillava alla luce della luna. Poteva vedere un minuscolo puntolino di luce (il suo fuoco) e credette di vedere anche il menestrello sdraiato accanto a lei. Così distante. Pensò a lui che arrivava alla corte della Signora per rubare e le sarebbe piaciuto invitarlo a salire sul carro con lei. Sembrava così solo ed infreddolito, proprio come si era sentita tante volte lei sulle mura della città delle torri. «Tu sei al di sopra di tutto questo, ora» sussurrò accanto a lei la Signora. «Tu sei la figlia della luna, sorella del sole.» Lo sciabordio dell'acqua ed il sommesso nitrito del cavallo la svegliarono. Il rumore dell'acqua era vicino, molto vicino. Si alzò a sedere e sbatté
le palpebre al riflesso della luna nell'acqua solo a pochi passi da lei. Il cavallo aveva tirato le briglie al massimo, per allontanarsi dall'acqua che saliva. Continuando ad ammiccare, Tarsia vide la figura snella di una donna vestita di bianco in piedi nell'acqua. Sentendo Tarsia muoversi, ella si volse a guardarla con occhi afflitti. Tese le braccia verso di lei e l'acqua gocciolò dalla punta delle sue lunghe dita. La luce della luna brillava su di lei proprio come brillava sulla superficie dell'acqua. Dai polsi delicati, catene che sembravano fatte di raggi di luna, scendevano nell'acqua. Tarsia tolse le gambe dal fiume, si alzò in piedi ed indietreggiò. La ninfa dell'acqua tese le mani verso di lei e quasi la toccò. Al di sopra dello sciabordio dell'acqua, la giovane ladra udiva delle parole: «Vieni da me, toccami, tocca il fiume.» Tarsia posò una mano sul cavallo, pronta a balzargli in groppa e a fuggire. Il chiaro di luna raggiunse una macchia nera nell'acqua: il mantello del menestrello. L'acqua gli arrivava al collo e lui continuava a dormire pacificamente. Il mantello galleggiava dietro le sue spalle, per metà impigliato nell'albero a cui lui era appoggiato. Per raggiungere il menestrello, Tarsia avrebbe dovuto toccare l'acqua ed avvicinarsi alla ninfa. Ma se fosse fuggita alla corte di sua madre, non lo avrebbe saputo nessuno. «Lasciami andare, figlia della luna» sussurrava l'acqua. La brezza che agitava le foglie vicino alla testa di Tarsia sembrò ridacchiare. «Lascialo andare ed io ti libererò» contrattò lei disperatamente. «Ma prima devi liberarlo.» Lei non sapeva come liberare la ninfa. Le mani d'acqua si tesero verso di lei e Tarsia provò il desiderio di saltare sul cavallo e di fuggire. «Liberami ed io lo lascerò andare» sibilò lo sciabordio dell'acqua. «Ma non posso... non so come...» Un sussurro nella notte: «Dammi un po' di te, figlia della luna.» Nel chiarore lunare, Tarsia vide la testa del menestrello cadere nell'acqua ed un mulinello di bollicine comparire in superficie. Fece un passo avanti, pronta a spingere di lato la ninfa. Aveva gli occhi pieni di lacrime di frustrazione, di rabbia, di infelicità e di dolore. Una lacrima le scivolò lungo il viso e cadde nell'acqua. Una sola. Tarsia afferrò rudemente il menestrello per un braccio e per il mantello, trascinandolo verso la sponda del fiume... Nell'udire un lungo sospiro, sollevò lo sguardo e vide la catena di luce lunare scomparire dai polsi della donna dell'acqua. La ninfa sollevò le braccia al cielo in un gesto esultante
ed il fiume sospirò: «Grazie, figlia della luna.» La snella figura si confuse con il fiume, diventando una delle luccicanti increspature della corrente. Il menestrello tossì e cominciò a muoversi. Tarsia accese un fuoco per farlo asciugare, coprendogli le spalle con il mantello asciutto: a lei non serviva per riscaldarsi. Si sentiva forte, non più una ladra, ma la figlia della Signora. «Come pensavi di cavartela senza di me per accendere il fuoco?» chiese al menestrello. Lui strinse le spalle sottili sotto il mantello. «Mi affido alla fortuna. Alla fortuna e al destino.» Nei suoi occhi brillava il riflesso della luna. «A volte mi rendono un ottimo servizio.» Il giorno seguente la strada li portò fuori dalla vallata dove scorreva il fiume, verso le pendici delle colline dorate. Un ragazzo che pascolava un gregge di capre vicino al fiume, li fissò con occhi sorpresi. «Nessuno mai viene da quel sentiero» disse. Tarsia rise, rincuorata dalla vista delle montagne davanti a sé. «Noi ci siamo venuti.» «E la ninfa?» chiese il ragazzo? «La ninfa» disse lei ridendo, mentre gli passavano davanti a cavallo, «l'abbiamo mandata per la sua strada.» Guidarono il cavallo sulla sponda del fiume, proprio a fianco del gregge di capre. Davanti a loro si potevano vedere gli edifici di una piccola città. Il sole splendeva sul viso di Tarsia e lei vide le montagne, picchi scoscesi dove la neve non si scioglieva mai. «Portami con te alla corte della Signora» chiese improvvisamente al menestrello. «So perché stai andando là e voglio venire con te.» Lui la guardò stupito. «Lo sai? Ma...» Lei rise. «Pensi che sia stupida? Nessun menestrello potrebbe permettersi un cavallo come il tuo ed una sella di cuoio così pregiato. Ho capito fin dal primo momento che eri un ladro.» Scosse la testa vedendo la sua espressione incredula. «So che stai andando alla corte della Signora per rubare.» «Capisco» disse lentamente lui. «Ma se io sono un ladro, perché vuoi venire con me?» Studiò attentamente l'espressione del suo volto. Per un attimo pensò di dirgli la verità. Ma era cresciuta in una città e non era incline a fidarsi. «Voglio vedere quali delle storie sulla Signora sono vere» disse. «In più, posso aiutarti.» Si immaginava al fianco di sua madre mentre con oro e gioielli ricompensava il menestrello per averla portata fin
là e sorrise. «È un posto pericoloso» disse lui. «Se non mi porti con te, andrò da sola» rispose. «Se mi porterai, ti pagherò il disturbo. Ed anche l'alloggio per stanotte.» Alla fine luì annuì. «Se vuoi, ti porterò con me; ma la scelta è tua.» La brezza sussurrò tra l'erba alta della sponda del fiume. «Il vento è a nostro favore» disse Tarsia. «Il vento sta ridendo di noi» disse il menestrello. Quella notte, alla locanda, Tarsia ed il menestrello furono al centro dell'attenzione di un gruppo di abitanti del villaggio. Il ragazzo delle capre aveva raccontato da che parte li aveva visti arrivare. «Avete superato l'ondina?» disse stupefatto il locandiere. «Come avete fatto?» Tarsia glielo disse, omettendo solo il sospiro di addio della ninfa. «Così il fiume è libero dall'asservimento alla Signora» disse un contadino con il volto inacidito. «Lei non sarà contenta.» E gli angoli della bocca si piegarono in una smorfia. «Sottovoce, amico» gli consigliò il locandiere, «non vorrai che ti sentano...» «Viviamo nell'ombra del suo regno» brontolò il contadino. «Ma forse anche questo finirà. Il mio ragazzo dice di aver visto le orme di un gigante che si dirigevano verso la sua corte. Questa gente dice che l'ondina è libera. Forse la Signora...» «Solo qualcuno del sangue della Signora può liberare i venti» lo interruppe il locandiere. «E lei non ha figli.» «Dicono che una volta avesse una figlia» disse piano il menestrello. «Come allievo di liuto ho studiato le antiche storie. Dicono che la bambina venne catturata in una battaglia con una città vicina. La bambina fu uccisa quando la Signora non liberò i venti come prezzo per riscattare la figlia.» «E la Signora ha pianto per sua figlia?» chiese incerta Tarsia. Gli abitanti del villaggio si misero a ridere ed il menestrello inarcò le sopracciglia. «Ne dubito, ma in realtà le storie non lo dicono.» Il vento fece sbattere una persiana all'esterno dalla locanda. Il gruppo di villici che si era radunato intorno a Tarsia mentre raccontava della ninfa del fiume, si disperse sedendosi ad altri tavoli. «Alcuni dicono che i venti a cui la Signora permette di soffiare, tornano a raccontarle quello che hanno udito» disse piano il menestrello, rivolgendosi sottovoce a Tarsia. «Ma nessuno lo sa di sicuro.» La persiana sbatté di nuovo e la conversazione intorno a loro si interruppe per un attimo, e poi
riprese in toni sommessi. «La terra qui una volta era verde» raccontò il menestrello. «La gente diventò sempre più aspra a mano a mano che la terra inaridiva.» Il menestrello cominciò a suonare una melodia lenta e dolce, e Tarsia andò a contrattare con il locandiere la sistemazione per la notte. Prese dalla tasca una delle monete del menestrello ed essa lampeggiò argentea alla luce del fuoco. Il locandiere la soppesò nella mano e la rigirò per esaminarla da entrambi i lati. «Una moneta del sud» disse, poi scrutò più attentamente il profilo inciso su una delle facce. Le note della canzone del menestrello aleggiarono per la stanza al di sopra del brusio delle conversazioni. Stava cantando la triste ballata della Signora che aveva suonato il giorno prima. Il locandiere gli lanciò un'occhiata penetrante, poi riportò lo sguardo sulla moneta. Sembrò ascoltare il rumore del vento che soffiava contro le finestre. «Da qui vi dirigerete verso le montagne?» chiese. «Sì» rispose Tarsia con diffidenza. Sapeva che lui non vedeva di buon occhio la Signora. L'uomo le restituì la moneta. «Buona fortuna» disse. «Mangiate quello che volete per cena, e poi potrete dormire nel fienile sopra la stalla.» Lei si accigliò, guardandolo senza capire. «Che cosa vuoi dire? Perché?» Lui sembrò studiare il viso del menestrello nella luce fioca. «Consideralo un pagamento per aver liberato il fiume dall'ondina.» Le sorrise per la prima volta, e prendendole la mano la chiuse a pugno attorno alla moneta. «Buona fortuna.» Lei si mise in tasca la moneta e ritornò tristemente accanto al menestrello. Non le piacevano gli accordi che non capiva. Anche il locandiere, come il gigante, sembrava pensare che lei ne sapesse di più di quanto volesse far credere. «Vi siete messi d'accordo?» chiese il menestrello. Si sedette sulla panca accanto a lui e corrugò la fronte. «Dormiremo nel fienile della stalla: niente soldi, non ha neppure discusso.» «Capisco.» Il menestrello rivolse un cenno del capo al locandiere dall'altra parte della stanza ed il vecchio agitò la mano in un gesto che era quasi un saluto. «Ci sono cose su cui non si contratta, piccola» disse il menestrello. «Dovrai impararlo.» Passarono la notte su di un morbido ed odoroso pagliericcio. Fuori il
vento ululava come una muta di cani da caccia e Tarsia rimase sveglia. Ascoltò il respiro regolare del suo compagno, pensando alle montagne e alla corte della Signora. Ma non voleva dormire né sognare. Quando si rigirò inquieta sul pagliericcio, il menestrello aprì un occhio. «Sdraiati e dormi.» «Non ci riesco» rispose lei brontolando nell'oscurità da cui emanava un forte odore di cavalli. «Che cosa c'è che non va?» chiese lui. «Ho freddo» rispose, ed era vero; anche avvolta nel mantello, continuava a tremare. Lui si sollevò su di un gomito ed alzò il mantello invitandola a sdraiarsi accanto a lui. Tarsia si rannicchiò contro il suo petto e lui le sfiorò una guancia. «Che cosa ti preoccupa?» chiese. «Vuoi tornare indietro?» «Era tutto così semplice» disse lei quasi fra sé. «Ero abituata ad essere solo una ladra di città, che sì arrampicava sulle mura e rideva della gente che era tanto sciocca da lasciarsi vuotare le tasche da me. Era così semplice...» «Che cosa sei, ora?» Anche se la domanda era gentile, la voce aveva una nota brusca. Il vento ululò e lei rabbrividì. «Nessuno. Proprio nessuno.» Il menestrello la cullò teneramente fra le braccia e lei ascoltò il suo respiro regolare mentre dormiva accanto a lei. Poi cadde in un sonno agitato. La mano calda della Signora stringeva quella di Tarsia. Molto più in basso, la piccola ladra vedeva il villaggio: capanne in miniatura su di un pendio dorato. Le montagne si innalzavano davanti a loro, fredde, grigie, impenetrabili. «Non abbiamo bisogno di loro» disse la Signora con la sua voce dolce. «Non importa se mi odiano.» Il vento soffiava sul viso di Tarsia e le stelle turbinavano intorno a lei mentre le dominava dall'alto. Nessuno poteva toccarla, lì. Nessuno poteva metterle le manette o darle la caccia nelle fogne. Era arrivata a casa. Il mattino seguente, quando lasciarono il villaggio, lei era silenziosa. Quello stesso ragazzo che avevano incontrato sulla strada del fiume stava ora pascolando le capre sul fianco della collina. «Ci sono briganti nelle montagne» gridò loro. «Vi prenderanno se andrete là.» Sembrava che la prospettiva lo rallegrasse. «C'è anche un drago. La Signora l'ha imprigio-
nato. Se non vi prendono i briganti, il drago vi troverà e...» Il menestrello spinse il cavallo in mezzo al gregge e le capre si sparpagliarono belando. Il cavallo si arrampicò con cautela sul pendio arido. Verso l'imbrunire, l'erba lasciò posto ai sassi e l'animale prese ad incespicare nella luce crepuscolare. Dietro suggerimento di Tarsia, smontarono e lo condussero per la briglia. Per scrollarsi dalle gambe l'indolenzimento della sella, Tarsia corse in avanti, girando intorno alle rocce ed arrampicandosi sui massi, sentendosi quasi come a casa, sulle mura della città. Scalò una roccia e dall'orlo spiò il menestrello, pensando di sorprenderlo dall'alto. Vide un movimento, un'ombra marrone sul sentiero poco più avanti e dei movimenti fra i cespugli sui due lati. «Fermo lì.» L'uomo che apparve da dietro un masso, aveva una freccia puntata contro il menestrello. Altri uomini si avvicinarono da dietro. «Non ho nulla di valore» disse il menestrello con noncuranza, «proprio nulla.» «Hai un cavallo» disse il capo dei briganti. L'uomo parlava con lo stesso accento dolce e cantilenante del menestrello. «E penso che a noi serva più che a te.» L'uomo prese il sacchetto del denaro dalla cintura del menestrello e lo guardò in viso. «Accidenti, la tua faccia mi è familiare. Ti conosco...?» si interruppe. «Sto andando alla corte della Signora: mi serve il cavallo per arrivarci» disse il menestrello. «Un uomo del sud che va a far visita alla Signora» si meravigliò il capo. «Strano. Da quando quello sciocco del nostro re ha rifiutato di pagarle il tributo, pochi abitanti del sud si avventurano nelle sue montagne.» Parlando, armeggiò con il sacchetto del menestrello: una cascata di monete gli scivolò nella mano. «Niente di valore, eh?» disse allora. «Solo dell'oro e dell'argento.» Il brigante sollevò una moneta alla luce del sole che tramontava, proprio come aveva fatto il locandiere, e lanciò un lungo fischio sommesso. Gettò uno sguardo al viso del menestrello e Tarsia vide i denti brillare in un sorriso. «Ho detto che il nostro re era sciocco? Non così sciocco come suo figlio.» Il capo lanciò la moneta ad uno dei suoi uomini. «Guarda, abbiamo un principe, qui.» La moneta passò di mano in mano ed ogni uomo la scrutò. Tarsia, guardando dall'orlo del masso, cercò di ricordarsi il profilo della moneta che aveva intravisto brevemente alla luce fioca. Ne prese una dalla tasca e confrontò il freddo profilo di metallo con quello del menestrello: corrisponde-
va. «Seguiamo il nostro destino e la nostra fortuna» stava dicendo il menestrello... o il principe? «Sono in missione per conto di mio padre.» La smorfia sorridente del capo si allargò e lui lanciò in aria la moneta che mandò un riflesso dorato ricadendogli nella mano. «Per portare un tributo» disse. «No.» Il vento taceva e la voce del principe, che una volta era un menestrello, era calma. «Sono venuto per liberare i venti.» Tarsia si appoggiò al masso ed ascoltò il ritmo del proprio cuore, che batteva sempre più forte. Udì il capo ridere. «E cosa ti aspetti che ne dica la Signora?» «Potrei anche arrivare a dover distruggere la Signora. Ma i venti devono essere liberi. Per amore della terra che vi siete lasciati alle spalle, dovete lasciarmi andare.» «Ti appelli all'onore di un ladro?» chiese il capo. «Sei davvero sciocco. E sei sciocco a pensare di poter distruggere la Signora da solo.» Allora il principe sollevò lo sguardo, come se per tutto il tempo avesse saputo dove si nascondeva Tarsia, poi guardò di nuovo il capo. Ma le sue parole echeggiavano nella mente di Tarsia: "... distruggere la Signora..." E nella sua mente, il vento ululò. Il principe non era solo: il gigante era stato visto arrampicarsi verso la corte e l'ondina era libera. Tarsia si appoggiò alla roccia per sostenersi e ascoltò gli uomini discutere su che cosa fare del menestrello... no, del principe. Doveva ricordarsi che era un principe. Avrebbero potuto trattenerlo per ottenere un riscatto; consegnarlo alla Signora per avere una ricompensa; ucciderlo sul posto, oppure darlo in pasto al drago. Li seguì, dominandoli dall'alto e restando sempre un po' indietro, mentre si dirigevano alla caverna del drago, continuando a discutere. Udì il cavallo nitrire piano quando si fermarono all'imboccatura della caverna. L'uomo che teneva le redini dell'animale era proprio sotto di lei e prestava più attenzione alla discussione che al cavallo. Tarsia saltò. Atterrò per metà sulla groppa del cavallo, si aggrappò alla criniera e gli martellò i fianchi con i talloni. L'animale indietreggiò quando lei tirò le redini per cambiare direzione, si sollevò sulle zampe gettando indietro la testa, spaventato a morte, nonostante fosse un cavallo ben addestrato. Tarsia cercò di tenerlo a bada, solo in parte consapevole degli uomini che cercavano di evitare gli zoccoli dell'animale nella fioca luce del crepuscolo. Non riusciva a vedere il principe. Una violenta fiammata, un forte odore di zolfo e la montagna non fu più
buia. Piccola ladra... non aveva mai praticato la magia e non aveva mai incontrato un drago. Se avesse dovuto immaginarselo, si sarebbe raffigurata una lucertola che sputava fuoco. Un fulmine improvviso, uno scoppio di fuochi artificiali, un falò... ma si muoveva come un animale. Dove passava, lasciava solo cenere, ma quando sollevò la testa, lei si trovò a fissare il bianco accecante di quegli occhi. Un colpo di coda lasciò una scia di scintille. Per metà fiamma per metà animale... o forse ben più che per metà fiamma. Vide il principe che proseguiva dritto sul sentiero. Il figlio del fuoco aprì la bocca e per un istante lei poté vedere il bagliore frastagliato dei denti. «Figlio del fuoco» gridò Tarsia, «se ti libero, mi condurrai da mia madre?» L'ardore crepitante assentì con uno scoppio di calore ed uno sbuffo di fiamma. A Tarsia il cuore scoppiava in petto ed era in preda alla confusione: bruciante di vergogna e ferita dal tradimento, vedeva il principe in una nebbia di fumo e di rabbia. Le monete che gli aveva rubato erano nella sua mano e voleva disfarsene insieme con lui. «Ti do qualcosa di me, figlio del fuoco» disse, e lanciò le monete nelle fiamme. Tre puntolini d'oro, che si fusero immediatamente. Con esse svanì la vampa del suo dolore. Lei bruciò fredda e pura, come la luce delle stelle, della luna, come il riflesso del cuore di un ghiacciolo. Il drago sbatté le ah e lei percepì un'ondata di calore. La creatura volò intorno alla montagna, catturò il vento e si librò più in alto. Le sue fiamme si sprigionarono con violenza ed incendiarono il pendio di granito davanti a sé prima di scomparire alla vista. Nell'improvviso silenzio, Tarsia riuscì a far fermare il cavallo. Il principe era in piedi da solo davanti alla caverna. Il mondo era tinto della luce azzurra e trasparente del primo crepuscolo delle montagne, con un velo di fumo e spruzzi di neve. «Non mi hai detto che volevi liberare i venti» disse Tarsia. Nella sua voce risuonava ancora il potere che aveva quando si era rivolta al drago. «Non mi hai detto che eri un principe.» «Potevo fidarmi di te non più di quanto tu ti fidassi di me, figlia del vento.» «Ah, lo sai» disse con orgoglio. «L'ho immaginato quando hai liberato l'ondina» rispose lui. «Avevi progettato di usarmi per distruggere mia madre?» chiese lei.
«Non funzionerà, profezia o no. Sono qui per aiutare mia madre, non per distruggerla.» Fece avanzare il cavallo per la gola, seguendo le tracce lasciate dal fuoco del drago. Non si voltò indietro. Su per le montagne, seguendo la traccia dei cespugli bruciati e delle ceneri, incitando il cavallo con le ginocchia quando inciampava, spingendolo a superare declivi erbosi segnati dalle fiamme. I fiori di montagna ondeggiavano al loro passaggio e sulle distese di neve i cristalli di ghiaccio danzavano in cerchi turbinanti. Le torri del castello della Signora si ergevano al centro di un avvallamento scavato nella montagna. Una parete di ghiaccio si levava dietro le torri, di un azzurro glaciale nel chiarore della luna. Il vento aveva scavato gallerie nel ghiaccio e scolpito pilastri dalle strane forme. Tarsia cavalcò oltre la cresta e cominciò a far discendere il cavallo per il pendio verso i cancelli, quando vide il gigante accanto alle torri. Sentì crescere la forza dentro di sé e non tornò indietro. Mentre si avvicinavano, vide una figura nella parete di ghiaccio, la forma snella dell'ondina. Annusò l'odore dello zolfo e vide un lampo rossastro nel ghiaccio, mentre il drago girava intorno alle torri. I cancelli erano stati divelti e la neve era entrata nel cortile. Le pietre erano state bruciacchiate dal fuoco. Tarsia fece fermare il cavallo davanti al gigante che sogghignava. «Così sei venuta a completare l'opera» le disse. «Sono venuta a trovare mia madre» rispose Tarsia con voce fredda e cauta. «Spero che ne saprai di più dell'ultima volta che ho parlato con te.» «Sono venuta a parlare con mia madre» ripeté. «Quello che so o che intendo fare, non ti riguarda.» La sua voce era fredda come la luce delle stelle. Il gigante si accigliò. «Gli uomini di tua madre sono fuggiti. Il suo castello è in rovina. Ma ha ancora i venti in suo potere. È là dove non possiamo seguirla.» Il gigante indicò con un gesto la torre più alta. Tarsia notò che il vento aveva liberato dalla neve un punto alla base della torre. «Vai da lei, se vuoi.» Tarsia lasciò il cavallo bianco davanti alla porta della torre e salì da sola le fredde scale. Sentiva una brezza sfiorarle il collo e strattonarle i vestiti. Aveva freddo, tanto freddo, come quella mattina in cui aveva rubato quella grossa pagnotta. Una figura snella si stagliava sull'uscio contro il cielo. «Così sei venuta
per distruggermi» disse una voce che era al tempo stesso morbida e brusca. «No» protestò Tarsia, «non a distruggerti. Sono venuta ad aiutarti.» Guardò quegli occhi grigi. La Signora era bella come nella sua visione: snella, con gli occhi grigi, i capelli color della cenere, vestita di un abito bianco come una nuvola. Con una mano teneva al guinzaglio i quattro levrieri. Essi spiccavano argentei nel chiarore lunare ed i loro corpi sembravano luccicare. I loro occhi erano pozze di oscurità e Tarsia si domandò che cosa pensassero i venti del mondo. Avrebbero vagato liberi se non fossero stati al guinzaglio? La brezza le scompigliò i capelli ed ella si chiese perché dovessero stare legati. Tarsia guardò negli occhi la Signora e questa rise... un suono simile a ghiaccioli spezzati dal vento. «Vedo me stessa nei tuoi occhi, figlia. Sei venuta ad aiutarmi.» Tese una mano e toccò la spalla della fanciulla, attirando a sé la giovane ladra. Quella mano era fredda, e Tarsia poteva sentire il gelo che le afferrava le ossa. Il vento la sferzava sul viso e, mentre si trovava al fianco della Signora, guardava in basso il gigante ed il banco di neve, argentei nella luce della luna. Il drago scese in picchiata per atterrare lì vicino ed il bagliore delle sue fiamme diede alla neve una tonalità color ruggine. «Noi siamo al di sopra di loro, figlia» disse la Signora. Non abbiamo bisogno di loro. Tarsia non parlò. Guardando in basso, vide il pezzo di catena pendere dal braccio del gigante e ricordò di essersi chiesta perché mai fosse stato legato. «State aspettando la venuta di colei che mi distruggerà?» gridò la Signora. «Aspetterete per sempre. Eccola qui: mia figlia si è unita a me ed insieme saremo più forti di quando ero sola. Verrete ricacciati nelle vostre prigioni.» Il drago distese le ah infuocate in un bagliore glorioso. Il gigante era in piedi accanto al cancello con il largo viso solcato da un'espressione corrucciata. L'ondina volava da un pilastro di ghiaccio all'altro, e il corpo appariva alterato dalle strane forme attraverso cui passava. «Tutti coloro che si sono sollevati contro di me verranno incatenati» disse la Signora. «Non sarà necessario» disse Tarsia, la cui voce suonava flebile vicino a quella di sua madre. Poi si rivolse ai tre in attesa: «Promettete che non ci attaccherete mai più? Giurate che...» «Figlia, non possiamo scendere a patti» disse la Signora. «Niente patti,
niente giuramenti, niente promesse. Devi imparare: coloro che tradiscono debbono essere puniti. Tu hai potere su di loro, non scendere a patti.» La voce della Signora aumentò di intensità mentre parlava, e divenne fredda e impetuosa come il vento d'inverno. Non era adirata, ma solo fredda, di un freddo tagliente, come il vento che gemeva intorno alle torri della città, solitario ed orgoglioso. Come le folate che avevano gelato Tarsia quando dormiva sulle mura della città. Come il gelo della prigione quando era incatenata e non poteva fuggire. Tarsia guardò i levrieri ai piedi di sua madre, animali lucenti e slanciati con gli occhi color della notte. Perché dovevano restare incatenati? Guardò la Signora: scolpita nell'avorio, con i capelli che ondeggiavano argentei nel chiarore lunare. «Andate» disse Tarsia ai levrieri. «Siate liberi.» Quelle parole le uscirono come un sospiro. E il potere che avrebbe potuto essere suo, che era stato suo per un certo tempo, la abbandonò con quel respiro. Con il coltello affilato ed una facoltà nata da una magia che non capiva, tagliò i guinzagli che legavano i levrieri. Sotto di lei, la torre tremò. I levrieri balzarono in avanti ridendo, con le lingue penzoloni sui denti bianchi, le zampe lucide che li proiettavano nell'aria, levrieri sorridenti che assomigliavano più a fantasmi che ad animali, simili a sabbia argentea trasportata dal vento. I capelli turbinavano intorno al corpo della Signora. Sollevò le braccia argentee sopra il capo, tendendole verso la luna remota. Tarsia la guardava, sapendo che lei non sarebbe mai stata così bella, non sarebbe mai stata così potente e i venti non sarebbero mai stati al suo comando. La torre tremò, l'odore di zolfo le circondò e i cristalli di neve investirono il viso di Tarsia. Si sentì sollevare... o scaraventare e afferrare e precipitare nell'aria come una moneta. Qualcuno cancellò la luna e le stelle. Il profumo del fuoco a carbone, squallido e umido nel primo mattino e... maledizione! pensò, non me ne libererò mai? Si costrinse ad aprire gli occhi. «Sei sveglia» disse il principe. «Come ti senti?» Era stata in collera, ricordò. Ed aveva provato una fredda amarezza. Ora sentiva solo il vuoto dove prima in lei c'era stato il potere. Si sentiva vuota e leggera. Si voltò a guardare il castello di sua madre: una rovina. Pietre annerite,
segnate dalle impronte delle mani del gigante, erano ricoperte da una spruzzata di neve e sferzate dal vento. Il ghiaccio si era insinuato nelle rovine, incrinando le pietre. Si sollevò in piedi a fatica e si allontanò dal castello dirigendosi verso il villaggio. Davanti a lei, cristalli di neve turbinavano sulla superficie di un cumulo. L'erba intorno si agitava senza sosta nella brezza. Guardò il principe e pensò a tutte quelle cose che avrebbe voluto spiegare o chiedere... ma non parlò. Il vento scherzò con l'orlo della sua gonna e le solleticò la base del collo. «Ti condurrò nella mia terra se porterai con te i venti» disse il principe. La guardava con fermezza, trattandola da pari a pari. «Non posso portarli» rispose. «Non sono la loro padrona.» «Ti seguiranno» disse il principe. «Sei loro amica.» La brezza lo aiutò ad avvolgerla nel mantello, ed i venti fecero danzare i fiori mentre il principe e la ladra si allontanavano dalle rovine. Titolo originale: With Four Lean Hounds Traduzione di Maria Cristina Pietri. LA CASA NELLA FORESTA di Anodea Judith Ecco, per cambiare genere, una storia che racconta di un diverso tipo di maga: una donna dedita alle arti della guarigione che si trova ad affrontare un'insolita sfida ai suoi poteri. Anodea Judith ha già pubblicato una storia nell'antologia Greyhaven ed esercita la professione di fisioterapista. Al momento sta lavorando ad un libro non di narrativa. La forma scura spuntò dal nulla. Certamente non era quello che la guaritrice si era aspettata di trovare, ma non c'erano dubbi che fosse quella la fonte del segnale di dolore. Subana si accigliò, rabbrividì nel vento freddo e si costrinse ad andare avanti. Non aveva scelta; fin da quando aveva preso i voti di guaritrice, era tenuta, meglio, obbligata, a seguire ogni segnale di dolore che percepiva. Il lungo e arduo addestramento aveva aumentato la sua sensibilità, in modo che il dolore e la sofferenza altrui le entravano nella mente e la spingevano ad andare avanti finché non venivano curati.
Fino ad allora non aveva mai fallito, anche se il pensiero di vivere con alcune delle malattie che aveva incontrato la faceva tremare. Ma, in caso di fallimento, ci si poteva sempre rivolgere ad un maestro guaritore, anche se erano molto pochi quelli che lo facevano. Quando si raggiungeva il punto in cui si era costretti ad abbandonare, solitamente di se stessi era rimasto ben poco ed un guaritore malato era una vergogna per tutti loro. Ma perché essere pessimisti? Non era certo quello il modo di avvicinarsi ad un lavoro di guarigione. Eppure, anche mentre si costringeva a sorridere, la strana casa scura le comunicava un infausto presentimento che non riusciva ad ignorare. Impotente contro un dolore molto più grande della sua paura, si costrinse a raggiungere la porta e iniziò il consueto rituale per liberare la mente. Tutto ciò che è parte di me, resti indietro. Tutto ciò che serve, non sarà osservato. Tutto andrà bene, tutto andrà bene. Il sole sorgerà dove cadranno le ombre. Io non sono che un canale, tutto è protetto. L'equilibrio ritornerà, quando il male sarà sconfitto. Lasciò la tensione e la paura davanti alla porta, visualizzò la luce del guaritore fra le mani e bussò all'uscio. Ma non ci fu risposta! Almeno non una risposta che i normali sensi potessero percepire, anche se parve che l'intera foresta ondeggiasse in risposta. Il vento si agitò tra gli alberi, un ramoscello si spezzò dietro di lei, un gufo chiurlò in lontananza. Ma questo fu tutto: la casa rimase misteriosamente silenziosa. Subana acuì i suoi sensi per percepire quel pulsare di vita che era stata addestrata a riconoscere. Cercò sul proprio schermo mentale la scintilla di fuoco che scorreva delle vene di ogni creatura vivente e... non trovò nulla. Eppure il segnale di sofferenza continuava a trasmettere, e la sensazione di dolore ed impotenza le attanagliava il ventre, mozzandole il respiro per la paura. Entrò. Non poteva fare altrimenti. Aveva già lasciato dietro di sé la personalità di tutti i giorni ed ora era totalmente impegnata nella guarigione. Slam! La porta sbatté con furia inaspettata. Colpita da una sferzante ondata di rabbia, con la mente bruciante, cadde sul pavimento, sentendosi rinchiusa, intrappolata e profondamente terrorizzata. Chiudendo in fretta gli occhi, mormorò le parole della litania che conosceva tanto bene:
Non c'è dolore, non c'è sofferenza, Non c'è paura, non c'è morte. C'è solo la mente, c'è solo il cuore, Cristallo di verità è l'arte del guaritore. Le parole le echeggiarono nella mente, la cantilena blandì e rafforzò i suoi pensieri finché la paura scomparve e lei ritrovò ancora una volta quel distacco che era necessario per accostarsi al soggetto, qualunque fosse. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Era troppo buio per vedere qualcosa. Ma l'oscurità le acuì gli altri sensi. Nella mente udì singhiozzi, gemiti e grida rabbiose in una lingua strana ma vagamente familiare. Avvertì un senso di dolore, solitudine e confusione. Dentro di se sentì crescere la rabbia, che le diede la forza, e lasciò che il suo respiro vi affondasse, obbligando la forza a crescere dentro il suo essere come la fiamma di una torcia, respirando come se la sua vita dipendesse da quello, e forse era proprio così. Si accorse all'improvviso di quanto fosse buio e si ricordò di accendere la sua lanterna. La stanza sembrò fare un balzo indietro come se fosse sorpresa... spaventata. «Su, su» disse lei in tono suadente, senza sapere a chi o a che cosa parlasse. Neppure allora vi fu risposta. Era una stanza piccola e molto sporca. Un'occhiata le rivelò che lì non c'era nessuno... per lo meno, nessuno che lei potesse vedere. Una parete, che una volta probabilmente conteneva pannelli di vetro colorati era in frantumi ed erano rimasti larghi buchi da cui s'insinuava il vento. Non c'è da meravigliarsi se ho sentito una folata, si disse Subana, togliendosi il mantello da guaritrice: anche se la notte era fredda, lì dentro faceva molto più freddo che all'esterno. Pezzi di stoffa strappati e spiegazzati erano sparsi sul pavimento. La guaritrice si avvicinò, li toccò con le punte del bastone, dispiegandoli. Cimici spaventate si misero a correre in tutte le direzioni, fuggendo dalla luce. Subana stese un pezzo di stoffa sul pavimento, avvicinando la luce. Arazzi! Arazzi di raso e velluto! Cercò di riconoscere i disegni attraverso il sudiciume e gli strappi. Una fanciulla nuda, la figura imponente nel mezzo di una foresta, con le braccia tese. Il corpo era così raggrinzito che si riconosceva a stento e sembravano esserci delle macchie rosse sul viso e sul seno.
Il corpo di Subana venne scosso dalla nausea, ma il tremore intorno a lei si acquietò un poco. I lamenti si ridussero ad un gemito sommesso, come il rumore del vento che cala di intensità dopo un temporale. Spazzolò l'arazzo e lo appese davanti alla finestra rotta, smorzando un poco l'intensità del vento che entrava. Percepì un debole senso di sollievo... perché faceva meno freddo o perché la stanza cominciava a reagire alle sue cure? Non essere sciocca, si disse, ma la voce del maestro le risuonò nella mente: "Tutto è possibile... specialmente l'improbabile." Un improvviso brontolio dietro di lei interruppe i suoi pensieri e la fece voltare di scatto con il coltello in pugno. Continuava a non esserci niente da vedere, tranne una debole luminescenza che proveniva da un angolo della stanza... ma la cui origine era ignota. Deve essere la luce che gioca qualche brutto scherzo, pensò, ed avanzò per indagare impugnando saldamente il coltello. In un angolo c'era un asse polveroso: lo spinse da parte e si aprì la strada tra vecchie ragnatele e altre cimici spaventate. Sotto l'asse c'era una specie di tavolo, appoggiato su di un fianco e coperto dai frammenti di uno specchio. Mentre si chinava, uno di essi venne colpito da un raggio di luce e creò un lampo improvviso e brillante, dorato come il sole del mattino. Era forse questa la fonte della strana luminescenza che aveva visto prima? Dentro di lei cominciò ad emergere uno strano senso di potenza e di furore. Era una forza tranquilla, vecchia come il tempo. Riempì tutto il suo essere e la calmò, rafforzando tutti i suoi sensi. Credette di udire il suono di un respiro intorno a sé... non era forse il vento? Aprì la mente alla pura esperienza e lasciò che la sua parte conscia si ritraesse. Di qualunque cosa si trattasse, era al di là della sua capacità di razionalizzare. Aprì ancor di più la mente. «Madre di Tutti i Viventi, dove sono?» riecheggiò la sua voce nelle ombre, e queste si agitarono. Le apparve la visione di sua madre, con il viso raggiante e felice di quando era tornata trionfante dal suo addestramento di guaritrice. «Benvenuta, figlia» disse la visione, ma lei cercò di allontanarla. Aveva dovuto abbandonare il suo io di tutti i giorni, poiché per quello non c'era posto, qui. Raddrizzò la tavola, togliendo le foglie e la polvere depositate sulla superficie che era fredda, liscia e bianca... o forse lo era stata. Toccandola, udì un grido di dolore, e poi lacrime di sollievo. Desiderava piangere, oh, come desiderava piangere. Provò un senso di rabbia, di offesa, di bruciante vergogna. Sentì l'odio di sua sorella quando
era stata violentata. Sentì le doglie del parto di sua madre. Sentì morire la foresta, gli animali che gridavano cercando il cibo e si stringevano l'uno all'altro per la paura, mentre il mondo di pietra strisciava sempre più vicino. Cadde sulle ginocchia, sopraffatta dal dolore che percepiva intorno a sé. Non c'è dolore, non c'è sofferenza, non c'è paura, non c'è morte. Per un momento, la litania la calmò, ma con meno forza di quanto aveva fatto prima. Ora vi si era sovrapposto un nuovo suono. Una risata: profonda, amara, stridula, che ripeté come un'eco: "Non c'è morte". Venne scagliata sul pavimento, mentre un peso enorme le opprimeva il petto, obbligandola a respirare a fatica. Intorno a sé udì le grida di morte, vide campi di battaglia cosparsi di feriti, incendi e terremoti. Udì le urla dei feriti, sentì il dolore di genitori e figli privati dei loro affetti. E poi nulla. Il nulla più silenzioso che avesse mai udito. Era questa la morte? La visione si ritrasse. Lo stridio si attenuò ma non cessò del tutto. «Chi sei tu?» gridò al vuoto quando riuscì a ritrovare la voce. Aveva la testa piena di suoni. Il suono del vento e dell'acqua, dell'oceano e delle fiamme, di bambini e di animali, di morte e di nascite. Il suono si ritrasse. Lei si sedette. Da un angolo rotolò fuori una coppa. Una coppa d'argento, sporca, lunga ed affusolata, incisa con antichi simboli. La tavola tremò, un pezzo di specchio cadde e lei vide di nuovo la luce accecante che era il sole, il fuoco e il chiarore lunare tutti insieme. Chi stava cercando di parlarle tramite tutto ciò? Quale forza si nascondeva dietro quell'innominabile potere? E poi seppe dove si trovava. «Madre di Tutti gli Dei!» gridò cadendo in ginocchio. Immagini dei tempi antichi le passarono davanti: di sacri templi dove le sacerdotesse adoravano la Grande Madre, lo spirito della natura, la gioiosa forza della vita. Vide l'immagine di templi da lungo tempo distrutti, sepolti e dimenticati... ma non morti. Ancora pulsanti del potere della verità, giacevano in rovina, violati, e imploravano aiuto. Improvvisamente comprese la lingua che le risuonava nella testa. Era la lingua del vento, il linguaggio degli animali e il linguaggio di un grande potere. La voce della Dea l'avvolse, prendendo possesso della sua mente. «Mi hai trovato, figlia mia. Ora devi aiutarmi. Aiutami, poiché essi sono venuti e hanno cercato di distruggermi. Hanno preso questo luogo dove i miei figli erano soliti venerarmi. Hanno preso i miei figli e li hanno torturati perché mi amavano. I bambini non succhiano più dal mio seno. I fiumi non scorrono più limpidi e puri. Hanno rubato la terra che li nutriva ed io
sto morendo. Gli dèi non sono immortali... muoiono anch'essi, ma lentamente e con immenso dolore, perché portano con loro tutta l'umanità. Quando essi muoiono, anche i loro figli muoiono!» L'inconfondibile grido della vecchiaia le risuonò nella mente. «Oh mia Signora, mia Dea, mia regina! Io sono al tuo servizio. Sono la tua creatura, tua figlia, tua nipote, la tua serva. E ti servirò ora!» E cominciò a pulire. Prese dell'acqua dalla sua scorta e lavò il calice... e sembrò che questo contenesse l'oceano, le piogge e tutti i fiumi, e che essi gioissero di quella pulizia. Aveva posato la lanterna sul lato anteriore, verso sud, perché quello le era sembrato il posto giusto. La luce della lanterna si fece più intensa e brillò di una fiamma bianco-azzurra. L'altare risplendette alla luce dei gioielli nel chiarore della luna. La foresta si agitò. Il vento aumentò. Lavorò tutta la notte senza stancarsi. Trovò una vecchia scopa di saggina e ripulì il pavimento. Spazzolò gli arazzi e li appese alle pareti. Mise frutta fresca sull'altare e bruciò delle erbe purificatrici. Lavorando, cantava. Cantò canzoni d'amore. Cantò vecchie canzoni di magia e di gesta eroiche. Intonò canti che veneravano la Signora. E si sentì sempre meglio. Il dolore cessò, i gemiti tacquero, diventando solo un flebile sottofondo alla gioia che lei provava, un costante memento della Morte per apprezzare il valore della vita. Una nuova gioia nacque dentro di lei e con essa una sensazione di pienezza... di unione con tutta la vita. Quando giunse il mattino, il luogo era completamente trasformato. Quando il sole spuntò, brillò sopra un piccolo altare, riflettendosi nello specchio che lo sormontava. La luce danzò sugli arazzi e mentre lei guardava, notò che i disegni erano cambiati. Il corpo della Fanciulla era gravido della promessa di una nuova vita, la carne era sana e luminosa. Nella mano teneva la luna e le stelle e dai capelli scendeva un arcobaleno. E stava sorridendo, un sorriso radioso e profondo. Anche Subana sorrise, un sorriso di pace e soddisfazione. Si sentiva veramente risanata, come se dentro di lei luoghi che per un'intera vita erano rimasti vuoti, ora fossero stati colmati. Si avvicinò all'altare e sorrise ancora, sollevò il calice e sparse poche gocce d'acqua intorno a sé. Fece il segno dell'autodifesa e bevve a lungo. «Signora, che tu possa sempre conservare la tua pienezza!» Si guardò nello specchio. Un altro viso la guardava, un viso di una bellezza abbagliante, di una pazienza infinita, di un amore sconfinato. «Bimba mia» udì Subana, «devi sapere che sono sempre con te.» Una lacrima scivolò sulla guancia di Subana e cadde sull'altare.
«Madre, ti ringrazio» disse piano. Oltrepassò la soglia, uscendo alla luce del sole e al canto degli uccelli. Titolo originale: House in the Forest Traduzione di Maria Cristina Pietri LA SPADA DI YRAINE di Diana L. Paxson Diana Paxson fece per la prima volta parlare di sé con il racconto "Song of N'Sardi El" sull'antologia Millennial Women.1 Da allora è apparsa nelle antologie Hecate's Cauldron e Greyhaven ed ha pubblicato i suoi primi romanzi, Lady of Light e Lady of Darkness presso la Timescape. La maggior parte degli autori, prima o poi, scrive una serie di racconti sullo stesso personaggio: Diana ha scritto parecchi racconti su Shanna, la principessa guerriera. Il primo fu "The Dark Mother", nell'antologia di Andy Offutt Sword Against Darkness. Diana sostiene che non è stata lei a decidere di scrivere la storia, ma piuttosto è stata la storia a scegliere lei, ovvero il racconto di come Shanna trovò la propria spada e di come scelse di combattere. Si chiese: "Come accadde che Shanna scelse di diventare una guerriera?" E questo è quello che ne è seguito. Non so se ho già fatto cenno ai tre argomenti tabù per l'inclusione in questa antologia. Comunque, ciascuno di questi è stato infranto almeno una volta da racconti talmente avvincenti che non ho esitato a sceglierli ugualmente. La storia di Stephen Burns, "Rubacuori", superò i miei pregiudizi sui protagonisti maschili; "La creatura delle tenebre" di Emma Bull, quelli sul linguaggio della fantascienza; ed il terzo tabù, lo stupro, è stato spazzato via dalla forza dì questo racconto. «Quello che eravate è dimenticato...» cantarono le sacerdotesse, tre figure scure sbalzate dall'ombra, la femminea oscurità dell'anima. «Ciò che sarete è ancora ignoto...» riecheggiarono le loro voci sotto le arcuate pareti della caverna che gli uomini chiamavano il Grembo di Sharteyn, come se gli spiriti di tutti coloro che si erano votati alle dee del Tem1
v. «Il canto di N'Sardi El» in Le donne del millennio, «SF Narrativa d'Anticipazioi 30 (N.d.R).
pio si unissero a loro. Shanna rabbrividì, ma non per l'aria fredda. Il peso della roccia sopra di lei, il peso degli anni durante i quali questo luogo era stato consacrato al popolo di Sharteyn, il peso di ciò che ci si aspettava da una figlia della casa reale, tutto questo la opprimeva e nessuna voce santa si levava per liberarla. Premette la fronte contro le pietre consunte dal tempo sul pavimento della caverna, come se così facendo potesse costringerlo a risponderle. «I vostri corpi sono il vestimento della Dea...» Shanna si raddrizzò, tendendo i muscoli compatti delle braccia e della schiena, e sospirò. Quei muscoli li aveva rafforzati dolorosamente e pazientemente passando ore a sollevare lo scudo rotondo e maneggiando la spada di legno in addestramento. Quale dea aveva delle braccia così muscolose? Anche suo fratello, che pure le aveva insegnato a maneggiare la spada, sarebbe rimasto sconvolto se lei avesse chiesto di dedicare se stessa ad un dio. Ricacciò indietro i capelli neri con aria ribelle. Avrebbe dovuto essere con lui, ora, con lui e con suo padre, che stava guidando le sue inadeguate forze contro la marmaglia del capo dei banditi, Kintashe, in qualche punto oltre la foresta che circondava il Tempio. «I vostri spiriti sono il Suo tempio segreto...» cantavano le sacerdotesse. Le altre ragazze intorno a lei si inginocchiarono con il capo doverosamente chino. Dopo una settimana passata tra di loro era in grado di catalogarle come avrebbe fatto uno dei bardi di suo padre; Martiella dallo sguardo ridente che era chiaramente destinata al servizio di Ytarre e la sua amica Kima, timida come una quaglia; la rotondetta Talia, che si era dimostrata amica di Shanna quando le altre avevano deriso le sue braccia forti e la sua figura alta e sottile; Jori, la figlia di un possidente consacrata a Kera per nascita ed inclinazione; e poi Danilla, Alise, Sirenne. Tutte loro sapevano già quale dea le avrebbe reclamate, perché per lei era tanto difficile? «Aprite il vostro cuore e lei certo verrà da voi!» Il canto sfumò in un silenzio frusciante quando anche le altre si alzarono, ma Shanna rimase immobile, scrutando nella propria oscurità interiore in cerca di qualche Segno. «Mia signora Shanna, devi venire, ora!» la voce tagliente della sacerdotessa si faceva beffe delle parole rispettose. Shanna annuì e si alzò senza fatica, obbligandosi a non crollare. Era penosamente conscia dei loro sguardi di disapprovazione, di divertimento, di noia, simili all'esame minuzioso e remoto delle immagini delle dee incor-
niciate nelle pareti. Artamise, Hiera la regina, Hekaite e tutte le altre erano adorate in questo luogo, persino Yraine, la Signora delle Stelle, il cui unico simulacro era il fuoco che ardeva perenne sull'altare. La sua luce intermittente coglieva bagliori di fuoco dai vasi dorati e dai baldacchini di filigrana d'argento, splendeva nei loro cuori ingioiellati che erano il frutto di secoli di tributi al Tempio. E domani devo dedicare la mia vita ad una di esse, pensò, e nessuno tranne me saprà che è tutto finito... Il rumore dei sandali risuonò sulla pietra nuda mentre le ragazze seguivano le sacerdotesse attraverso il labirinto di passaggi che portavano su, all'esterno, alla Casa delle Fanciulle. Shanna chinò il capo nero e le seguì, mentre la sua ombra la precedeva dritta come un colpo di spada. Shanna combatteva contro Qualcuno il cui volto era nascosto dalla maschera di cuoio dell'elmo da addestramento. Non importava chi fosse, importava solo la spada che balenava contro di lei, battendo rumorosamente contro il suo piccolo scudo. Lei indietreggiò accosciandosi, in modo da poter saltare quando... sì, ecco uno spiraglio! la sua arma saettò al di là della lama del nemico e tang!, il braccio di Shanna vibrò quando il suo colpo si abbatté sullo scudo dell'avversario. Ma lei stava già ruotando su se stessa per parare con lo scudo il colpo. Tang! Crack! Il battito ritmico del legno sul cuoio, del legno contro il legno, continuava... E poi, all'improvviso, si svegliò. Si trovava nel dormitorio, scompostamente avvolta nelle coperte, ma continuava a sentire il rumore del legno che cozzava contro il legno, poi un gemito stridente e qualcuno che lanciava un rauco grido di trionfo. Il cancello! Il muro di pietra che circondava gli edifici del tempio era interrotto da un robusto cancello di quercia di montagna. Qualcuno stava cercando di entrare! Talia si agitò e gemette sul giaciglio accanto al suo. Dalla stanza vennero mormorii assonnati. «Che c'è?» chiese piano una voce. «Chi fa tutto questo rumore?» Shanna lottò per distinguere il suono di voci maschili, quello del legno che si spezzava e poi il secco schianto che doveva essere il resto del cancello che cedeva. «Kintashe!» esclamò Kima. «I banditi sono qui e ci uccideranno tutte!» Il cuore di Shanna batté dolorosamente. Kintashe aveva sconfitto suo padre, l'aveva ucciso? Una donna lanciò un urlo roco ed un'altra cominciò ad imprecare. Gli attaccanti dovevano aver trovato le sacerdotesse. Nonostante il proprio dolore, Shanna stava cercando di decifrare i suoni che ve-
nivano dall'esterno. Non era mai venuto in mente né ai sacerdoti né ai regnanti che qualcuno potesse violare il Tempio. Tra un attimo gli invasori sarebbero stati lì. Con amara ironia, Shanna pensò Ora vedremo se la Dea sarà in grado dì badare a coloro che le appartengono! Kima stava piangendo senza freno, coprendo gli altri rumori. «Stai zitta!» sibilò Shanna nell'oscurità. «Vuoi che ci sentano?» I singhiozzi cessarono immediatamente, anche se ogni tanto la sentiva tirare su con il naso e reprimere un singhiozzo. Dall'esterno giunse una risata sguaiata ed il rumore di qualcosa di pesante che veniva trascinato. La porta della camerata si aprì di schianto e Martiella, il cui giaciglio era il più vicino, balzò indietro con un grido strozzato, come un uccello in trappola. La luce di una torcia lampeggiò selvaggiamente sulle pareti imbiancate. Le altre ragazze si accalcarono insieme contro la parete, stringendosi addosso le coperte sottili e dopo un attimo di esitazione, Shanna represse il suo orgoglio e le imitò. Non attirare l'attenzione su di te, lascia che pensino che sei anche tu una sciocchina spaventata! Di certo non c'era nulla che potesse fare contro degli uomini armati, eppure una parte di lei stava già facendo piani per cercare un modo... «Così è questo che stavano proteggendo!» La luce della torcia dietro di lui fece tremolare mostruosamente la sua ombra sul pavimento. «Pensava che tenessero qui il tesoro di Sharteyn!» «Qualcosa di meglio, sono...» disse un'altra voce bramosa. «Ragazze!» Altri due uomini oltrepassarono la porta, trascinando la sacerdotessa di Kera in mezzo a loro. Le sue gonne erano insanguinate e Shanna si rese conto con orrore che l'avevano azzoppata. Quando la lasciarono cadde pesantemente sul pavimento e poi si sollevò sulle braccia, con lo sguardo inferocito. «Maledetti, siate maledetti e che la Dea faccia rinsecchire la vostra virilità se le toccherete. Queste nobili vergini sono qui per formulare i loro voti e finché non l'avranno fatto, non sono carne per alcun uomo!» «Carne davvero dolce...» disse la voce bramosa, «e chi perderebbe tempo con una vecchia gallina quando ci sono tante giovani pollastrelle disponibili?» Sollevò la torcia ed essa lampeggiò dorata su quelle file di visi bianchi e di occhi attoniti. Martiella ansimò e si tirò le coperte sul viso, scoprendo le gambe fino alle cosce. Gli occhi dell'uomo vi indugiarono per un attimo prima di spostarsi.
Shanna ascoltava attentamente, ma dall'esterno non giungevano altri suoni. Sentì con dolorosa certezza che avevano ucciso le altre due sacerdotesse. «Siete tutte qui?» La domanda in tono aspro la sorprese. Quell'uomo era armato meglio degli altri, con una corazza di cuoio ornata di piastre di acciaio opaco. «Otto dolci vergini, Capo...» disse l'uomo con la voce bramosa. «Nobili vergini» scimmiottò crudelmente. «Fortuna per noi» disse il capo, «ed era ora. Le promesse che Kintashe ci aveva fatto sono andate distrutte con lui, ma i signori di Sharteyn pagheranno bene per riavere le loro figlie!» Shanna si appoggiò all'indietro con un sospiro. Allora questi erano i resti sbandati di un esercito sconfitto, non le avanguardie dei vincitori. Suo padre aveva vinto. «Vive, ma non, ah... intatte. Capo, saremo lo zimbello delle taverne se le faremo tornare a casa ancora vergini!» «Varranno di più se le lasceremo stare...» disse l'uomo che chiamavano Capo, ma il tipo alto e sfregiato accanto a lui lo interruppe. «Se mai otterremo il riscatto...» Il quarto uomo stava scrollando la testa. «Non ha senso... non si costruiscono mura come queste solo per proteggere delle donne. Ci deve essere qualcos'altro, qui!» Tutti gli occhi si puntarono su di lui. Capo annuì. «Ci hai pensato anche tu...» La sacerdotessa di Kera strinse le labbra con ostinazione. All'improvviso la spada del capo le balenò alla gola. «No... non le avete già fatto abbastanza?» esclamò Talia. «Lasciatela stare!» La spada saettò verso il petto di Talia. Shanna si tese per balzare in sua difesa, ma si costrinse a restare ferma. «Be'?» Gli occhi di Capo erano ancora fissi sulla sacerdotessa. «Preferisci che la usi su di lei?» La donna anziana deglutì. «Giura che risparmierai le fanciulle...» «Risparmieremo le loro vite...» disse amabilmente e gli altri risero. «Lo giuro» disse sorridendo, «per la sacra spada di Toyu!» «C'è dell'oro nel Tempio nascosto» disse cupamente la sacerdotessa. «Ma le caverne sono proibite agli uomini. Troverete solo la morte se oserete entrare nel Grembo di Sharteyn.» Ci fu un attimo di silenzio mentre gli uomini pensavano al grembo che
aveva dato loro la vita e alle tombe che si sarebbero spalancate per loro un giorno. Un giorno vicino! pensò Shanna con gioia maligna, mentre essi tornavano a sorridere. Prenderanno l'oro. Le dee li puniranno per quella profanazione, o invece essi si prenderanno una rivincita su tutto Sharteyn? Talia si era accasciata tremante contro la parete e Shanna si spostò impercettibilmente e le prese la mano. «Bene, ora...» disse infine Capo. «Penso che abbiamo una piccola esplorazione da compiere. Laxo, voglio che tu faccia una ricognizione e ti accerti che nessuno sia in arrivo per sorprenderci...» Lo sfregiato annuì. «Merig e Ven, voglio che voi...» «Ehi, Capo, non possiamo restare a fare la guardia alle ragazze?» chiese quello grosso. «Non vorrai che sgattaiolino via a chiedere aiuto, no?» Il capo sospirò. «Vedo che non mi sarete di nessun aiuto finché non vi sarete scaricati. Allora restate qui, ma usatele uno alla volta e quello che non è occupato, monti la guardia.» «E tu, Ven» disse lo sfregiato fermandosi sulla soglia, «lasciane qualcuna intatta per me!» La stanza divenne molto silenziosa quando Capo e Laxo se ne furono andati. Ven e Merig fecero passare lo sguardo sulle ragazze come volpi che guatano una stia, mentre le loro smorfie sorridenti si allargavano. Shanna provò un senso di amara soddisfazione nel vedere che il loro sguardo era rivolto altrove, sapendo che quando c'erano disponibili ragazze come Martiella, difficilmente si sarebbero interessati a lei! La sacerdotessa era crollata semisvenuta. Talia e Jori si chinarono su di lei cercando di fasciarle le ferite. «Va bene... tu!» Ven si piegò e strappò via le coltri di Martiella. La ragazza si rattrappì, scuotendo il capo e lui imprecò battendo con una mano sulla spada. «Non fare la stupida, ragazza; vuoi perdere la tua bellezza oltre alla tua verginità?» Lentamente Martiella si alzò in piedi, Ven le strappò la camicia da notte e deglutì rumorosamente vedendo la perfezione dei suoi seni eretti e dei fianchi rotondi. Martiella continuò a scuotere il capo con aria intontita, ma Kima gridò quando lui strinse a sé la ragazza e cominciò a baciarla brutalmente. Poi la lasciò andare con un'imprecazione quando le sue grida non cessarono. «Un uomo non può farsi in pace gli affari propri? Merig, tu puoi occuparti di queste mentre io mi porto la pollastra nell'altra stanza. Quando tor-
nerò sarà il tuo turno.» Molte scoppiarono in singhiozzi quando la porta si chiuse dietro di loro e Shanna provò una remota compassione. Tutte queste ragazze si aspettavano di sposarsi presto e quasi tutte erano abbastanza realiste da non aspettarsi un marito simile alla romantica figura dei loro sogni. Ma almeno si sarebbero sposate onorevolmente; chi le avrebbe volute ora, dopo che erano state insozzate da uomini del genere? «Bene, uccellini miei» Merig si accomodò su di una panca accanto alla porta. «Sta a voi decidere se verrete colpite da una spada o da un pene; quest'ultimo sarebbe certamente più divertente per tutti, per cui state buone! Non preoccupatevi, siamo abbastanza per tutte!» La smorfia mostrò una fila di denti marci come le pietre diroccate di una torre. Le implorazioni soffocate dall'altra stanza si tramutarono in un grido. Poi ne seguì un altro, subito zittito. Povera Martiella, pensò Shanna, ma almeno è viva, per ora. Se questi bastardi possono saccheggiare il Tempio, perché dovrebbero rischiare chiedendo un riscatto per noi? Immaginò che fosse per questa ragione che il capo aveva lasciato che Ven e Merig facessero quello che volevano. Una volta che gli uomini avevano il denaro, potevano abbandonare le ragazze o ucciderle, ma era più probabile che le uccidessero come avevano fatto con le sacerdotesse, perché certo, se avessero lasciato vivo qualcuno che poteva identificarli, non sarebbero sfuggiti alla vendetta dei Templi. Sì, moriremo tutte... si disse e sentì uno strano brivido nel petto, come quello che si prova al punto cruciale di un racconto tragico. E sarà questa la risposta a quello che cercavo? E la fine di tutte le lotte, la scusa per tutti i fallimenti... Ma cosa poteva fare per rimediare alla loro situazione? C'erano quattro uomini armati e nella stanza non c'era nulla che potesse venir usato come arma. Se le ragazze avessero agito insieme, forse sarebbero state in grado di sopraffare uno degli uomini, ma qualcuna avrebbe potuto restare ferita. Shanna guardò le ragazze che si stringevano addosso le coperte o fissavano affascinate l'uomo. Nessun aiuto da loro, non contro quest'uomo. Merig le stava osservando con un sorriso compiaciuto, come un mercante alla fiera. Sceglie la pollastra, pensò Shanna. E dopo? Dopo aver sistemato le ragazze, avrebbero preso l'oro; e cosa avrebbero fatto, le dee profanate, a quella terra che non aveva saputo proteggere il loro Tempio? Gli dei erano sufficientemente imprevedibili anche quando tutti i riti venivano celebrati correttamente.
Per un attimo a Shanna sembrò di vedere i campi d'orzo di Sharteyn appassiti, gli avvoltoi che si cibavano nei pascoli ed una marea rossa che macchiava il mare lucente. Un orrore più profondo le attanagliò le viscere ed allora si ricordò di essere la Figlia di Sharteyn. Forse non c'era un modo di salvare il Tempio, ma lei doveva almeno provarci. Tese i muscoli dei glutei e cominciò a raddrizzarsi. Si udì un passo nel corridoio. La porta si aprì e Martiella entrò barcollando. Ven le diede una spinta e lei cadde nelle braccia di Kima. Sulla sua camicia c'erano delle macchie di sangue. Mentre la giovane restava a terra tremante, Ven si sedette al posto di Merig guardandosi intorno con una smorfia di sazietà. Merig aveva già fatto un rapido passo avanti ed afferrato Talia per un braccio. Il colorito della ragazza era scomparso e per un attimo i suoi occhi incontrarono quelli di Shanna, poi annuì e lasciò che lui la spingesse fuori dalla stanza. Shanna si costrinse a non sentire quello che avveniva nella stanza accanto. Non sprecherò il tempo che tu ora stai guadagnando per noi... è parecchio che Ven non dorme ed ora che ha avuto una donna, si rilasserà. È lui quello da colpire, presto... presto... Lo osservò da sotto le ciglia cambiare posizione finché non ne trovò una comoda e gradualmente si acquietò. Si avvicinò a Jori e alle altre ragazze che stavano occupandosi della sacerdotessa, come se volesse aiutarle. «Cercherò di mettere fuori combattimento la nostra guardia appena sarà un po' più rilassata» sussurrò. «Legatelo con i cordoni delle vostre vestaglie una volta che l'avrò sopraffatto.» «Sei pazza!» «Vuoi davvero fare la fine di Marti e Talia, o anche peggio? Con lui fuori gioco possiamo sorprendere l'altro e magari fuggire prima che Capo ritorni.» Le ragazze la guardavano con gli occhi sgranati, ma la sacerdotessa mormorò una benedizione. L'avrebbero aiutata? Combatté la tentazione di rifugiarsi sul suo giaciglio e facendo un respiro profondo scivolò lentamente attraverso la stanza. Era a due metri di distanza, uno... Ven alzò lo sguardo su di lei, con gli occhi che valutavano il suo corpo ancor prima di domandarsi che cosa facesse lì. Poi sguainò la spada e puntò contro di lei. Shanna fece un balzo indietro e si rannicchiò, guardandolo. «Bene, carina, proprio non potevi aspettare? Non preferiresti provare l'altra mia arma? Sei un po' ossuta, ma forse potremo divertirci. Da brava,
ora, torna alle tue coperte... non ti farò aspettare troppo!» Stava sorridendo, e cominciava a raddrizzarsi, supponendo che lei si sottomettesse, e Shanna si sentì arrossire. Ma la sua spada era ancora puntata. Ora che aveva perso l'elemento sorpresa, per raggiungerlo doveva affrontare la punta o il taglio della sua spada. Se tutte insieme si fossero precipitate su di lui, forse... ma con la coda dell'occhio vide che le altre stavano fissando affascinate: avevano visto la camicia di Martiella sporca di sangue, ma le devastazioni sconosciute di una spada le spaventavano di più. Lo sguardo di Shanna tornò a posarsi sulla lama simile ad una spada di fuoco nella luce della torcia... la lama di acciaio dei guerrieri che lei non aveva mai maneggiato. Ma aveva visto abbastanza spade per sapere che quella era un'arma micidiale. Si domandò al corpo di quale grande guerriero l'avesse sottratta. Sarebbe stata una ferita pulita: un dolore simile ad un germoglio luminoso nella mente e poi... l'abbraccio della Dea o il nulla, a seconda dì quale delle due credenze fosse vera. In quell'acciaio c'era un'integrità che trascendeva persino la spregevolezza dello sciacallo ne era entrato in possesso. Non dovrebbe averla lui... non sa capire la sua anima, pensò Shanna mentre Ven si muoveva e la luce scintillava sulla lama. Ricordò il bagliore del fuoco sull'acqua e il gelido luccichio delle stelle. Fece un profondo respiro, poi un altro, cercando di calmare il martellare del proprio cuore. Se crede che non abbia paura, non saprà cosa fare... «Mi ucciderai?» chiese sottovoce. «Ma se fosse quello che voglio? E che cosa dirà il tuo Capo quando troverà solo sette ragazze per cui chiedere il riscatto quando ritorna?» Fece un passo avanti e lui agitò la spada, ma lei stava già muovendosi nella direzione opposta, avanzando ed indietreggiando davanti a lui come se la spada e la sua preda fossero i compagni di una danza mortale. Si muoveva senza sforzo, con una grazia che mascherava i movimenti sempre più rapidi. Istupidito, Ven seguì i suoi movimenti, finché Shanna non si accorse che aveva cominciato ad essere lei a controllare il ritmo dell'azione. Ah, Dea, se qualche dea mi ascolta ora, mi aiuti! Qualcosa nel suo intimo si immobilizzò, come se avesse udito in lontananza una campanella di cristallo. Shanna si fermò per un attimo, confondendo l'uomo, poi balzò verso la lama scintillante come una sposa che corre verso l'amato. La lama la toccò, e lei si girò in modo che le sfiorasse di piatto il ventre mentre la sua spinta
faceva cadere l'uomo. «Jori! Adesso!» gridò alla ragazza che aveva aiutato la sacerdotessa, perché il suo solo peso non avrebbe potuto tenerlo a lungo. Ven grugnì e fu sul punto di gridare. Shanna gli cacciò l'avambraccio sinistro tra i denti, sentendo la pressione di questi che si chiudevano, ma niente dolore, non ancora. Poi Jori e Damila gli bloccarono i piedi, armeggiando con i cordoni. Gli afferrarono i polsi. Shanna gli cacciò negli occhi le dita della mano libera per distogliere la sua attenzione, poi liberò il braccio mentre Jori gli cacciava in bocca un pezzo di stoffa per imbavagliarlo. Shanna si sedette ansimante. La frenesia della lotta ottundeva ancora il dolore mentre cercava di rendersi conto che aveva vinto, che davvero la Dea aveva ascoltato le sue preghiere. Ven si contorse e la guardò con occhi fiammeggianti da sopra il bavaglio, ma le altre ragazze sciamarono sopra di lui che, più che legato, era letteralmente fasciato in strisce di stoffa. Ci serviranno altre di quelle strisce per legare gli altri uomini... Shanna si rese conto che dava per scontato che ci sarebbero riuscite. E anche le altre ragazze la pensavano così. Incontrò i loro sguardi ansiosi e seppe che ora si aspettavano che lei le salvasse. «Zitte» disse alzandosi in piedi. «Quell'altro, quel Merig, adesso è occupato con la povera Talia, ma se ci sente starnazzare finirà molto presto. Trasportate quest'infame nell'angolo e tornate ai vostri letti...» continuò ad impartire loro istruzioni mentre cercava di cogliere i rumori all'esterno. L'attesa dava l'impressione che fosse passato molto tempo da quando Merig e la sua vittima se n'erano andati. Sarebbe stato utile se Talia avesse avuto la presenza di spirito di afferrare il pugnale dell'uomo e di piantarglielo nelle costole mentre le era sopra, ma Shanna sapeva di essere grata all'amica perché teneva tanto a lungo occupato quel tipo. Ma poi udì una risata ed un singhiozzo sommesso. Con il cuore che le martellava, strinse la spada di Ven e si appostò accanto alla porta. Questa si aprì. Merig spinse Talia nella stanza davanti a sé. Le altre ragazze scoppiarono in una cacofonia di lamenti; lui si fermò a guardarle ed in quello stesso istante Shanna menò un terribile fendente all'altezza delle ginocchia, lo stesso colpo che non tanto tempo prima aveva azzoppato la sacerdotessa di Kera. Lui cadde con un grido. Shanna si immobilizzò, aspettandosi di udire un rumore di passi che correvano nel corridoio. Ma questo non venne. Se Capo o l'altro uomo avevano udito, stavano probabilmente ridendo degli strepiti che certe ragazze fanno quando perdono la verginità. Le altre ragazze
sapevano cosa fare, ora, e presto Merig venne fasciato perfino meglio del suo compagno. Talia fissò Shanna, mentre per un attimo lo stupore prendeva il sopravvento sul dolore. Poi cominciò a tremare e quando cadde sul suo letto le altre ragazze le si affollarono intorno, con sussurri ansiosi. Ma Shanna rimase dov'era. Con attenzione pulì la spada sulle pieghe della camicia, poi la sollevò, la abbassò e la fece roteare. Il peso ed il bilanciamento non erano molto diversi da quella di legno che usava per esercitarsi, ma nessuna lama di legno aveva un canto così dolce e certo non vibrava come un cosa viva nella sua mano. Acciaio! pensò esultante. Sollevò la lama in una Guardia di Prima, quasi dimenticando per un istante dove si trovava e come ne era venuta in possesso. I suoi muscoli addestrati si piegarono per lanciarla nella sequenza stilizzata della danza della spada. «Shanna!» Il grido di Jori la trasse con un sussulto da quel luogo silenzioso in cui lei e la spada erano una cosa sola. «Gli altri arriveranno presto. Che cosa facciamo ora?» Shanna guardò la finestra. Le stelle stavano impallidendo, e presto sarebbe giunta quell'ora in cui anche le ombre diventavano tenui. Pensò per un attimo. «Jori, devi condurre fuori le altre attraverso il cancello laterale. Se riuscite a raggiungere la foresta per l'alba, sarà molto difficile che riescano a prendervi anche indovinando dove siete andate. Dirigetevi a sud, da quella parte ci sono delle fattorie e potranno mandare dei messaggeri a Sharteyn.» «Ma la sacerdotessa non può camminare e poi che ne sarà di te?» «Andate» disse la vecchia con voce roca. «Non c'è nulla che possiate fare per me! Più presto riuscirete a trovare aiuto, più presto mi manderanno un cerusico.» Shanna fece un gesto impaziente. «Perché pensi che voglia che sia tu a condurle? Io debbo restare per cercare di difendere il Tempio. Sarà più facile se saprò che siete libere...» Talia era già in piedi e sul suo viso stava tornando il colore. Spinse Danilla verso la porta e si voltò verso Shanna. «Grazie, sorella mia!» Shanna annuì bruscamente, incapace di rispondere. Se solo avesse agito prima, risparmiando a Talia quel dolore! Ma l'altra ragazza era sopravvissuta. Col tempo, Talia si sarebbe rimessa. Non era invece sicura di Martiella; ella avrebbe voluto darsi alla Signora dell'Amore ed invece era stata presa dal Signore della Lussuria. Ora giaceva rigida tra le coperte, fissando qualcosa che solo lei poteva vedere. Né
Jori né Kima riuscivano a muoverla e dopo qualche momento, Jori scosse il capo. «Dobbiamo lasciarla qui...» disse con tono infelice. «Sì, ma ora dovete andare, non c'è più molto tempo!» Shanna si muoveva irrequieta in preda all'ansia. Seguì Jori e le altre finché non furono fuori dalla porta, guardò le pallide figure attraversare velocemente il cortile e continuò a guardare finché il cancello laterale non si chiuse dietro l'ultima di loro. Rimase un attimo immobile a respirare l'aria fresca ed umida del primo mattino, cercando di acquietare i battiti furiosi del suo cuore. Poi udì un gemito soffocato provenire dal dormitorio e attraversò correndo il corridoio. Qualcuno degli uomini legati si era forse liberato? Quando raggiunse la soglia, Martiella era china sul corpo di Ven. Il sangue brillava alla luce della torcia. Poi Martiella si sedette, sorridendo in modo orribile. In una mano teneva il coltello che avevano preso dalla cintura dell'uomo e nell'altra una massa di carne che gocciolava sangue. Martiella parlò per la prima volta da quando Ven l'aveva spinta dentro la stanza. «Vedi, ti ho salvata. Non farà mai più niente di simile a nessuna donna...» Annuendo, mostrò quello che aveva in mano. Shanna sentì in bocca il sapore della bile e la spada tremò nella sua mano come se avesse visto un orribile mostro sul suo cammino. Ancora un attimo ed avrebbe colpito. Fece un passo indietro, guardandola fissamente. Era diritto di Martiella, certo... Shanna non era stata violentata: non poteva giudicare l'altra ragazza. Ma quando raggiunse il corridoio, la nausea la sopraffece e vomitò. Le gambe la portarono lontano dalla stanza insanguinata. Dea! pensò. Siamo crudeli come gli uomini! Dea di Sharteyn, che cosa farò? Allora si fermò e vide che i suoi passi l'avevano condotta alla porta del Tempio e che questa era aperta. Il capo dei banditi doveva averlo trovato. Le grandi porte potevano essere sbarrate solo dall'interno e lei non poteva quindi chiuderlo dentro. Il suo compito divenne dolorosamente chiaro. Avrebbe dovuto dargli la caccia prima che finisse di spogliare il Tempio e se ne andasse con il bottino; avrebbe dovuto occuparsi di lui prima che il quarto uomo, Laxo, tornasse dal suo giro di ricognizione all'esterno. Con molta cautela, Shanna si incamminò per i passaggi che portavano alle caverne. In origine erano solo delle spaccature nella roccia, ma nel
corso dei secoli erano state allargate e lisciate dalle mani delle donne. Quanti secoli? Ormai a Sharteyn non lo sapeva più nessuno, ma le caverne erano state consacrate prima che l'Impero di Katyan eclissasse le terre del nord. Curiosamente, il pensiero di quanto era antico il Tempio le diede forza, come se l'inconsistenza delle sue paure le rendesse irrilevanti. Trovò Capo mentre stava per tornare indietro trascinandosi appresso il tesoro avvolto in un pezzo di arazzo. Quando vide che gli stava davanti, sorrise e abbassò la spada. «Ven ti ha mandato a cercarmi? C'è qualcosa che non va?» Shanna lo fissò, rendendosi conto che lui non sapeva che era armata. Forse dopo tutto sarebbe riuscita a coglierlo di sorpresa. La veste le intralciava le gambe mentre si metteva in guardia, e lei la scostò con un gesto di stizza; a casa si era sempre allenata con indosso una tunica corta. Ma aveva usato il proprio cordone per legare Merig e non aveva più modo di arrotolarla. Ma in questo modo non poteva certo combattere contro nessuno! Freneticamente, tirò il cordoncino finché la camicia non le scivolò dalle spalle cadendo a terra ai suoi piedi. Capo spalancò gli occhi mentre lei se ne liberava. «Deve essere in corso una bella festa, là sopra! E ti hanno mandato a chiamarmi?» Un sopracciglio cespuglioso si sollevò. «Sei di quelle un po' ossute, ma non sei male...» Con un movimento rapidissimo, Shanna si arrotolò la veste sul braccio. Poi fece un passo avanti e lui vide la spada. «Stupida gallinella!» mormorò, ma gli occhi non smisero di sorridere mentre estraeva la spada. La parte superiore del corpo di Capo era protetta da un farsetto rinforzato che solo un affondo molto forte avrebbe potuto penetrare e lui era molto muscoloso, certamente un veterano di mille contese, dalle battaglie campali alle risse di taverna. L'addestramento di Shanna comprendeva il combattimento spada contro spada e anche spada e scudo, ma quali possibilità aveva contro un uomo simile? Sul viso di lui si leggevano i segni della fatica e delle ore passate in sella... forse la stanchezza avrebbe rallentato i suoi movimenti. Dea! Avrebbe dovuto colpire veloce e senza incertezze! Shanna si morse le labbra concentrandosi. Fingi che sia solo un'altra seduta di allenamento! Cercò di bandire l'imbarazzante consapevolezza della sua nudità, degli occhi di lui sopra il suo corpo, degli sguardi piatti delle dee sulle pareti. Colpisci in fretta, mentre sta ancora ridendo di te! Fece un profondo respiro e balzò in avanti come un falco in picchiata.
La sua lama superò la guardia di lui, graffiandogli il collo mentre scartava di lato. L'aria spostata dall'attacco del suo avversario le sfiorò le costole mentre indietreggiava. Ora Capo aveva socchiuso gli occhi ed il suo viso era rosso per la rabbia e lei pensò che non la vedeva più come una donna, ora, ma come un corpo attaccato ad una lama, come un nemico. Di nuovo si tuffò in avanti. Le loro lame si scontrarono e solo torcendo rapidamente il polso riuscì ad evitare che la spada le sfuggisse di mano. Ora Capo attaccava: Shanna boccheggiò quando il braccio avvolto nella veste deviò un colpo e la carne dove Ven aveva affondato i denti pulsò dolorosamente. Attenta! il pensiero si presentò fulmineo prima che lui attaccasse ancora. Questo non è uno scudo! Ansimò mentre lui la costringeva a girare intorno all'altare, cercando di mandarla in una delle grotte dove non avrebbe potuto sfruttare la sua maggiore agilità. La luce del fuoco brillò sulla sua pelle bagnata di sudore, rendendo i lineamenti duri dell'uomo simili ad una maschera demoniaca. Capo si muoveva più lentamente, sapendo di averla messa in condizione di doversi difendere. «Ti sei comportata bene, ragazza, ma perché combattere contro di me? Non è questa l'arma che vorrei conficcare in quel tuo bianco corpo!» Mosse la spada con un gesto molto allusivo e sogghignò. «Avanti, arrenditi!» Shanna scosse il capo, cercando di riprendere fiato. «Dunque è solo a questo che pensi serva una donna? Non mi arrendo. Sono la Figlia di Sharteyn!» «Il vecchio sangue guerriero... avrei dovuto capirlo.» Annuì lentamente. «Be', ho un'altra proposta. Ti piace combattere? Allora unisciti a me, con questo tesoro come inizio, potremmo ricavarci un regno! Che genere di vita pensi che ti attenderebbe? Sei un falco fra le galline! Vieni...» Le tese la mano. Quando sorrideva sembrava più giovane, persino attraente. Che stesse dicendo la verità? Anche se lo sconfiggeva, che cosa avrebbero pensato di lei a Sharteyn? Sarebbe stata uno scherzo di natura, una donna con una spada. Si guardò intorno disperata, cercando una risposta nei visi dipinti delle dee che li guardavano dall'alto. Il loro tesoro, pensò. Se lo prendo, gli importerà davvero? Un vento freddo soffiò per la caverna e lei rabbrividì. Sbatté le palpebre quando il fuoco dell'altare fiammeggiò alto. Il fuoco di Yraine... Forse le altre dee erano di legno e pietra, ma Yraine viveva nel fuoco sacro. Dove avrebbe potuto andare Shanna senza che le stelle la vedessero? Quale tribù
di uomini non usava il fuoco? «Non posso» disse infine ad alta voce. Capo sospirò, sollevò di nuovo la spada ed avanzò verso di lei. Il modo diverso in cui si mosse le suggerì che ora aveva intenzione di farla finita in fretta. Dea! gridò lo spirito di Shanna. Ho avuto fede in te! Fai che almeno muoia bene! Quella era la risposta. Lo capì nel momento in cui sollevò la propria spada senza incertezze. La morte era la verità della spada; la morte sarebbe stata la sposa che avrebbe avuto la sua verginità. L'aria le bruciò la pelle nuda. Il fuoco ardeva negli occhi del nemico. Il tempo rallentò: riusciva a pensare anche mentre il suo corpo si muoveva. Poiché questa sarà la mia prima e ultima battaglia, fai che sia perfetta; Dea, possa questo essere il mio sacrificio a te! Le lame si incrociarono e si separarono. Mentre Shanna balzava oltre Capo, la lama del bandito le segnò il fianco. Ma ora aveva spazio per muoversi. L'aria era luminosa, i visi delle dee brillavano. Calma, calma, si disse Shanna cercando il perfetto equilibrio interiore, quel nucleo di calma da cui fluiscono tutte le azioni. Intravide il colpo di piatto che stava per abbattersi su di lei, ma ebbe tutto il tempo per cambiare la guardia in modo che questo scivolasse sulla lama senza colpirla; di scatto, smise di premere contro di lui, facendogli perdere l'equilibrio. Si slanciò all'attacco; con uno scatto lui si riprese, la sua lama saettò con tutto l'impeto della sua grande mole e Shanna balzò di nuovo indietro. Ora ogni nervo ed ogni muscolo era teso al massimo, corpo e mente uniti nella suprema armonia. Quello era il ritmo! Avanzare ed indietreggiare, roteare, come le stelle che si muovevano cielo ed il fuoco che balzava in alto e poi si affievoliva. Ora Shanna comprendeva la danza della spada a cui per tanto tempo si era allenata. I suoi sensi avvolsero il nemico, e fu parte di lei come lei era parte dell'aria bruciante, del fuoco, della pietra su cui danzava, della sua spada... Era lo stesso slancio dell'arma a crearlo e le loro lame si scontrarono; per un istante i due avversari si trovarono petto contro petto e Shanna rise. Poi con un unico movimento si separarono, ma Shanna sapeva quando Capo avrebbe attaccato, sapeva cosa avrebbe fatto la sua lama, sapeva con esattezza come muovere la spada per parare i suoi colpi. Questa era l'unione che non aveva mai conosciuto con le altre donne, questa era l'estasi che
aveva sempre agognato quando sognava dell'amore! Ora non vedeva più né il viso dell'uomo né la caverna intorno a lei. Due occhi simili a stelle riempivano la sua visione, occhi la cui luce si allargò finché Shanna non vide più nulla. Da qualche altro universo una voce rude gridò: «Capo, Capo, le ragazze sono fuggite!» L'altro uomo era tornato. Dal profondo del suo essere, risuonarono parole dal rintocco cristallino: «Figlia, questo è il momento!» La fine. Il movimento finale della danza. Bilanciando il corpo, Shanna tese la lama sorridendo, si volse di lato mentre l'altro braccio si apriva per accogliere l'avversario; l'equilibrio perfetto la mantenne ferma anche mentre i loro corpi si incontravano diventando uno solo. «Cap-o-oo!» Gli occhi spalancati di Shanna si fissarono a stento sull'uomo sfregiato, Laxo, che era in piedi all'ingresso della caverna e li fissava con il viso contorto. Il rumore di una spada che cadeva risuonò sulla pietra. Shanna guardò quel viso contorto così vicino al suo, con le labbra piegate nella parodia di un bacio. Senza capire, vide il fuoco spegnersi in quegli occhi; poi quel corpo si appoggiò pesantemente al suo e le piastre di metallo del farsetto le graffiarono il seno mentre lui scivolava via ed il suo corpo si liberava lentamente della spada che lo aveva trafitto, finché giacque ai suoi piedi, immobile. Laxo, ancora ritto vicino all'ingresso, la vide in piedi sul corpo del suo capo, con una spada insanguinata in mano, simile ad una nuda dea della vendetta, e si voltò, fuggendo lungo il passaggio che portava fuori dal Tempio. Ma Shanna rimase dov'era, fissando il corpo ai suoi piedi, mentre il battito del suo cuore si calmava e la gloria svaniva. «Ho ucciso un uomo...» Costrinse il proprio cervello annebbiato ad esprimere ad alta voce questa constatazione. «Sono una donna che può uccidere.» Non serviva dire che le donne non uccidevano con la spada. Lei lo aveva fatto e sapeva che se fosse stato necessario lo avrebbe fatto ancora. Ed anche un'altra cosa sapeva, sapeva che sarebbe tornato quel desiderio disperato, non di prendere una vita, ma di riassaporare quel momento di unione con il nemico, quando la vita e la morte sono una cosa sola.
La Dea le aveva parlato in quel momento, come non aveva mai fatto prima. Tremando per la reazione, Shanna si avvicinò incespicando all'altare e con cura appoggiò la spada sull'orlo di pietra. «Dea, ascoltami!» Shanna posò il palmo delle mani sulla lama insanguinata. «Non so che cosa Tu voglia da me, ma Tu mi hai chiamata... quindi ora accogli il mio voto!» Trasse un rauco respiro e mosse le labbra nel giuramento della spada. Aveva sentito i suoi fratelli e gli altri pronunciare quelle parole e fino ad allora non si era mai resa conto di averle imparate a memoria. «Davanti alla Signora delle Stelle e per il Suo Sacro Fuoco, io giuro che mai verrò meno alla verità che è dentro di me; sarò giusta con i miei nemici e fedele con i miei amici! E se mai disonorerò il signore o i parenti o la lama che porto, possa ciò rivolgermisi contro e possa il mio fantasma vagare per sempre nelle tenebre senza conforto!» Lottò per trovare il respiro; stava tremando ed era difficile costringere le labbra ad obbedire. «Yraine, io mi voto a Te! Signora della Saggezza, io sono la tua spada che risparmia o uccide!» Il grido di Shanna riecheggiò sotto il soffitto ricurvo della caverna ed il vento di una grande Presenza passò sussurrando accanto a lei e fece danzare alte le fiamme del fuoco sacro. Poi il fuoco riprese a bruciare tranquillamente e Shanna fu sola. Ma non completamente sola. Ripulì con cura la spada con quello che rimaneva della propria veste e poi, afferrando l'impugnatura con fermezza, si incamminò lungo il passaggio verso la luce del giorno. Potete leggere a pagina 331 un'altra avventura di Shanna, "Il bosco delle ombre" (N.d.R.) Titolo originale: Sword of Yraine Traduzione di Maria Cristina Pietri DATON E LE COSE MORTE di Michael Ward Quando mi sottopose il racconto, Michael Ward disse che era sicuro che ben presto sarei stata sommersa dalle solite storie di amazzoni che conquistano città e oppongono la loro forza a quella degli uomini. E aveva
ragione: ho ricevuto così tante storie di quel genere che arrivai a definirlo come quello della "solita maga barbarica" o addirittura di "Conan in gonnella". Lui, invece, mi mandò quello che definì un "racconto da spaccone". Michael afferma che il suo compleanno cade nello stesso giorno di quelli di "John Cheever, Dashiell Hammett e, così si mormora, Harlan Ellison". Lui non lo dice, ma forse dopo tutto nell'astrologia c'è qualcosa di vero. Ha già venduto un paio di racconti di fantascienza ma questa è la sua prima storia di fantasy, "senza contare un'incursione surrealistica per una rivista altamente letteraria", che non solo non lo pagò, ma lo obbligò addirittura a comperarsi la sua copia. E questo gli serva di lezione per aver cercato delle ambizioni letterarie, dico io! Nelle sue parole: "sono divorziato, senza figli, e cerco di fare del mio meglio per divertirmi vivendo a Baton Rouge", dove Michael lavora per guadagnare riconoscimenti per un'agenzia di pubblicità. Come tutte le spacconate che si rispettano, anche questa comincia in una taverna, con la nostra guerriera che scrocca da bere raccontando di quella volta in cui l'ha scampata bella. Ho sentito dire che ci sono dei tipi molto strani in quei bar, e che uno dei nomi con cui si usa definirli normalmente è "troll"... ma questo è ridicolo. Ma anche stupendamente ridicolo. Ecco qui, giusto per solleticare i vostri nervi... La leggenda dice che i ciclopi non sono creature di grande intelligenza e quello che ho conosciuto io non faceva certo eccezione. Aspettate e vi racconterò la storia. Ma prima, lasciatemelo dire (dopotutto sapete che la gente ascolta le mie storie con lo stesso piacere che provo io a raccontarle), una gola, amici miei, è come un fodero, che ben oliato permette di estrarre la lama più facilmente ed in fretta, e quindi permette una più rapida ed incisiva applicazione al gioco... Ora posso raccontarvi più facilmente ed in fretta come ho incontrato quella creatura, che come poi venni a sapere si chiamava Daton, nella città morta a cinque giorni di cavallo ad ovest di Rodent's Head. Ero rimasta a piedi a Rodent's Head dopo quello che io consideravo un insignificante litigio con il mio compagno di viaggio. Nel mezzo della notte lui mi aveva abbandonata, ma sfortunatamente non aveva abbandonato le nostre provviste e i nostri risparmi. Già nei momenti migliori Rodent's Head è un posto poco piacevole, popolato di stupidi nativi dall'aspetto rude e dalle abitudini disgustose. Ora,
senza un soldo ed il conforto della compagnia intellettuale di un mio simile, sentii il pericolo di venir infettata dalla laidezza spirituale della città. Ed anche se una volta avevo sperimentato questo tipo di degenerazione, essa si era rivelata altamente spiacevole. Quindi avevo in mente due cose; fuggire da Rodent's Head e ritrovare quello sciocco zuccone che mi aveva piantata in asso. Un testimone l'aveva visto abbandonare la città diretto ad ovest. Assicurarsi un paio di cavalli, uno per montare e l'altro per i bagagli, fu l'affare di un attimo. Quella città, come del resto quasi tutte, apparteneva agli uomini, e come sapete raramente gli uomini notano quello che le donne fanno in realtà. Per le vivande fu un tantino più difficile, dal momento che non camminavano con le loro gambe. Caricai la roba, montai in sella e cavalcai verso ovest, lasciando presto alle spalle la grigia e lugubre Rodent's Head. In tutta la città non c'era un affresco, un mosaico, neppure un arazzo dai colori vivaci. Per degli occhi che a quel punto avevano fame di colori, il baluginio dell'alba dietro di me illuminava il terreno coperto di arbusti con uno splendore rinfrescante. Contenta di essere in viaggio, decisi di fare colazione senza scendere da cavallo e consumai qualche uovo crudo ed un paio di brandy. Provai la sensazione inebriante, come mi capita spesso quando mi metto in cammino, di stare cavalcando verso il mio futuro ed il mio destino. Quando spuntò il sole, però, lo splendore del paesaggio e la mia euforia diminuirono persino più in fretta della mia ombra. Respiravo pesantemente e mi trovai intrisa di sudore molto prima del mezzogiorno. E quando mi fermai per mangiare e riposare ero fradicia. Cavalcando nel sole pomeridiano, con gli occhi socchiusi a causa della luce abbagliante e per nulla euforica, vidi il paesaggio mutare completamente: da terreno coperto di arbusti a deserto vero e proprio. In effetti, per centinaia di miglia ad ovest di Rodent's Head non c'è altro che deserto, dando l'impressione che la città non finisca, ma finiscano solo riparo, cibo e acqua. Come riassumere cinque giorni e cinque notti nel deserto? La fatica. Le fantasie e le illusioni. Dirò solo che lo sopportai e a modo mio prevalsi. Continuai il viaggio. Trovai ogni tanto le tracce del passaggio del mio excompagno e le seguii. Dopo quei cinque giorni, giunsi nel luogo dove il suo viaggio aveva avuto termine. La città morta si stendeva in una quiete e desolazione che superavano persino quella del deserto che la circondava. Il senso di morte totale che evocava non era suggerito solo dalle mosche e dagli avvoltoi. Ai loro tem-
pi, queste enormi costruzioni di pietra scolpita probabilmente si ergevano come splendidi e maestosi emblemi della conquista umana; ora invece simboleggiavano maestosamente e meravigliosamente qualcosa di totalmente diverso. Tracce di zoccoli portavano ad una breccia in un muro. Evidentemente il mio amico aveva pensato di accamparsi all'interno. Io lo seguii. E mi fermai all'imboccatura della breccia, lo confesso, a bocca aperta. Nel corso degli anni la sabbia si era ammassata contro il muro per cui il punto da cui ora dominavo l'interno della città era ad un'altezza di almeno tre piani. E l'interno era uno spazio tanto ampio che un uccello migratore avrebbe potuto perdersi, proprio come subito si perse il mio sguardo. Era un labirinto orizzontale e verticale composto da edifici torreggianti, ponti, contrafforti, strade e camminamenti sospesi, balconi sporgenti. Ritrovai le tracce e le seguii lungo la collinetta di sabbia fino al tetto di un edificio di due piani e poi attraverso un arco all'altra estremità. Se il mio ex-compagno era ancora lì, e non avevo visto tracce che si allontanavano, allora volevo affrontarlo quando ancora aveva il coraggio e la spada nel fodero. Il che mi ricorda... Bene, spada e coraggio pronti, mi incamminai lungo la stanza dall'altra parte dell'arco, silenziosa come una fanciulla che passa davanti alla porta della camera del padre. E la mia cautela venne ricompensata. Da un altro arco davanti a me, verso destra, colsi l'odore di brace e di carne arrostita. Dopo cinque giorni di stenti, quel dolce profumo si rivelò un incentivo pari al desiderio di vendetta. Mi avvicinai all'arco costeggiando la parete e rimanendo invisibile dall'interno mi fermai al centro dell'arcata. Il commento che stavo per fare mi morì in gola. La prima cosa che vidi in quella stanza fu un cavallo appeso per le zampe posteriori, con la gola squarciata ed il sangue che colava in un'enorme bacinella posta sotto lo sfortunato animale. La seconda cosa che vidi fu un grosso spiedo infilzato nella carcassa quasi completamente divorata di qualcosa di grosso, sospesa su di un fuoco semispento. Feci un passo verso quell'aroma invitante. E notai la terza cosa: la carcassa era quella di un essere umano. Mi avvicinai per indagare. Voltare lo spiedo per guardare la faccia non mi disse nulla: era troppo ben cotta. Ma girando un po' di più lo spiedo, capii. Il mio sfortunato amico era solito esibire una borchia d'oro a forma di pentacolo all'orecchio sinistro. La trovai nell'orecchio ben arrostito della carcassa.
Strana fine. Non avrei la presunzione di dire che era meritata, ma strana sì, questo si può dire. Ricordo di aver chiuso gli occhi per un attimo, sentendo il brontolio del mio stomaco. Ed in quel momento mi resi conto che opporsi a quel brontolio era solo una futile argomentazione cerebrale. In vita, il mio amico non mi aveva mai trattato bene come ora io trattavo bene lui. Un lato della stanza era crollato nei tempi passati, ed ora il pavimento finiva in un precipizio. Mentre mi pulivo le mani sui pantaloni, udii un suono provenire da laggiù, come di pietre schiacciate sotto un passo assurdamente pesante. Sguainai la spada e lentamente mi avvicinai per investigare. Quando ero a circa dieci passi dall'orlo del pavimento, una creatura vagamente rassomigliante ad un essere umano sporse la testa oltre il bordo e mi guardò. Con l'unico occhio. Con la guancia appoggiata all'orlo del pavimento, la testa arrivava quasi all'altezza del mio ginocchio. L'occhio solitario non era, contrariamente alle comuni descrizioni, situato nel centro della faccia. Era messo di lato, quello sinistro, come sarebbe stato nella normale distribuzione delle cose. E dove tale distribuzione ne prevedeva un secondo, e non ce n'era nessuno, la faccia era incavata e raggrinzita, come se fosse nata per aspettare una seconda orbita e, non avendola avuta, fosse crollata per il disappunto. La creatura aprì la bocca, mettendo in mostra dei denti marroni e giallastri molto impressionanti, e parlò: «Che genere di cosa sei tu?» La sua voce era, a dire poco, imponente e bassa. «Umana» disse senza tremare, cosa di cui sono molto orgogliosa. La creatura mise una grande mano sul bordo del pavimento. E poi sollevò l'altra mano, seguita da un avambraccio grosso come un tronco. Con le dita all'infuori, la mano cadde mentre il gomito si sollevava. Saltò al di là del bordo ed il pavimento tremò. La sua altezza era due volte la mia, il che, come potete osservare voi stessi, lo rendeva veramente alto. Il fatto che fosse completamente nudo, rendeva evidente la sua totale mancanza di peli. Era magro, relativamente parlando, certo, e le ginocchia ossute avevano un diametro maggiore delle gambe, come lo avevano i gomiti rispetto alle braccia. Il ventre era teso verso la schiena come pure la carne sulle costole. Da una cordicella intorno al collo pendeva il fodero di una spada corta, che nelle sue mani sarebbe
sembrata un pugnale. Si accucciò davanti a me; il soffitto era troppo basso perché potesse restare eretto, ed i genitali penzolavano verso il pavimento. Accosciato, era alto solo poco più di me. Disse: «Ma che genere di cosa sei? Una cosa morta? O viva?» Improvvisamente intuii che il mio ex-amico doveva avere dato la risposta sbagliata. Allora divenni comprensibilmente cauta. «E tu?» chiesi. «Tu che genere sei?» «Una cosa morta.» «Come me!» esclamai con grande falsità. Tutte le donne imparano la falsità. Il problema è poi disimpararla. «Morta da molto?» «Oh, sì, da molto.» «Mi spiace. Colei che mi aveva svezzato mi ha detto che non va bene mangiare cose morte da lungo tempo. Ma non sono troppo triste, perché finalmente oggi ho mangiato e mi rimane anche un cavallo da mangiare se non aspetto che sia morto da troppo tempo.» «Mi fa molto piacere che tu abbia finalmente mangiato» dissi alla creatura. «E colei che ti ha svezzato doveva essere molto saggia. La nostra conversazione mi ha deliziato, ma ora ho paura di avere un impegno altrove e di dovermene andare.» Cominciai ad indietreggiare verso l'arco. Senza alzarsi in piedi e con una velocità sorprendente, la creatura si mise a correre, con le braccia, le gambe ed i genitali che frustavano l'aria. Mi sfiorò passandomi accanto e bloccò l'arcata, facendo volare via pezzi di pietra quando rimbalzò contro il bordo. Nascosi la mia sorpresa a quella vista e respirai profondamente, preparandomi per il combattimento che speravo di evitare. «Lasciami passare» dissi. «Devo metterti dove tengo le altre cose morte.» Sguainai la spada. «Colei che mi ha svezzato ha detto che ci deve essere un posto per ogni cosa.» Si sporse verso di me. «Ed ogni cosa deve essere al suo posto.» Attaccai, e la punta della spada venne deviata da una costola. Poi per un attimo brevissimo fui conscia di un confuso e brancolante movimento di arti simili a tronchi. Poi l'unica percezione chiara fu di essere imprigionata: una delle grandi mani ossute della creatura stringeva il mio polso, la mia mano e l'impugnatura della spada. L'altra mi stringeva la gamba all'altezza del ginocchio. Dopo qualche inutile tentativo per liberarmi, mi rilassai nella sua stretta e attesi l'opportunità di un'azione costruttiva.
Lui mi mise di traverso sulle spalle, come se fossi un mantello ed io ebbi la sensazione di essere sbattuta su di una catasta di legna. Mi tenne con un braccio ed una gamba davanti a sé ed il mio viso premette contro la sua ascella, che era maleodorante anche per una donna che aveva appena passato cinque giorni nel deserto. Distolsi il viso e cominciai a pensare che era necessario conoscere meglio il mio nemico, quando lui saltò dal pavimento sbrecciato nella stanza sottostante. Quando la nebbia si dissolse dal mio cervello, anche se il dolore al fianco ed alla spalla rimasero, decisi di approfondire la mia conoscenza con la creatura. «Con che nome sei conosciuto?» gli chiesi. «Daton» rispose, mentre mi trasportava come un sacco di rape. Rape morte da un pezzo. «Un bel nome: Daton. E sei anche un... bell'esemplare. Come fai a sapere che sei una cosa morta, Daton?» «Colei che mi ha svezzato mi ha detto che non avrei dovuto mangiarmi. Se non sono buono da mangiare, allora devo essere una cosa morta da lungo tempo.» «È molto logico» dissi. «Dimmi, dov'è colei che ti ha svezzato?» «L'ho mangiata.» «Capisco. Lei era viva.» «Sì» rispose lui. Dopo di che, rifiutò di rispondere alle mie domande, facendomi notare che parlavo parecchio per essere una cosa morta da lungo tempo ed allora ritenni meglio desistere. Mi portò lungo un corridoio sul cui soffitto si aprivano a tratti dei lucernari, poi giù da una scala (esperienza interessante alla luce delle nostre rispettive posizioni), lungo una breve sala e finalmente attraverso una porta che conduceva all'esterno. Mi lasciò cadere a terra e mi prese la spada dalla mano. Mentre cercavo una posizione più comoda, vidi che non ero esattamente all'esterno, ma in una specie di cortile. Un cortile con una sola uscita. (Ovviamente, mi preoccupavo più delle uscite che delle entrate). «Qui» disse Daton, «è dove tengo le cose morte.» La sua affermazione era evidente. Un gran numero di cose morte di ogni tipo e in vari stadi di mummificazione (ecco finalmente una ragione per cui essere grati al sole del deserto), erano ammucchiate vicino alla porta. Daton tornò indietro. Ma prima che scomparisse alla vista, notai una cosa molto interessante. La creatura, Daton, rimosse da una nicchia della parete proprio fuori dal-
la porta un contenitore di forma cilindrica, di diametro uguale all'altezza e di un volume tale da poter contenere forse due otri di vino. Daton lo maneggiava con evidente cura e grande affetto. Aprì la parte superiore con uno strano gesto che posso descrivere solo come una torsione, guardò dentro, lo richiuse con lo stesso gesto e, dopo averlo accarezzato una volta o due in segno di addio, rimise il contenitore nella sua nicchia. Non fui in grado di vedere cosa conteneva, anche se trattava quel contenitore come se contenesse i suoi testicoli. Ma il contenitore, su questo non ho dubbi, era d'oro. Capii allora che se fossi sfuggita alla creatura lo avrei fatto portando con me più di quanto avessi quando mi aveva catturato. Andai alla porta e spiai oltre il bordo. La breve sala portava direttamente ad una rampa di scale in salita. Ai piedi della scala giaceva Daton, raggomitolato come un cane. E come un cane, sollevò la testa e mi guardò. Decisi di esplorare la mia prigione. O forse, pensai, ossario sarebbe stata la parola più adatta. Scoprii che vi abitavano altre cose morte. Assommavano a mezza dozzina e facevano sembrare addirittura affascinanti gli abitanti di Rodent's Head. Erano smunti ed appassiti come lo stesso Daton, ma al contrario di lui, la loro umanità non si poteva negare. Vivevano di quello che riuscivano a prendere, un insetto o qualche rettile, in un magro orto che fertilizzavano con i loro miseri escrementi, innaffiato con una pompa a mano che ogni tanto sputacchiava una brodaglia marrone e fangosa, e delle cose morte da non troppo tempo che Daton buttava dentro. Nessuno di quei sei aveva idea da quanto fossero lì. Una di loro mi disse: «A che serve il tempo quando si è morti?» Parlai ancora con lei, poiché sembrava (non so se perché era più forte o perché era lì da meno tempo) quella più in possesso delle sue facoltà mentali. «Come mai» le chiesi mentre ce ne stavamo accucciate vicine nella luce del crepuscolo, «nessuno è scappato? Certo, Daton è grosso. E certamente è veloce in quel suo modo sconnesso e furioso, ma certamente non potrebbe resistere a sei persone.» «A che cosa serve fuggire quando si è morti?» Fu allora che mi resi conto che quel modo di parlare non era né una malignità né un'amara metafora: questa gente era davvero arrivata a credere alla bugia che una volta aveva salvato loro la vita. Erano giunti ad amare ciò che avevano accettato.
«Più tardi» le dissi, «quando saremo in pieno nel grembo della notte e sarò sicura che Daton dorme, scivolerò via e me ne andrò. Puoi venire con me o restare qui ad aspettare la putrefazione, come preferisci.» Lei si limitò a raccomandarmi di essere silenziosa come un'ombra. Le orecchie di Daton, mi spiegò, coglievano qualunque rumore più forte. Feci tesoro di quell'informazione e mi tolsi gli stivali. Usando le lunghe strisce di stoffa con cui avevo fatto un turbante da avvolgermi in testa, le legai strettamente insieme e poi le assicurai alla schiena in modo che non mi intralciassero. Questo richiese pochi minuti. E rimanevano parecchie ore da passare. Ammazzare il tempo non è mai stata una delle mie qualità migliori, e questo credo sia dovuto al fatto che io sono acutamente conscia della circostanza che in realtà è il tempo ad ammazzare noi. Decisi quindi di usare quel tempo meglio che potevo e chiesi alla mia nuova conoscenza se quando Daton veniva a foraggiarli non lasciasse mai incustodito il passaggio verso il nostro cortile. Lei mi rispose che non ce n'era bisogno: l'unico passaggio che conduceva alla città era quella stessa breccia attraverso cui eravamo entrati io ed il mio compagno servito come pasto. Quindi quel passaggio era il posto migliore per catturare cose viventi che vagavano. Poi le chiesi che cosa sapeva del contenitore d'oro di Daton. In quel contenitore, mi disse, c'era l'altro occhio di Daton. Come tutti quelli della sua razza, così sembrava, quando Daton era nato l'altro occhio gli era stato consegnato separatamente. Lui aveva sempre tenuto quell'occhio vicino a sé e non solo per puro sentimentalismo. Se si fosse potuto bere anche un solo sorso dell'acqua in cui era contenuto l'occhio, mi spiegò l'amica, si sarebbe potuta sviluppare per qualche breve attimo l'abilità di vedere cose che prima erano sfuggite alla percezione. Naturalmente trovai la cosa davvero interessante. Qualunque cosa dal potere magico o mistico avrebbe dato al suo contenitore, anche se d'oro, un valore insignificante. Mi sentii pervadere dall'eccitazione. Un tale premio sarebbe valsa l'intera avventura, che fino ad ora era stata abbastanza spenta. Alla fine capii, come chi riconosce al tatto uno stivale dall'altro, che era giunto il tempo di muoversi. Vicino alla porta, che riuscivo a vedere grazie all'incredibile chiarore stellare del deserto, qualcosa scricchiolò disgustosamente e pericolosamente sotto il mio piede nudo. Sollevai lentamente il piede destro dalla mano mummificata su cui lo avevo appoggiato. E ascoltai. Non udii nulla. Riprendendo ad avanzare, giunsi alla porta e mi sporsi a spiare oltre il bordo.
Daton non si vedeva da nessuna parte. Mi inoltrai nella sala. L'unica luce proveniva dalla porta attraverso cui ero passata e dalle scale. Cercai il contenitore nella sua nicchia e vidi il suo debole brillio dorato. Quel momento, in piedi nel buio, sola, mentre scoprivo quel ricco bagliore velato, fu squisito. Presi il contenitore con entrambe le mani ed incapace di resistere, mi fermai un istante per guardare il contenuto. Dopo qualche tentativo e qualche errore, scoprii il corretto movimento per aprire la parte superiore. Era un sistema ingegnoso: due eliche che si incastravano l'una nell'altra, una scavata all'interno della parte superiore ed una all'esterno del contenitore stesso. L'occhio era dentro, sul fondo del contenitore pieno d'acqua. L'occhio aveva le dimensioni di quello di un bue, con il quale si sa che certa gente fa delle zuppe. Un'iride marrone da una parte e piccoli cavi arricciati dall'altra. Tuffai le dita nell'acqua. Naturalmente a prima vista l'aspetto non era certo appetitoso, ma io avevo assaggiato di peggio, anche recentemente, a Rodent's Head, ed un richiamo profondo fece battere in modo assordante il mio cuore per l'eccitazione mentre mi leccavo le dita. Sapeva di lacrime. E mi resi conto che non tutto quel rumore assordante era dovuto all'eccitazione. Da qualche parte arrivava un suono simile ad una lontana valanga. Rimisi a posto il coperchio del contenitore. Il suono si fece più forte. Ed improvvisamente ne vidi la fonte. Daton apparve nella luce in cima alle scale e venne verso di me con quella sua corsa acquattata e frenetica, con le braccia e le gambe che si muovevano come rami d'albero frustati dal vento in tempesta. Poi si lanciò su di me attraverso la sala, con le braccia tese per afferrarmi. Guardai ogni istante di quella corsa ed essa finì un attimo troppo presto perché potessi spostarmi. Guardai quelle braccia protese afferrare il contenitore e sbattermi di lato. Poi mi ritrovai a guardare, con un occhio solo, il terreno del cortile. Mi rigirai sulla schiena e per un istante vidi esplosioni di luce colorata che significavano un dolore troppo grande e troppo improvviso per essere riconosciuto subito come tale. Quelle luci scomparvero ed io mi ritrovai a guardare due Daton in piedi tra due porte che si sovrapponevano leggermente. Il modo di comportarsi quando si vede doppio, come ben sanno i bevitori accaniti, è quello di chiudere un occhio. Lo feci, e vidi un Daton, in una
porta, che diceva: «No, no, resta lì dentro. Dentro.» Aprì il contenitore, controllò l'occhio, richiuse il contenitore, lo accarezzò, lo rimise nella nicchia e se ne andò. Non avevo mai notato prima quanti colori diversi avessero le stelle. Guardai i sei edifici che costituivano le pareti della mia prigione. Guardai le travi marce e spezzate, e le strutture arrugginite che una volta sostenevano le scale e i fragili rampicanti marroni che li ricoprivano. Troppo poco resistenti per scalarli. C'erano poche ombre nella luce diffusa delle stelle. Aprii l'altro occhio per vedere se continuavo a vederci doppio. Sì, non c'erano dubbi. E vidi qualche cosa d'altro. Qualcosa che prima mi era sfuggita. E mi venne un'idea. Per poterla applicare era necessaria una certa quantità di lavoro materiale e dal momento che non potevo certo contare su nessuno di quella comunità di morti per avere aiuto, fui obbligata a muovermi. Mentre lo facevo, cominciando ad alzarmi in piedi, il mio corpo attaccò un doloroso canto di accompagnamento: le voci unite di graffi ed abrasioni formavano un sottofondo armonico per la voce solista di quella che ero certa fosse una costola rotta. Mentre mi davo da fare, il coro cambiò intonazione molte volte e non diminuì mai di intensità. Nonostante la musica, continuai. La debolezza, la vistai doppia ed il disorientamento erano più difficili da sopportare, ma cercai di resistere e alla fine svanirono. E svanì anche, mi resi conto, l'effetto dell'acqua dell'occhio, ma quello che avevo appreso rimaneva. All'alba, che sorse con la caratteristica immediatezza del deserto, il mio lavoro era terminato. Avevo costruito un congegno con una trave rotta e marcia, un pezzo di ferro arrugginito e le fragili liane marroni. La trave si stendeva attraverso la porta, appena sopra la mia testa, saldamente legata ad altre travi ad ogni lato con un grande numero di liane. Il pezzo di ferro, lungo più del doppio del mio braccio e rozzamente appuntito ad una delle estremità arrugginite, l'avevo legato alla trave trasversale, in modo che sporgesse dalla porta verso la sala. Ero pronta ad iniziare la recita. Sbirciai nella sala. Come previsto, Daton per il momento non si vedeva. Il contenitore era nella sua nicchia. Lo afferrai e ritornai sulla soglia, rivolta verso l'esterno. Ed udii il rombante avvicinarsi di Daton. «Vieni avanti, stupido!» gridai non senza, posso aggiungere, una certa soddisfazione. «Vieni avanti, ignorante entità pustolosa. Ho il tuo occhio!» Lanciai una rapida occhiata per controllare ed aggiustai la mia posizione in
modo da trovarmi esattamente sotto il palo di ferro che sporgeva per circa un metro nella sala. Tornai a guardare nella sala quando mi accorsi che il rombo si stava facendo più forte e trassi un profondo respiro per farmi coraggio e per rinvigorire la fiducia nel mio piano. Un piano che si basava sull'aver finalmente appreso ciò che era ovvio: la vista di un ciclope manca di profondità. La canzone dolorosa del mio corpo, per quanto forte, venne ora soffocata insieme al rombo che si avvicinava, dal canto dell'eccitazione. «Vieni avanti, imbecille! Ho il tuo occhio e con l'aiuto di questa sbarra di ferro dietro di me, me lo terrò.» Daton apparve in cima alle scale. «Sono qui!» gridai. «E qui non c'è il tuo occhio. E qui» indicai verso l'alto «dietro di me, c'è la sbarra.» Lui stava arrivando in una confusione di braccia e gambe che frustavano l'aria. Poi le braccia si tesero in avanti, parallele, con le mani all'altezza del contenitore dell'occhio e delle mie costole. Non mi mossi. «No, no, no, no» udii stava dicendo. Venne dritto verso di me e con una semplicità che aveva del meraviglioso si abbatté sulla sbarra, conficcandosela nella fronte. E continuò ad andare avanti. Dritto attraverso di me. Non ci fu nulla di meraviglioso. La trave si schiantò. Daton trascinò con sé la sbarra che gli trapassava la fronte. Questo lo vidi mentre ero ancora in aria. Quando atterrai in cima ad una pila di cadaveri che scricchiolarono crepitando, tutto si dissolse in una luce pulsante per un indeterminato periodo di tempo. Riaffiorai da questa schiuma luminosa per trovarmi di fronte allo spettacolo di Daton che si contorceva a terra, facendo vibrare il pavimento. Ed alla fine rimase immobile. Dal canto mio, non ero certo in forma. Quando sentii che potevo alzarmi lo feci. Non cercherò di descrivere l'esperienza, vi basti sapere che semplicemente preferirei non ripeterla. Tutti i morti viventi di Daton mi stavano intorno a bocca aperta. Raccolsi il contenitore da dove era caduto, poi mi avvicinai al corpo di Daton e presi la sua spada corta. Poi dissi alle cose morte che erano libere. Potevano scegliere di andarsene e ricominciare vivere o potevano restare e continuare la loro semi-vita,
come preferivano. Mi voltai e mi incamminai, provando un curioso miscuglio di tristezza e di euforia. Se qualcuno di loro mi seguì, fu solo molto tempo dopo che me ne ero andata. I miei fedeli cavalli erano ancora dove li avevo lasciati. Mi allontanai al galoppo, lasciandomi alle spalle la città morta. Ah, amici miei, mi accorgo che siete scettici. Se non foste così educati, mi direste: vediamo questo occhio meraviglioso nel suo contenitore d'oro. Mi dispiace dire che dovete credermi sulla parola. Perché vedete, ripassai per Rodent's Head visto che mi mancavano le provviste per raggiungere un'oasi più amena. In mia assenza si erano accorti delle libertà che mi ero presa. Se il mio corpo non fosse già stato così malridotto, sono sicura che se ne sarebbero incaricati loro. Dal momento che già lo era, confiscarono il contenitore d'oro per ripagarsi delle perdite. E l'occhio? Come voi, amici miei, anche loro pensarono che la mia storia fosse tutta un'invenzione. Scambiarono l'occhio per quello di un bue e ci fecero una zuppa. Naturalmente, si accorsero presto dell'errore. Titolo originale: Daton and the Dead Things Traduzione di Maria Cristina Pietri IL CANCELLO DEI DANNATI di Janet Fox Janet Fox, ex-insegnante di inglese e di lingue straniere, è comparsa su riviste e antologie quali Shadows II, The Twilight Zone, Amazons I e The Year's Best Horror Stories. La maggior parte dei suoi racconti trattano di horror e fantasy eroica. Lavora attivamente in progetti di piccole case editrici e attualmente si occupa del bollettino di informazione della SPWAO, la Small Press Writers and Artists Organization. Ora si dedica all'equitazione e alla pesca e, come lei stessa afferma, "mi sto concedendo qualche anno come scrittrice a tempo pieno". "Il cancello dei dannati" a mio parere cammina sul filo tra la fantasy eroica e l'horror puro... e con pieno successo. Al sorgere della luna, Scorpia giunse ad uno stagno tra le rocce, alimentato da sorgenti sotterranee, una vista ben accetta dopo una giornata di vi-
aggio. Il massiccio cavallo da guerra sbuffò l'aria dalle nari e due ninfe, immobili sulla sponda opposta come pallidi spettri contro la foresta scura, fuggirono così in fretta che sembrarono svanire come insetti spaventati, nonostante la loro forma antropomorfa. Scorpia smontò da cavallo, con il fodero della spada che le batteva contro le cosce, e lasciò le brighe in modo che il grosso cavallo potesse bere. Era stato allevato per la battaglia e non per le lunghe cavalcate e lo mostrava attraverso il colore smorto del mantello baio e le costole in rilievo sotto il manto polveroso. Preparò rapidamente il campo, ma quando si fu occupata del cavallo, ebbe acceso il fuoco e messo ad arrostire avvolta nelle foglie una parte della selvaggina catturata quel giorno, si alzò in piedi e guardò con desiderio l'acqua. Prendendo la decisione, si liberò della spada e slegò le cordicelle che legavano gli speroni ai suoi stivaletti. Prima aveva visto tracce di uomini in marcia, sempre lontani a combattere una guerra da qualche parte, ma questa radura era così appartata, così lontana dagli insediamenti umani, che sembrava sicura. Completamente svestita eccetto il nastro di cuoio e bronzo che le tratteneva i capelli, si portò su di una roccia e saggiò l'acqua. La sua pelle aveva il colore tipico della sua razza, un tenue bronzo dorato che diventava solo di poco più scuro anche sotto il sole più caldo, e la chioma era fulva. C'era una orribile massa biancastra di tessuto cicatrizzato su di una spalla ed un brutto livido sulle costole nel punto in cui una spada era arrivata troppo vicina. L'inaspettato gelo dell'acqua la fece rabbrividire, ma si costrinse a tuffarsi e nuotò a rana nelle profondità color smeraldo fino a raggiungere il fondo, poi si slanciò verso l'alto scalciando contro la superficie scivolosa delle rocce. Riemerse in una cascata di spruzzi e si adagiò sul dorso per riempirsi d'aria i polmoni. L'improvviso nitrito di Blackmane ruppe il silenzio e lei rimase in ascolto per sentire se udiva una risposta. Dalla foresta immersa nell'oscurità non venne alcun nitrito di risposta, ma l'atmosfera di pace era stata infranta e lei si mise a nuotare vigorosamente verso la riva. Non l'aveva ancora raggiunta, quando vide apparire un cavaliere; la luce della luna ne disegnava la forma e traeva luminosi barbagli dal metallo dell'elmo e delle briglie. Un secondo si unì a lui e poi altri due. Poiché non avevano insegne sullo scudo, lei pensò che dovessero essere dei mercenari e, a giudicare dal numero ridotto, una squadra di esploratori. «Per Zan» disse uno, indicandola senza alcun rispetto. «È una ninfa dell'acqua o una visione mandata per tentarmi?» Smontò da cavallo e chi-
nò il capo per togliersi l'elmo facendo scorrere una mano fra i lisci capelli color sabbia. Uno degli altri si girò sulla sella ed indicò il fuoco ed il cavallo da guerra impastoiato. «Il suo uomo deve essere da qualche parte qui intorno» disse nervosamente. «Quello è l'accampamento di un soldato.» L'acqua cadde in gocce gelide dai capelli bagnati sulla sua pelle nuda e a lei parve di essere lì da ore. Lanciò un'occhiata dietro la spalla, vide che la sponda opposta era troppo distante e le rive sgombre. Avrebbero potuto cavalcare facilmente e intercettarla. «Non intendevo fare nulla di male qui» disse alzando le mani prive di armi con i palmi rivolti verso l'alto. Quell'affermazione, unita al gesto da guerriero, provocò scoppi di risa dalla sponda. «Kilder, pensavo che quella dovesse essere la tua battuta» disse qualcuno fra le risate. L'uomo con i capelli color sabbia si tolse l'armatura e si immerse nell'acqua camminando verso di lei. Lei prese nota rapidamente del coltello appeso alla cintura e si voltò per nuotare più lontano, scatenando un'altra ondata di grida e fischi dalla riva. Attese finché non fu abbastanza vicino da toccarlo ed in acque troppo profonde per camminare, ostacolato nella nuotata dai vestiti intrisi d'acqua. Rapida come una lontra, si immerse e lo afferrò per la tunica, trascinandolo sotto con il proprio peso. Con gli occhi e le narici piene d'acqua ed agitando disperatamente le braccia, riuscì a strappargli il coltello dal fodero. Quando lui riemerse, lo afferrò per un braccio e appoggiò con fermezza la punta del coltello contro un fianco. Lui lottò per un attimo, rimandandoli sotto entrambi, poi si calmò e tutti e due galleggiarono sulla superficie. Scorpia si tolse l'acqua dagli occhi. «Lo ucciderò se sarò costretta» gridò, «ma se mi lascerete andare in pace non lo farò.» Furioso, uno degli uomini si tolse l'armatura e si tuffò; un'altro lo afferrò per un braccio per cercare di fermarlo e venne trascinato in acqua. Il braccio di lei si irrigidì, pronto a spingere il coltello, ma all'improvviso si udì un rumore di zoccoli ed un cavaliere su di un sauro dalle lunghe gambe si arrestò scivolando sulla riva. «In nome degli dèi, che cosa accade qui?» ruggì una voce che fece fermare quelli sulla riva ed anche Scorpia. Lei conosceva il suono di una voce che ordinava certa di essere obbedita. I due soldati nell'acqua si arrampicarono sulla riva, avviliti e grondanti, mentre il loro capo sorvegliava la situazione. «Andate a raggiungere gli altri. Ditegli che ci accamperemo là» Indicò il lato opposto dello stagno. «Ma che ne facciamo di lei» cominciò uno di loro, ma la voce gli mancò sotto lo sguardo del comandante e si affrettò a raggiungere gli altri.
«Ora puoi lasciarlo. Non hai più bisogno di ostaggi» disse il capo. «La tua parola che potrò andarmene in pace.» «A che serve la parola di uno che non conosci? Lascialo andare a meno che tu non voglia ucciderlo per pura cattiveria. La cosa non mi offenderebbe molto. È uscito dalle mie grazie quando è caduto nelle tue mani.» Scorpia lasciò libero l'ostaggio, non molto contenta del patto, ma rendendosi conto che non poteva fare altro. Mentre si avvicinava alla riva, scivolò su di un sasso e sarebbe caduta se non fosse stato per il braccio che il capo le aveva teso. Lui non distolse lo sguardo quando lei emerse dall'acqua. Aveva gli occhi grigio scuri, lo sguardo chiaro e fermo. In esso c'era apprezzamento, ma nessuna minaccia o tentativo di svilirla, mentre osservava il suo corpo. Goffamente si infilò la tunica e la stoffa bagnata le si appiccicò alla pelle. «Sei lontana dalla tua patria» disse lui. «E senza il tuo elmo a testa di falco non fa meraviglia che tu sia stata scambiata per una donna qualunque.» «Io sono una donna qualunque.» «Ho visto le amazzoni combattere al Mare di Canne» disse lui. «Cavalcavano enormi bestie come quel tuo baio.» Scosse leggermente il capo al ricordo. «Erano donne, ma erano difficili da uccidere.» Lei si chinò per prendere la cintura della spada, ma lui vi mise sopra un piede, poi la prese in mano estraendo la lama dal cuoio ammaccato del fodero. Era un'arma stranamente opaca, di grigio bluastro. «Ed alcuni dicono che le loro spade siano forgiate dai demoni.» Sorrise e gliela lanciò. «Dopo aver combattuto contro di loro, mi sono trovato a domandarmi come sarebbe cavalcare con un Amazzone, combattere al suo fianco. È stupido, immagino.» La accompagnò al suo campo, dove lei si affrettò a salvare la sua cena prima che bruciasse completamente. «Non più sciocco di qualunque altro sogno, immagino» disse lei distrattamente, togliendo dal fuoco la carne bruciacchiata. «Ma ti sbagli su di me. Non appartengo a quella tribù assassina, sono un viandante che cerca un luogo dove nessuno venga chiamato a portare una spada o ad usarla.» Lui si sedette su di un tronco caduto e cominciò a togliersi l'elmo e l'armatura. Lei lo guardò di soppiatto, domandandosi suo malgrado che aspetto avesse. I capelli e la barba erano tanto neri che sembravano assorbire la luce, il viso era angoloso, arrossato dal vento. Era magro, con mani e piedi grandi, e sembrava a disagio seduto lì, anche se non c'era stato nulla di goffo in lui quando era arrivato a cavallo per prendere in mano la situazione allo sta-
gno. Scorpia prese una porzione di carne, tagliò una fetta del pane grezzo dei viaggiatori e si sedette all'estremità opposta del tronco. «Mangia, se vuoi» disse sgarbata. Lui si avvicinò al fuoco e si servì, e per un po' mangiarono in un silenzio cameratesco. «Un mondo senza guerra» disse infine lui. «Questo pensiero mi suona strano, ma vedi, la mia occupazione è la guerra. Sto portando i miei uomini ad unirsi agli eserciti di Bauci, il re di Thurgia. Mi chiamo Telis.» «Scorpia» disse lei, e se ne pentì. Quello era stato il suo nome di battaglia ed aveva avuto l'intenzione di cambiarlo. L'esercito di Telis aveva fatto molto rumore accampandosi dall'altra parte dello stagno e l'acqua aveva trasportato il clangore delle armi, le voci irate, le oscenità, ma quando fu completamente buio, i rumori cessarono. L'oscurità creò un impacciato senso di intimità all'interno del debole cerchio di luce del fuoco. «Era molto più facile nei sogni» disse lui alzandosi e mettendosi di fronte a lei, un'ombra scura e allungata contro il tremolio della luce. «Mi accorgo che non so come parlarti.» «Che cosa c'è da dire? Per quello che ne so, io sono una prigioniera, qui.» «È così che ti senti? Come una prigioniera?» «No.» Si sedette accanto a lei. «Non voglio nulla che tu non voglia. Se mi dirai di andare, me ne andrò.» Si sporse verso di lei e la baciò, forse un tantino rudemente, ma non c'era nulla di minaccioso o di esigente in quel bacio. Circondandolo con le braccia mentre ricambiava il bacio, Scorpia si domandò come avesse potuto capire quanto era stata solitaria la sua strada, quanto lei era stanca di muoversi continuamente, di vedere sempre facce nuove e facce ostili, e da quanto tempo non giaceva più con un uomo e quante volte vi avesse pensato. «Gli eserciti di Bauci si radunano in un villaggio chiamato Sotto-ilMonte» disse Telis mentre lui e Scorpia levavano il campo nella grigia luce del mattino. «È a tre giorni di cavallo da qui.» «E se io andassi in un'altra direzione?» «È così?» «No.» Non disse che non aveva nessuna direzione, né nessuna idea su dove trovare quello che cercava. Non disse che la notte precedente aveva
quasi perso quella sensazione di disagio che l'aveva seguita da quando era fuggita dalla sua terra. Lui pensava che fosse forte. Era meglio lasciargli quell'illusione. «Immagino che essendo una straniera tu non sappia niente di quel passo chiamato Abzu Rii» disse lui. «Dei contadini ne parlavano nell'ultimo villaggio, ma erano solo superstizioni, non le ho prese sul serio.» «Che la terra al di là del passo è dominio della magia e di cose impure?» «Se è così, perché qualcuno dovrebbe volerci andare?» «Bauci vuole conquistare le terre al di là del passo, per renderle sicure per i viaggiatori e per liberare gli abitanti dalle forze demoniache che vi regnano.» «Vuole salvare le loro anime anche se tutti dovranno morire. E se c'è un tesoro, anch'esso sarà liberato. Come mi suona familiare tutto questo. Com'è semplice... uccidere i demoni.» Telis le rivolse uno sguardo incredulo. «Non avrei mai pensato di udire un discorso simile da... lo so, tu dici di non esserlo. Comunque, questa è la ragione per cui gli eserciti marciano contro Abzu Rii.» «Quei contadini con cui ho parlato non lo chiamavano Abzu Rii. Lo chiamavano il Cancello dei Dannati.» Si lasciarono alle spalle la foresta e iniziarono a scendere lentamente in una valle popolosa. A volte gli abitanti donavano loro carne, pane o vino, preferendo ingraziarseli piuttosto che opporre resistenza alle bande mercenarie. Avrebbero potuto viaggiare comodamente, ma il passo che Telis impose era troppo rapido perché gli uomini o gli animali potessero riposarsi o rilassarsi. Davanti a loro, dapprima simili ad ombre azzurre e fumose all'orizzonte e poi solide e grigie, si ergevano le montagne che i locali chiamavano Oliadi. Durante il viaggio incontrarono altre bande di soldati, alcune erano truppe ben organizzate, altre semplici bande di cavalieri senza disciplina. Sotto-il-Monte vantava una rozza osteria che gli uomini di Telis non ebbero difficoltà a scovare. A Scorpia non piacque. Era piena di contadini mal vestiti e di uomini d'arme. «Prendi solo qualcosa da bere con me» disse Telis, «visto che hai deciso di separarti da noi.» «Credo che sia la cosa migliore» udì se stessa dire con un tono quasi di rincrescimento. Accettò la coppa ammaccata e sorseggiò il liquido acetoso
che passava per vino, cercando di ignorare gli sguardi villani ed i commenti sguaiati degli altri avventori. «Forse è meglio che vada» disse finendo di bere con una smorfia per l'acidità della bevanda. «Non sono molto apprezzata, qui.» Uno zoticone con la pelle scura le si avvicinò e la pizzicò, mormorandole qualcosa di osceno nell'orecchio. Fu una questione di riflessi, tutto in un unico movimento: lei si voltò, sollevò il braccio e diede una gomitata sulla mascella ispida dell'uomo con tutto il suo peso. Gli altri scoppiarono in una grossa risata da ubriachi mentre l'uomo giaceva sulla lurida paglia del pavimento, muovendo la mascella e socchiudendo gli occhi per il dolore. Qualcuno gli versò addosso del vino per svegliarlo. Mentre Scorpia stava per uscire, Telis la afferrò per un braccio. «Te ne vai proprio ora che le cose si animano?» L'uomo dalla grossa mascella si alzò, con gli occhi scuri che brillavano sotto le folte sopracciglia. «Donna, come osi colpire Niarcas?» «Non donna» disse Telis in modo che tutti sentissero. «Amazzone.» Un brusio di commenti sommessi attraversò la folla. Niarcas sembrò un po' sorpreso, ma non si tirò indietro. Scorpia sentì qualcuno avvicinarsi a lei, estrarle la spada dal fodero e metterle in mano l'elsa. Niarcas sguainò la sua arma, non avendo altra scelta che difendersi, o almeno così pensava. La folla si aprì per fare spazio, ed una volta che lo scontro ebbe inizio, non ci fu più tempo per trarsi d'impaccio con una spiegazione. Anche se aveva difficoltà ad ammetterlo con se stessa, la situazione aveva un che di magico. Poteva quasi credere di essere di nuovo a Theopolis ad allenarsi con le truppe di Lea. Per un breve istante desiderò che fosse così. Il suo avversario era molto più forte di lei ed il suo primo assalto la spinse all'indietro, quasi contro la folla, ma per fortuna era anche goffo e lento. Lei fece una finta e gli scivolò accanto. I suoi movimenti agili confusero la lentezza dei pensieri dell'uomo, che divenne rosso in viso per lo sforzo di starle alla pari. Le volgari incitazioni della folla fecero il resto e lo spinsero ad attaccare alla cieca, e lei non ebbe difficoltà a parare spostandosi di lato e mandando la propria lama a colpire la parte posteriore del collo massiccio come la mannaia di un macellaio con la carne. Gli occhi gli si fecero sporgenti, aprì la bocca ma da essa uscirono solo suoni gorgoglianti. Ci fu un attimo di incertezza prima che il corpo vacillasse; poi le braccia e le gambe si mossero per un attimo come per riflesso automatico e lui rimase immobile per sempre.
Scorpia si voltò, rendendosi conto che aveva fatto proprio quello che aveva giurato a Telis di non voler fare. Quando vide che sorrideva in segno di incoraggiamento, sollevò la spada ancora sporca del sangue di Niarcas e balzò verso di lui. La distanza tra di loro gli diede il tempo di estrarre la spada, ma quando la lama opaca di lei colpì, mandò in frantumi quella lucente del suo avversario. Lo salvò solo il fatto che due dei suoi uomini si ripresero abbastanza in fretta da immobilizzarle le mani dietro la schiena,' perché non c'era da sbagliarsi sulle intenzioni di Scorpia. Gli avventori se ne andarono a gruppi di due o tre, mormorando tutte le cose strane che avevano sentito dire sulla "tribù maledetta". Ora avevano del materiale nuovo da aggiungere alle loro storie. Telis le aprì la mano contratta sull'elsa della spada e studiò quel metallo dall'apparenza opaca. Non c'era modo di nascondere l'espressione scossa del suo viso, anche se lui ci provava. «Dobbiamo portarci dietro quest'arpia?» chiese l'uomo alla sua destra che lei riconobbe come Kilder. «Sì, e voi due sarete le sue guardie.» «Allora è meglio che mi facciate bene la guardia» disse lei, «perché se quella spada torna nella mia mano... e tutte le volte che se ne è allontanata è ritornata...» «Ammetto che la realtà rovina un pochino il sogno» disse Telis con un sospiro evidente, «ma non stavo mentendo quando dicevo che non volevo nulla che tu stessa non volessi. Ho visto il tuo viso quando hai ucciso.» Scorpia tacque, perché non aveva nulla da ribattere. Il giorno in cui ricevettero l'ordine di marciare attraverso il passo, l'aria era pesante ed immobile sotto un cielo coperto di nuvole dense di pioggia. I superstiziosi tra di loro attribuirono alla magia lo scoppio di un temporale proprio nel momento in cui i cavalli stavano arrancando verso il punto più alto della salita. Una folata di vento umido quasi disarcionò Scorpia, ma lei rimase tenacemente in sella. Si ritrovò separata dalle proprie guardie nello scroscio di pioggia portata dal vento e stava guardandosi intorno per vedere se era possibile fuggire, quando vide quella che sembrava una parete caderle addosso. Fango e detriti, staccatisi dal fianco del declivio, stavano precipitando a valle. Piantò gli speroni nei fianchi di Blackmane e lo spinse in avanti, lanciando un grido per avvertire gli altri. Non tutti sfuggirono; udì un orrendo scricchiolio quando la parete di roccia e fango si abbatté sugli uomini a cavallo. Si aggrappò alla sella, voltandosi indietro, e vide cavalli che si arrampicavano selvaggiamente su di
una massa scura e rotolante o che scivolavano lungo il pendio trascinando con sé i loro cavalieri, schiacciandoli sotto di sé nel marasma. Il temporale finì, come spazzato via da un soffio di vento e Scorpia ed i superstiti si ritrovarono inzuppati e avviliti nel punto più alto a guardare le rovine di un grande esercito. Telis le si avvicinò in groppa ad un cavallo esausto e schiumante e per un attimo lei fu abbastanza disorientata da essere felice di vederlo. «Non possiamo tornare indietro» disse guardando verso il pendio. «Abbiamo ancora abbastanza uomini. Li raduneremo ed andremo avanti.» «Non penserai anche tu come qualcuno di questi idioti superstiziosi che la frana sia stata causata dalla magia?» le chiese quando vide che lo guardava con aria dubbiosa. Lei scosse le spalle. «Forse, ma quando non si può tornare indietro, è sensato andare avanti.» Un'improbabile banda di conquistatori discese il Cancello dei Dannati (ora chiuso) per inoltrarsi in una valle di cui non si sarebbero fidati comunque, anche se non fosse stata cosparsa di bassi alberi grigi con rami intricati come tele di ragno e ciuffi di erba scura che si infrangevano con un suono secco sotto gli zoccoli dei cavalli. Un uccello bianco volò sopra di loro, lanciò un grido rauco, e girò per ripassare sulle loro teste, come se li stesse spiando per qualche invisibile padrone. Una banda sconsolata e malconcia si accampò ai piedi dei picchi. Scorpia dormì male e si svegliò nel mezzo della notte circondata da un silenzio opprimente. Si mise a sedere stringendosi addosso il mantello ed aguzzò gli occhi in cerca del nemico che sapeva in attesa nel buio. Nuvole sfrangiate passavano davanti alla luna, inondando il paesaggio di un'improvvisa luce verdastra. Alla luce credette di vedere una figura umana incredibilmente piccola accovacciata presso un albero contorto che poi sfrecciò via dietro una collinetta erbosa. Qualche animale, si disse senza essere troppo convinta. Ma si era mossa furtivamente, come un essere umano, come se anch'essa stesse spiando. Si sdraiò di nuovo e cadde in un sonno inquieto. Era mattina quando si svegliò, ma seppe dov'era ancor prima di aprire gli occhi. L'aria di quel luogo aveva un'umidità, un gelo, lo stesso sentore dell'atmosfera stantia in un luogo sotterraneo. Telis lanciò un grido e lei lottò per liberarsi delle pieghe del mantello. Lui era in piedi dove avevano appostato una delle sentinelle la notte prima. «Andato» disse. «E anche Ambers. Quei miserabili hanno forse diserta-
to?» Scorpia notò una macchia umida sul terreno e quando la toccò le sue dita si colorarono di rosso. Sopra di loro l'uccello bianco si slanciò dal ramo di un albero con un grido che rassomigliava terribilmente ad una risata demenziale. Avevano appena tolto il campo quando videro una fila di uomini a piedi e a cavallo, l'esercito di Abzu Rii. Telis lanciò uno sguardo pensoso a Scorpia e poi prese dalla sella la spada della ragazza. «Gli esploratori riferiscono qualcosa di strano» gridò un giovane soldato con aria sconcertata. «Dicono che qualcuno in quell'esercito non sembra... esattamente umano.» «Non penserai davvero che combatterò per la tua causa, dopo tutto quello che hai fatto?» «Puoi combattere o no, come preferisci, ma noi stiamo per andare in battaglia e tu verrai con noi.» Con un'imprecazione sommessa, lei allungò la mano per prendere la spada, ma lui la ritrasse. «Voglio essere sicuro che non userai quest'arma contro di me prima che inizi la battaglia.» «A che ti serve la parola di qualcuno che non conosci?» «La parola di un soldato mi basta» rispose lui in tono grave. «Allora eccotela, ma solo perché non voglio affrontare disarmata quel tuo esercito di spiritelli maligni.» I cavalieri sul fianco sinistro avrebbero poi raccontato di uomini a cavallo con le braccia lunghissime, che potevano continuare a combattere anche quando venivano decapitati. Altri avrebbero raccontato di aver affrontato strani fanti che erano come due combattenti, uniti schiena contro schiena, e che pure si muovevano come un uomo solo. Scorpia non avrebbe dubitato del loro racconto, perché in quel momento vide una figura in cotta di maglia lanciarsi in un gruppo di uomini armati di picche facendoli volare in tutte le direzioni. Blackmane sbuffò ed indietreggiò annusando un odore alieno quando la figura gigantesca sollevò in aria un uomo facendolo volare. Avvicinandosi, Scorpia vide che il viso sotto l'elmo non era umano, ma il muso sporgente di un animale. Le mani erano quasi umane, ma con lunghi e goffi artigli che spuntavano da grosse dita a spatola. Era, pensò, o una specie di orso o un uomo travestito con la pelle di un grande orso. Prima che potesse decidere tra le due ipotesi, Blackmane stava gettandosi dritto contro la creatura. Gli artigli scavarono lunghi solchi nel manto baio quando i due giganti si scontrarono. Scorpia sentì l'animale vacillare, poi dall'alto conficcò la propria spada nelle scapole dell'uomo-
bestia, con la sensazione di frantumare qualcosa mentre la lama penetrava nei muscoli duri e grattava contro l'osso. Un fiotto di sangue uscì quasi accecandola, mentre il suo cavallo da guerra cadeva sulle ginocchia trascinatovi dal peso dell'uomo-bestia che cadeva. Scorpia si sentì sbalzare in avanti e lottò per non perdere conoscenza, ma non ci riuscì. Si svegliò, dopo quanto non lo sapeva, e sentì un'umidità appiccicosa contro la guancia. Fango. Le sue dita scivolarono quando tentò di alzarsi e lei si rese conto che mentre era priva di sensi si era fatto notte. Accanto a sé vide un corpo senza testa tagliato in due da una spada. Con un orrore che non aveva mai provato prima su di un campo di battaglia alla fine lo riconobbe per quello di Kilder. Blackmane pascolava nell'erba fragile accanto al corpo dell'uomo-bestia che lei aveva ucciso. Mettendo un piede sul cadavere, con un certo sforzo riuscì a liberare la propria spada. I corpi ricoprivano il campo di battaglia. Qua un uomo gravemente ferito si agitava e gemeva, là un cavallo nitriva e si dimenava, ma non c'era aiuto in quel luogo barbarico, nessuno che si occupasse dei feriti e neppure che seppellisse i morti. Scorpia vide qualcosa muoversi e si immobilizzò. Figure nere che le ricordavano quella che aveva visto la notte precedente, attraversarono correndo il campo di battaglia. Si radunarono intorno ad un ferito (Scorpia non sapeva di quale esercito), l'uomo lanciò un urlo da spaccare i timpani e poi tacque. Si lasciò cadere a terra mentre parecchie di quelle figure cominciarono a radunarsi attorno al corpo senza testa di Kilder. Rabbrividì quando vide i movimenti di quelle braccia e gambe a forma di bacchetta che litigavano per impossessarsi del cadavere. Sembrava che Kilder avesse ripreso una vita strana e nuova. Si morse le labbra per restare in silenzio, ma c'era qualcosa di così terribile in quella scena, che balzò in piedi e con un grido abbatté la spada su quella brulicante massa di corpi. Una forma scura ed ossuta, vagamente umanoide, cadde a terra, spezzata, ma le altre fuggirono sparpagliandosi e le loro voci spaventate risuonarono misteriosamente alte e pure, come quelle di un coro di bambini. Mentre si radunavano di nuovo vide i loro occhi rossi. Quando si precipitarono su di lei, menò fendenti su fendenti con la sua spada, tagliando braccia e gambe ossute. Vide le loro facce piatte, né umane né animali, ma un insieme delle due cose. Nelle loro bocche cresceva una sola coppia di denti acuminati, e quando attaccarono sentì dolorose punture nelle caviglie e nelle cosce. Minuscole mani a forma di stella le afferrarono i vestiti, cercando di trascinarla giù, ma la massa mulinante ai suoi piedi la fece cadere.
Vide gli acuminati incisivi chiudersi a poca distanza dai suoi occhi un istante prima di venir colpita alla nuca. Si svegliò su di una panca di pietra e si rizzò a sedere con un grido di orrore. Era sola in una nuda cella dal pavimento ricoperto di lurida paglia ed una lampada ad olio gocciolava in una nicchia della parete. Studiò le livide punture sulle braccia e sulle gambe. Quando la porta si aprì, balzò in piedi sorpresa vedendo delle piccole figure scure a forma di bacchetta scivolare dentro per nascondersi nelle ombre lungo le pareti. Dietro di loro entrò un vecchio dall'aspetto mite. Aveva pallidi occhi rotondi contornati di muco e poiché era decisamente grassoccio, la sua pelle biancastra era stranamente priva di rughe, anche se si notava che era vecchio. «Non preoccuparti, mia cara.» Il Popolo dell'Ombra non ti farà del male. A meno che tu non crei fastidi «disse indietreggiando contro la parete.» «Chi sei?» «Uno dei consiglieri di Ylissa.» Si sedette accanto a lei e le batté sul polso con una mano pallida e macchiata dall'età. Parlando, muoveva l'altra che fluttuava senza scopo come una falena morente. «Il Popolo dell'Ombra ti ha portata da me perché sapeva che mi servivano certe cose per la mia magia.» «Quali cose?» «Ad esempio sangue. Sembri in piena salute.» Le pizzicò un braccio come a saggiare lo spessore della sua carne, mentre lei si passava la lingua sulle labbra aride, tenendo d'occhio il Popolo dell'Ombra che continuava a muoversi furtivamente appena fuori del suo campo visivo. «Che posto è questo? Ci sono altri prigionieri qui?» «Questa è la Casa della Divina Ylissa, sovrana di Abzu Rii e delle Terre Incantate, colei che detiene la Saggezza Perduta... e mia madre» disse quest'ultima parola con una sorta di orgoglio, anche se guardandolo Scorpia si domandò se Ylissa non fosse sua madre in senso rituale. Sarebbe dovuta essere vecchia davvero se fosse stata realmente sua madre. «Ah, altri prigionieri? Credo che ce ne fosse qualcuno che Ylissa ha trovato di suo gradimento. Probabilmente ora sono nelle sue stanze e lei sta facendo la scelta finale. Non tutti possono ricevere la benedizione del suo tocco, il favore del suo amore.» Ridacchiò come se avesse fatto una battuta oscena, poi tirò fuori un piccolo pugnale ed una coppa smaltata dalle pieghe dell'abito di seta. «Penso che ti prenderò un po' di sangue, ora» disse in tono pratico. «Sdraiati.» Scorpia lo afferrò, sentendolo molto debole nonostante la grassezza, e
gli diede uno spintone che lo spedì barcollando nell'angolo più lontano della cella. Come aveva sperato, il suo tremulo grido d'aiuto fece accorrere presso di lui il Popolo dell'Ombra. Mentre si slanciava verso la porta, rovesciò la lampada ad olio e le fiamme si appiccarono sfrigolando alla paglia. La paura del Popolo dell'Ombra le fece chiudere violentemente la porta sulle grida del vecchio. Sentì un dolore lancinante e si accorse che una delle piccole creature era scivolata fuori dalla porta. Gli tirò un calcio, e poi lo calpestò a morte, spezzando con un suono di rami secchi quelle membra simili a bacchette, mentre un liquido biancastro usciva dal corpo massacrato. Fuori dalla porta delle celle qualcuno aveva lasciato una spada appoggiata alla parete. La afferrò e con un pizzico di sorpresa si accorse che era la sua. Negli stretti corridoi le ombre turbinavano roteando intorno a lei, tanto era il suo terrore del Popolo dell'Ombra. I loro morsi pulsavano ancora dolorosamente, come se le avessero iniettato del veleno. Seguendo le svolte cieche dell'umido labirinto, alla fine vide una luce che filtrava da una porta in cima ad una serie di stretti gradini di pietra. Forzò la porta, aprendola dall'esterno con un calcio, ma per fortuna non c'era nessuno che la vide. Grandi candele bruciavano in un candeliere a forma di corona, ma non c'era luce nella stanza. Arazzi intessuti di fili d'oro e d'argento, alti specchi inseriti nelle pareti ad angoli strani, e la luce indistinta delle candele, facevano della stanza un luogo abbacinante di illusioni mutevoli. Una figura anonima, eppure femminile, entrò abbigliata in veli splendenti che le nascondevano il viso ma rivelavano le braccia e le gambe snelle quando si muoveva. Dalla pienezza delle carni sembrava una fanciulla, ma in quella stanza di visioni era difficile esserne certi. Quando vide Scorpia, che in quel luogo era un'intrusa, girò su se stessa, come per fuggire, lanciando un gridolino che risuonò subito soffocato, come se in quel luogo la legge fosse il silenzio. «Ti prego» disse Scorpia abbassando la punta della spada. «Non intendo farti del male. Voglio solo fuggire. Se avessi abiti e veli come i tuoi...» Come stupita alla vista dell'arma, la ragazza annuì e si avvicinò ad una cassapanca di legno da cui prese un costume molto simile al suo. La ragazza ridacchiò vedendo il corpo bronzeo di Scorpia avvolto nei veli fluttuanti, ma tutta quella dimora sembrava male illuminata, un illusoria sensazione di luminosità data da specchi e tessuti iridescenti e dorati. Il travestimento sarebbe andato bene.
«Ti mostrerò la porta» disse la ragazza con voce tremula. «Ylissa e le guardie sono occupate con i prigionieri.» «Prigionieri? Dove? Fammi vedere il posto.» E così cambiò direzione. Sotto la pressione degli eventi le ritornò in mente il passato e si rese conto che non poteva lasciare in pericolo coloro con i quali aveva combattuto, non poteva venir meno alla sua parola di soldato che aveva appena dato. Nessuno di quelli che l'avevano conosciuta in patria si sarebbe sorpreso di quella decisione, anche se lei provò una certa sorpresa. «Ylissa si arrabbierà.» «Accompagnami alla porta, poi farò da sola.» Prese un cesto di fiori da un corridoio e quando entrò nelle stanze di Ylissa scivolò lungo le pareti con aria affaccendata, posò il cesto e si mise a disporre i fiori in un vaso come se facesse realmente parte dei suoi compiti. Due dei giganteschi guerrieri pelosi erano a guardia dei prigionieri. Scorpia riconobbe parecchi degli uomini di Telis e poi lo stesso Telis seduto su di una panca in un lato della stanza, con il volto fra le mani. Quando sollevò la testa, lei vide un taglio sanguinante sulla fronte. Lui sbatté le palpebre, fissandola, si mosse come se l'avesse riconosciuta, e poi riprese l'espressione impassibile, se di proposito o per caso lei non seppe dirlo. Ylissa era sdraiata su di un divano con le gambe a forma di drago posto davanti ad una serie di specchi disposti ad angolo e tutta la sua attenzione era rivolta ai prigionieri. Era semicelata da un abito dorato e splendente, ma c'era un tale bagliore intorno a lei, prodotto dalle candele o dalla magia, che Scorpia non avrebbe saputo descriverla. Aveva una bellezza delicata, ma non di sangue o di carne, ma di qualcosa di spettrale, etereo, che un momento c'era ed un attimo dopo non c'era più. Dal suo profilo e da una rapida visione di una mano bianca e di caviglie e polpacci ben torniti, Scorpia non riusciva a convincersi che Ylissa potesse realmente essere la madre del vecchio mago. Forse lui mentiva o era pazzo. Ylissa stava giocherellando con quello che a prima vista sembrava un flauto di vetro, facendo cenno ad uno degli uomini-bestia di portare Telis più vicino. Telis si limitò a fissarla, ancora troppo stordito dalla ferita alla fronte per lottare o protestare. Scorpia fece scorrere lo sguardo per la stanza, pensando che di certo fuori doveva essere giorno, anche se lì dentro era un eterno crepuscolo. Individuò due alte finestre dietro le pesanti cortine scure che scendevano a terra con eleganti pieghe. «Straniero, tu sei stato scelto» disse Ylissa con una voce che era poco più che un sussurro.
«Scelto per cosa? Chi sei tu?» Telis sollevò una mano per ripararsi da quei riflessi sempre in movimento. «Chiamami Ylissa, Signora delle Illusioni, dalla bellezza immortaleNon sai ancora quanto tu sia stato onorato.» «Non capisco.» Ylissa rise con voce stranamente priva di echi. «Sembri forte e capace, Straniero. Tu saprai amarmi. Portate via gli altri.» Sollevò il flauto di vetro come se volesse suonarlo e Scorpia vide che non si trattava di uno strumento musicale, ma di una cerbottana. Un minuscolo dardo piumato colpì l'avambraccio di Telis, ma lui parve non accorgersene. «Il dardo di Eros farà presto effetto» disse Ylissa sdraiandosi sui cuscini e riaggiustandosi i veli come per presentarsi in una luce ancor più affascinante. «Non sono forse bella come una dea?» «Tu sei splendida. Ai miei occhi sei una dea» disse Telis e Scorpia fu sicura che era stato stregato, perché non era mai stato così poetico con lei. Si inginocchiò davanti al divano, prese la mano di Ylissa e la baciò lentamente. Scorpia era tanto intenta ad osservare la scena, che lasciò cadere a terra il vaso. «Che cosa sta facendo quella ragazza maldestra? Come è entrata qui?» Scorpia si inginocchiò sul pavimento, fingendo disperatamente di essere indaffarata a raccogliere i pezzi del vaso infranto, ma in un momento poco opportuno la spada le spuntò dai veli. «Grulo, Gnarff, prendetela!» Gli uomini-bestia avanzarono a ginocchia piegate con passo strascicato, aprendo le braccia. Non avendo il tempo di estrarre la spada, lei indietreggiò andando ad urtare la parete e le sue dita trovarono la stoffa vellutata delle tende. Una delle bestie la afferrò e gli artigli le lacerarono la stoffa dell'abito, penetrando nei muscoli e nella pelle con una forza tale da intontirla. Con tutta la sua forza tirò le pesanti tende ed esse caddero a terra, avvolgendoli tutti e tre nelle pieghe polverose. Al flebile e disperato grido di Ylissa, la bestia abbandonò la presa e Scorpia lottò per liberarsi dalla stoffa soffocante. Quando ne emerse, vide che la stanza era inondata dalla luce. Telis era sdraiato sul divano a fianco di Ylissa e la teneva tra le braccia. Scorpia udì il rumore della stoffa che si lacerava e l'uomo-bestia venne verso di lei con il suo passo strascicato. Tenendolo a bada con la spada, afferrò i drappeggi della seconda finestra e li fece cadere. Ylissa gridò anco-
ra con più forza e si coprì il volto con i veli dorati, anche se Telis, come un uomo perso in un sogno, stava cercando di abbracciarla e baciarla. Ora Ylissa era alla piena luce del giorno. Poteva anche essere immortale, ma certo non giovane e bella. Alcune parti di lei mantenevano ancora lo splendore e la freschezza della gioventù, ma nei secoli una terribile malattia l'aveva devastata. Aveva scavato un lato del viso, esponendo una smorfia scheletrica di denti nudi, un intrico di carne fra guancia e mascella, gialle strisce di muscoli atrofizzati. Nella cruda luce neppure il velo splendente poteva nascondere lo squarcio che la malattia aveva aperto nel suo fianco destro, erodendo un seno ed una larga parte della coscia. Forse c'erano altri danni, ma Scorpia non sprecò fatica per cercarli. La cosa peggiore era che Telis continuava a baciare quella ferita aperta sul viso di lei, come se fosse cieco o irrimediabilmente innamorato. Scorpia era rimasta ferma un po' troppo e quei grandi artigli neri stavano precipitandosi verso il suo viso. La spada si sollevò riuscendo a tagliare due dita pelose da quella mano ad artiglio, ma la cosa si limitò ad ululare per la rabbia, forse ancor più pericolosa a causa della ferita. Anche il suo compagno era riuscito a liberarsi e stava attraversando la stanza con passo pesante. Ylissa gridò di nuovo vedendosi riflessa in quello schermo di vetro dalle strane angolazioni, dove l'orrenda visione del suo viso era riprodotta infinite volte. Il suo grido divenne un singhiozzo e lei trasse qualcosa da sotto i veli, qualcosa da cui si innalzò uno sbuffo di fumo verde che lei inalò in fretta. Mentre Scorpia, con le spalle al muro, menava un fendente all'uomo-bestia, Ylissa l'immortale senza tempo, si contorse fra le braccia di Telis e restò immobile. Sotto gli occhi di Scorpia i soldati-orso rimpicciolirono contraendosi su se stessi finché non furono che un ammasso di pelliccia, grezzi tappeti sul pavimento. Diede un calcio ad un elmo spingendolo lontano con un suono metallico. Tutta la stanza era ora pervasa da un soverchiante senso di decadenza. Quando Scorpia cercò di trascinare via Telis, lui cercò di resistere, stringendo fra le braccia il corpo dì Ylissa, ora un relitto mummificato che stava riducendosi alle sole ossa. Qua e là manteneva ancora qualche traccia della fragile bellezza di Ylissa. «Non posso lasciarla» insisteva Telis. «Io la amo.» Scorpia andò a cercare gli altri prigionieri che vagavano per le stanze in disfacimento per farsi aiutare a trascinare via Telis. Da principio non volevano venire perché preferivano setacciare la dimora alla ricerca del bottino
per cui erano venuti. Mentre frugavano tra i pochi ornamenti abbastanza solidi da aver resistito all'usura del tempo, Scorpia ritornò alle celle sotterranee per liberare i prigionieri che vi erano ancora rinchiusi. La pelle le si accapponò mentre ripercorreva il labirinto e la sua immaginazione le faceva scorgere movimenti furtivi in ogni ombra, udire voci ad ogni svolta. Non vide nessuno del Popolo dell'Ombra, ma in qualche modo lei sentiva che erano sopravvissuti ed avrebbero continuato ad infestare i passaggi sotterranei. Quando ritornò, i soldati avevano preso in custodia Telis che, per quanto ancora intontito, sembrava un po' più in sé. Il resto dell'esercito ritornò da dove era venuto e dopo alcuni giorni scoprirono che la slavina di fango si era solidificata abbastanza per permettere il loro passaggio. Durante il viaggio di ritorno Telis parlò poco, ma quando il tramonto inondò di luce dorata il paesaggio, Scorpia vide passare sul suo viso un'espressione di intenso desiderio per qualcosa che era stato irrimediabilmente perduto ancor prima di essere trovato. Ylissa era morta ma la sua magia era sopravvissuta, anche se Scorpia sentiva che con il tempo sarebbe svanita. Era appena l'alba quando si alzò e cominciò a raccogliere le sue poche cose. Ora che il passo era molto lontano dietro di loro, non c'era nulla che le impedisse di andarsene. Per quanto avesse cercato di muoversi silenziosamente, Telis la udì e si mise a sedere. Gli occhi avevano quasi del tutto ritrovato la loro vecchia espressione rapace. «Non te ne andrai.» Il tono era quello di un ordine, non di una domanda. «È ora che me ne vada. Tu chiedi troppo. Il tuo sogno mi ha quasi divorata ed è ora che vada in cerca del mio.» «Sai che non lo troverai mai.» Lei scosse le spalle. «Forse no.» Mentre slegava il cavallo, Telis le si avvicinò e lei mise la mano sull'elsa della spada. «Sono uno spadaccino migliore di te... se non fosse per quella spada incantata» cominciò lui. «Se pensi di potermi uccidere, accomodati» disse lei, e quando lui tacque, montò in sella. Dalla cintura lui prese un sottile strumento di vetro che assomigliava ad un flauto. «È strano come l'abbia amata senza riserve dal primo istante in cui l'ho vista» disse. «Qualche volta, quando i miei occhi colgono il bagliore del sole, ripenso alla sua bellezza. Credo che solo la sua morte abbia spezzato l'incantesimo.»
«Useresti la magia contro di me? Faresti di me la tua umile schiava?» «Se quello è l'unico modo per averti. Ma puoi ancora decidere di restare con me.» «Se è questo quello che chiami amore, allora sto meglio senza.» Fece girare Blackmane e sentì la puntura del dardo che le si conficcava nella spalla. Con rabbia impotente attese l'effetto, poi scosse la testa come per schiarirsi la mente. Telis stava ridendo. «La sua magia è morta con lei o forse con il tempo. I miei uomini l'hanno provata con una delle ancelle prima che ce ne andassimo. Desidero ancora che tu resti, ma ora so che non lo farai.» «Per lo Stige, sei un bastardo!» ma non lo disse con il tono velenoso che avrebbe desiderato. Il collo possente di Blackmane si arcuò contro le redini e lei lo lasciò andare. Titolo originale: Gate of the Damned Traduzione di Maria Cristina Pietri IL FIGLIO DI ORCO di Robin W. Bailey Robin Bailey, come Leigh Brackett, C.L. Moore e Marion Zimmer Bradley, ha l'handicap di un nome dal genere ambiguo; e per quanto l'unico Robin della mia famiglia sia un maschio, scelsi la storia "Il figlio di Orco" con l'impressione che si trattasse di una donna che scriveva a proposito di una donna. Solo dopo aver deciso di acquistarla scoprii che Robin Bailey era un uomo; ma come tutti gli scrittori davvero bravi, il sesso non ha alcuna importanza nell'acuta percezione con cui viene delineato il personaggio dell'eroina. Due sono le cose importanti che bisogna sapere prima di leggere questa storia: primo, che Caligola effettivamente condannò le donne a combattere nell'arena, e quindi quella che avevo creduto un'invenzione è invece un fatto storico; e secondo, che Bailey ha sposato una donna che porta lo stesso nome dell'eroina, Diana, ma che ha solo "una somiglianza spirituale" con il personaggio del racconto. Robin Bailey, come molti scrittori, svolge una professione più prosaica: è lettore in un planetario ed anche istruttore di arti marziali, il che conferisce realismo alla descrizione delle donne guerriere; questo è solo il se-
condo lavoro che pubblica come professionista. Non è salutare fare predizioni sugli scrittori; molti esordienti di spicco non hanno né la disciplina né l'interesse necessario per coltivare la loro professione finché non riescono a scrivere a tempo pieno, ma se Robin Bailey manterrà vivo il suo impegno, potrebbe diventare un nome importante nel campo. (Alla fine del racconto vedere glossario dei termini latini) Guardò giù nell'arena, socchiudendo gli occhi contro il riverbero della sabbia bianca sotto il sole, e desiderando di trovarsi da un'altra parte. Eppure, giorno dopo giorno continuava a tornare, schiacciata in mezzo alla gente e lottando per un buon posto a sedere. Ma lei non era come gli altri, si disse. Loro erano animali che venivano solo per assistere al macello. Lei era diversa: non poteva farne a meno. Il suo sangue si era mischiato innumerevoli volte con quella sabbia, finché non erano diventati una cosa sola, inseparabili. La chiamava di notte con voce d'incubo e lei non poteva fare a meno di ritornare. «Divino!» mugolò dal più alto ordine di posti una sdolcinata matrona dagli occhi spalancati e dalle guance grassocce ingozzate di uva e dolcetti al miele che teneva in un cestino. L'uomo che era con lei non disse nulla, si limitò a guardare mentre in basso un retiarius inseguiva la sua presa sulla sabbia bruciante, e la sua mano fece un breve gesto furtivo sotto le pieghe della toga. Maiali, pensò lei. Un urlo si levò quando il retiarius uccise l'avversario. La matrona balzò in piedi, rovesciando il cesto, battendo le mani e gridando deliziata. Poi, accorgendosi della sorte dei suoi dolcetti, si chinò in fretta e li raccolse dal corridoio lurido con un ampio gesto del braccio, rimettendoli poi nel cesto. Si leccò le dita e l'incontro seguente ebbe inizio. Due uomini avanzarono sotto il palco imperiale: uno 'schiavo negro ed un legionario disertore, nessuno dei due degno di essere chiamato gladiatore. Il nuovo imperatore assisteva ai giochi solo nei giorni di festa e nelle occasioni speciali. Quel giorno, solo i dignitari minori si piegarono per prendere atto del saluto dei combattenti. Entrambi portavano il gladius e il pugio. Sollevarono in alto le loro armi. Ave! Morituri te salutant! gridarono insieme. Noi, che stiamo per morire, ti salutiamo! Come la perseguitavano quelle parole! Era passato un anno da quando Caio Caligola, il primo imperatore a mandare le donne nell'arena, le aveva
concesso la libertà e la cittadinanza romana. Eppure quanto aveva gioito quando solo due giorni dopo i suoi stessi soldati lo avevano ucciso, sbudellandolo come lui l'aveva guardata sbudellare tanti avversari nei giochi. Il suo sangue avrebbe mondato un impero, aveva pensato allora. Era passato un altro mese prima che conoscesse Messalina. Riportò la propria attenzione all'incontro. I due si giravano intorno, privi di armatura e timorosi di iniziare lo scontro. D'improvviso, il legionario si fece avanti, colpì e balzò di lato. Una ferita profonda tagliava il braccio sinistro dello schiavo. Il sangue colò lungo la mano, sulla lama corta del pugnale e cadde a terra. Lei si aspettava un incontro breve. Nessuno dei due sarebbe mai diventato un vero gladiatore, ma almeno il legionario aveva un po' di addestramento. «Padrona?» Lei sollevò lo sguardo, schermandosi gli occhi contro il sole di mezzogiorno. Un messaggero che vestiva la toga della casa imperiale si chinò e le tese una moneta coniata di fresco con l'effigie del nuovo imperatore, Claudio. Lei sospirò. Messalina era stata nei suoi pensieri tutto il giorno ed ora l'aveva mandata a chiamare. Forse gli dèi avevano cercato di metterla in guardia. Be', non c'era modo di evitarlo. Restituì il denarius al messaggero per il suo servizio e lo congedò. Qualcuno tra la folla stava cominciando a fischiare i combattenti. Era un incontro opaco, poco eccitante. I combattenti si erano scontrati solo due volte e nessuno dei due era seriamente ferito. Continuavano a girare intorno, evitandosi. Lei scosse le spalle e si alzò per andarsene. Neppure la vista degli spettatori da questa parte dell'alto muro di marmo era molto eccitante. Lanciò un'ultima occhiata ai contendenti, agitò i lunghi capelli sciolti, si deterse il sudore dalla fronte e scostò con un calcio un piede patrizio che le bloccava la strada verso l'uscita. Alcuni degli spettatori abituali la riconobbero mentre passava tra di loro. A conferma della noia dell'incontro che si svolgeva sotto di loro, intonarono un canto scandendo il suo nome. Un onore, perché tale era, da parte dei nobili romani. Lei li ignorò, tenne lo sguardo fisso davanti a sé finché non si fu lasciata alle spalle l'arena. Anche se il sole l'aveva quasi arrostita, le strade erano ancora ricoperte di fango dopo la recente pioggia. La fanghiglia le penetrava nei sandali, in-
sinuandosi fra le dita nude. Un carro di passaggio le inzaccherò le gambe. «Grossa palla di lardo senza madre!» Raccolse una manciata di fango e la lanciò verso il conducente, colpendolo sulla schiena e sul collo. Lui fermò di colpo il carro, si voltò con lo sguardo furente. Poi restò a bocca aperta, spalancando gli occhi. Si sfregò una guancia, si leccò le labbra ed incitò il cavallo a proseguire. Lei si guardò. Messalina le avrebbe fatto fare un bagno prima dell'udienza. Fango dappertutto, sui sandali, sul mantello, sul corto orlo della tunica, sul fodero e sulle gambe. Imprecò di nuovo e sospirò. «Oh, Diana, hai un aspetto di gran lunga migliore, ora.» Messalina era raggiante mentre attraversava il pavimento di marmo verso di lei. I suoi sandali sottili non facevano alcun rumore e l'imperatrice si muoveva con una grazia sottilmente sensuale. «Se solo non fossi così ridicolmente alta.» Avvolta nella lunga palla e stola di seta che i servi avevano insistito perché indossasse, Diana si sentì a disagio. Erano passati parecchi anni da quando aveva portato gli abiti drappeggiati e pesanti delle donne. Come gladiatore, aveva imparato a preferire un abbigliamento maschile. Ma Messalina aveva ragione, anche a piedi nudi era più alta di molti uomini. Quell'abito la faceva apparire immensa. L'ancella che l'aveva lavata e vestita parlò dalla porta: «Li indossa per compiacerti, signora.» Diana posò una mano sul suo pugio. Legato sotto la stola, era impossibile da estrarre, ma lei sì sentiva meglio se l'aveva vicino. «Ti piacerebbe se ti tagliassi la lingua, piccolo serpente?» Si rivolse a Messalina. «Lo porto perché lei ha rubato i miei vestiti.» L'imperatrice agitò una mano congedando l'ancella indignata. «Nonostante ciò» disse a Diana con uno sguardo di apprezzamento, «non ti sta tanto male. Se tu avessi un seno più grande e portassi i capelli...» Diana la interruppe. «Non mi hai fatta chiamare per discutere il mio aspetto fisico. Che cosa stai tramando in quell'ossario che chiami testa?» Messalina avvampò di rabbia, come se avesse ingoiato il fuoco. «Come osi...» Diana scosse le spalle. «Prima potevi spaventarmi con le tue minacce. Ma adesso non ho più paura dell'arena. Rimandami là se pensi di poter trovare qualcun altro per le tue commissioni.» Messalina fece il broncio, si diresse ad una piccola tavola lì accanto e
prese una piccola frusta dorata che era il suo giocattolo favorito. La fece schioccare, come per provarla. «Sai che Claudio non vuole che io mi serva di un uomo. Quello sciocco grassone ha paura che io finisca a letto con lui, ed ha ragione. Ma io lo faccio lo stesso, quando ne trovo qualcuno abbastanza coraggioso da cornificare l'imperatore.» Fece di nuovo schioccare la frusta, facendo cadere un fragile vaso dal suo piedistallo, che cadendo a terra si ruppe in minuscoli frammenti. «Ma non è questo il punto, vero? Tu mi servi perché ami le ricompense ed i privilegi; non sopporti il pensiero di poter regredire alla nullità plebea che eri una volta. E in quale altro posto, se non al mio servizio o nell'arena, potresti fare buon uso dei tuoi formidabili talenti?» Diana sorrise di nascosto. Era per questo che tollerava Messalina. Non per la paga o i privilegi, ma per il piacere di parlare onestamente con un'altra donna. Anche se Messalina era una cagna di imperatrice, intrigante e senza cuore, era pur sempre una donna audace e coraggiosa. Messalina avvolse la frusta e strinse i pugni sui fianchi. «Ora, circola una voce» disse cauta. «È sorto un nuovo culto nelle colline. Alcuni dicono che possegga il segreto dell'immortalità.» Scosse lentamente il capo, accennando ad un sorriso che scoprì aguzzi denti color perla. Diana si avvicinò ad uno scaffale, prese un otre di vino e due calici di terracotta. Si sporse in avanti sulla sella mentre lo stanco sole affondava in un letto di nuvole vermiglie e di ombre rossastre. Una settimana di inutili ricerche nelle regioni settentrionali l'aveva lasciata rigida ed indolenzita. L'armatura la pizzicava in una dozzina di posti. La strada conduceva ad una vallata fitta di alberi. Meglio accamparsi al riparo dagli alberi, pensò, che non essere sorpresa all'aperto dai briganti o dal gelido vento della notte. Spronò la sua affaticata cavalcatura lungo il leggero pendio. Si domandò se dopo tutto Messalina non fosse matta come Caligola. Anche quel grosso verme accarezzava il sogno dell'immortalità, ma aveva scelto una strada più semplice, aveva ordinato al senato di proclamarlo dio. Almeno Messalina mostrava più immaginazione. Gli alberi incombevano sopra di lei. L'oscurità cadeva attraverso i rami ed il fitto fogliame. Quando riusciva a vederlo, il cielo splendeva punteggiato di innumerevoli stelle. Come tutte le strade romane, quella su cui stava viaggiando era ben disegnata. Non aveva problemi a proseguire il
cammino. Una settimana a cavallo ed ancora non aveva trovato traccia del culto di Messalina. Probabilmente, l'informatore dell'imperatrice, per quanto patrizio, era matto come lei. Tutti desideravano la vita eterna, soprattutto i ricchi che con la morte avevano più da perdere. Nuove religioni stavano spuntando a Roma come funghi dopo una notte umida. Ma lei dubitava del potere che esse vantavano. Se avesse trovato il culto di Messalina, probabilmente avrebbe trovato solo qualche ammazzagalline che intonava canti, nient'altro. Ma dal momento che Messalina voleva, lei continuava a cercare. Un suono la sorprese; era solo un gufo che volava sopra di lei, scrutandone il passaggio. Allora sorrise. A poco a poco, l'atmosfera del bosco la rilassò, le tenui ombre, il brusio degli insetti, la brezza che faceva frusciare le foglie. Cominciò a cantare; la sua voce, chiara e forte si levò in una delle canzoni che le prostitute del pozzo cantavano quando i loro amanti gladiatori dovevano scendere nell'arena il giorno seguente. Cantò una canzone di amore e di desiderio, una canzone di promesse e di buon augurio, triste eppure piena di speranza. Alcune delle prostitute del pozzo erano uomini e lei se ne era servita. Ma essi non avevano mai cantato per lei come le donne cantavano per gli uomini. E lei non aveva mai provato amore per loro come alcune delle donne ne provavano per gli uomini. Allora questo non aveva avuto importanza, ma negli ultimi tempi aveva cominciato a provare uno strano senso di vuoto, la paura che l'arena le avesse strappato qualcosa. Si domandò se era in grado di amare. Trovò una radura a fianco della strada. Una vecchia fossa per il fuoco indicava che il posto era stato usato come luogo di sosta da altri viaggiatori. Accanto vi era una catasta di legna secca, e dopo aver legato il cavallo, non perse tempo e preparò un piccolo fuoco. Dopo un po', un magro pasto a base di grano e carne calda salata le riempì lo stomaco e lei si appoggiò alla sella con un sextarius di vino. Prese in considerazione l'idea di togliersi l'armatura, ma la sua natura prudente ebbe il sopravvento. L'aveva tenuta indosso tanto a lungo, cosa contava una notte in più? Le stelle ammiccavano attraverso le foglie ed il piccolo fuoco si spense lentamente. Tappò la bottiglia di vino e chiuse gli occhi. Ma non dormì. Qualcosa la disturbava, una strisciante sensazione di non essere sola, ma che qualcosa la osservasse. Quando non riuscì più a sop-
portare quella sensazione, si mise a sedere all'improvviso, afferrando il gladius. La lama corta e larga uscì sibilando dal fodero e rosseggiò alla luce delle braci morenti. Diana scrutò nell'oscurità. Una giovane fanciulla la guardava dall'altra estremità della radura. Piccoli seni appuntiti splendevano nudi, pallidi come il tenue chiarore lunare. Lacrime brillavano sulle guance esangui, anche se non sembrava che stesse piangendo. Una mano color avorio si sollevò, indicando la foresta. Poi la fanciulla svanì, dissolvendosi come la rugiada al sole. «Giove Ottimo e Massimo!» Diana balzò in piedi e tracciò simboli di scongiuro nell'aria. Non aveva battuto ciglio. La sua visitatrice non era scivolata furtivamente nella notte, era svanita nel nulla! Un grido di guerra da gelare il sangue cancellò dalla sua mente i pensieri sulla ragazza. Girò su se stessa, sollevando la spada. Tre uomini balzarono dall'ombra. Lei fece roteare due volte il gladius, colpendo l'attaccante più vicino mentre saltava. Questi cadde a terra con un grido, l'addome ridotto ad una massa sanguinante. Gli altri la colpirono con violenza, rapidamente, gettandola a terra con il loro peso. Uno riuscì ad afferrarle il braccio che teneva la spada e gliela immobilizzò prima che la lama potesse ancora colpire. Sibilando, lei affondò i denti in una spalla morbida, sentì il sapore della bile e morse più forte, lacerando la carne. Un grido di dolore le riempì gli orecchi e qualcuno rotolò via da lei. Colpì l'ultimo uomo con la mano libera, cercando con le unghie gli occhi vulnerabili. Un pugno le si abbatté sulla mascella, un gomito le si conficcò in gola. Guardò il viso sopra di lei, e vide un gran sorriso serpeggiare sulle labbra sottili. Gli occhi brillavano di follia omicida. Sputò in quegli occhi, e mentre l'avversario sbatteva le palpebre, lo colpì alla bocca con una testata, sentendo i denti che si rompevano. Si tese, sbilanciando l'avversario e rotolò lontano da lui. Poi balzò in piedi, sollevando la spada. Ma gli uomini fuggirono. Udì i rami scricchiolare e spezzarsi mentre essi correvano ciecamente nella foresta, abbandonando il corpo del loro terzo compagno. Lei lo toccò con la punta del piede. La sua spada aveva fatto un lavoro migliore di quanto avesse pensato. I due fendenti lo avevano squarciato; era già morto. Qualcosa attrasse la sua attenzione e lei si chinò per vedere meglio. Era difficile dirlo con certezza mentre la notte colorava tutto di nero e di grigio, ma avrebbe potuto giurare che l'orlo della veste era color porpora. Un
patrizio, dunque, e non un comune brigante. Trascinò il corpo negli alberi per non essere obbligata a vederlo per il resto della notte. Il sextarius era ancora pieno a metà. Lei lo prese e bevve una lunga sorsata, poi si sedette appoggiandosi alla sella per ripensare all'accaduto. Quella ragazza l'aveva messa in guardia. Aveva indicato il punto esatto in cui si nascondevano gli attaccanti. Ma era poi una ragazza? O era solo sembrata scomparire, per uno scherzo delle braci morenti e dell'oscurità? Si asciugò un rivolo di sangue dalle labbra e poi riattizzò il fuoco, timorosa di rimettersi a dormire, ora. Per metà della notte fissò le fiamme, rimuginando e per l'altra metà guardò il luogo in cui aveva trascinato il corpo. Il mattino portò un pallido sole. Una nebbia fitta era scesa sulla foresta prima dell'alba, una foschia che strisciava fra i vecchi tronchi, nascondendo tutto tranne il tratto di strada più vicino. Scivolò fra i cespugli per accertarsi di una cosa. Nessuno degli attaccanti portava armi. Uccidere un patrizio e per giunta disarmato, avrebbe potuto rispedirla nell'arena. Non per combattere, di quello non aveva paura, ma per una crocefissione pubblica. Trovò il corpo, guardò quell'orlo colorato e cominciò a strappare erbe e fronde per coprire quello che aveva fatto. Rapidamente sellò il cavallo e montò in groppa. Mentre cavalcava, la nebbia formava delle spire. Come l'Ade venuto sulla terra, pensò e si strinse il mantello attorno al corpo. Dopo un po', il sole comparve e l'aria si riscaldò; la nebbia cominciò a dissolversi. Il terreno cominciò a salire; si rese conto che stava lasciando la valle. Al limitare del bosco, un vecchio sentiero profondamente segnato si dipartiva dalla strada maestra. Si inoltrava serpeggiando sul fianco della collina verso una villa bassa ed antica che si stagliava contro il cielo luminoso. In un primo tempo pensò di oltrepassarla, ma ad una curva del vecchio sentiero vide una fanciulla molto simile a quella che l'aveva salvata durante la notte. Quando cercò di accertarsene con una seconda occhiata, la ragazza era scomparsa. Si sporse per grattarsi il punto in cui il bordo degli schinieri le avevano graffiato la pelle e ad occhi socchiusi guardò la strada stretta e serpeggiante. D'un tratto, la villa la incuriosì ed il mistero rappresentato da quella strana fanciulla le fece aggrottare la fronte. Spronò il cavallo su per l'aspro
sentiero. Un basso muro di pietra circondava la tenuta; un arco di ferro nero macchiato di ruggine si ergeva sull'entrata. Il sentiero acciottolato si sbriciolava sotto gli zoccoli del cavallo, ma il prato era ben tenuto e tralci vivaci disegnavano un bellissimo merletto intrecciato sui muri della villa. Un'enorme porta di legno attendeva alla fine del sentiero. Un anello arrugginito la invitata a bussare. Scendendo da cavallo, bussò con forza. Nessuna risposta. Bussò una seconda ed una terza volta. Alla fine, un paletto scivolò di lato e la porta si aprì. Un servo vestito di seta blu la salutò con un profondo inchino, porgendole una coppa di vino gelato. Leggermente sorpresa, lei accettò la coppa e lo ringraziò. Era dolce e saporito e lei lo bevve fino all'ultima goccia. «È in casa il tuo padrone?» chiese restituendogli la coppa. Lui non rispose, ma si inchinò di nuovo e le fece segno di seguirla all'interno. Forse è muto, decise mentre entrava e attendeva che richiudesse la porta. L'interno della villa era opulento. Marmo bianco splendeva sulle pareti. Arazzi intricati e particolareggiati si allineavano lungo le stanze; vasi, busti e sculture riempivano ogni angolo ed ogni nicchia. I pavimenti erano coperti da ricchi tappeti orientali. Il servo la condusse attraverso due stanze fino ad una doppia porta. La spinse, aprendola per lei. La stanza era illuminata dai raggi di sole che filtravano da alte fenditure nelle pareti. In essa, il suo ospite lavorava intorno ad un blocco di delicato marmo rosa. Al momento la scultura non era riconoscibile anche se già una notevole quantità di pietra era stata tolta. Quando si accorse di lei, posò immediatamente i suoi attrezzi, si spolverò le mani e le venne incontro sorridendo. «Decio Paolo Casto» si presentò. «Diana» rispose lei senza inchinarsi, avendo notato l'orlo color porpora. «Nient'altro?» Sollevò un sopracciglio con fare interrogativo, ma il tono rimase educato. «Solo Diana.» Lui si grattò una guancia. «Non romana, vedo, nonostante il marziale abbigliamento da uomo. Greca, forse? Macedone?» «Sono una libera cittadina romana» Pensò al suo rudis, la corta asta della libertà che pendeva dalla sua sella. Avrebbe chiesto di vederla? Era suo diritto farlo. Decio aggrottò la fronte, scosse le spalle e poi sorrise di nuovo. «Dia-
na!» disse battendo le mani. «Ma certo! L'armatura avrebbe dovuto farmelo ricordare. Ti ho visto combattere due anni fa. Tutta Roma parlava di te, eri il più grande secutor dei giochi. Ed una donna!» Ora fu lei a scrollare le spalle. Poi, rendendosi conto che lui intendeva solo rendere omaggio ai suoi successi, si inchinò. Il gesto non le costò nulla e sembrò compiacerlo. Dopo tutto, era il suo ospite. «Il mio modesto studio non è certo un luogo confortevole» si scusò facendole strada attraverso un arco verso un'altra stanza. Era grande come la prima ed arredata molto meglio, più adatta ad intrattenere ospiti. Le indicò un divano dove avrebbe potuto sdraiarsi e si accomodò su di un altro lì accanto. Il servitore ricomparve dopo qualche attimo portando del vino in calici d'oro finemente intagliati. Era ovvio che il suo ospite aveva un notevole gusto artistico. Decio sorseggiò il suo vino, appoggiandosi ad un gomito. «Dimmi, Gladiatore, che cosa ti porta così lontano dalla Città Splendente?» Lei assaggiò la bevanda forte e la trovò di suo gusto. «Cerco l'immortalità» disse con un sorriso e bevve un altro sorso. Decio si appoggiò all'indietro, guardandola da sopra l'orlo del bicchiere. «Allora sei venuta nel posto giusto.» Mentre la guardava, gli scuri occhi fumosi sembravano danzare lungo l'orlo dorato. Per un lungo istante lei studiò il suo ospite: non un grasso patrizio, viziato dai piaceri di Roma. Il viso era magro e duro e poi era alto, quasi come lei, largo di torace e di spalle. Se non fosse stato per la mollezza rivelatrice delle mani, avrebbe potuto passare per un guerriero. I capelli e la fitta barba erano neri; e gli occhi erano ancora più scuri, come pozze in cui avrebbe potuto cadere. «Che cosa hai detto?» Lui sollevò la coppa, rigirandola lentamente tra le dita ed essa brillò nella luce del sole. «L'arte è immortale» disse piano «ed io ho riempito la mia casa di oggetti d'arte.» Ammiccò ed una smorfia sorridente gli increspò gli angoli della bocca. «Ma non sono sicuro che sia quello che intendi tu.» Bevve il vino con un gesto sensuale, facendo indugiare la lingua sull'orlo della coppa. La sua voce la avvolse, ricca e profana, ogni parola una specie di carezza. Era passato tanto tempo da quando un uomo l'aveva attratta come ora la attraeva lui. «Che cosa ne faresti dell'immortalità» le chiese, «se fosse qualcosa per cui basta allungare la mano e prenderla?» «La darei all'imperatrice Messalina» rispose. «È lei che mi ha mandato a
fare questa stupida ricerca.» «E tu? Non vorresti condividerla e vivere per sempre?» Lei vuotò la coppa. Il servo, che attendeva discretamente lì accanto, si affrettò a riempirgliela. «Sto già vivendo della vita in più» rispose incontrando il suo sguardo. «Gli dèi mi hanno concesso di sopravvivere nell'arena. Che diritto ho di chiedere di più?» Si alzò dal divano, prendendo la coppa, e girò per la stanza osservando i magnifici oggetti che vi erano disseminati come a caso. «Tutti coloro che governano sognano di vivere per sempre, non è vero?» disse Decio restando seduto. «Ma perché Messalina?» Un'arpa era abbandonata su di un piedistallo. Lei fece scorrere le dita sulle corde, traendone una nota stonata. Era decisamente scordata. «Per le solite ragioni» rispose. «Paura della morte, paura di perdere il proprio regno, paura di perdere Claudio. Sembra che l'imperatore faccia gli occhi dolci ad Agrippina. Messalina pensa di riconquistarlo con quel dono rendendo così sicuro il proprio titolo.» «Te l'ha detto lei?» Diana annuì. «Io le ho detto di portarselo a letto; se non riesce a tenerlo con quel sistema, non lo terrà affatto.» Regolò una corda e ne sfiorò un'altra, aggrottando la fronte al suono. Decio le si avvicinò. «Ah, l'avidità è una prerogativa reale» sospirò. «Mi chiedo cosa pagherebbe l'imperatrice per un tale segreto.» Lei si voltò a fissarlo, sorseggiando lentamente il vino. «Se è una domanda retorica, allora non ho risposta.» Bevve un altro sorso, scrutandolo con attenzione. «Ma se mi stai facendo un'offerta, posso dirti che nella mia sella ci sono cinquecento aurei, un semplice anticipo per questo nuovo sacerdote ed i suoi seguaci.» «Una somma notevole» convenne Decio. «Presumo che tu non abbia avuto fortuna nel trovare quello che cerchi?» Diana posò la coppa vuota. «Certamente no. Ma in tutta la storia di Roma c'è stato un culto dedicato all'adorazione di Orco.» «Il Dio della Morte?» Sollevò un sopracciglio e sporse in fuori le labbra. «Così afferma la fonte di Messalina. Eppure io non ho trovato traccia di loro, né qualcuno che ammetta di conoscerli.» Lui indicò l'arpa. «Suoni?» Lei annuì. «Ho imparato da bambina. Nei recinti dell'addestramento era l'unica cosa che mi mantenesse sana di mente. Dopo, ho continuato a suonare per non pensare troppo. Non faceva bene ad un gladiatore pensare.»
Lui indicò i divani e prese la sua coppa vuota. «Suona per me» la incitò. «Quelle corde sono state mute per tanto tempo. Questa casa ha sete di musica.» Non ci volle molto per persuaderla. Prese l'arpa, la portò vicino al divano e se l'assestò sulle ginocchia. Le corde non si erano rovinate: una volta accordate, mantennero un ottimo tono. Una canzone le salì alle labbra. Cantò dell'arena: di uomini che morivano sanguinando sulla sabbia rovente; di incontri fantastici e di guerrieri leggendari; di grandi bestie con artigli e zanne vermiglie; di vita effimera e gloria fuggente. Le sue mani scorrevano fluide sulle corde, forzando strani accordi innaturali nella musica. Il servo si avvicinò in silenzio dopo le prime note e si appoggiò ad una tavola per ascoltare, senza osare avvicinarsi di più. Decio si sdraiò quieto, assaporando tutte le melodie che lei creava. Cantò una canzone allegra: lui rise e sottolineò il ritmo battendo i piedi; cantò un canto funebre ed una lacrima gli scese lungo la guancia. Quando terminò, lui sollevò lo sguardo. «Le tue canzoni hanno fatto crescere semi preziosi nel luogo incolto in cui una volta dimorava la mia mente.» Scosse il capo. Una tristezza cupa e pesante sembrò scendere su di lui. Alla fine il servo osò fare un commento, ovvero che quadro complesso lei rappresentava con l'arpa sulle ginocchia e la spada appesa al fianco. «Un talento tanto sensibile» notò. «Perché ti hanno mandata nell'arena?» Qualcosa si gelò dentro di lei. Guardò le finestre prive di scuri. La luce stava morendo, e con la musica il giorno declinava. La notte non era lontana. «Uccisi un uomo.» Sfiorò una corda dell'arpa, una nota malinconica. Gli occhi di Decio erano pieni di domande, ma il suo viso rifletteva una sorta di preoccupazione paterna che all'improvviso la fece infuriare. «Ti domandi chi fosse, vero? Il mio padrone, quel maiale puzzolente. L'ho sventrato, come ne ho sventrati dozzine nei giochi.» Spinse via l'arpa. Con un doloroso sospiro di accordi disarmonici, lo strumento cadde al suolo ed i delicati intagli si infransero. In piedi sopra l'arpa spezzata, lei guardò Decio con occhi fiammeggianti, traendo uno strano piacere dallo sbigottimento con cui lui fissava quella scena di distruzione. «Mi hai chiesto la mia discendenza, quando sono entrata» tuonò. «Come posso conoscerla? Sono nata schiava, una puzzolente schiava romana, venduta ad un mostro ancor prima di conoscere mia madre!» Batté sul palmo la mano stretta a pugno. «Ma non più! Ora sono libera. Ho combattuto per la mia libertà ed ho vin-
to! Nessun patrizio romano potrebbe mai dire la stessa cosa!» Decio si chinò e raccolse i pezzi dell'arpa. Spesse lacrime gli scendevano lungo le guance. Raccolse lo strumento fra le braccia e lo cullò come se fosse un bimbo. Gemendo piano, si alzò ed attraversò la stanza. Giunto all'arco, si voltò. «Come puoi suonare quella musica ed essere tanto insensibile?» Solo un altro uomo, si disse, e lei ne aveva conosciuti tanti. Eppure qualcosa in lui l'aveva costretta a portare alla luce una parte di sé che aveva creduto sepolta da lungo tempo; una ferita solo rimarginata, non guarita, che ora sanguinava di nuovo. Con tre rapidi passi coprì la distanza che li separava e con un colpo gli fece cadere l'arpa dalle mani, oltraggiata. «È così!» sibilò. «Voi Romani mi avete resa così!» Lui la fissò con sguardo vuoto, il viso vicinissimo al suo. Poi raccolse di nuovo i pezzi dello strumento e si affrettò nel crepuscolo che calava sulle stanze della villa. Il servo lo seguì. Diana si massaggiò le tempie e guardò il corridoio, ora vuoto. Ascoltò cercando di udire rumori di passi, voci, ma non udì nulla. Non sapeva dove fosse andato Decio. Era rimasta sola. Lui non le aveva rivolto insulti o provocazioni che potessero giustificare il suo barbaro comportamento. Le aveva offerto rifugio, buon vino. In cambio, lei aveva fracassato la sua amata arpa. Maledì il proprio carattere. Ingrata, l'aveva spesso definita il suo padrone. Non c'era altro da fare ora che andarsene in silenzio e non causare altri dolori al suo ospite. Attraversò lo studio dove l'informe scultura di pietra gettava un'ombra lunga e poderosa sul suo cammino. Il crepuscolo avanzava in fretta. Aveva poco tempo per riguadagnare la strada maestra prima che giungesse la notte. Raggiunse le porte di legno e tirò il palo. Il servo di Decio stava aspettando. Lei vide immediatamente il bastone nelle sue mani e cercò il gladius. La lama uscì sibilando dal fodero, ma il bastone gliela strappò di mano. Sollevò le braccia per proteggersi la testa, ma il servo colpì ancora con molta abilità, proprio sotto le costole. Il dolore le saettò lungo il fianco. Poi venne il colpo alla testa che le fece perdere conoscenza. Si svegliò lentamente, sentendo il freddo della nuda pietra penetrarle attraverso il tessuto sottile dell'abito. La sua armatura non c'era più, ma il peso del gladius nel fodero le premeva tra i seni. Vicino a lei, delle voci intonavano strane poesie accompagnate dal suono dei flauti. Rimase immo-
bile, ad occhi chiusi, cercando di capire più che poteva. Poi un altro suono si fece udire sopra gli altri, un gemito basso carico di dolore. Mai nell'arena aveva udito un suono simile. Balzò a sedere, snudando la lama dal fodero. Decius era ad un metro da lei ed osservava una massa di corpi che si contorcevano e si dimenavano alla luce delle torce. Riconobbe delle facce, patrizi che avevano frequentato la corte di Messalina. Due uomini soprattutto attrassero la sua attenzione... i segni dei morsi e i denti rotti li tradirono. Il gemito risuonò di nuovo dietro di lei. Si voltò. Un'immensa scultura torreggiava sopra di lei, il dio Orco sul suo trono. La sua muscolatura di pietra si increspava alla luce delle torce. Gli occhi, pozze di ossidiana nera, brillavano. Ognuna delle mani potenti stringeva un'anima scolpita in modo sublime; ogni piede possente ne calpestava una sotto ogni calcagno. Era privo di genitali; Orco era il dio della morte, non della vita. Incastrata tra i polpacci scolpiti, c'era un'enorme ruota a raggi. Un povero corpo che avrebbe potuto essere quello di un uomo era disteso lungo il mozzo. Accovacciata accanto a quello che restava dei piedi, la pallida fanciulla che aveva incontrato nella foresta piangeva lacrime silenziose. «Benvenuta al Tempio di Orco.» Si voltò e vide Decio che sorrideva. Lui si batté sulla fronte. «Ti chiedo scusa per il mio servo. È stato inutilmente brutale.» Lei si alzò dalla pedana di pietra su cui era sdraiata, tenendo la spada tra di loro. «Se ne avessi avuto anche mezza possibilità, l'avrei sbudellato.» «Non ne dubito» sospirò lui. Distolse lo sguardo ed indicò i danzatori che si muovevano nella grotta, turbinando e roteando, ritornando sempre alla polla di marmo al centro, immergendo le dita nell'acqua nera per poi volteggiare di nuovo lontano. «Adoratori» spiegò Decio, «che cercano la stessa cosa che sta cercando la tua Messalina. Ma non hanno ancora provato la loro dedizione ad Orco. Le loro suppliche non hanno ottenuto risposta.» Lei batté sul piedistallo di pietra che ancora conservava il calore del suo corpo. «Una specie di altare, immagino?» In quel momento pensò di ucciderlo, ma esitò. A parte una botta in testa ed un paio di costole graffiate, non le aveva fatto del male. Non le aveva neppure portato via la spada. Decio sorrise. «No, mia cara.» Indicò la scultura, la ruota e la vittima.
«Quello è l'altare. L'ho scolpito io stesso. Nota gli eleganti dettagli, l'immaginazione. Alcuni affermano che tutte le strade portano a Roma.» Incrociò le braccia con orgoglio compiaciuto e soddisfatto. «Naturalmente sbagliano. Tutte le strade portano all'Ade.» La ruota è il mondo. Non poté fare a meno di ammirare il simbolismo. I raggi sono le strade: il mozzo è l'Ade. E Orco governa su tutto. Era di un'orrenda bellezza. La cosa sulla ruota gemette e lei si avvicinò per osservare. Le corde avevano inciso la carne dei polsi. Quasi tutte le dita delle mani erano recise ed anche quelle dei piedi. Ossa rotte sporgevano dalla pelle. Due cieche pozze di limpido umore la fissavano vuote da un cranio rasato. No, non rasato: i capelli erano stati bruciati. Tutte le giunture erano slogate e dappertutto livide ferite e vesciche formavano un merletto purpureo. Nonostante gli organi mutilati, lei capì che una volta era stato un uomo. La bimba ai suoi piedi sollevò lo sguardo verso di lei, con il volto rigato di lacrime. Diana resistette all'impulso di vomitare. Aveva visto quello che gli uomini potevano fare con una spada o un tridente, aveva visto quello che potevano fare gli artigli dei grandi felini, si era aggirata tra le viscere sanguinanti e gli arti mozzati di gladiatori sfortunati. Aveva visto crocefissioni, roghi, decapitazioni e impalamenti. Eppure Caligola, con tutta la sua crudeltà, avrebbe potuto andare a scuola da Decio. Si morse le labbra e strinse la spada con forza. «Sei venuta a cercare l'immortalità, Diana.» Il suo ospite le passò accanto, estraendo un corto pugio dalle pieghe della toga. Lo sollevò passando la lama tagliente sui genitali maciullati del prigioniero. «Guarda attentamente, perché questo è il segreto.» Chinò il capo, sordo ai gemiti ed allo scoppio di lacrime della fanciulla. Il canto degli adoratori si fece improvvisamente più forte, quando lui raccolse la prima goccia di sangue sulla lingua. Poi unì le mani a coppa, le riempì del liquido scarlatto e le si avvicinò. «Assaggia l'immortalità!» intimò sommesso. «Bevi il sangue degli organi di un uomo torturato ad ogni nuova luna, prega il Più Nero degli Dèi, e promettigli la cosa più preziosa che hai al mondo.» Spinse le mani verso le sue labbra. «Forse ti ascolterà, come ha ascoltato me.» Lei colpì le sue mani, respingendole ed indietreggiò di un passo sollevando la spada tra di loro. «Bevi con me, Diana.» Decio si leccò le dita vermiglie di una mano, tendendo l'altra verso di lei. «Tu hai un dono per cui vale la pena vivere;
suona e canta per me per tutta l'eternità!» Lei indietreggiò di un altro passo. «Gli dèi devono odiarti per averti spinto a tutta questa follia.» Lui si pulì le mani sulla toga, macchiando la stoffa bianca. «Essi non mi odiano! Orco stesso mi ha concesso la vita eterna perché potessi continuare la mia arte! Tutte le sculture e gli arazzi che hai visto erano miei; io li ho fatti! Tutti i vasi erano ceramiche mie, io ho fuso le coppe! Dovevo forse morire e privare il mondo di tale bellezza?» I canti e le danze cessarono. Con un brivido si rese conto che tutti gli occhi erano su di lei. La folla si fece più vicina. Diana girò cauta intorno a Decio, che si trovò così tra lei e la folla. «E lui?» chiese indicando con un pollice la creatura sulla ruota, ora alle sue spalle. «Che ne è della bellezza che avrebbe potuto creare? Ha dunque tanto valore l'immortalità da spingerti a questo?» Decio scosse le spalle. «Produceva un vino molto mediocre senza particolari pregi. Tutte le sue sofferenze ed agonie e persino la sua vita sono un prezzo modesto da pagare. Ho ancora molto da dare al mondo. Queste mani hanno ancora molto da creare!» Lei si voltò di scattò e conficcò il gladius nel petto dell'uomo sulla ruota. Questo emise un rantolo e poi spirò. Lei estrasse la lama e la abbassò, voltandosi verso il suo ospite. Il sangue gocciolava dalla punta della sua arma. «Forse ti piacerebbe succhiare questo!» Conficcò il gladius sotto le sue costole, girandolo con forza, ma la lama uscì pulita. «Ancora» la incitò Decio sorridendo ed allargando le braccia per invitarla a colpire. Lei colpì altre due volte. La folla di adoratori urlò e le si strinse intorno. Lei girò su se stessa per affrontarli. Ma fu Decio che li fermò. «Trattenete il potere di Orco!» ruggì e si strappò le vesti. Nessuna ferita lacerava la carne. Si girò lentamente in modo che anche lei potesse vedere. Lei lo fissò, fissò la lama, l'altare. «È vero!» le sussurrò, mentre i suoi seguaci ricominciavano frenetici il loro canto e la loro danza. La circondarono, saltando e roteando, correndo verso la polla, ritornando con le mani piene di acqua nera, spruzzando lei e spruzzando Decio. «Il mio patto con Orco è autentico.» Lei indietreggiò, pensando di proteggere la ragazza, ma questa era scomparsa. Diana la cercò tra gli altri, ma non era là. Doveva difendere so-
lo se stessa. «Il tuo dono più prezioso, hai detto» gridò al suo ospite. «Che cosa hai dato ad Orco?» «Un diadema» rispose lui con orgoglio, «dell'oro più puro, lucente di perle perfette e gemme finemente tagliate; l'apice della mia arte. Il mondo non ne ha mai visto l'uguale.» «Quando lo hai fatto?» lo sfidò. «Stai indietro!» Lui scostò l'inutile spada, tese una mano e le toccò la spalla, con occhi ardenti. «Era la mia più bella creazione!» Lei indietreggiò di nuovo, sentì della carne toccarle il collo, il ginocchio contorto dell'uomo che aveva liberato dal tormento. «Sciocco! E questa scultura del tuo dio? Prima o dopo il patto?» «Ho fatto tutta questa grotta per compiacerlo.» Lei quasi rise. «Stupido, stupido idiota! Non capisci? Quali cose hai creato da quando Orco ha risposto alla tua preghiera?» Lui socchiuse gli occhi. «Ho un pezzo nuovo nel mio studio» scattò. «Un informe ammasso di pietra» incalzò lei «quasi completamente finito nel nulla! Quell'arpa... una volta suonavi, vero? Ora, non sei più capace!» Lui si guardò le mani confuso. Ancora una volta i danzatori si fermarono per guardare. Lei avvertì la loro incertezza ed il loro imbarazzo. Erano patrizi, certo, erano la nobiltà romana; ma erano bambini che attendevano che Decio li guidasse. «Hai pagato un prezzo molto più alto di quello che credi per l'immortalità» continuò incalzante. «Il tuo cancello si è arrugginito, il metallo non splende più della sua bellezza. Il tuo sentiero di ciottoli è rovinato; dov'è la bellezza in questo? Non sai più suonare l'arpa. Non sai più scolpire. Non vedi? Orco ti ha sottratto ciò che di più prezioso possedevi, davvero. Ti ha tolto proprio quella cosa che rendeva tanto preziosa la vita per te; il tuo dono di creare la bellezza!» «Non è vero!» gridò lui. «Ho ancora quel dono! Posso ancora creare!» Agitò un pugno verso di lei. «Avresti potuto dividere con me l'immortalità! Mi amavi; l'ho sentito quando hai suonato per me. Per un breve istante, mi hai amato. La tua voce perfetta avrebbe potuto sopravvivere nei secoli, ora tu getti via il dono rivoltandoti contro di me!» Si allontanò da lei indietreggiando, facendo segno ai suoi adoratori di avvicinarsi. Lei esaminò la grotta, cercando l'uscita. Un'alta siepe circondava tutto e sopra di essa vide la sommità di una parete di pietra. Non trovò né un arco né un'uscita. Forse era nascosta dal fogliame.
«La tua voce, Diana» disse Decio in tono sommesso. «La tua voce è preziosa per me.» Gli altri si strinsero intorno a lei, vicini, sempre più vicini mentre lui parlava. «Ed io devo darla ad Orco. Lui vuole le cose preziose, Diana.» Rivolto ai suoi seguaci, esclamò: «Fatele cavalcare la ruota!» Delle mani si protesero verso di lei e decise di passare all'azione. La sua spada affondò nel ventre di un uomo; il suo sangue zampillò sull'elsa mentre ritraeva la lama. Con l'altra mano vibrò un pugno al viso più vicino, rompendo labbra e denti. Menò calci, gomitate, colpi e fendenti, finché il terreno sotto di lei non divenne scivoloso. Si aprì un varco e guadagnò il centro della grotta. Quanto tempo era passato da quando aveva sentito il sapore della paura? I seguaci di Decio non avevano la sua forza, ma erano molti. Si raffigurò il proprio corpo disteso sulla ruota, spezzato e mutilato come quella cosa che ancora vi era attaccata. Chi sarebbe potuto arrivare per garantirle il rosso dono della liberazione? Essi stavano di nuovo avvicinandosi, con urla fanatiche. Lei indietreggiò, sperando di guadagnare ancora terreno, ma inciampò e scivolò. L'ultima cosa che vide prima che l'acqua si richiudesse su di lei, fu l'espressione di rabbia e di paura sul viso di Decio e il grido minaccioso che gorgogliò in quella gola fu un suono che non poté mai udire. Il fuoco le riempiva i polmoni ed il panico le afferrava ogni altra parte del corpo. Era solo una polla sotterranea, ma una corrente la afferrò trascinandola più a fondo di quanto credeva fosse possibile. Tutta la sua forza si rivelò inutile; la fredda acqua nera la trascinò con sé, riempiendole le narici. Aprì la bocca per gridare, agitando le membra. Proprio nel momento in cui sapeva che sarebbe annegata, mentre si affidava agli dèi, la corrente la lasciò andare. Un'oscura umidità la circondava, non si vedeva nulla. Da che parte era la superficie? Scelse una direzione, pregò che fosse quella giusta e scalciò. La testa e le spalle uscirono dall'acqua; lei inspirò una boccata d'aria, annaspando e tossendo. La polla della grotta era diventata un fiume; la sponda non era lontana. Quando il dolore ai polmoni si attenuò, nuotò lentamente verso di essa. D'improvviso si fermò e mosse le gambe per mantenersi a galla. Una folla stava radunandosi sulla riva; perché non li aveva visti o uditi prima? Ricominciò a nuotare, guardando diffidente davanti a sé. I piedi toccarono il fondo sabbioso; si drizzò e camminò verso la riva,
ben conscia del fatto che aveva perduto la spada. La folla la fissò in silenzio, poi si ritrasse. Otto portatori che trasportavano un immenso trono si fecero avanti attraverso gli astanti, depositarono a terra il loro carico e si confusero tra gli altri uomini e donne. Sul trono, una figura si agitò, sorrise e agitò una mano in segno di saluto. Lei aveva visto quel viso su cento gladiatori caduti, l'aveva guardato attraverso l'arena, aveva sentito il suo alito sul collo ogni volta che aveva combattuto. Come aveva potuto non riconoscerlo quando l'aveva salutata? Rivolse lo sguardo al fiume e rabbrividì, rammentando le antiche storie. Orfeo con la sua lira aveva osato intraprendere quel viaggio per riavere Euridice, Ulisse per interrogare il profeta Tiresia, Teseo, Ercole, Enea con il ramoscello dorato ed una strega come guida. Erano discesi dal mondo supremo agli inferi attraverso caverne o spaccature nella roccia... attraverso l'acqua. «Porta Libitinaria» sussurrò, ricordando la strana polla e gli adoratori che danzavano intorno ad essa, «una porta per la Morte.» «Benvenuta all'Erebo, figlia mia, carne del mio cuore e del mio spirito.» La voce risuonò tutt'intorno. Ostentò un atteggiamento di sicurezza. «Saluti a te, Divoratore di Cadaveri.» Scrutò intorno a sé. Niente sole, ma solo una luce grigia e smorta. Niente alberi o erba, ma una pianura spoglia che si stendeva fin dove arrivava lo sguardo. In lontananza, a destra e a sinistra, si innalzavano due veli di nebbia. Se i racconti erano veri, sapeva che cosa c'era al di là di essi. Represse un brivido e tornò a rivolgersi al suo ospite. «Rosicchiato qualche buon osso, ultimamente?» La risata di Orco scosse le fondamenta stesse dell'Inferno. Benché restasse seduto sul suo trono di onice rilucente, la sua presenza sembrò improvvisamente incombere più grande, più minacciosa. Lei tremò e le ginocchia furono sul punto di cedere. Con uno sforzo tremendo mantenne l'equilibrio e il sangue freddo, rifiutando di piegarsi davanti a lui. Poi lui fu di nuovo un uomo su di un trono, o almeno le sembianze erano quelle di un uomo. «Ammiro una donna di spirito» disse. Lei trasalì. Così anche la morte aveva il senso dell'umorismo. Ne aveva visto molto poco nell'arena. Lui le fece di nuovo cenno di avvicinarsi. «Vieni a dividere con me una coppa di buon Falerno.» Una giovinetta pallida comparve da dietro il trono portando un vassoio con un sextarius e le coppe. Orco lo versò e le tese la
coppa. «Ti rendi conto, naturalmente, che non hai seguito la procedura richiesta per venire qui?» Lei guardò gli uomini e le donne radunate intorno a loro, pallide ombre dei loro antichi esseri: anime, si rese conto. Portò alle labbra la coppa offerta e annusò. «Buon Falerno un corno!» Gettò via con disprezzo il vino e guardò la coppa vuota. «Questa roba puzza come...» «Come qualcosa di morto?» suggerì il dio, scoppiando di nuovo in una risata. Lei si mise le mani sulle orecchie, aspettando che si ricomponesse. «Oh, povero me!» disse tergendosi le labbra e mettendo da parte la coppa. «Be', la tua presenza ha capovolto tutte le regole, quindi chiamiamo il secondo ospite.» Fece schioccare le dita ed il tuono rumoreggiò sul fiume da cui lei era emersa. Uno schianto ed un fulmine bianco colpì l'acqua, sollevando una nuvola di vapore. «Guarda questo» le disse Orco. «È da un po' che faccio pratica e non ho ancora avuto l'opportunità di mostrarlo.» Un altro degli spiriti che lo servivano fece un passo avanti e gli porse una piccola pietra di forma piatta. Orco si sollevò leggermente e lanciò il sasso. Questo volò sul fiume toccò l'acqua e rimbalzò due volte sulle onde. Mentre si sollevava per la terza volta, Diana notò che qualche cosa d'altro increspava la superficie dell'acqua. «Decio!» esclamò. Il sasso toccò il fiume una terza volta, rimbalzò sul cranio del sacerdote e si inabissò. Orco ruggì deliziato e batté le mani. «Non preoccuparti!» scattò con fare petulante notando la sua fronte corrugata. «Non si è fatto male; è solo un po' intontito. Guarda, sta nuotando verso la riva!» Sembrava attendersi la sua approvazione, ma lei si limitò a corrugare ancora di più la fronte. «I divertimenti semplici sono l'unica cosa che rende sopportabile questo posto.» Puntò un dito verso l'alto. «Loro non mi invitano più a fargli visita.» «I buffoni non piacciono a nessuno» mormorò lei. Decio emerse dal fiume, con la toga bianca tutta infangata e la tempia gonfia e rossa. Non la pallida ombra di un uomo, notò lei, non un'anima. Questo era Decio in carne ed ossa. Il prete fece per parlare. «Taci, Rapa» ordinò Orco. «Il nostro patto è infranto. Una creatura ancora in vita è entrata nel mio regno attraverso la porta che ti avevo incaricato di sorvegliare.»
«È stato un incidente!» gridò Decio. «La cagna plebea è inciampata...» Lei si voltò a guardarlo. «Avrà presto la mia anima, ma non la mia carne maciullata sul tuo osceno altare!» Avanzò verso di lei, con il viso rosso di rabbia. «Ti darò a lui io stesso, pezzo per pezzo!» Orco si alzò dal suo trono; Decio si arrestò, mentre la sorpresa e poi la paura fiorivano sul suo viso. Un orribile sorriso si diffuse sulle labbra del dio della Morte. «Così va meglio.» Si voltò verso Diana. «Non mi è mai piaciuto, ma strisciava ai miei piedi in modo molto convincente.» «Fammi combattere con lui» sibilò lei. «Può anche essere immortale, ma se lo tagliuzzo in pezzi abbastanza piccoli...» Il dio della Morte scrollò le spalle. «A che scopo, bambina?» «Vendetta» rispose lei. «Una povera creatura ha sofferto terribili torture per mano sua prima che io liberassi la sua anima tormentata con un colpo di spada. E chissà quante altre ancora? C'era una ragazzina.» Orco la fissò attentamente. Lei vide il proprio viso riflesso nelle nere profondità dei suoi occhi. «Decio l'ha fatto dietro miei precisi ordini.» Lei si batté un pugno sul palmo della mano. «Ma è stato lui a cercarti. Il desiderio egoistico lo spingeva, non un motivo più elevato e per il suo interesse commerciava in anime altrui.» Si voltò verso Decio. «È più abietto della più abietta delle creature!» Orco si grattò la guancia. «Eppure mi ha servito.» Lei girò di nuovo su se stessa, scostandosi le ciocche bagnate dagli occhi. «E io non ti ho servito? Fai i conti, Mastica-Cadaveri. Sei in debito con me.» Orco scoppiò in una risata che fece increspare la sabbia sotto i suoi piedi e mandò alte onde ad infrangersi sulla riva del fiume. «Sono in debito con te, Piccola?» Lei si mise le mani sui fianchi in atteggiamento di sfida. «Chiama le anime che lui ha mandato a te.» Orco sporse le labbra, poi annuì. Piegò le dita e tre anime si staccarono dalla folla. La più vicina aveva una larga ferita sul petto: allora lei lo riconobbe come l'uomo che aveva ucciso sulla ruota. «C'era una ragazza» disse «che era già uno spettro quando l'ho incontrata.» Di nuovo Orco annuì, indicando l'anima che portava il segno della sua spada. «La sua giovane sposa, una suicida. Quando il suo giovane sposo scomparve, lei si tolse la vita per il dolore. Il suo spirito vaga sulla terra, perché nessun suicida può attraversare il Fiume Stige.»
Era la Legge degli Dèi. Diana compatì la povera bimba, che non avrebbe mai conosciuto pace, a cui sarebbe stato negato anche il magro conforto degli Inferi. Anche la sua vita era sulla bilancia dalla parte di Decio. Parlò con un sussurro solenne e sommesso. «Ora chiama le anime che io ho ucciso in un combattimento leale.» La bilancia pendette di molto in suo favore; guardò con passione a stento contenuta la moltitudine di facce. Alcuni li aveva chiamati amici, anche se solo per un giorno o per una settimana, finché non si erano incontrati nell'arena dove ogni amicizia cessava. Altri non li conosceva, i loro volti erano rimasti celati dalla visiera dell'elmo. Trasse un lento respiro. «Sei in debito con me» disse ad Orco. «Vedi come ti ho servito bene? Ma io uccidevo lealmente; i miei avversari morivano combattendo con le armi.» Puntò un dito contro Decio ma non distolse lo sguardo dal viso del dio della Morte. «Non lascerò che ritorni al mondo dei vivi.» Decio le passò accanto camminando con calma, si portò ai piedi del trono ed incrociò le braccia. Ma l'espressione del suo viso e la luce dei suoi occhi tradivano il suo atteggiamento. «Che cosa sono le vite di pochi miserabili in confronto alla bellezza che io posso donare al mondo?» «L'amore di un uomo per la sua sposa» scattò lei, «è bellezza! Tu l'hai distrutto, tu, patetico cieco!» Scosse il capo, senza capire il motivo delle lacrime che le spuntavano agli angoli degli occhi ed incapace di fermarle. «Tu hai usato la gente! Come il mio padrone usava me! Come l'imperatore per dilettare i cittadini! Come Messalina si serve di me! Ma ora finisce qui!» Tese una mano, appellandosi al Dio della Morte. «Ascolta quanto ti propongo.» Orco congiunse le dita. «Avrai notato che le cose sono un tantino noiose, quaggiù.» Una smorfia gli piegò gli angoli della bocca. «Qual è la tua proposta?» «Un combattimento» rispose lei, «come nei veri Giochi Romani. Se vinco, il tuo sacerdote resta qui per sempre. Se perdo, resterò qui a procurarti un diversivo con un combattimento dopo l'altro finché anche il tempo e gli stessi Dèi non avranno termine» scrollò le spalle, vedendo il viso di lui farsi ad un tratto impassibile, «o finché non ti stancherai anche di questo divertimento.» «Una scommessa coraggiosa.» Si sfregò la guancia e la smorfia non ricomparve su quelle labbra nere. «Una scommessa che ti fa onore, che tu vinca o perda. Ma devi sapere, bambina, che i tuoi giorni sulla terra sono
finiti. Non lascerai mai il mio regno.» Una mano fredda si chiuse sul cuore di Diana. Ripensò alle storie di Orfeo ed Enea. Erano menzogne? Guardò il viso sorridente di Decio, le fattezze cupe del Terribile Dio sopra di lei. Non riuscì a parlare, ma spalancò la bocca. Orco tese una mano verso di lei. «Non aver paura di me, ora, Figlia, mi conosci da troppo tempo. Come schiava, come gladiatore.» Le dita di quella mano si piegarono, chiamandola, e lei avanzò sulla sabbia, oltrepassando Decio, salì i tre bassi gradini del trono di onice e si trovò faccia a faccia con la Divinità. «Guarda nei miei occhi e vedrai che non c'è nulla da temere.» Posò la mano sulla sua spalla destra. Allora lei si fece piccola, vergognosa, e si acquietò. Quel tocco non era gelido come si era aspettata, ma anzi la riscaldava. Poi il dio sorrise. «Hai accusato il mio sacerdote di egoismo. Combatterai per qualcosa d'altro oltre te stessa?» Decio trasalì. «Che cosa?» Diana si volse verso di lui. «La mia offerta non era forse priva di egoismo?» Orco le toccò l'altra spalla e la scosse gentilmente, come avrebbe potuto fare un vero padre. «Lo era. E poiché ora non hai più te stessa per cui combattere, ti proporrò dei nuovi termini.» Piegò un dito e l'anima dell'uomo che era morto sulla ruota si staccò ancora una volta dalla folla. «Tu hai vissuto più a lungo del tempo che ti era stato destinato, Diana, sopravvivendo all'arena quando nessuna donna lo avrebbe potuto fare. Volta dopo volta mi hai eluso, anche se io aspettavo di darti il benvenuto dopo ogni combattimento.» Tolse le mani dalle sue spalle; lei scese i gradini e si portò a fianco di Decio. Il sacerdote era pallido e tremante. «Questa è l'ombra di Gaio Anteo, un vinaio» continuò Orco. «Il suo tempo e quello della sua sposa sono stati abbreviati.» La smorfia ricomparve sulle sue labbra. «Combatti per loro se vuoi, bambina. E se vinci, Gaio e la sua sposa vivranno di nuovo, dopo l'immersione nelle acque del Lete per cancellare i loro ricordi. Accetti il patto?» Lei annuì, scoprendo ad un tratto che quella smorfia sorridente era contagiosa. Ma Decio era furioso. «Signore, io ti ho servito bene! Ricorda il patto che hai stretto con me. Io non sono un guerriero che possa competere con uno fra i migliori guerrieri di Roma, anche se è una donna!» Il tuono ruggì improvviso e potente, sommergendo le grida del sacerdo-
te. Orco si alzò dal trono, oscura forma torreggiante con gli occhi che mandavano lampi. La sabbia turbinò intorno a Decio, colpendolo, pungendolo, finché non venne scagliato a terra dove rimase gemente. «Alzati, leccapiedi!» ordinò Orco quando la sabbia smise di turbinare ed il tuono di ruggire. «Tu sei il mio trastullo, qualcosa per occupare i miei momenti di noia, un divertimento.» Scosse un pugno nero e le acque dello Stige sormontarono le rive. «Osi pensare che ti concederei l'onore di combattere contro questa donna? Non ne sei degno! Non temere. Un altro lo farà al posto tuo.» Diana si irrigidì, poi si costrinse a rilassarsi. Stava rapidamente imparando che laggiù ogni nuovo istante portava ad una nuova ed oscura svolta. Era vero, senza addestramento Decio sarebbe stato per lei una facile preda. Avrebbe dovuto prevedere che Orco avrebbe scelto un altro campione. Tutto per lui era divertimento. Combattendo contro Decio, il divertimento sarebbe finito troppo presto. «Scegli chi vuoi» gridò. «La mia offerta rimane.» Decio era ancora accucciato sulla sabbia. «Mi hai rubato il cuore» gemette avvinto. «Sapevo creare la musica e tu me ne hai privato. Creavo...» Orco sospirò, si appoggiò all'indietro e le rivolse uno sguardo paterno. «Tu sei figlia del mio spirito. Lui...» scrollò le spalle immense. «Io non ho rubato nulla, se non quello che lui ha dato. Il suo corpo viveva, poiché mi aveva offerto la sua anima. Quale artista, quale uomo o donna, possono trovare bellezza senza le loro anime?» Lei alzò lo sguardo verso di lui, enigmatico, splendido, e abile ingannatore. Così lei lo aveva sempre conosciuto, anche se per un po' un velo era calato davanti ai suoi occhi. «Chiama il tuo campione, Signore delle Carogne. Se ti annoi tanto facilmente, forse è perché ascolti troppo te stesso.» Lui le rivolse uno sguardo strano, quasi irato, poi scoppiò in una risata titanica. «Bene, allora, così sia.» Orco fece schioccare le dita. Uno spirito sconosciuto si avvicinò al trono, un uomo alto come Diana, con le spalle larghe due volte tanto, rigonfie di muscoli che spiccavano possenti anche sotto la pelle pallida. «Il suo nome è Condoro.» Lei conosceva quel nome. Un gladiatore come lei, ma vissuto molto prima. Un bestiarius, che aveva combattuto i felini e gli orsi finché il suo piede non era scivolato sulla sabbia insanguinata. Le anime dei vecchi guerrieri porsero loro le armature. Sul braccio destro lei indossò la manica, la protezione in cuoio e metallo che si legava al petto con uno straccale per tenerla a posto. Aggiunse un baltaeus, una lar-
ga striscia di piastre metalliche che le proteggeva il petto e l'addome. Alti schinieri le cingevano le gambe; ma per quel combattimento rifiutò l'elmo. Come arma prese un gladius ed un piccolo scudo rettangolare. Il suo avversario scelse un'armatura più leggera, una rete ed un tridente. Un pugio gli pendeva da una cintura legata in vita. Secutor, quindi, contro retiarius. Approvò con un cènno del capo. Era un combattimento che aveva vinto molte volte. Mormorò il tradizionale saluto, e poi sorrise all'ironia della cosa. «Io sono editor e lanista» Orco intonò il rituale. «Condoro, vinci e riavrai la vita sulla terra insieme a denaro e potere. Tu, Diana, se vinci avrai questa ricompensa; Tartaro avrà il sacerdote e tu i Campi Elisi.» Sollevò una mano nella benedizione tradizionale. «Combattete per il mio volere.» Condoro colpì prima che lei si rendesse conto che la battaglia era cominciata. La sua rete munita di pesi le si attorcigliò intorno ai piedi; lui tirò, mandandola lunga e distesa a terra. Il tridente cercò la carne esposta al di sopra del baltaeus. Gli spettatori sarebbero scattati in piedi esultanti, pensò lei. Ma oggi non c'era una cavea, solo una massa di spiriti silenziosi e la Morte stessa, che non esultavano per nessuno. Sputò sabbia e sollevò lo scudo appena in tempo per deviare il colpo fatale. Pessimo tempismo, si maledì. Avrebbe dovuto intrappolare le tre punte con il bordo dello scudo dopo averle deviate e poi infrangere l'impugnatura con la sua spada. Era troppo tardi per gli "avrei dovuto". Condoro colpì di nuovo. Lei gridò quando una delle punte colpì la carne del tricipite. «Il primo sangue!» gridò Orco eccitato. «Il primo sangue a Condoro!» Già mentre gridava, Diana balzò a sedere rapidamente, roteò la spada e tagliò il corto laccio che legava la rete al polso di Condoro. Tanta era la tensione che lui esercitava per tenerle legati i piedi, che venendogli a mancare all'improvviso lui si sbilanciò barcollando all'indietro. Si alzarono nello stesso istante, con la rete a terra sulla sabbia fra di loro. Condoro estrasse il pugio. Lei lo scrutò cauta e fintò goffamente, come se la ferita l'avesse indebolita. Come lei aveva sperato, lui si slanciò a raccogliere la rete, la sua miglior difesa. Ma tridente, pugio e rete erano troppo. La spada di lei lampeggiò, incidendo la carne della spalla e strappandogli un grido di dolore. Allora lei si fece avanti, scagliando di lato il tridente con lo scudo e deviando la punta del pugio sulla sua manica. Gli conficcò il gladius nell'ascella, su per i
muscoli del petto. Condoro barcollò e cadde sulle ginocchia. Le dita intorpidite lasciarono cadere il tridente. Lui sollevò lo sguardo, gli occhi brucianti di dolore, e cadde a terra con il viso nella sabbia. Solo allora lei si rese conto che non sanguinava. «Che cosa gli è successo?» chiese incerta. Stranamente non si era resa conto che Condoro era già morto e che lei aveva combattuto contro il suo spirito. Eppure quello spirito giaceva immobile, con il fianco aperto dal suo fendente. «Non gli è successo nulla» rispose Orco. «Aspetta il mio ordine per alzarsi, questo è tutto. Sa che il suo posto è qui.» Un profondo sospiro seguì le sue parole. Appoggiò la guancia al palmo della mano. «È finito così presto, avevo sperato in un combattimento più divertente. Oh, be', era fuori allenamento.» Lei guardò la figura sul trono con incredulità mista ad odio, guardò le anime affollate intorno a lui, una massa innumerevole, come si rendeva conto ora. Di scatto, si voltò e lanciò il gladius lontano sullo Stige. Questo colpì la superficie dell'acqua e sprofondò, lasciando solo dei piccoli cerchi concentrici a segnare il luogo in cui era caduto, increspature che presto scomparvero. «I termini del patto, Padre Corvo» chiese. «Ho vinto ancora.» Orco si accasciò sul trono con fare petulante. «In questo momento, Gaio Anteo sta correndo dalla sua sposa. In quanto al resto...» Fece un gesto. Una luce nuova attrasse il suo sguardo. Lontano, alla sua destra; il velo di nebbia si era sollevato ed erano apparsi prati e valli di bellezza incommensurabile, campi di spettrali asfodeli, spiriti le cui risa erano musica. «I Campi Elisi» disse Orco. «Hai vinto il paradiso.» Lontano alla sua sinistra, l'altro velo di foschia si era aperto, rivelando un'oscurità che minacciava persino la gloria dei Campi Elisi. «Là giace Tartaro, prigione degli dèi Titani e di tutti gli spiriti dannati. La tua strada porta là, sacerdote.» Decio fissò Orco, poi Diana e poi i Campi Elisi e le proprie mani senza più arte. Dalle sue guance era già scomparso il colore. Pallido come gli altri spiriti, lanciò uno sguardo di desiderio al paradiso, poi si volse e si incamminò verso l'oscurità. Diana lo guardò, ma non provò alcuna soddisfazione. Ricordò la sua villa, le sculture, gli arazzi, l'arpa e la fame che lui aveva della sua voce e della sua musica. Un trastullo l'aveva chiamato Orco, un divertimento. Ed un divertimento che non divertiva più veniva messo da parte. Poteva lei bia-
simare uno sciocco, se erano gli dèi a renderlo tale? «Aspetta!» gridò; Decio si fermò e si volse. Lei avanzò ai piedi del trono e agitò un pugno. «Combatterò ancora» disse alla Morte, «per il diritto di portarlo con me.» Ma il Dio Nero scosse il capo. «Hai gettato via la tua arma. Lascia le cose come sono. Raggiungi la tua pace.» Lei sputò, poi ammiccò a Decio. Una volta l'aveva visto bello, snello e resistente, e lo era ancora. «Vecchio Succhia-ossa! Scommetto che non sei a corto di lame qui!» Orco si sporse lentamente in avanti, si grattò la guancia, si sfregò le labbra e congiunse le dita. «Se vinci, lui viene con te. Ma se perdi?» Lei si limitò a sorridere. GLOSSARIO DEI TERMINI LATINI (N.d.T.) Gladius = spada corta. Pugio = pugnale. Retiarius = Reziario: gladiatore armato di rete e tridente. Denarius = denario: moneta romana d'argento. Stola = stola: lunga veste delle donne romane che scendeva dal collo fino ai piedi. Palla = sopravveste lunga portata sopra la stola come abito da passeggio. Sextarius = misura per liquidi equivalente a circa mezzo litro. Secutor = insecutore; gladiatore con elmo, spada e scudo che combatteva con il reziario, inseguendolo. Aureus = aureo; moneta d'oro. Porta Libitinaria = Porta della Morte; Libitina era la dea dei funerali. Bestiarius = bestiario: gladiatore che combatteva con le belve. Manica = lungo guanto che copriva tutto il braccio fino alla mano. Baltaeus = pettorale. Editor = apprestatore di pubblici spettacoli. Lanista = maestro dei gladiatori; colui che li disponeva per il combattimento. Cavea = gradinata, parte del teatro romano dove sedevano gli spettatori; per estensione: spettatori. Rudis = bacchetta consegnata ai gladiatori come simbolo di libertà. Titolo originale: Child of Orcus
Traduzione di Maria Cristina Pietri LE COSE VANNO A TRE PER VOLTA di Dorothy J. Heydt Così parla di sé Dorothy Heydt: "Per quello che riguarda la mia scarna biografia, se non sto attenta, diventa più lunga del racconto. Mi si potrebbe descrivere come quel genere di idioti che vogliono fare tutto in una volta: marito (uno), figli (due), casa (di media grandezza), giardino (piccolo), lavoro (tanto: responsabile della documentazione al centro computer dell'università), scuola (materie classiche) e strani frammenti letterari". È difficile descrivere meglio di come fa Dorothy il racconto "Le cose vanno a tre per volta", e cioè "strano frammento letterario". Ed in effetti è un pezzo singolare, ma quanto mai adatto a questa antologia di donne guerriere e di maghe. Dopo la conquista di Taranto (272 A.C.), Roma rivolse la propria attenzione verso la piccola città di Margaron... PSEUDOLUS MENDAX. Le Storie Cinzia attraversò la strada con circospezione e corse al riparo delle mura della città. Fino a pochi minuti prima sassi grandi come la sua testa lanciati dalle balestre erano piombati al di qua delle mura. Ora, fuori dalle porte vi era un silenzio carico di brutti presagi e gli uomini in cima alle mura correvano frettolosi avanti e indietro come una fila di formiche spaventate. Scivolò nella porta alla base della torre delle mura, a cui nessuno, in tutta quella confusione, montava la guardia e pose piede sulla scala. Era salita di dieci o quindici scalini, quando un enorme schianto risuonò nell'oscurità e quasi la fece cadere. Afferrò lo scrigno cerchiato di ferro che era avvolto nella sua stola ed arrancò su per la scala fino alla sommità della torre. Un vecchio era seduto sul pavimento di legno sotto le feritoie e si teneva la testa fra le mani, un vecchio vestito di azzurro con ricami d'argento, il mago Palamede. Un uomo più giovane era chino su di lui con una coppa fra le mani; un giovane con i capelli chiari ed appena un accenno di barba
che spuntava tra i foruncoli. Doveva essere suo figlio Demetrio. Erano gli unici due uomini disarmati che Cinzia avesse visto da cinque giorni a quella parte. Il comandante di Margaron e due sergenti erano in piedi accanto ai due, con i visi grigi come le loro barbe. «Lasciatemi passare, per piacere.» Il giovane sollevò il capo e la guardò con espressione ostile. «Non ci servono prostitute, qui, questa mattina. Dov'è Euelpide, il medico?» «È morto quattro giorni fa. Io sono Cinzia, sua figlia ed una rispettabile vedova, quindi frena la lingua. Che cosa è successo a Palamede?» «Uno di quei sassi lo ha colpito alla testa» disse il giovane. «Ora è sveglio, ma non è in sé. E non abbiamo molto tempo...» Un altro schianto lo interruppe. Spiarono dalle feritone la strada sottostante. Per tre settimane i Romani avevano premuto attraverso la campagna verso le porte di Margaron. Non c'erano state le solite devastazioni, fattorie bruciate, bestiame ucciso o confiscato, perché ai Romani premeva impadronirsi della città il più in fretta possibile. Ora, ai piedi delle mura, un centinaio o più di soldati romani si difendevano dai proiettili lanciati sulle loro teste dagli uomini di Margaron. Alcuni sollevavano sopra il capo scudi di vimini ricoperti di cuoio; altri sollevavano l'ariete con le tirelle, arretrando per sferrare un altro colpo contro le porte. Il legno rinforzato dal bronzo mostrava già segni di cedimento al centro. E i Romani, sotto lo sguardo tranquillo del loro capitano, sembravano pronti a continuare a menare colpi di ariete alle porte per tutto il giorno, finché non avessero ceduto. Cinzia si voltò verso il vecchio mago. «Palamede, puoi fermarli?» (Crash!). Il vecchio sollevò lo sguardo e sorrise. «Olive salate» disse. «All'inferno» mormorò Cinzia ed aprì il cofanetto. «Dammi quel vino.» Demetrio le porse la coppa e lei vi versò un liquido scuro da una boccetta grande quanto un pollice che una volta veniva usata come bottiglia di alabastro per profumi. Con cenni del capo, sorrisi e parole dolci riuscì a far bere al vecchio la mistura. Era come imboccare un bambino. «Le Pleiadi sono tramontate» citò in tono triste, «e metà della notte se ne è andata.» (Crash!) «Queste sono le cose che dice» intervenne Demetrio, «ed io non so far funzionare l'incantesimo.» «Che incantesimo?» Demetrio scrollò le spalle. «Per usare queste.» Indicò ciò che giaceva a
terra accanto a Palamede: una spada di bronzo, un rotolo di pergamena con gli orli spiegazzati, un cristallo di quarzo grande quanto il pugno di un bambino, legati con un nastro d'oro. E tutti e tre, lo vide chinandosi più vicina, recavano qualche tipo di iscrizione. «Che cosa c'è scritto?» «Be', questo dice» ed indicò il rotolo, «"Io sono Pargas, potente tra i daemonia; come il Tempo stesso io copro la terra ed erodo le rocce resistenti." Questo - la spada - dice: "Io Chalkas sono potente al di là delle mere parole; i libri del sapere li trancio in due e riduco a brandelli tutte le vacue parole."» (Crash!) «Ed il cristallo dice: "Io Krymos sconfiggo sia Giove che Marte; spade e fulmini infrango sotto il mio peso."» Spalancò le braccia come a dire: "Questo è tutto quello che so". «Quelle cose vanno insieme, vero?» disse Cinzia. «Il cristallo dice che può infrangere le spade, la spada dice...» (Crash!) «Sono anni che mio padre possiede questi oggetti» disse Demetrio. «Li teneva separati in tre cesti, il più possibile lontani gli uni dagli altri. Fino ad oggi.» «Il corvo ha sete» mormorò Palamede e cercò la coppa di vino. Demetrio gliela riempì. «No so nemmeno se devo lasciarli qui uno accanto all'altro» proseguì il giovane. (Crash!) «Si stanno riscaldando.» «E tu non hai idea di quale sia il loro potere?» «Dovrebbero scacciare i Romani» disse Demetrio «e devono essere usati tutti e tre se non vuoi che si rivoltino contro di te. Oltre a questo... scrollò le spalle una terza volta. (Crash!)» «Servono tutti e tre» rifletté Cinzia. «La spada, il rotolo, la pietra. Ma certo!» E si sporse per afferrare il cristallo, ma Demetrio la prese per un polso e la costrinse ad alzarsi. «Vecchia sciocca, hai intenzione di intrometterti in ciò che neppure io capisco?» La stola nera le scivolò via dal capo ed una lama di luce cadde dalla feritoia sul suo viso. «Perdonami. Dovrei dire giovane sciocca.» (Crash!) «Ho vent'anni» rispose, liberandosi dalla stretta e massaggiandosi il polso. Sono abbastanza vecchia per conoscere la mia arte; abbastanza vecchia per essere una moglie ed una vedova e per perdere mio padre, che era tutta la mia famiglia, per mano di questi sanguinari Romani. Ma naturalmente hai ragione tu «continuò umilmente.» Queste cose devono essere pericolose. «Guardò in basso.» Per Giove! Che cos'è quello? Il ragazzo si chinò per guardare, e Cinzia lo colpì forte alla base del col-
lo con il piatto della mano. Lui scivolò dolcemente, mentre lei con un gesto rapido afferrò il rotolo per evitare che vi cadesse sopra, e poi giacque con la testa nel grembo del padre. Lei infilò il rotolo di pergamena nel corsetto, prese il cristallo con una mano e la spada con l'altra. Il ragazzo aveva ragione, erano stranamente caldi. (Crash! ed un suono di qualcosa che si scheggiava che le andò dritto al cuore.) Corse sulle mura, oltrepassando le file di soldati nervosi che cercavano di trovare un bersaglio per le loro fionde, e guardò i Romani là in basso. Stavano facendo indietreggiare l'ariete per sferrare un altro colpo, e davanti alle porte c'erano parecchi metri di strada sgombra. Lei esitò un attimo. Era un azzardo terribile, uno stratagemma disperato. «Mercurio» sussurrò, e lanciò la spada e il cristallo sul terreno sottostante. La pergamena del suo corsetto fluttuò verso il basso per raggiungerli. Una luce azzurra si stava levando dalla spada e dal cristallo che erano caduti proprio davanti alle porte della città, un bagliore mortale che feriva gli occhi. Ma quando il rotolo cadde tra di essi, la luce si smorzò e si trasformò in un turbine con i colori dell'arcobaleno alto due volte un uomo. I Romani indietreggiarono, lasciando l'ariete sulla strada. Tre figure emersero dal turbine, una bianca, una rossa e una dorata, nessuna delle tre uomo o dio, con corpi a forma di tubo e denti come quelli dei coccodrilli. Il turbine si dissolse in demoni di sabbia che si sparpagliarono lungo la strada, ma le figure continuavano a turbinare, ognuna inseguendo l'altra. I loro terribili occhi non degnarono neppure di uno sguardo i Romani in fuga o i pallidi uomini di Margaron in piedi sulle mura; tutta la loro attenzione era concentrata su loro stessi. Il bianco Pargas che soffocava il dorato Krymos che prendeva a randellate il rosso Chalkas che picchiava il bianco Pargas. Le mura tremavano. Demetrio venne al suo fianco, massaggiandosi il collo. «E adesso?» «Adesso portiamo a casa tuo padre. Nessun uomo toccherà le porte, oggi. Se Palamede recupera il senno, potrà rispedire i daemonia al luogo a cui appartengono. Se no...» lanciò uno sguardo incerto verso la fenditura che si stava lentamente aprendo nella strada, «ho paura che faranno crollare la città. Almeno avremo il tempo di abbandonarla. Ci sono navi nel porto ed ho sempre desiderato vedere Siracusa.» Fece alzare Palamede e si arrischiò a dare ancora un'occhiata al tumulto giù nella strada. «La carta copre il sasso, il sasso rompe le forbici, le forbici tagliano la carta» disse Cinzia. «Chi ha detto che gli dèi non hanno il senso dell'umorismo?»
Ma toccò agli dèi sottomettere Margaron, che dopo due anni sprofondò in mare, dove le sue rovine sono ancor oggi visibili con la bassa marea. PSEUDOLUS MENDAX Le Storie Titolo originale: Things Come in Threes Traduzione di Maria Cristina Pietri UNA NOTTE IN DUE LOCANDE di Phyllis Ann Karr I racconti di Phyllis Ann Karr sulla coppia male assortita (ma sarà vero?) formata dalla maga Fiordigelo e dalla spadaccina Spina hanno deliziato i lettori fin da quando il primo libro sul duo (Frostflower and Thorn) è stato pubblicato nel 1980. Un secondo libro, ed un certo numero di racconti, hanno mantenuto vivo presso il pubblico il successo di questi personaggi e, tra l'altro, un racconto di Fiordigelo e Spina apre questa antologia. Molti scrittori hanno usato l'accorgimento di mettere i loro protagonisti in una locanda al confine tra mondi dove potessero incontrare personaggi di altri universi fantasy. Ma due locande? Quando una è indicata come il paradiso e l'altra come l'inferno? E come distinguerle? Questa storia è comunque meno prevedibile di quel che sembra da questi brevi accenni. Finalmente Fiordigelo fece in modo che il Cerchio mostrasse una familiare sponda del vecchio e pigro Fiume Glant al sorgere del sole. Ma quando ci passarono attraverso e la nebbia svanì, si trovarono con la neve fino alle caviglie sotto un cielo notturno dove tre piccole lune verdi combattevano una battaglia già persa contro le stelle, affastellate fitte come frammenti di mosaico. Da Est ad Ovest «supponendo che le direzioni corrispondessero a quelle di Vecchiacollina» la zona nevosa era larga solamente circa cento passi. Da nord a sud correva più lunga di quanto la vista potesse arrivare, interrotta soltanto da una grande scultura di ghiaccio, che somigliava ad un grottesco uccello a due teste dalle ali scarne, distante circa quaranta passi
verso nord. Approssimativamente opposte alla statua c'erano due grandi costruzioni, una su ciascun lato della striscia di neve. Quella ad ovest aveva gran parte se non tutte le finestre illuminate e mandava rumore fuori nella neve. A questa distanza, quella ad est sembrava completamente buia e silenziosa. Dowl, il cane di Fiordigelo, guaì e si strinse di più fra le due donne. «E va bene» disse Spina, «cos'è successo al Glant?» La maga aprì le braccia in un gesto di confusione. Non poteva allungare e allargare molto il braccio sinistro, appesantito com'era dalla sacca contenente il grosso libro che era stato di Dathru, l'unico oggetto non commestibile a parte il suo Cerchio d'oro bianco e il suo pendaglio di legno intarsiato che avevano portato via da Vecchiacollina. Quattro giorni prima, quello scarto di demone di un Dathru le aveva trasportate con la magia dalle loro Terrestorte nel mondo di Vecchiacollina. (Fiordigelo sembrava capire questa faccenda dei "mondi" meglio di Spina). Dathru aveva progettato la loro distruzione, o la cosa più simile ad essa, ma grazie alla strategia di Fiordigelo, alle ore passate ad esercitarsi a tirare con le armi di Spina e ad una coincidenza fortunata, era stato lui a morire. Essendo morto, non aveva potuto spiegare come aveva fatto a trasportarle. Così Fiordigelo aveva studiato il suo libro ed i suoi attrezzi fino a che non era stata in grado di prendere il Cerchio, che non era molto più grande del coltello di Spina, mostrargli una sponda del Glant, chiamare una nebbia intorno a loro e poi in qualche modo allargare il Cerchio così da poterci passare attraverso come una porta, poi subito dopo riprenderlo in mano portandolo alla sua grandezza originaria. Tre giorni a lambiccarsi su un nuovo sistema di magia senza alcun maestro tranne se stessa, ed era già riuscita a capire così tanto! Probabilmente era la migliore giovane maga mai uscita dal rifugio delle Terrestorte, e allora perché lamentarsi se non aveva centrato il bersaglio al primo colpo? «Lascia perdere, Fiorellino.» disse la spadaccina. «Conosci la mia linguaccia di strega. Ci hai portato tutti in salvo, e non è niente male come primo tentativo. Ora riprovaci prima che congeliamo.» La maga scosse la testa. «Non ancora. Mi hai stancato molto. E devo cercare di sapere perché questa volta ho fallito.» Spina inghiottì un'imprecazione e cominciò a pestare i piedi tutt'intorno per mantenere la circolazione sanguigna. Erano vestite per l'estate delle Terrestorte. Fiordigelo in abiti neri che erano più leggeri di quel che sem-
bravano. Spina in calzoni di lana leggera e camicia di lino, fortunatamente a maniche lunghe. «Buona strategia» osservò, «Troviamo un posto caldo dove potrai sederti e studiare.» Fece un gesto in direzione delle costruzioni più avanti. «Luci e rumore, oppure buio e quiete... quale dei due?» Fiordigelo guardò la costruzione illuminata e quella spenta e poi si mise a camminare proprio nel mezzo della striscia di neve che andava verso la scultura di ghiaccio. Spina scosse le spalle e la seguì, con Dowl sempre in mezzo a loro. Avvicinandosi alla statua, Spina vide che era scolpita come un paio di gigantesche mani tenute dorso a dorso, i pollici tesi in direzioni opposte e le dita piegate in avanti a partire dalle nocche. I pollici erano all'altezza delle spalle di Spina. Fiordigelo tolse la neve da una fila di simboli incisi lungo tutto il pollice puntato a ovest. Erano molto profondi, come fatti con del metallo rovente. «Uh, scrittura? cosa dice?» chiese Spina. «Sembra un segnale di indicazione.» Percorrendo con lo sguardo la lunghezza del pollice ad ovest, Fiordigelo annuì verso la costruzione illuminata e rumorosa. «Quella sarebbe la Locanda della Buona Compagnia. E l'altra» proseguì, girando intorno per arrivare al pollice puntato verso est e togliendo la neve, «è la Locanda della Suprema...» Corrugò la fronte. «... Qualcosa. C'è ancora un'altra parola, ma sembra che le lettere si siano fuse insieme, oppure... oh!... Credo che qualcuno abbia inciso una parolaccia sul nome vero.» «Che parolaccia? Non importa» Spina trattenne la sua curiosità. «Ha l'aria di un buon avvertimento, così andiamo a dare un'occhiata alla Buona Compagnia prima che qualcuno ci veda e ci giudichi sospette.» «Aspetta.» Fiordigelo osservò ancora entrambi i lati della striscia di neve, uno per volta. «Sì. Vedo quello che intendi, maga! Tutt'intorno alla Buona Compagnia sembra che ci siano chiazze di neve su fango nero.» «E sull'altro lato» chiese Fiordigelo, «orchidee in fiore e campi d'erba?» Spina gettò qualche altra occhiata in ciascuna direzione, fece spallucce, e si soffiò sulle mani. Dopo i primi sei o sette prodigi, una comune guerriera industriosa comincia a valutare più l'azione che la meraviglia. «Può essere questa accidenti di luce lunare verde che batte sulla neve fresca soltanto da quella parte. La luce che passa fra le nuvole deve avere dei bordi
da qualche parte. Comunque, la Buona Compagnia sembra molto più calda dentro la Suprema Chissacosa, e dà l'idea di contenere molte più persone che risponderanno alle nostre domande.» «Sì... forse.» Fiordigelo continuava a guardare in direzione della locanda silenziosa. «Oppure da qualche parte potrebbero star usando della magia. E non staremmo più al sicuro andando prima dove c'è meno gente?» «No, se sono come quel pustoloso di Dathru.» «Di certo deve essere magia buona, Spina, se l'hanno usata per erba e orchidee. Dathru aveva disseccato tutta la terra intorno alla sua dimora.» Spina capì quello che stava pensando la sua amica: i maghi da una parte, tutti gli altri dall'altra, lo stesso genere di paura e sfiducia che esisteva nelle Terrestorte, e questo poteva spiegare la parolaccia incisa sul pollice puntato ad est. Nonostante ciò... «Senti, Fiorellino» disse la guerriera, «portarci da uno di questi mondi ad un altro è compito tuo. Badare a noi una volta arrivate qui» dovunque sia «sarà compito mio.» «Ma... Molto bene, Spina. La scelta è a te.» Dopo una ultima occhiata alla Suprema, Fiordigelo raccolse stancamente le sue vesti e si voltò verso la Compagnia. In quel momento la porta si spalancò ed una coppia di combattenti inciampò sul gradino, si rimise in piedi e continuò la lotta con un clangore di spade. Istintivamente, Spina nascose la sua amica dietro la scultura di ghiaccio con una spinta, si accoccolò accanto a lei e le disse di tenere stretto il muso del cane con una mano. Uno degli avversari era una donna, certo, e doveva essere stata attaccata di sorpresa mentre si stava vestendo o svestendo, dal momento che tutto ciò che indossava era un insufficiente corpetto sul torace, una specie di perizoma triangolare con i lacci appena visibili, e stivali alti al ginocchio. Dal modo in cui luccicavano, i suoi indumenti erano di metallo. Ma chi diavolo poteva indossare biancheria intima di metallo? Un colpo ben assestato del suo avversario poteva far penetrare a fondo parte di quel metallo nella sua carne, e ferirla molto peggio della stessa spada. Nel migliore dei casi, poteva dirsi fortunata se avesse scampato l'assideramento o il congelamento da metallo. In aggiunta a questa stupidità, portava i suoi capelli rossi lunghi fino al gomito e sciolti, che le ondeggiavano e svolazzavano intorno alla testa e alle braccia. E poi «Dio dei Guerrieri, aiutaci tu!» le suole dei suoi stivali! Qualche stupido le aveva piantato dei punteruoli sotto i talloni per farle perdere l'equilibrio? Avrebbe fatto molto meglio a combattere
nuda, calva e senza scarpe! Il suo avversario era un uomo a gambe e torace scoperti, ma con una pelle d'animale sulle spalle ed una larga striscia di pelliccia intorno alla vita e ai fianchi. Spina stava cominciando a perdere un po' del suo stupore nel vedere uomini guerrieri. I suoi capelli erano ragionevolmente legati indietro. Sembrava abbastanza robusto da abbattere un bue. «Diavolessa dai capelli rossi!» urlò lui «Lo vuoi tanto quanto me!» «E allora vieni, grosso barbaro!» rispose lei con una risata roca. «Nessun uomo mi porterà a letto se prima non mi avrà sconfitta in un combattimento leale!» Spina borbottò: «Ha il cervello tarlato!» Fiordigelo le tirò una manica e sussurrò «Spina? Hai capito le loro parole?» «Non importa, Fiorellino, sono imbecillità, quanto...» All'improvviso Spina sorrise. «Sì! Allora me l'hai lanciato quell'accidenti di incantesimo delle lingue! Questo aiuterà...» «Per il dente di Crom, ragazza arrogante!» urlò il barbaro. «Selvaggio semicivilizzato» rispose la diavolessa. I due si muovevano avanti e indietro, picchiando le loro spade una contro l'altra, gridando, ridendo, scalciandosi contro la neve. «... Se troveremo qualcuno abbastanza savio con cui parlare.» aggiunse Spina. Una terza persona apparve nel vano della porta, un uomo con una camicia verde brillante e pantaloni di pelliccia. Due piccole protuberanze spuntavano dalla sua fronte. Ciocche di capelli acconciate e irrigidite con la cera, pensò Spina «Vostra Reverenza e signora!» chiamò «Vi dispiacerebbe rientrare dentro e finire il combattimento in una sala calda e ben illuminata? Abbiamo diversi altri clienti che stanno scommettendo sul risultato.» «Allora, diavolessa dai capelli di fiamma, che ne dici?» «Mi va bene, barbaro, a patto che dopo si prenda una parte della borsa.» I due abbassarono le spade e rientrarono spavaldamente, camminando sottobraccio, cantando una canzone da taverna. Il cameriere della locanda chiuse la porta dietro di loro. Spina sospirò e si alzò in piedi. Almeno la gente nella Compagnia era abbastanza civilizzata da scommettere. Ma come potevano scommettere su di una coppia di idioti in un duello che era fatto di urla tanto quanto di colpi di spada? «Avanti, Fiorellino. Guardiamo lì, prima nel posto silenzioso.»
La Suprema era buia dentro quanto lo era fuori. La porta si apriva direttamente nella stanza da pranzo, deserta, dove una sparuta lampada tremolava su un tavolo vicino alla parete di fondo. Più per la luminosità notturna che filtrava dalle finestre che per la sua luce, riuscirono a distinguere un focolare largo circa un passo, posto in mezzo al pavimento. Era pieno di cenere e legno carbonizzato. Quando Spina lo scavalcò non sentì nessun calore residuo. Fiordigelo fece il giro largo intorno al focolare verso il tavolo con la lampada, si sedette, mise a terra il suo sacco e si scaldò le dita sulla piccola fiamma. Il cane la seguì e si accucciò ai suoi piedi. Per una volta Spina non rimproverò Dowl per il suo uggiolare: le pietre del pavimento erano più fredde della neve fuori. Ed erano anche sconnesse. Fiordigelo poggiò i gomiti sul tavolo e questo traballò con un tonfo che echeggiò per tutta la stanza. Spina trovò una porta che si apriva sul retro della costruzione. Le ombre erano fitte come in un cunicolo senza luce, così lei rimase sulla soglia e chiamò: «Ehi! Questa è una locanda o una maledetta stalla deserta?» «Questo non è giusto del tutto, Spina» mormorò la maga, «almeno l'aria è dolce.» Sorprendentemente, era vero. Invece dell'odore stantio di un pollaio, aveva il profumo di un giardino di primavera. Ma questo non la faceva sembrare più calda, e Spina avrebbe preferito la fragranza della carne arrosto. «Ehi, voi! locandiere! Qualcuno!» gridò ancora. «Va bene, va bene, alla malora» gracchiò una voce dall'oscurità. Fiordigelo sobbalzò, Dowl si alzò, e Spina indietreggiò dall'apertura mentre il locandiere faceva la sua apparizione. Aveva una faccia pallida, la testa quasi calva, e mani ossute. Il resto di lui era avvolto in panni dalla sfumatura così simile al buio circostante che ci volle qualche attimo per distinguere i contorni. «Non c'è bisogno di venire a ululare così negli orecchi della gente onesta» borbottò. La guerriera chiese: «Questa è una locanda oppure no?» «Uh» rispose lui, «la locanda della Suprema Felicità.» Sentendo un breve gorgoglio, Spina si guardò intorno e vide la sua amica piegata su se stessa per soffocare una risata. Si voltò di nuovo. «E tu sei il locandiere o il suo bis-bisnonno?» «Sono il locandiere. Perché non siete andate in quella bettola oltre il confine, come tutti gli altri?»
«Forse faremo proprio così!» disse Spina. Ma Fiordigelo si alzò voltandosi verso il locandiere, parlando con gentilezza. «Quando i viaggiatori hanno bisogno di riposo, cercano un luogo che sia quieto e illuminato dolcemente.» «Bene, se volete restare qui, meglio se manterrete la pace e la quiete. Vediamo la vostra mercanzia.» «Non siamo mercanti» disse Spina. «Non ho chiesto cosa fate per vivere e non me ne importa. Vi ho chiesto di vedere il vostro contante» wampum, denaro, scudi, gioielli, grana, quattrini, monete, crediti, pecunie, qualsiasi cosa usate e comunque la chiamate. Spina prese il suo sacchetto di denaro, ne estrasse diverse monete e le mostrò sul palmo della mano aperto abbastanza a lungo perché lui potesse vederle, poi chiuse le dita su di loro e le rimise al sicuro. L'uomo grugnì: «Sono un conio nuovo, per me. Probabilmente dall'altra parte lo conoscono bene. Be', le accetterò, ma è possibile che ne ricaviate maggiormente laggiù.» «Bene!» disse Spina. «C'è un combattimento di là, e forse ho ancora il tempo di triplicarle con le scommesse.» «Aspetta.» disse Fiordigelo. «Locandiere, dove siamo?» «Al confine. Una parte è Terrascoria, l'altra è Malavalle. Terrascoria è maledettamente selvaggia, Malavalle è la terra dei desideri.» «Cosa?» disse Spina. «Un paradiso, un'utopia, glorioso raccolto prima della morte, un paradiso sulla terra» rispose lui con impazienza. «E Terrascoria è un luogo orrendo, un inferno sulla terra. C'è a chi piace l'uno, c'è chi preferisce l'altro. Ora fate la vostra scelta e lasciatemi in pace.» «Giusto! andiamo, Fiordigelo.» «Spina...» cominciò a dire la maga, ma la spadaccina era a metà strada verso la porta e non si fermò. Dowl raggiunse Spina sulla porta. Le persone dall'altro lato della striscia di neve erano rientrate nella Buona Compagnia, lasciando la porta chiusa ed il confine deserto. Fiordigelo osservò «Non ci ha detto a cosa corrispondono i due lati.» «Ma è ovvio, no?» «Davvero?» disse la maga. Ma seguì la sua amica sulla neve. Avrebbe dovuto essere molto calpestata dove i due idioti avevano combattuto. Comunque, soffiavano pungenti folate di vento, che avevano già riappiattito
gran parte del terreno dello scontro e ricoperto le impronte di Spina e Fiordigelo. Entrarono nella Compagnia per trovarvi luce, canti, risate, e l'aroma di carni arrosto. Il focolare al centro di questo pavimento brillava allegro di carboni accesi e su di esso giovani servi della locanda, belli e sorridenti, giravano cacciagione allo spiedo e pezzi di carne. Tutt'intorno al focolare donne e uomini dall'aria allegra sedevano fianco a fianco a tavoli di legno lucido che non traballavano. Altra servitù si affaccendava intorno educatamente, portando cibo, versando da bere, pulendo i piani dei tavoli, e facendo l'occhietto quando ricevevano qualche pizzico. Lanterne colorate e festoni di fiori pendevano dalle travi scolpite ad arte. Su una piattaforma in fondo alla sala da pranzo due menestrelli stavano cantando una allegra ballata accompagnati da tre musicisti, uno con una strana arpa, uno con campanelli e tamburo, ed uno con un corno fatto a forma di testa di cervo. Un uomo con i calzoni di pelliccia si affrettò in direzione delle nuove venute, portando due coppe d'argento. «Signora!» esclamò guardando Fiordigelo, che si teneva un lembo del suo cappuccio sul naso. «Qualcosa non va?» Lei scosse la testa. «Niente. Un piccolo capogiro.» Spina spiegò. «Non riesce a sopportare l'odore di carne cotta.» «Ah! Si capisce, si capisce. Venite: abbiamo delle alcove specialmente ventilate per gli astinenti.» Annuendo sollecitamente offrì loro le coppe. Spina annusò la sua e la restituì. Vino. «Non bevo mai questa roba. Portami qualcosa che non dia alla testa.» «Ma certo, ma certo! Latte di capra, latte di mucca, latte di sirena, Kafè, tè, succo di mela, succo di pesca...» snocciolando tutta la lista, le guidò verso una fila di alcove rialzate, semichiuse, lungo la parete interna. Mentre le faceva accomodare ad un tavolo privato dentro una di queste piccole alcove, indicò le decorazioni sul soffitto. «Le canne di ventilazione sono nei becchi degli uccelli. Ci sono pale a vento tra questo soffitto e il pavimento superiore che risucchiano da fuori aria fresca. La distanza la riscalda, e filtri ai petali di fiori l'addolciscono. Speriamo le troviate soddisfacenti.» «Molto soddisfacente, grazie tante.» Sprofondando nella sua sedia, Fiordigelo sospirò e sorseggiò il suo vino. Dowl si accucciò accanto a lei e batté la coda. «Sembra a posto» disse Spina. «Ora senti bene, Io mangio carne.»
Lui batté le palpebre, ed annuì. «Possiamo provvedere. Se mi permette solo di spostare un poco la sua sedia verso il bordo dell'alcova... Ecco! Allora: latte dì capra, latte di mucca, latte di...» «Acqua! Solo buona, pura acqua, filtrata al carbone se la avete, una bella brocca piena.» «Pura e semplice acqua. Sciolta ogni ora dalla neve più candida e nuova soffiata dal vento. Sarà soddisfacente, signora?» Spina borbottò ed annuì. «E lei, signora?» Si rivolse alla maga. «Consuma pesce? Latte? Formaggio?» Mentre lui recitava una lunga lista di cibi senza carne che Fiordigelo potesse scegliere, Spina lo studiò. Il suo corpo sembrava ben fatto, ed il suo viso era bello, ma quelle sulla sua fronte non erano punte di capelli incerate. Erano corna piccole come quelle di una capretta, apparentemente sporgenti dal suo stesso cranio. E alla fine decise che i suoi calzoni di pelliccia erano i peli naturali delle sue gambe, lunghi e fitti come la pelliccia di un orso, serici, ben pettinati ed arricciati. Guardando in basso verso la folla allegra, Spina notò molti indumenti che potevano crescere direttamente dalla pelle di chi li indossava. E comprendevano indumenti verdi, cremisi e blu, ed anche marrone, arancio, nero, bianco e giallo. «Pane di segala, una pagnotta piccola» disse alla fine la maga. «E forse un po' di radici?» «Le avrà prima che quella canzone sia finita, signora.» Annuendo ancora, si voltò, ma prima che potesse scendere dall'alcova, Spina lo prese per un braccio. «Solo un attimo» disse affabilmente. «Puoi dirci dove ci troviamo?» Lui le scoccò un sorriso amabile, pieno di perfetti denti bianchi. «Vi trovate al confine fra Malavalle e Terrascoria, signore.» «Terrascoria è un luogo orrendo e Malavalle è un glorioso raccolto, eh?» ironizzò Spina. «Malavalle è un'utopia, signora, ma Terrascoria è meno inferno di un valhalla.» «Un cosa?» «Tutta quest'area» disse Fiordigelo, chinandosi in avanti. «È un luogo dove molti mondi differenti in qualche modo si toccano. Dove i viaggiatori tra i mondi si possono trovare attirati come da un magnete?» Lui annuì con forza. «Sì, signora. Lo ha descritto esattamente. È un val-
halla, lei capisce, è un luogo di raduno per i potenti guerrieri e grandi maghi, dove vengono scelti per combattere eroiche battaglie.» Spina chiese, «E chi li sceglie?» «Gli Alti Controllori. Vengono ad intervalli a raccogliere per le loro guarnigioni gli eroi radunati.» «Questo spiega perché la Suprema laggiù è vuota» ragionò Spina. «Questi Alti Controllori devono avere appena fatto la raccolta.» «Oh, sì, signora, questo lo spiegherebbe! Ora, se posso andare...» «Solo una cosa ancora.» La guerriera fece cadere sul tavolo dalla sua borsa qualche moneta. «Questo pagherà il nostro posto?» Lui osservò il denaro delle Terrestorte e prese solo una monetina. «Questo basterà a pagare le vostre cene, due bei letti con lenzuola di lino e coperte imbottite di piume, e l'intrattenimento.» Strizzò l'occhio a Spina. «E per il servizio della carne, niente mancia.» Andò via. Spina si appoggiò all'indietro con un sospiro di soddisfazione, appoggiando la sedia contro un sostegno dell'alcova, ed allentò leggermente la cintura. «Perché qualcuno dovrebbe preferire il valhalla a un paradiso?» disse Fiordigelo. Spina scosse le spalle. «D'altro canto nell'altra locanda non c'era nessuno, no?» «Ma questo contrasta con la spiegazione che sia vuota perché gli Alti Controllori hanno fatto raccolto qualche ora fa. Non ti pare?» «C'erano solo un paio di stupidi là dentro a litigare col locandiere, quindi ha avuto una paga bassa perché la raccolta è stata bassa, ed ecco perché era così acido.» Fiordigelo ebbe un conato e bevve un'altro sorso di vino. «Il cameriere ha parlato come se alcuni guerrieri e maghi potrebbero desiderare di combattere nelle eroiche battaglie di questi Controllori.» «E allora sono dei dannati idioti.» «Spina, noi maghi delle Terrestorte crediamo che dopo la morte continueremo a praticare le nostre arti. È una delle tre maggiori felicità del nostro paradiso. Ma io detesterei qualsiasi arte magica come un'arma da combattimento!» «Allora rilassati e goditi la sicurezza.» «Ma il tuo addestramento è per la battaglia. I tuoi sacerdoti-contadini continuano a saccheggiarsi l'un l'altro nel loro Glorioso Raccolto, e voi guerrieri non lo aspettate come parte della vostra felicità dopo la morte?»
«Non che io l'abbia mai saputo. Per la miseria! Forse uno che trasporta letame vorrebbe continuare a trasportar letame per sempre?» Il cameriere riapparve, portando pane, radici, una tazza di cristallo ed una brocca d'acqua chiara, tutto su un vassoio d'argento. Lo appoggiò in mezzo al tavolo, riempì la tazza con la brocca, e le mise davanti a Spina con un gesto svolazzante ed un largo sorriso. Lei gli sorrise a sua volta. Aveva un odore di pulito, e una donna poteva anche imparare ad apprezzare quelle piccole graziose corna sulla sua fronte. Forse prendeva mance per servizi diversi dal servire pasti? «Quei due che si stavano battendo fuori, un po' prima che arrivassimo» chiese, «non c'era in ballo qualche scommessa? Com'è andata?» «Sono seduti laggiù al terzo tavolo, signora, a riposare e bere insieme. Hanno gentilmente acconsentito a terminare il duello sul nostro palcoscenico dopo il termine di questo giro di ballate. Se vuole, può fare la sua scommessa tramite me. La Locanda della Buona Compagnia promette oneste commissioni e pagamento rapido ad un minimo garantito di sette a cinque.» Spina guardò fino a che non localizzò la demonessa e il barbaro. Stavano bevendo molto tutti e due. «Starò attenta e sceglierò all'ultimo minuto.» «Come desidera, signora. La locanda accetta scommesse fino a quando non è sferrato il terzo colpo.» Con un'altra strizzata d'occhio se ne andò. «Spina» disse la maga. «Questa è una ballata molto sgradevole.» «Cosa?» Spina si mise ad ascoltarla. Qualcuno chiamato Gworkin il Grande stava venendo fatto a pezzetti nell'ardore della battaglia, su un campo dove già i resti martoriati di altri eroi arrivavano fino alla caviglia. Avendo perso la parte iniziale della ballata, Spina non riusciva a capire chi stava attaccando e chi si difendeva, ma il ritornello era una lista degli eroi defunti, cantata così rapidamente che i loro nomi si confondevano l'un l'altro, col nome di Gworkin riconoscibile alla fine. Quelli tra la folla che stavano ascoltando la ballata ridevano e applaudivano. I cantanti ripresero fiato e cominciarono un'altra strofa, descrivendo un nuovo eroe che coraggiosamente si faceva fare a pezzi in un glorioso combattimento. «Un modo dannatamente stupido di combattere» commentò Spina. «Ed anche uno spreco.» Lo scopo dei combattimenti nelle Terrestorte era di sconfiggere col minimo di uccisioni e mutilazioni, dal momento che il nemico di quella notte poteva diventare l'alleato del prossimo anno. «Staranno cantando di quegli idioti che vanno alla Suprema Stupidaggine per essere raccolti dagli Alti Controllori.»
«Forse.» Fiordigelo tirò fuori il libro di Dathru. Era lungo quasi quanto il suo avambraccio ed era stato rilegato in vecchio cuoio, ma la maga era disgustata al solo toccarlo, e così Spina aveva tagliato e barattato la copertina con i pacifici abitanti di Vecchiacollina per una sacca di lana da mettere al suo posto. Mentre Spina faceva rotolare sorsi di acqua di neve intorno alla lingua e rifletteva sull'insulsaggine della lunghissima ballata, Fiordigelo corrugava la fronte leggendo il libro, masticando ogni tanto un morso di pane e radici, e di quando in quando scuotendo la testa come per scacciare qualche moscerino. Alla fine la maga sospirò, rimise il libro nella sua sacca e si alzò. «Spina, io...» Sorrise. «Se questo è un glorioso raccolto, allora i sacerdoticontadini potrebbero aver ragione quando dicono che i maghi stanno bene all'inferno.» «Cosa?» «Preferirei tornare alla Suprema Stupidaggine. Lì almeno c'è il silenzio.» «Oh. Va bene, prendiamo una camera da letto così potrai salire di sopra subito.» Fiordigelo scosse la testa. «Tutto questo baccano e le risate debbono permeare l'intera costruzione.» «La Suprema può essere più silenziosa, ma è tanto sicura quanto il palmo della zampa sinistra di Azkor.» «Essendo stata svuotata così di recente per stanotte dovrebbe essere sicura.» «Sì, forse. Ma non credo che dovremmo separarci in un territorio sconosciuto.» «Come separarci? Tu vuoi restare qui?» Il sorriso di Fiordigelo era simile ad una smorfia. «Lui è molto bello, Spina, con quelle piccole corna e tutto il resto. Cento passi di neve ci terranno tanto più lontane per una sola notte?» Spina scosse le spalle e sorrise. «E va bene. Cerca di non addormentarti leggendo il libro. Potrebbero ripulire, quel posto più spesso di quel che pensiamo. E non cercare di riattraversare il Cerchio e ritrovarti da qualche altra parte senza di me. Questo posto dovrebbe acquietarsi prima dell'alba. Perché allora non torni indietro? Oppure potrei venire io da te. Hai abbastanza denaro?» «Un argento e quattro spiccioli.» «Quel vecchio in salamoia potrebbe alzare molto i prezzi, specialmente
se vai a svegliarlo un'altra volta.» «Mi siederò soltanto a quel tavolo con la lampada, e non lo sveglierò ancora. Buon gioco e divertimento, Spina.» «Buon studio e silenzio, maga.» Fiordigelo mise il suo pane e radici nelle tasche dei suoi abiti, bevve un ultimo sorso di vino, lasciò la coppa sul tavolo e se ne andò. Dowl si alzò e rimase a guardare avanti e indietro. «Be', muoviti» gli disse Spina con un finto calcio nella sua direzione. Lui la guardò di nuovo, si girò e saltò giù dall'alcova per seguire Fiordigelo. Spina li guardò farsi strada discretamente verso la porta. Sentendosi incredibilmente vuota, scosse di nuovo le spalle, riempì la tazza di acqua di neve, e si rimise a sedere per decidere quanto denaro scommettere su uno di quella coppia trasandata che stava bevendo fino a intontirsi. Gambe Pelose le portò un vassoio di arrosto ancora fumante, guarnito con pezzetti verdi e rossi che dovevano essere verdure bollite. Un barlume di disappunto sembrò passare sul suo viso quando guardò verso il posto di Fiordigelo, vuoto. «Dov'è andata la sua compagna?» «Giù alla Suprema.» «Perché?» chiese lui ansiosamente. «Non siamo stati soddisfacenti?» «Hai soddisfatto me, testacornuta. Fino adesso, comunque. Ma la mia amica voleva un po' più di quiete per studiare.» «È una grande maga?» «Una delle più grandi. Ed una delle più sensibili. Non ha potuto sopportare quell'accidenti di lunghissima ballata su quei guerrieri che si fanno fare a pezzi, per non parlare del prossimo combattimento.» «Il prossimo combattimento?» «L'epico duello fra la Diavolessa e il Barbaro.» «Ah, quello!» La sua espressione si calmò nel vecchio amabile sorriso. «Inizieranno tra qualche istante. Ha deciso su chi scommettere?» Alzando le spalle, lei gli gettò due monetine. Non vale più di così. «Sul barbaro.» Il cameriere si inchinò, sorrise e fece scivolare il denaro nella borsa gialla appesa alla sua cintura. «Se dovesse decidere di cambiare la sua scommessa, signora, basta dirmelo prima del terzo colpo.» «Una cosa ancora, bellapelliccia. Questi Alti Controllori, perché vanno dalla parte di Terrascoria quando potrebbero fare un'ottima raccolta qui a Malavalle?» «Malavalle è protetta da un antico incantesimo.»
«Ed i Controllori non sono abbastanza in gamba da romperlo, eh?» «Se mai lo facessero, sarebbe solo per qualche presa eccezionale davvero, perché in seguito i clienti eviterebbero sempre Malavalle.» «Ma non è probabile che facciano un'altra raccolta stanotte alla Suprema.» «Oh, no, signora! Sono ben lontani dallo svuotare la Suprema stanotte.» Sorrise e batté sulla sua borsa gialla. «Ora, se vuole lasciarmi portare la sua scommessa al nostro buon cassiere.» «Benissimo.» Spina agitò la mano destra, piegando un dito in un gesto che doveva avere lo stesso significato dappertutto. «Ci vediamo dopo il combattimento, tesoruccio.» Lui strizzò l'occhio, si inchinò, e se ne andò. Spina aveva un coltello da carne lungo un dito, ma stasera non ne aveva bisogno. La Buona Compagnia forniva un coltello da carne ed uno spiedino di ottone avvolti in un tovagliolo di seta infilato in un piccolo anello ad un lato del vassoio. Si mise a tagliare. Molti idioti ai tavoli più in basso stavano tagliando la loro cena con i coltelli per combattere, o prendevano grossi pezzi interi di carne e li addentavano come se stessero bivaccando all'aperto, usando i coltelli da carne e gli spiedini della locanda per tirarseli l'un l'altro a giocare al tiro a segno sui tavoli. Idioti ubriaconi. Per una volta, Spina non avrebbe dato torto ad un locandiere che volesse liberarsi di quella marmaglia. Il gestore della Compagnia forse era un po' troppo educato. Ma l'arrosto era eccellente. Sentì un nuovo scroscio di risate e alzò lo sguardo, per vedere i menestrelli che scendevano e la diavolessa e il barbaro che saltavano sul palcoscenico, tenendo ancora le loro coppe di vino. Si misero in posizione a tre passi di distanza, alzarono le coppe e bevvero in saluto, poi si gettarono le coppe l'un l'altro. Fatto con abilità, sarebbe stato un simpatico gioco di destrezza, ma dato che i due erano troppo alticci per afferrare ciascuno la coppa dell'alto e bere, le coppe sfioravano soltanto le loro dita e rotolarono sul palco spargendo vino tutt'intorno. Spina tornò a rivolgere la sua attenzione al pasto. Il resto della folla mandava un'acclamazione ogni pochi secondi. Le prime volte Spina si voltava a guardare il combattimento, ma a suscitare l'entusiasmo era sempre qualche idiozia o qualche goffa spacconata, e così perse ogni interesse. Avrebbe dovuto risparmiare i suoi spiccioli per i dadi. Desiderò che uno o l'altro dei due vincesse, così i menestrelli sarebbero
potuti tornare sul palco. Quella folla stava diventando troppo rumorosa persino per lei. All'improvviso si rese conto che non tutto il rumore stava venendo da dentro la Compagnia. Un cupo rimbombo era cominciato in qualche punto fuori dalla costruzione. Sulle prime pensò che fosse un tuono. In una notte d'inverno stellata? Be', possibile. Ma stava continuando da troppo tempo e troppo regolarmente, aumentando di volume e senza alcuna oscillazione nel ritmo ripetitivo. Sembrava come un carro con ruote del diametro di una lancia intera. Nessun'altro sembrava averlo sentito ancora. Stavano tutti gozzovigliando pesantemente eccetto i servi della locanda, e stavano guardando tutti dall'altra parte. E nessun'altro aveva un amico dalla parte di Terrascoria. Spina cercò di attirare l'attenzione dell'uomo dalle gambe pelose e la fronte cornuta. Era occupato a riempire coppe di vino e a lasciarsi pizzicare dai clienti, ma dato che i guerrieri maschi superavano di numero le femmine in proporzione di circa cinque ad una, non era così occupato come le due cameriere. Quando Spina fece un fischio lui alzò lo sguardo, le sorrise, e si rimise a versare vino. Ormai il rimbombo aveva iniziato a far tremare un poco le pareti, e quegli imbecilli ancora non vi facevano attenzione. Spina saltò giù dalla sua alcova, si fece strada fra i tavoli (ignorando grida ed evitando oggetti che le venivano lanciati perché ostruiva la visuale di qualcuno o dava un calcio alle caviglie di qualcun'altro), raggiunse Gambe Pelose e lo afferrò per una spalla. «Sono molto spiacente, signora,» disse lui con lo stesso sorriso di sempre, «ma non è permesso scommettere o cambiare dopo il terzo colpo.» «Quello non importa, ma cosa...» «Per l'altra cosa, quando sarà terminato il combattimento e le luci spente.» Il suo sorriso si allargò e strizzò ancora l'occhio. Aumentando la stretta, lei lo scosse. «Maledizione, ma cos'è quel rombo?» «Rombo, signora?» Lei lo scosse di nuovo, una scossa forte e breve. «Quel rombo! Per il fiato di Azkor, lo senti, se resti con quei dannati piedi poggiati a terra. Sono i vostri accidenti di Controllori che arrivano, non è vero?» Ad occhi bassi, lui confessò mormorando che era la verità. «Ma non svuoteranno la locanda di Terrascoria, signora.»
«Accidenti a te, ho un'amica di là nella Suprema!» Lui trattenne il fiato e alzò la testa per guardarla, ad occhi sgranati. «Oh, Dio, sì! Signora, fa meglio ad andare subito a riprenderla!» Spina lo lasciò andare e si diresse verso la porta. Un brutto ceffo dalla pelle verde e zanne bianche si alzò e le bloccò la strada, torreggiando sopra di lei. Il suo linguaggio era confuso dal vino, ma lei capì che le stava dicendo che senza vestiti avrebbe avuto un aspetto quasi decente. L'essere si liberò del mantello «aveva quattro braccia, e tre stavano per afferrarla mentre il quarto faceva dondolare una strana, brutta arma.» Lei non aveva tempo da perdere. Con un pugno lo colpì al ventre, con l'altro all'inguine, e gli agganciò le gambe con un calcio. Tra il vino che aveva in corpo e gli stupidi armamenti di metallo che gli sprofondavano nella carne invece di proteggerla, lui si afflosciò quasi prima che Spina potesse scansarsi per evitarlo. Molti dei suoi compagni di bevuta saltarono in piedi ridendo e applaudendo e gridando che c'era un'altra demonessa, brava quanto quella sul palcoscenico. Quattro o cinque omaccioni barcollarono verso di lei, mentre un vecchio gracidante vestito con un lungo abito rosso cosparso di simboli dorati si mise a berciare le quotazioni per le scommesse. Spina cercò di usare il tatto. Sfoderando Tagliente e Stiletto, li agitò davanti ai nasi più vicini e urlò, «Via dalla mia strada, teste di sego!» «Quattro a uno per il Possente Murdick!» cianciò l'allibratore. «Ma se lo batte, tre a due per lei contro Grok il Selvaggio.» «Che Azkor vi squarti tutti.» Imprecò Spina. Quello più vicino a lei (doveva essere il Possente Murdick) aveva un elmetto metallico con sopra la statua alta e sottile di un uccello ghignante. Pensando che non poteva essere di metallo solido altrimenti gli avrebbe schiacciato la testa giù fino alle costole, lo colpì con Tagliente. La spada tagliò di netto a metà la figura, che si sbriciolò in sostanza leggerissima, mentre la metà superiore cadeva sul pavimento. Murdick ululò come se avesse ricevuto una ferita mortale e perse ogni interesse per tutto tranne che il suo prezioso simbolo infranto. «Tre a due per lei contro Grok!» gridò l'allibratore. «Andate alla malora, tagliagole!» Sperando che avrebbero mostrato almeno abbastanza senso di cameratismo da non colpirla alle spalle, Spina si voltò e corse verso la porta. Lasciarono in pace la sua schiena, ma cominciarono a fischiare, «Vigliacca!» e cercarono di farla inciampare con gambe, armi, piatti tirati sulla sua strada. Era a tre passi dalla porta quando un
rompiscatole marrone largo circa quanto due uomini avanzò per bloccarle la strada. I suoi bicipiti sembravano grandi quanto dei prosciutti, il torace, le spalle, il corpo e le gambe in proporzione, e tutto quello che portava alla vita in su era circa il peso di una pecora in gioielli d'oro. Non aveva armi: le si avvicinò così tanto da impedirle di usare la spada e cominciò a serrare le braccia intorno a lei. Spina pensò che avesse intenzione di schiacciarla contro tutta quella gioielleria. Spina infilò il pollice nell'orecchino pendente del colosso e diede uno strattone, tirandolo via e strappando il lobo. Lui urlò e si piegò su se stesso, lasciando la presa e afferrandosi l'orécchio. Spina lo aggirò e raggiunse la porta. Questa vibrava nei suoi cardini, e il chiavistello era chiuso. «Pezzi di idioti!» gridò Spina, guardando indietro. «Quel rombo significa...» «Lo sappiamo!» rispose ad alta voce dal palcoscenico la diavolessa dai capelli rossi. «Allora perché non aspetti qui con noi, sorella guerriera?» Gambe Pelose scattò fuori dalla folla, aprì il chiavistello e spalancò la porta. «Sbrigati a tornare!» disse a Spina, strizzandole l'occhio mentre lei correva fuori. La porta le si richiuse con fragore alle spalle. Rimase sull'uscio per studiare la situazione. Guardando dalla parte del rombo, vide la faccia di un demone incombere sopra di lei, alto come una quercia e largo come un ponteggio, tutto occhi di fuoco e denti fiammeggianti. «Spina! Spina! Rosaspina!» Quella era Fiordigelo che la chiamava, finalmente usando il suo nome da bambina. Anche il cane stava abbaiando. La spadaccina allontanò lo sguardo dal demone e localizzò la maga, che stava accanto alla statua di ghiaccio, chiamando e facendo gesti. Spina arrischiò un'altra occhiata al demone. Questa volta si accorse che la sua faccia non erano che luci davanti ad un carro che avanzava in qualche modo senza animali da tiro ma con delle ruote alte come un bue e quasi altrettanto larghe. I loro bordi erano bianchi, e la neve che cadeva di tanto in tanto non ne impediva l'avanzata al centro della striscia di neve. Era a due tiri di lancia dalla statua di ghiaccio. Ad ogni momento poteva girare dalla parte di Terrascoria. Spina agitò il suo coltello. «Fiorellino, corri di qua!» «Attenta dietro di te!» Rispose gridando Fiordigelo. Spina si accorse che la porta stava sussultando. Si girò appena in tempo per vederla aprirsi di nuovo. Fece un salto all'indietro.
Erano tutti là, affollati sulla porta «l'uomo verde dalle quattro braccia, quello carico d'oro col lobo dell'orecchio sanguinante, Murdick con la sua mezza statuina dorata, l'irridente diavolessa e il barbaro corrucciato, per non parlare della folla che avevano alle spalle. Dio dei Guerrieri! Pensò Spina. L'unico posto al sicuro dai Controllori, e tutti quelli che ci sono dentro vogliono la mia pelle.» Tutti brandirono le loro armi e si mossero in avanti con un urlo. Spina si slanciò verso la statua di ghiaccio. Nel raggiungere la statua, Spina si trovò immersa in una improvvisa tormenta. Fiordigelo! La maga aveva trovato abbastanza vento da scatenare intorno a loro una bella, comoda, piccola tempesta per ripararle. Si ritrovarono a metà strada tra la statua e il lato della Compagnia. «Bel lavoro, Fiorellino,» urlò Spina al di sopra del rumore del vento, del carro, e dei guerrieri che si dibattevano ai bordi della striscia di neve, dove la maga aveva fatto in modo che la tormenta infuriasse tre volte più forte. «Ora se riusciamo a fare di nascosto il giro verso la Buona Compagnia...» «Spina, no!» la maga stava cercando di trascinarla verso la Suprema. E tutto ad un tratto Spina comprese. «Per gli artigli di Azkor! Dio, andiamo!» Continuando ad avanzare senza curarsi della tormenta, il carro era giunto a distanza di un tiro di lancia. Riuscirono a tornare alla statua e là, perché non poteva credere nemmeno adesso di essersi sbagliata così tanto, Spina spinse l'amica ad accoccolarsi. La mano gigante della statua e la coltre di neve ribollente le avrebbero nascoste, sperava, dagli Alti Controllori, dovunque si stessero dirigendo. Il carro avanzò fino a che le sue luci non si rifletterono a macchie su di loro, passando attraverso le dita di ghiaccio o torreggiando sopra di esse. Le ombre di fiocchi di neve svolazzavano fitte e frenetiche tra le macchie di luci gialle e rosse, e il rombo sommergeva anche l'ululato di Dowl, per quanto fosse vicino agli orecchi di Spina. Pensando che il carro potesse passare sulla scultura, lei fletté le gambe e rafforzò la stretta sul braccio di Fiordigelo. Poi, a non più di cinque passi, il carro voltò di lato «verso la Locanda della Buona Compagnia.» «La Suprema Felicità è sempre stata dalla parte di Malavalle,» rifletté Spina, aggiungendo altri pezzi di legno al fuoco che lo scontroso locandiere aveva permesso loro di accendere. «Avrei dovuto capirlo prima. È la
Buona Compagnia che ricava un bel profitto accogliendo i guerrieri e i maghi che raccolgono gli Alti Controllori. Ecco perché sono così dannatamente educati laggiù. Al vecchio furfante qui non importa se andiamo o restiamo perché tutto quello che può ricavare da noi è il nostro denaro.» «E per lui i nostri soldi sono strani» disse Fiordigelo, «anche se credo che riuscirà a cambiarli alla Compagnia. Però, la gente di questa utopia, questo glorioso raccolto, credo che temano di affollare la loro terra con troppi abitanti. Danno un rifugio, qui al loro confine, ma solo a quelli che riescono a risolvere l'enigma.» «Ospitali farabutti! Tuttavia, non credo che sarei molto più felice di sistemarmi a Malavalle piuttosto che combattere le stupide battaglie dei Controllori a Terrascoria... E tu, Fiorellino?» La maga scosse la testa. «No. Domani riproveremo a tornare a casa. Ma... tutti quegli altri, Spina! Se solo l'avessimo capito prima.» «Tutti gli altri quali? Gli stupidi ubriaconi che affollavano la Compagnia stanotte?» Spina scosse la testa. «Probabilmente ne saranno entusiasti. Non sarei sorpresa se la metà di loro sapesse esattamente dove stava, e l'altra metà scommetto che sarebbe rimasta comunque. Teste di legno! Questa sarà un'altra ragione per cui la Suprema scoraggia i clienti. Porta una comitiva del genere qui e del glorioso raccolto farebbero un inferno.» E il cameriere con le corna e le gambe pelose ed il bel sorriso, Spina? Ti dispiace se...? «Un po'. Sì. All'ultimo, mi ha aperto la porta...» Spina corresse i suoi pensieri scuotendo il capo. «Diavolo, certo... ha aperto la porta perché voleva che ti riportassi indietro in tempo per i Controllori. Be', sarà caduto in piedi, di sicuro. Un servo troppo prezioso perché la Buona Compagnia non lo protegga. Quanto a me... Avrò miglior fortuna nel prossimo mondo.» Spinse l'ammaccata marmitta di metallo della Suprema vicino al fuoco. Questa volta, scioglieva da sé la sua acqua di neve. Titolo originale: A Night at Two Inns Traduzione di Marina Nunzi LA GILDA ROSSA di Rachel Pollack Quando inizio a compilare delle antologie di questo tipo, in genere scel-
go due, tre, o quattro racconti che poi orientano la scelta di tutti gli altri. Io li chiamo racconti "cardine", dal momento che tutto quello che scelgo in seguito deve adattarsi ad essi. Uno di questi è proprio "La Gilda rossa" di Rachel Pollack. La storia su di una "gilda di assassini" è un vecchio cliché nel genere. All'inizio del racconto, un cliente dice all'assassina Cori: «Non sapevo che la Gilda prendesse...» «Donne?» «Ragazzine.» «La Gilda prende quello che le appartiene.» Così questa è, in un certo senso, più un enigma che una storia d'avventura; perché la Gilda rossa ha scelto Cori, e perché lei le appartiene? Raramente un racconto mi ha commossa a tal punto. Rachel Pollack vive ad Amsterdam, un'espatriata volontaria in una lunga tradizione di scrittori espatriati. Una breve visita in Olanda mi ha rivelato che deve trattarsi di un buon posto per vivere e lavorare... se ci si abitua a salire le ripidissime scale che portano ai piani superiori delle case di Amsterdam. Rachel ha scritto un romanzo, The Golden Vanity, nel campo della fantascienza, e due libri sui Tarocchi che insieme portano il titolo di 78 Keys to Power. Inoltre le sue opere sono apparse in diverse antologie. 1 «Vorrei vedere il tuo padrone, per piacere.» Il mercante stava sulla porta, muovendosi nervosamente. Eccetto un primo sguardo a Cori, i suoi occhi passarono direttamente oltre. «Qui non c'è nessun padrone» disse lei. «Io servo solo me stessa.» «Cosa? Oh! Voglio dire, mi scusi...» Lei lo vide arretrare mentre guardava al di sopra della sua spalla verso l'unica strada sporca proveniente dalla città, spoglia di qualsiasi altra casa (debbono farlo tutti?). Poi il mercante fissò lo sguardo su di lei, notando il lungo abito rosso scuro, la sciarpa verde che le copriva i capelli e le passava dietro la nuca avvolgendo la gola, le lunghe mani delicate leggermente arrossate per le pulizie che aveva fatto in casa quel mattino, il seno piccolo e la lunga vita snella, il volto delicato con le labbra sottili, gli zigomi alti ed i grandi occhi. «Mi dispia-
ce» ripeté il mercante. «Devo aver fatto uno sbaglio.» «Se l'ha fatto, l'ha fatto» disse Cori, e quasi sbatté la pesante porta di legno. Invece, ricordò a se stessa quanto aveva bisogno di un cliente. «Perché non mi dice che cosa vuole?» disse. «Be'...» l'uomo deglutì. «La gente, voglio dire in città, hanno detto, cioè, il locandiere, un uomo calvo...» «Jonni.» «Sì, proprio così. Jonni. Mi ha detto...» Si interruppe. «Che un...» «Che un Assassino viveva qui.» Lui trattenne il fiato a quella parola. «Sì. Un membro... un membro della Gilda Rossa. Sì.» «Io sono un Assassino» disse Cori. L'uomo la fissò. Era un tipo alto e massiccio, questo mercante con i suoi abiti di raso giallo con strisce di velluto rosa e porpora. Sovrastava l'esile ragazza di più di tutta la testa e probabilmente pesava un buon terzo più di lei. Avrebbe potuto abbatterla con una sola spinta; o così sembrava. «Non sapevo che la Gilda prendesse, uh...» La sua voce si spense di nuovo. «Prendesse donne?» Un sorriso giocava sulle sue labbra carnose. «Prendesse ragazzine.» Cori gli sorrise a sua volta. «La Gilda prende quello che le appartiene. Prego, si accomodi dentro.» Lo guidò lungo lo stretto corridoio centrale della casa, con le sue scarpette nere silenziose sul pavimento di mattonelle e gli stivali lavorati di lui stranamente tintinnanti alle sue spalle, fino ad una stanza ampia, dal soffitto alto, piena di luce e di fresca brezza che entrava da grandi finestre doppie senza tende rivolte verso i campi aperti. Appoggiati ad una parete c'erano diversi quadri, scuri e astratti. Cori stava decidendo se gliene piaceva qualcuno abbastanza da appenderlo, quando avevano bussato alla porta. A parte i quadri la stanza conteneva solo due cuscini rossi piatti disposti ai due lati opposti di un disco di ottone al centro del pavimento di pietra, con incisi i segni della Terra. Cori si sedette a gambe incrociate, la schiena assurdamente diritta anche per lei; represse un sorriso quando il grosso mercante sedette a terra sbuffando. «Il mio nome è Morin» disse. «Morin Jay. Conosce la città di Sorai? Vicino al mare?» Cori annuì. «Sono dieci anni che vivo là. È un buon posto per un mercante. Sa, occasioni per il commercio marittimo. Ma non è troppo affollata. Questo è importante per gli affari.» «Signor Morin, perché vuole un Assassino?» «Sì, sì, ma lei dovrebbe conoscere i precedenti.» La luce del sole sul suo
viso mostrava il suo pallore. Cori lo immaginò seduto tutto il giorno davanti ai suoi registri, a tormentare impiegati anche più pallidi. «Sono arrivato a Sorai con abbastanza denaro... dalla mia famiglia, ero il terzo figlio.» «Signor Morin, per piacere.» «Oh. Sì. Dunque, ho organizzato una carovana... all'inizio non potevo permettermi delle navi, così ho comprato un carico e comunque, il Dio Giallo ha sfiorato i miei cammelli, come dicono, e anche le mie navi quando me le sono potute permettere, ed ora mi trovo, be', in una posizione non sicura, ma comoda e che posso rafforzare. Ma non è sicura. Ho bisogno di espandermi, ho bisogno di mantenere i miei investimenti costantemente in circolo.» Cori immaginò una fila di sacchetti di denaro che facevano il girotondo. «Al Dio Giallo non piace il denaro fermo nei sotterranei, sa.» Cori sospirò. Cominciava a suonare come il genere di offerta che ogni Assassino odia, quando senti che dovresti dire di no, ma ti trovi a sperare che qualcosa lo giustifichi. «Vediamo se la posso aiutare. Un mercante rivale ha attaccato le sue operazioni e lei non ha altra scelta che eliminarlo.» «Un rivale?» disse lui. «Per l'amor di dio, lei crede che io ingaggerei...» Deglutì. «No, è molto diverso. Non è un rivale. È un drago.» Cori sgranò gli occhi suo malgrado. Una volta i draghi oscuravano il cielo, ma si trattava di molto tempo fa, prima che il Dio Vuoto portasse con sé molti dei suoi servitori nel Mondo di Fumo. L'ultima uccisione di un drago, l'unica di cui Cori sapesse con certezza, c'era stata più di venti anni prima che lei entrasse nella Gilda. Si immaginò un mostro scaglioso steso davanti a lei, immaginò il suo marchio inciso a fuoco nel suo ventre, immaginò la fila di membri della Gilda che gridavano il suo nome mentre lei entrava disinvoltamente nel grande Palazzo della Città di Cristallo per annunciare formalmente l'uccisione. Il sospiro di Morin Jay la riportò alla realtà. «Mi dispiace. Avrei dovuto rendermi conto che era troppo... troppo ambizioso per una ragazza.» Fece per alzarsi. La stretta di Cori lo bloccò come se fosse una bambolina di carta. «La prego, vada avanti, signor Morin» disse lei, e lo spinse giù a sedere. «A che scopo? Senta, signorina...» «Coriia. Niente signorina. Agli Assassini è proibito qualsiasi titolo.» «Coriia, allora. Non intendo offenderla, davvero. Dio solo sa che non insulterei mai un membro della Gilda, perfino...»
«Perfino una ragazza, sì. Non si preoccupi, signor Morin, gli assassini non si arrabbiano mai.» «Ma veramente, una cosa del genere...» Fece un gesto. «Un drago.» «Lei crede che la Gilda mi riconoscerebbe se non potessi risolvere qualsiasi incarico io accetti?» Il sudore colava lungo le guance del mercante. «Non so nemmeno se lei è riconosciuta dalla Gilda. Forse quel locandiere mi ha fatto uno scherzo.» Un movimento fulmineo dell'indice e il pollice strappò via la sciarpa che copriva la testa e il collo di Coriia. Gli occhi del mercante videro prima i capelli rossi, tagliati più corti di quanto qualsiasi ragazza normale potesse mai immaginare; e poi si spostarono in basso all'incavo della gola, dove scintillava il marchio, rosso e liquido come una ferita fresca. Una croce a spirale, con i bracci ripiegati in senso orario. Mentre il mercante la fissava, il simbolo sembrava girare, come la ruota del sole di un meditatore. «Signor Morin» disse Cori, usando appena un accenno della voce, abbastanza da costringere all'obbedienza, «prenda il coltello nascosto nella sua borsa. Me lo tiri contro.» Morin non chiese come avesse fatto a sapere che la lama ingioiellata era là. I suoi occhi rimasero fissi sul segno mentre armeggiava nella borsa, trovava il coltello, e con molta più rapidità e precisione di quanto Cori si aspettasse glielo lanciava verso la gola. Il polso destro di lei scattò; la sciarpa, con la sua sottilissima striscia di "metallo diamantato" cucita sul bordo esterno, saettò come un lampo; le due metà del coltello tintinnarono contro la parete. «Sono un Assassino?» chiese. Di nuovo lui la sorprese. Sudando, sussurrò: «Ci vuole più di una mano veloce ed una sciarpa-coltello per uccidere un drago.» «Sì» disse lei. «Sì, è così.» Il simbolo girava di nuovo, stavolta lentamente, e mentre il mercante lo fissava, la sua faccia si disfece e cominciò a gemere. Cori sapeva cosa stava vedendo. L'immagine si sarebbe allargata, riempiendo la stanza; e lui sarebbe rimpicciolito fino ad un puntolino, un frammento piccolissimo davanti ad una nuvola. L'oscurità l'avrebbe permeato, un'invasione di freddo assoluto, rallentando il sangue che fluiva nel suo corpo. Cori conosceva questa sensazione. Il suo maestro, l'aveva usata per riportarla indietro quella volta che aveva tentato di fuggire via dalla Gilda. A Morin Jay sarebbe sembrato come se il più piccolo rumore, o un respiro, o il grattare di un'unghia su una coscia l'avrebbe ridotto in pezzi come una bolla di ghiaccio. All'improvviso finì. Il mercante era di nuovo seduto su un cuscino piatto
di fronte ad una ragazza giovane, dal volto innocente come la primavera, la testa e la gola coperte da una sottile sciarpa verde. Lei annuì, reprimendo un sorriso che le tirava gli angoli della bocca. «Mi racconti del suo drago» disse. Viaggiarono per Sorai separatamente. Morin Jay in carrozza lungo la strada costiera, Cori a piedi, correndo col "passo involontario". Qualcuno, non un membro della Gilda, aveva descritto quel passo come assorbire energia dalla Terra. Non era nulla del genere. Invece era lei a lasciare che la Terra la permeasse e la spingesse, una mano che muoveva un fantoccio. Era bello, la spinta dei muscoli, il battito delle sue scarpette sulla polvere e sulle rocce delle basse colline che portavano al mare, i cambiamenti di luce e temperatura quando grigie nuvole marine passavano sul sole, il ricco profumo di tarda primavera. Quando Cori l'aveva imparato, il passo aveva richiesto una mente completamente libera da ogni pensiero. Ora conosceva lo stratagemma successivo di sperimentare pensiero senza volontà. Non diretta, la sua mente si riempiva di ricordi. Riaffiorarono i ricordi di quando aveva portato a termine la sua prima "esecuzione" e della disperazione che ne era seguita: il mare, quando si era messa a nuotare nella tempesta, sperando di annegare, solo per scoprire il suo desiderio di vivere più forte della vergogna, o dell'orrore per quello che era. Il palazzo della Gilda nella capitale, con le sedie marroni disadorne e il meraviglioso vino. E Sorai, con le sue strade ripide e le case dipinte di bianco. Pensò anche allo strano nemico di Morin Jay. La casa che il mercante aveva comprato per sé fuori da Sorai si trovava su una zona di terreno che ospitava anche i resti di un vecchio castello o una città fortificata. Nessuno conosceva veramente la sua funzione, ma la strana architettura, le pietre stranamente conformate e colorate suggerivano il rifugio di qualche antico mago. Molto antico. Innocuo. Vuoto da sempre. Così avevano detto. Morin, il mercante, viveva in quel luogo da tre anni, organizzando la sua attività, quando una notte, mentre si trovava in ufficio a guardare una piccola flotta di sue navi veleggiare verso i moli di Sorai, aveva udito un rumore come di tempesta. Un attimo più tardi, con suo stupore e terrore, un drago, un vero rettile alato più lungo di qualsiasi nave (Cori calcolò un considerevole ingigantimento a causa della paura), era piombato sulla flotta, fracassando la nave ammiraglia ed abbattendo gli alberi maestri delle
altre, così che una nave era affondata e le altre erano a malapena arrivate al porto. Miracolosamente nessuno era rimasto ucciso, ma metà del carico era sprofondato in mare. Nei due anni seguenti il drago aveva attaccato altre tre volte; le ultime due, comunque, soltanto a due settimane di distanza l'una dall'altra. Si comportava sempre nello stesso modo: navi, carovane e magazzini distrutti, ma mai gli uomini e le donne che vi badavano. Era Morin Jay l'obiettivo, anche se la bestia non attaccava mai né lui né la sua casa. Da un mago pagato carissimo il mercante aveva appreso che la creatura viveva nella vecchia città in rovina, forse come guardiano degli antichi defunti. In qualche modo Morin lo aveva fatto adirare, forse soltanto col fatto di abitare là, e solo la morte poteva salvarlo. Trasferirsi non avrebbe risolto nulla, aveva detto il mago; i draghi inferociti non cambiano mai idea. Dopo due inutili tentativi di uccidere la creatura, il mago aveva ammesso che gli incantesimi che proteggevano le rovine erano al di là della sua comprensione. Di uno stile fuori uso. Quando aveva incassato la parcella - Morin Jay aveva provato a contrattare sul prezzo, ma un demone vendicativo era già un guaio sufficiente - il mago gli aveva dato un consiglio: «Se lo vuoi morto, ingaggia uno specialista.» Cori dormì una notte all'aperto, sdraiata su una roccia. Non c'era bisogno di un riparo. Sapeva che non sarebbe piovuto (gliel'aveva "detto" la terra) ed anche nel sonno i riflessi di un Assassino erano almeno pari a quella di una bestia o un bandito. Arrivò a Sorai la sera seguente, solo cinque ore dopo la carrozza di Morin Jay. Cori era stata a Sorai altre due volte, e tutt'e due le volte l'aveva trovata affascinante con le sue strade gradinate, i suoi mercati di gioielli all'aperto che attiravano mercanti e ladri da centinaia di miglia lontano, le bande girovaghe di bambini canfori (metà dei quali borsaioli), e la densa birra scura. Ma in quelle occasioni era andata travestita, prima come un Libero Messaggero, poi come un'aristocratica che osserva la gente comune. Questa volta, quando Cori si trovò nella piazza centrale, con i banchi vuoti del mercato chiuso e le file di grottesche statue che decoravano le entrate dei palazzi delle Gilde, questa volta indossava "l'uniforme" della sua professione: pantaloni neri, scarpette di cuoio morbido (orlate, come la sciarpa, di una striscia di lana diamante), camicia verde scuro con una borsetta di cuoio rosso legata alla vita, e la sciarpa che le copriva il suo Marchio. Un costume abbastanza semplice, ma che veniva riconosciuto imme-
diatamente. Al suo passaggio il traffico si fermò. Alcuni restavano a guardare, altri si precipitavano dentro i palazzi delle gilde (che avrebbero detto, si chiese, se la sua gilda avesse chiesto di aprire una sede qui?). Due ragazzini continuarono ad avanzare, sbirciandosi a vicenda come se ciascuno sperasse che l'altro si fermasse per primo. Incrociando le braccia Cori li guardò dall'alto in basso e i due tornarono di corsa tra gli adulti fermi contro i palazzi. Nella folla una bambina disse: «Mamma, perché tutti guardano? Voglio vedere anch'io.» La madre chiuse la bocca della bambina con una mano, e quasi la soffocò quando questa si mise a piangere. Cori vedeva la donna fissare un vicolo che conduceva via dalla piazza. «Oh, la lasci stare», disse Cori ad alta voce. «Non la mangio di certo.» Con un singhiozzo la donna afferrò la bambina piangente e corse verso il vicolo. Un uomo gridò: «Tornatene al tuo posto!» Cori scrollò le spalle. E dove diavolo si trovava? Osservò la piazza tutt'intorno. Da un lato il sole al tramonto illuminava le targhe dorate delle diverse gilde. Tutto il resto era nell'ombra. Vicino a lei c'erano i tavoli e le sedie di un caffè all'aperto. Di solito, lei lo sapeva, la gente lo affollava dopo la chiusura del mercato per discutere e bere, i mercanti per vantarsi dei loro affari, gli artisti per ritrarre le statue o la folla, i borsaioli con un occhio ai loro clienti e l'altro ai camerieri, che facevano anche da polizia del mercato. Ora le sedie erano vuote, i tavoli spogli a parte qualche bevanda abbandonata. Cori si avvicinò e sedette. Alzò un sopracciglio ai robusti camerieri allineati sulla porta del caffè. «Avete una cliente» disse loro. «Perché non vedete cosa vuole?» «Noi non serviamo assassini» disse uno di loro. Cori gli sorrise. «Mi avete servito abbastanza sollecitamente lo scorso inverno, quando sono venuta con abiti diversi. Se ben ricordo... sì, non eri tu quello che aveva suggerito che io servissi te sotto il Vallo Marino?» Qualcuno sorrise; qualcun altro si unì al cameriere quando questo protestò: «Ma è una bugia. Non l'ho mai vista in vita mia.» Un cameriere più anziano gli batté una mano sulla schiena. «Lascia stare, Jom» disse. «Ci hai provato con talmente tante che puoi benissimo contare un Assassino nella tua collezione.» Si avvicinò a Cori. «Che cosa le posso servire?» chiese. «Birra. Un boccale doppio. E da bere gratis per chiunque voglia unirsi a me.» Un'offerta scomoda; nessuno sedette. Cori sorseggiò la sua birra
mentre la folla cominciava a calmarsi. Li guardò scivolare via pensando a come le cose non cambiassero mai. Nelle città più grandi la gente poteva mostrare un po' più di naturalezza, ma dietro ogni paio di occhi disinvolti c'era lo stesso pensiero scritto con tanta evidenza sulle facce spaventate: è venuta per me, qualcuno l'ha ingaggiata per uccidere me. Erano andati via quasi tutti quando un bambino le tirò un sasso. Cori lo prese con una mano, poggiando giù la birra dall'altra. Si era alzata a metà ed aveva levato il braccio, nell'atto di dare uno schiaffo, quando la ragione ebbe il sopravvento. Si sedette pesantemente. Idiota, si disse, rimproverandosi, sei venuta per un drago, vuoi consumare il fuoco con un marmocchio? Tremando leggermente fece cadere qualche moneta e lasciò la piazza. Anche se non doveva vedere Morin Jay fino al giorno seguente, non aveva voglia di imporre la sua presenza a qualche taverniere tremante. Si diresse verso il Vallo Marino, ancora turbata per la furia che l'aveva percorsa. L'ira era la cosa peggiore che può capitare ad un Assassino. L'aveva dominata per tutti gli anni che aveva passato ad addestrarsi, allenarsi, imparare a controllare il fuoco e non lasciarlo andare finché non avesse trovato il bersaglio giusto. Se la lasciava scatenare al minimo insulto allora meritava tutte le cose che quei pomposi stupidi pensavano di lei. Forse me le merito in ogni caso, pensò. Forse le meritiamo tutti. "Scegli il bersaglio giusto". Cosa gliene dava il diritto? Sospirò. La necessità. E non era meglio un drago che un bambino? Salì i gradini di pietra del Vallo, fermandosi un attimo a guardare attraverso le sbarre di una cella. Il Vallo, che correva per diverse miglia lungo la costa proteggendo le varie città e province dalle tempeste e dai pirati, conteneva gallerie di celle. Nella piccola stanza l'unica reclusa alzò gli occhi con curiosità verso il viso che la stava osservando. Non aveva riconosciuto cos'era Cori, o forse non le importava, perché un momento dopo si lasciava di nuovo cadere sul suo giaciglio con i gomiti appoggiati sulle ginocchia. In cima alle scale Cori mise piede sulla larga superficie erbosa. Sulla destra un solitario posto di guardia spandeva la sua gialla luce magica sul mare. Cori camminò dalla parte opposta per poche centinaia di piedi e sedette. Il mare lambiva nervosamente le mura ripide. Come qualcuno che stesse cercando di aprirsi un varco, pensò lei. In pochi minuti gli spruzzi freddi la ricoprirono, bagnandola fin sotto gli abiti. A lei non importava. Guardava
le onde attraverso le palpebre socchiuse, le mani intorno alle ginocchia, ricordando la volta in cui si era immersa un miglio sott'acqua per squarciare il fondo di una nave fantasma. Che bell'esecuzione era stata quella. Il fuoco era scaturito da lei con forza bastante per sciogliere le barre di ghiaccio che intrappolavano la nave. Ricordò come era giunta a riva un po' nuotando, un po' galleggiando. Così vuota. Così leggera. E ricordò gli applausi degli abitanti del villaggio, che l'avevano sollevata dall'acqua ed avvolta in coperte di pelliccia. Che differenza da Sorai. Oppure no? Aveva fatto un lavoro per loro, ma come l'avrebbero accolta ora se fosse tornata anche solo per una visita? Pensò a Laani, che le aveva parlato quella prima notte nel Palazzo della Gilda. Era appena arrivata, sporca e isterica, gridava ogni volta che qualcuno le si avvicinava. Solo molto più tardi aveva scoperto quanto la sua paura e la sua rabbia rappresentassero un pericolo per chiunque si trovasse là. Poi, tutto quel che aveva desiderato era sua madre. Laani, non molto più vecchia di Cori, era riuscita ad afferrarle le braccia convulse e a bloccarla con le ginocchia le gambe scalcitanti. «Dimentica i tuoi genitori» aveva ripetuto a Cori più e più volte. «Ora siamo noi la tua famiglia. Nessun'altro che noi. Nessuno.» Istintivamente, Cori si mise a respirare con le onde, seguendo il ritmo della Luna che si nascondeva sotto la loro frenesia provocata dal vento. Il suo corpo oscillò mentre chiudeva gli occhi e inspirava l'acqua scura, espirava tutti i suoi ricordi, le esecuzioni, la solitudine. Dentro e fuori, alzandosi e abbassandosi. Avrebbe potuto aprirsi come i fiori di carta nella Città di Cristallo, lasciare che il mare entrasse dentro di lei e la portasse via finché non restassero altro che le onde, a sollevarsi e spegnersi per sempre. Con un grido acuto Cori si riscosse. Si alzò e si strofinò le braccia. Cosa le stava succedendo? Prima si era infuriata con uno sconosciuto marmocchio, ora era quasi giunta ad esaurire il fuoco nel mare. Era spaventata? Del drago? Forse era solo stanca. Stufa di tutto. Cominciò a camminare lungo la strada fangosa che formava la sommità del Vallo. Che sarebbe successo se si fosse lasciata andare in quel modo? Con il fuoco così intenso. Probabilmente sarebbe bruciata tutta la città. Quel che si meritano, pensò amaramente. Ancora un ricordo. Accoccolata sul pavimento di pietra in un angolo della cucina dei suoi genitori, con il vestito strappato e sporco di sangue, gli orecchi tormentati dai singhiozzi di sua madre, i gemiti e i lamenti di suo padre, le grida del padre ed i fratelli di Rann, e della folla che tirava
sassi contro i muri e le imposte di legno chiuse. E poi il silenzio. Era cominciato fuori dalla casa e si era diffuso all'interno, ammutolendo perfino sua madre, quando loro erano apparsi sulla porta, in tre, all'apparenza né uomini né donne nonostante le loro camicie aderenti. Disarmati, silenziosi, l'avevano condotta attraverso la folla inferocita, e perfino il padre di Rann non aveva osato tirare la pietra che teneva stretta forte in mano. «Ora la tua famiglia siamo noi. Nessun'altro che noi.» «Rann» sussurrò Cori e socchiuse gli occhi nella notte umida come se il mare potesse rigettarle il suo corpo carbonizzato. Ricominciò a camminare, e si fermò quando vide un'altro avamposto di guardia. Non voglio far prendere uno spavento a quel povero ragazzo, pensò. Tanto bagnata da non sentire la differenza tra l'aria e il terreno, si sdraiò sulla strada. Madre Terra, pensò, quando mi lascerai andare? 2 Morin Jay viveva in una casa turrita con troppe stanze. Un servo l'accolse alla porta. Nonostante la sua camicia larga ed i pantaloni sbuffanti, il costume di uno Hrelltano di medio rango, l'accento dell'uomo tradiva le sue origini locali. La guidò per un lungo corridoio fino ad una grande camera con vista sul mare. Cori guardò i dipinti nelle loro cornici d'oro (costosi, ma lei non li avrebbe mai appesi), la lunga scrivania coperta di simboli del Dio Giallo, il delicato tappeto rosso e dorato davanti alla scrivania, e pensò che il dio aveva favorito Morin Jay più di quanto lui non volesse ammettere. Il mercante si alzò, tese le mani educatamente, e poi le lasciò cadere vedendo che Cori rimaneva immobile. Le offrì una stanza nella sua casa; lei disse che preferiva fare campo all'aperto. Propose vagamente di pranzare; lei suggerì di andare a vedere le rovine del castello. Chiaramente sollevato di non doverla intrattenere, Morin congedò il suo servo (anche più sollevato di lui) e la guidò fuori dalla casa. L'antica città del drago (o castello, o terreno incantato) copriva la sommità piatta di una collina un po' più alta di quella della casa di Morin. Anche se la strada a tornanti non era ripida, presto Cori si trovò ad avanzare con fatica, quasi senza fiato come Morin Jay, che ansimava ad ogni passo. Una barriera all'entrata, pensò, probabilmente molto forte una volta. Ma quando si trovò ad oltrepassarla per collegare le sue terminazioni nervose alla Terra scoprì una barriera molto diversa. Per la prima volta in anni non
riuscì a penetrare con la mente attraverso i sentieri fra le rocce verso quell'infinita fonte di energia. Sentiva una specie di febbre, una malattia nella terra stessa. «Cosa c'è che non va?» chiese Morin. «Dobbiamo tornare indietro?» «Zitto.» Il panico la scuoteva come un bambino che non riesce a trovare la madre. Panico, ed un folle bisogno di colpire al viso Morin Jay, poi di aprirgli il ventre con le sue unghie affilate ed indurite. Calma, ordinò a se stessa. Il ricordo di quello che aveva fatto la Gilda a Jabob, "l'uccisore di cliente", l'aiutò ad alleviare la tensione dagli occhi e dalla bocca, poi guidò la calma nel suo corpo giù fino alle dita delle mani e dei piedi. «Andiamo» disse, e si incamminò su per la collina. Morin la seguì ansimando. Cori non aveva mai visto rovine come quelle. La costruzione o le costruzioni dovevano essere state costruite con qualche roccia artificiale, se una cosa del genere poteva esistere, perché lei non sapeva di nessuna tecnica per scolpire la pietra in spirali così aggraziate o a punti così piccoli e regolari. E nessuno era capace di dipingere la pietra con colori così vividi e delicati. C'era pietrisco dappertutto, dai sassolini a blocchi senza forma di "roccia" scheggiata, alcuni grandi e tondeggianti come un cavallo addormentato. Cori raccolse qualche piccolo frammento, trovandolo freddo, più liscio di quanto l'apparenza granulosa suggeriva, e sorprendentemente pesante. Guardò un sasso piuttosto piatto più piccolo del palmo della sua mano, e si sorprese a pensare come potesse spaccare con quella pietra il cranio di Morin Jay. Tremando, lo gettò alle sue spalle. Anche se non c'erano più costruzioni complete, diversi pezzi di strutture si alzavano dal suolo come piante. Una, una specie di labirinto verticale, cominciava come una sottile torre, poi incredibilmente si arricciava su se stessa. Cori fu presa dalle vertigini nel tentativo di seguire con gli occhi tutte le volute della "pietra". Al centro delle rovine Cori trovò una specie di pozzo, un cunicolo di lucida pietra blu scuro dal diametro di circa quattro piedi, con il bordo sbrecciato poco più in alto della sua testa. Trovò un punto liscio e vi montò a sedere per guardare dentro. Ancora una volta le vennero le vertigini; riuscì a vedere un profondo cunicolo di un'oscurità opaca con un puntino luminoso nella profondità della collina. Le sue dita si aprirono e lei cadde pesantemente sul suolo roccioso. Morin si chinò su di lei. «Che cos'era? Ha visto qualcosa?» Lei lo ignorò, cercando di ignorare anche il bisogno di correre via dalla collina. Cos'era questo posto? A cosa serviva? Cori sospirò. Al suo cliente
disse: «Dove si nasconde esattamente questo suo drago quando non si mette a distruggere le cose?» Si aspettava una caverna, una costruzione abbastanza grande da fungere come tale. «Non lo so» bisbigliò Morin, ed aggiunse stupidamente, «Mi dispiace.» «Cosa vuol dire? Lei mi ha detto che veniva da... da questo posto. Ebbene, da dove?» «Ma è tutto quello che so. Il mago...» «Il costoso maestro di saggezza.» «Mi ha detto che viveva qui... da qualche parte... ma è tutto quello che ha detto.» Cori fece una smorfia. Più tardi, senza questo vistoso sciocco, avrebbe dovuto perlustrare tutta la zona. Si rimise in cammino verso la strada, col suo cliente che si affrettava dietro. Avevano appena oltrepassato le rovine quando Cori sentì il suolo tremare, e poi la terra stessa sembrò ridursi in pezzi, aprirsi come uno schermo di stoffa. «Corri!» urlò, e si slanciò giù per la collina. Il dolore entrava in lei attraverso i piedi, con un rumore di roccia scricchiolante. Cadde, fece per rialzarsi e cadde di nuovo prima di riuscirsi a liberare dall'agonia della terra. Ora il suolo si stava sollevando, ed anche Morin Jay riusciva a sentire il terrore. «Non posso muovermi» gridò. «Aiuto!» Cori si fermò, imprecò contro tutti i clienti, e corse indietro per sollevarlo e gettarselo su una spalla. «La smetta di agitarsi, stupido scimmione» gridò. Un rumore. Un'esplosione che all'improvviso si trasformò in un suono acutissimo, per riabbassarsi nel tono di un ruggito tremante. Cori si girò a guardare al di sopra della spalla libera: ciò che vide provocò in lei un sussulto che la fece cadere seduta con un tonfo, lasciando cadere Morin accanto a lei. In cima alla collina le rovine scintillavano come fumo scolpito, poi svanirono all'improvviso. Al loro posto una bestia con le scaglie verdi più spesse del rivestimento di una nave, una lingua gialla più lunga e spessa di un cobra che sgusciava fuori da una cancellata di zanne, occhi scuri sporgenti in una testa che era tutta di pietra. Quattro ali si schiusero ricoprendo tutto il cielo, e poi la più grossa creatura che Cori avesse mai visto si alzò nell'aria con la grazia di un gabbiano. Tre volte girò in tondo sopra le loro teste, mentre Morin urlava. Cori gli stava accanto in piedi, osservando il ventre duro come granito ed il rostro rosso scuro massiccio come l'ariete che i sottodemoni usano contro il cielo.
Finalmente volò via verso il mare. Quando Cori riuscì a respirare di nuovo, le grida di Morin erano diventate lamenti. L'Assassina guardò in direzione della cima della collina. Le rovine erano di nuovo là, immobili e silenziose. I suoi sensi penetrarono nella Terra con cautela. Non c'era alcuna barriera a fermarla, nessun rumore o sofferenza, soltanto qualcosa di escoriato. Più tardi giunsero notizie, tramite corriere, che il drago aveva attaccato un magazzino di grano ai margini della città, abbattendo le costruzioni e sparpagliando con le sue ali il grano già venduto. Alla perdita di Morin si aggiunse il costo di placare i suoi operai terrorizzati e la città in generale con regali costosi e promesse di provvedimenti. «Lei deve far qualcosa» disse adirato a Cori che sedeva a gambe incrociate in un angolo del suo studio. «L'ho già fatto» rispose lei. «Le ho salvato la vita.» Non era sicura che fosse così, ma suonava bene. «Non è abbastanza. Voglio dire... oh, lo sa cosa intendo.» «È molto selettivo, questo suo drago.» Morin la guardò socchiudendo gli occhi. «Che sta cercando di dire?» «Ha attaccato sei volte senza mai uccidere nessuno.» «Dov'è la differenza? Ha distrutto abbastanza proprietà.» Cori si alzò. «È un piacere lavorare per lei, signor Morin.» «Lei è spaventosamente altezzosa» le gridò lui dietro. «Non ho mai visto un assassino che si preoccupa così della vita.» Corse nel corridoio per gridarle alle spalle: «È meglio se fa qualcosa per fermare quella bestia, mi ha sentito? Oppure lo notificherò alla sua gilda. Assassina! Omicida!» Cori si preparò un piccolo rifugio fra un gruppo di alberi distanti circa un miglio dalla collina del drago. Là si sedette a lavorare. Almeno, pensò, non dovrò perdere i miei pomeriggi in cerca di funghi e bacche, o qualunque schifoso cibo cresca da queste parti. Per il tipo di lavoro che doveva fare, il primo passo era un digiuno. Ci sono prede che si uccidono col corpo, quell'arma perfettamente addestrata. Altre si uccidono con la morte, cercando in loro per districare il nucleo di energia che anima la carne. In tutti e due i modi al momento dell'uccisione si da sfogo al fuoco, e ci si perde in quella terribile estasi. Ma ci sono delle creature che soltanto il fuoco stesso può uccidere. Per lo-
ro, questa forza deve essere alimentata, accumulata fino a quando non si può dirigerla: una saetta incandescente sottile come un ago ma con la forza di un vulcano. Cori digiunò, senza nemmeno toccare acqua per giorni; in qualche modo il fuoco aumentava negando al corpo le più normali necessità. Digiuno e concentrazione. Aveva bisogno di raggiungere quell'uragano che si addensava nel suo grembo, raccoglierlo e riuscire a controllarlo. Fu presa dalla ripugnanza, che le fece prima desiderare di correre come se potesse fuggire via da quella cosa dentro di lei, e poi di sventrarsi per poter rovesciare quella sporcizia fuori di sé. Guadagnò il controllo su quell'orrore, usando l'energia avvolta intorno alla ripugnanza per aumentare la sua concentrazione. Linnon, la prima persona a dominare il fuoco, aveva descritto sette gradini verso la vittoria. Gli ultimi due, rifiuto e vuoto, comprendevano l'effettiva dissoluzione della maledizione, come sciogliere un nodo del quale ogni filo era fiamma. Cori non sapeva se avrebbe mai acquisito la conoscenza di quegli ultimi gradini verso la libertà «provare era molto pericoloso, non solo per lei ma per tutto il terreno che la circondava» ma sapeva dal suo addestramento di poter raggiungere il quinto livello: direzione. Dal primo livello, attenzione, passò, tre giorni dopo, all'empatia, rivivendo le morti di tutte le sue prede. Dalla nave fantasma e il contadino pazzo che andava in giro mutilando ogni ragazza che somigliava alla figlia fuggita, tornò indietro fino alla prima esecuzione "sicura" scelta per lei dalla Gilda, una vecchia donna malata che il figlio medico non voleva lasciar morire, e continuava a somministrarle a forza inutili medicine. La donna aveva voluto morire, l'aveva ingaggiata, ma anche così, il disgusto era rimasto dentro Cori per una settimana. Ed ora si risvegliava dentro di lei, solo per essere trascinato via mentre il ricordo andava ancora più indietro, a Rann. La paura cercò di scuoterla dalla sua concentrazione; lei sedeva immobile con gli occhi semichiusi e le mani poggiate sul terreno duro, così la fece assorbire dalla Terra. Poi venne la febbre, il corpo trasformato in fango oleoso, la mente assalita da allucinazioni. Si vide circondata dalla Gilda, guidata da Morin Jay che rideva, mentre i suoi amici ed insegnanti le sputavano addosso, la prendevano a calci. E poi si trasformavano in demoni che le strappavano con gli artigli la pelle del viso e del ventre. Morin Jay sorrideva, il suo viso era una maschera. (Una maschera? Il pensiero scivolò via con un'ondata di paura). Cori si erse come una roccia con la sola punta che esce dal suolo,
mentre la massa resta invulnerabile, radicata a fondo nella Terra. Contro quella roccia la febbre fu ridotta in pezzi. Ed il fuoco crebbe. Alla fine venne lo stadio più pericoloso: l'oblio. La conoscenza in se stessa, del suo scopo, si dissolse soffiata via come lanugine al vento, ed ogni volta che la riafferrava di lei restava sempre meno. Il bisogno di ricordare diventava sempre meno reale, sempre più un'illusione che alla fine scivolava via. Le offriva pace. Lascia andare. Hai raggiunto il vuoto. Lascia andare. È solo la mente conscia, dopotutto, solo una maschera. Toglila. In silenzio ripeté il suo vero nome, Coriia, all'infinito, e quando le sillabe minacciarono di diventare una cantilena senza significato lei scolpì il suo viso nel mondo, sulle rocce, sugli alberi, sulla luna e sotto il mare. Quando il suo viso divenne solo linee e macchie senza senso, Coriia si immaginò nuda, scoperta fino alla sua vera essenza, quella che non può mai essere dissolta o soffiata via. Immobile, più reale dell'universo. E quando ebbe superato l'oblio Cori si gettò nel fuoco. Lo prese, lo compresse in una palla, poi la plasmò e l'allungò fino a formare una frusta, un filo. Nell'ottavo giorno del suo digiuno Cori si alzò, sentendo la sua massa più grande della stessa Terra, più' leggera del vento. Si voltò verso la collina, ed il fuoco saettò fuori dai suoi occhi. La roccia sembrava come una spugna con migliaia di buchi nei quali il fuoco poteva entrare. E sondare; e premere. Là, al centro verso quella spessa massa verde. Cori spinse, e il fuoco rimbalzò verso di lei. All'improvviso un ruggito di rabbia e dolore la scosse. Spinse ancora. Un'altro ruggito, un grido. Come una creatura sepolta nel fango e svegliata di colpo, il drago si alzò nell'aria, urlando e mordendosi le ali. Cori lo imprigionò, usando parte del fuoco per fare una barriera. La creatura si dibatteva e scalciava e batteva la testa contro il suolo. Per un attimo Cori vacillò. Il rumore era ciecamente bello come un uragano. Le sue mani si aprivano e chiudevano, il sudore la inondava, il segno sulla sua gola si fece freddo come la morte. Gli occhi del drago indugiavano su di lei, chiedendo sollievo. Con un grido Cori strinse attorno a lui la barriera. Apparve il Marchio con le braccia ripiegate che ruotavano davanti agli occhi del drago dovunque si girasse. Passandolo attraverso il centro immobile della croce Cori affondò il fuoco fra gli occhi del drago, scandagliando tra i complicati flussi dell'essere in cerca dell'immagine che for-
mava la vera essenza del drago. Quando l'avrebbe trovata avrebbe ucciso. Bruciato uno strato dopo l'altro, finalmente vide la piccola immagine, come un gioiello cesellato. Il fuoco si scatenò... No! Cori cercò disperatamente di richiamarlo indietro, mandarlo da qualche altra parte, dovunque. Perché quello che aveva visto non era una bestia ma un uomo nudo incatenato. Ed in quel momento sentì la risata della cosa che si era fatta chiamare Morin Jay. Selvaggiamente Cori allontanò il fuoco; le era rimasto un solo istante prima che sfuggisse per abbattersi nei dintorni, raccogliendo energia da ogni cosa viva che avesse incontrato sul suo cammino. Scagliò il fuoco su Morin Jay, ma fu respinto da una barriera mentale più potente di quanto avesse mai creduto possibile. Non c'era tempo. Si barricò meglio che poteva, poi richiamò indietro il fuoco. Luce. Accecante, migliaia di colori, tutte le cellule del suo corpo bruciavano di luce. La sua mente scoppiò di grida, rabbia, agonie di odio. Mille anni di dolore passarono in un attimo, un'onda dopo l'altra di fuoco accecante «fino a che la terra ebbe pietà di lei e l'oscurità, benedetta oscurità vuota, spazzò tutto via.» 3 Il cielo nebbioso, azzurro grigiastro, come una mattina d'estate che stava decidendo se essere limpida o nuvolosa. Sussurri: foglie? persone? forse le rocce ed i sassolini le stavano parlando. Quando si sforzò di ascoltare, il suono diminuì. Si rese conto che era distesa supina, nuda. Su cosa? Tastò con la mano da un lato. Qualcosa faceva resistenza, qualcosa di scuro come terra battuta o pietra; ma perché non riusciva a sentirlo? Si toccò le cosce ed il ventre nudi «solidi, troppo lisci, troppo duri e freddi. Emise un piccolo suono di spavento.» «Sei sveglia. Salve» disse... cosa? Cori girò la testa e per un attimo vide un grande, scoglioso... No, era un uomo, spalle larghe e braccia terribilmente pallide incrociate sul petto, un viso sorridente un po' appuntito con il mento liscio, il naso affilato, ed occhi rotondi molto belli. Capelli biondi e ricciuti gli cadevano in disordine quasi fino sulle spalle. Nudo, era accoccolato sui talloni, le ginocchia alzate che nascondevano i suoi genitali (un ariete rosso?).
«Cos'è successo alle tue catene?» chiese Cori, con tono incolore. Lui emise qualcosa a metà strada tra la risata e il grugnito. «Sono qui tutt'intorno.» Cori si guardò intorno stupidamente, poi cercò di alzarsi ma ricadde giù, incredibilmente debole. «Rilassati» disse lui. «Sei stata incosciente e addormentata per molto tempo.» Infuriata per la sua debolezza e dipendenza (un Assassino non ha bisogno di niente da nessuno), lei chiese: «Dove diavolo sono?» «Nel nulla.» «Sembra un titolo.» «Perché no? È un nome buono come un'altro.» «Ma dove si trova?» Lui corrugò la fronte e si mise seduto, incrociando le gambe. Cori fu sollevata nel vedere che i suoi genitali erano della normale grandezza e colore. Disse: «Pensavo che fosse un luogo speciale creato apposta per me. La mia prigione. Ma ora che sei arrivata tu, be', non lo so. Forse è dove vai finire quando non rientri in nessuna categoria. Né vivo né morto.» A Cori tornò in mente una vecchia battuta. Sorrise: tutti debbono trovarsi da qualche parte. Pensò alla barriera che aveva alzato l'attimo prima che il fuoco si ritorcesse su di lei. Se il suo corpo non poteva sopravvivere e non poteva neanche morire, qualcosa doveva succedere. «Sono davvero qui?» chiese. «Voglio dire, è questo il mio corpo? Accidenti, lo sai cosa intendo.» Lui alzò le spalle. «E questo corpo È il mio? Non ha bisogno né di cibo né di sonno. Davvero non lo so.» «Ma se il mio corpo è rimasto steso là fuori...» «Dovunque sia il tuo vero corpo, non è... non è là fuori.» Indicò con la testa verso l'alto, come se il mondo reale si trovasse sopra di loro. «Come fai a saperlo?» «Ho controllato.» Quando lei lo fissò senza capire, aggiunse: «Il mio rappresentante.» «Non so di cosa parli.» «Un brutto drago verde. Ricordi?» «Oh. Oh, ma certo. Scusa, mi dispiace.» «Ma tu non hai fatto niente. Eccetto che a te stessa. Credimi, trovarsi qui è una punizione bastante, qualsiasi errore tu abbia fatto in tutta la tua vita.» Cori studiò il suo viso, e quel sorriso che solo per poco non era amaro. «Tu chi sei?» chiese. Il sorriso si allargò. «Non l'hai indovinato? Sono Morin Jay.»
Parlando tra loro ricostruirono tutta la storia: Morin Jay era davvero un mercante, o almeno aveva progettato di esserlo, essendo stato uno studente fino alla morte di suo padre. E, sì, aveva comprato quella casa affacciata sul mare, ma attraverso gli agenti di suo padre, così che nessuno a Sorai l'aveva mai visto. Ansioso di vedere la sua nuova casa, aveva cavalcato fino là da solo, prima che i servi venissero da Sorai ad aprire la casa. Le rovine lo avevano subito affascinato, tanto che usava la casa soltanto per dormire, e dopo un paio di giorni fu preso dal desiderio di andare fra le rovine. Non sapeva dire se l'avesse preso la curiosità o il demone, ma lentamente fu attratto sempre più dal pozzo scuro e il suo puntino di luce. Così come era successo a Cori, anche lui era diventato debole guardando quella pietra blu; ma a differenza di lei non era riuscito a fare a meno di continuare a guardarla, anche quando la luce aveva cominciato a brillare e gli si era precipitata contro. Aveva fatto un grande sforzo di volontà per liberarsi, ma non c'era riuscito. Poi c'era stato un ruggito che avrebbe potuto essere una risata, se fosse stato umano. Per un istante si era sentito vivo ma cambiato: grande e tenue come fumo. Poi anche quello era cessato e si era ritrovato "nel nulla". Ma il demone che aveva sperato di prendere il posto di Morin Jay e liberarsi di lui era stato deluso. Anche se non era un mago, nel corso dei suoi studi Morin aveva imparato a dirigere la sua volontà, e dopo un tempo infinito si era accorto di poter intravedere e percepire "l'esterno". Ciò era avvenuto solo per un attimo, e poi la sua volontà era crollata, ma era bastato per vedere il demone godersi la libertà. Morin aveva di nuovo concentrato la sua volontà, rafforzata da un odio che non avrebbe mai immaginato possibile per lui. Un giorno si era trovato improvvisamente libero, aveva potuto assaporare l'aria e toccare la viva Terra. Ci volle solo un momento prima che l'esaltazione lasciasse posto all'orrore, quando aveva scoperto quale forma mostruosa aveva preso la sua rabbia. «Tu credi che quella sia la forma originale di Morin... del demone?» chiese Cori. «E che ci siamo scambiati di posto? Non lo so. Non sono certo se quella cosa abbia mai avuto una forma fisica, almeno una che non fosse un'illusione. Potrebbe solo essere energia scatenata. Sai cosa intendono i maghi per spezzastruttura?» Lei annuì. «Forse qualcuno, con grande sforzo, era riuscito ad imprigionare questo particolare spezzastruttura in quel pozzo
buio. Sperando che nessun idiota inetto lo liberasse.» Cori ignorò la sua amarezza; le servivano informazioni. «Allora, da dove è venuto il drago?» Morin guardò altrove. «Temo di essere io il mostro, quello che ero diventato, quello che avevo fatto di me con l'odio e la paura. Una dimostrazione molto grafica.» «Ma questo non lo sai.» Gli strinse le mani, disorientata da quel senso fantastico di sentire e contemporaneamente non sentire. «Il demone può aver fatto quella forma, diciamo in tua attesa, nel caso fossi riuscito a liberarti. Per farti arrendere.» Un debole sorriso spezzò la sua disperazione. «Se l'ha fatto, si è ripercosso su di lui.» Quella prima volta Morin era rimasto fuori solo pochi attimi, ricacciato indietro da quella brutta sorpresa. Ma il successo, per quanto strano, lo aveva rafforzato. Aveva riprovato più e più volte. Non sapeva perché il demone non volesse (o più probabilmente non potesse) ucciderlo, ma usava quei pochi poteri che aveva per devastare le ricchezze del "mercante". E così il demone aveva ingaggiato un assassino, sperando di distruggere Morin Jay una volta per tutte. Ma non un assassino qualsiasi. Uno molto esperto avrebbe potuto percepire la forza maligna che si nascondeva sotto il grasso mercante. No, doveva aver cercato con molta cura fino a quando non aveva trovato proprio il membro della Gilda che gli serviva: una ragazza stupida ed arrogante. Dopo aver finito di raccontare la sua parte di storia Cori si mise a fissare lo sconfinato vuoto marrone opaco, dove quel "suolo" piatto incontrava il cielo incolore. Morin chiese: «A che pensi?» Lei rispose: «Mi chiedevo che forma da rospaccio prenderò quando riuscirò a liberarmi da qui.» Morin Jay si mise a ridere. Il loro non-mondo non cambiava mai, sempre la stessa luce opaca senza un sole o una luna, lo stesso suolo marrone e piatto che non si poteva sentire veramente, anche se battendo il piede si poteva toccare. E camminavano a volte per ore, secondo quanto insistevano a dire le loro menti, anche se quei loro corpi non si stancavano mai e restavano sempre gli stessi. Una volta, Cori aveva provato ad insegnargli il passo involontario. Ma quando si era svuotata della volontà per lasciare che la Terra muovesse i suoi piedi, non era successo nulla, c'era un vuoto totale che la inorridì talmente da
farla rimanere là, paralizzata, a gemere fino a che Morin Jay non l'aveva presa tra le braccia, accarezzando leggermente il corpo freddo e liscio. Agli inizi avevano litigato. Cori voleva andarsene, usando la volontà o l'odio o qualsiasi altro mezzo fosse riuscita a trovare. Morin Jay voleva compagnia. Ragionò con lei; il suo corpo era al sicuro e quando si sarebbe svegliato lei vi avrebbe fatto ritorno, probabilmente. Gridò, pianse, cercando con parole rotte di raccontarle della sua solitudine. Cori si allontanava battendo i piedi, pensando a come era sempre stata sola, e come un assassino poteva davvero capire la solitudine. «Non posso stare qui. Non sopporto questo posto.» Ma alla fine, pensando che Morin Jay l'aveva sopportato da solo per anni, si era riavvicinata a lui, e non aveva più parlato di andare via. Fu il freddo ad avvicinarli ancora di più. Non l'aria, che restava sempre insipidamente tiepida, ma il freddo che attanagliava i loro "corpi". Cominciarono a stringersi insieme, lottando per un po' di calore. Si stringevano e si accarezzavano quando all'improvviso Cori riandò indietro di una dozzina di anni a Rann che le baciava i seni, il ventre. «No» disse, «Non posso.» Cercò di allontanarsi, ma senza molta decisione, perché Morin era riuscito a mantenere la presa, sussurrando: «Va tutto bene. Credimi.» «Non va tutto bene» pianse lei. «Dannato idiota.» Non capisci. Io sono un assassino. «Non qui.» «Qui, dovunque. Tu non sai cosa significa.» «Non qui. Qui non conta.» Lei lo fissò mentre il calore si faceva strada dentro di lei per la prima volta da quando era arrivata. No, per la prima volta in anni. Il calore si schiuse dentro di lei e Cori singhiozzò, per paura, per la gioia, per il ricordo della solitudine infinita che terminò quando Morin Jay entrò in lei. Anni dopo, Cori cercava ancora ossessivamente, come uno strano alchimista che mescola formula dopo formula, di calcolare quanto a lungo lei e Jay fossero rimasti in quel luogo senza tempo, quanti giorni in un mondo senza notte. Per quanto lungo fosse stato, era sempre troppo poco. Il loro modo di fare l'amore era strano, magnifico e nello stesso tempo insoddisfacente. I loro corpi quasi si fondevano insieme, eppure non raggiungevano il culmine nel senso più comune del termine. Spesso giacevano semplicemente abbracciati, a parlare delle loro vite, mentre le loro mani si muovevano da sole accarezzandosi l'un l'altra. Jay raccontava dei suoi
studi, della sua infanzia trascorsa in una casa così grande che aveva paura di perdersi senza che nessuno lo trovasse mai più. Anche Cori parlava della sua infanzia, e a volte della sua vita da adulta: del modo in cui la gente la guardava o lasciava una stanza non appena lei vi entrava nella sua uniforme. Comunque, non gli raccontò mai di come quelle due esistenze sì erano mescolate, di quello che successe quel giorno con Rann sulla collina erbosa. Parlavano e facevano l'amore, e giocavano a stupidi giochi e facevano l'amore, e quando Jay cominciava a parlare di tutte le cose che gli mancavano, Cori lo baciava, o scherzava, o cominciava a litigare. Un "giorno", nel mezzo della loro strana passione, Cori perse solo per un istante anche la stranissima sensazione dei loro corpi uniti. Per un attimo si trovò sola; distesa supina, con un cielo nuvoloso e un vento caldo che le sfiorava il viso. Poi tutto scomparve, lasciandola tesa e spaventata, con Jay che la stringeva e le chiedeva cos'era successo. Cercò di non dirglielo, di inventare una scusa. Ma quando lui insisté e lei cedette, Morin non disse nulla, si limitò a sospirare ed allontanarsi. «Sei in collera?» chiese Cori. Fin dall'inizio si era aspettata che lui la lasciasse in qualche modo, o per noia o per disgusto. «In collera?» disse lui, e voltò il viso stravolto verso Cori. «Oh, Cori.» Si abbracciarono, cercando di formare una creatura più forte del vuoto che li circondava. «Ti sei allontanato da me» disse lei. Morin scosse la testa. «Cori, mia cara, ma non capisci? Sei tu che stai lasciando me. Ed io sono così maledettamente geloso.» «No» disse Cori, «non è vero. Io non ti lascerò mai.» E mentre lui la stringeva sentì un suono, come un sussurro: come il movimento dell'erba o le onde lontane. Quando fecero l'amore un'altra volta, successe di nuovo, stavolta abbastanza a lungo perché Cori intravedesse dei detriti intorno a lei. Senza dire una parola smisero di fare l'amore, e smisero perfino di tenersi stretti. Quello che li divertiva prima - i racconti di Jay, le acrobazie di Cori o le sue battute autolesioniste - ora li metteva a disagio, come se sentissero una voce dire: è questo tutto quello che riuscite a pensare per trascorrere i vostri ultimi istanti insieme? Quando successe, successe in modo molto semplice. Jay le stava raccontando qualcosa circa suo padre. Mentre lo guardava, la sua voce era scomparsa, come se le stesse giocando lo scherzo di farle credere che era diven-
tata sorda. Al suo posto sentì uccellini, ed il suono indistinto del vento estivo. Lui doveva aver notato l'espressione del suo volto (che era successo alla sua impassibilità di assassino?) perché la sua bocca era rimasta aperta un istante e poi si era richiusa. Cori aveva gridato il suo nome, senza sapere se poteva sentirla, e allungato le mani verso di lui. Troppo tardi. Il canto degli uccelli si fece sempre più forte, riempiendole la testa. La luce le bruciò gli occhi. All'improvviso si trovò distesa, no, si contorceva come una donna con una crisi isterica, in cima ad una collina rocciosa con il corpo incredibilmente pesante e caldo, madido di sudore. Smise di divincolarsi. Il controllo muscolare degli Assassini stava tornando automaticamente, e lei lo detestava. Lentamente, si alzò in ginocchio sotto un sole accecante. «Jay» chiamò, e si voltò, sperando almeno di vedere il mostro che stava al suo posto. Ma sapeva che non l'avrebbe visto. Poteva percepire di nuovo il blocco nella Terra, ma quello era tutto. E poteva sentire anche qualche altra cosa: una forza brutale come l'incendio di una foresta. Come se un nemico fosse in agguato. Ma si sentiva in qualche modo insicura, o forse limitata da certe leggi antiche che Cori non capiva. Ma qualunque fosse la cosa che tratteneva il suo nemico, l'assassina ne era riconoscente. Aveva bisogno di tempo, per raccogliere le forze e preparare un piano. Perché ora che era tornata, Conia voleva soltanto una cosa: la vendetta. Per Jay, per se stessa e per la Gilda. Da anni ormai era la sua famiglia, la sua gente, e nessun demone poteva prendersene gioco. Non osava affrontare da sola la cosa, non senza una vera conoscenza dei suoi poteri, e ancora debole com'era. E così corse via, più lontano che il passo poteva portarla dalle colline e dal mare. Il vento caldo le asciugava le lacrime. Tornata nella sua casa, protetta (così sperava) dai segni sulla porta e sulle finestre e lungo tutto il basamento, Cori sedette perfettamente immobile nella stanza dove per la prima volta aveva incontrato Morin Jay. I quadri ed i cuscini erano spariti, le finestre coperte con panno nero. Ad occhi semichiusi, Cori sedeva di fronte al disco cesellato, emblema della sua Gilda. Con furia scacciò via ogni pensiero, finché ricordò che le serviva anche la calma oltre che il vuoto. Lasciò che i pensieri si avvicinassero, e poi scivolassero via, lottando contro la sensazione di tradire Jay con l'abbandono del suo ricordo. I pensieri divennero come uccelli visti da lontano, che poi
scomparvero. Un'oscurità più profonda si raccolse nella stanza. La coprì come fumo e poi come una densa gelatina. Il terrore quasi entrò con essa, ma Cori sapeva che non erano la stessa cosa, e scacciò la paura pur accettando l'Oscurità. Alla fine non restò più niente, né pensieri, né ricordi, nemmeno il suo corpo, soltanto l'Oscurità che riempiva la sua esistenza. In quel buio si accese una luce, un punto rosso opaco che rapidamente aumentò di luminosità, acquistando forma mentre cresceva, fino a che non divenne il segno di Cori, balzato in alto dalla sua gola e splendente come una stella appena nata. E in tutto il paese le sue sorelle ed i suoi fratelli lo videro: nei palazzi della Gilda, in case e foreste, in taverne e mercati. Li svegliò o interruppe il loro pasto; li distolse persino dalle loro esecuzioni già stipulate. Dovunque fossero tutti cercarono un posto dove potersi scoprire il collo. Il fuoco crebbe in loro. Nel momento in cui esplose lo spinsero, come amanti nel momento dell'orgasmo, attraverso l'immagine roteante del segno di Cori. Lei vacillò, schiacciata dal peso di tutta quell'energia. In qualche modo indietreggiò dal violento assalto, ma ne prese il controllo, e poi, con un grido di odio e gioia lo scagliò in direzione di una casa su una collina fuori dalla città di Sorai. Cori non seppe mai che genere di difesa avesse preparato il demone. Sentì un momento di resistenza, poi il fuoco incontrollabile dell'intera Gilda si rovesciò sulla casa ed il suo proprietario come un uragano su un alveare. Nello stesso istante in cui la tempesta annientava l'antico nucleo dell'essere di quel mostro, qualcosa colpì anche Coriia: estasi. Fiumi di gioia rombavano sul suo corpo, onde ed onde di sollievo, provenienti dalla gioia di tutti quegli altri uomini e donne uniti in un modo che nessuno che non fosse un assassino poteva capire. Cori cercò di aggrapparsi ai ricordi di Jay, del periodo che avevano passato insieme. La vergogna la riempì quando si rese conto della meschinità di quello che aveva dato e preso da lui. Poi tutti i pensieri ed i ricordi lasciarono posto a quel mare estatico. 4 Cori capì che si trattava di lui non appena sentì bussare. Lentamente attraversò la sua casa spoglia dirigendosi verso la porta. «Cori!» gridò lui, a
braccia aperte, per poi lasciarle ricadere goffamente quando lei restò là, a fissarlo impassibile. «Ho temuto che mi avresti ritrovata» disse lei, senza invitarlo. «È stata una bella ricerca» rise lui, cercando di metterla sullo scherzo. «Tutte le sedi della tua Gilda hanno l'obbligo del segreto.» Indossava un abito di seta giallo senza ricami. Gli indumenti sgargianti facevano risaltare il colore che stava tornando sulla sua pelle, e Cori dovette stringere i pugni per impedirsi di accarezzargli il viso. «Non mi fai entrare?» chiese lui. «Non ho mai visto la casa di un assassino.» «Non c'è niente da vedere. Jay, mi dispiace che tu abbia fatto tutta questa strada, ma per piacere, per te qui non c'è niente. Credimi.» «Niente? Tutta questa strada? Cori, tesoro, di che stai parlando? Lo sai quanto ho viaggiato per stare con te. Nessuno al mondo a parte te può saperlo.» «Mi dispiace.» «Ti dispiace? Oh mio dio, Cori, ma che succede? Quando sono tornato mi sono messo a cercarti. Pensavo che tu fossi rimasta sulla collina ad aspettarmi. Poi mi sono detto, avrà pensato che sono morto, che non ce l'ho fatta. Tutto quel che devo fare, mi sono detto, è trovarti. Allora staremo di nuovo insieme. Davvero insieme.» Fece un passo verso di lei, ma lei lo spinse indietro. «Cori, tu sei la mia donna. Te ne sei dimenticata? Lasciati toccare, ed i ricordi torneranno. Credimi, torneranno in un baleno.» Allungò una mano. Cori indietreggiò. «Sono un assassino, Jay. Un omicida. Non lo capisci? Questo è il mio unico piacere, il mio unico amore. Uccidere persone indifese.» «Lo so cosa sei» disse lui. «Cosa sei stata. Ci ho pensato e ripensato. Cori, mia cara, non me ne importa. Noi... in qualche modo lo risolveremo.» Cori quasi gridò, «Per piacere, vuoi andartene via!» Le lacrime minacciavano di rovinare tutta la scena, già provata tante volte. «No. Non ti permetterò di lasciarmi. Quello che c'è stato, non è stato soltanto per passare il tempo. So che è così.» «Quello che succede nel nulla non conta. Stavamo solo cercando di impedirci di impazzire. Ecco quello che è stato.» «Eravamo innamorati, Cori.» «Eravamo niente.» Lui scosse la testa, fece per dire qualcosa, ma sentì un nodo alla gola per
le lacrime. Si girò bruscamente e si incamminò per la strada verso la piccola città mercantile, con il passo un po' rigido. Cori chiuse la porta, tremando. Sarebbe tornato? Probabilmente. Jay non era il tipo da arrendersi. Sperò che la prossima volta andasse meglio, ma non lo credeva. Se solo avesse potuto farlo senza causargli dolore. «Jay» sussurrò, sentendo il suo nome fin nel profondo dell'anima. Ma quando si mise a sedere su una vecchia poltrona di cuoio verde e chiuse gli occhi non vide Morin Jay ma Rann, l'esile ragazzo dalla faccia rossa che l'aveva portata, all'età di dodici anni, su una piccola collina della fattoria di suo padre a forza di promesse, fantasie e carezze. Per la millesima volta Cori ricordò ogni tocco, la furia improvvisa del desiderio. E poi le fiamme, le urla di dolore e paura, l'espressione attonita di Rann che si staccava da lei, la sua bocca e gli occhi spalancati fino a che le fiamme non li aveva nascosti, e il modo in cui era rotolato giù, e lentamente si era fermato, steso là tutto rigido e carbonizzato, con le ultime fiammelle che si spegnevano e nient'altro che ossa e carne fumante. Si ricordò della corsa in città, ricordò la folla e le grida di sua madre, ricordò gli assassini che la guidavano tra la folla, la cui paura aveva sopraffatto la rabbia. Da ora in poi, le avevano detto, scorda qualsiasi tipo di vita eccetto noi. Qualsiasi altro amante eccetto noi. Quello che è successo a Rann succederà ancora e per sempre, a tutti quelli che toccherai con desiderio. E quando sarai più forte succederà anche senza contatto sessuale, distruggendo persone, terra, ogni cosa vicina a te. A meno che noi non ti addestriamo. A meno che tu non lo liberi prima che cresca. Lo liberi nell'unico modo possibile. «No!» lei aveva risposto gridando. «Non ucciderò. Non potete costringermi.» Tu devi, le avevano detto. Quando il fuoco si risveglia non lo puoi combattere. Puoi solo scegliere il tuo bersaglio. «Come posso fare una scelta simile? Perché dovrei farla?» Perché devi. Non c'è altra risposta. Noi ti aiuteremo. Ricorda, Coriia. Ora tu appartieni a noi. Alla Gilda Rossa. Titolo originale: The Red Guild Traduzione di Marina Nunzi IL BOSCO DELLE OMBRE
di Diana L. Paxson Shanna, la protagonista de "La spada di Yraine", che compare in questa stessa antologia, apparve per la prima volta su Swords Against Darkness IV di Andy Offutt, e dopo una mezza dozzina di racconti Diana ritenne necessario cominciare a scrivere le avventure di Shanna in ordine cronologico. Quando le chiesi un 'altra storia oltre a "La spada di Yraine", lei mi rispose che doveva scrivere le vicende di Shanna in ordine cronologico, con l'idea di farne un romanzo. La convinsi a cambiare idea e a darci almeno un'altra novella su Shanna prima di continuare a lavorare sul romanzo. "Il bosco delle ombre" è il risultato. In aggiunta a racconti in varie antologie (comprese alcune che io stessa ho curato) Diana Paxson ha scritto recentemente il suo terzo romanzo, Brisingamen (La collana di Freya). Il bosco delle ombre... Shanna paragonava questo nome con la realtà della foresta davanti a lei. Sulle mappe, il mare di alberi che fluiva sui pendii tra le fertili terre coltivate di Sharteyn e le montagne aveva un nome antico, ma Shanna preferiva l'appellativo usato dalla gente delle campagne. Il cielo sembrava molto scuro sotto gli alberi ammassati, e molto fresco, dopo il caldo e la polvere della strada. Si raddrizzò sulla sella ed aprì i fermagli del farsetto di cuoio rosso ricamato che indossava. I suoi pantaloni nuovi, umidi, si appiccicavano alla sella, ed il sudore le colava lungo la spina dorsale. Si chiese come facessero gli uomini della sua scorta a sopportare il peso aggiuntivo sul petto e sulla schiena di armature di cuoio rinforzate con piccole piastre di ferro. Ci si sono abituati, suppose. Dopo la mezz'ora passata a discutere con Nellis, la sua balia, per convincerla a lasciarle indossare gli abiti da guerriero invece dei paludamenti da Figlia Reale di Sharteyn, Shanna non osava lamentarsi. Aveva avuto la meglio solo per il fatto che avevano quasi superato i confini di Sharteyn. Ma c'erano molte leghe tra la foresta e la Città Imperiale di Bindir, dove avrebbero incontrato suo fratello Jonas per riportarlo a casa. Questa era la Vecchia Strada, più facile da percorrere viaggiando col carro, ma più lunga e meno frequentata di quella usata dai corrieri dell'Imperatore. Shanna mosse le spalle sotto il cuoio spesso e sorrise. Mi ci abituerò, suppongo...
La sua cavalla baia balzò in avanti, rispondendo ad una energica stretta involontaria delle lunghe gambe di Shanna, quasi urtandosi col grigio di Hwilos il Grosso. «Buona, Calur!» Shanna accorciò le redini, evitando lo sguardo del vecchio soldato. La strada si mostrava davanti a lei come un vessillo bianco, aveva un buon cavallo da cavalcare e la spada che aveva vinto rischiando la vita le pendeva al fianco. Finalmente era libera! Anche se non proprio libera - considerando la sua scorta - per lo meno era scampata agli intrighi e all'etichetta della Corte di Sharteyn. E forse in qualche modo, da qualche parte, lungo la strada, avrebbe trovato quella libertà che la sua anima agognava come un falco agogna il cielo. Gli alberi incombevano sempre più grandi a mano a mano che si avanzava. Shanna riconobbe querce e noccioli, il frassino dalle foglie sottili e il maestoso olmo. I corvi volavano verso la foresta dopo una giornata trascorsa a spigolare il ricco raccolto di Sharteyn, neri contro un cielo dorato. La strada davanti a loro era in ombra sotto il suo baldacchino di foghe dorate. E poi improvvisamente si trovarono dentro. Shanna batté le palpebre, cercando di abituare la vista alla penombra, poi dette uno strappo alle redini quando sentì la sua guancia sfiorata da qualcosa che non riuscì a vedere. Un soldato davanti a lei gridò: l'asta della freccia sembrava uscirgli dalla gola, mentre cadeva. Uomini gridavano, un cavallo nitrì. Ci fu uno schianto e Shanna vide la carrozza vivacemente dipinta su cui viaggiava Nellis rovesciata su un fianco, con le ruote che giravano nel vuoto. «Fermi! Gettate le armi o morirete!» gridò una voce profonda. Ma era troppo tardi. Altre tre frecce passarono sibilando con precisione. Due degli uomini di suo padre gridarono quando quei serpenti piumati trovarono un varco nella loro armatura. L'altra freccia sfiorò un elmo e cadde dietro un albero. Shanna si accucciò sulla criniera della sua cavalla, sussultando leggermente quando sentì vibrare la corda di un arco, perché la tunica di cotta di maglia finemente lavorata che indossava sotto il farsetto non l'avrebbe protetta dal colpo di un poderoso arco da caccia. Gli alberi tremavano al movimento di invisibili nemici. Un brivido superstizioso serrò di più la stretta di Shanna sulla criniera nera di Calur, ma lei si sforzò di scacciare la paura «Gli spiriti dei boschi non hanno bisogno delle armi dei mortali per uccidere...» «A terra e sparpagliarsi!» urlò Hwilos, e Shanna si rese conto senza aver
tempo per le emozioni che il capo della sua scorta doveva essere stato ucciso. «Qui siamo soltanto bersagli!» Si voltò verso di lei: «Presto, mia signora! Io vi coprirò!» Con i piedi già liberi dalle staffe, Shanna incitò in avanti la sua cavalla, rotolò giù dalla sella e, sempre rotolando, cadde sulla strada e corse verso gli alberi. Ciuffi d'erba erano schiacciati sotto le sue dita contratte, un cespuglio di bacche le graffiava il viso; vide il tronco di un albero, no, la gamba di un uomo, davanti a lei, e balzò fuori. Il piccolo pugnale che aveva in mano brillò appena nella luce fioca. Sentì penetrare il coltello, lo ritrasse per colpire di nuovo mentre l'arco e le frecce dell'uomo cadevano a terra, poi le mani dure si chiusero intorno alle sue braccia; fu trascinata indietro e sentì la gelida puntura di una lama contro la sua gola. «Sta' fermo se vuoi vivere, ragazzo» le ringhiò qualcuno all'orecchio. Shanna ricordò l'alito sgradevole dell'uomo al quale aveva vinto la spada. Meglio la morte che vivere nelle mani di un uomo del genere! Gettò indietro la testa colpendo il viso scoperto del suo catturatore, e lo colpì con i gomiti nelle costole quando le sue dita si allentarono nel primo istante di stupefatto dolore. Un lungo braccio la fece girare su se stessa, lei sferrò un colpo e la risposta dell'uomo la colpì violentemente sull'elmetto d'acciaio; questo cadde e le sue trecce si svolsero dalla testa e ricaddero sciolte. Ancora intontita, Shanna riuscì soltanto a lottare debolmente mentre il suo catturatore la premeva a terra e le legava i polsi e le caviglie. Lei guardava in su, la vista che si schiariva le mostrava un uomo massiccio - da quell'angolazione sembrava come un albero - che sorrideva cercando di tamponarsi il naso sanguinante. C'era una scintilla di rabbia nei suoi occhi grigi. «Be', per tutti gli dèi.» La voce dell'uomo usciva attutita da dietro la mano. «Forse la fortuna ci assiste, finalmente. È una fanciulla!» I cespugli si aprirono dietro di lei ed apparvero altri uomini, nessuno alto quanto lui, ma tutti vestiti con le stesse rozze tuniche e calzoni verdi e marrone. Alcuni, notò Shanna con soddisfazione, sanguinavano. Uno dei nuovi venuti si fermò davanti al suo catturatore ed alzò il pugno in saluto. «Signore, è tutto sicuro. Andros è morto e Tom ha un polmone trapassato.» L'uomo massiccio annuì; i segni dell'autorità sul suo viso si approfondivano mentre corrugava la fronte. «E questa vipera ha pugnalato Vand. Ab-
biamo perso qualcun altro?» «Solo ferite, mio signore... niente che non possa guarire.» Shanna si divincolò per mettersi seduta, emise un suono strozzato, ritrovò la sua voce e boccheggiò: «Bastardi, che ne avete fatto degli uomini di mio padre?» Una dozzina di occhi si fissarono su di lei, poi si rivolsero al loro capo, mentre cominciavano a capire la verità. «Lo sapevo che quella vecchia strega nella carrozza non era tutto quello che stavano proteggendo!» esclamò l'uomo che aveva fatto il rapporto, poi incontrò lo sguardo del suo comandante e continuò più formalmente: «Ne abbiamo uccisi cinque. Due sono feriti, non so quanto gravemente. Arni e Farei stanno facendo la guardia ai tre che abbiamo sopraffatto.» Shanna chiuse gli occhi e deglutì, nauseata dal dolore per quegli uomini a cui si era affezionata durante il mese di viaggio dalla città di Sharn, disgustata per l'oltraggio. Erano stati attaccati mentre si trovavano ancora nelle terre di Sharteyn! Quando suo padre l'avrebbe saputo... «Vedo che anche tu hai fatto buona caccia» continuò la voce odiosa del luogotenente. «Cos'hai qui?» «Credo...» il grosso uomo si chinò e sollevò a forza il mento di Shanna. «Credo di avere l'onore di presentarvi la Figlia Reale di Sharteyn!» Si raddrizzò, accennò un inchino. «Signora, permettetemi di presentare me ed i miei uomini. Ora siete prigioniera di Roalt Larsenyi, una volta Principe Governatore di Norsith. Se va tutto bene, voi sarete anche la chiave per riavere il mio trono!» Shanna scosse la testa costringendo la sua mente a rimettersi in funzione. «Volete che mio padre vi aiuti?» Adesso ricordava... il Signore di Norsith era stato spodestato dal cugino circa due anni prima. Fino a quando le tasse venivano pagate regolarmente, all'Imperatore non sembrava importare. Roalt si era rivolto a suo padre, cercando un'alleanza, ma gli era stata rifiutata. Occupato con le scorrerie del fuorilegge Kintashe, il Principe Artinor, non aveva né il tempo né le risorse per risolvere le ingiustizie delle terre di qualcun'altro. «Per il sacro fuoco di Yraine» disse Shanna con disprezzo, «mio padre inchioderà la vostra lurida pelle sulle mura di Sharn! Perché avete dovuto uccidere i miei uomini? Non potevate semplicemente chiedermi di intercedere per voi?» Roalt sospirò. «Abbiamo ospitato vostro fratello quando lo scorso anno ha attraversato la foresta. Allora lo abbiamo chiesto civilmente. Ma lui ha
rifiutato, ed il suo seguito era troppo numeroso perché potessimo insistere. Voi gli somigliate molto, signora. Ho pensato che dovevate essere imparentata col vecchio Artinor, anche se sapevo che non aveva un altro figlio. Ora vedremo quanto valore vi dà...» Oh, piccina mia, non devi addolorarti... «sussurrò Nellis.» Ti ho raccolta dalle braccia della tua mamma morta e ti ho visto diventare una donna, ed ecco che sei come una giovane dea. Che altro potrei desiderare dalla vita? «Le dita di Nellis sussultarono leggermente, e Shanna le prese la mano e la accarezzò. Era esile, così esile, ed era questo più di ogni altra cosa ad alimentare la sua paura. Durante i diciotto anni della sua vita, Nellis era stata un ampio grembo e un soffice seno dove cercare conforto, e a volte un baluardo contro il quale sfogare la sua rabbia con sicurezza. E cosa poteva più esserci di sicuro in questo mondo se anche Nellis si era consumata fino a diventare così fragile?» «Ti ristabilirai!» disse disperatamente. «Presto mio padre ci manderà a cercare. Ora ti do un altro po' di te.» Shanna armeggiò con il mestolo e la tazza, e quando il liquido bollente le si versò su una mano se ne accorse appena. Nellis bevve un poco e poi tornò a sdraiarsi. Shanna posò la tazza, si raddrizzò, e si sforzò di sorridere agli uomini che la guardavano dall'altro lato della radura. Hwilos, Sandy, e Zan «erano tutto quello che era rimasto della scorta che era partita con lei. Ora era responsabile di loro.» Come lo era per Nellis. Guardò la sua vecchia nutrice e le rimboccò meglio il mantello tutt'intorno. Quando la carrozza si era rovesciata, Nellis era svenuta; le sue ferite erano sembrate leggere, paragonate a quelle degli uomini. Ma il delicato meccanismo interno del corpo doveva essersi danneggiato, o forse era stata l'emozione per la cattura. Ora Shanna sapeva che era stato un crimine portare l'anziana donna con sé in questo viaggio, ma aveva avuto paura che le affibbiassero qualche leziosa dama di corte, e non aveva mai considerato Nellis vecchia... Un'ombra si mosse tra Shanna e il fuoco. Alzò lo sguardo e vide Lord Roalt, che aveva in mano una coperta fatta di soffici pelli di castoro e volpe cucite insieme. «Questa può servire?» disse. «È calda...» Shanna annuì senza parlare, divisa tra gratitudine e rabbia. Se non fosse stato per Roalt, Nellis non si sarebbe trovata così; però sapeva che il Principe aveva tolto le pellicce dal suo letto. Cercò di nascondere la sua confusione sistemando con cura la coperta
sul corpo indebolito di Nellis. Quando alzò di nuovo gli occhi fu sorpresa di vedere Roalt ancora accanto a lei, accoccolato sui talloni, con uno sguardo tutto interiore come se i suoi pensieri fossero molto lontani. Shanna si morse il labbro a quell'improvvisa sensazione di familiarità, e si rese conto di aver visto spesso suo padre proprio con quell'espressione corrucciata e preoccupata. E davvero, il precedente Signore di Norsith somigliava a suo padre sotto molti aspetti - non come Artinor era adesso, invecchiato per la guerra e gli intrichi e l'ansietà per il figlio che non era più tornato dal viaggio a Bindir per andare a giurare fedeltà all'Imperatore - ma come era stato quando lei era bambina, potente e risoluto e, si, gentile... Quando la malattia di Nellis era apparsa evidente, Roalt aveva cercato un modo per aiutarla, ma intorno alla foresta non c'erano fattorie dove trasportarla, e nessun guaritore da mandare a chiamare. Era chiaro che l'anziana donna non avrebbe potuto sopravvivere né al lungo viaggio di ritorno verso Sharteyn, né, se Roalt l'avesse osato, verso le terre di Norsith. Infuriata dalla sua reazione, Shanna tossì. «Avete ricevuto notizie dai vostri messaggeri, mio signore? Sono passati due mesi da quando li avete mandati a Sharn. Forse hanno deciso che la vita dei boschi non è poi così bella, ora che l'hanno provata. Cosa vi fa pensare che torneranno?» Si preparò alla sua ira, ma Roalt si limitò a sospirare. «Suppongo di meritare questo da voi... catturarvi è stato indegno di un sovrano, voi direste, ed è vero. Ma ad ogni stagione che passa la stretta di mio cugino si fa sempre più forte sulla mia terra. Il popolo diventa sempre più debole, e l'Imperatore non interviene. Una fine triste per un principe vivere nei boschi come una bestia, depredando i passanti. Ma che altro posso fare?» Per un attimo una risposta tremò sulle labbra di Shanna «poteva rimandarla a Sharn per essere il suo avvocato! La scena si formò nella sua immaginazione, con il suo seguito, perché lei sapeva che avendo riavuto sua figlia a casa salva, il Principe Artinor non le avrebbe mai permesso di affrontare di nuovo i rischi della strada.» Shanna deglutì. Roalt si rialzò in piedi. Il momento era passato. Shanna era prigioniera da quasi tre mesi quando Nellis morì ed i messaggeri di Roalt a Sharteyn non erano ancora tornati. L'estate piena sfumò impercettibilmente nelle prime pungenti giornate d'autunno. A parte quest'ultima ostinata speranza che tratteneva Roalt dal liberarla, Shanna avrebbe quasi potuto considerarsi un'ospite nel suo campo. Gli uomini erano rimasti colpiti dalla sua abilità con la spada, ed aveva insistito nel voler perfezionare la sua educazione insegnandole ad usare il grande arco da
caccia, ed anche quel tipo di lotta senza armi che avrebbe potuto salvarla dalla cattura. Un giorno che il sole brillava caldo quasi come in estate, Shanna si diresse verso il ruscello a fare il bagno. In quei giorni gli uomini di Norsith non la sorvegliavano molto. A parte avvisarla di non risalire troppo il ruscello «e questo più per paura che potesse correre qualche rischio piuttosto che potesse fuggire» avevano avuto la cortesia di ritirarsi e lasciarla sola. Per un po' restò seduta sulla riva, dondolando i piedi nell'acqua per abituarsi al freddo; poi fece un profondo respiro e si immerse completamente, stendendosi in modo che l'acqua, bassa alla fine dell'estate, potesse coprirla. Era molto chiara, ma leggermente marrone, e viste attraverso l'acqua le lunghe gambe di Shanna avevano il colore dell'avorio antico. Abituata alle vasche piastrellate del palazzo, all'inizio Shanna aveva avuto paura delle profondità marroni del ruscello, ma non aveva trovato niente di più pauroso di qualche pesciolino o qualche occasionale gambero che zampettava freneticamente sui sassi. Ora desiderava soltanto che l'acqua fosse più profonda. Forse più vicino alla sorgente c'era qualche punto più profondo. Gocce d'acqua brillavano come cristalli sul suo corpo quando si alzò e si mise a risalire il corso del ruscello con cautela. Shanna non aveva mai saputo che la foresta fosse così tranquilla, e così bella. Pensò che quella tranquillità fosse dovuta al fatto che i fuorilegge raramente arrivavano così lontano, e anche perché lei aveva lasciato indietro sulla riva i suoi abiti che odoravano così tanto di sudore e di fumo di cucina... l'odore rivelatore dell'uomo. Un castoro scivolò nell'acqua dalla riva con un leggerissimo sciacquio; la foresta vibrava di cinguettii e lievi rumori: un'immobilità vivente molto diversa dal vuoto della foresta tutt'intorno al campo. Shanna si fermò un attimo, respirando a fondo quell'aria pura. I tronchi degli alberi erano allineati lungo la riva come le colonne di un tempio. Il sole d'autunno splendeva sulle foglie cangianti in cento sfumature d'oro. L'acqua cantava un canto segreto mormorando fra i sassi, come per chiamarla, e Shanna sorrise e proseguì. Poco dopo vide il letto del ruscello bloccato da due grandi massi, attraverso i quali l'acqua fuoriusciva da una cascata in miniatura. Ne fu contenta; sicuramente una diga così doveva trattenere proprio il laghetto che stava cercando. Continuò a risalire in fretta, si arrampicò al lato dei massi e si trovò sulla riva di uno specchio d'acqua largo forse quattro metri. Era circondato da argentee betulle, come gli archi intorno al laghetto sacro del
Tempio dove Shanna era stata iniziata. Con un sospiro di contentezza, Shanna immerse tutto il suo lungo corpo. Shanna aveva imparato a nuotare nel freddo mare del nord. Che lusso ora bagnarsi in quest'acqua che era così quieta, eppure fresca, come se il laghetto fosse costantemente alimentato da qualche polla d'acqua sotterranea. Con poche bracciate vigorose si spinse nel laghetto, e si girò sulla schiena per galleggiare, guardando le foglie dorate delle betulle che fluttuavano dolcemente. Il sole in ascesa trovò un varco fra i rami, e la sua luminosità cadde dall'alto verso la superficie del laghetto. Abbagliata, Shanna si voltò nell'acqua e batté le palpebre, perché da sotto la superficie brillava in risposta un bagliore dorato. Curiosa, fece un profondo respiro, e si immerse nell'acqua. Il suo riflesso le venne incontro dal fondo del laghetto. Per un attimo Shanna lo trovò soltanto strano, poi la sua mente sorpresa ricordò che non era possibile avere un riflesso sott'acqua, e poi, i capelli che fluttuavano intorno al viso che saliva verso di lei erano chiari... Chiari, e gli occhi sporgenti erano marroni e pallidi come l'acqua del laghetto mentre saliva su, su. I muscoli di Shanna si tesero per spingerla verso la superficie, ma pallide membra si avvinghiarono intorno a lei, scivolose come il ventre di una trota e forti. Shanna si dibatté, usando tutti i trucchi che le aveva insegnato Roalt, ma la sua vista era solo una serie di bagliori nell'oscurità; il sangue le ronzava negli orecchi. Mentre le forze abbandonavano il suo corpo sentì una mano incredibilmente leggera sfiorarle i seni e poi armeggiare tra le sue cosce. Poi la terribile presa la lasciò andare e la forza ascensionale del suo corpo la spinse verso la superficie. Shanna boccheggiò, inghiottì acqua e, tossendo, nuotò verso una roccia ai bordi del laghetto. Si sdraiò sulla roccia, riempiendo i polmoni di aria pura in rauchi singulti. «Tu non sei un uomo...» disse una voce alle sue spalle con tono dolce e addolorato. Shanna si voltò di scatto. La faccia del suo incubo stava fluttuando sulla superficie dell'acqua scura. Shanna batté le palpebre, guardò ancora, e vide sotto di essa il pallido bagliore di un corpo. «È passato così tanto tempo da quando mi hanno portato un uomo con cui giocare, e l'ultimo si è rotto troppo presto...» labbra sottili s'imbronciarono. «Ma ho conservato un pezzo...» La creatura si sollevò un poco fuori
dall'acqua, e Shanna vide le sue dita flessibili carezzare una curva spolpata del cranio di un uomo. Un'ondina... Una delle favole di Nellis le suggerì il nome. Nessuna meraviglia se gli uomini di Roalt avevano paura a risalire il torrente. Shanna si chiese se avevano mai saputo cos'era successo al loro compagno scomparso. «Sei venuta da me per pregare?» continuò la dolce voce. «Una volta venivano da ogni inizio di primavera. Mi portavano delle cose carine...» Gli occhi di Shanna andarono al bagliore dorato sul fondo del laghetto. Obbligando le sue dita tremanti ad obbedirle, si tolse dai lobi degli orecchi i suoi cerchietti d'oro e li porse alla nixie. «Signora, accetti questi come mia offerta? Sono tutto quello che ho!» Quando la creatura annuì, Shanna gettò gli orecchini nell'acqua in un arco scintillante. «Mi chiamo Sequilla...» la risata della nixie era come una cascatella d'acqua, ma quando sorrideva si vedevano troppi denti appuntiti. Si tuffò nell'acqua scura in un mulinello di pallide chiome, poi riapparve un poco più vicina a Shanna. «Mia Signora Sequilla...» salutò Shanna, arretrando. Sapeva che era meglio non fare dono del suo nome alla creatura. Vuoi perdonarmi di aver nuotato qui? Non sapevo che il laghetto ti appartenesse. «Tutti sanno che questo laghetto è mio...» disse la nixie. Poi i suoi occhi si allargarono. «Ma forse l'hanno dimenticato. Una volta venivano qui in primavera, e...» Shanna sospirò mentre Sequilla ripeteva la sua storia. C'erano state processioni, sacerdotesse, e la musica di flauti e tamburi. Allora le donavano ornamenti d'oro e ghirlande di fiori, e a volte uomini... Shanna si chiese quanto tempo fa era successo. Non aveva mai sentito parlare di un periodo in cui la foresta non era un luogo selvaggio. «Ma poi c'era stata la battaglia, e dopo di ciò nessuno è più venuto...» L'ultima lamentela della nixie richiamò l'attenzione distratta di Shanna. «Oh, sì» disse Sequilla. «Laggiù...» un braccio sinuoso indicò un'oscurità più profonda che cominciava da un'arcata di alberi. Si immerse per un momento, poi ritornò su. «Sono ancora là, sai. Tutti e due gli eserciti, con tutte le loro belle cose.» Attratta contro la sua volontà, Shanna si alzò in piedi e lentamente si avvicinò al limite del bosco. La brezza stava rinfrescando, era gelida sulla sua pelle nuda. Col movimento dei rami, la luce del sole penetrò un mo-
mento attraverso il baldacchino della foresta, e le ombre tondeggianti che Shanna stava osservando mostrarono improvvisamente il ghigno bianco di un teschio, il bagliore eterno degli ornamenti d'oro, ed in mezzo ad essi una corona ed una mano scheletrica che ancora stringeva l'elsa rovinata di una spada. L'ondina emise un sospiro gorgogliante, triste. «A volte si svegliano, quando arrivano persone estranee, vogliono combattere ancora. Così tanti uomini... e nessuno che può essermi utile...» Shanna deglutì, disgustata, ed arretrò fino al bordo del laghetto, riflettendo. Due eserciti di morti non sepolti, abbattuti dal loro odio e dalla paura, potevano diventare dei terribili spettri. Nessuna meraviglia... nessuna meraviglia se questo luogo era diventato il Bosco delle Ombre! La sua pelle formicolò per qualcosa di più che il freddo, e lei si avviò verso lo sbocco del laghetto. «Non andartene...» disse la nixie lamentosamente. «Voglio che mi parli.» Shanna scosse la testa. «Ora debbo andare. Forse potrei tornare ancora...» «Ritorna un altro giorno...» canticchiò la nixie. Nuotò verso il bordo del laghetto, e Shanna si arrampicò sulle rocce che lo nascondevano con più fretta che grazia. Ma anche scendendo il corso del torrente, le sembrava di sentire ancora le parole "un altro giorno" ripetute senza posa dalla voce argentea della cascata. *
*
*
L'inverno venne presto, con un vento gelido che entrava in ogni apertura di un vestito, e mulinelli di umida neve. Se Nellis fosse vissuta così a lungo questa neve l'avrebbe uccisa, pensò Shanna, stringendosi ancora di più nel suo mantello rosso. Grazie alla dea era stato previsto che il viaggio durasse tutto l'inverno ed i bauli della carrozza distrutta avevano contenuto abiti caldi. Ma non si era aspettata di passare l'inverno lì! Pensò che doveva essere possibile sopravvivere nella foresta ad un clima del genere, perché Roalt ed i suoi uomini lo avevano già fatto due volte prima del suo arrivo. Ma quell'inverno la sensazione era diversa. Se i messaggeri di Roalt non erano tornati per tradimento o per una cattura, non potevano saperlo, ma la speranza se n'era andata. Già lo sguardo degli uomini
aveva un'espressione vuota, e la stagione era iniziata solo da un mese. Roalt sa che hanno perso la volontà «pensò Shanna mentre lo guardava mettere un'altro rametto nel fuoco. Che cosa farà? Era stato molto silenzioso nell'ultima settimana o due, quella ruga di preoccupazione fra le sopracciglia ora approfondita fino a sembrare una cicatrice. Le dita le formicolavano dal desiderio di spianarla via.» Shanna si alzò in piedi per andare da lui ed improvvisamente si rese conto di cosa stava facendo. Si rimise seduta nella neve, i pugni stretti fino a che le unghie le segnarono le palme delle mani. La sua attenzione si rivolse all'interno, non analizzando le azioni di Roalt, ma le sue. I miei uomini hanno dato la loro parola di non cercare di fuggire, ma io no... e sono passate settimane da quando ho chiesto a Roalt di lasciarmi andare... perché resto ancora qui? Si accoccolò sui talloni, ignorando il freddo, mentre livelli di coscienza più profondi salivano alla superficie. Roalt ha perso! I suoi uomini rimangono qui perché lo amano. ... E anch'io! Sedette immobile, con le lacrime calde che le scendevano dalle guance per cadere ignorate sulla neve, mentre la sua memoria ripeteva tutto quello che gli aveva detto, tutto ciò che lui le aveva detto. E dopo un certo tempo un'altra domanda prese forma nella sua coscienza. Perché, quando la sua speranza era andata perduta, Roalt non aveva mandato via lei e le altre bocche in più? Il suo cuore ebbe un balzo: era forse perché anche lui l'amava? Saltò in piedi per cercarlo, ma vide una sentinella correre a precipizio verso di lei, scivolando quasi nel fuoco per fermarsi davanti al suo signore. Shanna si fermò, col cuore che le batteva forte. Si era sbagliata? Finalmente era arrivata la risposta di suo padre? Ma sul viso della sentinella non c'era gioia, ed i lineamenti di Roalt si erano fatti tetri. Gli uomini piombavano nella radura da ogni direzione, afferrando le loro armi. Subito cominciarono a circolare congetture che cessarono istantaneamente quando tutti si riunirono intorno al Principe Roalt e la sentinella, ad ascoltare. Alla fine il Principe annuì e si voltò, alzando una mano per avere silenzio. Lo ottenne molto più rapidamente di quanto Shanna avesse creduto possibile. Per un attimo gli unici rumori furono il crepitare del fuoco e qualche occasionale tonfo quando qualche ramo lasciava cadere il suo carico di neve. «Siamo riusciti a tanto, miei fratelli e compagni d'armi...» la voce pro-
fonda di Roalt non era alta, ma Shanna sentiva ogni parola come se lui la stesse pronunciando al suo orecchio. «Abbiamo convinto mio cugino che siamo un pericolo per lui. Sta portando qui le sue forze... Un complimento, non credete, mandare un esercito contro due dozzine di uomini?» Ci fu qualche risatina crudele, ma Shanna li vedeva tutti calcolare le possibilità, se battersi o fuggire. Hwilos il Grosso fece un gesto agli altri due uomini di Sharteyn, ed i tre presero posizione dietro Shanna, che si sforzò di sorridere loro. «Per quanto mi riguarda...» la voce di Roalt si indurì «... io non fuggirò ancora. Se in questa battaglia posso distruggere il mio nemico, alla fine avrò vinto. Se no... bene. Deneth non mi trascinerà in trionfo per le strade di Ennis Narr!» Qualcuno iniziò ad applaudire. Le spade sguainate brillarono di pallidi riflessi di neve e cielo. «Resteremo con te, mio signore!» gridarono. «Vittoria o morte!» Shanna deglutì. Il grido di battaglia echeggiò nei suoi orecchi come il richiamo dolceamaro di un corno lontano. Oh, sì: una fine rapida e gloriosa non era meglio di una vita di ignominia? Roalt si voltò. Shanna cominciò a tremare quando il suo sguardo, per una volta scoperto, si fissò sul suo viso. Ma prima che lei potesse leggere quel che vedeva nei suoi occhi essi cambiarono, e lo schermo dell'autorità nascose ancora una volta il suo vero animo. «Allora combatteremo...» parlava ai suoi uomini, ma i suoi occhi erano ancora fissi su Shanna. «Ma prima che succeda questo, mia signora, dobbiamo mettervi al sicuro. Credo che perfino Deneth onorerà un vessillo di tregua portato dalla figlia di Artinor!» Shanna guardò le facce degli uomini che le stavano accanto, e vedendo il loro disappunto si mise a ridere. «Ma, mio signore, come potrei privarvi di un sesto del vostro esercito? Volevate un'alleanza con Sharteyn... ora l'avete!» Sguainò la sua spada con un frusciare musicale di acciaio, la voltò, e la offrì a Roalt dalla parte dell'elsa. Ora che la decisione era presa, ne sentì l'esuberanza. Certo era un privilegio scegliere con chi morire, ed essere accettata come camerata da questi uomini, da questo uomo. Era proprio per un momento simile che aveva consacrato la sua spada alla dea Yraine! Stranamente, in quel momento l'addolorava più l'inevitabilità della morte di Roalt che della sua. Il Principe corrugò la fronte; fece per parlare... e rifiutare la sua offerta? Ma gli uomini di Shanna stavano annuendo, e quelli di Roalt stavano ri-
cominciando ad applaudire. Poi da qualche parte, non proprio troppo lontano si udirono le note aspre e cadenzate di una tromba. Le mani degli uomini si serrarono intorno alle armi. Tutti si fermarono in ascolto. Poi Roalt sospirò. «È il segnale di Norsith per fare l'accampamento» disse. «Hanno fatto una lunga marcia. È probabile che stanotte si riposino per attaccarci all'alba. Noi faremo lo stesso» proseguì, «e domattina daremo del nostro meglio. Ricordate, noi conosciamo la foresta come loro non potranno mai. E, Shanna» il suo tono di voce si indurì, «debbo parlarvi in privato...» Shanna si alzò a sedere, scansando intorno a lei le coperte mentre il freddo di mezzanotte penetrava al posto della loro protezione. Si era coricata vestita - lo avevano fatto tutti - ma questa era l'ora più fredda, quando il gelido bagliore della luna ghiacciava il cielo. Sentiva il respiro regolare degli uomini addormentati intorno a lei, qualche russare, il mormorio di qualcuno che nei sogni già vedeva l'imminente battaglia. Era contenta che riuscissero a dormire. Lei non era riuscita a fare altro che sonnecchiare inquieta da quando si era coricata, dopo un'ora passata a discutere con Roalt senza che nessuno dei due avesse vinto. Lui aveva insistito nel tentare di proteggerla, ma doveva sapere che non le avrebbe potuto impedire di entrare nella mischia, anche se l'avesse mandata via. In ogni caso sarebbero morti tutti e due, e quindi non avrebbe più avuto importanza. A meno che... Shanna rabbrividì, e non soltanto per il freddo, perché il pensiero che le aveva impedito di dormire certamente era sufficiente a raggelare l'anima. Terrificante e molto probabilmente folle. Ma se Shanna era rassegnata a morire, come poteva rifiutare il rischio che poteva impedire di morire anche a Roalt? Se solo i mesi passati le avessero dato il coraggio e la conoscenza dei boschi necessari all'atto che voleva compiere! Il suo sguardo trovò la forma scura che era Roalt, addormentato dall'altro lato del fuoco, e il suo cuore sussurrò le parole di addio che non aveva permesso di pronunciare alle sue labbra. Prima aveva sperato di poter passare questa ultima notte insieme. Perché no? Shanna aveva pagato il suo debito alla Dea un anno fa al Fuoco di Baalteyn, quindi lui non avrebbe dovuto preoccuparsi per la sua verginità. Ma ora era contenta; certamente salvare la vita di Roalt era meglio che dormire fra le sue braccia! Sbadigliando ostentatamente, Shanna si alzò in piedi e di diresse verso
gli alberi. Con un po' di fortuna, l'uomo di guardia avrebbe pensato che stesse andando a liberarsi nel fosso vicino al luogo dove erano legati i cavalli. Calur alzò la testa quando Shanna si avvicinò, e lei mise una mano sul muso della cavalla per calmarla. Anche se l'animale sbuffò e si agitò al contatto freddo della sella e le briglie, seguì volentieri Shanna lungo il sentiero illuminato dalla luna che conduceva al ruscello, e restò fermo perché lei montasse in sella. Shanna si guardò indietro una volta, e poi basta. Non doveva permettersi di pensare a Roalt: svegliandosi e non trovandola, avrebbe pensato che lei fosse fuggita... No «meglio preoccuparsi di ritrovare il sentiero alla luce incostante della luna.» Dopo il suo incontro con la nixie, Shanna aveva passato del tempo ad esplorare il perimetro dell'antico campo di battaglia. I resti di un vecchio sentiero lo attraversavano partendo dal limitare della foresta fino al laghetto della nixie; probabilmente il sentiero rituale ormai dimenticato. Se Shanna fosse riuscita a fare quello che voleva, quel sentiero l'avrebbe portata fuori della foresta fino ai fuochi di bivacco del Principe Deneth... Stavolta la strada sembrò molto breve. Shanna guidò la cavalla lungo il ruscello, il cui mormorio era attutito dal ghiaccio che lo imprigionava, in cerca del laghetto dove la nixie dormiva sotto una patina cristallina che brillava alla luce lunare. Le stelle ammiccavano come pezzetti di ghiaccio nel cielo sbiancato della luna. L'apertura fra gli alberi che portava al campo di battaglia era spalancata come una porta. «Sacra Yraine, dolce Signora delle Stelle!» sussurrò Shanna tra le labbra fredde, «Dammi forze e proteggimi ora!» Tranquillizzando Calur col tocco e la voce, Shanna guidò la cavalla attraverso quell'entrata scura dentro le ombre che avevano dato al bosco il suo nome. La luna filtrava attraverso la rete di rami spogli con un bagliore ingannatore. Quel profilo argentato di luna era il bordo di uno scudo o solo la radice di un albero? E là, era un teschio o un sasso liscio coperto di neve? Con le zampe rigide la cavalla avanzò a piccoli passi... ... E si fermò, tremando, davanti alla massa scoperta di una pietra ritta in verticale. Shanna la fissò, notando con un senso di disagio che anche se la neve era affastelata dovunque, non ce n'era affatto sul menhir. Anche il terreno alla sua base era sgombro. Ed in un attimo i suoi occhi abituati le mostrarono altre cose. Intorno alla pietra, un anello di frammenti spezzettati di un'armatura in decomposizione ed ossa sbiancate, e appoggiato alla sua
base uno scheletro in pezzi con un teschio che sembrava guardarla con le sue orbite vuote, e la mano che ancora stringeva una spada cesellata in oro. Shanna costrinse le dita irrigidite dal freddo a chiudersi intorno all'elsa della sua lama. Un raggio di luna si infranse e brillò sulla superficie del menhir mentre lei sfoderava la spada, e l'antica lama alla sua base mandò un bagliore di risposta. «Signore delle Ombre...» la voce di Shanna si incrinò; lei fece un sospiro rauco e chiamò ancora. «Signore delle Ombre, sei là? Io ti invoco!» La sua voce suonò flebile e spettrale ai suoi orecchi; come spiriti che si allontanavano, sbuffi di vapore bianco portarono via le sue parole. Ma per quanto il suo richiamo fosse stato debole, fu udito. Shanna percepì un movimento intorno a lei. Calur scalpitava sconsolatamente; Shanna sentì sotto di sé i muscoli poderosi contrarsi, pronti per la fuga, ed accorciò le redini. «Buona, piccola, solo un momento... avrò bisogno della tua velocità molto presto!» sussurrò, e ancora più piano «Benedetta Signora delle Stelle, non farmi avere paura!» Ma il suo respiro era affannoso. La sua ragione teneva a freno la paura più di quanto lei non controllasse la sua cavalcatura. Le ombre si infittirono, oscurando la luce lunare. Qualcosa si agitò alla base della pietra. «Chi è che interrompe il nostro sonno?» La voce sembrava un eco della terra, un distillato dell'aria. «Il campo è nostro, per tutta l'eternità. Fatti avanti, tu che ci sfidi, e affronta la mia spada!» Shanna vide alzarsi dal buio un'ombra più acuminata, e di colpo fu certa che se si fosse abbassata avrebbe perso ben più della sua vita. La sua voce si alzò, acuta, sommergendo il balbettio dell'anima terrorizzata dentro di sé. «Io sono solo un messaggero, ma vicino alla grande strada vi aspetta un esercito. Se volete mantenere la vostra vittoria, seguitemi!» E già stava allontanando le redini, già i suoi talloni toccavano i fianchi della sua cavalla baia. Shanna si aggrappò alla criniera nera mentre Calur balzò in avanti, e l'oscurità si avventò ruggendo come un vortice dietro di lei. Fu la cavalla a trovare un suo varco nel caos della foresta, perché tutta la volontà di Shanna era concentrata a restare in sella, mentre la follia continuava a seguirla. E poi gli alberi si diradarono, e loro sbucarono in un paesaggio reso bianco dalla luna: strade bianche, campi grigi, e le tende del nemico, spettrali, illuminate dalle lanterne. La spada sguainata di Shanna avvampò come una fiamma argentea
quando lei attraversò al galoppo l'accampamento. Una sentinella sorpresa scoccò una freccia che la oltrepassò, ma più tardi, ricordando occhi sbarrati dal terrore, Shanna si chiese se avesse realmente mirato a lei. Galoppò attraverso l'accampamento, e poi ne uscì, ma lo aveva attraversato da un miglio nella pianura prima di riuscire a fermare il cavallo impazzito e farlo voltare, i fianchi ansimanti e il collo coperto di schiuma, per guardare quello che aveva fatto. Vide un'ombra come nebbia animata macchiare la luce lunare, assottigliarsi, congelarsi, prima illuminata dalle torce, e poi oscurarle e spegnerle. Era troppo lontana per distinguere le figure dentro quell'oscurità, e ne era felice. Ma riusciva a sentire le grida di uomini spinti al di là del coraggio in quella battaglia contro un nemico incorporeo. Dopo un poco Shanna spinse Calur ad un passo lento su e giù per il prato, per non sentire gli effetti del freddo, guardando ancora l'uragano che sconvolgeva l'accampamento, fino a che la luna tramontò e il cielo scuro impallidì, ed i primi raggi del sole fecero ritirare l'esercito di ombre, sazio, di nuovo nel bosco a cui avevano dato il loro nome. Quando il Principe Roalt ed i suoi uomini emersero da dietro le difese che nessuno aveva saggiato, per scoprire che ne era stato del loro nemico, videro Shanna, quasi esausta fino allo svenimento ma ancora aggrappata al dorso della sua cavalla sfinita, venire loro incontro dai campi melmosi. Lei raccontò di aver udito uno strano tumulto e di essere andata a vedere di cosa si trattava. Non sapeva se le avrebbero creduto oppure no. Non gliene importava. Dove la notte prima c'era stato un esercito, adesso erano rimasti soltanto alcuni soldati che vagavano istupiditi ed altri, che per fortuna o per grazia degli dèi erano stati risparmiati, che salutarono come salvatore il signore che erano venuti a distruggere. I rimanenti erano morti, uccisi dalla paura o dalla follia dei loro compagni. Shanna aiutò volentieri a raccogliere legna per la loro cremazione, per liberare i loro spiriti, ma non disse nulla della causa della loro morte, prima per orrore, più tardi per una specie di vergogna. Questo non era il modo di affrontare il nemico che le avevano insegnato. Se avesse capito cosa sarebbe accaduto non avrebbe mai evocato le Ombre, anche se fosse stata l'unica alternativa. E nessuno le fece domande. Com'era prevedibile il Principe Roalt era sommerso dai preparativi necessari per ritornare al controllo di Norsith. Fu
non prima che fosse pronto a partire per Ennis Norr che trovò il tempo di vedere Shanna, e per allora lei aveva avuto il tempo di capire cosa doveva fare. «Mia signora!» Il Principe si alzò per accogliere Shanna quando lei entrò nel padiglione. Indossava una cotta di cuoio blu scuro su placche d'acciaio ribattute in oro, che aveva trovato nel bagaglio di suo cugino, e stivali alti, con un pesante mantello di lana color indaco bordato di pelle di scoiattolo. Improvvisamente consapevole delle macchie sul suo farsetto e dei pantaloni rammendati Shanna si strinse addosso il rosso opaco del suo mantello; non che il mantello le stesse molto meglio, dopo essere stato indossato così a lungo. Si fermò sul tappeto di Menibbe in mezzo alla tenda, alzando gli occhi verso Roalt. Pulito, vestito come si conveniva al suo rango, il Principe non era più il malconcio lupo dei boschi che aveva conosciuto. Le loro posizioni si erano ribaltate, pensò Shanna ironicamente, perché certo ora lei non era la principessa viziata che avevano catturato. Gli occhi grigi di lui brillavano, le sue grandi mani si chiusero intorno alle sue spalle. «Principessa Shanna» ripeté più dolcemente. «Partiremo al mattino. Voglio che voi cavalchiate con me...» «Sono ancora prigioniera, mio signore?» Sorrise leggermente. Lui scosse la testa, sorridendo. «Per molto tempo ormai, credo di essere stato io il vostro prigioniero. Venite con me come mia promessa sposa, Shanna... troveremo abiti appropriati per voi da qualche parte. Credo che vostro padre consentirà all'alleanza ora che sono di nuovo al potere!» Le sue braccia la circondarono; le sollevò il mento e le sue labbra ferme trovarono quelle di lei. Era il posto dove Shanna aveva desiderato di stare durante tante notti solitarie, e Shanna si permise di rilassarsi contro di lui. Capiva molto bene quello che le stava offrendo: sicurezza, lusso, un posto d'onore. Tutte le cose da cui stava sfuggendo quando aveva lasciato Sharteyn. Dopo pochi momenti sospirò e si scansò. «Debbo finire il mio viaggio a Bindir.» «Oh, dolce Shanna» Roalt scosse il capo con indulgenza, «cosa speravate di poter ottenere che un inviato mandato da me o da vostro padre non possa fare?» Qualcosa nella sua espressione doveva averla tradita, perché lui continuò: «Almeno restate con me ad Ennis Narr fino all'arrivo della primavera...»
Lei lo fissò. Sarebbe stato diverso se fosse stato lui a salvarla? Per proteggerlo aveva macchiato la sua anima. C'erano già delle dicerie nell'accampamento sulla sua cavalcata, e lei sapeva che l'ombra di quella battaglia soprannaturale sarebbe rimasta per sempre fra loro. «Il mio giuramento mi lega...» lei alzò le spalle con fare di scusa, salvandogli l'orgoglio. Ma non era la promessa che aveva fatto di riportare a casa suo fratello che la faceva rimettere in viaggio, bensì un altro giuramento, quello che aveva fatto a Yraine. «Bene, allora, quando tornerete...» La sua risposta non richiedeva una replica. La baciò di nuovo, stavolta sulla fronte, ed il suo braccio restò intorno alle spalle di lei quando scansò da una parte i tendaggi della porta. I suoi uomini la stavano aspettando - il massiccio Hwilos, Sandy, e il piccolo Zan dalle cicatrici «già a cavallo, con il cavallo di scorta carico e con Calur. I loro occhi si sgranarono un poco quando la videro con il Comandante, ma prima che potessero parlare lei si stava allontanando già dall'abbraccio di Roalt, e prendeva le redini della cavalla baia.» «Allora, cosa state guardando?» disse bruscamente, issandosi in sella. «Abbiamo perso già troppo tempo. Andiamo.» Roalt rimase fuori dalla sua tenda, a guardarla cavalcare via. Ma i suoi lineamenti erano nell'ombra, e quando lei guardò di nuovo, lo vide solo come una sagoma contro la massa indistinta degli alberi. Calur scosse la testa, ribellandosi alle redini strette, e Shanna si voltò per lasciarla correre libera sotto il cielo aperto. Titolo originale: Shadow Wood Traduzione di Marina Nunzi SANGUE DI UNICORNO di Bruce D. Arthurs Una delle molte tentazioni che assalgono un editor, specialmente quando deve leggersi più di quattrocento manoscritti la maggior parte dei quali si rivelano dilettanteschi o con trame ampiamente sfruttate, è quella di accettare solo racconti di scrittori di provato valore. Nessun editor può permettersi dì ignorare scrittori conosciuti e affermati, ed in questa antologia ho incluso più di un racconto dello stesso scrittore, convinta che i lettori avrebbero accolto questi ultimi come vecchi amici: Jennifer Roberson, Di-
ana L. Paxson, Charles Saunders, Phyllis Ann Karr, ecc. Ma ritengo anche doveroso pubblicare il lavoro di autori promettenti, specialmente se i loro racconti sono avvincenti e mi regalano autentiche emozioni. Uno di questi è "Sangue di unicorno" di Bruce Arthurs. Devo ammettere che non appena vidi il racconto provai un attimo di sconforto. Per una ragione o per l'altra negli ultimi anni gli unicorni (e i draghi) sono diventati un cliché, ed a causa della leggendaria purezza degli unicorni, gran parte di questi racconti sono pieni di tanta luce e dolcezza da risultare fatali ad un diabetico. Il mio livello di sopportazione verso quegli animaletti leggiadri è molto basso, e lessi le prime due pagine con la lettera di rifiuto già pronta fra le mani; ma poi rimasi a tal punto coinvolta dal racconto che dimenticai che era l'opera di un fan che già conoscevo (si sa che io sono ricettiva verso il lavoro dei giovani scrittori), e Bruce mi ricordò che le prime tre pagine di questa storia erano state scritte con la mia macchina da scrivere, quando lui e sua moglie, Margaret Hildebrand, si trovavano a casa mia dopo una convention. Questo non è il solito racconto d'esordio di un dilettante. Infatti, non è un racconto d'esordio; Bruce è apparso già una volta su Amazing con un pezzo umoristico, qualche anno fa. Ma questo è il suo primo racconto serio. Ed è serio davvero! Non è facile costruire un racconto sugli unicorni con il ritmo di un'avventura serrata e avvincente. Ma qui lo scopo viene raggiunto. Ovviamente non voglio dire che sia impossibile «un altro giovane autore, serio e promettente, Robert Cook, in "The Woodcarver's Son" (nella antologia da me curata Greyhaven) aveva scritto un racconto sugli unicorni realistico e pungente. Robert Cook non ha mai avuto la possibilità di sviluppare il suo potenziale: la morte prematura prima della pubblicazione del racconto glielo ha impedito. Mi piace pensare che, se fosse ancora vivo, avrebbe potuto essere l'autore di questo racconto, o comunque di qualcosa molto simile.» La creatura uscì dall'oscurità sotto gli alti alberi, nella luce lunare che brillava sulla piccola radura accanto al gorgogliante ruscello montano. Era della grandezza di un piccolo pony, ma con una testa caprina e zoccoli fessi. Il suo mantello candido brillava argenteo sotto la fioca luce. Dal centro della sua fronte spuntava un piccolo corno di osso ritorto. La donna sedeva su una grossa pietra accanto al ruscello. Il suo abito, una semplice tunica a maniche lunghe, era di un tessuto di un candore intenso come il mantello dell'unicorno. I suoi capelli, rosso rame, le cadeva-
no in onde sciolte fino a metà schiena. Quando l'unicorno uscì dall'oscurità lei sorrise ed alzò la mano verso di esso in un cenno di richiamo. L'unicorno si avvicinò con gli occhi dilatati di irresistibile amore nell'incanto della presenza della vergine. Si inginocchiò davanti alla donna dai capelli rossi e le poggiò la testa in grembo, fissandola con adorazione. La donna accarezzò la gola dell'unicorno. La creatura emise un sospiro di amore e contentezza, allungando di più il collo. La donna guardò in basso e sorrise. Poi prese il coltello da dove si trovava sotto una piega del suo vestito e tagliò la gola alla creatura. Quando Kerai tornò a cavallo in città tre giorni più tardi, somigliava ben poco alla donna che era stata seduta vicino al ruscello di montagna. L'abito insanguinato era stato sostituito da tunica e calzoni di cuoio scuro, con alti stivali di cuoio ancora più scuro. Le lunghe ciocche di capelli rossi erano state intrecciate ed appuntate in una stretta crocchia dietro la nuca. Il coltello ora pendeva liberamente nel fodero al suo fianco, ed una spada corta era appesa a tracolla sulla sua schiena. Gli uffici di Shar il mercante si trovavano in un fabbricato senza finestre la cui massiccia porta di quercia era sorvegliata da due robusti furfanti dall'aria brutale. Si fecero da parte per Kerai quando smontò ed aprì la porta con un calcio. Le guardie si scambiarono delle occhiate nervose mentre lei entrava sbattendo la porta per chiuderla. Kerai era vergine, ed aveva espresso chiaramente la sua intenzione di restare tale; più di un uomo aveva perso sangue, e talvolta la vita, cercando di cambiare lo stato di quella pericolosa bastarda dai capelli rossi. Kerai oltrepassò le scrivanie degli impiegati e dei contabili che lavoravano alle luci di candele tremolanti, ed entrò nell'ufficio di Shar. Il mercante aveva il corpo ed il viso di un allegro grassone, con guance rosse ed una folta barba bianca, ma era smentito dagli occhi neri di un serpente che contemplavano il mondo spietatamente al di sopra di quelle guance e quella barba. C'era un'altro uomo nell'ufficio con Shar, Kerai lo vide quando entrò, ma lo accantonò come non pericoloso. Lui era stato disarmato dalle guardie alla porta. Notò soltanto che era alto, anche seduto su una sedia nell'angolo, che era magro e che èra scuro di pelle: uno straniero. Continuò a camminare senza fermarsi verso Shar, aprendo un sacchetto appeso alla cintura e gettando il suo contenuto sulla scrivania.
Il corpo insanguinato lasciò un segno ricurvo mentre rotolava per fermarsi di fronte al mercante. «Ecco il tuo ultimo corno di unicorno, Shar» annunciò lei. «Proprio come tutti gli altri. Ora dammi il mio denaro.» Gli occhi del mercante di spostarono con calma dal corno alla donna in piedi davanti a lui. «Sembrerà strano» disse in tono piacevole, «stavamo proprio parlando di te.» Lo sguardo di Kerai andò allo straniero nell'angolo. Lui la guardava con occhi attenti. «Ma siediti, Kerai» continuò il mercante, indicando la sedia opposta. Kerai tornò a rivolgere la sua attenzione a Shar. «Prima il mio denaro.» Protese la mano sinistra verso di lui. La mano destra era poggiata con noncuranza sull'impugnatura del suo coltello. Shar facendo una risatina aprì un cassetto nella scrivania. Contò trenta pezzi d'oro nella mano di Kerai, poi mise il corno nel cassetto e lo richiuse a chiave. Kerai mise l'oro nel sacchetto dove era stato il corno. Si mise a sedere, studiando con più attenzione lo straniero. Gli affari di Shar portavano molto di frequente degli stranieri ad attraversare in viaggio la città, ma non riusciva a capire da dove venisse quell'uomo. La pelle scura generalmente indicava qualcuno proveniente da Valakar, o dalle isole tropicali anche più a sud, ma la serie di motivi stampati sugli abiti dello straniero erano disegni che lei non aveva mai visto prima. L'uomo aveva un viso lungo, magro, con un affilato naso aquilino e zigomi alti. Alla luce delle candele i suoi occhi sembravano neri, ma lei pensò che potevano essere castano scuro al sole. Era serio e non sorrideva, ma non era tetro. «Mi chiamo Agrobo» esordì, con una voce dal tono profondo. «E voglio far uccidere un unicorno.» «Un particolare unicorno» interloquì Shar. «Perché?» chiese Kerai dopo una pausa. «Gli unicorni sono rari, ma non introvabili. Perché uno particolare? Per quanto ne sapete, potrebbe essere proprio il suo corno quello che ho appena portato.» Agrobo sorrise; non era un sorriso piacevole, e all'improvviso Kerai ebbe l'impressione che quell'uomo poteva essere pericoloso, dopotutto. «È nero Kerai!» disse Shar. «È un unicorno nero!» Questo sì, che la sorprese. Non aveva mai sentito di unicorni che non fossero bianchi. «Dille il resto, Agrobo» disse il mercante. «Non è dello stesso colore dei vostri unicorni, e non è dello stesso tipo» cominciò l'uomo dalla pelle scura. «I vostri unicorni sono sostanzialmente
grosse capre. Questo non lo è. È un cavallo cornuto, uno stallone col mantello nero come il giaietto ed occhi di fuoco.» «C'è soltanto quello?» «La mia patria è Akku, una grande isola vulcanica molto ad ovest della punta a sud di Valakar. La mia gente si è stabilita nell'isola cinquecento anni fa. Marbakku era là allora, ed è ancora là oggi. Non se ne conoscono altri.» Un'altra sorpresa. Gli unicorni, si supponeva, avevano una vita lunga, ma Kerai non aveva mai sentito dire che superassero i cento anni. «Morbakku» chiese. «Significa qualcosa?» «Vuol dire "brutta morte". Morbakku abita le montagne interne di Akku e si fa vedere raramente. Quelli che lo vedono...» Agrobo si interruppe, un'espressione remota sul viso, «... di solito muoiono.» «Te l'immagini quanto varrebbe un corno nero, Kerai?» chiese Shar con impaziente avidità. «Si potrebbe chiedere dieci, cento volte il suo prezzo per un pizzico della polvere ottenuta!» «Cosa ti fa pensare che sarebbe tanto più efficace della normale polvere di corno?» Il mercante scosse le spalle. «Sarebbe diversa. Sarebbe più rara. Chi lo sa?» Kerai ci pensò un momento. «Suppongo che lei voglia che io vada nella sua isola ed uccida questo Morbakku.» «Esatto» rispose Agrobo. «Ed io che ne ricavo?» «Mille pezzi d'oro.» Kerai fu sbalordita per quella somma. Usata con oculatezza, una tale quantità di denaro l'avrebbe resa finanziariamente indipendente. Non avrebbe più dovuto fare speciali lavori di caccia per Shar, o farsi assumere come guardia del corpo o corriere speciale. Avrebbe potuto costruirsi il rifugio che tanto sognava, uh luogo lontano dalla città e dagli uomini che non le permettevano di dimenticare. «Significa così tanto per lei?» «Non è così semplice come potrebbe pensare. Il viaggio fin là prenderà tre mesi se siamo fortunati, probabilmente quattro, forse cinque. Quando la nostra nave arriverà, lei sarà per conto suo. Io non potrò scendere a terra con lei; ho dei... nemici... sull'isola.» «E poi altri quattro mesi per portare il corno a me» disse Shar. «E come è organizzato il pagamento?» «Cento pezzi d'oro adesso. Trecento quando Marbakku sarà morto. Il re-
sto sarà tenuto in custodia qui da Shar e consegnato a lei quando gli porterà il corno.» «Sembra tutto soddisfacente» disse lei dopo un'altro momento di pensiero. «Una domanda, però. Perché io?» «Perché...» l'uomo dalla pelle scura si interruppe e guardò il mercante. «Perché sei una bastarda senza cuore, Kerai» completò il mercante. «La stessa ragione per cui sei l'unica donna che io abbia trovato disposta ad uccidere un unicorno che ha attratto. Perché hai una matassa di spine al posto del cuore.» Lei fissò il mercante spassionatamente per alcuni lunghi secondi, poi tornò a rivolgersi allo straniero. «Va bene. Quando cominciamo, e dov'è il mio denaro.» «Impiegherò diversi giorni per provvedere ai fondi. Stabiliamo la nostra partenza fra tre giorni a partire da domani? C'è una carovana di mercanti che dovrebbero partire allora.» «Va bene.» «Posso contare su di lei che sarà là?» «La mia parola è buona.» «Molto bene. In questo caso» disse, facendo un cenno con la testa a Kerai e Shar, «andrò a fare i preparativi.» Si sollevò dalla sedia e se ne andò. Zoppicava malamente ad una gamba, come se l'anca non potesse muoversi correttamente. Quando Agrobo se ne fu andato, Kerai si rivolse a Shar. «Qual è la tua opinione. Pensi che stesse dicendo la verità?» Il mercante alzò le spalle. «Probabilmente. L'ho visto solo una volta prima d'ora, di passaggio qualche anno fa, ma le mie fonti mi dicono che è conosciuto per affidabile e del tutto onesto.» «E che mi dici della sua pretesa di non poter tornare lui stesso nelle sue isole?» «È in una specie di esilio. Non conosco i dettagli. E non conosco nemmeno com'è Akku. So che esiste, ma è così lontana dalle solite rotte commerciali che questo è praticamente tutto quello che so.» Kerai fece una pausa. «Tu accetteresti il lavoro?» Shar rise di nuovo. «È passato molto tempo da quando io ero vergine. Ma sì, se fossi in te accetterei il lavoro. Se non altro, abbiamo cacciato troppo gli unicorni da questa parte del mondo; ti ci sono volute quasi tre settimane per trovare quest'ultimo.» «È vero. Credo che farei meglio a prepararmi per il viaggio, allora.» Si
alzò e fece per dirigersi alla porta. «Oh, un'altra cosa» aggiunse il mercante. «So che tu stai sempre in guardia, ma non dovrai preoccuparti che ad Agrobo vengano certe... idee... durante il viaggio. Le mie fonti mi dicono che non frequenta donne.» Il viaggio verso il più vicino porto di mare dall'insediamento mercantile di Shar all'incrocio delle strade commerciali dell'interno durò un mese e mezzo. Le fonti di Shar si dimostrarono esatte; in tutto quel tempo, Agrobo non fece alcuna proposta né a Kerai né, apparentemente, a nessun'altra donna nelle tappe lungo la strada. Rimaneva prevalentemente da solo, eccetto quando dava ordini agli uomini che lavoravano nella sua parte della grande carovana, o durante le diverse ore che passava ogni giorno ad insegnare a Kerai la lingua di Akku, un idioma fluente e cantilenante. Kerai non fu così fortunata con gli altri uomini. Dopo alcuni giorni di viaggio, uno degli uomini di Agrobo suggerì qualcosa di osceno e cercò di metterle le mani addosso. Lei lo lasciò con una lunga ferita sanguinante da coltello sulla guancia, e gli disse che la prossima volta sarebbe toccato alla sua gola. Pochi giorni dopo di ciò, degli amici dell'uomo cercarono di farle un'imboscata. Kerai ne disarmò uno con un fendente che lasciò la sua spada a terra nella polvere con le dita ancora strette intorno all'impugnatura; l'altro lo ferì alle natiche mentre cercava di fuggire. Poi andò a cercare il primo uomo e gli tagliò la gola come aveva promesso. Dopo questo, nessuno più la disturbò. Gran parte del viaggio fu compiuto via oceano, seguendo la costa fino alla punta di Valakar, poi diverse settimane furono trascorse nel porto di Valakarsa ad aspettare mentre Agrobo prendeva accordi per una nave che li portasse ad Akku. Il cuoio che Kerai indossava abitualmente dalle parti di Shar era insopportabilmente caldo a sud, e con riluttanza passò ad una larga blusa allacciata ai polsi, calzoni di tela leggera come quelli dei marinai ed un cappello a tesa larga per proteggere il capo dal sole. Il coltello e la spada rimasero al solito posto. Trascorse gran parte del tempo nella loro locanda, il "Gallo Rosso", studiando le mappe di Akku fornite da Agrobo. L'isola era sorprendentemente grande; anche con l'aiuto della fortuna, potevano volerci delle settimane per trovare l'unicorno nero nell'interno montuoso. Le storie sul suo conto che avevano viaggiato lungo la costa con la carovana mercantile di Agrobo tennero lontane da lei attenzioni sgradite. C'erano alcuni uomini ostinati, però decisi a vedere se le storie fossero vere.
Alla fine Kerai prese accordi col locandiere per usare il cortile sul retro del "Gallo Rosso". Chiunque voleva incrociare la spada con lei doveva soltanto pagare un pezzo d'oro per il privilegio; se vincevano, ne avrebbero portati via dieci. Fu occupata per diversi giorni, fino a che non divenne noto che qualsiasi uomo che si batteva contro di lei generalmente se ne andava via umiliato. Ricevette una leggera ferita ad un braccio da un gigante dai capelli rossi che aveva la più lunga spada che lei avesse mai visto. Lo batté sgusciando sotto un fendente della sua spada e dandogli un calcio nell'inguine. I compagni del gigante lo avevano aiutato ad andarsene. Kerai sedeva sulla veranda che si apriva sulle stanze del piano superiore della locanda e dava sul cortile, studiando le mappe di Agrobo e reprimendo uno sbadiglio, quando Agrobo tornò dal suo ultimo giro nel porto e sedette dall'altra parte del tavolo. Sentì una fitta di apprensione quando vide l'espressione vitrea, remota dei suoi occhi. «Qualcosa non va?» chiese Kerai. «Qualcosa riguardo la nave?» «Hmm?» Agrobo sobbalzò nella sedia, finalmente fissando lo sguardo su di lei. «Ahh... sì. Abbiamo una nave. Un legno Akkuano che è passato da Valakarsa diversi mesi fa ed ha proseguito per commerciare con le isole del sud. Ho aspettato che tornasse qui nel suo viaggio di ritorno ogni giorno, ed è arrivato stamattina. Ho avuto un lungo colloquio con il capitano...» La sua voce si spense ed i suoi occhi si fecero di nuovo remoti, mentre si accarezzava il mento pensierosamente. Le sue parole successive colpirono Kerai per il loro tono inaspettato. «Mio padre è morto!» esclamò lui, e lo disse con un lampo di gioia negli occhi ed un sorriso trionfante che gli si allargava sul viso. Prova le stesse cose che... pensò Kerai, poi si sforzò di ricacciare gli sgradevoli ricordi nella parte oscura della sua mente. Agrobo si era alzato dalla sedia eccitato e camminava tra il tavolo e la balaustra della veranda. La sua mano destra stringeva la gamba malata mentre zoppicava avanti e indietro. «Questo può significare... può significare...» Si fermò a metà passo e scosse la testa come per schiarirla. Si voltò verso Kerai e le parlò. «Mio padre mi ha diseredato ed esiliato. Se è morto, allora mio fratello minore, Pelago, ha il trono. Eravamo più che fratelli, eravamo amici; Pelago mi permetterà di tornare ad Akku.» Un principe. Interessante, pensò Kerai. «Lei ha detto che questo... Pelago?... era suo fratello minore? Vuol dire che lei sarebbe stato l'erede se non fosse stato esiliato?»
L'espressione di gioia si affievolì negli occhi di Agrobo, ed il suo viso di fece duro. «Sì» disse. «Se non fosse stato per questo» la sua mano batté sulla gamba, e si mise seduto, «se non fosse stato per questo, sarei stato io il successivo re di Akku. Ad uno... storpio... non è permesso regnare.» «È sicuro» chiese lei lentamente, «che suo fratello darà il benvenuto all'erede originario in quello che ora è il suo regno?» «Gliel'ho detto!» rispose Agrobo seccamente. «Eravamo amici! Ci fidiamo l'uno dell'altro come... come fratelli, maledizione! E poi...» la sua voce si abbassò. «Ho accettato la mia perdita. So che non sarò mai re.» Si interruppe, con gli occhi lucidi. «Voglio solo tornare a casa.» Si sollevò in piedi e zoppicò fino alla porta della sua stanza. «Salperemo domattina presto» disse bruscamente. «Si tenga pronta.» La porta sbatté, e Kerai si ritrovò sola sulla veranda. «Sono sempre pronta» sussurrò, e la sua mano scivolò sull'impugnatura consunta del coltello mentre cercava di tenere a bada i suoi ricordi. Il viaggio sull'oceano fu tormentato dalle tempeste, ma per il resto tranquillo. La strana nave a doppio scafo affrontava le onde infuriate meglio di quanto Kerai si aspettava, ma non abbastanza bene da evitarle frequenti mal di mare. Giurò a se stessa che una volta tornata sul continente non avrebbe mai più perso di vista la terraferma. Agrobo, dopo il suo scatto emotivo nella locanda, aveva riacquistato la sua solita riservatezza, parlando appena a Kerai. Lei gli aveva chiesto, mentre la nave stava imbarcando l'ultimo carico di acqua fresca e cibarie, se i suoi progetti per lei sarebbero cambiati se non fosse più stato in esilio. «No» aveva risposto lui. «Voglio ancora che la bestia venga uccisa.» Al quarantesimo giorno di viaggio da Valakarsa, la sentinella issata sopra la larga vela maestra quadrata avvistò la prima volta Akku. A metà pomeriggio le scogliere verdeggianti dominavano l'orizzonte e la prima di molte canoe uscì per venire loro incontro. Le canoe partivano da una spiaggia di sabbia nera scintillante, oltre la quale c'era una grande città. Un lungo attracco si proiettava nell'acqua ad un capo della spiaggia. Kerai guardò Agrobo dare ad un canoista un foglio arrotolato e sigillato, ed un pezzo d'oro, ed indicare che doveva essere portato a riva. Una lettera per Pelago, pensò. Il sole calava in fretta, ed il capitano della nave decise di gettare l'ancora ed attendere fino al mattino prima di fare l'ultimo miglio verso l'attracco. Kerai si chiese perché, fino a che uno dell'equipaggio indicò una linea di
frangenti tra la nave e la riva e le disse che indicava un banco di scogli sommerso, che avrebbe sfondato lo scafo della grossa nave se non veniva guidata con precisione attraverso la barriera. Comunque, gli scogli non erano un grande ostacolo per le canoe, ed esse continuavano a viaggiare avanti e indietro tra terra e nave per tutta la notte, guidate dalle torce accese sulla prua della nave. Portavano acqua fresca e cibo, carne arrostita e verdure, frutti esotici che Kerai non aveva mai assaggiato. Fiasche di un fortissimo vino di frutta furono fatte circolare liberamente; Kerai ne assaggiò un piccolo sorso e decise che da quel momento in poi sarebbe stato più saggio saltare il giro. Notizie e pettegolezzi venivano scambiati tra l'equipaggio e gli isolani. Kerai rimase nella sua piccola cabina, poco più che uno sgabuzzino, per gran parte della notte. Si sentiva a disagio in mezzo alle persone in festa, e per via dell'attenzione destata negli scuri isolani dalla sua pelle chiara ed i capelli rossi. Quando fu mattino, tutto era più calmo, ed i ponti erano cosparsi di persone addormentate. Il capitano era in piedi e ruggiva ordini, svegliando l'equipaggio a scossoni con un piede non troppo leggero. Gli ultimi visitatori tornarono a riva pagaiando, e le vele furono issate per l'ultimo tratto del viaggio. Mentre si avvicinavano all'attracco, Kerai poté osservare più da vicino la città ed i suoi abitanti. Tutte le costruzioni erano di legno, notò; la pietra vulcanica dell'isola apparentemente era troppo difficile da lavorare, e non abbastanza forte per farne costruzioni in pietra. Molte delle costruzioni erano lavorate con disegni ornati ed intagli, e decorate con colori brillanti. Una grande lettiga decorata stava venendo trasportata attraverso le strade mentre loro si ormeggiavano al molo. Era trasportata da dodici uomini, sei per lato, ed era coperta di profondi intarsi e decorata con piume d'uccello di colori brillanti e conchiglie marine. Altri gruppi di uomini marciavano davanti e dietro la lettiga, con fasce piumate sul capo e pesanti randelli con incastonati frammenti di ossidiana vulcanica nera. Anche quello per Kerai era comprensibile; probabilmente non c'era ferro nativo sull'isola. Armi come il suo coltello e la spada qui erano inestimabili. I randelli da guerra lasciavano orribili ferite in battaglia, ma non duravano molto più di un combattimento. Notò che alcuni degli uomini avevano delle fionde infilate alla cintura. Mentre la lettiga si avvicinava, le persone davanti alle quali passava si inginocchiavano e mettevano una mano sulla loro testa china. Kerai poteva
vedere una figura seduta sotto il padiglione coperto della lettiga, ma non riusciva a distinguerla chiaramente fra le ombre. Si guardò intorno e vide Agrobo che gli era accanto con il volto teso. Quando la lettiga si fermò accanto alla banchina, lei ed Agrobo erano le uniche due persone sulla nave ancora in piedi. «Si inginocchi» borbottò Agrobo di traverso, «o le guardie la faranno a pezzi e getteranno il suo corpo ai pesci.» Con riluttanza lei si inginocchiò, piegando il capo solo quel poco che riteneva sicuro e tenendo la mano libera proprio accanto all'impugnatura del coltello. Ci fu un lungo momento di silenzio. Né i guerrieri che fiancheggiavano la lettiga né la gente inginocchiata davanti ad essa si mossero o parlarono. Il momento si allungò, poi Agrobo sospirò e si abbassò accanto a Kerai lentamente, goffamente, la gamba malata tesa davanti a lui. Solo allora il passeggero della lettiga discese. Kerai sentì i suoi passi avvicinarsi, e vide i suoi piedi calzati con sandali mentre saliva a bordo della nave e si avvicinava ad Agrobo. Non si sentiva sicura con gli occhi fissi sul ponte, e le sue dita prudevano in cerca del conforto del suo coltello. I piedi si fermarono davanti ad Agrobo, e Kerai sentì parlare una voce simile per profondità a quella di Agrobo ma con un tono più scuro. «Fratello mio, Agrobo» disse la voce quasi in un sussurro. Kerai sentì Agrobo muoversi mentre abbassava la mano ed alzava la testa verso colui che aveva parlato. «Pelago, fratello mio.» Fece una pausa. «Mio re.» Pelago si accovacciò per parlare con Agrobo faccia a faccia. Con la coda dell'occhio, Kerai vide che era più basso e di corporatura più massiccia del fratello, con un naso più piatto e labbra più larghe. Madri diverse, pensò. Indossava un mantello di piume dai colori brillanti, ed intorno al collo aveva numerose collane infilate con grani di acciaio lucidati. «Mi dispiace» stava dicendo. «Comunque, è stato necessario farti passare questo. Dovevi riconoscermi pubblicamente. Hai ancora molti amici che pensano che nostro padre abbia sbagliato ad esiliarti.» «E tu, Pelago? Tu che pensi?» «Io penso che come padre abbia sbagliato. Come re... ho imparato, Agrobo, che essere re a volte richiede decisioni difficili e penose. Non dovresti rammaricarti di aver perso la sovranità; non è una professione per uomini con la gentilezza nel cuore.» «Non rimpiango più quello che non ho mai avuto, Pelago. Rimpiango la perdita di quello che avevo, e sono tornato in cerca della mia vendetta.»
Kerai sentì gli occhi di Pelago spostarsi su di lei. Si era reso conto che Pelago era apparentemente ignaro del fatto che lei potesse capire le parole che venivano scambiate, così rimase al suo posto, senza mostrare alcuna reazione. «La tua lettera diceva che questa donna poteva uccidere Marbakku per te.» «Sì.» «Se è così, ti sarai redento. Porta la donna sulle montagne. Portami il corno di Marbakku ed io potrò annullare il tuo esilio.» «Il...» Kerai sentiva lo sgomento e l'angoscia nella voce di Agrobo mentre rispondeva lentamente: «Il corno... il corno è stato promesso alla cacciatrice.» «Ah.» Ci fu una lunga pausa. «La sua testa, allora. Portami il resto della tua testa.» Un sospiro di sollievo. «Sarà fatto.» «Agrobo» disse Pelago, abbassando la voce ad un sussurro. Poggiò le mani sulle spalle di Agrobo. «Qualunque cosa accada, vedrò di farti passare il resto della tua vita su Akku.» «Se non ti porto la testa di Marbakku, fratello, sarà perché sono morto cercando di prenderla.» «Lo so.» Allora Pelago si alzò in piedi e tornò alla sua lettiga. I portatori l'alzarono, i guerrieri marciarono, e lui se ne andò. Si misero in viaggio verso l'interno quello stesso giorno. Agrobo era espansivo, mostrava la moltitudine di piante e frutti che crescevano sull'isola, esclamava di fronte a dei punti di riferimento familiari che non vedeva da anni. Kerai lo trovava abbastanza noioso, e si concentrò nel procedere lungo gli stretti sentieri fiancheggiati di verde. La vegetazione variava dalla fitta giungla impenetrabile ad aree di piante basse rade, differenziandosi apparentemente dalla più o meno recente formazione del terreno e da quanto sedimento si era accumulato sulla base vulcanica. Agrobo usava un bastone per mitigare lo sforzo della sua gamba malata mentre percorreva le ripide piste. «Abbiamo molti animali piccoli» stava dicendo, «ma Marbakku è l'unico grande. La prima volta che ho lasciato Akku ed ho visto i primi cavalli sul continente fui terrorizzato. La gente cavalcava quegli animali simili a Marbakku e passò un anno prima che cavalcassi io stesso.» Questo era più interessante. «Come spiega la sua gente la presenza di
Marbakku sull'isola?» chiese lei. «La solita versione è che quando l'Onate ha creato gli Dei Minori, alcuni erano anormali o imperfetti, e furono abbandonati nei più lontani recessi del mondo. Marbakku, si suppone, è l'incarnazione folle di una di queste divinità. In realtà, la verità è la stessa che per gli unicorni-capra della sua terra... nessuno sa veramente da dove vengono.» «Kerai non credeva negli dei, piccoli o grandi, ma il discorso era inquietante.» Altri hanno provato a cacciare Marbakku? «Alcuni.» Agrobo fece una smorfia per una fitta di dolore alla gamba. «Gli uomini, e le donne non vergini, sono stati tutti uccisi... o storpiati. Le poche donne vergini che lo hanno incontrato hanno avuto la stessa esperienza che con i vostri unicorni; un sortilegio di mutuo amore ed incanto. Ecco perché ero così entusiasmato quando ho sentito parlare di lei.» Passarono la notte in una capanna per viaggiatori, parte di una rete di rifugi sparsi nelle aree più selvagge dell'isola ad uso di cacciatori o altri viaggiatori. Coloro che le usavano avevano il dovere di mantenere le capanne pulite ed in ordine. Agrobo e Kerai ripararono delle persiane rotte prima di ripartire la mattina dopo. La pista che seguivano portava su una cresta che seguiva un cono vulcanico che ancora fumava ed emetteva vapori. Degli occasionali squarci nel verde mostravano loro lo strato di lava raffreddata che si allargava giù per il fianco della montagna. Kerai guardò le rocce desolate e cercò di immaginarle, liquide ed incandescenti, uscire ribollendo dalla montagna. La sua mente rabbrividì. «Guardi!» disse Agrobo, indicando. Marbakku attraversava al galoppo il pendio di lava, il suo mantello era più nero della roccia sotto di lui. Era un cavallo, a parte il lungo corno nero che gli spuntava dalla fronte; grande e muscoloso, dal mantello lucido, non aveva niente della capra. Ed anche da quella distanza, Kerai vide che i suoi occhi brillavano davvero, scintillanti del rosso di un fuoco interiore. Non sapeva se Marbakku fosse un dio, ma certamente era più di un semplice animale. La bestia si fermò su un rigonfiamento di lava, muovendo la coda, apparentemente guardando proprio nella loro direzione. La sua testa si alzò verso il cielo, ed il suono del suo nitrito colpì Kerai come un pugno: era un grido di rabbia e furore, un grido di follia. Marbakku si voltò e galoppò sul ciglio del pendio. Kerai si voltò e vide Agrobo fissare il punto in cui aveva visto l'unicorno nero: aveva il viso co-
perto da una patina di sudore. «Ora sappiamo dove va» disse alla fine. «C'è una capanna dall'altro lato della cresta. Possiamo agire da là.» «Vorrei essere io» disse Agrobo mentre lei finiva di cambiare abito. «Vorrei poterlo uccidere io.» «Lo so.» Kerai infilò il coltello nella cintura della giubba. La giubba era troppo pesante per quei luoghi, ma ne aveva indossate di simili durante questi tipi di cacce, e si sentiva psicologicamente più tranquilla. Agrobo guardò fuori dalla porta le nuvole che si addensavano nel cielo. «Presto ci sarà un temporale. La pioggia non è fredda, ma può essere estremamente fitta.» Si voltò a guardarla. «Faccia attenzione.» Lei si rese conto che non stava parlando della pioggia. «Sono già uscita con i temporali» disse, e se ne andò. Muoversi attraverso la fitta vegetazione fu la parte più difficile; muoversi in linea retta fu quasi impossibile, e le ci volle più di quanto si era aspettata per raggiungere il pendio di lava. Cercò qualche genere di traccia, ma la roccia non recava segni della presenza dell'unicorno. Si arrampicò verso la cresta dietro alla quale Marbakku era scomparso. Si fermò in cima, col vento che le soffiava sul viso, ed esaminò l'area sottostante. II flusso di lava diventava di nuovo giungla a circa centocinquanta piedi più in basso. La lava era deserta, ma lei sentì qualcosa vicino. Sentì qualcosa nella sua mente. Sentì qualcosa sul pendio dietro di lei. Si voltò, ed il mondo esplose in un globo di dolore scarlatto. Cominciò a cadere, ancora voltandosi, alzando le mani verso il sangue che le colava sul viso. Vide, mentre cadeva, tre guerrieri di Pelago correre verso di lei su per il pendio, uno con la fionda ancora in mano... Vide, mentre si rotolava sulle ginocchia, Marbakku sull'altro lato della cresta, la testa alzata per emettere il suo folle nitrito... Vide il lampo del fulmine dividere in due il cielo e rispondere al nitrito di Marbakku col suo schianto e il tuono, e sentì la pioggia calda pulirle gli occhi dal sangue mentre la sua testa batteva al suolo... Era una pioggia fredda, ma in casa lei era al sicuro. Al sicuro sotto le coperte del suo letto, in alto nel solaio in un angolo della casa dei suoi genitori. La pioggia faceva soltanto un piacevole tamburellare contro il tetto ricoperto di paglia sopra di lei. Il fuoco, quasi soltanto braci, dava alla
casa una debole illuminazione e all'aria un leggero odore di fumo. La scala del solaio scricchiolò. Lei si alzò leggermente, ancora insonnolita, mentre una figura familiare si frapponeva tra lei e la luce del fuoco. «Papà?» «Shh. Shh, Kerai, va tutto bene.» La sua voce era un sussurro, ma tremava. Alzò le coperte e scivolò accanto a lei. Lei si svegliò ulteriormente, spaventata quando lui l'abbracciò. «Papà?» chiese di nuovo, ed ora anche la sua voce tremava. «Shh. Va tutto bene, Kerai» sussurrò lui. Poi cominciò a toccarla. «Fermo.» La voce era appena riconoscibile come quella di sua madre. Era dura e decisa, senza pietà. Kerai arretrò nell'angolo del solaio quando il padre la lasciò andare. «Ho visto come la guardi. Come osi» disse la madre mentre saliva gli ultimi pioli della scala. «Come osi.» Il padre di Kerai si asciugò le labbra. «È grande abbastanza» grugnì. «È tua figlia!» Sibilarono le parole velenosamente. «È una donna. E io sono un uomo.» «Non te lo permetterò.» Ed il coltello in mano a sua madre brillò fiocamente di rosso nel debole bagliore del camino. E poi Kerai urlava mentre le due figure all'improvviso si azzuffarono. Qualcosa cadde sul pavimento del solaio, le due figure sì separarono, una inciampò e vacillò sull'orlo del solaio, cadde e sparì. «Mamma!» gridò Kerai, strisciando verso il bordo. Il corpo di sua madre era immobile sul duro pavimento di legno, il collo piegato ad un angolo innaturale, gli occhi sbarrati e ciechi. Kerai gridò ancora, e poi ancora quando il padre l'afferrò e cercò di allontanarla dal bordo. Qualcosa era sotto la sua mano, e per istinto le sue dita si serrarono intorno all'impugnatura. Colpì, e la lama affilata del coltello tagliò superficialmente la coscia dell'uomo, ma penetrò a fondo fra le sue gambe. Kerai sentì un getto di sangue sulla mano, mentre lui gridava stringendosi con le mani la ferita. E poi Kerai correva nella foresta scura, nera e inanimata, mentre la pioggia chiara e fredda lavava il sangue di suo padre dal coltello che aveva in mano. Suo padre urlava ancora. Attraverso un velo rosso, vide un randello calare verso di lei. Arretrò ed inciampò su un guerriero steso a terra; era lui che urlava cercando di tenere chiusa una profonda ferita allo stomaco. Il randello finì per colpire il suolo schizzando schegge di ossidiana rotta nella pioggia. Il terzo guerriero era
dietro di lei; fece roteare il suo randello mentre lei affondava col pugnale. Kerai gridò di dolore quando il randello la colpì al braccio; il coltello volò via, lontano da lei. Il secondo guerriero si gettò su di lei, ringhiando in modo incoerente mentre cercava di colpirla con un pugnale sul viso. L'altro abbaiò un ordine e lo allontanò leggermente. I due si dissero qualcosa urlando, ma Kerai era troppo prossima allo svenimento per capire le parole. Le legarono le braccia e le mani con le fionde e la obbligarono, barcollante, ad alzarsi in piedi. Il terzo guerriero, evidentemente il capo, raccolse il coltello ed andò ad esaminare l'uomo ferito; ora gemeva solamente, ed il sangue gli colava dalla bocca. Il capo lo guardò un momento, poi gli immerse il coltello di Kerai nel petto; l'uomo ferito rabbrividì e giacque immobile. Il guerriero capo rimosse e pulì il coltello, e poi se lo infilò nella cintura. La fionda del morto fu pigiata nella bocca di Kerai. Poi i due uomini cominciarono a muoversi attraverso la giungla, trascinandola con loro. Lei continuò a barcollare; debole e stordita per l'emozione e la perdita di sangue. Il suo braccio era gonfio e intorpidito, col sangue che pulsava lentamente dalla ferita prodotta dove il randello l'aveva colpita. La pioggia che le scorreva sul viso mentre si muovevano attraverso la giungla le impediva di svenire di nuovo. Continuò a tentare di far uscire il bavaglio dalla bocca mentre sì avvicinavano alla capanna dove Agrobo era in attesa. Rallentarono quando furono in vista della capanna. Il guerriero capo parlò, ed il secondo colpì con un pugno la schiena di Kerai. Lei gemette cadendo a terra pesantemente, e passarono diversi secondi prima che si rendesse conto che il bavaglio era stato allentato dalla caduta. I due guerrieri stavano scivolando verso la capanna mentre lei sputava il resto fuori dalla bocca. «Agrobo!» urlò. I guerrieri si voltarono a guardarla, imprecando, ed Agrobo apparve sulla porta, tenendo in mano la spada di lei. I guerrieri si immobilizzarono, poi si resero conto che erano stati visti. Il capo si raddrizzò e camminò allo scoperto, seguito dal secondo. Si fermarono a circa tre metri da Agrobo. «Tuo fratello ha detto di dirti» disse il capo, «che a volte un re deve prendere decisioni difficili e penose.» Strinse il suo randello da battaglia con una mano ed estrasse il coltello di Kerai dalla cintura con l'altra. Un brivido attraversò Agrobo, facendo tremare la punta della spada. «Ha detto che potevo passare il resto della mia vita su Akku.»
«E così farai.» Due guerrieri si allargarono leggermente e cominciarono a muoversi verso il loro bersaglio. Kerai era riuscita ad alzarsi in ginocchio e stava osservando. Non aveva mai visto Agrobo usare una spada, e non sapeva quanto poteva essere bravo. La sua spada era più lunga e più facile da manovrare dei randelli, ma il suo peso più leggero voleva dire che sarebbe stato difficile parare qualsiasi colpo dei randelli. E con due contro uno, e quell'uno storpio... Agrobo poteva tenerli a bada per un poco, ma non per molto. «Tieni la schiena contro la capanna!» gridò. I guerrieri guardarono indietro, poi tornarono ad occuparsi dello spadaccino che li fronteggiava. Kerai si appoggiò contro un albero e si issò in piedi. C'erano delle macchie che si muovevano davanti ai suoi occhi. Il secondo guerriero si fece avanti e fintò col randello. Agrobo menò un fendente nella sua direzione, poi saltò via mentre il capo calava il randello proprio nel punto in cui si era trovato. Kerai si diresse contro un albero con le mani legate, sforzandosi ad una corsa barcollante. Il rumore della pioggia copriva quello dei suoi passi. Corse contro il capo ed affondò i denti nel suo orecchio mentre lo urtava; lui gridò, lasciando cadere il randello, cercando di liberarsi di lei mentre agitava il coltello. Il secondo guerriero esitò, incerto su dove voltarsi, ed Agrobo calò un fendente sul suo braccio. Il randello cadde a terra, ed Agrobo menò un altro fendente. Il guerriero cadde sul suo randello, morto. I denti di Kerai si staccarono da ciò che restava dell'orecchio del guerriero, e lei cadde a terra. Il guerriero si voltò e balzò su Agrobo mentre finiva il secondo fendente. Agrobo cerco di riprendersi e voltarsi ad affrontare il secondo assalitore... ed il coltello affondò nel suo inguine, squarciando. Agrobo boccheggiò per il colpo e cadde, la spada che scivolava dalla sua stretta. Il guerriero si fermò, ansimando, per un momento, poi si voltò verso Kerai. Sentì con la mano il suo orecchio ferito, sussultò, e la guardò con rabbia. Alzò il coltello nella mano ed avanzò verso di lei. Kerai non aveva più forze. Non poteva far altro che giacere a terra e guardare l'uomo avvicinarsi. II nitrito riempì l'aria, e gli occhi del guerriero si spalancarono di improvviso terrore quando vide qualcosa dietro Kerai. Poi una forma nera volò sopra Kerai e si gettò sull'uomo, mandandolo a rotolare a terra. Il guerriero cercò di alzarsi, e gli zoccoli scuri lo pestarono, lo pestarono, ancora
e ancora e ancora. Alla fine Marbakku si fermò, ansimando leggermente. I suoi zoccoli insanguinati camminarono verso Kerai e si fermarono davanti a lei. I suoi occhi infuocati la guardarono un momento, poi strofinò il muso contro di lei gentilmente. Kerai si scosse. Era ancora viva. Sentiva dolore dappertutto, ma era viva. Cercò di alzarsi, senza riuscirci. Doveva slegarsi le mani. Lentamente, dolorosamente, si fece strada strisciando verso Agrobo. Agrobo e la sua spada. Era ancora vivo. I suoi occhi erano vacui e lontani, ma si fissarono su di lei quando pronunciò il suo nome. «Agrobo» disse. «La spada. Liberami le mani. Cercherò di aiutarti.» Lui la fissò senza espressione. «Agrobo. Ti prego.» I suoi occhi si chiusero, ma una mano si mosse, e si allungò verso la spada accanto a lui, il suo respiro sibilante per il dolore. Non poteva sollevare la spada, ma voltò il filo verso l'alto perché Kerai potesse tagliare i legami. Quando le sue mani furono libere, Kerai si voltò per fare quello che poteva per Agrobo. Lui aveva lasciato ricadere la spada, ed i suoi occhi si stavano offuscando. Era quasi certa che stesse per morire, ma allentò i suoi calzoni per vedere la gravità della ferita. La ferita del coltello era profonda e piena di sangue, quello che si era aspettata. Ma la vecchia cicatrice distorta accanto ad essa... Ora sapeva che genere di storpio Marbakku aveva fatto di Agrobo. «Uccidilo...» mormorò la sua voce. Lei alzò lo sguardo, e gli occhi di Agrobo erano sbarrati mentre la pregavano. «Uccidilo per me. Ti pre...» E morì, con la pioggia che rimbalzava sui suoi occhi aperti. Kerai sentì il nitrito dell'unicorno nero dietro di lei. Si voltò e lo vide là, in attesa che lei ricambiasse l'amore che non poteva fare a meno di provare. Kerai riuscì ad alzarsi in piedi, usando la spada come supporto. Il suo coltello giaceva sull'erba vicino ai resti calpestati del capo guerriero. Lo raccolse, badando a non cadere di nuovo. Marbakku le si avvicinò e di nuovo strofinò il muso contro il suo collo. Lei appoggiò la lama del coltello, bagnata di pioggia e del sangue del guerriero, contro la gola di Marbakku. «Sei un bellissimo animale» gli sussurrò. «Ma questo è quello che sei, un animale. Uno stupido animale, proprio come quelle capre con un corno. Ecco tutto.» Aumentò la pressione
contro la gola dell'unicorno. Chiara acqua piovana usciva strizzata dal mantello dell'unicorno mentre lei premeva, formando rivoli lungo la lama. Si allontanò e barcollò verso la capanna. «Vattene» borbottò, appoggiando il capo contro lo stipite della porta. «Se non sei un animale, te ne andrai. Se sei abbastanza stupido da tornare, ti ucciderò. Giuro che ti ucciderò.» Alzò la testa e fissò l'unicorno. «Vattene!» L'unicorno trattenne il suo sguardo per un lungo momento, poi si voltò e si diresse verso la pista nella giungla. Si volto al limitare della piccola radura e la fisso di nuovo. Poi emise il suo folle nitrito, si voltò, e scomparve. Le gambe di Kerai si piegarono sotto di lei, e si mise seduta nel vano della porta, fissando la carneficina davanti a lei. La pioggia era quasi cessata, ed un raggio di sole spuntò fra le nuvole. C'erano così tante cose che doveva fare: doveva bendarsi le ferite, e passare qualche giorno a riprendersi. Doveva tornare al villaggio sul mare e prendere accordi per un passaggio verso il continente. Accarezzò il coltello pensando all'addio che avrebbe dato a Pelago. C'erano così tante cose da fare. Ma prima pianse. Titolo originale: Unicorn's Blood Traduzione di Marina Nunzi LA TERRA SENZA OMBRE di C.J. Cherryh In genere C.J. Cherryh viene per lo più associata alla fantascienza tecnologica, un genere che io, come editor, tendo a non gradire perché mi sembra che trascuri i valori dei personaggi e della storia in favore di intense descrizioni del fascino di un congegno e della preminenza della tecnologia. Personalmente rimango dell'idea che i bei racconti non parlino di astronavi o tecnostrutture o delle società basate su dì esse, ma piuttosto parlano di persone ed emozioni. Infatti, Ted Sturgeon una volta ha riassunto per me dì cosa tratta un bel racconto: i bei racconti, ha detto, parlano di appassionate relazioni emotive. Tuttavia dal suo affascinante Hunter of Worlds a La Lega dei Mondi Ribelli, vincitore del Premio Hugo, fino al romanzo L'orgoglio di Chanur
finalista all'Hugo, Carolyn Cherryh riesce a mantenere decisamente il nucleo della sua narrativa sulle persone che ne sono coinvolte. In generale, mi accontento di selezionare solo racconti molto buoni. Questo racconto si adatta al criterio che io uso per i capolavori: mi ha dato i brividi mentre terminavo di leggerlo. Dio volse il suo occhio sinistro sulla terra, ed esso brillò come argento e bruciò il paese col freddo; guardò il mondo col suo occhio destro e quell'occhio fiammeggiò come oro al punto di fusione: bruciò come oro raffinato. Egli distese le sue ali ed il loro vento flagellò le sabbie col calore e spezzò la pietra stessa. Egli volò, e l'ombra delle sue ali fu la tempesta di sabbia: così vaste erano quelle ali che nel mondo non c'era altro che ombra. Così terribile era il vento di quelle ali che terra e cielo che erano mescolati dalle profondità alle altezze, e grandi pietre venivano scagliate via dalle loro sedi. E quando Dio ebbe ripiegato quelle ali e guardato di nuovo col suo incandescente occhio destro (con l'altro guardava i suoi fratelli e sorelle, con circospezione, conoscendo i loro modi) «quando Dio guardò il mondo non era più lo stesso mondo; e non era più la stessa Akhet quella che camminava lasciando una linea incerta sulle sabbie, perché questa Akhet era bruciata, ed il rumore delle ali di Dio le era entrato nella testa, così che le sentiva continuamente nel silenzio del deserto, e non percepiva nient'altro, nemmeno i ricordi.» Era un capriccio di Dio quello di riportare alla luce vecchi segreti dalle sabbie, ogni volta che rimodellava il mondo, curiosità che aveva raccolto ed ora riportava sotto il suo sguardo. Alcuni erano pieni di gioia, sorridenti mentre fissavano senza occhi lo sguardo di Dio; alcuni erano frammenti disseccati di osso e cuoio, bizzarramente contorti come se cercassero di scomparire di nuovo nelle profondità in quel loro mondo immobile; altri ancora avevano un aspetto angosciato, come se protestassero contro una simile violenza. Rarissimi e strabilianti, alcuni guardavano in alto con profonda solennità, pelle bruciata quasi indistinguibile dall'osso: sorridevano i sorrisi segreti di antichi re e regine, nei loro stracci o nella loro nudità. C'erano anche animali, e carnivori da preda di osso lucidato, alcuni fatti di orrore contorto, altri di scarna, erosa nobiltà. C'erano pietre che Dio aveva fatto e le sue creature modellato ad immagine sua e dei suoi fratelli e sorelle. C'erano i resti di luoghi che erano stati di gran nome fra queste creature, ma Dio stesso non aveva dato loro alcun nome ed essi ora non ne avevano,
come Akhet, che aveva dimenticato di essere Akhet o in quale direzione si muoveva. Camminava in mezzo a questi tesori. A volte era una direzione, a volte un'altra: aveva dimenticato. Ma trovava compagnia con questi ricordi di Dio, e rideva con loro, perché vedeva che la pelle del suo corpo diventava come la loro carne, percorsa da finissime rughe; ed immaginò che il suo viso fosse il viso dei re e delle regine che incontrava, dalle labbra disseccate e le guance scavate e terribili come Dio. Rise; ed era sola con quella risata nella testa che risuonava nel silenzio improvviso, perché il frastuono delle ali, che non era ancora cessato nei suoi orecchi, smise. Era al cospetto della vista incandescente di Dio, nella luce del suo occhio destro che non lasciava altri colori che il suo, e brillava intorno alle rocce in modo che non gettavano ombra. Non c'era un posto buio in nessun luogo. L'occhio di Dio guardava nel cuore di Akhet, e la luce del suo occhio vi brillava tutto intorno come le pietre, ed esso era un unico colore con le pietre e la terra, come tutte le cose. Il silenzio divenne di quel colore e di quel gusto, che alle narici era come l'odore del rame fuso; e quel silenzio prosciugava la sua risata e la faceva riecheggiare. Aaaa-ah, ah-ah, ah-ha, ah-ket, ahket, akhet, akhet, Akhet. La sua voce era diventata la voce di Dio, e quella voce chiamava il suo nome, e lei si voltò e riprese il cammino, fiduciosa come una bambina. «Akhet!» gridava di tanto in tanto, cercando se stessa. Oppure era Dio a cercare Akhet. La voce di Dio chiamava Akhet all'infinito, con una voce strana e moltiplicata. «Akhet, Akhet, Akhet!» Aveva avuto sete; aveva dell'acqua e l'aveva dimenticato, quando le ali l'avevano assordata. Ora l'acqua faceva un lieve suono piacevole mentre camminava, come il canto del fiume. (Veramente stava camminando sulle pietre dei segreti dimenticati di un altro Dio, la mummia di un fiume, che era disseccata come i morti dimenticati. Le pietre del letto crepitavano sotto i suoi piedi, ed i lacci dei suoi sandali si impigliavano e la facevano inciampare). Portava altre cose che aveva dimenticato. Le pesavano, ma non le lasciò andare, essendosi ricordata erano Akhet ed Akhet era queste cose. Vuotò il calore stagnante dell'otre e lo lasciò ricadere sul fianco, vuoto. Rise, e Dio rise, raddoppiò la sua risata, e lentamente chiuse il suo occhio. Era il momento dell'ombra, delle cose semi-reali. Vide delle rupi. E quelle rupi erano rosse come il sangue. Ed echeggiavano con la voce di Dio, «Akhet, Akhet, het, het...»
«Aiii» gridò lei in quella cecità, quando l'occhio di Dio l'ebbe lasciata, e nel mondo delle ombre immaginò l'allegria di Dio, e l'inganno. Aiii, ii, ii! risposero le rupi. Camminò, e l'illusione di un fiume divenne liquido sotto i suoi piedi, ed il dolore e il liquido crebbero: era un fiume di sangue nella luce morente, e le rupi ne erano macchiate; e le ombre si moltiplicarono e si mossero. «Dio!» gridò lei. (E Dio-dio-dio, le pietre). Uno sciacallo le venne incontro, corteggiando il letto del fiume. Questo era il fratello di Dio, e lei era a disagio, perché i fratelli di Dio gli erano nemici, e questo era astuto. Sapeva come portarsi via fra le fauci un'anima, e portarla nelle sue ombre prima che il fratello se ne accorgesse. Rideva, e lei camminava nel sangue, sicura adesso di conoscere quel fiume, di aver trovato il Fiume Oscuro; e il dio-sciacallo avrebbe voluto guidarla se avesse potuto. Si chinò e raccolse una pietra. «Va' via!» gridò. (Va' via-ia-ia, risposero le rupi). La gettò, e il dio balzò di lato, poi si allontanò trottando di qualche passo e si fermò nella sua solennità recuperata, i grandi orecchi sollevati, con cui sente i pensieri di suo fratello e tutti i conciliaboli del mondo. Sorrideva, ed i suoi denti di sciacallo erano aguzzi. Lei gettò un'altra pietra, ed essa divenne una lancia durante il volo; era diventata una lancia nella sua mente, e volava col rumore di voci e il suono delle acque. Pianse dopo che l'ebbe scagliata, e rimase immobile e scossa, in un luogo roccioso, nella cecità di Dio. Una pietra rotolò con un rumore secco. Un'altra si mosse. Lei si voltò di scatto per vedere, ma le pietre la tradirono, e cadde giù sulle ginocchia, battendo le palpebre davanti a quella forma estranea prodotta dalle ombre, questa pallida forma sul cui seno brillava un pettorale nelle ultime deboli luci; ed ai cui polsi era il bagliore dell'oro avviluppato dalla notte. Oro che le cingeva la vita e ricadeva come pioggia sulle sue gambe, ed il lino del suo abito era del bianco notturno; ed il suo profumo era come l'odore di mirra e fumo. «Dea» disse Akhet nella cecità di Dio, quando egli cerca nel mondo i suoi fratelli e sorelle, le loro opere. Ma uno degli dei sicuramente era qui; ed un altro era laggiù, lo sciacallo delle ombre; ed Akhet dimenticò la pietra su cui era caduta la sua mano. Le ginocchia tremavano sotto di lei, perché la dea camminava sulla scia del suo sangue ed il suo viso era il viso scavato delle regine nella polvere. I suoi occhi erano il fondo dei loro oc-
chi; e la sua bocca mostrava il piacere immobile, disseccato delle loro bocche, che custodivano segreti e non li rivelano. «Qual è il tuo nome?» chiese la bocca. «Akhet» disse Akhet. «Di nuovo: quale nome?» «Akhet.» «Ancora: quale nome?» Era un sortilegio, Akhet ne era sicura, e le sue viscere si sciolsero in acqua e le ferite ai piedi le facevano male. Puzzava di sudore e tremava, e ricordò la pietra nella sua mano, cosicché la mano iniziò a tremare. Voleva tirare quella pietra. Ma il suo nome si gelò nella sua bocca e si fermò in gola e le mozzò il respiro, altrimenti sarebbe uscita in quel momento nella notte, nelle mani della dea. «Non è il tuo nome» disse la dea, ed era vero. Lei rimase così, derubata e desolata e tremante dal freddo. Non aveva speranza, dunque, che Dio vedesse e cacciasse via la sua Morte. Dio avrebbe aperto il suo occhio argenteo, ma lei non aveva più nome come gli altri segreti di questo deserto, e per lui non sarebbe stata niente di più. «Il mio è Neit» disse la dea. Era una Morte. Ve ne erano molte. Questa era la sua; ed allora si calmò, e rimise la sua pietra a posto in mezzo alle altre pietre. Ricordò che portava delle cose. Una era un otre d'acqua vuoto. Una era una spada nel suo fodero. Una era una faretra di frecce, ma aveva perso l'arco. Raccolse queste cose in grembo, sulle ginocchia, e le strinse come fossero sue. Ma la dea si sedette davanti a lei, il lino delicato e l'oro che baluginavano nella cecità di Dio. Il suo profumo era dolce essenza di rose e loto insieme alla mirra. «Perché sei venuta qui?» chiese la dea. Cercò di ricordarlo. Andò a caccia di questo ricordo nella sua mente, ed esso si voltò e balzò su di lei, nero e improvviso, e lei tremò e si strinse ai resti di se stessa. «Sono venuta per morire» disse; ed una parte di lei ritornò, facendola sussultare e scuotere di dolore, aggrappandosi alla spada. Sangue rosso scorreva sulla sabbia e roteava nelle correnti di un fiume, filamenti scarlatti nel marrone. Città bruciavano. Tombe si ergevano deserte. «Dove sono arrivata?» Batté le palpebre ed alzò gli occhi e guardò le rupi. Non c'era nessun fiume, solo un letto di sassi disseccato fra due rive morte. «Dea, dove sono arrivata?» «Dove ti trovi. Alza la spada. Alza la spada, bambina.»
Lei batté le palpebre, strinse l'elsa e la tirò più vicino. Era la sua difesa. Aveva solo questa. Ma l'elsa scivolò dal fodero e la lama era spezzata. ... si era spezzata, nella sua mano. I bambini gemevano, gemevano nel fuoco e nel fumo; i carri si riversavano dai cancelli del mattino... Tremava e rabbrividiva. Dalla faretra caddero frecce dalle piume rovinate e le punte smussate. Il fodero cadde vuoto davanti alle sue ginocchia; lei vi gettò sopra la lama, chinò la testa e pianse. «Cos'è successo, figlia?» disse dolcemente la voce da quelle terribili labbra disseccate. «Che ne è stato dei bambini?» «O Neit, i carri, le spade taglienti...» «Ferro» le chiamò la dea. «Le spade sono ferro.» E la parola le attraversò le ossa. «No» pianse lei, e si premette le man sugli occhi. «O dea, i miei figli...» «Ti sei battuta.» «Hanno ucciso i miei figli!» «Hanno bruciato le tue città.» «Le mie città.» Rabbrividì e si asciugò gli occhi. C'erano dei bracciali ai suoi polsi. Erano bracciali da arciere. La sua mano destra aveva la callosità di un arciere. E qualcosa di se stessa tornò. La sua schiena si raddrizzò. Guardò la sua morte a testa alta ed il suo cuore batté più forte. «Non potremmo finirla subito con quello che devi fare?» «Qual è il tuo nome?» Un dolore le trafisse il cuore, gelido e terribile. ... le fauci dei coccodrilli, i morti divorati, mummie di re gettate nelle acque insieme ai morti recenti, spogliate di tutto il loro oro... «Ho perso» disse alla dea. «Ho perso. C'è qualche altro nome più di questo?» «Le spade di bronzo» disse la dea, «non possono competere col ferro. Il metallo fragile si spezza.» «Non avevamo ferro.» «Hanno dato i tuoi figli ai coccodrilli.» «Ci siamo battuti!» (... battuti, battuti, dissero gli echi) «Ti sei battuta. Sei sfuggita. Questa è la terra senza ombre. Dio la brucia col suo occhio sinistro e col destro riporta in superficie i suoi segreti. Qui è il luogo del riposo.» «Questo? Questo è il paradiso?»
«Per i falliti, gli sconfitti, quelli che dimenticano il loro nome. Quelli che lo abbandonano.» «Io non ho abbandonato niente!» «Daresti battaglia qui?» «Per cosa? Per la mia anima?» «Il tuo nome.» Lei fece un profondo respiro che doleva di mirra e loto. Dell'odore dell'eternità. Lo esalò e rise, una risata debole, che sapeva di lacrime. Qualcosa si spezzò allora, come una cicatrice lacerata nel cuore; ma una volta aperta le lasciava uscire il respiro e rientrare più forte di prima. Pensò ai suoi morti e alle sue città, al rombo dei carri come le ali di Dio. Si alzò in piedi con l'elsa della spada in mano, ed il misero moncone di lama. La dea si alzò, ed il vento agitava il suo abito con l'odore di foglie secche e morte disseccata al sole. «E se perdo, O Neit?» «Lo chiedi?» Prese un altro respiro, più profondo dell'ultimo. Scosse la testa ed il peso delle ciocche intrecciate dondolò intorno al suo viso. «No.» Si mise in posizione di guardia. «Non c'è bisogno.» La dea allungò una mano. La spada divenne fredda come l'occhio sinistro di Dio stesso e le si spezzò nel pugno. Lei scagliò l'elsa, e la dea alzò le mani per proteggersi; in quel momento si slanciò in avanti e gettò le braccia intorno alla sua morte. Era assolutamente, terribilmente fredda. E Neit le sussurrò nell'orecchio: «Hai vinto, figlia. Ti dirò il tuo nome. Lasciami andare.» «Lo giuri?» «Lo giuro sull'occhio sinistro.» E Neit divenne come fumo, scivolando indietro dalla sua stretta, facendola cadere sulle ginocchia. «Cara sorella.» «Il mio nome!» «È Sekhmet.» ... templi saccheggiati, oro rovesciato, immagini dagli occhi di leone abbattute e spogliate degli ornamenti, il suo nome cancellato e scalfito via... «No!» gridò. «Non lo sono stata mai!» «Sekhmet, sorella mia. Hanno bruciato le tue città, ucciso i tuoi figli e le tue sacerdotesse... puoi dimenticarlo? Puoi dimenticare la tua terra?» ... sacerdotesse che morivano nei cortili, i giovani sotto le mura... «Non li senti?»
Era un mormorio, come il fiume, come il pianto dei bambini ed il lamento dei condannati. ... alcuni lottavano al buio, nell'ombra, alcuni ancora colpivano e fuggivano... «Non ho la spada!» Dea! Sekhmet! O dea dalla testa di leone, dal cuore di leone, aiutaci o moriremo... «Si può sempre dimenticare di nuovo» disse Neit. «Ci si può sdraiare ed addormentare in questo luogo di dèi dimenticati.» «Che tu sia maledetta!» gridò Sekhmet, e raccolse l'elsa senza lama. «Con quella?» la schernì Neit. «Hai gettato il tuo scudo. Il tuo arco è spezzato. Non hai la spada.» «Ferro» disse Sekhmet. Fece un gran respiro e scagliò l'elsa attraverso l'insostanzialità di Neit. Ci fu l'odore dolciastro della corruzione nell'aria. E ci fu sangue. Lei vi camminò sopra. I suoi piedi scivolarono sulle pietre. «Dove stai andando?» chiese Anubis, dalla testa di sciacallo. Si trovava fra le ombre accanto al sentiero. I suoi orecchi erano alzati. La sua voce giungeva strana dalle strette fauci. «Cosa stai cacciando, Sekhmet?» Lei volse il viso nella sua direzione, e lui fece un passo indietro. «Segui i miei passi» disse; e la sua voce era cambiata. Il suo passo era diventato silenzioso, di una sicurezza felina. «Cosa cerchi?» chiese Neit, alle sue spalle, la voce debole e lontana. «Che cosa cerchi?» «Adoratori. E spade.» Poi non ci fu più voce. Ora balzava di roccia in roccia. Il vento si alzò, perché Dio stava aprendo le sue ali. Egli volse il suo occhio sinistro verso il mondo, ed il suo freddo argenteo si riversò sulle rupi e sulle pietre ed intorno ai loro bordi finché dovunque non ci fu più ombra. C'era solo il freddo, un freddo da fendere il midollo e spaccare le rocce. Un leone attraversava la distesa senza ombre, diretto verso il fiume, anche se quel fiume era molto lontano. Ad una certa distanza uno sciacallo lo seguiva nel modo distratto della sua razza, cercando questo e cercando quello, ma senza mai perdere le tracce, non del tutto. Il grande terrore era di nuovo libero; la guerra avanzava con passi di leone, in cerca di giovani perduti, prede perdute, ed i suoi passi avevano l'odore del sangue. La seguiva sempre, il dio sciacallo. Titolo originale: The Unshadowed Land
Traduzione di Marina Nunzi LA MASCHERA DI SHIMINEGE di Charles R. Saunders Charles R. Saunders sta rapidamente guadagnandosi una reputazione per la sua magistrale fantasy a sfondo africano. I suoi due romanzi, Imaro e Quest for Cush, hanno creato un poderoso eroe sullo sfondo dell'Africa antica. Nel suo "Le canzoni di Gimmile" ci ha presentato Dossouye, una fra le donne guerriere dell'Abomey «che erano, ci ha assicurato Charles, figure storiche e la fonte del mito delle Amazzoni. Questo racconto, "La maschera di Shiminege", ci presenta la prima delle nostre Fanciulle Prescelte. In più, Charles dice di questo racconto: "Non molto tempo fa mi sono reso conto che non avevo mai usato uno degli aspetti più significativi della cultura africana: le maschere. Ho molti libri sulle maschere africane, ma per gualche ragione i racconti ed i romanzi che ho scritto semplicemente non avevano scene o culture nelle quali le maschere giocano una parte importante. I Masai, sui quali è modellato il popolo di Imaro, non fabbricano maschere. Quindi, con questo racconto di Dossouye, ho deciso di provare una storia in cui le maschere sono il fulcro principale. Le maschere descritte in questo racconto esistono realmente; l'intreccio è di mia invenzione. Ho deciso di provare a scrivere una mia leggenda popolare. Più nel profondo, il racconto potrebbe anche riflettere quello che penso dei missionari".» Personalmente ho trovato questo racconto forse anche più sottile ed affascinante della prima delle storie di Dossouye. Il suo nome era Shiminege, e stava piangendo sotto il sole. Si era assicurata di essere sola prima di lasciar salire le lacrime. Sedeva su un tronco in una radura del bosco dietro i campi di ignami della sua gente, gli Yaoule. Anche se nel bosco c'erano i leopardi, Shiminege non ne aveva paura. La cosa che temeva presagiva un fato in confronto al quale le zanne e gli artigli di un leopardo diventavano insignificanti. Shiminege era una ragazza bassa e tarchiata che aveva visto passare solo di recente la sua quattordicesima pioggia. La sua pelle color carbone era tesa su un viso tondo, dai lineamenti larghi. Già le sue anche si erano fatte ampie ed i suoi seni erano sviluppati. Il suo unico indumento era un grem-
biule di cuoio annodato intorno alla vita. Come tutte le donne Yaoule, portava fitte spire di perle blu che partivano dalle tempie in lacci uguali e si raccoglievano alla base della nuca. La striscia di cuoio a cui i lacci erano attaccati le penetrava a fondo nella pelle della fronte. Un tassello di rame le fuoriusciva dal labbro inferiore. In grembo, Shiminege reggeva una maschera che la fissava impassibile mentre le sue lacrime cadevano sulla sua superficie come pioggia. La faccia di legno aveva acquistato una patina liscia per gli anni di uso da parte delle donne Yaoule. Come quello di Shiminege, il viso della maschera era tondo. Gli occhi erano sottili fessure rettangolari circondati da semicerchi intagliati che rappresentavano sopracciglie e zigomi. La bocca era una linea diritta e senza espressione con solo un accenno di labbra. Anche se la maschera era abbastanza grande da coprirle il viso, Shiminege non se la mise. «Mwana Pwo» disse Shiminege piano, «perché hai scelto me?» La maschera non rispose. La fissava dal basso con sublime indifferenza, come se sapesse che la risposta alla domanda di Shiminege era già in fondo ai suoi occhi. Fu allora che Shiminege sentì un fruscio nel bosco dietro di lei. Balzando in piedi, tenne la maschera davanti a sé a braccia tese. Attraverso un velo di foghe color smeraldo, poteva vedere avvicinarsi una grande forma scura. Un leopardo? si chiese. Non aveva importanza. Mwana Pwo l'avrebbe protetta questo giorno ed il prossimo. Una testa si fece largo attraverso il fogliame. Shiminege urlò e quasi lasciò cadere la maschera; la testa non apparteneva ad un leopardo. Un grosso bufalo scansò i cespugli con le spalle ed entrò nella radura. Nei successivi momenti di emozione per la sua comparsa, la ragazza Yaoule vide solo le corna ricurve come falci della bestia ed i muscoli che si gonfiavano e si rilassavano sotto il suo mantello liscio e scuro. Poi si rese conto che il bufalo aveva briglie e sella; che un cavaliere era montato sulla sua groppa. Le ginocchia di Shiminege divennero deboli e la paura le offuscò la vista. Pensava di conoscere tutti i demoni che infestavano l'altro-mondo secondo le credenze Yaoule, ma non aveva mai sentito prima di uno che cavalcava l'unico animale di cui perfino il leopardo aveva paura. Ancora stringendo la maschera di Mwana Pwo, Shiminege cadde a terra, mentre l'oscurità cancellava il sole.
Un attimo dopo, Shiminege si svegliò nella stretta di forti braccia. Le sue palpebre si aprirono, e vide un sottile volto di donna osservarla. Poi ricordò il bufalo, ed il suo cavaliere. Con un piccolo grido di paura, Shiminege si svincolò dall'abbraccio della strana donna. I suoi fili di perle le urtarono contro la testa, e la sua schiena batté dolorosamente contro il tronco che le aveva fatto da sedile. Mwana Pwo era ancora saldamente stretta nelle sue mani, e lei interpose la maschera come uno scudo fra sé e la strana donna. Gli occhi di Shiminege involontariamente catalogarono i dettagli dell'aspetto della donna. Il viso della straniera era stretto; il suo corpo alto e sottile. La sua pelle era scura come quella di qualsiasi Yaoule, ma la tinta tendeva più all'indaco che al carbone. Il suo busto era racchiuso in una leggera corazza di cuoio, ed un elmo dello stesso materiale le proteggeva il cranio. Una lunga spada sottile le pendeva dal fianco. Il vestiario confondeva Shiminege. Gli Yaoule, sia uomini che donne andavano quasi nudi a parte nei periodi del rituale. L'estranea guardava attentamente Shiminege, il suo viso insondabile come quello di Mwana Pwo. Quasi di loro spontanea volontà, parole si fecero strada dalle labbra di Shiminege: «Chi sei? Da dove vieni? Perché sei qui?» Inclinando la testa da un lato, l'estranea sembrava soppesare le parole della ragazza Yaoule. Poi parlò, la voce sorprendentemente gentile, il suo accento rimodellava sottilmente i toni del dialetto Yaoule. «Potrei fare le stesse domande a te, bambina. Ma questo è il tuo paese. Mi chiamo Dossouye.» «Da dove vieni?» «Da nessun posto.» «Dove stai andando?» «Dovunque.» Shiminege fissò Dossouye. Le risposte evasive, lo strano accento, i vestiti... Shiminege non aveva ancora abbandonato il pensiero di trovarsi forse davanti ad un demone. Poi si ricordò del bufalo, ed i suoi occhi si dilatarono per lo spavento, e nascose il viso dietro Mwana Pwo. «Il bufalo» balbettò. «Dov'è?» La mano di Dossouye indicò dietro di sé. Il bufalo era tranquillo. Solo la sua coda dalla punta pelosa si muoveva, scacciando gli insetti che ronzavano nell'aria umida.
«Gbo non ti farà del male. E non è un bufalo. È un toro da guerra, non un animale selvatico non addestrato.» La differenza era ignota per Shiminege. Ma la ragazza appoggiò con cura Mwana Pwo in grembo e ripeté una domanda precedente: «Perché sei qui?» «Per sapere perché piangi da sola.» Shiminege batté le palpebre. L'ultima risposta di Dossouye era stata enigmatica come le altre che aveva dato alla ragazza. Eppure gli occhi della straniera catturavano i suoi come scure calamite, e lei si trovò a parlare, dando voce a pensieri che non avrebbe mai osato rivelare ad un altro Yaoule. Al tempo delle piogge in cui la nonna della nonna di Shiminege era una bambina, il demone Umenya Kwi venne nel paese degli Yaoule. Così spaventoso era l'aspetto di Umenya Kwi, così schiacciante era la sua forza che i guerrieri di Yaoule furono incapaci di resistergli. Il capo, le donne-spirito e gli anziani si erano radunati in fretta per sapere cosa volesse da loro Umenya Kwi. Quando il demone rese note le sue richieste, gli anziani rabbrividirono di disgusto impotente. Ad ogni pioggia, durante il periodo che segnava la transizione dalla stagione secca a quella piovosa, gli Yaoule dovevano consegnare una ragazza appena in età da marito per essere la sposa di Umenya Kwi. Allo stesso modo, agli Yaoule era concesso la scelta di mandare un campione a battersi contro Uminya Kwi per il possesso della sposa. Se il campione batteva il demone, Umenya kwi se ne sarebbe andato per sempre dalla terra degli Yaoule. Se il demone vinceva... in quella pioggia gli Yaoule avrebbero pianto la perdita di due dei loro giovani invece che uno. In tutte le piogge passate dall'arrivo di Umenya Kwi, nessuno dei giovani che si erano avventurati per battere il demone era sopravvissuto. Solo una volta gli Yaoule osarono sfidare Umenya Kwi e rifiutarono di offrire una sposa. Quella pioggia, Umenya Kwi portò via cinque donne Yaoule ed uccise una decina di guerrieri che avevano cercato di andarle a salvare. Gli Yaoule stessi avevano ucciso il capo che aveva consigliato la resistenza. Col passare delle piogge, le donne-spirito escogitarono un Rituale della Scelta che distraeva i pensieri degli Yaoule dalla rabbia, dalla disperazione e la follia che minacciavano di corroderli da dentro. Perché il compito del-
le donne-spirito includeva il rabbonimento delle anime dei vivi oltre che dei morti. Maschere furono intagliate dalla più anziana fra le donne-spirito... maschere in numero sufficiente da adattarsi ai volti di ogni donna della terra Yaoule. Tutte le maschere eccetto una erano Bachi: dal volto liscio, privo di lineamenti a parte delle feritoie circolari per gli occhi. L'unica maschera diversa dalle altre era Mwana Pwo: Colui che Sceglie. Ad ogni pioggia, le donne-spirito disponevano le maschere in una lunga fila, una maschera per ciascuna fanciulla in età da marito. Le maschere erano nascoste sotto le grandi foglie della pianta chiamata "orecchio d'elefante". Durante una cerimonia presieduta dalle donne-spirito, ogni ragazza scopriva una maschera. Quella che scopriva Mwana Pwo era la Prescelta. Questa pioggia, Mwana Pwo aveva scelto Shiminege. Al prossimo sorgere del sole, sarebbe stata data ad Umenya Kwi. «C'è un campione che si batterà per te, domani?» Chiese Dossouye quando Shiminege terminò il suo racconto. «Sì» rispose Shiminege. «Si chiama Bosedi. Prima che Mwana Pwo mi scegliesse, Bosedi aveva scelto me. Ora vuole battersi con Umenya Kwi anche se sa che non potrà vincere. Ho cercato di convincerlo a non farlo, ma lui dice che senza di me preferisce morire.» Dossouye rimase in silenzio. Guardandola, Shiminege si chiese quali pensieri passassero dietro la fronte d'ebano della donna guerriera. Se avesse conosciuto quei pensieri, non li avrebbe capiti. Dossouye aveva viaggiato a lungo e lontano dal suo nativo regno di Abomey, ad ovest. Là, aveva imparato le arti del combattimento che ne facevano una ahosi, un soldato dell'esercito del Re Leopardo. Là, aveva imparato che le credenze inculcate attraverso gli anni e le generazioni a volte erano false, erano bugie... Gli Abomeani credevano che due delle loro tre anime erano incarnate in cordoni ombelicali seppelliti sotto alberi di palma. Se l'albero veniva distrutto, le anime sarebbero morte. E se le anime morivano, il corpo le avrebbe seguite presto. Il suo ultimo giorno nell'Abomey, Dossouye aveva visto l'albero che custodiva le sue anime a terra, abbattuto da un nemico. Il suo albero era morto; le sue anime erano morte. Eppure lei era ancora viva. Quella credenza era una bugia. Oppure era la sua esistenza successiva la bugia? Dossouye non lo sapeva. Dopo la sua partenza dall'Abomey - dove era una contraddizione vivente
- Dossouye aveva vagato senza meta fra le tribù del grande territorio selvaggio che separava i regni dell'ovest e le coste ad est del Nyumboni. Nel corso di queste peregrinazioni, aveva incontrato altri esempi di false credenze, di bugie che venivano credute vere. Aveva visto; aveva giudicato; ma non aveva fatto nulla. Le illusioni degli altri non la riguardavano. Ora, mentre guardava Shiminege, e sentiva il terrore e la confusione della ragazza fluire nell'aria come vento proveniente da un freddo orizzonte, Dossouye si accorse di una decisione che si stava formando dentro di lei come l'acciaio emerge dal ferro. Perché aveva capito chi era Umenya Kwi. E se non aveva salvato altri dalle loro illusioni, avrebbe salvato questa ragazza... «Il tuo Bosedi sfiderà Umenya Kwi domani?» chiese Dossouye. «Sì.» «Dimmi dove.» Shiminege le disse dello spiazzo che le donne-spirito avevano preparato per il combattimento e la cerimonia che sarebbe seguita. «E dove si trova Umenya Kwi quando non ruba le donne alla tua gente?» «Nel Bosco degli Alberi Piangenti. Quando soffia il vento, si sentono i lamenti delle spose di Umenya Kwi. Presto, la mia voce si unirà alle loro.» «No, non lo farà!» Gridò Dossouye. Shiminege sussultò; questa era la prima manifestazione esteriore di emozione che vedeva nella donna guerriera. «Ora, dimmi dove posso trovare questo Bosco degli Alberi Piangenti,» ordinò Dossouye. La sua voce era più calma, ma ancora imperiosa. Shiminege diede le informazioni per trovare il bosco. Poi disse: «Ma tu vuoi... No, non puoi! Non hai mai visto Umenya Kwi! Lui ti...» Dossouye fece due lunghi passi, afferrò Shiminege per le braccia e la sollevò in piedi. Shiminege tremava; le mani della donna guerriera erano come artigli di ferro. «Ascoltami, bambina» disse Dossouye, «non devi dire a nessuno del tuo villaggio che oggi mi hai visto. Ti sottoporrai alla cerimonia di domani come ti hanno insegnato a fare. E devi farmi due promesse. Prima: Qualsiasi cosa succeda durante la cerimonia, non far sapere a nessuno chi sono io. Seconda: Dopo la cerimonia, se Umenya Kwi non ti prende, vieni ad incontrarmi qui prima che il sole inizi a tramontare. Mi prometti queste cose?» Shiminege guardò a fondo negli occhi di Dossouye. Erano occhi grandi,
occhi scuri; pezzi di un cielo senza stelle incastonati in un viso nero come la notte. Ed in quel momento, Shiminege credette che Dossouye potesse uccidere Umenya Kwi e salvare la sua vita e quella di Bosedi. Credendo a questo, disse: «Prometto.» Dossouye trattenne il suo sguardo ancora un momento. Poi allentò la presa. Shiminege avrebbe strofinato i cerchi di dolore lasciati dalle mani di Dossouye, ma reggeva ancora Mwana Pwo. «Ora torna al tuo villaggio, bambina.» «Detto quello, Dossouye si voltò e salì in groppa a Gbo. Alcuni attimi più tardi, guerriera e toro da guerra scomparvero nel bosco, senza lasciare un rumore che indicasse il loro passaggio. Shiminege voltò la maschera fra le mani e disse:» L'hai mandata tu, Mwana Pwo? Mwana Pwo non rispose. Il sole stava per toccare l'orizzonte ad ovest. Raggi color cremisi illuminavano le foglie degli alberi che circondavano il covo di Umenya Kwi. Gli snelli rami degli alberi erano piegati in basso, come appesantiti da un grave fardello di dolore. Nel tramonto scarlatto, gli alberi sembravano piangere gocce di sangue. Umenya Kwi sorrideva soddisfatto mentre poggiava la sua maschera demoniaca ed il suo costume di rafia accanto alle sue armi. Anche senza un travestimento del genere, l'aspetto di Umenya Kwi era scoraggiante. Il suo corpo era alto e magro, ma sotto la sua pelle color terra si gonfiavano robusti muscoli che promettevano una forza più che umana. Il suo cranio calvo si allungava a cono, e i suoi orecchi erano appuntiti come quelli di uno sciacallo. La mascella sporgeva in un muso bestiale. Dentro quella mascella brillavano i denti di un carnivoro mentre Umenya Kwi sorrideva. Solo gli occhi di Umenya Kwi tradivano la sua origine umana. Erano occhi astuti, calcolatori. Dietro di essi c'era una mente che tanto tempo fa aveva deciso che i costumi gli sarebbero stati più utili del suo vero aspetto. Solo le sue spose lo vedevano così com'era veramente, e nessuna viveva abbastanza a lungo per raccontare a qualcuno quello che aveva visto... Domani, un'altra pensò Umenya Kwi. I suoi occhi scrutavano il bosco che diventava buio. I rami degli Alberi Piangenti erano ornati di lacci di perline blu - tutto quello che restava delle sue precedenti mogli. Ogni sposa sacrificava la sua vita così che Umenya Kwi potesse continuare un'esistenza che era già durata diverse generazioni. Umenya Kwi era l'ultimo della sua specie, ma non provava affatto la de-
solazione che ci si potrebbe aspettare da una tale solitudine. Gli altri suoi simili erano morti nelle città dei regni dell'ovest; erano stati sciocchi. Nonostante la loro forza e vitalità preternaturali, quelli della ragazza di Umenya Kwi erano pur sempre vulnerabili agli assalti fisici, anche se erano straordinariamente difficili da uccidere. Soldati con armi e armature erano nemici mortali; gli uomini delle tribù selvagge no. Umenya Kwi aveva previsto il destino della sua razza nella città. Lui era fuggito; gli altri erano morti. Non si rammaricava della loro assenza. Un rumore nel bosco giunse agli orecchi di Umenya Kwi. Si tese, poi si voltò, cercando con gli occhi nel buio che si infittiva. Il suo sangue pulsava di eccitazione; forse uno degli Yaoule aveva trovato abbastanza coraggio per sfidarlo nel suo covo il giorno prima della cerimonia? Erano passate molte piogge dall'ultimo di questi tentativi... Poi l'intruso uscì fuori dalle ombre di Umenya Kwi vide che non era uno Yaoule. Ed i suoi occhi si dilatarono a quella vista, riconoscendo una ahosi, una donna soldato dell'Abomey. Dossouye era calma, la spada sguainata, tutte e due le mani strette intorno all'impugnatura. Quando parlò, la sua voce si udì al di sopra del sospiro del vento attraverso le foglie. «Avevo ragione» disse. «Ne è rimasto uno della tua razza. I miei antenati non hanno terminato il loro compito... Sichi.» «Allora tu ricordi» mormorò Umenya Kwi. «Tu ricordi il nostro nome, ricordi quello che facciamo.» «Vi siete venduti ai Mashataan, gli Dei Demoni, per diventare quello che siete. Infestavate le nostre città e villaggi come topi, rubando vite per prolungare la vostra. Kon vi abbiamo distrutto; eppure eccoti qua, ed ingrassare come un ragno su quelli troppo più deboli di te per opporsi.» «La tua gente ti ha mandato per uccidermi, ahosi? Se è così, dove sono gli altri?» Dossouye non disse nulla. Umenya Kwi scoprì le zanne in un sorriso sgradevole. «Sei sola, allora? Sciocca donna! Le vostre leggende non ti hanno detto quanti dei tuoi ci volevano per battere uno dei miei? Io sono un sichi, sì! Ne valgo dieci di voi! Prega i tuoi antenati, ahosi, perché la tua armatura adornerà questi alberi prima che la notte finisca!» Il sichi si piegò e raccolse una lancia uncinata a terra accanto al costume. Si alzò in fretta, nel caso Dossouye tentasse di attaccarlo mentre era momentaneamente distratto. Dossouye era ferma, la spada alzata, le ginocchia
piegate per balzare in azione. Il sorriso di Umenya Kwi diventò un ghigno di brama sanguinaria. «Sarai più facile dei "campioni" Yaoule, ahosi» motteggiò. «Non sono sola» disse Dossouye. Un forte schianto attraverso gli alberi dietro di lui fece voltare il sichi. E mentre vedeva ciò che gli si avvicinava, il viso di Umenya Kwi tradì un'emozione che non aveva più sentito da più di cento piogge: la paura. Il sole inondava la radura circolare con una luce dura, metallica. Decine di danzatori oscillavano e saltavano al battito di invisibili tamburi. Tutti i danzatori erano donne: solo un uomo avrebbe partecipato nella cerimonia di sfida a Umenya Kwi. Gli uomini che suonavano i tamburi erano nascosti nei cespugli circostanti. Shiminege danzava. Era circondata dalle ragazze che non erano state scelte da Mwana Pwo. Le maschere Bachi lisce coprivano i loro volti. Per il resto, erano nude eccetto un corto grembiule di pelle. Le ragazze Bachi danzavano al lento e incessante pulsare dei tamburi. Shiminege indossava la maschera Mwana Pwo, ed era vestita con un pezzo di stoffa blu scuro che la copriva dalle spalle al ginocchio. I suoi movimenti erano legati ad un ritmo diverso: un tempo secco, staccato, che la spingeva a frenetiche giravolte che trascendevano quelle delle ragazze Bachi, eppure vi erano intrecciate in una struttura di profonda complessità cinetica. Era stato difficile per Shiminege rimanere zitta, la sera prima. Aveva desiderato ardentemente di dire a sua madre, alle sue sorelle, alle donnespirito della donna che cavalcava un bufalo e sfidava un demone. Ma sapeva intuitivamente che il segreto di Dossouye doveva essere mantenuto fino a che non avesse portato a termine quello che poteva contro Umenya Kwi. Così, Shiminege aveva tenuto a freno la lingua e non si era comportata diversamente dalle molte altre ragazze che Mwana Pwo aveva scelto. Ora, Shiminege indossava la maschera di Mwana Pwo, ed era diventata Mwana Pwo, e vedeva attraverso gli occhi di Mwana Pwo e sentiva col corpo di Mwana Pwo mentre si muoveva attraverso i passi intricati della sua danza. All'improvviso, un nuovo elemento venne aggiunto al battito dei tamburi: una nota di anticipazione, speranza. Fu allora che Bosedi apparve nella radura. L'innamorato di Shiminege non portava altra maschera che l'espressione
stoica che ostentava per nascondere la sua terribile paura. Era un giovane robusto, ben fatto, armato con una lancia dalla punta di ferro ed uno scudo ovale fatto con pelle di bue. La sua pelle color carbone era attraversata da disegni geometrici fatti con pigmento bianco. Da quei segni, gli antenati di Bosedi lo avrebbero riconosciuto come un uomo che era morto coraggiosamente... Bosedi non danzava. Aspettava Umenya Kwi. Umenya Kwi venne. Per un momento, Shiminege non fu più Mwana Pwo. Per un momento, desiderò smettere la sua danza e gridare la sua amara delusione. Dossouye non aveva sconfitto Umenya Kwi. Il demone era venuto nella radura come sempre. Il costume di rafia gialla che indossava nascondeva le sue vere dimensioni, perché il corpo era coperto da strati di frange e le braccia e le gambe erano racchiuse in maniche sfrangiate. E la maschera... Era un elmo bianco inciso con motivi lineari neri; spirali, smerli, e volute che coprivano l'intera faccia, creando un'immagine di astratto terrore. Dalla sommità della maschera si proiettavano cilindri di stoffa arancione e nera, come le zampe piegate di un gigantesco ragno. In basso pendeva una cascata di materiale marrone muscoso che ricordava una lunghissima barba. Umenya Kwi era furbo. Il costume e la maschera erano davvero molto più spaventosi del suo aspetto naturale. In mano, il demone aveva una lancia uncinata. Sdegnava l'uso dello scudo. Anche se avrebbe potuto facilmente sconfiggere a mani nude un uomo armato, Umenya Kwi andava fiero della sua abilità con le armi ed aveva scelto di conservarla. Il suono dei tamburi e la danza cessarono, lasciando che il silenzio riempisse un vuoto senza suoni. Umenya Kwi si fece avanti. Bosedi alzò la lancia e si piegò dietro lo scudo. Nell'ultimo istante prima di ridiventare Mwana Pwo, Shiminege osò sperare che Dossouye uscisse caricando dai cespugli in groppa al suo toro da guerra per salvare Bosedi... Il combattimento per Shiminege ebbe inizio. Umenya Kwi aspettava l'attacco di Bosedi. Il corpo dello Yaoule era quasi piegato in due dietro lo scudo. I muscoli delle sue gambe fremevano mentre cercava di contenere la sua paura. Umenya Kwi aspettava. Il tempo scorreva lentamente. Alla fine, nello sforzo di mettere fine all'agonia di paura che lo attanagliava, Bosedi emise un grido stridulo e si slanciò verso Umenya Kwi. Il
suo affondo di lancia fu eseguito goffamente; il demone lo parò senza sforzo. Il colpo di risposta di Umenya Kwi fu deviato dallo scudo di Bosedi. Bosedi barcollò all'indietro alzando in alto lo scudo. Umenya Kwi colpì lo scudo dello Yaoule con la punta della lancia, costringendo il giovane spaventato ad arretrare fino a che non sfiorò con la schiena le foglie dei cespugli. Gli spettatori abbassarono lo sguardo rassegnati. Umenya Kwi sta solo giocando col loro campione, come aveva fatto con molti altri. Il risultato della sfida era prevedibile come l'arrivo della stagione umida... Disperato, Bosedi colpì con la lancia come fosse un randello. Il piatto della lama colpì il costume di rafia. E Umenya Kwi arretrò barcollando da Bosedi. Bosedi fissò il demone a bocca aperta. Umenya Kwi lo stava prendendo in giro? Umenya Kwi scosse la testa, e le zampe di ragno della sua maschera si mossero come fossero vive. Ma il demone non fece alcuna mossa contro il suo sfidante. Bosedi si slanciò di nuovo in avanti, mirando con la lancia al centro della rafia. Umenya Kwi schivò il colpo. Di nuovo, il colpo di risposta del demone fu deviato dallo scudo di Bosedi. Un secondo colpo passò ben oltre la testa del giovane. Bosedi stava cominciando a ricordare le arti di combattimento che aveva imparato solo poche piogge prima. La sua paura stava diminuendo. Fintanto con la lancia, batté con violenza lo scudo contro il corpo del demone. L'impatto risuonò come una pietra che cadeva sull'erba. Umenya Kwi cadde. Bosedi colpì con la lancia verso la rafia, ma Umenya Kwi rotolò via dalla sua punta e si alzò in piedi. Imbaldanzito, Bosedi spinse la sua lancia verso la gola del demone. Umenya Kwi alzò la lancia in tempo per bloccare l'affondo, ma la forza di questo lo fece cadere di nuovo. La punta di Bosedi lacerò attraverso le frange di rafia mentre Umenya Kwi rotolava via. La paura del giovane stava svanendo più in fretta della rugiada del mattino mentre incalzava il demone caduto. Umenya Kwi riuscì appena a rimettersi in piedi prima che un rianimato Bosedi lo caricasse. La lancia dello Yaoule saettava come il fulmine nella sua mano mentre colpiva ancora e ancora Umenya Kwi. Anche se il demone parava gran parte degli affondi di Bosedi, non riusciva a superare con la sua lancia lo scudo del giovane. Coi denti scoperti in trionfo, Bosedi respinse Umenya Kwi da un capo all'altro della radura.
Alla fine, con uno sforzo disperato, il demone spinse Bosedi facendogli perdere l'equilibrio. Lottando per restare in piedi, Bosedi alzò lo scudo per parare il rinnovato attacco. Umenya Kwi sollevò la sua lancia uncinata e la conficcò nel terreno tra sé e Bosedi. Quindi Umenya Kwi si voltò e fuggì nel bosco tra il frusciare della rafia mentre svaniva dalla vista. Bosedi rimase immobile, pietrificato dall'incredulità più assoluta. Shiminege, le danzatrici Bachi e le donne-spirito rimasero immobili come foglie in un giorno senza vento. Umenya Kwi era stato sconfitto, e non c'era nessun aspetto della cerimonia che prevedeva questa possibilità. Anche se la sua mente si alternava incontrollabilmente tra l'essere se stessa e l'essere Mwana Pwo, Shiminege ricordò la sua promessa a Dossouye: Se Umenya Kwi non ti prende, vieni ad incontrarmi qui prima che il sole inizi a tramontare. E Shiminege sapeva che avrebbe mantenuto la promessa. Era quasi il tramonto quando Shiminege tornò nella radura dove aveva incontrato Dossouye la prima volta. Gli eventi che erano successi dopo la fuga di Umenya Kwi turbinavano vorticosamente nella sua testa, come un pesce in un mulinello. Bosedi era un eroe. Aveva guidato un gruppo di guerrieri nuovamente coraggiosi nel Bosco degli Alberi Piangenti per uccidere Umenya Kwi. Ma non lo avevano trovato là. C'era sangue sui tronchi degli alberi, e la terra era smossa, come se là si fosse svolta una lotta feroce. Avevano trovato delle strisce di cuoio stracciate sparse nel boschetto. Il cuoio non aveva detto loro nulla. Avevano trovato lacci di perline blu penzolanti dagli alberi come frutti senza vita. I lacci avevano detto loro molto. I guerrieri avevano raccolto i lacci di perline e li avevano riportati al villaggio. Shiminege era diventata una figura totemica. Era attraverso di lei che Mwana Pwo aveva soffiato forza nelle membra e coraggio nel cuore di Bosedi. Le ragazze che non erano state scelte da Mwana Pwo guardavano Shiminege con invidia; le donne-spirito la guardavano con aperto timore. Così, non le era stato difficile convincere gli altri Yaoule che il suo ruolo come ricettacolo di Mwana Pwo l'aveva sfinita al punto di non poter partecipare alle feste e alle danze che avrebbero celebrato la fine di Umenya Kwi. Bosedi era stato più difficile degli altri da convincere, ma c'era riusci-
ta. Lasciando la maschera di Mwana Pwo nella sua abitazione, Shiminege era sgusciata via dal villaggio senza farsi notare. Ora si trovava nella radura, a guardare Dossouye. Come prima, Dossouye era in groppa al suo toro da guerra. La sua posizione in sella era curva, come se stesse combattendo una battaglia persa contro la stanchezza. Gran parte della sua armatura di cuoio era scomparsa; il suo corpo snello era solcato da ferite recenti. Anche la pelle del toro da guerra era segnata da linee scarlatte. Gli occhi di Shiminege furono catturati da quello che vide appeso davanti alla sella di Dossouye: il costume e la maschera di Umenya Kwi. Dossouye si raddrizzò, poi tese la mano. «Monta dietro di me» disse. «Ho qualcosa da mostrarti, e non c'è molto tempo.» Senza parlare, Shiminege fece quello che le era stato detto. Così scosse erano le fondamenta di tutto ciò in cui aveva creduto che rifiutò di riconoscere la connessione tra Dossouye e la massa floscia di rafia che pendeva dalla sella. Gbo galoppò verso un luogo desolato lontano dal covo di Umenya Kwi. Le due donne non parlarono. Shiminege fissò lo sguardo sul movimento dei muscoli sulla schiena di Dossouye. Sotto di lei, i fianchi del toro da guerra si alzavano e si abbassavano ad un ritmo regolare. Dossouye si fermò sopra un piccolo burrone. Smontò, ed aiutò Shiminege a scendere. Prendendo per mano la ragazza Yaoule, Dossouye la guidò sul ciglio del burrone. Shiminege guardò in basso, si sentì soffocare dal disgusto e distolse lo sguardo. Dossouye la costrinse a guardare ancora la cosa calpestata e mutilata che giaceva sul fondo del burrone. «Quello è Umenya Kwi,» disse Dossouye. «C... come?» fu l'unica parola che Shiminege riuscì a dire. E Dossouye le disse cos'era Umenya Kwi, e come aveva ingannato gli Yaoule, e perché gli Yaoule non avrebbero mai dovuto temere vendetta da altri dei sichi. «Ma come hai ucciso Umenya Kwi?» chiese Shiminege incredula. «La sua forza...» «Era più che sufficiente per uccidermi se lo avessi affrontato da sola. Ma Gbo era con me, ed il sichi si era dimenticato che sono stati i tori da guerra che alla fine ci hanno aiutato a scacciare la sua razza dall'Abomey.» «E tu hai indossato il suo costume ed hai preso il suo posto nel duello.
Ma perché? Bosedi avrebbe potuto ucciderti!» Per la prima volta, Shiminege vide un sorriso sul viso di Dossouye. «No» disse Dossouye. «Non è abbastanza bravo. L'ho fatto sembrare migliore di quello che è.» Dossouye stava guardando attentamente Shiminege. Sul viso della ragazza, trovava tutti i segni del crollo di una vita di credenze e presupposti. Era come guardare l'erosione del terreno durante la stagione delle piogge. Il viso di Dossouye era stato molto simile quando aveva visto l'albero che custodiva le sue anime giacere a terra morto... Le mani di Dossouye si strinsero intorno alle braccia di Shiminege. I suoi occhi guardarono a fondo nell'anima della ragazza mentre parlava: «Mi devi fare un'altra promessa. Di nuovo, non devi mai far sapere alla tua gente che mi hai visto. E non devi mai dire loro cosa hai visto qui. Lascia che pensino che Umenya Kwi sia fuggito per vigliaccheria, per vergogna. Quando verrà la prossima pioggia, e Umenya Kwi non si mostrerà, la tua gente sarà libera. Ho la tua promessa?» Shiminege annuì. Dossouye tolse dalla sella la maschera ed il costume di Umenya Kwi e li gettò nel burrone accanto al cadavere del proprietario. Poi salì in groppa a Gbo ed issò Shiminege dietro di sé. Poi tornarono nella piccola radura dove Shiminege era andata a piangere il giorno prima. Quando Shiminege scese dalla groppa di Gbo, il sole stava iniziando la sua discesa nell'oscurità. Le ultime parole che le disse Dossouye furono: «Manterrai la tua promessa.» «Sì» disse Shiminege. Alzando la mano in un gesto di addio, la donna-guerriera toccò con i talloni i fianchi di Gbo. Un attimo più tardi erano scomparsi, nascosti da una maschera verde di fogliame del bosco. Shiminege rimase a fissare il punto in cui aveva visto per l'ultima volta Dossouye e Gbo. Poi si voltò verso il villaggio ed i campi di ignami. La sua mente era scossa da nuovi pensieri, nuove emozioni... Presso un fiume non molto lontano dalla terra Yaoule, Dossouye abbeverava Gbo e rifletteva su quello che aveva fatto. Sapeva che era stato essenziale sostituire Umenya Kwi durante il duello. Se il sichi semplicemente non fosse apparso, c'era la possibilità che uno Yaoule pieno di malvagia ambizione cercasse di prendere il suo posto. Dossouye lo aveva già visto succedere tante volte. Sapeva che solo la vergogna pubblica avrebbe sradicato sia il demone che l'ambizione.
Se solo mantiene la sua promessa, pensò Dossouye mentre gettava acqua sulle sue ferite. Era sicura che Shiminege non avrebbe tradito la sua fiducia, nonostante tutta la confusione interiore che la ragazza Yaoule doveva provare. «Ha mantenuto la sua prima promessa; manterrà la seconda,» disse Dossouye a voce alta. «Quando qualcuno si imbatterà in quel burrone, i rapaci avranno già disperso tutto quello che è rimasto di Umenya Kwi.» Scuotendosi per asciugarsi, Dossouye salì in groppa a Gbo. Nel cielo che imbruniva sulla terra Yaoule, vide un debole bagliore di fiamma. Una festa, pensò. E Dossouye guidò Gbo verso nord, soddisfatta di aver infranto un falso credo che aveva tenuto un popolo schiavo. Non seppe mai che Shiminege non aveva mantenuto la promessa. Non seppe mai quello che aveva risvegliato nell'animo della ragazza Yaoule. Non seppe mai che Shiminege aveva deciso che ora era il tramite di Dossouye e non di Mwana Pwo. Non seppe mai come Shiminege era piombata nel villaggio come una meteora dal cielo, gridando la verità sull'inganno e la caduta di Umenya Kwi. Non seppe mai che Shiminege aveva preso la maschera di Mwana Pwo e l'aveva gettata in un falò. Non seppe mai che gli inorriditi Yaoule, con a capo Bosedi e le donne-spirito, avevano preso Shiminege, l'avevano legata e gettata in quello stesso falò. Non seppe mai... Titolo originale: Shiminege's Mask Traduzione di Marina Nunzi LA SIGNORA E LA TIGRE di Jennifer Roberson Qualche tempo fa, su Blood of Sorcery ebbi il piacere di presentare Jennifer Roberson come una nuova scrittrice. Da allora è stato pubblicato un suo romanzo, Shapechangers, e sta diventando molto conosciuta. I nuovi scrittori non rimangono tali a lungo, certamente non se hanno del talento. In aggiunta al talento di saper raccontare una storia, Jennifer ha un'abilità che è forse anche più rara: dirige un seminario per scrittori, e quest'anno una delle esercitazioni per gli scrittori di Phoenix è stato di
scrivere e spedire un racconto per questa antologia. Diversi racconti sono giunti dal seminario di Jennifer alla mia cassetta postale, ed i risultati hanno smentito l'assioma che i nove decimi o più dei racconti provenienti da tali corsi sono privi di valore o di talento; dal suo laboratorio ho comperato due racconti, e ne ho trovati altri degni di una seconda lettura, anche se alla fine non li ho acquistati. "Sangue di Unicorno" di Bruce D. Arthurs, per esempio, viene da questo gruppo di Phoenix; quindi Jennifer ha forse contribuito più di ogni altro scrittore a questa raccolta: con il suo bel racconto e con l'incoraggiamento ad altri bravi scrittori. A beneficio delle femministe fra il pubblico, c'è stato un punto in cui ho immaginariamente scaraventato questo racconto dall'altra parte della stanza per l'esasperazione, gridando: «Diavolo! L'ha rovinato! Perché ha fatto questo?» E tuttavia ho trovato il racconto così affascinante che ho dovuto continuare a leggere e finirlo, anche se ero convinta che, in coscienza, non potevo offrire questo racconto alla parte femminile dei miei lettori. E come vedrete, Jennifer ha magnificamente ricompensato la mia fiducia. «Tigre» disse la ragazza, «non stai facendo per niente attenzione.» Oh, sì, invece. Ma non a lei. Non più. Le gettai di traverso un'occhiata assente e sorriso senza alcun vero entusiasmo. «Altro aquivi?» Lei inclinò il suo boccale di legno per farmi vedere che era quasi pieno. Molto di quello che sciabordava nel boccale probabilmente era acqua; le ragazze delle bettole imparano prestissimo ad annacquare il loro aquivi in modo da restare sobrie mentre i loro clienti si ubriacano abbastanza da spendere tutto il denaro delle loro borse. Sospirai. Improvvisamente stava diventando noiosa. Specialmente quando vidi il suo labbro inferiore sporgersi in fuori in un'espressione infantile che non si addiceva al suo viso giovane e vecchio. Ma non potevo davvero fargliene una colpa. La concorrenza era appena entrata dalla porta principale. La concorrenza era una bionda del Nord alta, snella, pelle bianca, occhi azzurri, così splendenti da farmi lacrimare gli occhi. Avevo già l'acquolina in bocca. Inghiottii in fretta, cercai di controllare meglio il mio stomaco e riacquistai una qualche parvenza di dignità. Non era molta «non ne ho molta, tanto per cominciare - ma era abbastanza per raddrizzarmi la schiena e farmi osservare ad occhi socchiusi con aria di apprezzamento.» Si muoveva con fluida grazia. Aveva i capelli sciolti che le ricadevano
giù per le spalle, ondeggiando mentre si guardava intorno nella bettola. Indossava un lungo saio di seta bianca che metteva ancor più in risalto il suo candore anche se nascondeva le sue grazie, ma chissà come non avevo dubbi che quello che si nascondeva sotto il tessuto fosse il meglio che avessi mai visto. Ogni altro uomo nella bettola lo sapeva bene quanto me. La conversazione cessò di colpo al suo entrare, poi riprese e vagò distrattamente, circolando e fluttuando senza approdare a nulla perché nessuno stava a sentire quello che dicevano gli altri. Tutti guardavano la ragazza. Lei lo sapeva. Gettò indietro i capelli e sollevò un poco il mento. Quei glaciali occhi azzurri passarono su ogni uomo presente. Mi chiesi se ci trovava tutti in qualche modo inadeguati, perché la sua espressione non mutò minimamente. Si limitò a guardare per un lungo momento il fornitore di alcool locale, sembrò individuare qualche genere di assenso sul suo viso ed annuì una volta. Lui sorrise debolmente, imbambolato come un bambino, e alzò le spalle. La ragazza piantò i piedi calzati di sandali, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Non dovette alzare la voce al di sopra del frastuono della bettola perché tutti smisero subito di parlare. «Voi uomini» disse con una voce in cui si sentiva l'accento. «Ho un affare per voi.» Gli occhi le brillarono un attimo divertiti. «Di un'altro genere di quello a cui siete abituati da una donna, forse, ma è un affare lo stesso.» Il suo sguardo era critico; la bocca si torse un poco osservando il suo uditorio. Una lieve ruga apparve fra le sue sopracciglia chiare. «Ho bisogno di denaro. Ma voglio guadagnarlo onestamente, senza vendere il mio corpo.» Uno degli uomini fischiò: «E che altro hai da offrire, ragazza mia? Un sorriso? Qui sono gratis.» I suoi occhi si fissarono subito su di lui. Non sorrideva, come riluttante a dare via qualcosa che poteva davvero vendere. Un sorriso da quella bocca poteva valere oro. «Dopo» disse, «il sorriso potrebbe costarti nulla. Ma te lo saresti guadagnato.» Il burlone fischiò di nuovo. Disse una battuta oscena che provocò il riso di qualche uomo, ma la maggior parte non parlò. Come me, stavano guardando lei. Le sue labbra si serrarono. «Siete degli scommettitori no? Disposti a puntare qualche moneta su una partita che ne valga la pena. Bene, io ho una di queste partite da offrire.» I suoi occhi ripassarono sugli occupanti
della stanza. «Gran parte di voi porta la spada. Alcuni di voi potrebbero perfino essere competenti nel suo uso. Io sfido uno di voi, o due... o anche tre, ad una danza della spada.» Le mie sopracciglia scattarono in alto. Una donna che sfidava degli uomini ad una danza della spada? Insolito. A dire il vero, inaudito. Qui nel Sud solo gli uomini portano la spada; le donne sono velate e sorvegliate e trattate con delicatezza. Nessuna di loro penserebbe mai di avvicinare un grazioso ditino all'elsa della spada, figuriamoci alzarne una contro un uomo. Eppure questa bellissima ragazza del Nord aveva sfidato tutta la bettola ad una danza della spada. Era seccante. Tanto per cominciare, una donna non deve impicciarsi degli affari di un uomo. E poi, la danza delle spade non è cosa da prendere alla leggera. Richiede abilità, forza, resistenza, intelligenza... insomma, per essere assolutamente franchi non è quel genere di cosa che può fare chiunque. Quelli che la fanno sono professionisti, uomini che si guadagnano da vivere assoldando le loro spade. Come me. La guardai accigliato. Lei non vide; mi trovavo in un angolo lontano nascosto in una nicchia con un piccolo tavolo inciso da spada e coltelli davanti a me. In qualche modo ero riuscito a far scivolare sotto il tavolo gran parte della mia notevole altezza e sedevo sulla base della spina dorsale, e quel poco di me che si vedeva non era messo in modo da attrarre la sua attenzione. Specialmente con la bruna ragazza della bettola che mi sedeva stretta a fianco imbronciata. Per un lungo momento nessuno, assolutamente nessuno, disse una parola. Lei era là nella sua seta bianca con le mani snelle che uscivano dal bordo delle larghe maniche ed i piedi calzati con sandali da sotto l'orlo del saio. Il cappuccio le pendeva dalle spalle, in gran parte coperto dalla lucente cortina dei suoi capelli. E quegli occhi così azzurri trapassavano ogni viso della bettola. «Allora?» chiese lei. «Sono capitata in una tana di eunuchi albini?» Sussultai. Non avevo particolarmente voglia di vedere tutta quella bellezza rovinata da qualche uomo infuriato. Se continuava con gli insulti si sarebbe potuta trovare in una vera danza della spada, e non c'era dubbio che avrebbe perso. I borbottii fecero il giro della sala. Vidi alcuni sorrisi e sopracciglia alzate, ma nessuno sembrava prenderla sul serio. Notai la tensione del suo corpo anche sotto la cortina della seta; c'era rabbia nei suoi occhi. Il mento si
sollevò di nuovo. Prima che potesse di nuovo ricorrere agli insulti, parlai: «Facci vedere la tua arma, bascha.» La parola dialettale del Sud era un complimento, ma non sapevo se lei lo sapesse. «Potremmo prenderti più sul serio se sapessimo che hai più di una lingua tagliente con cui combattere.» Le ciglia chiare si avvicinarono, corrugando la pelle fra gli occhi. Era un'occhiata per metà infuriata, per metà risentita quella che gettò nella mia direzione, ma seguì il mio suggerimento. Più o meno. Prima che potessi tirarmi su in posizione eretta - per apprezzare meglio i risultati del mio suggerimento - lei si tolse il saio di dosso e rimase davanti a noi in una tunica di cuoio marrone senza maniche che le arrivava a metà coscia. I bordi erano ornati di ricami azzurri con qualche tipo di geroglifici runici, ma io non badai molto a loro. Ero troppo occupato a controllare lo scenario. Aveva delle gambe lunghe un miglio. Io sono alto, superando gran parte degli uomini di una testa e mezza, ma ero disposto a scommettere che la cima della sua testa mi arrivava alla spalla. Anche le sue braccia erano lunghe, snelle e candide, e salde di sottili muscoli che correvano sotto la pelle. Una flessibile tracolla di cuoio le attraversava il petto «ugualmente ammirevole» e al di sopra della spalla sinistra le spuntava l'elsa di una spada. Toccò l'elsa con la mano destra. «Adesso» disse, «chi viene con me nel cerchio?» Non stava scherzando. Voleva davvero una danza della spada. Combattimenti di spada sono abbastanza comuni nel Sud, ma le rituali «e pericolose» danze della spada, no. Le sue parole suonavano false ai miei orecchi. «Hai detto che ti serve denaro» disse ad alta voce un uomo. «Che cosa metti in palio tu, se non ne hai?» Lei non perdeva una battuta. «Il mio sorriso» disse. «Ed un po' del mio tempo.» Mi inumidii le labbra secche e deglutii forte. «E noi cosa puntiamo?» gridò un'altro uomo. «Le nostre belle facce?» Lei non sorrise. Attese che il riso si smorzasse. «Il vostro oro,» disse freddamente. «Vi costerà un pezzo d'oro, o il suo equivalente, per entrare nel cerchio con me.» Questo fece tacere molti di loro. Questa bettola non è la migliore - non è nemmeno la peggiore, ma si avvicina più al peggio che al meglio - e gran parte degli avventori non hanno oro da scommettere. Nemmeno oro per bere. Ma molti di noi, guardandola, misero una mano nella borsa per senti-
re il peso delle monete. Alla fine, naturalmente, qualcuno trovò la somma richiesta. Fra molte burle e facezie si alzò dal suo tavolo, fece un goffo inchino e toccò la spada che gli pendeva a fianco. Subito non lo presi più in considerazione; un uomo che porta la spada al fianco è sempre un dilettante. I professionisti usano la tracolla. Automaticamente portai la mano alla mia. Era stretta contro il mio petto sotto il saio verde che indossavo; Infallibile poggiava la sua pesante elsa sulla mia spalla sinistra attraverso un'apertura nella cucitura del saio. Naturalmente, sedendo così piegato come stavo io, la spada non era nella migliore posizione per un'estrazione rapida, ma tanto non avevo intenzione di mostrare il filo di Infallibile agli avventori. O alla bionda. Lei piegò il suo saio bianco sul tavolo più vicino, poi mosse le dita in un gesto come per dire di avvicinarsi. Vidi la luce nei suoi occhi e mi resi conto che le piaceva quel che stava facendo. Eppure era calma. Non vidi traccia di ira o orgoglio o quel genere di emozione che potrebbe mettere nei guai un danzatore di spada; più spesso che no, l'uomo che perde la calma nel cerchio ne viene portato fuori a braccia. Corrugando la fronte, strofinai le cicatrici di artigli sul lato destro del mio viso ed aspettai. Quasi immediatamente il pavimento della bettola fu sgomberato. Tavoli, sgabelli e panche furono trascinati da parte; gli avventori erano divisi in gruppi e scommettevano tra loro, facendo tintinnare le monete sui tavoli o gettando le loro puntate ad altri. Non dubitavo che molte delle scommesse fossero contro la ragazza. Forse tutte quante. Lei aspettava. Le sue braccia erano ancora abbandonate lungo i fianchi. La vidi scuotere qualche volta le mani, per sciogliere gli agili polsi; teneva i piedi leggermente divaricati, uno un po' più in avanti dell'altro. Non si era alzata sulla punta dei piedi: non ancora. Pensai che poteva verificarsi quando fosse iniziata la danza delle spade. Ma non fu una danza. Fu una parodia. Non aveva fatto in tempo ad estrarre la spada dal fodero appeso alla sua schiena che aveva già fatto volar via dalle mani dell'uomo la sua spada. Questa risuonò sul pavimento di legno con tonfo sordo della tempera scadente; ci fu l'accenno di un sorriso negli occhi di lei, ma non guardò la spada a terra fra sé e l'avversario. Le mani dell'uomo si serrarono tre volte. Il suo viso era rosso di vergogna ed imbarazzo. Vidi passargli negli occhi l'idea di dichiarare un fallo o cose del genere, per poter raccogliere la spada e ricominciare, ma non lo fece. Credo che capì le intenzioni della ragazza, perché tutto ciò che fece
fu gettare la moneta d'oro, che le tintinnò ai piedi. Sul viso di lei non si mosse un muscolo. Rimase in silenzio, a guardarla mentre si piegava e raccoglieva la spada. Poi, con solo l'ombra di un sorriso, gettò indietro qualche ciocca di capelli. «Chi è il prossimo?» Non raccolse la moneta. Ciò accentuava il suo disprezzo per il primo avversario meglio di quel che avrei potuto fare io con una parola. Tutti gli occhi andarono all'oro che luccicava sul legno bagnato di vino, e poi si appuntarono su di lei. Se lei non lo raccoglieva, nessun'altro lo avrebbe fatto. Lo sconfitto, volgare ed infantile, aveva fatto più male a se stesso che a lei. Il successivo andò un po' meglio. Oh, tenne le mani strette intorno all'elsa della spada un po' più a lungo, ma alla fine lei lo disarmò con un'abile mossa ed arretrò quando lui vociò la sua sorpresa. Ma questo, almeno, seppe perdere meglio; le porse il suo oro e poi raccolse la spada con un inchino verso di lei. La ragazza non disse nulla. Le sue parole avrebbero sottolineato la sconfitta dell'uomo, che non meritava questo da lei. L'orgoglio maschile collettivo del posto era già riferito; qualche commento da parte della vincitrice avrebbe peggiorato le cose. Almeno, ne sapeva abbastanza su di noi; mi chiesi come l'avesse imparato. Vidi lo strano movimento delle sue dita. Vieni qui, diceva. Per un momento pensai di farlo, poi decisi di no. Non sarebbe servito a niente distruggere la reputazione che si stava costruendo. Non aveva possibilità contro di me. E poi mi stavo godendo la sua danza; non volevo farla terminare così presto. Un terzo uomo si fece avanti nel mezzo della bettola, entrando nel cerchio scavalcando la linea immaginaria. Sulla sabbia il cerchio viene tracciato; un danzatore di spada che esce dal limite perde immediatamente. Ma dentro una bettola, senza cerchio sul pavimento, la danza cambia. Un cambiamento sottile, ma evidente. Ogni uomo presente sapeva esattamente dov'era il limite. Ed anche lei. Vidi i suoi occhi socchiudersi. Per un breve attimo ci fu un lampo di considerazione in essi, anche se il viso era rimasto calmo. Poi vidi la tracolla che attraversava il petto e la schiena dell'uomo e mi resi conto che era un danzatore di spade. Non lo conoscevo - il Sud è grande e neanch'io posso conoscerli tutti - ma era chiaro che si trattava di un professionista. Non si perse in inutili esitazioni, movimenti o saltelli. Rimase calmo davanti a lei, aspettando educatamente, ed io vidi l'inizio di un sorriso sul volto della
ragazza. «Hai visto abbastanza?» chiese lei. «Abbastanza da evitare di sottovalutarti.» «Per questo, ti ringrazio.» Lui sorrise. «Risparmia i tuoi ringraziamenti per quando ti avrò permesso di lasciare il cerchio viva.» Non era una spacconata. Faceva sul serio. Era un professionista e si sarebbe comportato come tale. Nel cerchio è difficile fare altrimenti. Non era una vera danza della spada. Tanto per cominciare, iniziavano con le spade in mano. Nei luoghi chiusi è abbastanza comune - non c'era spazio per una vera danza - ma questo cambia i parametri. Vuol dire, di solito, che la cosa può finire al primo colpo, perché il cerchio è troppo piccolo per le consuete variazioni. Mi chiesi come l'avrebbe terminata lui. Mi chiesi se l'avrebbe lasciata vivere. Chiunque altro lo avrebbe fatto. Lei si era messa in palio per il vincitore. Ma per un danzatore di spade la danza è una cosa seria. In una sfida come questa generalmente la danza è abbastanza amichevole, più che altro un'esibizione di abilità, ma ogni tanto si rivela all'ultimo sangue. Era nei suoi diritti ucciderla. Si era proclamata una danzatrice di spade - un'eresia bastante, considerato il suo sesso - e la sua morte nel cerchio sarebbe stata del tutto regolamentare. Eppure, dubitavo che l'avrebbe uccisa. Lui era un uomo in tutti i sensi e lei magnificamente donna. Sarebbe stato più un rito di corteggiamento. Le spade si alzarono. Si scontrarono. Risuonarono quando i due si separarono e si allacciarono di nuovo. Lui era più alto e forte della ragazza, ma lei era più veloce. Lo vidi quasi subito. Prima si era trattenuta, vincendo rapidamente perché non aveva visto la necessità di stuzzicare e beffare gli altri. Ora danzava. Ora muoveva quel corpo agile, i biondi capelli svolazzanti, e danzava. Lui conduceva, lei seguiva. Cambiavano. Lei dominava, poi si ritirava, fintanto, evitando un colpo di spada che le avrebbe aperto un rosso foro nei lucenti capelli biondi. A questo lei fece seguire una delle sue mosse, graffiandogli una delle costole scoperte con la punta della spada e poi scivolando via mentre lui batteva le palpebre sorpreso, guardandola. In quel momento avrebbe potuto batterlo. Ma balzò via, girandogli intorno con cautela, come se non riuscisse a crederci neanche lei. Imprecò. La ragazza si muoveva bene e maneggiava la spada con più abilità di quanta ne avrei immaginata in una donna, ma era trascurata. Non
professionale. Aveva lasciato andare il suo uomo. Fossi stato io, l'avrei fatto a pezzi all'istante. «Stupida» borbottai. «Perfino i ragazzini lo sanno...» Un attimo più tardi il danzatore di spade aveva tracciato una linea scarlatta su una candida coscia. Vidi il viso di lei accigliarsi e l'incredulità nei suoi occhi. Pensai che a quel punto la cosa terminasse; avevo visto apprendisti perdere tutta la loro abilità ed aggressività alla vista dello scorrere del sangue, anche solo un piccolo taglio. Senza dubbio il graffio bruciava, ma non era cosa da preoccupare un professionista. Ma lei non lo era. Era una donna, e all'improvviso tutti se ne ricordarono. Compreso l'uomo davanti a lei. Subito lui fece un passo indietro. Non abbassò la guardia ma nemmeno approfittò del suo vantaggio. Restò in guardia, aspettando che le passasse l'emozione, e in quel momento lei lo sorprese. La sua lama saettò in avanti e lo prese su ciascun avambraccio, poi sulle nocche, e mentre lui le lanciava un'imprecazione fece scivolare la punta sotto una delle unghie del pollice. Il sangue uscì e la spada cadde a terra. L'uomo si portò il pollice alla bocca. Poi fuori. Aveva un'espressione incredula in conflitto col dolore nel suo sguardo. Poi imprecò di nuovo e fissò il suo pollice sanguinante, come senza sapere cosa fare. Il mio pollice mi faceva male per simpatia. Ma il mio orgoglio no. Aveva meritato di perdere. Nessuno dovrebbe sottovalutare il suo avversario nel cerchio, nemmeno se si tratta di una donna. E io non intendevo farlo. Lo sentii quasi subito. Facce si voltarono dalla mia parte. Cominciarono i mormorii. Sentivo i bisbigli, anche se nessuno era chiaro: solo frammenti come "Tigregialla" o "Danzatore di spade". Lentamente mi raddrizzai sulla mia panca ed appoggiai una scapola contro la parete. Attesi. E alla fine, naturalmente, qualcuno si avvicinò per vedere se ero interessato. Lo ero. Ma aspettai fino al prezzo giusto. Poi, pigramente, srotolai le mie lunghe gambe e mi alzai, lasciando che tutti vedessero la mia altezza e la considerevole ampiezza delle mie spalle. E Infallibile, nascosta discretamente sotto il mio saio. «Io sono un uomo leale» dissi a tutti. «Non voglio imbrogliare nessuno. Questo lo sapete; mi conoscete. Ma qui è in pericolo qualcosa.» Attesi un momento, poi esibii il mio sorriso indolente. «La mia reputazione.» Questo provocò la risata prevista. Il sollievo si diffuse per la stanza ed improvvisamente gli avventori furono di nuovo rumorosi, turbolenti e alle-
gri, sicuri che avrei tenuto alto l'orgoglio maschile contro questa donna. Anche se aveva battuto tre uomini «e uno dei quali un professionista» nessuno di loro era stato la Tigregialla. Nessuno di loro era stato quel leggendario danzatore di spade. Lei era ancora al centro del cerchio immaginario, stringendo le monete nella mano. Nell'altra reggeva la spada. Vidi il suo viso acceso di rossore e l'ira nei suoi occhi; tanto meglio. Questo era una questione di principio ormai, non importa come la consideri. «Meriti qualcosa per il disturbo» le dissi. «Che ne dici di una divisione novanta-dieci? Dieci per te se perdi.» Pensai che dire "se" mostrava della sensibilità da parte mia; avrei potuto dire "quando". «Il vincitore prende tutto.» Il tono era secco, strozzato nel suo accento del Nord. Le sorrisi. «Questo significa te e il denaro... quando vincerò.» Stavolta non potevo evitare la verità. Lei si voltò, si diresse al banco e vi sbatté sopra le monete. Due pezzi d'oro. La prima moneta brillava ancora sul pavimento. Quando si voltò indietro il rossore sul suo viso era più acceso. «Il vincitore prende tutto.» «Per me va bene.» Mi voltai a guardare il pubblico incuriosito. «Che ne dite di una borsa? Offrite qualche moneta per il vostro divertimento. Mettiamo insieme qualcosa per cui valga la pena di danzare.» Questo ebbe l'effetto desiderato. Qualcuno fece girare la borsa e alla fine del giro della stanza era quasi piena. Non tutto il contenuto era oro, ma era ugualmente una somma consistente. Avrebbero tutti riguadagnato qualcosa scommettendo tra loro, e la ragazza e io ci saremmo presi la borsa. Le sorrisi. «L'ultima possibilità per una spartizione decente.» «Hai sentito la mia offerta.» Il suo viso era perfettamente calmo. Sospirai. «Però, mi rifiuto di avere un vantaggio eccessivo su di te. A meno che, naturalmente, tu non sappia già chi sono.» «Un uomo troppo grosso ed un po' ubriaco» disse lei distintamente. «Che altro?» Le gettai un'occhiataccia. «Non sono ubriaco.» La ragazza mi guardò con aria critica. «Questo lo dirà il cerchio... Molto bene, chi sei?» «Il mio nome» dissi, «è Tigregialla.» Vidi che faceva il suo effetto. Lei era del Nord e perciò una straniera, ma era stata nel Sud abbastanza a lungo da sentire parlare di me. Gran parte della gente mi conosce. La mia reputazione circola.
«Danzatore di spada» disse lei sottovoce, rigirandosi le parole sulla lingua. «Sei davvero la Tigregialla?» Accarezzai con noncuranza i segni di artiglio sul lato del mio viso. «Chiamami Tigre per fare prima.» Lei fece un profondo respiro che fece cose fantastiche alla sua anatomia frontale. Ma quando lo esalò vidi che la sua decisione era presa. «Abbiamo un accordo.» «Sei sicura?» I suoi occhi passarono sulle facce in attesa. «Non voglio infrangere le speranze di tutti questi uomini che vogliono vedermi infilzata dal miglior danzatore di spada di tutti.» C'era un sorriso ironico nei suoi occhi. «Balla con me, Tigre.» «Fuori» dissi io. «Facciamo una vera danza.» Lei inclinò un poco la testa, poi annuì. Così ci spostammo fuori. Il sole del Sud è molto caldo. Cuoce la sabbia fino a farti desiderare di urlare, ma non lo fai. Non hai la saliva per farlo. Devi imparare a conviverci. Oppure ne muori. In questo periodo dell'anno il caldo non è così terribile. È abbastanza per scaldarti nella mano l'impugnatura della spada e farti scottare i piedi per il calore che passa attraverso le suole dei sandali. Quasi subito mi tolsi il saio e rimasi davanti a lei nel mio corto perizoma di pelle. Poi mi tolsi la tracolla e la lasciai cadere sul mucchio di seta, dopo aver estratto Infallibile, ed attesi mentre due uomini tracciavano il cerchio. L'elsa si accomodava alla mia mano in una perfetta corrispondenza fra carne indurita e metallo lavorato. Agli inizi del mio apprendistato avevo provato ad arrotolare del cuoio intorno all'elsa per proteggermi il palmo delle mani, ma avevo imparato che era meglio senza. Le mie mani erano talmente incallite che sentivo appena la presa, ed il calore era solo una debole sottolineatura alla luminosità dell'oro. I raggi del sole scorrevano lungo la lama come luce riflessa da uno specchio. Sorrisi. Ci dirigemmo al centro del cerchio. Misi Infallibile al centro preciso e misurai con l'occhio la sua lama mentre la poggiava a terra. Era una grossa spada per una donna, ma non era all'altezza di Infallibile. Non molte spade lo sono. «Buona fortuna, bascha» dissi. «Ci penso da me.» Mi voltò le spalle ed andò al bordo del cerchio. Vidi le sue labbra muoversi e mi resi conto che aveva intonato la sua canzone.
Non l'aveva usata dentro. Forse aveva considerato i suoi avversari indegni dell'onore, perché di onore si trattava. Anche il danzatore di spade che aveva battuto non le aveva strappato una canzone. La guardai corrugando la fronte, cercando di capire le sue ragioni, poi scrollai le spalle e mi affrettai sulla sabbia verso la mia parte del cerchio. Le due lame, fianco a fianco, brillavano nella luce del sole. Sentii il familiare irrigidirsi dei miei muscoli ed il nodo di tensione formarsi dentro di me. Quasi istantaneamente si sciolse, disperdendo la familiare sensazione di anticipazione. Ero freddo e calmo, indifferente all'eccitazione del momento; attesi, e così fece lei. Sentivo la sua canzone. Era cantata molto piano, con riservatezza, eppure giungeva fino alla mia parte del cerchio. Voleva che io la sentissi. Non riuscivo a capirla - era cantata nel suo dialetto del Nord - però comprendevo il suo significato fondamentale. Non era un canto di morte ma un inno alla vita, un saluto al suo avversario, un elogio all'abilità ancora da mostrare ed una celebrazione della danza. Qualsiasi altra cosa fosse, dopotutto era professionale. Sorrisi. «Il vincitore prende tutto...» E ci mettemmo a correre. Sono grande, ma sono veloce. Raggiunsi Infallibile per primo. Estrassi la spada dalla sabbia, lasciando scivolare via i granelli bollenti mentre sistemavo le mani, e feci la prima mossa. Ma lei mi colse di sorpresa. Sapevo che aveva meno energia di me; ne aveva spesa un po' in altre tre danze. Ma lei si gettò sulla sabbia, rotolando, afferrando e rialzandosi in un unico fluido movimento. Dal basso, la sua lama scattò verso l'alto, stridendo contro Infallibile mentre io l'abbassavo. Vidi chiaramente i muscoli dei suoi avambracci tendersi fin sulle spalle; mantenne la posizione abbastanza a lungo da interrompere il mio slancio, poi si voltò e si allontanò danzando. Incespicai nella sabbia, illeso ma decisamente privo della mia finezza. La guardai accigliato dall'altra parte del cerchio. La danza sarebbe stata più lunga di quel che avevo pensato. Lei non rideva. Si muoveva in cerchio ed osservava, freddamente professionale e senza più richiami ad effetto. Si teneva in equilibrio sulle punte dei piedi, sempre in movimento; i suoi capelli lucenti erano raccolti dietro agli orecchi e ricadevano davanti ai suoi seni mentre era china in avanti in una posizione leggermente raccolta. Aveva smesso di cantare, ma non ne aveva più bisogno. Il suo obiettivo era stato raggiunto. Le nostre lame si scontrarono ancora, stridendo un canto in contrappun-
to. Le graffiai due volte l'avambraccio, poi sentii un bruciore su due nocche della mano. Il fatto che avesse superato la mia guardia, anche se per così poco, era già per sé un miracolo. Ero appena consapevole del pubblico. Un mormorio di voci ci circondava, formando un secondo cerchio. Sentivo grida e commenti e risate, ed il tintinnare delle monete mentre venivano fatte altre scommesse. La ragazza sorrise. «Balla con me, Tigre.» Danzammo. La sabbia volava e le spade scintillavano ed il sudore scorreva sui nostri corpi. Battei le palpebre per togliermi dagli occhi il sudore pungente e sentii il dolore nella gola secca. Infallibile balenò ancora e ancora per parare o colpire la sua spada; e lei rispondeva ancora e ancora con le sue contromosse. Dove io ero alto e forte, lei era agile e rapida; dove il mio allungo era maggiore, il suo era più sottile; dove la mia abilità era più chiara, la sua era inaspettata. Era del tutto a suo vantaggio. Alla fine, essendomi stancato dell'inequità di questa danza, decisi di terminarla. Era brava. Era molto più brava di quello che mi aspettavo. Ma lei era la donna e io l'uomo. E la Tigregialla non perde mai. Le sorrisi, anche se era una smorfia dovuta allo sforzo. «Bella danza» dissi. «Ma stanotte voglio un'altro genere di battaglia...» «A letto?» schernì lei. «Prima devi vincere.» E lo feci. Naturalmente. La incalzai un poco, feci assaggiare ad Infallibile ancora un po' della sua candida carne, e le feci saltare via la spada di mano. Ci misi un piede sopra prima che lei potesse slanciarsi ed afferrarla di nuovo. «Basta» dissi caritatevolmente. «La danza è vinta.» Ci furono applausi e grida, pacche sulla schiena, scambi di monete e bevande offerte dal taverniere. Ma io non entrai subito dentro. La osservai mentre mi fronteggiava, coperta di un velo di sudore, orgogliosa e a mani vuote, e la vidi sforzarsi di sorridere. «Sei davvero la Tigregialla.» Toccai la fila di neri artigli ricurvi che mi pendeva dal collo. «Dubitavi di questi?» «No. E nemmeno di quei segni sul tuo viso.» Sospirò e si passò un braccio sulla fronte, scansando dagli occhi delle ciocche di capelli umidi. «Ma speravo di poter vincere.» «La prima volta che perdo sarà anche l'ultima» le dissi. «Volevi uccidermi proprio così tanto?» «Io ho ucciso» disse lei sulla difensiva.
«Non è questo quello che ho chiesto.» Fece una smorfia. «No. Non volevo ucciderti. Volevo solo batterti.» «Perché sono un uomo...» Le sopracciglia chiare si corrugarono. Mi fissò con genuino stupore. «No... perché volevo vincere.» Mi chinai e raccolsi la sua spada. Il pubblico, per la maggior parte, si stava dirigendo verso la bettola, ma alcuni sostenitori erano rimasti indietro. Mentre le rendevo la spada sorrisi il mio sorriso di Tigregialla. «Danzeremo ancora, bascha... stanotte, a letto. Questa volta forse potrei lasciarti vincere.» «Lasciarmi!» si infiammò lei. L'ira si accese nei suoi occhi. «Quello che devo fare, lo faccio! Nessuno mi lascia farlo!» Gli ammiratori risero. Questo la fece tacere immediatamente, come se non volesse essere considerata una che non sa perdere, o peggio: una donna frustrata. Ma vidi gli zigomi accendersi di scarlatto mentre si voltava per dirigersi verso la bettola. Allungai una mano e le strinsi una spalla. «Per quel che vale, hai danzato bene.» «Per una donna?» «Per chiunque.» Le mie dita strinsero leggermente vedendo gli spettatori interessati. «Vieni dentro e ti offrirò da bere.» «Col mio oro?» Sorrise amaramente. «Be', l'ho perso. Onestamente. Ed io pago sempre i miei debiti.» Sentii il suo indiretto apprezzamento. «Forse non sarà tanto male.» «Sorrisi.» Sono la Tigregialla, ricordi? Lei rise. «Proprio così.» Ci ritirammo dentro la bettola e passammo il resto del pomeriggio a bere aquivi. Sa bere bene tanto quanto danza. Era in quella tranquilla ora notturna quando persino i topi sono silenziosi, che sentii il calore del suo respiro contro il mio orecchio. Aprii un occhio, poi tutti e due. «Che c'è?» «Quanto?» chiese lei. «Quanto c'era nella borsa?» Sorrisi. «Vuoi dire quanto hai perso?» «Quello è solo un modo di interpretarlo.» Mi spostai sulla schiena ed infilai un braccio sotto il cuscino. La sua snella, liscia forma era calda contro il mio corpo. «Abbastanza per durarci
un mese almeno. Se non saremo troppo volgari nello spendere la nostra ricchezza.» «Io non sono mai volgare.» «Credevo che lo saresti stata oggi pomeriggio, quando ti ho presa al braccio.» Lei sbuffò. «Te lo saresti meritato, ferirmi in quel modo. Perché l'hai fatto?» «Eri incauta. Ti eri già lasciata ferire da quel danzatore di spade. Volevo soltanto svegliarti.» «Valeva la pena vedermi sanguinare.» Appoggiai le mie labbra contro la massa dei suoi capelli. «L'avrei voluto aprire dalla gola alla pancia, Del. Ma ti sei occupata tu di lui per me.» Lei sospirò. «Tigre... non possiamo farlo per sempre.» «No. Se ne accorgeranno presto, e dovremo inventare un'altro espediente.» Rimase un momento silenziosa. La stanza era buia e potevo vederla appena, ma i suoi capelli erano un debole bagliore contro le ombre. Poi sospirò. «Non sono diventata un danzatore di spada per derubare degli stupidi uomini dei loro soldi.» «Nemmeno io, Del. Ma per adesso, fino a che non troviamo un datore di lavoro è tutto quello che abbiamo.» «Questo lo so.» Si fece più vicina. «Credo di essere solamente stanca di dover perdere.» Sorrisi. «Lo sai che questi uomini del Sud non scommetterebbero mai tutto quel denaro se pensassero che una donna potrebbe vincere. Questo non fa parte del gioco.» Il silenzio fu la sua eloquente protesta. Mi girai su un fianco e mi appoggiai a lei. «E poi» dissi seccamente, «tu ed io lo sappiamo che potresti farmi a fette nel cerchio. Non avrei nessuna possibilità se tu decidessi di danzare sul serio.» Lei sorrise. E poi rise. Solo una volta, ma era abbastanza. Che altro puoi dire alla verità? Titolo originale: The Lady and the Tiger Traduzione di Marina Nunzi LA TORRE NERA
di Stephen L. Burns Uno dei modi migliori per vendere un racconto nel mercato della fantasy è inventare Un personaggio straordinariamente interessante; ed uno dei modi migliori per vendere una seconda volta è scrivere una storia sullo stesso personaggio e sottoporla allo stesso editor. In questa raccolta ho scelto racconti di Phyllis Ann Karr su Fiordigelo e Spina; un secondo racconto di Shanna di Diana L. Paxson; ed un secondo racconto sulla guerriera africana Dossouye di Charles Saunders. Ed in questa tradizione, quando Stephen Burns mi spedì un racconto sulla sua giovane ladra Clea, che mise in ombra la protagonista del suo primo racconto, "Rubacuori", capii di aver ricevuto un'offerta che non potevo rifiutare. Non che Stephen Burns dipenda dalle vendite occasionali; un poscritto nella sua lettera di accompagnamento a questo racconto mi informava che aveva appena venduto un'opera breve alla prestigiosa Analog. Sono certa che l'abbia meritato, ma spero che non abbandoni il genere Spada e Magia per l'alta tecnologia. Anche a diciassette anni d'età Clea avrebbe riso se qualcuno avesse parlato di fortuna. Ma se avesse creduto nella fortuna, allora sarebbe stata costretta ad ammettere che ultimamente stava andando male. Avanzava con aria cupa su un tappeto di sabbia senza fine, sotto un sole ardente e spietato, e le impronte alle sue spalle si riempivano mentre il vento continuo ed inquieto smuoveva la sabbia come deciso a cancellare ogni traccia di lei. L'agglomerato umano più vicino era distante ancora molti giorni, e le sue possibilità di raggiungerlo erano poche, dato che non aveva cibo e l'acqua era terminata. Aveva solo gli abiti che indossava: niente denaro e come arma solo un piccolo coltello da cintura. Ancora rimpiangeva il suo amico e guida, il vecchio Ad'Rhow, morto due notti prima, ucciso dalla sua stessa imprudenza. Il cappuccio del mantello di Clea era abbassato per coprire i capelli color della notte e dare un po' di ombra ai larghi occhi neri mentre scandagliava continuamente l'orizzonte. Se c'era qualche genere di soccorso da trovare in quel posto arido e implacabile, non intendeva mancarlo. Salì faticosamente il versante di una ripida duna, lottando contro la sabbia scivolosa ed infida. La vista dalla cima della duna non dava motivo di
speranza, così scese dall'altro lato un po' scivolando, un po' correndo. Giunta nella conca tra la duna da cui era scesa e quella davanti a lei, la percorse nella speranza di trovare della sabbia umida. Non era da molto su quel sentiero quando qualcosa spuntò al di sopra della cima della duna alla sua destra e balzò sul terreno davanti a lei, atterrando in una nuvola di sabbia. Quel salto era al di là delle possibilità di qualsiasi aggressore umano. Clea si gettò all'indietro ed atterrò in posizione di attacco, estraendo il coltello dal fodero. Dovette piegare indietro la testa per misurare l'intera altezza della cosa che aveva davanti, perché era alta più del doppio di lei. Non era un uomo, ma una creatura o una cosa demoniaca. Era nera come l'inchiostro, nera come la notte eterna nelle profondità delle caverne del povero vecchio Ad'Rhow, ora crollate. Ma non era di un nero opaco, come la fuliggine; aveva invece un aspetto brillante e laccato, come se fosse stata scolpita nella più pura ossidiana. Aveva la forma vagamente umana, ma grottescamente alta. Gli arti erano lunghi ed esili, con i gomiti corazzati e spinati e gambe che si piegavano all'indietro. La testa era simile a quella di una locusta, gli occhi come globi di giaietto sfaccettato ai lati del capo scintillante e corazzato a piastre. Clea fissava la cosa, pronta ad attaccare ma trattenendosi. Il coltello che aveva in mano sembrava piccolo ed inefficace se misurato contro la creatura. Le esili membra della figura demoniaca non avevano un aspetto debole, e ciascuna era affilata per tutta la sua lunghezza, e quei bordi sembravano più affilati della lama di Clea. Abbastanza taglienti da fendere ossa come fossero burro. L'enorme cosa nera mosse le sue mani artigliate, a tre dita. Istantaneamente apparve un coltello in ciascuna mano. Neri, sia la lama che l'impugnatura, sembravano essere scaturiti dalla calda aria del deserto. Clea rinserrò la sua guardia, preparandosi a schivare o saltare. La cosa da incubo che le stava davanti la fissava ciecamente, senza fare nemmeno i più piccoli movimenti che provassero che stava respirando. Dopo un momento la sua bocca spinosa si aprì, ed essa parlò con una voce come di piastre di ottone grezzo che si strofinano e cozzano l'una contro l'altra. «Lascia il coltello. Mentre lo stringi non penserai ad altro che a come far del male a Questo. Non puoi far male a Questo, e Questo non farà male a te se obbedisci.» Clea rabbrividì e strinse i denti, perché la voce della cosa irritava come il grattare del ferro sulla pietra. Ma i suoi occhi neri non si staccarono mai
dalla cosa, e strinse più saldamente in pugno la sua piccola lama. «No. Non mi lascerò ingannare.» La creatura non disse nulla. Agì inaspettatamente. Più rapida di qualsiasi braccio e mano umana, scagliò i due coltelli sibilanti verso Clea. Lei reagì istintivamente ed in risposta lanciò il suo coltello. Un attimo più tardi Clea era perfettamente immobile, trattenendo il respiro. La cosa diabolica aveva raccolto il suo coltello dall'aria come se fosse stato un calabrone lento e pigro. I due coltelli che la cosa aveva lanciato non l'avevano toccata. Uno era sospeso nell'aria ad un palmo dalla sua gola, senza cadere o avvicinarsi; l'altro era fermo ad un dito dal suo ventre come in attesa che il suo padrone gli dicesse di infilzarsi. La creatura inclinò di lato la sua testa da locusta. «C'è una parola: Fiducia.» Si pugnalò un occhio con il coltello di Clea, colpendo il globo sfaccettato e dall'aspetto fragile con un colpo più forte di qualsiasi mano umana. La lama andò in pezzi, cadendo in una pioggia di schegge bronzee ai piedi della cosa. L'impugnatura fu ridotta in polvere nella sua mano come se nulla fosse. Continuando a guardare Clea, la cosa fece un gesto. Uno degli strani coltelli neri tornò rapido nella sua mano come un volatile addestrato. La cosa rovesciò il coltello, e con calma cominciò a spingere la lama nel petto. Un fluido nero come catrame sgorgò dallo squarcio nella sua pelle lucida. Parlò ancora, con la sua voce metallica inalterata dal dolore. «Solo un tipo di arma può far male a Questo.» Il coltello puntato alla gola di Clea arretrò, si girò, e scivolò nella sua mano dalla parte dell'elsa. Lei lo guardò con meraviglia, rabbrividendo alle pulsazioni di potenza che le inviava su per il braccio. La creatura piantò il coltello fra loro nella sabbia, e prendendone un'altro sospeso in aria lo piantò accanto al suo compagno. «Ti fiderai di Questo?» chiese, incrociando le gambe e sedendo sulla sabbia. «Questo vorrebbe avere il tuo consiglio ed un aiuto se tu vuoi darglieli.» Clea guardò il coltello nella sua mano, e poi la creatura. Si mise seduta di fronte ad essa. «Che aiuto può servire ad uno come te?» L'atteggiamento della creatura cambiò, diventando meno rigido. Palesemente sollevata dalla risposta di Clea, glielo disse. «Questo non è un demone,» disse la creatura, «anche se può averne l'aspetto. Ma Questo non appartiene nemmeno alla vita terrena, essendo una cosa fabbricata e non nata, formata dal potere e dalla malvagità del suo
creatore e padrone, Okkatal. Questo fu portato nel mondo per essere lo strumento di quella terribile malvagità.» "Una volta Okkatal era il Gran Sacerdote di Nomana, una città vicina alle Montagne del Levante. La sua avidità di potere e dominio non conosceva limiti e lo portò ad oscure ricerche ed imprese anche più oscure. Per mezzo dei suoi complotti, e con l'ausilio di magie, crudeltà ed assassinio, cercò di rovesciare i legittimi governanti del luogo. Il suo potere crebbe come l'oscurità al calar del sole, e con quel potere brandiva il terrore come una frusta. "Ma il coraggioso popolo di Nomana ed i pochi legittimi Signori che non erano stati uccisi o corrotti riuscirono a scacciarlo prima che il suo dominio fosse assoluto. Non riuscirono ad ucciderlo, perché il suo potere magico era grande ed ogni mano alzata contro di lui ardeva in fiamme. Ma a carissimo prezzo lottarono e si liberarono dal suo crescente dominio, scacciandolo da Nomana e precludendogli la città. "Il potere di Okkatal venne sminuito da questo cambiamento, e la sua rabbia bruciò più forte del fuoco di una forgia. Per un certo tempo vagabondò, cercando nuove conoscenze ed alimentando il suo risentimento fino a che non bruciò come un fuoco dentro di lui. Col tempo tutto il suo potere originario tornò, raddoppiato sotto la forza della sua malvagità senza fine. Giunse in questo deserto ed innalzò una torre di vetro nero, una torre costruita per mezzo della negromanzia e conservata da una volontà malvagia. In quella torre andò per iniziare il suo vero lavoro. "Per più di venti anni Okkatal lavorò duramente in vista del suo oscuro sogno di vendetta contro la città che l'aveva scacciato. Molti progetti furono intrapresi a questo fine, e questo doveva essere il suo più grande. La strana creatura nera si agitava senza posa, quasi con timidezza. Emise un piccolo clac-clac-clac metallico che poteva essere una risata e continuò: «Soldati umani non servivano allo scopo di Okkatal, perché potevano essere uccisi o potevano tradire. Voleva un servitore terribile come la sua volontà, e si adoperò a creare una creatura spaventosa ed invulnerabile il cui aspetto fosse terrore e la cui forma fosse distruzione incarnata. Doveva essere una cosa intelligente, capace di astuzia, macchinazioni e proposito ragionato.» "Fabbricò questo, e lo chiamò Rovina. «La creatura ripeté il nome, come se ciò le desse un amaro piacere.» Rovina. Ma Okkatal, vecchio e pazzo, nutrito di propositi velenosi e conoscenze che sarebbe stato meglio dimenticare, riuscì addirittura a superarsi. Questo poteva distruggere una città
come una tempesta se lo voleva, o abbattere mille soldati come grano sotto la falce. Ma Questo non voleva. Non poteva. Questo conobbe qualcosa chiamato dolore quando la volontà di Okkatal lo sferzò come fuoco portato dal vento, eppure Questo sapeva di dover sopportare quell'agonia e rifiutare gli ordini del suo padrone. «Hai conosciuto il bene e il male» disse Clea. «Anche gli uomini ne hanno un'idea.» «Questo non è un uomo.» La voce della creatura non era che uno sferragliare. «Questo era inadatto ai propositi del suo padrone, e la sua ira trasformò il giorno in notte. Non poteva distruggere o far del male a Questo, anche se con i suoi tentativi avrebbe potuto aprire una montagna come un uovo. Fiasco, chiamò allora Questo, e lo scacciò, ponendo un Divieto affinché non potesse più rientrare nella torre.» "Creature minori ora egli crea, chiamate garsk, prive di pensiero e volontà, e forgiate solo di malvagità. Okkatal aumenta il loro numero ogni giorno che passa, e presto saranno scatenate verso lo scopo per cui Questo era stato creato. Fiasco si raggomitolò su sé stesso, chinando la testa. Guardava Clea con uno scintillante occhio d'ebano, ed anche se nessuna emozione animava la sua voce, la sua confusione era evidente come la sua ombra sulla sabbia. «Questo è stato scacciato, proprio come lo è stato Okkatal da Nomana. Questo è come Okkatal in quanto desidera anche lui di tornare nel luogo da cui è stato scacciato. Fiasco rientrerebbe nella torre proibita per uccidere il suo creatore e mettere fine ai suoi piani, se potesse. Questo è malvagio come Okkatal perché i suoi desideri sono gli stessi?» "Tu sei nata umana, non sei una povera cosa fabbricata. Rispondi alla disperazione di Questo. Clea sorrise a Fiasco. Andò a sedersi accanto a lui, restituendogli il coltello. «Devi dirmi tutto di Okkatal e della sua torre se vogliamo abbatterla, amico mio» disse. La lastra di vetro nero scintillò, poi si schiarì ed apparve un'immagine. Okkatal osservò una figuretta ammantata ed incappucciata cavalcare verso la sua torre sulla schiena della creatura che aveva chiamato Fiasco. Si accigliò, cercando di capire come fosse possibile. La strana coppia si fermò. La figura che cavalcava Fiasco gettò indietro il cappuccio, rivelandosi per una giovane donna con corti capelli neri e larghi occhi scuri. Sempre seduta sulla sua cavalcatura, ed apparentemente
guardando proprio in direzione di Okkatal, si mise le mani sui fianchi e gridò, «Ehi, della torre! Okkatal lascerebbe una vecchia ad aspettare tutto il giorno sotto questo dannato sole?» Okkatal si accigliò ancora di più. Una vecchia? Mandò fuori quattro dei suoi soldati garsk con un silenzioso comando. Alcuni attimi più tardi guardò le quattro creature simili a mantidi circondare l'intrusa. La giovane donna le osservava freddamente. «Che lavoro scadente» disse, scuotendo la testa. Smontò, e si diresse verso la torre gettando con noncuranza al di sopra della spalla l'ordine di 'fermo' a Fiasco come se fosse un cane. E Fiasco si accoccolò a faccia in giù come un cane bastonato. Questo era un enigma che esigeva una risposta. Okkatal ordinò ai quattro garsk di scortare la donna nella sua sala. Ordinò che lo specchio venisse portato via ed attese di incontrare la sua strana visitatrice. Clea fu portata direttamente da Okkatal, scortata dai quattro silenziosi garsk. Queste creature erano più piccole dì Fiasco, ed anche se erano dello stesso nero laccato, erano più simili a mantidi nella forma, con piccole teste da formica. Negli artigli che servivano loro da mani ciascuno portava una lancia completamente nera con la punta a forma di foglia. Okkatal era sistemato su un trono d'oro in una sala di vetro nero così sfaccettato che le poche lampade accese si moltiplicavano in migliaia di scintille abbaglianti. Una falange di garsk era allineata lungo ciascun lato del percorso che portava al trono di Okkatal in una doppia fila aguzza e scintillante di minaccia. Clea marciò decisa fin davanti alla piattaforma rialzata di Okkatal ed alzò gli occhi per guardarlo, furibonda. «Giovanotto, sei uno stupido!» Okkatal era vecchio, molto vecchio. La sua pelle era gialla e tesa rigidamente sulle ossa, segnata da linee sinuose di vene blu. I suoi occhi erano di un colore malsano e sembravano aprirsi immobili nel cranio. Tutti i suoi capelli se n'erano andati insieme alla gioventù, ed aveva quell'aria di movimento lento propria del rettile, come se la sua bocca fosse piena di veleno. «Non così giovane come te» disse alla fine con un secco sussurro come di carta. «E dato che osi venire qui nel mio rifugio a stuzzicarmi, nemmeno così stupido.» Clea incontrò senza paura il suo sguardo da vipera. «Dicono che per riconoscere un furbo ci vuole un furbo e mezzo, bambino, ma questo non è il caso degli stupidi. Ti vedo seduto là sul tuo trono da stupido a fabbricare formiche mentre lo scorpione ti punge ripetutamente. Questa è la tua stu-
pidità, e ti abbandonerei ad essa se non fosse che tocca anche me.» Okkatal si accigliò, chiedendosi cosa poteva significare quello strano commento. L'avrebbe saputo presto, che lei volesse dirglielo o no, ma prima voleva una risposta all'enigma del suo controllo su Fiasco. «Sei arrivata qui cavalcando uno dei miei fallimenti come fosse un cavallo sfiancato. Come può essere?» Clea rise. «Ah, quella creatura era una creazione migliore di questi giocattoli di cui ti circondi ora. Ne vale mille di queste formiche.» Fece un gesto verso i quattro garsk che ancora la sorvegliavano e poi verso gli altri allineati nella sala di cristallo. «Comandare qualcuno come la cosa su cui sono arrivata non è stato un compito difficile. Se tu avessi altri mille anni per studiare la faccenda, potresti riuscire anche tu a piegarlo ai tuoi voleri.» Sputò sul pavimento e sorrise ad Okkatal. «Arriviamo alla ragione della mia visita. Tu muori, bambino, e ti resta poco tempo... molto meno di un anno. Bruci la tua esistenza, anche se sei troppo stupido per saperlo. Bene, io ho vissuto tre volte la tua vita ed ho intenzione di viverla tre volte ancora. Ma dimmi, ti piacerebbe vivere un po' più a lungo? Abbastanza a lungo per goderti il tuo trionfo su Nomana?» Okkatal fissò la donna davanti a lui, tentato di lasciare che le sue creature la usassero per divertirsi, per poi sbarazzarsene. I suoi occhi gli dicevano che non aveva passato da molti anni la fanciullezza, e lui non sopportava che qualcuno gli parlasse in quel modo. Eppure era giunta alla sua torre cavalcando una creatura che lui sapeva in grado di radere al suolo un'intera città, una creatura che aveva resistito ad ogni suo tentativo di dominio. Ciò significava potere o conoscenza in gran quantità. Se le pretese di grande età di questa strega erano vere, forse lei poteva avere la soluzione per un problema che lo affliggeva e che irritava terribilmente i suoi nervi, cioè quando fosse stato pronto a ridurre Nomana in polvere sotto il suo tallone, sarebbe stato vicinissimo alla morte il cui fetido alito già gli gelava il collo. Poteva costei aver appreso il segreto per passare attraverso i secoli senza venir toccata dal tempo? Il pensiero di avere cento anni per riscuotere il pagamento da Nomana lo eccitava come i suoi sogni di vendetta non erano più riusciti a fare ultimamente. «È questo quello che sei venuta ad offrire?» disse alla fine. Ci volle un grande sforzo per impedire alla speranza di trapelare sul suo viso o nella voce.
«Io non offro niente. Sono venuta a sistemare una faccenda, e tu non devi far altro che scegliere tra aiutarmi e vivere a lungo od opporti a me e morire oggi stesso. Ma uno stupido può scegliere assennatamente?» «Non provocarmi!» Gli occhi lividi di Okkatal fiammeggiarono, mentre stringeva forte i braccioli del trono con le sue mani esili e scheletriche. I garsk che circondavano Clea si avvicinarono, alzando più in alto le loro lance. «Spiega immediatamente la ragione per cui ti intrometti, o ti farò ridurre a brandelli da queste creature che osi chiamare formiche per divertimento mio e loro!» Clea sospirò. «Te lo dirò, ma non a causa della tua minaccia... voglio che tu conosca i confini della tua follia. Nella fabbricazione della creatura che hai chiamato Fiasco, e nella fabbricazione e nel controllo di queste creature minori tu hai usato uno zenghen-s'tu, una grande gemma nera che hai preso dal Reame Oscuro. Non è così?» Okkatal fu sorpreso che la giovane donna davanti a lui potesse sapere di questo argomento. Lui aveva impiegato anni di studio per venire a conoscenza dello zenghen-s'tu, la Pietra dell'Odio, ed altri anni per padroneggiare le arti necessarie a procurarsela. Questo era accaduto solamente l'anno passato, e metà di quel tempo era stato speso a cercare di padroneggiarla abbastanza da produrre Fiasco. Che lei potesse sapere una cosa simile dava credito alla sua pretesa di grande età. «Sì, è così.» Clea fece una smorfia. «Certo che è così! E tu adoperi la gemma così come ti è arrivata, grezza e senza forma.» Di nuovo sorpreso, Okkatal si limitò ad annuire. «Stupido!» gridò Clea, battendo il piede. «È come usare una spada con l'impugnatura tagliente come la lama! Tu ti dedichi alla tua opera, continuando a rinsecchirti ed invecchiare mentre il tuo strumento di lavoro ti taglia le mani e prosciuga da te la vita! È lontana settimane di viaggio la mia casa, eppure anche da laggiù ho sentito la sua avidità lambirmi! Se tu vuoi morire, è affar tuo. Ma io ho intenzione di vivere a lungo e di non perdere un giorno di più a causa della tua follia.» "Quindi sono venuta a fare una di queste cose: o distruggere te e le tue opere maldestre, o insegnarti come dare forma a quella cosa nel modo giusto. Non mi importa granché quello che sceglierai, e ti offro la seconda scelta solo perché tu ed io siamo della stessa pasta. «Incrociò le braccia e non disse altro.» Okkatal accantonò quelle minacce come inutili vanterie. Conosceva i
suoi poteri, e non aveva paura di nessun mortale. Ma se fosse stato vero che un semplice cambiamento di forma della grande gemma nera poteva dargli una nuova vita ed un potere più grande sui vermi di Nomana...! Okkatal fece un gesto, con un sorriso ferino sul viso scheletrico. I quattro guerrieri garsk circondarono Clea, e due di essi l'afferrarono per le braccia con i loro artigli. «Ho deciso. Mi mostrerai come rimodellare la gemma. Poi, se mi pregherai gentilmente, potrei anche lasciarti vivere.» Clea non mostrò timore. «Oh, bambino, io ti aiuterò» disse. «Ma quanto al dopo...» Allargò le braccia e scosse le spalle. Okkatal fu preso e trasportato, insieme trono e tutto il resto, da una dozzina dei suoi servi simili a una schiera di insetti obbedienti. Un'altra dozzina circondò Clea. Lei lo seguì mentre veniva portato via, camminando al centro di un cerchio di lance come se si trovasse da sola in un prato. Dopo che il corteo ebbe lasciato la sala del trono di Okkatal si fece strada su per una lunga scalinata che salendo si restringeva sempre più, per emergere in una stanza dal soffitto alto ad un piano di altezza dal suolo. Questa stanza era enorme e circolare, le pareti esterne costituite dalle mura stesse della torre, e attraverso quelle mura filtrava una luce cinerea, tetra. Tutto era spoglio eccetto il centro della sala, dove si alzava un piedistallo di pietra rozzamente tagliato su una piattaforma di ossidiana. Lo zenghen-s'tu era poggiato su quel piedistallo di pietra grigia. Guardare la grande gemma nera faceva male agli occhi. Non rifletteva alcuna luce, ed invece di sembrare qualcosa entrato in questo mondo aveva più l'aspetto di uno squarcio nell'universo che lasciava intravedere un luogo più oscuro. L'intera stanza pulsava della sua energia, eppure nonostante tutta quella potenza la stanza era fredda, addirittura gelida. I passi di Clea si fecero esitanti mentre veniva condotta in presenza della gemma, e l'espressione di insolente sicurezza scomparve dal suo viso per qualche pericoloso istante. Se Okkatal si fosse voltato e l'avesse vista allora, sarebbe stata la sua fine, perché avrebbe visto che non era un'anziana donna sapiente avvezza ai poteri dello zenghen-s'tu, ma una giovane donna coraggiosa ed arrogante che affrontava una forza maligna che avrebbe intimidito il più temerario dei mortali. Ma Okkatal aveva occhi solo per la sua gemma. Fu portato verso il suo orgoglio e la fonte del suo potere, e la sua faccia scheletrica e incartapecorita era distorta in qualcosa di simile ad una espressione di amore, mentre guardava avidamente il cuore pulsante dei suoi sogni di potere e vendetta.
Il suo respiro usciva dalla bocca screpolata come vapore grigio nel freddo della stanza, e le sue mani scheletriche tremavano per l'impazienza di rimodellare la gemma in un utensile più adatto a servire i suoi scopi. Clea si conficcò le dita nel dorso della mano, forte, più forte, finché le nocche sbiancarono ed il sangue affluì intorno alle unghie. I suoi occhi si chiusero solo un momento, poi le mani si rilassarono. Le batté insieme, gettò indietro la testa e rise forte proprio mentre i portatori garsk di Okkatal stavano abbassando il trono sulla piattaforma su cui si ergeva il piedistallo. Gli occhi del sacerdote rinnegato lasciarono la sua adorata gemma e cercarono Clea. Lei avanzò verso Okkatal, più impaziente di lui di cominciare. «Mi meraviglio che tu sia ancora vivo!» gridò. «Hai compiuto una grande opera quando hai preso questa dal Reame Oscuro, e non c'è da stupirsi che io l'abbia sentita anche nella mia lontana dimora!» Sorrise ad Okkatal con approvazione. «Devi essere davvero forte per essere ancora vivo, dopo essere rimasto vicino ad una tale terribile forza incontrollata per così tanto tempo. Non sei il dilettante sconsiderato che credevo! Chiedo scusa, giovanotto, e questa per me è una cosa davvero insolita!» Okkatal emise un sospiro di sollievo, lieto che questa sgarbata intrusa avesse superato la prova finale e non fosse caduta nel più completo sgomento davanti alla forza emanata dallo zenghen-s'tu. La maschera ingiallita del suo viso mostrava sollievo e non poca speranza. «È veramente una cosa bellissima» disse con semplicità. «È anche il frutto di venti anni di fatiche. Un semplice rimodellamento può davvero cancellare il prezzo di quelle fatiche?» «Certo che può. Vuoi cominciare?» Gli occhi di Okkatal bruciavano di impazienza e la sua bocca screpolata si contraeva famelica. «Lo voglio.» «Allora non devi fare altro che questo» disse Clea. «Ricorda quando eri giovane e forte, quando le tue membra erano scattanti ed il tuo sangue scorreva caldo e denso, quando la vita in te era una fiamma vivace e non un fuocherello morente. Fissa questo nella tua mente, scacciando qualsiasi altra cosa. Quando vedrai con chiarezza il te stesso di un tempo, afferra la pietra e scava in essa quell'immagine. Con la tua mente, modellala a somiglianza di come eri allora, e così ti darai nuova forma e tornerai a quello stato felice. Se la tua volontà è sufficiente per questo, così come la tua forza, allora riuscirai ad attraversare gli anni come se il tempo fosse un esile
ruscello senza forza per risucchiarti o portarti via.» «Un segreto così semplice» mormorò Okkatal. «Nel cuore di tutti i grandi poteri c'è la semplicità.» Okkatal non rispose. Già stava cominciando a seguire le istruzioni per poter forgiare lo zenghen-s'tu in un ricordo ed in un rinnovamento. Per un attimo pensò di sfuggita a far uccidere la strega dalle sue creature adesso, sul posto, ma decise di no. Forse sapeva altre cose utili. Accantonando qualsiasi altro pensiero, Okkatal ricordò, mandando la sua mente indietro negli anni, rammentando quello che era stato consumato dal tempo. Ricordò, e quando fu pronto allungò le mani tremanti, scheletriche, ed afferrò lo zenghen-s'tu. A quel contatto, dalla gemma eruppe una fiamma rossastra, un fuoco che gli salì per le braccia ed avviluppò il suo corpo in un istante. Avvolto in un groviglio di fiamme cremisi, Okkatal si irrigidì e fu attirato in posizione eretta, in piedi davanti alla gemma come a giurarle fedeltà. Un improvviso calore, terribile ed incandescente, fuoriuscì ad ondate dalla gemma, obbligando Clea a retrocedere. Il trono d'oro di Okkatal cominciò ad afflosciarsi e sciogliersi, troppo vicino alla potenza scatenata dallo zenghen-s'tu. La gemma cominciò a pulsare e fremere come una cosa viva nelle mani di Okkatal, prendendo una forma arrotondata e poi l'aspetto rozzamente abbozzato di una testa umana. La bocca di Okkatal si aprì in un silenzioso ululato, mentre impiegava ogni particella della sua ferrea volontà contro la monumentale resistenza della pietra. Fu allora che una fragorosa scossa fece tremare la torre e si udì lo schianto lontano di vetro infranto. Nel chiasso che seguì, Clea si voltò verso le scale e cominciò ad allontanarsi più che poté da Okkatal, totalmente assorbito nei suoi sforzi per dominare lo zenghen-s'tu. La sua volontà stava avendo la meglio; già la potente gemma nera aveva la forma di un volto vagamente tratteggiato, e sembrava che una manciata di anni fosse già scivolata via da lui. Ma la lotta gli prendeva tutto ciò che aveva; quella parte della sua mente che aveva mantenuto il Divieto contro la creatura da lui fabbricata, poi scacciata perché inadatta, era adesso concentrata nello sforzo. Non aveva scelta; lo zenghen-s'tu non gli dava margine di riserva. Se avesse provato a risparmiarsi sarebbe stato consumato come una foglia secca in un falò. Nel momento in cui il Divieto era venuto meno, Fiasco aveva agito, aprendosi un varco attraverso le mura adamantine della torre come se fosse-
ro solo uno strato di sottile intonaco. Aiutato dalla sorpresa, aveva guadagnato le scale prima che contro di lui fosse organizzata una resistenza vera e propria. Fiasco giunse in cima alle scale, assediato da un nugolo di garsk, appena in tempo per scontrarsi direttamente con un'altro sciame di malvagie creature nere. Guardò una volta verso Clea, poi i suoi occhi trovarono il suo creatore, Okkatal; allora gettò indietro la sua testa da locusta ed emise un grido come ottoni e campane schiacciati fra grosse pietre, e poi lottando cominciò ad aprirsi un varco verso di lui. Mai nessuno a questo mondo aveva combattuto come fece allora Fiasco. Scagliò lontano i garsk che gli si erano gettati contro in quel momento di pausa e ne abbatté altri venti nello spazio di un respiro. Una dozzina di garsk lo colpirono contemporaneamente con le loro lance, ed una dozzina di lance - e le braccia che le reggevano - caddero al suolo con un solo colpo di coltello. Un garsk fu lanciato contro Fiasco per prenderlo alle spalle; lui si voltò e lo colpì col suo pugno a tre dita, ed il garsk andò in pezzi come un melone colpito con un martello. Una delle mani di Fiasco si muoveva senza posa, i prodigiosi coltelli neri sfrecciavano e colpivano come lampi d'ebano, e poi tornavano per essere rilanciati, troppo velocemente perché l'occhio potesse seguirli. Intorno a Fiasco si apriva uno spazio ogni volta che un garsk che giungeva a portata veniva ridotto in pezzi dal suo pugno o da un calcio. Lentamente, la creatura più alta si apriva un varco attraverso i suoi fratelli minori dentro la stanza. Clea non era meno occupata. I garsk non avevano ordine di distruggerla; l'avevano circondata all'apparire di Fiasco. Ma due delle creature-mantide erano entrate nel cerchio di lance per bloccarla, e lei aveva reagito strappando una lancia dagli artigli di una di esse, infilzando prima lei e poi il suo socio. Il cerchio si era ulteriormente chiuso intorno a lei, e Clea roteava la lancia per tenerli indietro. «Svelto!» gridò. «Okkatal si trasforma!» Fece una finta quando un'altro garsk entrò nel cerchio, e poi gli conficcò la punta della lancia nella gola. Gli anni di Okkatal scivolavano via come gli strati di una cipolla, e la gemma pulsante di rosso era una fornace che bruciava tanto intensamente da lasciar intravedere le ossa delle mani e delle braccia attraverso la carne come se questa fosse vetro. Il trono d'oro era una pozza rosso brillante sul pavimento, ed un viso rude e astuto si poteva già vedere nella gemma. Fiasco si faceva largo verso il suo creatore attraverso un nero mare ribollente di garsk, ed i loro corpi straziati schizzavano via come spuma. Nella
stanza affluivano altre di quelle cose e gettavano il loro peso e la loro irragionevole malvagità nella massa aggrovigliata che cercava di abbattere Fiasco. Ormai la grande creatura perdeva sangue nero da una dozzina di ferite, perché le lance dei garsk erano versioni minori dei suoi coltelli, e quindi in grado di perforare il suo carapace vetroso. Assediato da innumerevoli garsk, non si accorse che alcune delle loro lance avevano oltrepassato la sua guardia. Clea avrebbe voluto farsi strada verso Fiasco, ma i suoi avversari giungevano troppo veloci. Una lancia la colpì alle costole, ma lei la strappò dagli artigli del suo assalitore e gli piantò l'impugnatura negli occhi. L'inarrestabile pressione di lance ed artigli si fece ancora più vicina, circondandola come una bufera.' Fiasco era sepolto in un cumulo di garsk che si agitavano, colpivano, e sembrava che per ognuno di loro che veniva scagliato via altri due ne prendessero il posto. Avanzando a fatica in mezzo a quella ribollente furia di garsk, Fiasco raggiunse la piattaforma. Con uno sforzo che sarebbe stato impossibile per qualsiasi altro al mondo, Fiasco liberò le braccia e calò le sue grottesche mani sullo zenghen-s'tu. Ci fu una detonazione che scaraventò a terra tutto e tutti «eccetto la gemma, Okkatal, e la sua prima creazione - come bottiglie su un tavolo inclinato. Quando Fiasco toccò la gemma il fuoco cremisi divenne bianco, salendo lungo le sue braccia e trasformando il suo corpo in una torcia di incandescenza pura ed incolore.» La torre gemette e tremò, i garsk giacquero immobili. Da dietro un mucchio di corpi, Clea guardò con occhi socchiusi il fuoco bianco liberato da Fiasco consumare la rinnovata gioventù di Okkatal nello spazio di un momento. Ma la volontà di Okkatal era forte; strinse i denti e sopportò l'assalto. Lentamente, una macchia rossa cominciò a colorare il bianco, e Fiasco, che si stava trasformando in qualcosa di bianco e più umano, cominciò a perdere terreno davanti al suo creatore. Altro rosso colorò di sangue il bianco e la testa da locusta di Fiasco oscillò da una parte all'altra in agonia. Gli fu strappato un grido a metà fra ottone spezzato e uno schianto di vetri rotti, ed il nero del suo corpo prese una tinta infuocata, come ferro arroventato. «Io... ti ho... creato» sibilò Okkatal. «Striscia! Fiasco!» Fiasco sussultò come colpito. Le sue spalle spinate si piegarono, e fissò Okkatal con un occhio scintillante, sfaccettato. «Questo... io...» la voce di
Fiasco si fece più forte, e lui si raddrizzò, non più intimorito. «Io... non... lo farò!» Con uno sforzo convulso Fiasco strizzò la gemma con tutta la forza che Okkatal era riuscito a dare al suo corpo. Okkatal ebbe solo lo spazio di un istante per gridare prima che lo zenghen-s'tu lasciasse questo mondo. E fu come se un fulmine avesse colpito la piattaforma mille volte contemporaneamente. Il mondo divenne bianco, poi nero, e infine silenzioso. Clea si alzò in piedi con uno sforzo uscendo da dietro il mucchio di garsk morti. Del sangue macchiava di rosso il fianco della sua tunica, ed il resto era sporco del sangue catramoso dei garsk. Scosse la testa per schiarirla, scostò i capelli neri dagli occhi, poi zoppicò verso la piattaforma. I velenosi sogni di vendetta di Okkatal erano finiti. Era stato incenerito fino all'osso, e la sua anima se n'era andata in qualche ignoto e buio pozzo pronto ad attenderla. Fumo sudicio si levava tutt'intorno mentre le ossa rimaste continuavano a bruciare cupamente. Clea si allontanò e cercò Fiasco. Trovò la creatura, e sulle prime la credette morta. Ma dopo un momento la testa di Fiasco si mosse debolmente, ed un nero occhio si volse verso di lei. «Sono... contento» disse Fiasco, ed anche se la sua voce aveva sempre quel tipico suono di metallo percosso, un quieto orgoglio e un senso di pace brillavano in essa. «Ti ringrazio.» Clea non disse nulla; il viso era grave, con l'inizio di una lacrima che si raccoglieva nell'angolo di un occhio scuro. «Sono quasi alla fine» disse Fiasco, girandosi debolmente verso di lei. Sangue nero cominciò a scorrergli dalla bocca. «Ti lasceresti ingannare un'altra volta?» Clea non ebbe il tempo di rispondere alla strana domanda. La mano di Fiasco si mosse all'improvviso. Uno dei coltelli neri apparve, poi lasciò la sua mano più veloce di un batter d'occhio. Un secondo ed un terzo coltello vennero lanciati, uno dopo l'altro. Clea reagì istintivamente, cercando di allontanare i coltelli con le mani. Il primo si conficcò nel palmo della sua mano destra e la trapassò; lei gridò, ed il secondo coltello le bucò la mano quasi nello stesso punto. Il terzo colpì la sua mano sinistra, e la punta del coltello uscì dal dorso. Clea cadde in ginocchio, guardando Fiasco con occhi inorriditi, increduli. «Estrai il coltello» disse Fiasco debolmente. Clea fissava la creatura come se la vedesse veramente per la prima volta. Mostro, dicevano i suoi oc-
chi, traditore. «Estrai i coltelli» ripeté. Intontita, lottando a denti stretti contro il dolore alle mani, Clea riuscì ad afferrare l'impugnatura di uno dei coltelli tra le dita rattrappite e ad estrarre la lama dalla carne. Il coltello uscì senza lasciare alcuna ferita. Goffamente tolse l'altra lama infilzata nella mano destra, ed anche questa uscì senza lasciare segni. Afferrò l'ultimo coltello con una mano integra e lo estrasse. Tutto il suo braccio rabbrividiva alla sensazione dell'impugnatura che teneva nella mano. Nessuna ferita, nessun dolore, e lei sapeva che avrebbe potuto tagliare la pietra come fosse acqua con quel coltello. Era in piedi, piena di meraviglia. «Un ultimo inganno ed una ricompensa» disse Fiasco. «Tirane uno.» Clea lanciò uno dei prodigiosi coltelli neri verso il corpo di un garsk dall'altra parte della sala. La lama trovò il suo bersaglio senza sbagliare, conficcandosi fino all'impugnatura. «Richiamalo» sussurrò Fiasco, con un suono simile a sassolini che rotolano su un vassoio di ottone. Clea fissò il coltello lontano. Questo si liberò, ed in un lampo tornò nella sua mano. Agitò di nuovo la mano, e quello sparì, eppure lei sapeva che se avesse voluto, quello o gli altri due sarebbero stati là. Si voltò verso Fiasco per ringraziarlo. La grande creatura nera era morta. Clea si inginocchiò per un istante accanto al corpo di Fiasco, e stavolta nei suoi occhi c'erano lacrime, che le scorrevano lungo le guance. Mosse una mano, ed istantaneamente uno dei coltelli di Fiasco apparve. Portò la lama alla fronte in segno di saluto, poi si alzò in piedi e cominciò a zoppicare verso le scale. Clea trovò un otre d'acqua, ed uno di vino. Riempì una bisaccia col cibo che ad Okkatal non sarebbe più servito, ed uscì nella sera attraverso lo squarcio che Fiasco aveva prodotto nella torre di vetro nero. Si allontanò senza voltarsi indietro. Non vide la torre crollare e svanire, coprendo lo strato di polvere nera dispersa dal vento. Titolo originale: The Black Tower Traduzione di Marina Nunzi TELA DI FUOCO di Deborah Wheeler
Anche se l'eroina di questo racconto sembra essersi dedicata al culto della spada, alla fine la sua dedizione è alla vita, non alla morte, e a guarire, non a combattere. L'altro racconto di Deborah Wheeler compreso in questa antologia, "Imperatrix", tradiva l'interesse dell'autrice per gli animali e le arti marziali. Deborah Wheeler è, credo, cintura nera di kung-fu (se ho sbagliato Deborah mi perdonerà; per me le arti marziali sono indistinguibili una dall'altra, e l'unica disciplina fisica che ho praticato è stato il balletto), ma l'altra abilità che Deborah ha in comune con l'eroina del suo racconto, e cioè la pratica terapeutica, è un'occupazione seria; infatti Deborah è una chiropraticante diplomata, e come molti che hanno studiato questa disciplina le sue mani hanno capacità terapeutiche che muscoli e schiene dell'intera comunità possono confermare. Ha una bambina, Sarah, e anche un gatto (chi non ce l'ha?). Il selith ricadde pesantemente, battendo la strada polverosa con i suoi zoccoli triforcuti. Rimbalzò a zampe rigide, si riprese, e poi inarcò il collo per un'altra terribile sgroppata. La criniera accorciata formata da scaglie colpì Orlly al viso, e lei perse la pazienza. «Accidenti a tutti gli stupidi, maledetti attacchi isterici! Alza la testa come si deve, o giuro che ti farò pentire di aver mai visto la terra!» Gridando con tutto il fiato che aveva in corpo, Orlly diede uno strappo alle redini, usando tutta la sua forza per far voltare la testa al selith. Ribelle, l'animale scoprì i denti ed abbassò la testa in un inequivocabile segno di minaccia. «Non pensarci nemmeno!» gridò lei, assestando col piede un forte calcio sul naso morbido del selith. L'animale squittì di dolore e barcollò, dandole modo di bloccargli la testa ossuta contro una spalla. Le braccia di Orlly dolevano per lo sforzo quando il selith si fermò, con i fianchi che si sollevavano affannosamente in grandi respiri convulsi. Allentò la presa della redine più vicina per permettere all'animale di allungare il collo verso l'alto in un gesto di resa. Poi puntò lo sguardo verso la causa della crisi: una giovane donna della sua stessa età si trovava a nemmeno due passi al di là della portata degli zoccoli del selith, ed aspettava con calma nella sua armatura di cuoio e seta intrecciata. La rabbia di Orlly esplose di nuovo. «Stupida imbecille! Non sai fare di meglio che andare ad urtare contro un selith? Ora dovrò calmarlo di nuovo,
ed era a malapena buono per essere affittato così com'era. Mi costi due giorni di lavoro, più eventuali altri affari persi dopo questo spettacolo. Se riesci a muovere quelle inutili gambe, sparisci dalla mia vista prima che mi arrabbi sul serio.» Le labbra della giovane spadaccina si torsero un poco, ma tenne le mani con calma in posizione di riposo, ben lontane dall'elsa della sua spada. «Permettimi di rimediare. Sembri abbastanza competente, ed io voglio ingaggiare una guida e delle cavalcature. Ti pagherò per i due giorni di pausa e per un viaggio attraverso il Passo.» «D'accordo!» gridò Orlly. Liberò i piedi dalle staffe di legno intagliato e saltò a terra. «Dove siete diretti esattamente? Mi servirà sapere di quante persone è composto il tuo gruppo, se avete già altri animali, e il vostro grado di preparazione.» «Suggerirei di cominciare con i nomi. Io sono Valeria Langua dy Ostrander» disse la guerriera con un sorriso amichevole. Orlly chinò la testa, vergognandosi non per la prima volta del suo unico nome piuttosto comune. "Orlly" era abbastanza onorevole, essendo il nome della nonna materna che, fino alla sua morte, era stata capo del piccolo villaggio contadino dove Orlly aveva passato la sua infanzia. Avrebbe potuto reclamare il villaggio come parte del suo nome, se lo avesse lasciato per scelta. Il suo viso si indurì istintivamente, ma si sforzò di tenere la lingua a freno. «Chiamami Orlly. Tutti lo fanno.» «È sensato. Il mio nome è così lungo che l'ho accorciato in Val. Ti immagini qualcuno che prova a pronunciare tutte quelle sillabe nel bel mezzo di un combattimento?» rise allegramente. Orlly la fissò. Con un nome come quello, che trasuda nobiltà e antico onore familiare, lei lo accorcia scherzandoci su. «Dove siamo diretti?» «Nel Kasimire, attraverso il Passo Spezzacuore.» «Lo so dov'è» ribatté Orlly. I chiari occhi color ametista di Val guizzarono sul viso di Orlly, ma il suo tono amichevole non cambiò. «Ci sono io con due guardie, e saremo muniti dei nostri abiti e dell'equipaggiamento... e c'è una elthim.» Orlly trattenne un attimo il respiro per lo stupore, ma la guerriera proseguì, con noncuranza, prendendola per un braccio e guidandola verso la più vicina birreria. «È anziana, nel suo quarto ciclo; la sua velocità potrebbe essere il nostro fattore limitativo. Non so quanto possono viaggiare veloci dei selithi carichi, ma è di vitale importanza non stancare lei.»
Orlly deglutì mentre Val la spingeva a sedersi ed ordinava della birra. Non aveva mai visto un elthim, ma nel villaggio della sua infanzia erano stati leggendari, gli ultimi di una razza magica, un tempo potente. Val prese due boccali, li pagò, e ne spinse uno davanti ad Orlly. «Quando possiamo partire?» Orlly sorseggiava la sua birra, un lusso raro per una che viveva solo con la sua astuzia ed i suoi selithi. «Dipende da quanto in fretta "noi" riusciamo ad andare d'accordo con la "nostra" cavalcatura.» Val rise, gettando indietro la testa con disinvolto entusiasmo. «Ed io che pensavo tu stessi solo fingendo di essere adirata con me per chiedere un prezzo più alto! Vuoi dire che quello sfoggio di prodezza equestre non era pubblicità a beneficio mio?» Orlly scrollò le spalle. Con un trattamento normale, l'animale non sarebbe stato adatto ad essere affittato, ma poteva usare le sue speciali tecniche per ammansirlo e cavalcarlo lei stessa. «Potrebbe portare me. Non mi fiderei a darlo ad un estraneo. Ma io ho solo tre selithi per quattro persone. Dovrò comprarne un altro.» Val le porse una piccola borsa, pesante in modo promettente. «Compera quello che ti serve. Mi puoi fare un resoconto domani quando partiremo.» «Chi mi impedisce di prendere questa e non farmi più vedere?» Val inghiottì il resto della sua bevanda e si alzò; il suo corpo si muoveva con gesti forti e aggraziati. «Perderesti il resto del gruzzolo da dove provengono questi. Ci vediamo all'alba ai cancelli settentrionali.» Uscì con calma dalla taverna, lasciando Orlly perplessa a gustare il resto della sua birra. Nella luce dell'alba, Orlly stringeva l'ultima cinghia delle briglie del nuovo selith. Con la generosa borsa di Val aveva acquistato una femmina giovane e forte, più nuove coperte e buon cibo; Orlly era anche riuscita a giustificare l'acquisto di un nuovo mantello da viaggio imbottito. Gli altri selithi, Sa, So, e Sy, erano stretti insieme, le teste vicine. So, il maschio nervoso che Val aveva spaventato e fatto imbizzarrire, teneva un orecchio voltato in direzione di Orlly fiduciosamente. La ragazza aveva passato ore ad accarezzarlo la notte prima, acquietando finalmente con pazienza il suo spirito inquieto. Orlly vide per prima l'elthim, alta e argentea nella luce ora più vivida, con le braccia ed il torso nascosti sotto un manto fluente, a ricami intricati. Le sue zampe a quattro dita si muovevano con grazia e misurata delicatez-
za, il suo viso bello ma inumano era scolpito in linee di serenità permanente. Val le camminava a fianco con passo veloce, parlando animatamente, mentre le due guardie camminavano alle loro spalle. Orlly si allontanò da Sey, il nuovo selith, ed assunse un atteggiamento caratteristico, mani sui fianchi e gomiti puntati in fuori aggressivamente. Val toccò il fianco dell'elthim, alzando la mano con un gesto di familiarità e di affetto. «Elth ua'lth, questa è Orlly, che sarà la nostra guida. Orlly, questa è H'ma Elth'ua'lth, poi Taggart, e Dev.» Taggart passò confusamente davanti agli occhi di Orlly: era giovane e bruno; Dev era di mezza età e sembrava sicuro di sé in modo vagamente sinistro. Lei notò i loro visi con la coda dell'occhio mentre fissava la maestosa elthim. La bella bocca mobile si dischiuse. «Sei benvenuta alla mia presenza, bambina mia» disse una voce melodiosa a tre toni. «Lo sono io alla tua?» «S... sì» balbettò Orlly, furiosa per il suo imbarazzo. L'elthim, con la sua serenità e le parole gentili, le ricordava troppo Ama, la guaritrice che l'aveva ospitata ed istruita. Orlly disse: «Ogni selith porta cibo per cinque giorni; due volte il tempo che di solito ci vuole per il viaggio. Possiamo pernottare nei rifugi per viaggiatori, così non dormiremo all'aperto. Mettiamoci in cammino.» Al momento di far montare in sella i tre umani e di issarsi sulla groppa di So, Orlly era riuscita a riacquistare il suo equilibrio emotivo. Poteva sentire i risultati del suo lavoro nella regolarità dell'andatura dell'animale mentre si disponeva in testa alla fila. Poi veniva Taggart sulla docile Sa, poi l'elthim col suo strano passo fluente. Dopo di lei veniva Val sul grigio Sy e l'esperto Dev su Sey. Cavalcarono con facilità ai piedi delle colline punteggiate di fiori selvatici, mentre la pista ben segnata si assottigliava gradualmente fino a diventare un nastro. Orlly lasciò la testa della fila per permettere a So di sgranchirsi un po' e per controllare gli altri. A Taggart sarebbero venuti i lividi per via della sella prima della fine della giornata, ma aveva il buonsenso di lasciar stare la testa di Sa, ed il selith avanzava soddisfatto, felice di essere lontano dal puzzo e dalla confusione della città. L'elthim camminava a passo costante per i sentieri che cominciavano a farsi ripidi. Si era tolta l'intricato mantello e lo aveva riposto in una delle sacche assicurate alla sua schiena obliqua. Orlly aveva sentito delle leggende che dicevano che una volta elthim e umani vivevano fianco a fianco, poco numerose anche allora, ma ciascuna adoperava i suoi poteri magici
per proteggere la sicurezza e la pace del suo territorio. Se solo il suo villaggio avesse avuto un elthim che vi abitasse, pensò in un'ondata di pena segreta; ma le loro usanze erano svanite molto tempo prima che lei nascesse. Orlly incitò So a mettersi accanto a Sy, montato da Val. «Presto ci fermeremo per il pasto di mezzogiorno. Non troppo lontano c'è una zona pianeggiante, anche se priva d'acqua.» Il viso di Val era teso ed immobile mentre si guardava intorno, esaminando i picchi rocciosi. «I selithi non hanno bisogno di bere?» «Non ora. Un po' più in su c'è una sorgente, e là berranno quanto basta per un giorno. Dopo di ciò, andremo più lentamente, ma dovremmo raggiungere il rifugio per quando farà buio.» Orlly alzò gli occhi in direzione di Passo Spezzacuore. Da questa angolazione non riusciva a vedere nemmeno l'inizio della fenditura negli alti Monti Killian. Non doveva temere banditi con tre guerrieri armati nel suo gruppo, anche se l'elthim non emetteva una mistica aura di protezione. Per il momento, non era ancora in un territorio abbastanza familiare da ricordarle... Batté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, incapace di dire se la loro causa fosse l'angoscia o l'offesa. Il resto del viaggio sarebbe stato una lotta costante per dimenticare che sul versante più lontano della cresta del passo si trovava una pista stretta, quasi invisibile, ed alla fine di questa, annidato in una verde valle nascosta, l'irraggiungibile desiderio del suo cuore. E non sarebbe mai potuta tornare indietro. Sul pianoro erboso, scese dalla groppa di So e cominciò a scartare del cibo. «Lasciate le redini legate dietro il collo, così potranno brucare» disse agli altri. «Resteranno vicini, e mangiare erba farà loro bene.» I tre guerrieri sedettero in un piccolo cerchio intorno all'elthim, che si mise seduta con grazia ripiegando le zampe sotto il suo corpo. Gli uomini si rilassarono, chiacchierando mentre aprivano i loro pacchi, ma Val unì del formaggio a delle erbe aromatiche e mangiò camminando lungo i bordi del pianoro. Orlly era troppo intimorita dall'elthim per sentirsi a proprio agio in sua presenza e non desiderava socializzare con i soldati. I selithi l'accolsero in mezzo a loro, strofinando le loro teste ossute contro le sue gambe. So fu il primo a dare l'allarme, perché aveva le orecchie rivolte verso la pista più in alto. Sey, la nuova femmina, nitrì voltando la testa intorno. Orlly allungò una mano per calmarla, ma non appena toccò l'animale si ac-
corse che qualcosa non andava. Subito dopo si udì il grido rauco di Val, e nel calmo pianoro irruppero nere figure di guerrieri. Cavalieri vestiti di nero galoppavano giù per la pista in groppa a massicci solethi delle pianure. I cugini onnivori dei selithi scoprivano le loro zanne d'avorio ed emettevano grida rabbiose folli, mentre i loro cavalieri li incitavano. Val aveva estratto la spada, correndo incontro al primo cavaliere prima che questi potesse raggiungere l'elthim che si stava alzando. Con una mossa fulminea, sferrò un fendente in mezzo alle redini. Il soleth, sovraccarico, barcollò cercando di riacquistare l'equilibrio. Val scivolò su un fianco, evitando la massiccia spalla della scura bestia, ed uccise il suo cavaliere con un secco fendente verso l'alto. La frusta gli cadde dalla mano; il soleth inciampò sul suo corpo quando cadde a terra. Taggart e Dev avevano assunto una posizione di difesa intorno all'elthim. I tre cavalieri rimasti spronarono le loro cavalcature in un circolo selvaggio. Orlly si strinse contro il fianco tremante di So, con gli incubi della sua infanzia vividi davanti agli occhi. Le ci volle un momento per rendersi conto che era tagliata fuori dalla protezione delle guardie, e costituiva così un facile bersaglio. Uno dei cavalieri neri gridò e volse il suo robusto soleth nella sua direzione, brandendo la frusta. Orlly alzò gli occhi e vide il viso mascherato del cavaliere per un terribile istante, prima che la frusta si avviluppasse intorno alla zampa posteriore di Sa. Sa nitrì di paura e dolore mentre il cavaliere tirava l'impugnatura della frusta e la assicurava intorno all'alto pomolo della sella. Orlly sentì uno schiocco nauseante, e Sa cadde pesantemente a terra, mentre le sue grida crescevano verso l'agonia più straziante. L'odore pungente del sangue del selith appestò l'aria mentre il liquido scuro sgorgava dalla zampa fratturata. L'ira, feroce ed accecante, scoppiò in Orlly cancellando ogni paura. Non cercavano lei, stavano attaccando i selithi! Che genere di mostro poteva abbassarsi ad un attacco a sorpresa su degli animali innocui? Orlly sentì il grido acuto di Val, poi un colpo sordo, ed il cavaliere cadde lentamente dal suo soleth, mentre la frusta gli scivolava sull'erba dalle dita inerti. L'elsa di un lungo coltello da lancio fuoriusciva dalla sua schiena. I due cavalieri superstiti fecero voltare le cavalcature e fuggirono, seguiti dal solethi senza cavaliere. Nel silenzio improvviso, le grida angosciate di Sa penetravano nel cuore di Orlly come un fuoco devastante. Non vide Val e gli altri chinarsi sui ca-
valieri abbattuti mentre si inginocchiava accanto a Sa. I cavalieri si erano procurati da soli la morte; i suoi animali, incapaci di qualsiasi cattiveria, erano un'altra cosa. Sa giaceva su un fianco, le punte fratturate dell'osso della zampa che fuoriuscivano dalla carne martoriata. Le sue grida si erano abbassate ad un lamento di cieca angoscia, i suoi occhi velati come se fosse già morta. Orlly trasse un respiro soffocato e sentì il bruciore delle lacrime mentre allungava una mano per calmare l'animale sofferente. Prese la testa ossuta di Sa con tutte e due le mani e la fece voltare per fissarla direttamente negli occhi. «Buona, buona, piccola mia, tesoro mio» sussurrò. «Finirà tutto presto.» Gli occhi di Sa si oscurarono, dilatandosi, e si calmò. Orlly sentì anche la morsa del dolore allentarsi quando ebbe la certezza di ciò che doveva fare. Estrasse il coltello dal fodero nel suo stivale e recise l'arteria carotidea del selith. Sa rabbrividì ma non si ribellò. Orlly la tenne stretta mentre il sangue sgorgava formando una pozza sotto una grossa pietra. Alla fine Sa emise un sospiro rilassato e chiuse i suoi occhi color della notte. Orlly poggiò a terra la testa di Sa mentre il nitrire ansioso di So la raggiungeva. Andò da lui ed allontanò i tre selithi superstiti dalla pozza di sangue. Val alzò lo sguardo dal punto in cui era inginocchiata accanto a Taggart. La stoffa sul braccio con cui il giovane impugnava la spada brillava di rosso mentre la guerriera tagliava il tessuto e con delicatezza ne scostava i lembi dalla ferita. Orlly sentì la gola stringersi convulsamente quando incontrò lo sguardo di Val. Non riusciva a parlare. Elth'ua'lth disse: «Non torneranno più.» «No» assentì Val. «Lui manderà di peggio. Ora non abbiamo tempo da perdere.» Finì di legare il bendaggio di fortuna intorno al braccio di Taggart. «Dovremo lasciarli dove sono.» Accennò col capo ai due corpi inerti. «Erano esseri umani, per quanto corrotti. Dovremo lasciare i loro corpi, i templi del loro spirito, ai rapaci?» chiese l'elthim, col viso che ancora rifletteva una pace ultraterrena. «Erano gli scagnozzi di Bakkar, mandati a rallentarci o distruggerci!» gridò Val. «Se rimaniamo per seppellirli decentemente, gli daremo tempo di chiamare ciò che non potremo affrontare. Sarebbe lo stesso se ci voltassimo e tornassimo indietro adesso.» L'elthim si avvicinò al suo fianco, poggiando una mano piccola ed aggraziata sulla spalla della guerriera. «Nella nostra ricerca di un bene maggiore, non dobbiamo perdere di vista il particolare.» Alzò la testa verso i
picchi scoscesi. «Eppure penso che ci sia saggezza nelle tue parole, bambina mia. Dal momento che la segretezza non ci è più di aiuto, deve esserlo la rapidità.» Val aiutò Taggart ad alzarsi, e si avvicinò ad Orlly. «Dobbiamo proseguire in fretta. Mi dispiace per il tuo selith, ma nel complesso ne siamo usciti con poco. È un peccato che non abbiamo potuto prendere una delle loro bestie da adoperare al suo posto.» «Tu sapevi dell'attacco» sussurrò Orlly. «Sapevi che c'era questo genere di pericolo e mi ci hai portato nel bel mezzo senza dirmelo. Come osi rischiare miei selithi così?» Il viso di Val si oscurò mentre prendeva le redini di Sy e lo portava da Taggart, aiutando il ferito a montare in sella. «No, non lo sapevo, non precisamente. E poi, questo fa parte dei pericoli della pista, no? Certo anche tu devi esserti resa conto che una guardia armata è armata contro qualcosa.» Si avvicinò al corpo di Sa e con viso cupo e deciso cominciò a dividere le sacche di cibo e legarle sui tre selithi superstiti. Orlly si voltò verso l'elthim. «Con la tua magia avresti potuto fermare l'attacco... avresti potuto salvare Sa.» Aggiunse, con terribile amarezza «Non siamo abbastanza buoni per te per curarti di noi?» «Tutta la vita è sacra, figlia della montagna. La perdita del tuo animale sminuisce te quanto me. Cosa avresti voluto che facessi?» «Ridurli in polvere, incenerirli sulle loro selle prima che potessero usare le fruste, non so... Tutte le leggende raccontano delle vostre meraviglie. Voi dovreste essere così potenti, così magiche, così sagge. Tu devi dirmi cosa si poteva fare.» «Oh, mia cara.» L'elthim poggiò una bella mano sulla spalla di Orlly, guardando in basso con occhi dolci e grigi. «Hanno raccontato così tante storie su di noi, e tu sventatamente le hai credute. I poteri che ho non sono di quelli che potrebbero incenerire un assassino sulla sua sella, anche se fosse giusto farlo. Non sono magica, almeno nel senso che intendi tu.» «Allora non avresti potuto proteggere Sa...» «Avrei potuto facilitare il suo trapasso, ma tu stessa hai avuto l'amore per farlo meglio di me. Il tuo dono di addio per lei è stato più vicino di quel che pensi alla magia. Veniva dallo spirito, dal cuore, che è il luogo dove dimora il vero incanto.» Orlly si allontanò dal tocco leggero. Nonostante tutti i racconti che aveva udito sulle loro leggendarie abilità, l'elthim era stata impotente ad agire. Proprio come la gente del suo villaggio era stata impotente contro un eser-
cito che lo aveva attraversato, massacrando senza ragione. Pensò per un momento di raccogliere i selithi rimasti e discendere la pista di montagna verso la salvezza. L'elthim, Val e gli altri potevano cavarsela da soli. Il loro futuro non le interessava; non potevano portarle altro che dolore. Eppure l'onore la fermava; si era impegnata ad occuparsi di loro nel momento in cui aveva toccato la borsa di Val nella taverna. La sua migliore linea di condotta doveva essere quella di guidarli tutti attraverso il passo al più presto possibile. L'elthim continuava a fissarla con quel, suo sguardo profondo, mentre la luce lunare danzava dietro i suoi occhi argentei. Orlly borbottò: «Allora a che serve la magia?» Prima che l'elthim potesse rispondere, si rivolse a Val. «Ho accettato di farvi da guida, non di combattere contro dei briganti. Se debbo rischiare i miei selithi ed il mio osso del collo per guadagnarmi il compenso, ho il diritto di sapere quello che devo aspettarmi. Ed il perché.» Val le toccò la spalla con gentilezza. «Questo attacco significa che siamo stati scoperti e non abbiamo tempo da perdere. Vieni, ti camminerò vicino. Stai dietro di noi, Taggart» disse a voce alta, «e poi Elth'ua'lth. Dev, guardaci le spalle.» «Bene.» Il guerriero guidò Sey che si mise dietro di loro. «Avrei dovuto avvertirti prima» ammise Val, ma speravo che i miei timori fossero inutili. È affar mio, non tuo, occuparmi della difesa di Elth'ua'lth. «Ma chi vorrebbe attaccare un'elthim? Anche se non sono magiche?» «Lo sono, ma non nel senso che intendevi tu, non sono capaci dì annientare istantaneamente un nemico umano. Molto tempo fa, la mia gente dava ascolto alla loro saggezza. La linea di discendenza di Elth'ua'lth era impegnata al servizio del Kasimire molte generazioni fa, quando era ancora un villaggio. Le elthim arbitravano, giudicavano, assicuravano la pace con gli insediamenti vicini. Poi il mondo è cambiato, le città sono cresciute, e nel corso degli anni le elthim sono scomparse nei loro lontani rifugi. Gli uomini hanno imparato a combattere.» «Questa non è una novità» commentò Orlly cupamente. Val continuò, con la voce sempre calma e misurata e il respiro misurato al ritmo del suo passo. «Ora c'è una disputa sul legittimo erede alla corona del Kasimire. Il solito groviglio di rami collaterali e beghe di potere; è una confusione tale che non credo sia nemmeno possibile distinguere chi sia il pretendente legittimo. Ma non appena Konray e Vistiane decidessero di risolverlo con le armi, tutta la nazione cadrà nella guerra civile. Questo non
deve succedere» disse con forza, stringendo le mani a pugno. «Non mi sembrate molto una forza di pace» disse Orlly acidamente. «Io porto Elth'ua'lth in risposta alla convocazione del Reggente. Se Konray e Vistiane accettano il suo arbitraggio, come io mi auguro che facciano, saranno salvate innumerevoli vite. Se una accetta, anche l'altro dovrà farlo per forza, se non altro per mostrarsi rispettoso del bene del Kasimire. Tutti e due sanno che, non importa chi vinca la guerra, il paese sarà devastato e facile preda di avidi confinanti.» «Se la vostra è una causa tanto giusta, di che vi preoccupate? Chi vorrebbe sabotare una così nobile missione?» «Bakkar, Duc dy Lanola, che si dice sia praticante di magia nera. Qualche anno fa ha cercato di sposare Vistiane, ma lei sapeva che era solo per avere il potere nel Kasimire e gli ha riso in faccia. Ora lui non deve far altro che aspettare fino a che lei e Konray non si indeboliscono in battaglia per poi distruggere i due eserciti esausti. Per far questo deve essere sicuro che Elth'ua'lth non giunga mai nel Kasimire.» Orlly sentì accendersi in lei una furia improvvisa. Il suo villaggio era stato uno dei tanti piccoli ostacoli sulla strada di un esercito votato ad una causa simile, al quale importava solo dei propri obbiettivi. Allontanò il ricordo da sé. «Dato che vieni dal Kasimire, hai attraversato i Killian da sola per trovare la tua preziosa elthim. Perché ti serve una guida? Per quel che m'importa; potevi procurarti da sola dei selithi o anche camminare sulle mani, invece di cacciare anche me nei guai.» Il viso di Val si rabbuiò ed egli avvicinò la mano all'elsa della spada, ma trasse un profondo respiro e rispose con calma «Non ho mai pensato di farti combattere le nostre battaglie. Per quello ci siamo io, Taggart e Dev. Tu sei pagata bene per il tuo lavoro, ed a me serviva davvero una guida. Non sono venuta passando i Killian, ho fatto il giro passando per Norroway ed i Laghi Salten. Ho dovuto seguire le tracce della famiglia di Elth'ua'lth, prima di riuscire a trovarla.» Orlly abbassò gli occhi sul ripido sentiero davanti a lei. Era difficile restare adirata con chi confessava così disinvoltamente una ricerca leggendaria. Sì morse il labbro, conscia dell'ingiustizia dei suoi sentimenti e si sforzò di dire «Capisco perché degli assassini non siano per te così importanti dopo i cannibali di Norroway ed i draghi marini.» Val rise. «La gente di Norroway può essere strana per noi, ma non mangia gli uomini, ed ho visto un drago marino solo una volta, da molto lontano. Era piccolo e timido, e forse più spaventato lui di noi. Se tu avessi
viaggiato sapresti che le storie che da piccola ti spaventavano non erano che fantasticherie per ingannare i creduloni.» «Mi hanno raccontato delle storie, le stesse che si narrano a qualsiasi altro bambino» ribatté Orlly. «Chi lo sa se al mondo esistono i veri mostri? Io so soltanto che alcuni di loro hanno forma umana.» «Sì, ci sono quelli per cui la legge esiste solo per essere infranta. Credo che ci sarà sempre bisogno di una buona spada in una mano salda per mantenere la pace. Ma che può importare a te della pace? A te che vai a combattere con lo stesso piacere con cui andresti ad una festa campestre! A te che brandisci la spada e lanci coltelli nelle schiene della gente come se fossero bersagli per esercitarsi! A te che...» «Ma io non sono come i predoni di Bakkar. Io sto cercando di fermare una guerra! Io servo la causa della pace.» «Tu pensi che a Sa importasse qualcosa della vostra causa? Era solo un animale innocente, eppure ora è morta per via della tua causa, annientata come tutti quei piccoli villaggi calpestati in nome di una causa. Nessun animale avrebbe fatto questo... solo gli esseri umani!» «Povera bambina, cosa può esserti successo per renderti così amara? Non hai mai conosciuto la gentilezza umana? Non importa» disse vedendo il viso di Orlly contrarsi, «non voglio spiare i tuoi segreti. Le forze del caso ci hanno indurito in modi diversi, ma non siamo molto dissimili, tu ed io.» Orlly la guardò dall'alto con occhi duri, inespressivi. «No» disse, «non ci somigliamo affatto.» Spronò So con i talloni e sentì il suo balzo di sorpresa, mentre trottava in avanti per perlustrare un'altro tratto di pista. Orlly fece segno a So di fermarsi dove la pista sfumava nell'ombra lungo i picchi desolati. Ora le alte cime sembravano più vicine, incombendo su di lei sotto le loro nevi eterne. Liberò i piedi dalle staffe e scivolò a terra. «Che se ne vada all'inferno» borbottò, lasciando So a brucare i pochi ciuffi d'erba dura fra le rocce. Per me possono anche continuare a farsi a pezzi! Se solo Sa non fosse stata la loro prima vittima... «Se solo non avesse dovuto ricordare. La distruzione del villaggio, vista da lontano da una pastorella nascosta fra i selithi di suo padre era una cosa, offuscata dalla distanza e dal tempo, ma la perdita più recente, più dolorosa, non poteva essere messa da parte così facilmente. Aveva creduto di trovare la sua casa, solo per vedersela strappare.» ... Si trovava vicino al ponte, cercando di frenare le calde lacrime di rab-
bia. Le montagne si curvavano intorno a lei dolcemente, quasi per proteggerla, o forse in un gesto d'addio. «Mia cara bambina» aveva detto Ama la guaritrice. Lei si era voltata per vedere il familiare volto rugoso, gli occhi come pozzi di luce scura, brillanti di compassione. Le labbra dell'anziana donna si erano mosse sul suo viso come un sussurro. «Non puoi restare.» «Non ho nessun posto dove andare.» «Puoi andare dovunque. Restare significa imparare a guarire, toccare il nucleo della vita con la tua anima e lasciare che quell'energia fluisca dentro di te. Ma il tuo cuore è pieno di rabbia fino all'orlo. Come può esserci posto per qualsiasi altra cosa? Come può il tuo dono sfuggire al tuo odio?» «Non posso fare a meno di sentire quel che sento. Non avevo più niente quando tu mi hai ospitato, ed ora questo è tutta la mia vita. E poi, sono brava con gli animali. Hai detto che avevo il tocco giusto.» «Questo non l'ho mai negato. Puoi guarire un selith o uno scoiattolo, ma il tuo cuore è chiuso ai tuoi simili. Non posso insegnarti.» «Dimmi come cambiare. Farò qualsiasi cosa per restare.» Aveva tenuto gli occhi fissi sulle cime lontane, scintillanti e pure nella luce del sole, nel timore di voltarsi e perdere il controllo, e cadere in ginocchio supplicando in lacrime. Dopo un lungo silenzio si era accorta di essere sola... Continuarono a cavalcare per il resto del giorno, fermandosi alla sorgente per far abbeverare i selithi e scaricare gli abiti più caldi. Orlly si avvolse nel suo nuovo mantello imbottito. L'elthim indossò il suo manto finemente ricamato, e Val e gli uomini coprirono le loro armature con dei caldi ed aderenti giubbotti che permettevano di muoversi liberamente. Val e Dev camminavano a turno per lasciar cavalcare Taggart, che era ferito. Giunsero al rifugio a sera inoltrata. L'imboscata e l'andatura forzatamente lenta avevano ritardato la loro marcia, cosicché quando entrarono nella costruzione di pietra erano tutti gelati. Il rifugio era diviso in due grandi stanze, e una era cosparsa di resti di fieno. Orlly aiutò Taggart a scendere e guidò gli animali nel locale che fungeva da stalla. «Vai» disse a Val, accendi il fuoco e riscaldati. Io bado ai selithi e vi raggiungo più tardi. «Quello può farlo Dev. Tu sei stanca ed hai bisogno di cibo caldo come tutti noi.» «Sto bene» protestò Orlly, sforzando le sue dita intorpidite dal freddo per allentare la fibbia del sottopancia di So.
«Sciocchezze, i selithi ci hanno portati tutti quanti. Non dovresti essere tu sola a badare a loro.» Orlly appoggiò la sella di So e si voltò per scansare l'altra donna. «Non mi serve il tuo aiuto» disse seccamente. Val la guardò, sorpresa, ed apparve un lampo di improvvisa comprensione nei suoi occhi sgranati. «Sì, vedo che è così.» Si voltò sui tacchi ed andò a raggiungere gli altri. Orlly, colpita dal tono gelido della voce di Val, tolse la sella ai selithi e si mise a strofinarli. La schiena e le spalle le dolevano per lo sforzo di massaggiare i loro lunghi muscoli robusti, mentre gli animali cominciavano a gorgogliare la loro soddisfazione. Protendevano il muso verso di lei, con la biada che penzolava dalle loro fauci piatte e pesanti, pregandola per averne ancora, riempiendola di una gioia segreta. Anche la nuova venuta, Sey, si strofinava contro il suo braccio. Lei sorrise e mormorò qualcosa all'orecchio della giovane femmina, e poi andò ad occuparsi delle esigenze del suo corpo. Chiunque avesse acceso il fuoco aveva suscitato una fiamma compatta ed efficiente, che lambiva la pentola appesa al gancio fissato nel camino di pietra. Dev, con le dita avvolte in un panno, alzò il coperchio per rimestare il contenuto. «Fatto. Hai fame, ragazza?» Alzò gli occhi e vide i suoi lineamenti rugosi arrossati dalla luce del fuoco. Senza attendere risposta, prese uno dei leggeri piatti da viaggio, lo riempì di farinata mista a pezzi di carne secca e glielo porse. Orlly lo prese e si sedette in disparte, lieta del tepore che le riscaldava le dita. Guardò Val occuparsi della ferita di Taggart, e parlare con l'elthim, ed il cuore le batté disordinatamente nel petto. Desiderava la compagnia familiare dei selithi. La giovane guardia sussultò quando Val strinse forte le estremità della benda. Controvoglia, Orlly poggiò a terra il suo cibo e gli si avvicinò. «No, non così» reagì bruscamente, dicendo a se stessa che la sua unica motivazione era il disprezzo per l'incompetenza. «Guarda» disse Orlly, lisciando ed allentando il tessuto con la punta delle dita, «non va bene se interrompi la circolazione e lasci che si formi la cancrena.» Sentiva al tocco che i nodi erano sbagliati, così disfece tutto il bendaggio osservando il profondo taglio. Anche nella debole luce del fuoco poteva vedere i bordi aperti della lunga, profonda ferita ed il sangue scuro uscirne. Irrigidì le labbra. «Questa emorragia continuerà a privarlo delle forze se non richiudo la ferita.» Tenne fermo il gomito di Taggart e mosse l'avambraccio avanti e
indietro, osservando il movimento della pelle sulla ferita. Scosse la testa. «No. Non c'è posizione che non l'apra di più» disse, tamponando delicatamente il sangue. «Dovrò cucirla.» «Che cosa?» chiese Val, chiaramente sforzandosi di tenere a bada la nota tagliente della sua voce. «Ho l'attrezzatura per cucire con il filo di seta. Dovremmo farla bollire, ma ho già suturato le ferite dei selithi col filo di seta, e funziona bene.» Orlly tornò nel suo angolo mentre Val sterilizzava i corti aghi di metallo e i fili di seta. Non si era più dedicata alla cura di un suo simile da quando si era rifugiata a studiare presso Ama. Non voleva ricordare quello che una volta era stato suo ed ora non lo era più. Eppure ecco che riaffiorava nella sua esistenza come un cadavere che non vuol restare decentemente sepolto. Dispose per bene il suo materiale e pulì la ferita con acqua bollente. Val teneva una torcia vicino alla sua spalla. «Fa bene» le disse Taggart. Con i suoi scuri capelli scompigliati ed il viso ombreggiato nell'incerta luce della torcia, sembrava molto giovane. «Sarà molto doloroso?» Orlly sorrise. «Non devi avere timore. Chiudi gli occhi, senti il mio tocco qui» fra i suoi occhi, la punta del dito era come un piccolo sole fatto di calore e vita, «qui» alla base del collo, «qui» nella piega del gomito dalla parte ferita, «qui...» Trovò che la sua voce aveva intonato facilmente la cadenza e l'inflessione che usava con i selithi. Le linee di dolore e tensione sul viso del giovane si distesero. Accarezzando delicatamente la pelle al di sopra della ferita, Orlly cominciò a mormorare e ad osservare la reazione, e cioè il respiro che si faceva sempre più profondo. Prese l'ago e il filo, voltandosi in modo che la sua mano non facesse ombra sulla ferita, ed infilò la punta attraverso il lembo di pelle aperto. Il ragazzo non si mosse, ma continuò a respirare piano e regolarmente. Orlly suturò lo squarcio rapidamente, facendo combaciare i lembi della ferita meglio che poteva nella luce incerta. Il suo mormorio continuava, facendosi strada attraverso i suoi movimenti. Dopo aver legato l'ultimo nodo, pulì di nuovo la ferita e la bendò leggermente. «Lasciatelo dormire» disse a Val. «Gli serve riposo più di qualsiasi altra cosa, come a tutti noi.» Mentre la spadaccina accomodava le coperte alla giovane guardia e si preparava il giaciglio, Orlly lavò ed asciugò i suoi aghi e ritirò le provviste. Anche senza alzare gli occhi, sapeva che l'elthim la stava guardando con i sereni occhi alieni. Afferrò le sue coperte e si alzò per portarle
nell'altra stanza, preferendo la vicinanza dei suoi selithi. L'elthim si parò davanti a lei, un figura vagamente luminosa nonostante la semioscurità. Il fuoco era diventato cenere e tizzoni. «Hai un dono raro, bambina.» Orlly alzò le spalle. «Per tutto il bene che ne ricavo...» borbottò. Non abbastanza per salvare la docile Sa, ma solo per ricucire un giovane idiota e rimandarlo a farsi tagliuzzare un'altra volta. «Non ho fatto granché, ho solo sistemato una ferita così domani possiamo ripartire.» «Lo sai che hai fatto molto più che "sistemare una ferita". Perché ti nascondi dietro un vecchio rancore?» Orlly boccheggiò, ribatté che non erano affari suoi, che il suo dono di guarire non era affare di nessuno se non di Ama, che l'aveva scacciata come un animale senza valore. Il dolore di quella separazione ancora le straziava il cuore. L'elthim stava immobile, calma, nel suo continuo bagliore. Orlly tenne a freno le sue parole e si allontanò da lei, mettendosi a correre per raggiungere i selithi. Si svegliò rigida ed infreddolita, col vecchio Sy che la urtava ansiosamente col muso. Orlly si sforzò di aprire le palpebre e vide i suoi occhi scuri, quasi neri per l'età avanzata. Gli accarezzò il mento e si alzò in piedi. Era chiaro che qualcosa lo disturbava. Si avvolse il mantello intorno alle spalle e si diresse barcollando verso la latrina improvvisata. Nell'altra stanza, Elth'ua'lth era accanto alla porta, tenendola appena socchiusa e fissando il candore turbinante all'esterno. Val, dall'aspetto pallido e stanco, era inginocchiato accanto al camino, ad armeggiare con acciarino e pietra focaia. Orlly andò alla porta e guardò fuori, rabbrividendo quando un soffio improvviso di aria fredda le investì le guance. Poteva vedere solo per qualche metro attraverso il mulinare della neve tutt'intorno. «Una tormenta» commentò, tremando. «Be', non possiamo viaggiare in queste condizioni. Non capisco, di questa stagione così in basso non nevica mai.» «Quello non è un tempo naturale» disse l'elthim. «Valeria, vieni qui e guarda.» Val mise un'altro rametto di legna nel fuoco appena acceso e si alzò, pulendosi le mani sui calzoni. «Non ho mai visto una tempesta come questa.» «È un inverno stregato» le disse Elth'ua'lth, «una tormenta magica mandata per trattenerci qui.» Si voltò verso la giovane guerriera e chiuse la porta con decisione. «Non riesco ad immaginare chi o che cosa verrà a
prenderci mentre ci troviamo qui nella tormenta, ma non dobbiamo esserci quando arriverà. Mangiamo, e vestiamoci nel modo più pesante possibile, perché dovremo affrontarla o patire di peggio.» «Sei pazza!» esclamò Orlly. «Anche se i miei selithi riuscissero a farcela, noi non possiamo! Non vedo a tre passi dal mio naso in quella neve. Potremmo cadere giù da una montagna, o perdere la strada, o restare bloccati prima di mezzogiorno e morire assiderati. La nostra unica possibilità è restare qui ad aspettare che finisca.» «Questo è proprio quello che si aspetta chiunque abbia mandato la tormenta. Debbo confessare che neanch'io ho molta voglia di affrontarla» disse l'elthim gentilmente. «So benissimo che potrebbe significare la mia morte. Ma restare qui nella comodità allettante del rifugio sarà la fine per tutti noi, anche delle nostre bestie. Vuoi fidarti della mia parola giurata? O vuoi che ti descriva gli orrori che potrebbero giungere mentre siamo bloccati qui?» Gli occhi argentei brillavano di luce, la voce musicale era cruda di verità. Orlly la sentì risuonare nelle ossa, sentì il palpito della stessa tremula certezza di quando Ama aveva parlato. Annuì e disse controvoglia: «Se dobbiamo, allora non abbiamo scelta. Farò del mio meglio per portare tutti a destinazione. Ma io ancora penso che uscire in quella tormenta sia una follia.» Si riempirono lo stomaco di farinata calda e di frutta, poi usarono le coperte per fare ulteriori mantelli per sé e bordature per i selithi. Orlly insistette perché Val cavalcasse dietro di lei su So. «Sprecherai solo le tue forze lottando contro il vento» obiettò. «So è l'unico abbastanza forte da portare due persone, ed io non posso stare attenta a te ed alla pista contemporaneamente. Voglio essere certa che tu sia al sicuro, non in fondo a qualche crepaccio.» So sbuffò quando uscì nel denso turbinio bianco. La sua pelle rabbrividì quando i primi fiocchi lo toccarono, e drizzò la cresta appuntita del collo in allarme. Orlly lo guidò più o meno nella direzione della pista, affidandosi più alla memoria che alla vista. L'animale annusava la neve caduta scalpitando nervosamente. «Una volta Elth'ua'lth ha detto che gli animali sentono l'odore della magia selvaggia.» Orlly annuì, contenta per una volta di non discutere. So agitò le orecchie al suono della sua voce, muovendosi lento e con attenzione. Gli altri selithi si erano raggruppati strettamente intorno all'el-
thim, come cercando di proteggerla dal vento con i loro solidi corpi. Avanzarono con angosciosa lentezza. Ad ogni passo del selith, il cuore di Orlly batteva forte per paura che scavalcasse il bordo della pista portando lei e Val alla morte, o cadesse in qualche buca coperta di neve spezzandosi una zampa. Non era sicura di poter superare un'altra morte come quella di Sa; forse cadere in un precipizio sarebbe stato meglio. Si accorse che era meglio chiudere gli occhi; in ogni caso, non vedeva più in là del suo braccio ed ogni tentativo di guida avrebbe soltanto minato la fiducia che So aveva nel proprio istinto. Lo sentiva muoversi lentamente ma con forza sotto di lei, consapevole inoltre della solida massa di Val alle sue spalle. Immaginò di poter raggiungere la forza vitale del selith, una sfera salda e lucente fluttuante in un denso miele. Dietro di lei se ne librava un'altra, di una tinta diversa: Sy che portava Taggart ferito. Poi veniva fluttuando un luminoso disco d'argento cosparso di gemme sfaccettate e di una bellezza meravigliosa che doveva essere l'elthim. Infine veniva il globo infuocato della giovane Sey. La sua visione interiore si spostava man mano che lei si concentrava sulle sfere di brillante luce vivente, Dev e Taggart e Val dietro di sé. Fluttuavano insieme in un'impalpabile tela di fili d'oro e platino. Il nitrito di So la strappò di colpo dalla sua visione di sogno. La pista si stendeva davanti a lei, visibile anche nella tormenta che si indeboliva. L'animale drizzò le orecchie contento e si slanciò in avanti. «Non capisco. Non abbiamo viaggiato così a lungo. Come ha potuto semplicemente svanire?» chiese Orlly con stupore. «Più a lungo di quel che credi, bambina» disse la voce dolce dell'elthim. «Chiunque ti abbia istruito, l'ha fatto bene.» Iniziarono l'ascesa vera e propria, lasciandosi alle spalle gli ultimi fiocchi di neve incantata. Val si offrì di scendere ma Orlly, vedendo il suo viso pallido e stanco, insistette per farla restare in sella e si mise a camminare a piedi davanti a So. Si fermarono per il pasto di mezzogiorno al parziale riparo di una spoglia parete di pietra, un netto contrasto rispetto alla sosta del giorno prima. Orlly piluccò il suo cibo mentre controllava i selithi, ispezionando le zampe ed i finimenti. «Orlly, puoi venire a vedere il braccio di Taggart?» chiese Val. «A me sembra migliorato, ma non sono una guaritrice.» Aveva tolto il bendaggio esterno e scoperto la ferita suturata, che si stava rimarginando con soltanto una lieve traccia di rossore.
«Cosa ti fa pensare che io lo sia?» Val aprì la bocca per la sorpresa, ma non rispose. Orlly raddolcì la voce. «E l'elthim? Ha marciato con i selithi attraverso mille difficoltà molto più di quanto non avrei fatto io stessa.» «Ho cercato di non pensarci» disse la guerriera con voce sommessa, incerta. «Lei ne sa molto più di me su quello che dobbiamo affrontare. Se dice che non possiamo permetterci di riposare, non posso contraddirla.» «Mettiamoci in cammino, allora. La parte più difficile del passo è ancora davanti a noi. Dobbiamo superarlo prima che faccia buio. È troppo pericoloso viaggiare senza la luce del giorno, e da questa parte non ci sono rifugi.» I selithi continuarono ad inerpicarsi mentre Orlly e Dev cavalcavano o si arrampicavano a piedi sulle rocce a turno. Non c'erano più tormente magiche o bande di assassini, solo la desolata solitudine delle montagne. Spesso Orlly aveva provato un senso di pace nell'immobilità immacolata al di là del limite della vegetazione, dove il vento era l'unica altra voce che sentiva. Ora percepiva solo vuoto, desolazione, e la schiacciante fatica che aveva dato al Passo Spezzacuore il suo nome. Muovendosi in discesa con eccellente rapidità, furono in vista della semplice struttura rocciosa del rifugio mentre si alzava la luna piena, inondando di luce l'ultimo tratto della pista. Orlly trattenne un'esclamazione di sollievo. «Fermi!» disse l'elthim; la voce era rauca e tremula. Orlly voltò la testa di scatto, appena in tempo per vederla fermarsi sulle zampe esauste, malferme, e con le piccole mani alzate in un gesto di protezione. «Stringetevi dietro di me, tutti! Presto!» La sua voce si era approfondita in un tono di comando, incontestabile. Orlly si trovò ad obbedire all'ordine dell'elthim. Val snudò la spada e scese con un balzo dalla groppa di So, e Dev fece la stessa cosa, mettendosi al suo fianco. Istintivamente, Orlly allungò una mano per toccare So. Morirò prima di lasciargli uccidere un altro dei miei, promise, pensando di riferirsi solo ai selithì. «Guardate!» Taggart, ancora in sella a Sy, indicò con la mano. Nella pozza di luce lunare davanti al rifugio, l'ombra di una scintilla arancione baluginò e poi esplose in una sfera di fuoco frastagliata generando propaggini di luce sfavillante che si condensava. Val fece un passo avanti, la spada pronta. Stava tremando visibilmente.
«No, torna indietro» ordinò Elth'ua'lth. «Qui la tua lama è mutile, getteresti soltanto via la tua vita per nutrire quella cosa.» Val obbedì con riluttanza. «Ma cosa abbiamo davanti, allora?» «Un drago-mannaro. Restate qui, tutti quanti. Non potete far nulla. Se fallisco...» La sua voce esitò per la prima volta. «Morite con gioia se dovete, non abbandonatevi alle vostre paure.» L'elthim avanzò mentre la massa arancione brillante si allungò, con le protuberanze frastagliate che diventavano ali frementi, il corpo deforme, e la testa armata di zanne. L'oscurità filtrava dai suoi occhi; Orlly sentiva il suo alito umido anche dal punto dove si trovava. L'elthim si mantenne salda sulle zampe a quattro dita leggermente divaricate, scintillando mentre la luce lunare si aggiungeva al suo bagliore naturale. La forma-drago strisciò sibilando nell'aria e si impennò davanti all'elthim, facendola sembrare minuscola. Elth'ua'lth parlò; la voce era calma nell'aria notturna, ed il mostro arancione arretrò come colpito, urlando orribili imprecazioni nella sua lingua incomprensibile. Toccò un angolo del rifugio con un'esplosione di vapori e scintille. Dove c'era stato il contatto la pietra cominciò a fumare. «Non capisco» sussurrò Orlly a Val. «Ha detto di non aver magia per combattere gli assassini. Ora come può fare questo?» «Nessuna magia per uccidere creature viventi» rispose la giovane guerriera. «Il drago-mannaro non è vivo.» «Ma è mortale?» Non aveva bisogno di vedere l'espressione di paura fermamente controllata sul viso di Val per sapere la risposta. Orlly si voltò e nascose il viso contro il collo muscoloso di So. Le urla tumultuose del drago erano degenerate in rauchi muggiti gutturali, che sommergevano la voce dolce e leggera di Elth'ua'lth. Orlly poteva sentire il pulsare della luce dell'elthim indebolirsi, mentre la stanchezza ne corrodeva i precisi contorni. I fili di luce evanescente che la legavano al disco argenteo cominciarono a sbiadire. Dietro le palpebre chiuse, vide il drago-mannaro torreggiare come una voragine nera, con le fauci oscene che si protendevano verso la sfera luminosa dell'elthim. Orlly ebbe un moto di ribellione, sorpresa di vedere un lampo di luce bianca scattare verso l'oscurità. La massa nera si fermò, con i bordi ondeggianti ed arricciati verso l'interno. Il globo scintillante divenne più luminoso, riprendendosi. Orlly aprì gli occhi per vedere una forma trasparente addensarsi al di sopra dell'elthim. Si distese verso l'alto, riflettendo la luce pura e chiara della
luna piena, poi si solidificò in un paio di ali aperte irraggianti lo splendore dell'arcobaleno, una nobile testa e braccia tese che reggevano dei sottili pugnali. La cosa-drago si ripiegò su se stessa, le orbite vuote roteanti in angoscia. Scosse la coda ed agitò le sue ali deformi; poi Orlly vide i massicci muscoli posteriori tendersi per un salto. Balzò nell'aria prima che lei potesse iniziare ad ansimare di paura, il suo fischio stridulo assordante nelle orecchie. Con rapidità fulminea la forma argentea si alzò per andargli incontro, le punte dei pugnali rivolte all'interno, e le grandi ali che agitavano l'aria. Orlly percepì un pungente odore salmastro che cancellò per un attimo il lezzo del drago prima che le punte dei pugnali penetrassero nei suoi occhi. Poi cadde sul terreno roccioso accanto a Val, coprendosi le orecchie nel vano tentativo di attutire l'orrendo frastuono della creatura ferita. Anche col tormento che le riempiva il cranio, Orlly sentiva So strofinarsi contro di lei, tremante, e sentiva il robusto corpo di Val contrarsi mentre lei cercava di controllarsi... sentiva l'elthim vacillare sotto l'enorme peso della magia che alimentava il drago. Orlly alzò lo sguardo, con gli occhi che le lacrimavano per il rifiuto. Elth'ua'lth era caduta in ginocchio davanti al drago-mannaro, ora una massa informe e contorta non più grande di un selith appena nato. Sembrava lottare per riacquistare la sua forma, con vaghi accenni di ali, muso o coda che emergevano dalla massa centrale, solo per ritrarsi ad un gesto dell'elthim. Elth'ua'lth lo aveva tenuto in scacco, ma per quanto ancora poteva continuare? Quanta forza era rimasta al drago-mannaro? Il frastuono si era spento, tutto il rumore era svanito eccetto i lamenti sommessi dei selithi ed i comandi sussurrati dall'elthim indebolita. Orlly sentiva il battito del suo cuore martellargli nella testa. Val, inginocchiata accanto a lei, alzò la testa con un singhiozzo. Orlly vide il suo viso contorcersi di disperazione mentre allungava la mano verso la sua spada. «Sei pazza, non puoi andare là!» Afferrò la manica del braccio destro di Val ed indicò la roccia del rifugio, fumante dove il drago-mannaro l'aveva toccata. «Quella cosa non farà che bruciare la tua spada, e poi toccherà a te. Idiota!» «Non m'importa» singhiozzò Val la voce piena di angoscia. «Devo fare qualcosa. Bakkar potrebbe essere annientato se il drago sarà sconfitto, ma se Elth'ua'lth muore ci sarà la guerra in ogni caso. Qualsiasi cosa tu pensi di me, non posso permettere che succeda. Non posso lasciar morire tutta
quella gente. Non capisci? Non ti importa di niente?» Orlly incontrò i suoi chiari occhi color ametista con uno sguardo fermo. «Sì. Ma se ci vai, non riuscirai a fermarlo, ed avrai gettato la tua vita per niente.» Val fece scivolare la spada nel fodero, con le spalle tremanti per il suo pianto silenzioso. Senza pensare, Orlly la circondò con un braccio, chiudendo gli occhi nel loro comune dolore. Non posso permettere che succeda... Non posso far morire tutta quella gente. Guardò la sfera ingioiellata spegnersi, sprofondando a vista d'occhio nell'oscurità. Un ricordo le balzò alla mente... la complessa rete di fili interconnessi che aveva visto durante il loro cammino attraverso la tormenta stregata. Ora poteva percepire solo qualche filo morente, e cercò di immaginarli come erano stati prima. Con sua sorpresa, i fili pulsarono più luminosi con un battito di vita prima di spegnersi. Si protese di nuovo con i suoi ricordi, costringendosi a vedere una tela di fibre iridescenti che si espandeva. Ne apparvero altre, prima tenui, poi sempre più forti a mano a mano che si convinceva mentalmente che esistevano davvero. Tinte di arcobaleno, che si scurivano nel verde da guaritore, si irradiavano dal suo punto di vista, scivolando lungo i fili scintillanti per raggiungere il disco argenteo. Da un lato notò una concentrazione di colori più deboli, che danzavano come minuscole stelle da una triade di soli - i selithi che la stavano raggiungendo. Lei afferrò i loro atomi di luce sfocata, immaginandoli intessuti in un flusso costante, e poi vide quello che aveva evocato. Sempre più sicura di sé, cercò nella sua memoria i globi luminosi che erano Val ed i due uomini, tessé la loro luce in un velo di colore vivente, e lo gettò come una rete da pesca lungo la tela che portava alla gemma di Elth'ua'lth, che si stava rafforzando. La sfera dell'elthim riacquistò il suo bagliore argenteo, al centro di una tela di fuoco luminosa. Davanti a lei l'oscurità arretrò, ripiegandosi su se stessa, divenne una testa di spillo, poi svanì. Orlly fu invasa dall'esultanza mentre apriva gli occhi. Val aveva cercato conforto nel suo braccio, senza più singhiozzare. Nella radura davanti al rifugio, Elth'ua'lth era ancora in ginocchio davanti ad un circolo annerito. Orlly spinse da parte Val e si alzò in piedi per correre verso l'elthim. La raggiunse proprio mentre Elth'ua'lth cadeva lentamente sulla terra spoglia, muovendosi come se il tempo stesso si fosse ispessito. Orlly allungò le mani per toccarle il fianco, ora grigio spento invece del solito ar-
gento luminoso. Sotto le sue dita, le costole dell'elthim si muovevamo tremanti, in un impercettibile respiro. «No!» gridò Val, correndo al fianco di Orlly e gettando le braccia intorno alle piccole spalle dell'elthim. «Non può essere morta!» «Non lo è» disse Orlly con calma. «Respira ancora.» «Non è ferita, non vedo sangue» balbettò Val, con parole che si confondevano l'una sull'altra, appena coerenti. «Non credo che si tratti di quel genere di ferita.» Orlly si mise a tremare sopraffatta da un'improvvisa stanchezza. Si afflosciò, allungando entrambe le mani per non cadere. «Non so cosa c'è che non va in lei.» Si concentrò, chiudendo gli occhi ancora una volta in cerca della sua visione interiore. Niente si presentò ai suoi occhi se non una piatta oscurità e calde lacrime. «Dannazione» gemette, troppo stanca per imprecare con originalità. «La prima volta che davvero m'importava qualcosa, e non ho potuto fare un accidente. Non ho potuto salvarla.» «Io non direi» disse una voce severa, familiare. Con uno sforzo terribile, Orlly alzò la testa. Ama si trovava su un monticello al di sopra del rifugio, col suo bastone elaboratamente intagliato tra le mani. Agitò un dito nodoso in direzione di Orlly. «Non potevi suscitare tutto quel baccano psichico senza che me ne accorgessi. Avanti, bambina, asciugati le lacrime. Non hai niente che una buona notte di sonno non possa curare. Ho aspettato per anni che tu fossi pronta a continuare i tuoi studi.» «Ma l'elthim...» ansimò Orlly. «Se muore, ci sarà la guerra.» «E questo fa qualche differenza per te?» La guaritrice sollevò un sopracciglio brizzolato. «Ma certo. Credi che voglia essere responsabile per altri villaggi che verrebbero distrutti come il mio?» si infuriò Orlly. Poi le sue parole si spensero. Come descrivere la ragnatela di vita che la legava allo splendore meraviglioso che era lo spirito dell'elthim? Ed ai suoi selithi, che la ricambiavano con l'affetto, ed ai suoi compagni? Il suo cuore era pieno di calore invece che di ghiaccio eterno. Ama sorrise, col suo viso rugoso che si increspava in una danza di luce benevola. Si voltò verso l'elthim caduta e la toccò leggermente sulla fronte. «Non è altro che il contraccolpo dovuto al tuo eccessivo entusiasmo. Si riprenderà in pochi attimi.» Val gridò forte di gioia inarticolata quando le palpebre dell'elthim vibrarono e si aprirono. Lei allungò una piccola mano verso la guerriera e si al-
zò in piedi con grazia. Elth'ua'lth la guardò, ed Orlly si sentì inondata dalla luminosità argentea in fondo ai suoi occhi grigi. L'elthim le prese la mano e la baciò dolcemente sulla fronte. Il tocco la trapassò con una luce fredda, cristallina, che la raggiunse nel profondo del cuore. Dietro l'elthim, poteva vedere il viso giubilante di Val, rigato di lacrime. «Saluta i tuoi amici, bambina. È tempo di tornare a casa» disse la guaritrice. «Non hanno più bisogno di te. Lascia che usino gli altri due selithi; quel ragazzo non può scendere a piedi la montagna, ma So obbedisce soltanto a te e dovrebbe venire via con noi.» Ad Elth'ua'lth disse: «La pista è ampia e chiara; non avrete più bisogno di una guida. La buona fortuna vi attende.» Val gettò le braccia intorno ad una stupefatta Orlly. «Non so come hai fatto, ma ti ringrazio con tutto il cuore. Lo prometto, mi prenderò cura dei tuoi selithi come faresti tu. Quando avrai finito la tua preparazione, vieni nel Kasimire a prenderli ed a farmi visita.» «Dove?» chiese Orlly d'impulso, senza capire. «Al palazzo del Reggente: è mio padre.» Si asciugò le lacrime col dorso della manica, mise la mano sull'elsa della spada nel suo gesto caratteristico, e si avviò al rifugio. «Avanti, dobbiamo prenderci una buona notte di riposo perché poi abbiamo una guerra da fermare.» Orlly si voltò verso la guaritrice che le era accanto. «Non capisco. Torno con te?» La speranza ed una nuova consapevolezza nascevano in lei, allontanando il gusto amaro del vecchio dolore. «Oh sì» disse Ama. «Sei stata troppo goffa con la tela della vita. Dato che sei una guaritrice, devi diventare più abile. Ora ho molte cose da insegnarti.» Titolo originale: Fireweb Traduzione di Marina Nunzi FREDDO SOFFIA IL VENTO di Charles de Lint In ogni antologia c'è un racconto che arriva per ultimo ed io so di avere inconsciamente riservato un posto per questo racconto, perché senza di esso l'antologia sarebbe stata incompleta. Questa volta l'opera in questio-
ne è quella di Charles de Lint. Qualcuno si è lamentato della supremazia delle donne guerriere nei confronti delle maghe; questo racconto è quasi «ma non proprio» un racconto di fantasmi vecchia maniera, ma in qualche modo riesce a rivelarsi positivo e pieno di energia. Di solito non mi piacciono storie di fantasmi inserite nelle antologie di Spada e Magia; ma un editor sa che ogni regola ha le sue eccezioni quando ci si trova di fronte ad un racconto abbastanza bello da far dimenticare qualsiasi norma editoriale. Onestamente penso che questo racconto ne sia un esempio. LA TOMBA INQUIETA (Ballata popolare) Freddo soffia il vento sul mio amore Insieme a qualche goccia di pioggia, Non ho avuto che un solo vero amore, Ed ora egli giace nella tomba. Le mie labbra son fredde come argilla, Il mio respiro è forte e sa di terra, Se tu baciassi le mie fredde e bianche labbra La tua vita non durerebbe a lungo. Non uscire di notte, le avevano detto. Ma lei lo fece. Non allontanarti dalla strada, le avevano detto, ma lei lo fece. Non seguire il fuoco; non ascoltare la sua musica. Ma lei lo fece. Le loro intenzioni erano buone, lo sapeva, ma loro non avevano capito. Lei cercava il fuoco blu-dorato e la musica eterea della misteriosa razza di Jacky Lantern. Era tutto quello che le era rimasto. Fu la notte in cui si accamparono presso Tiercaern, dove le colline di Carawyn coperte d'erica si svolgono fino al mare, quando Angharad incontrò le streghe. Erano due: un uomo vecchio come l'inverno, con i capelli bianco-sale e la pelle scura e rugosa come le mani di un calderaio ed un ragazzo dell'età di Angharad, di non più di quindici anni, magro ed esile e con i capelli neri come le prugne. Tutti e due avevano una scintilla bludorata nel fondo dei loro occhi, quegli occhi che erano vecchi eppure giovani, di tutte le età eppure di nessuna. I calderai avevano disposto in cerchio i loro carri coperti di tela, e stavano preparando la cena quando i due si avvicinarono al limitare del campo. Salutarono i calderai fra il coro di latrati dei cani del campo ed il padre di Angharad, Hered'n, andò loro incontro dato che era lui il capo del gruppo.
«Avete ferro con voi?» gridò Hered'n intendendo chiedere se erano armati. Il vecchio scosse la testa e sollevò il suo bastone. Era fatto di legno bianco, quel bastone, tagliato da un sorbo selvatico. Il legno delle streghe. «No, a meno che non consideriate un'arma anche questo» disse. «Mi chiamo Woodfrost e questo è Garrow, mio nipote. Siamo viaggiatori... come voi.» Osservando i due stranieri da dietro le spalle del padre, Angharad scosse la testa. Non erano come la sua gente. Non assomigliavano a nessuno dei calderai che conosceva. Suo padre guardò gli stranieri per un lungo attimo, poi si fece da parte e li fece entrare nel cerchio dei carri. «Siate i benvenuti» disse. Quando furono seduti davanti al suo fuoco offrì loro con le proprie mani la coppa dell'ospitalità. Woodfrost prese il tè e cominciò a sorseggiarlo. Vedendoli così da vicino Angharad si chiese come mai la gente dei villaggi temesse così tanto le streghe. Questi due erano malridotti come una coppia di gatti sorpresi da un temporale, e nonostante i loro occhi stregati a lei non sembravano molto più temibili di mendicanti in una piazza di mercato. Erano magri e poveri e i loro mantelli erano logori e sporchi a causa del viaggio ed avevano i capelli arruffati. Ma in quel momento lo sguardo intenso del vecchio incontrò il suo, ed Angharad all'improvviso ebbe paura. C'era qualcosa di strano e sfuggente in quegli occhi stregati, simili ad un cielo pieno di stelle o ad un falco che si libra in alto nel vento, scrutando ed aspettando il momento favorevole per piombare sulla preda. Leggevano qualcosa dentro di lei, penetravano nel flusso veloce dei suoi pensieri e nella combinazione variegata del suo essere per trovare che qualcosa mancava. Non riusciva a distogliere lo sguardo, e rimase intrappolata come un uccello in gabbia finché lui finalmente non guardò altrove. Rabbrividendo, Angharad si avvicinò di più al padre. «Vi ringrazio per la vostra gentilezza» disse Woodfrost restituendo la coppa a Hered'n. «La strada può rivelarsi molto dura per gente come noi... specialmente quando non c'è nessuna casa ad aspettarci alla fine del viaggio.» Il suo sguardo si posò di nuovo su Angharad. «Questa è tua figlia?» Hered'n annuì fiero e disse al vecchio come si chiamava. Era vedovo, e con la morte della madre di Angharad, avvenuta molti anni prima, gran parte della sua gioia e del suo amore per la vita era andata perduta. Ma aveva ancora Angharad con sé, e se c'era qualcosa al mondo che amava davvero, questa era la sua giovane ed esile figlia, dagli occhi castani ed i capelli rossi scompigliati come un nido di uccello.
«Ha la vista» disse Woodfrost. «Lo so» rispose Hered'n. «Anche sua madre l'aveva... che Ballan dia pace alla sua anima.» Sconcertata, Angharad guardò prima il padre e poi lo straniero. Questa era la prima volta che lei ne sentiva parlare. «Ma papà» disse, tirandolo per la manica. Sentendo lo strattone, lui si voltò a guardarla. Qualcosa passò sui suoi lineamenti, come l'erba di campo che trema come un'onda al passaggio del vento. Solo per un brevissimo istante, poi tutto tornò normale. Un attimo di tristezza. Un tocco di orgoglio. Un momento di paura. «Ma papà» ripeté lei. «Non aver paura» disse il padre. «Non è che un dono di natura... come l'abilità di Kinny a suonare il violino, o il modo in cui Sheera tende le trappole e parla ai suoi furetti.» «Io non sono una strega!» «Non è poi una cosa così terribile» disse Woodfrost in tono gentile. Angharad si rifiutò di incontrare il suo sguardo. Invece si mise ad osservare il ragazzo. Lui le sorrise timidamente. Angharad guardò subito da un'altra parte. «Non lo sono» disse lei di nuovo, ma ora non ne era così sicura. Non era sicura di saper esattamente cosa fosse la vista, non poteva ricordare di quanto una volta riusciva a vedere nelle cose del mondo più di tutti quelli che la circondavano. Ma allora era così giovane, e tutto era scomparso quando era diventata grande. O forse era stata lei a farlo sparire... Angharad sorrideva mentre abbandonava il sentiero, presa dal ricordo. La scura foresta si chiuse intorno a lei, ricca di suoni e odori. Il vento soffiava facendo udire la sua voce fra i rami più alti, con un mormorio che riusciva quasi, ma non del tutto, a nascondere il vago suono di un arpeggio frenetico e distante che giungeva fino a lei dal più profondo del bosco. La sua vista stregata penetrava attraverso le tenebre alla ricerca della prima traccia della lanterna di uno spirito fluttuante tra gli alberi. Come se l'arrivo delle streghe fosse stato una sorta di catalizzatore, Angharad scoprì che riusciva a vedere quello che rimaneva nascosto a tutti gli altri. C'erano dei movimenti e dei suoni nel mondo esterno che non venivano visti o sentiti né dai calderai nomadi né dalla gente che viveva dentro le case, popolando le città o lavorando nelle fattorie di campagna, e vederlo, sentirlo, non era poi una cosa così terribile.
Woodfrost e Garrow viaggiarono insieme al gruppo per tutta quell'estate ed Angharad, volente o nolente, imparò ad usare il suo dono. Continuò ad aver timore di Woodfrost - nei suoi occhi c'era sempre quell'ombra, quell'oscurità, quella sensazione di mistero «ma fece amicizia con Garrow. Era sempre molto timido con gli altri calderai, ma con lei si confidava. I suoi segreti, una volta svelati, erano molto diversi da come Angharad immaginava fossero quelli del nonno. Garrow le insegnò il linguaggio degli alberi e degli animali, dal lento mormorio di una vecchia quercia assopita al veloce chiacchierio dello scoiattolo e del fringuello e la scaltra lingua della volpe. Le gazze divennero sue amiche intime, insieme ai tassi e al vento. Tuttavia allo stesso tempo si sorprese a diventare riservata nei confronti di Garrow, e se lui la guardava attentamente o riusciva a cogliere uno dei suoi lunghi sguardi sognanti, il sangue cominciava a salirle su per il collo facendola arrossire, mentre il cuore si metteva a battere forte e veloce come quello di uno scricciolo in trappola.» *
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Il sorriso si fece dolceamaro mentre Angharad si inoltrava all'interno della foresta. Era stato in una notte come questa, durante gli ultimi giorni di Hafarl, tra il regno del Signore dell'Estate ed i primi giorni freddi d'autunno - una notte in cui la gente delle case lascia le fattorie e città per accendere grandi falò sulle colline e cantare e danzare al suono di una musica che fa accigliare i sacerdoti dell'Unico Dio Datti - che lei e Garrow si crearono il loro segreto più intimo. Fecero l'amore con dolce foga, e poi giacquero contenti ed estasiati l'uno nelle braccia dell'altra mentre le stelle sopra di loro compivano il loro corso nel cielo notturno. Le lacrime che scendevano sulle guance di Angharad mentre continuava a camminare fra gli alberi, ricordando, non erano le stesse di quella notte. Quella notte si era sentita così piena di emozioni e di magia che non c'era stato altro sollievo per quello che sentiva crescere dentro di lei. Ora stava solo... ricordando... Quell'anno il gruppo di calderai passò l'inverno a Mullyn, in una fattoria di proprietà di Green George Snell, che un tempo aveva viaggiato come nomade insieme alla gente di Angharad. Là si prepararono per i viaggi dell'anno successivo. I carri vennero riparati, come pure le bardature e l'equipaggiamento. Vennero fabbricati gli oggetti che sarebbero stati venduti
nei mercati delle città ed i cavalli vennero preparati per le fiere. Quando nell'aria si sentì il primo soffio di primavera il gruppo riprese il cammino. Angharad e Garrow viaggiavano ancora nel carro di Hered'n, anche se a metà dell'inverno si erano uniti in matrimonio. Sposati da così poco tempo, erano ancora troppo poveri per potersi permettere un carro tutto loro. La strada li portò quell'estate all'interno del territorio di Umbria e Kellmidden, dove contavano di incontrarsi con altre carovane e diventare ricchi, o almeno ricchi come poteva sperare di diventarlo un calderaio, che non era poi molto secondo i canoni della gente che abitava nelle case. Speravano in un'estate di viaggi, pettegolezzi, commerci e riallacci con vecchie conoscenze. Invece ad aspettarli trovarono la peste. Il ricordo di quella prima città devastata era ancora troppo fresco nella mente di Angharad. Le aprì una profonda ferita nel cuore. Inciampò nella foresta impigliandosi col piede in una radice e si appoggi al grosso tronco di un albero. La scorza era ruvida contro la sua pelle e le impigliò i capelli quando allontanò lentamente il capo. Come se imitasse il suo dolore, l'arpeggio frenetico e distante esitò e si arrestò. Angharad alzò la testa, impaurita da quell'improvviso silenzio. Poi la musica ricominciò, debole, debole, e lei continuò il cammino, tentando di tener seppelliti i ricordi, ma questi ritornavano, costanti, come bolle d'aria di una sorgente sulfurea, emettendo il loro dolore, penetrante come quei fumi tossici. *
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Il cadavere giaceva nella piazza della città, nero e gonfio. Sorpresi, gli sguardi stupiti dei calderai ne trovarono altri - nei vicoli, sulle entrate delle case - corpi abbandonati, resi neri dalla peste. Troppo tardi Hered'n si era reso conto della situazione. La città era deserta e silenziosa, ma a loro non era arrivato nessun segno, nessuna voce su quello che era successo. Troppo tardi aveva fatto allontanare i carri. Troppo tardi. Due notti dopo il primo del gruppo si ammalò. Ripensandoci, Hered'n si rese conto che doveva essere stato uno dei cani a diffondere la malattia. Angharad e le streghe videro la peste diffondersi sotto la pelle di Fearnol, il figlio di Meranda, e Hered'n fece disporre i carri in circolo ed accamparsi. Era troppo tardi. Al cadere della notte metà del gruppo era stato contagiato. In due settimane, nonostante tutte le medicine che Angharad, le streghe e le mogli dei calderai erano riuscite a raccogliere, preparare sommini-
strare agli ammalati, la maggior parte del gruppo erano morti. In quel circolo c'erano stati nove carri sui quali avevano viaggiato sessantadue calderai; il mattino in cui l'ultimo morto fu seppellito solo un carro lasciò l'accampamento e solo tre persone vi viaggiavano. Erano magre e scarne come corvi mezzi morti di fame: Jend'n l'Alto, Bernaida, la figlia di Sheera e Crawen il Pentolaio. Una quarta persona era sopravvissuta «Angharad. Ma lei preferiva rimanere indietro con i suoi morti. Suo padre. Suo marito. I suoi parenti. Gli amici.» Visse nel carro di suo padre ed ebbe cura delle tombe per tutta l'estate. Maledì la vista che le aveva permesso di vedere la nera peste infiltrarsi e crescere nei corpi dei contagiati, uccidendoli cellula dopo cellula mentre lei assisteva impotente a tutto questo. Garrow... suo padre... Maledì tutti gli dei che conosceva, da Ballan il Signore della Casa e del Focolare a Dath, il freddo Dio Unico, e perfino la figlia di Hafarl che le era sempre sembrata la più reale di tutti: la gentile Tarasen, che proteggeva gli animali del bosco e gli uccelli dell'aria. Persino lei aveva abbandonato Angharad nel momento del bisogno. Rimase fino alla fine dell'estate e poi si ricordò di una storia udita una volta intorno al fuoco di un accampamento di calderai, una storia di paludi e del popolo di Jack Lantern, e di come in quel luogo i morti potevano essere richiamati se la necessità era grande e se si aveva il dono... Si mise in cammino il mattino dopo con un piccolo sacco di provviste appeso ad una spalla e il bastone bianco di Woodfrost in mano. Camminò attraverso un paesaggio che era deserto e desolato, attraverso città o villaggi dove i morti giacevano insepolti. Superò fattorie silenziose e abbandonate come sogni dimenticati. Attraversò le selvagge montagne a nord di Umbria, e quando attraversò il confine di Kellmidden si trovò di fronte ad una terra che la peste non aveva stretto nei suoi artigli malsani, senza capire ancora perché lei fosse stata risparmiata mentre tanta gente era morta. La stretta di Hafarl si stava allentando mentre l'autunno diventava più freddo su valli e colline nelle campagne di Kellmidden e le costellazioni che la notte ruotavano sopra di lei erano quelle di Lithun, il Signore dell'Inverno. Si fermò a cenare in una locanda, ignorando i consigli che le aveva dato la buona gente delle case. Finito il pasto uscì di nuovo nella notte. Ora procedeva senza più nulla, il sacco delle provviste vuoto ed il bastone di sorbo selvatico ormai inutile, perché sapeva di essere vicina alla fine del viaggio. Mentre cenava nella locanda, aveva sentito la dolce musica fatata... che la chiamava, sussurrando, attirandola, irraggiungibile come
una stella eppure chiamandola ugualmente. Quando aveva lasciato la strada ed era entrata nella scura foresta, il viso di Garrow fluttuava nell'occhio della sua mente, un sorriso familiare sulle labbra, legato alla musica fatata e ultraterrena che giungeva fino a lei dal profondo della foresta, e così seppe che il suo viaggio era terminato. Ora il terreno si inclinava regolarmente nella direzione del suo percorso. La foresta di pini, betulle e abeti lasciò il posto a nodosi cedri e file di salici. Sotto i piedi il terreno era soffice ed i suoi passi erano segnati dal risucchio soffocato dei piedi che si sollevavano dal fango della palude. Una falce appuntita di luna stava calando ad ovest. L'ultimo quarto. Una luna di presagi. Il fango le salì fino alle caviglie ed i lunghi giorni di viaggio e dolore alla fine ebbero il sopravvento. Stanca oltre ogni limite, cadde su un monticello di terra che si alzava dalla palude. Il fantastico arpeggio non era più forte di prima, tuttavia in qualche modo sembrava più vicino. Con le braccia che le tremavano per la stanchezza sollevò da terra la parte superiore del corpo e si voltò per vedere chi suonava quella musica tutt'intorno a lei. Erano degli esseri alti e dall'aspetto spettrale, esili come canne e di una pallida luminosità che sembrava venire dal loro interno. I loro capelli pendevano lisci e leggeri come piume intorno ai loro lunghi volti scarni. Gli uomini portavano delle lanterne che emanavano una luce tremolante; le donne suonavano arpe sottili come rami di salice con corde fatte di fili di luce lunare. I loro occhi risplendevano di blu dorato nell'oscurità. «Lontani» le cantò la musica delle arpe in un cupo ritornello. «Troppo... troppo lontani...» Angharad guardò in mezzo a loro cercando un'altra forma sottile - una forma familiare, con capelli neri e nessuna capacità di suonare l'arpa - ma vide solo le spettrali arpiste e gli uomini che reggevano le lanterne. «Garrow?» chiamò, cercando fra i loro volti. Il suono vibrò come un coro di uccelli, e si interruppe. Il cuore di Angharad si fermò con esso. Trattenne il respiro mentre una delle pallide forme lucenti si faceva avanti. «Tu!» sibilò, emettendo seccamente il respiro, non appena riconobbe i lineamenti dell'uomo. Il suo battito aumentò improvvisamente, con un suono che le martellava negli orecchi. Woodfrost annuì stancamente. «Sei ancora così testarda?» disse. Lei lo fissò furibonda. «Che ne hai fatto di Garrow? Non sono venuta
per te, vecchio.» «Da bambina avevi il dono di vedere» disse Woodfrost come se non l'avesse sentita, «ma presto ti sei accorta che gli altri non ne erano in grado, e invece di essere diversa hai ignorato il tuo dono finché non sei diventata cieca come loro. L'hai ignorato ad un punto tale che, col tempo, non ne è rimasto più nemmeno il ricordo.» «Quello non era un dono, ma una maledizione. Come fai a definire dono qualcosa che ti permette di vedere quelli che ami morire, mentre tu devi assistere impotente?» «Hai sprecato così tanti anni» continuò Woodfrost, ancora ignorandola. «Così testarda. Poi siamo arrivati noi al vostro campo, io e mio nipote. E tu ancora ti ribellavi, fino a quando Garrow ti ha tolto il velo dagli occhi e ti ha insegnato di nuovo ad usare il tuo dono... ti ha insegnato quello che una volta avevi già saputo, ma che avevi scelto di dimenticare. Il tuo dono era così cattivo?» Angharad voleva alzarsi, ma il suo corpo era troppo stanco per obbedirle. Riuscì a mettersi seduta con le braccia intorno alle ginocchia. «Allora Garrow era ancora vivo» disse. Woodfrost annuì. «E poi è morto. La morte è una tragedia, su questo non c'è dubbio, Angharad... ma solo per i vivi. Noi che siamo morti continuiamo... fare altre cose; proprio come chi vive deve continuare ad assumersi la responsabilità della sua condizione di vivente. Ma tu no. Oh, no. Tu sei troppo testarda per questo. Se quelli che ami sono morti, allora anche tu ti comporti come se fossi morta. È una cosa bella onorare coloro che sono morti... ma solo entro i limiti, Angharad. Le tombe possono essere curate ed i ricordi possono essere richiamati, ma la vita deve continuare.» «Potrei richiamarlo... qui in questo luogo, potrei richiamarlo?» chiese Angharad con voce debole. «Solo se te lo permettessi.» La rabbia balenò negli occhi stregati di Angharad. «Non hai nessun diritto di metterti fra noi.» «Angharad» disse Woodfrost dolcemente. «Credi davvero che mi metterei fra te e mio nipote se fosse vivo? Quando avete unito il vostro futuro non c'era persona più felice di me. Ma ora non stiamo parlando di te e Garrow; stiamo parlando dei vivi e dei morti, e in questo caso sì, debbo intromettermi.» «Perché è così brutto? Noi ci amavamo.» «Non è poi così brutto... Ma lasciamo che siano i sacerdoti di Dath a
parlare del male e dei peccati. Diciamo piuttosto che è sbagliato, Angharad. Finché vivi hai dei doveri e delle responsabilità che non includono quello di richiamare le ombre dei morti. La morte verrà a prenderti abbastanza presto, visto che la vita di una strega non è così lunga come gli uomini credono, e allora tu sarai insieme a Garrow nel mondo delle ombre. Vuoi fare una terra di ombre anche del mondo dei vivi?» «Senza di lui non c'è niente.» «C'è tutto.» «Se non fossi già morto» disse Angharad stancamente, «ti ucciderei.» «Perché? Perché dico la verità? Sei una donna del popolo nomade... non una donna di casa legata al villaggio che cerca per ogni cosa il consenso del marito.» «Non è quello. È...» la sua voce si spense. Il suo sguardo oltrepassò il vecchio per fermarsi sugli spettri, alti e pallidi, con le arpe silenziose fra le mani splendenti e le lanterne fatate che brillavano misteriose. «Potrei vivere dieci anni senza di lui» disse piano, tornando a guardare il vecchio. «Potrei vivere per sempre senza di lui, se solo sapessi che è ancora parte di questo mondo. Che tutto quello che era parte di lui non se n'è andato. Che da qualche parte si può ancora sentire la sua voce, vedere il suo volto, conoscere la sua gentilezza. Non così, morto. Non in una tomba sotto la terra fredda con i vermi che si nutrono del suo corpo. Se solo potessi sapere che è ancora... felice.» «Angharad, lui può essere pago... che per i morti è la cosa più simile a ciò che i vivi chiamano "felicità". Quando saprà che continuerai a vivere, che ti farai di nuovo carico dei tuoi doveri di strega... allora sarà in pace.» «Oh, dèi!» gridò Angharad. «Quali doveri? Io non ho doveri, solo solitudine.» Woodfrost le si avvicinò e la fece alzare in piedi. Il suo tocco era freddo e strano a contatto della pelle e lei si ritrasse, ma lui non la lasciò andare. «Finché vivi» disse, «tu hai un dovere nei riguardi della vita. E il dono di Hafarl, il dono del Sanguestivo che ti da la vista... hai un dovere anche verso di quello. Le meraviglie fatate del mondo esistono solo finché esistono quelli con la vista per vederle, Angharad, altrimenti scompaiono.» «Io vedo solo un mondo reso grigio dal dolore.» «Anch'io ho conosciuto il dolore» disse Woodfrost. «Ho perduto mia moglie. Mia figlia. Suo marito. Anch'io ho perso la gente che amavo, ma questo non mi ha tenuto lontano dai miei doveri verso la vita e il dono che possedevo. Mi sono messo in viaggio in cerca di gente cieca come lo eri tu
ed ho fatto del mio meglio per farla vedere di nuovo. Non per me. Ma perché il mondo non perdesse la sua meraviglia. La sua magia.» «Ma...» Il vecchio si allontanò da lei. Nei suoi occhi Angharad vide di nuovo lo sguardo critico della prima sera in cui l'aveva conosciuto. «Se non per te stessa» disse, «allora fallo per tutti gli altri che sono ancora ciechi al loro dono. È proprio così grande il tuo dolore perché anche loro ne debbano soffrire?» Angharad si ritrasse, più spaventata dalla calma pietà nei suoi occhi che non se fosse stato adirato con lei. «Io... io sono solo una persona...» «Come tutti coloro che vivono... e come tutti quelli che hanno il dono. La musica del Regno di Mezzo ora è solo un sussurro, Angharad. Quando verrà dimenticata, non ne rimarrà nemmeno un eco. Se vuoi lasciare un mondo come questo a coloro che non sono ancora nati, allora richiama tuo marito dal regno delle Ombre e vivete insieme una semi-esistenza... né vivi né morti... tutti e due.» "Sei tu che devi scegliere, Angharad. Lei chinò il capo, le lacrime le solcavano le guance. Non sono forte come te, voleva dirgli, ma quando sollevò lo sguardo angosciato lui non era più là. Vide solo le forme spettrali del popolo di Jacky Lantern che la guardavano. Sui loro volti non c'erano risposte, né giudizi. I loro occhi blu dorati ricambiavano il suo sguardo senza alcuna risposta. «Garrow» disse piano, tutto il suo amore racchiuso in quell'unica parola, in quell'unico nome. Ci fu un movimento nell'aria, nel punto in cui era stato Woodfrost, come la sensazione di una porta che si apriva fra questo mondo e l'altro. Attraverso gli occhi pieni di lacrime vide un volto familiare prendere forma, sotto di esso la sagoma indistinta di un corpo. «Garrow» ripeté, e l'immagine divenne più nitida, più reale. Per un lungo e sofferto momento lo guardò prendere forma, come attingendo la materia dalla palude, gettando un ponte sull'abisso che separava la terra delle ombre dal monticello dove era lei, poi chinò di nuovo la testa. «Addio» disse. Il dolore crebbe di nuovo in lei. Ora Garrow era perduto, perduto per sempre, mentre lei doveva andare avanti. Sentiva la sua presenza svanire senza bisogno di guardare. La sua gola era gonfia per l'emozione, gli occhi accecati dalle lacrime. Poi sentì qualcosa toccarle la guancia, come labbra di vento che le sfiorarono la pelle un momento, come una piuma, poi più nulla. In tutto il suo dolore uno strano calore crebbe dentro di lei e pensò di
udire una voce lontana, lontana, sussurrare brevemente, Ti aspetterò, amore mio, e poi rimase sola nella palude in compagnia degli spettrali spiriti. Attraverso il velo di lacrime guardò una delle arpiste avvicinarsi a lei, la sua figura di donna più sottile e trasparente che mai. Depose la sua arpa sulle ginocchia di Angharad. Come le mani di Woodfrost, l'arpa era materiale e consistente, il che la sorprese. Era uno strumento piccolo e disadorno, come un'arpa da bambini. Toccò il legno liscio del suo collo ricurvo. «Io... io sono una strega» disse con voce bassa e sommessa, la cui amarezza era diretta solo a se stessa. «Non posso fare musica... non ci riuscirei mai.» Ma le sue dita furono attratte dalle corde e scoprì che conoscevano una melodia. Era un motivo triste e lento che prendeva da lei il dolore, trasformandolo in una musica incantata che le placava l'animo. Un dono fatato, pensò. Doveva forse rendere il suo dolore più sopportabile? «Deve avere un nome» disse lo spirito con voce misteriosa e vibrante come il respiro del vento su una collina lontana. Un nome? pensò Angharad. Osservò le sue dita estrarre musica dalle corde dello strumento e si chiese quale legno e metallo potessero produrre un suono così. Un nome? La sua tristezza era racchiusa nella musica dell'arpa, sciolta dagli stretti nodi dentro di lei e libera nell'aria. «La chiamerò Garrow» disse, alzando lo sguardo. Il gruppo di spiriti se n'era andato, ma lei non si sentiva più sola. Il gruppo di calderai era accampato vicino ad un ruscello con un buon pascolo intorno quando la giovane donna dai capelli rossi e gli occhi antichi si avvicinò ai carri, con una piccola arpa appesa alla spalla. Chiamò ad alta voce i calderai nella loro lingua segreta ed essi le diedero il benvenuto, porgendole la coppa dell'ospitalità e dandole un posto accanto al fuoco. Seduta alla luce tremolante del fuoco guardò tutti attentamente e sorrise quando il suo sguardo si posò su una fanciulla scarna di nome Zia, che non aveva più di tredici anni. Zia arrossì e guardò altrove, ma dentro di lei sentì risvegliarsi qualcosa che era stato sepolto un anno prima, quando aveva imparato come ci si comporta quando si diventa donne e messo via la sua bambola preferita, quella con la faccia di stoffa ed il corpo imbottito di paglia. La donna dai capelli rossi sorrise ancora e cominciò a suonare la sua arpa. Titolo originale: Colà Blows the Wind Traduzione di Marina Nunzi
LA SPADA DELLA MADRE di Dana Kramer-Rolls La maggior parte delle donne che fanno parte dell'associazione medievalista dell'Anacronismo Creativo si accontenta di imitare il comportamento delle donne medievali, e limita la sua attività al ricamo, al canto e alla danza, a scriver poesie, cuocere torte e allestire banchetti. Benché Dana, conosciuta nell'associazione come Maythen of Elfhaven, faccia tutte queste cose in modo superbo, fin dall'inizio ha scelto di unirsi alla piccola minoranza di donne che combattono ed ha giostrato nei tornei contro uomini grandi il doppio di lei. Si è piazzata bene, ed è stata la terza donna ad essere diventata cavaliere del Regno dell'Ovest. Poi ha scelto di mettersi in lista e battersi per la corona «e con sgomento di molti uomini (e donne) dell'Associazione ha vinto il torneo superando gli uomini nei combattimenti e le donne nelle altre discipline.» Ci fu un moto di costernazione: una donna poteva essere Principe di diritto? Stava per verificarsi il caso in cui l'uomo migliore per quel titolo fosse una donna; aveva vinto meritatamente grazie alle sue abilità. Dana, madre di tre bambini, somiglia molto alla sua eroina: una donna robusta, aggraziata e dai forti muscoli. Ha abbandonato i tornei per darsi all'aikido, e infatti ha scritto questo racconto durante un periodo di convalescenza a seguito della frattura di una clavicola durante un allenamento. Questa è la sua prima esperienza letteraria professionale, anche se al momento sta scrivendo un romanzo. Kaarin teneva in mano il pezzo di minerale. Lo soppesava, lo guardava, lo rigirava. Poi chiuse gli occhi e lo sentì. Era buono. Era il migliore che avesse mai visto. Camminò zoppicando sulla gamba storpia fino al suo tavolo di lavoro, si fermò ad esaminare di nuovo il minerale e poi lo lasciò cadere sul tavolo. Riprese il suo bastone e poi arretrò di due o tre passi zoppicando, senza staccare gli occhi dalla forma scura e irregolare. Nessun fabbro era mai stato eletto Mastro così giovane, e mai un fardello tanto grande era stato affidato alla forgia di un Mastro. Kaarin aveva circa trentacinque anni, ed i suoi capelli, lunghi e neri come quelli di una fanciulla, erano strettamente e comodamente legati dietro alla nuca ed infilati nella sua camicia di cuoio. Una treccia fatta di stracci tratteneva qualche ciocca
ribelle e il sudore del suo lavoro. Indossava calzoni di pelle marroni e stivali rivestiti di piastre metalliche di sua invenzione. Solo un tallone poggiava a terra. «Dannati preti» mormorò. «Mai fidarsi.» Zoppicò per la bottega rovistando e frugando con la punta della stampella fra i mucchi di minerale e scorie di metallo taglienti formate dai detriti di materiale avanzato da precedenti lavori. «Accidenti, dov'è?» Parlava sempre da sola quando i suoi figli non erano là per essere istruiti, aiutati, o dare fastidio. Questa spada era il suo regalo, non quello dei sacerdoti. «È il miglior pezzo di minerale» rifletté. L'incertezza la fece smettere di rovistare. «Forse distruggerò la sua qualità. Forse l'hanno incantato.» Osservò la polvere di carbone che aveva alzato col piede fluttuare nel raggio di luce invernale che entrava basso dalla porta. «No» disse a voce alta. Il suo sguardo si posò su un pezzo di minerale della grandezza di un pugno poggiato su uno scaffale di legno. «Eccoti qui, figlio del cielo.» Era molto pesante, e molto scuro. Sembrava pulsare nelle sue mani. «È per questo che sei caduto dal cielo. È venuto il tuo momento.» L'ordinazione e il metallo erano stati consegnati la settimana prima, ma la luna era in fase calante, e non era il momento adatto per incominciare nessun lavoro. Così aveva preso tempo per progettarlo. Una nuova Grande Spada per Tremain, un'arma personale per la Regina che sarebbe stata consacrata fra circa settanta cicli solari. Guardando i minerali davanti a sé, Kaarin cominciò a formare il volto di Sheira nella sua mente. Il suo viso si contrasse per un vecchio dolore. Riuscì a dominarlo, come aveva dominato angoscia, disperazione e acciaio. I due minerali erano poggiati sulla panca fianco a fianco. «Come Sheira e me» rifletté Kaarin. «Uno bello e benedetto dai sacerdoti, l'altro pesante, brutto e caduto dall'alto. Finalmente insieme.» Sorrise e poi scoppiò in una sonora risata. «Forgerò l'arma più pura e pregiata che sia mai stata fatta. Accetto la sfida come ho accettato la guerra. Senza paura, per amore della battaglia.» Alzò le braccia robuste. «Madre, ascoltami. Lo giuro.» Cadde verso la panca, ma si raddrizzò ed aggiunse piano: «Madre, aiutami.» Zoppicò fino al cortile e gridò, «Vlat, Erkin, Samish, venite qui! C'è del lavoro da fare.» I due minerali si erano fusi nella colata. Il fuoco era così ardente che avevano temuto che la fornace potesse incrinarsi; Kaarin lo aveva acceso con una miscela di carbone e lignite che si era procurata anni prima. Una pietra come carbone, ma dura e lucida. Avrebbe dovuto centellinare ogni
pezzo. Ma il calore che generava, oh, Dea, il calore! La sera, mentre la fusione si raffreddava, Kaarin era seduta a tavola col marito ed i tre ragazzi «due suoi figli e l'apprendista. Valder, voglio che tu faccia il fodero. Ma ti chiedo un favore. Lasciami scegliere il soggetto della decorazione.» Suo marito era rimasto per un poco in silenzio. «Sarebbe un onore. Mi farebbe guadagnare il berretto da Mastro. Ma sarebbe mio se fossi tu a disegnarlo?» «Io non so cesellare immagini nei grani d'oro, Valder. Ero la sua guardia del corpo, la sua amante. Glielo devo. Forgerò la sua spada; tu non vuoi fare il fodero? Non possiamo lasciare questo lavoro a qualche parassita di corte che si è guadagnato il berretto da Mastro Orafo inchinandosi a qualche prete.» Valder ridacchiò. «Fammici pensare un poco.» Era diventata tesa; lo era sempre quando doveva cominciare un lavoro importante, ma questa volta era calma e distaccata. Lui sospirò. Probabilmente non avrebbero più diviso il letto fino alla Notte della Madre del Focolare. Il giorno seguente Kaarin, insieme al figlio più grande e all'apprendista liberarono il lingotto raffreddato. Aveva un suo bagliore, anche se rozzo. «Scalda la fornace. E voglio qui anche tuo fratello più piccolo. Non ci sarà più un'altra spada come questa. Imparerete più da questo che da tutto quello che potrebbero insegnarvi tutti i membri della Gilda. Mi hai sentito?» Così cominciarono. Kaarin riscaldò il lingotto e lo batté, scaldò e raffreddò e cesellò le sue linee e lo tagliò in pezzi. Mentre i ragazzi lavoravano a turno aiutati dal più grande apprendista e perfino dalla vecchia contadina che viveva con loro, il metallo fu allungato e ritorto in lunghe trecce. «Tieni strette le molle, Vlat. Tira, tira. Vedi come si fa ad intrecciare, Erk? Quando lo battiamo in una forma e lo martelliamo, si salderà in un unico pezzo, forte ma flessibile. Samish, è abbastanza rosso? Vedi la differenza di colore, adesso? È la gradazione del rosso che ti dice quando è pronto. Tira, Vlat, questo allevia la durezza del metallo. Come stiracchiarsi dopo aver dormito.» Il lingotto non c'era più. Ora emergeva una spada grezza con ancora visibile le linee dello stampo. «Ragazzi, andatevene un momento. Mi serve un po' di calma.» «Mamma, non vorresti del pane e della birra?»
«Non ora, Samish.» Scompigliò i capelli del figlio più piccolo e sorrise, ma con la mente era già molto lontana. Ritornò all'incudine e cominciò a battere il canto del martello. Tap-clink, tap-clink, tap-clinck. Era stata la peggior battaglia della guerra, della sua vita, della vita di tutti. Non erano i movimenti veloci e puliti del campo di addestramento; aveva visto le contadine uccidere i polli con più abilità di quella che stava usando lei per uccidere quell'uomo. Il collo era quasi troncato, il braccio lacerato, le interiora esposte. Oh, dèi misericordiosi, si muoveva ancora. Colpì di nuovo, stavolta troncandogli la testa. Scivolò sul fango e il suo sangue e cadde sul cadavere sanguinolento. Era così stanca che le lacrime le scorrevano sul viso. «Oh Madre, Madre, fammi solo alzare, alzare. Un passo, un'altro, ti prego Madre.» Il fetore della morte le aveva fatto venir voglia di urlare, ma era troppo stanca. Poi aveva visto la sua signora, la sua amata. Alta e snella, ancora in piedi a battersi contro un nemico. «Quanto la amo. Per lei, per la Casata di Tremami» Barcollò in avanti cercando di raggiungere la sua signora. «Sheira, sono io, qui vicino a te, amore mio. Alla tua sinistra. Ho uno scudo. Guardati la destra. Sta per colpire. Tieni duro.» In quel momento altri due guerrieri si erano uniti al primo, ed erano tre contro due. Erano abili e freschi. Poi Kaarin percepì un'ombra dietro di loro sulla destra. «Sheira!» Si slanciò, e il suo grido si udì in tutto il campo al di sopra del rumore della battaglia. Il dolore atroce. «Madre salvala.» Al suo risveglio si era trovata in un ospedale da campo. «Non credo che potremo salvarti la gamba.» «Al diavolo, lo farete. Sheira è viva, Mia Signora? Ditemelo.» Si era tirata su afferrando la sacerdotessa guaritrice per la tunica. Erano serviti tre veterani per tenerla ferma. «È salva. È salva.» Poi era venuta una donna alta con l'acconciatura ed il distintivo di Grande Guaritrice. C'era stato un mormorio. «Fai parte del corpo di guarda di Sheiralith, Signora reale di Tremain, Guardia Kaarin?» «Sì.» «Sei guardia del corpo della nostra Signora Reale?» «Sì.» «Le hai salvato la vita col tuo corpo e le tue preghiere.» La donna aveva guardato ed esaminato le ferite sul corpo di Kaarin e poi aveva sollevato le bende dalla gamba mutilata per visitarla. Poi aveva guardato diritto negli occhi di Kaarin. «Ti salverò la gamba.» Ma lei non aveva più potuto camminare con tutti e due i piedi. Ed un soldato zoppo non è di nessuna utilità
alla Signora Reale. Lo zio di Kaarin l'aveva presa con sé e le aveva insegnato a fabbricare strumenti di guerra. Nessun allievo aveva mai imparato così in fretta ed ottenuto il titolo di Mastro così giovane. Ma tutto quello che provava lei era la vergogna e il senso di colpa per non essere riuscita a restare al fianco della sua signora. Il martello cantava. Tap-clink, tap-clink. Le sue lacrime sfrigolavano vaporizzandosi sull'acciaio bollente. «Le mie lacrime saranno la tua tempra, figlia della mia arte. Ti do tutto l'amore e la lealtà che non ho potuto dare prima. Al fuoco della forgia affido la mia vergogna e la mia colpa. Ma a te, figlia mia, in te io forgio la mia fedeltà e protezione per colei che servirai. Proteggila dalla morte e dal tradimento.» Il giorno seguente portò una bufera di fine inverno e per tre giorni non si poté lavorare. Sulle prime Kaarin fu contenta di quella sosta, ma presto il riposo si tramutò in inquietudine. Finalmente, sorse l'alba di un giorno freddo e sereno. «È ora che vi insegni a temprare.» Il metallo fu scaldato e raffreddato nell'acqua del mare della Madre (aveva ordinato di portarla per quel giorno con un mulo), poi riscaldato e battuto con colpi fermi e precisi e lentamente raffreddato con l'aiuto del respiro dell'inverno. Il fuoco, la terra, l'acqua e l'aria, tutto mescolato più volte insieme per ottenere il meglio in forza e flessibilità, in taglio ed elasticità. E tutto benedetto nel calore della lignite e del carbone. Kaarin spiegò ai suoi ragazzi ogni fase, dando loro una conoscenza che questi avrebbero a loro volta trasmesso ai loro figli, una conoscenza che andava al di là di qualsiasi altra cosa conosciuta. Mentre insegnava, gli occhi di Kaarin brillavano di passione. «Guardate, guardate come si tira fuori l'acciaio dall'acqua di mare mentre è ancora abbastanza caldo perché l'acqua evapori lentamente. Quando si raffredda piano, come qui nel vento, è più malleabile ma non è fragile.» E più tardi: «Guardate come si mette l'acciaio nel carbone e nella lignite. Sarà questo che lo farà indurire. Taglierà la roccia.» Infine, soddisfatta ed esausta, guardò i giovani volti intorno a lei. Quanto li amava tutti quanti. Ma quanto aveva amato la sua Signora. «Andate e dite a Greta di preparare la cena. Io arriverò presto.» Si sedette a fissare la spada, tastandola da cima a fondo. «Quanto ti amo, mia Sheira.» Gli anni volarono via. Le sue dita ora sentivano il bel corpo saldo di Sheira. Com'era stata strana la loro prima volta insieme. Di cinque anni più anziana, Kaarin era solo un soldato del corpo di guardia. «Mi ami
solo per il mio corpo» le aveva detto per scherzare. «Lascia che ti dia un incarico.» «No, ti prego. Non posso accettare nulla, Signora.» «Signora? Qui? Adesso?» «Mia amata, tu sei la seconda erede al trono. Ti prego, non coprirmi di ridicolo.» Ma le era stato affidato ugualmente un incarico, dopo che Sheira aveva preso nel suo letto un giovane Conte della Corte. Le lacrime cadevano sulla lama fredda e dura. «No, non metterò in te la mia rabbia e la mia gelosia. Solo amore e fedeltà. Ho amato il tuo corpo e la tua anima, e tu eri giovane.» Kaarin si alzò per andare a mangiare. Mentre prendeva il suo bastone, si voltò di scatto verso la porta della bottega. Quello che vide le tolse il respiro. Le colline ondulate in lontananza erano coperte di neve e brillavano di una luce dorata ai raggi del sole, e pallido azzurro nell'ombra. E gli alberi, gli alberi. Punti neri in contrasto col candore della neve, ed ogni ramo grande e piccolo era racchiuso in una cornice di bellezza cristallina. «Madre!» Kaarin si appoggiò al suo bastone. «Mi hai dato le cose più belle. Grazie, madre mia.» A cena mangiarono minestra e pane, e Greta cucinò delle salsicce che aveva messo da parte durante l'ultimo inverno, come del resto anche Kaarin aveva centellinato ogni frammento di lignite. Greta si affaccendava in cucina, col viso tondo e paonazzo. Senza più figli, ormai adulti e sparsi nella campagna circostante, Kaarin aveva accolto la vecchia contadina che era venuta a chiedere di lavorare come taglialegna per un pezzo di pane ed era entrata a far parte della famiglia. Greta ricamava con l'abilità di un Mastro, ma ahimè, l'arte del ricamo non era un'abilità da Gilda. Samish si addormentò presto sul pavimento in compagnia del suo cane preferito. «Vlat, che ne pensi di una partita a birilli?» «Ci sto.» «Papà, posso andare a trovare Hera? Sarò di ritorno prima che faccia buio» chiese con insistenza Erk. «No, ragazzo.» «Ma la fattoria di suo padre è a sole due miglia da qui.» «Il vento sta soffiando forte. Può venire una bufera. È meglio aspettare un giorno o due.» Erk sembrava così triste che Kaarin scoppiò a ridere. «Nessuno è mai morto d'amore» cantò da un vecchia canzone. Così poco dopo si trovarono tutti a ridere e cantare e raccontarsi vecchie storie. Ma Kaarin fu ben presto
colta di nuovo dalla agitazione. Finora aveva rimandato la prova del metallo. Alla fine prese una lanterna e tornò in bottega. «Accidenti, il metallo sembra così buono. C'è un solo modo per verificarlo.» Si diresse zoppicando alla mola per affilare. L'aveva costruita in modo da poterla muovere con un pedale e delle pulegge, e quindi con un solo piede. Ora molti fabbri avevano abbandonato il pesante volano per adottare la sua innovazione. Quando la mola prese velocità appoggiò un'escrescenza del codolo contro la ruota di pietra. Il metallo scintillò, emettendo piccole scie a migliaia. La pietra venuta dal cielo ora nel metallo fece sprizzare stelle dalla spada, lucenti come quelle nel cielo. Ecco la prova. Non aveva mai visto né sentito parlare di un acciaio tanto duro da emettere delle scintille così. «Fa scintille, evviva!» gridò. «È duro come... come... come il mio nerissimo cuore!» Alzandosi dalla mola cantò e ballò zoppicando per tutta la bottega. Con gioia e abbandono fece roteare la lama prendendola per il codolo. La lama emise un suono armonioso; anche presa per il codolo, cantava. Le sfuggì di mano, volò verso i carboni freddi e lì si piantò, vibrando. «Va bene, va bene, bambina, domani.» Rise e pianse e si asciugò le lacrime degli occhi, e tolse la cenere dalla lama non ancora lucidata. L'avvolse teneramente in una pelle di pecora e la poggiò sulla panca. «Buonanotte, figlia mia.» I giorni seguenti furono giorni di lucidatura, pulizia, lucidatura. E Kaarin incise sul codolo, "Forgiata da Mastro Kaarin per la Regina Sheiralith" e la data. «Non bisogna mai indugiare su nessun pensiero malvagio quando si lavora un'arma» diceva ai suoi allievi, ma l'interminabile lavoro di lucidatura le era venuto a noia; non era come l'alchemico piacere di forgiare e lavorare i metalli, e si manteneva calma guardando la neve e donando alla lama il suo candore. Ma era contenta quando il lavoro fu terminato. Insieme al marito si adoperarono a lavorare sulle decorazioni finemente incise, l'impugnatura e il pomo, lei facendo il lavoro più grezzo e lui incidendo e battendo in oro i disegni. Infine avvolsero l'elsa in strisce di cuoio ed il lavoro fu completato. L'ultima cosa, che doveva fare lei stessa da sola, era appoggiare le labbra sulla spada e sussurrarle il suo vero nome. Il giorno dopo a tavola affrontò ancora il problema del fodero. «Devo avere una risposta. I sacerdoti saranno di ritorno per la cerimonia della Madre del Focolare.» Il marito si alzò da tavola e si asciugò le mani con un panno. Andò verso il letto che dividevano, mise una mano sotto il materasso e tirò fuori un
lungo involto che portò al tavolo. «Ecco il mio lavoro con il mio soggetto.» Lo svolse e mostrò un fodero di legno coperto di oro battuto, con incisa la scena di un'antica battaglia composta di grani d'oro. Al centro di questo momento della storia di Tremain c'era un riquadro che mostrava una regina vittoriosa che reggeva fra le braccia una donna del corpo di guardia ferita. «È questo quello che avevi in mente?» «Sì, oh sì! Sai Valder, ne è valsa la pena. Se non fosse stato così non avremmo avuto tutto questo. È il tuo capolavoro.» Il calore che c'era in quel momento fra loro mandò i ragazzi ed i servi a letto prima del tempo. I messaggeri reali giunsero a cavallo il giorno della Madre del Focolare, l'inizio del disgelo, l'omaggio alla Regina degli Dèi, Signora dei Guerrieri, della Casa e della Forgia. Kaarin aspettava nel cortile con tutto il suo clan. Non c'era stato tempo per ripulirsi e vestirsi a festa. Erano vestiti come si trovavano. Da cavallo smontò una donna alta, vestita con un mantello di lana rossa a ricami lucenti foderato di pelliccia, guanti di pelle finemente tinti di blu ed un copricapo di pelliccia. Sarebbe stata una bellissima regina. Il cuore di Kaarin diede un balzo e lo stomaco cominciò a farle male. Era Sheiralith. «Mia signora!» «Pensavi che ti avrei mandato dei servi?» Tese le braccia verso la donna più anziana. «Ora tocca a me prendere il comando.» Si strinsero in un forte abbraccio. Nonostante le diverse strade percorse, ancora si amavano. Ma ora siamo sorelle, pensò Kaarin. «Fammela vedere.» Kaarin le porse la spada nel fodero, poi arretrò. «Questa è l'opera mia e di Mastro Valder.» (il marito aveva ricevuto la nomina al raduno della Gilda proprio durante l'ultima festa) «Ed è anche frutto del lavoro di ogni apprendista e lavoratore di questa tenuta. Ma soprattutto è opera della Madre del Focolare. Vorrei dartela in Sua presenza.» Kaarin sentiva le parole uscire da lei con gentile autorità. Una parte della sua mente chiedeva all'altra, Chi sei e che cosa stai dicendo? L'altra parte rispondeva, Stai calma, figlia mia. Insieme si diressero verso il cerchio sacro della famiglia, in un punto fuori di vista dalla casa. Alcuni preti e sacerdotesse avevano provato a seguirle, ma Kaarin li aveva fulminati con uno sguardo che li aveva fatti arrestare in circolo, ad agitarsi e bisbigliare fra loro.
Mentre camminavano sulla neve oltrepassando alberi non più gelati che lasciando cadere le loro lacrime cristalline rivelavano sotto di esse tenere gemme, entrarono nel cerchio dà Est e si fermarono al centro, davanti all'altare, a guardarsi l'un l'altra, Kaarin con la schiena rivolta a Nord. Kaarin porse la spada nel fodero perché Sheira la esaminasse. Sheira avvicinò le sue lunghe dita affusolate e le fece scorrere sulla scena al centro, poi guardò Kaarin negli occhi. «Mi sei mancata. Davvero. La tua onestà. La tua solidità. Ma non è più la stessa cosa da quando mia sorella maggiore è morta. Non ci saranno più campagne in prima linea nemmeno per me.» «Lo so.» Il robusto corpo di Kaarin, vestito di cuoio sporco di sudore e bruciato dalle scintille, qui sembrava meno fuori posto dell'eleganza di Sheira. Kaarin sguainò la spada e poggiò il fodero sull'altare. Prese un panno dalla sua cintura e si coprì le mani per proteggere la lama dal tocco umano. Poi sollevò e mostrò la lama splendente fra le sue mani tese. Gli occhi di Sheira erano fissi sulla lama. «È bellissima. No. Non ci sono parole.» «Toccheranno la lama quando il giuramento sarà compiuto.» «Non si può evitare. A corte c'è un bravo fabbro. Ci penserò io stessa. Come l'hai chiamata?» «Spada della Madre.» La spada ronzò nell'aria frizzante. «Me lo ricorderò.» Rimasero così un momento con gli occhi fissi gli uni negli altri. Lentamente Sheira si sfilò i guanti e li mise nella cintura, poggiando le mani sulla spada. Kaarin si trovò di nuovo a pronunciare quelle parole, parole che aveva sentito solo una volta a corte da bambina e che non sapeva di ricordare. «Giura qui davanti alla Grande Madre di essere Sovrana di Tramain. Nel corpo e nello spirito, nella vita e nella morte sia tu la più Grande Sacerdotessa, la Signora della tua Stirpe, Madre-Protettrice della Terra e dei suoi Figli, Mastro di tutti i Mastri delle Gilde...» «Io giuro qui davanti alla Grande Madre e sul mio corpo e sul mio spirito di essere Sovrana di Tremain...» Il Giuramento risuonò nel cerchio sacro e su tutta la terra. Gli alberi ed i cervi lo udirono, così come le montagne e il cielo. Gli Dèi lo udirono. Presto lo avrebbero udito i sacerdoti ed il popolo di Tremain, ma allora sarebbe stato solo per i sacerdoti ed il popolo. Era già compiuto.
La Regina prese la spada e fece per rinfoderarla. «Aspetta.» Kaarin pulì le impronte delle dita. Tutte e due risero leggermente. Era il loro segreto. Un segreto che avrebbero diviso con tutta la terra di Tremain. Accanto a lei, Sheira era più alta. «Se non riescono a vederlo, saprò che sciocchi sono i miei ministri. Vieni, amica mia.» Mise le braccia intorno alla vita di Kaarin. «Ci sarai alla mia incoronazione, vero?» Kaarin esitò. Tutta quella gente. Forse qualcuno che conosceva. La Regina la guardò, poi disse gentilmente, «Ho bisogno di renderti omaggio per questa.» Agitò la spada nella mano. Il viso di Kaarin si oscurò, ma la Regina proseguì. «Niente più incarichi. Lo prometto. Ma ascoltami. I tuoi arnesi sono nella bottega laggiù. Hai creato questa,» agitò di nuovo la spada, «da frammenti di roccia. I miei strumenti sono la cerimonia e il rituale. Io guido la Danza del Grande Incontro di ogni persona e animale vivente in Tremain. Il mio compito è di incoraggiare ogni uomo e donna, vecchi e giovani, a diventare guerrieri robusti o agricoltori che abbiano cura delle loro terre o artigiani che sappiano fare cose come queste.» Agitò ancora la spada. «Vieni, mostriamo a quegli sciocchi come si danza. Ti prego. Ho bisogno, sì, ho bisogno di un'amica di cui fidarmi all'incoronazione; Senza contare che...» aggiunse con un piccolo sorriso, «ci saranno quei dolci alla pasta di mandorle che ti piacciono tanto.» Mentre lei parlava, Kaarin la guardava con intensa meraviglia. Un ghiacciolo si staccò dall'altare, cadde a terra e si infranse. Gli ultimi timori di Kaarin si sciolsero come quel pezzo di ghiaccio. Sì, davanti a lei c'erano davvero la signora, sacerdotessa, mastro di gilda e tutti gli altri titoli conferiti nel Giuramento. Meritava la spada, e anche la corona. Sheira insisté ancora. «Verrai?» «Pasta di mandorle?» Sorrise Kaarin. «Perché non me lo hai detto prima? Non mancherei per tutto l'oro del mondo!» Si inchinarono e lasciarono il cerchio sacro. «Vediamo come colpisce.» Sheire sguainò la spada. Cantava nell'aria. «L'equilibrio è perfetto.» Colpì un ramo che fu tagliato di netto e cadde al suolo. «Ora tocca a me» e Kaarin prese la spada e la fece roteare nell'aria, poi scelse un bersaglio adatto e con anni di pratica nel lavoro a bottega tagliò facilmente il ramo che la disturbava. Corsero come bambine, gridando e roteando la spada. Alla fine, senza fiato, rallentarono e si fermarono. Sheira pulì la lama, la esaminò ancora con orgoglio e meraviglia, e la
rimise nel fodero. «Ora dobbiamo tornare indietro, Mastro Fabbro.» Prese Kaarin per mano. Discesero la collina, cercando di ricomporsi il più possibile. Quando ebbero raggiunto il gruppo di persone che le aspettava nel cortile, Sheira aveva dimenticato la menomazione di Kaarin. Ed anche Kaarin. Titolo originale: Sword of the Mother Traduzione di Marina Nunzi FAME di Russ Garrison Questo che segue, secondo racconto sul tema della "Fanciulla Prescelta", è il più lontano che si possa immaginare dalla serietà e dall'ambientazione esotica de "La Maschera di Shiminege" di Charles Saunders. Russ Garrison è un infermiere del turno di notte in un ospedale psichiatrico... "un'atmosfera fertile", dice "per lavorare su imprevedibili finali macabri e personaggi interessanti". Questa è la sua prima pubblicazione, ed io ho notato che gli scrittori che debuttano con un racconto umoristico di frequente arrivano lontano. I ceppi erano rivestiti di cuoio e non erano fastidiosi, ed i suoi polsi erano avvolti in stracci per mitigarne la stretta. Delois non si ribellava a quella stretta; aveva già lottato quando avevano cercato di infilarglieli. Sorrise con tristezza a ciò che era rimasto del vestito da sposa di Myrda. Come si era infuriata Myrda quando il marito lo aveva preso per rivestirne il tributo all'orco! Strizzò gli occhi guardando il cielo che imbruniva in alto, oltre la sommità spezzata della sua colonna e più in su, attraverso i rami. La notte cadeva presto nel fitto della foresta, ma lei sapeva che doveva essere quasi il tramonto. La catena sferragliava alle sue spalle mentre invano sbatteva i ceppi contro la colonna di marmo spezzata. Smise presto; il clangore era troppo aspro e rumoroso nel silenzio. Perché c'era silenzio. Gli uccelli e gli animali sembravano trattenere il respiro e perfino il gocciolare delle foglie bagnate di pioggia era cessato. Scosse la testa per scacciare quelle cupe fantasticherie e si appoggiò di nuovo contro il marmo. Con un sobbalzo si allontanò fino all'estremità del-
la catena; la pietra umida le aveva gelato la pelle attraverso il leggero abito strappato, dandole i brividi sulle braccia nude. Starnutì, e con un sospiro scivolò sul pavimento di pietra rotta del tempio. Seduta con le gambe distese, scosse la testa per allontanarsi dagli occhi gli scuri capelli umidi e fissò senza vedere la foresta, mentre la luce lasciava il posto all'oscurità. «Hanno avvistato un orco sulla strada per il villaggio» aveva detto Elron mentre praticamente la trascinava via dalla strada. «Vieni nella locanda dove si sta al sicuro.» Con riluttanza Delois aveva raggiunto i genitori di Elron ed i loro clienti dentro le robuste pareti della locanda. Per ironia, proprio quelle mura l'avevano portata alla sua attuale situazione. «Porta me vergine e io distrugge!» ruggiva l'orco. «Prossimo buio. Vecchie pietre in foresta. Io distrugge!» Troppo tardi aveva visto il padre di Elron guardarla pensosamente, e poi non c'era stato più nessun posto dove fuggire o roteare il suo bastone. Al sicuro, sì! Improvvisamente ci fu un rumore nel sottobosco. I rami si spezzavano, le foglie frusciavano e la legna secca crepitava mentre qualcosa di grande si faceva largo attraverso. La sua ora era venuta. Si alzò in piedi (cosa non facile quando si hanno le mani legate alle due estremità di una catena gettata intorno ad una colonna). Fortunatamente, se di fortuna si poteva parlare in un momento del genere, portava ancora le sue scarpe pesanti e robuste. Almeno avrebbe mandato a segno un buon paio di calci prima di essere uccisa dall'orco. Lo scricchiolio si avvicinava ed era accompagnato da uno strano suono lamentoso. Delois scosse e tirò le catene da una parte all'altra; se solo avesse avuto il suo bastone, avrebbe potuto almeno vedere se la testa o gli attributi dell'orco erano infrangibili. Accecata dall'oscurità, pensò di vedere una macchia d'ombra ancora più scura muoversi alla sua sinistra. Tese occhi ed orecchi per raccogliere quei pochi secondi ancora di avvertimento. Il lamento fu sostituito da uno starnuto soffocato. Rami bagnati si spezzavano nella radura sotto pesanti piedi. Preparandosi col piede senza far rumore, Delois riempì la bocca di saliva per un ultimo atto di disprezzo. Era contenta, in questa circostanza, di non avere la gola secca. «Delois? Delois, sei là?» «Elron?» chiese lei incredula. «Elron, in nome di Moratti, ma che ci fai qui?»
Il fruscio continuò, seguito da un tonfo quando qualcosa di morbido urtò qualcosa di duro e inamovibile. Elron represse un'imprecazione. «Delois, continua a parlare, così posso trovarti. È così buio.» «Certo che è buio, è notte. Non hai portato una torcia?» «Certo, ma non volevo che l'orco vedesse la luce.» «Orco o no, non puoi salvarmi se non mi vedi. È per questo che sei qui, no?» Cominciava ad avere i suoi dubbi su tutta la faccenda. «Oh sì, salvarti, uccidere l'orco oppure, se non riesco, morire gloriosamente» disse la voce allegra. «Oh, Morath» gemette lei. Troppe saghe. «Accendi la torcia e liberami da queste maledette catene.» La pietra focaia cozzava contro il metallo mandando occasionali spruzzi di scintille. Il ragazzo imprecava in un monotono sottovoce e così spegneva le scintille prima che potessero attaccare. Goffo come sempre, pensava lei cupamente; goffo come Elron, dicevano i ragazzi del villaggio. Delois deglutì, resistendo all'impulso di serrare i denti o coprirlo di ingiurie. «Per piacere, sbrigati. È già buio e l'orco doveva reclamare l'offerta al tramonto.» Il ticchettare cessò. «Reclamare la vergine, vuoi dire» ridacchiò lui. «E se non ci fosse più una vergine ad aspettarlo?» Lei non gradì quel tipo di pensiero. Forse dopotutto le scarpe le sarebbero servite lo stesso. «Elron, come ti è venuta la temeraria idea di venirmi a salvare?» tubò. «Mio eroe, te ne sono così grata.» Ci fu una pausa, poi il ticchettare riprese. «Be', in realtà è stata Dakra... sai, la Reclutatrice Reale... che l'ha suggerito. Stavamo proprio commentando su quanto fosse stato vergognoso che il villaggio avesse deciso di offrirti come sacrificio invece di ribellarsi all'orco. Poi, una cosa tira l'altra, e Dakra ha detto che io sembravo il ragazzo giusto» la sua voce sbuffò con orgoglio, «e che insieme forse potevamo salvarti.» La torcia si accese e rivelò un ragazzo di statura bassa, dal viso pallido e pieno di acne ed un sorriso allegro, dai denti larghi. Per la verità, pensò lei, sembrava più una delle focacce che cucinava sua madre che un uccisore di orchi. Lo esaminò con aria critica, anche se lo conosceva quasi da sempre; aveva quasi la sua età, ma vittima dell'amore sviscerato di sua madre e mai mandato con gli altri ragazzi a giocare giochi violenti o a caccia di ragazze. Le sue mani paffute rigiravano nervosamente la torcia mentre la muoveva intorno e scrutava la foresta con occhi accecati dalla luce. Delois scosse leggermente la testa.
Apparentemente soddisfatto che nulla fosse in agguato nel raggio di illuminazione della torcia, il ragazzo si voltò verso di lei. «Salve» disse col suo sorriso allegro. «Il vestito di Myrda non è mai stato così bene su di lei.» Poi rimase a fissare il lungo strappo diagonale sul seno sinistro. Si inumidì le labbra lentamente e la torcia si inclinò. «Non mi ero mai accorto che la tua pelle fosse così bianca.» «Elron, dov'è Dakra?» disse lei disperatamente. «Hai detto che era venuta con te. Dov'è?» Elron si scosse e sorrise di nuovo. «Credo che si sia perduta. Per essere un Ufficiale del Re se la cava male nei boschi. Insomma, l'ho persa nella foresta nemmeno dieci minuti fa.» «Uh, già. Avanti, aiutami a liberarmi da queste catene. Ma che fai così impalato? Elron!» La torcia ricadde, penzolando inerte nella mano del ragazzo e le fiamme lambirono i detriti umidi che coprivano il pavimento del tempio. La bocca era rimasta aperta e lei poteva giurare che i suoi occhi, già grandi, erano diventati ancora più tondi. «Elron, parlami. Che succede?» «Dakra, Dakra ha le chiavi delle manette. Doveva rubarle al fabbro e seguirmi fin qui. Poi dovevamo liberarti e scappare prima che il villaggio venisse a sapere quello che era successo.» Chinò la testa e mosse i grossi piedi. Uh-oh, quello era un cattivo segno. O stava mentendo o non voleva dirle qualcosa. Lei mantenne un tono neutro «E poi cosa?» Ora il ragazzo stava quasi mormorando. «Poi ha detto che ci avrebbe aiutato ad andarcene via, molto lontano dalla foresta.» La sua voce esitò e si spense. «Poi, sai, noi due...» Delois non lo sapeva per certo, ma poteva indovinare. Fin da quando le era cresciuto il seno, Elron e gli altri ragazzi del villaggio, già, e anche gran parte degli uomini, avevano sempre cercato di sorprenderla da sola. Troppe volte per contarle si era dovuta difendere col suo bastone o darsela a gambe. Elron, almeno, era gentile «gentile ma esasperante. La seguiva dovunque come un cucciolo, le portava mazzi di fiori e dolci rubati dalla cucina di sua madre. Ora la stava guardando di nuovo con quei suoi tristi occhi da cucciolo.» Lentamente e con calma gli parlò come si fa ad un bambino piccolo. «Elron, dobbiamo andarcene di qui in fretta. Avanti, vieni qui. Se mi arrampico sulle tue spalle forse potrei passare la catena sopra la cima della
colonna.» Con un'espressione di sollievo Elron annuì e sorrise, impaziente ora che qualcuno gli stava di nuovo dando istruzioni. Infilò la torcia in un mucchio di sassi e si avvicinò per fermarsi docilmente davanti a lei. Di nuovo, si mise a fissare il corpetto stracciato. «Elron!» Lui alzò di scatto la testa con un'espressione colpevole. «Chinati e forma una staffetta con le mani. Un po' più in basso, all'altezza del ginocchio, proprio così. Ora, io salgo sulle tue mani ed il grande, forte Elron mi solleverà fino a che non potrò salire sulle sue spalle. Pronto? Ora!» Elron ansimava pesantemente per lo sforzo, ma con diligenza divaricò le gambe, si chinò e la sollevò. Delois si innalzò lentamente, urtando con le spalle ed i fianchi lungo il marmo freddo. Il suo piede era circa all'altezza della vita di Elron quando improvvisamente venne immobilizzata contro la colonna dal suo corpo massiccio. «Oh, Delois, sei così morbida e leggera. Ho desiderato tanto tenerti fra le mie braccia così.» Le sue parole erano soffocate, dato che venivano pronunciate contro il vestito e la coscia sinistra di Delois. Delois alzò un pugno e spinse indietro l'altra mano per darsi spazio che le serviva per colpirlo. Poi sentì un altro rumore, il suono dei suoi singhiozzi. «Sei così bella, così meravigliosa, e io ti amo tanto.» La sua voce era rauca e quasi sul punto di spezzarsi e, incredibilmente, lei sentiva il bagnato delle sue lacrime attraverso il vestito. Esitando, Delois aprì la mano e l'allungò lentamente verso la sua testa. La ritirò di scatto quando gli toccò i capelli soffici e ricciuti come se bruciassero, poi con decisione si mise ad accarezzargli la testa mormorando dolci parole di vaga rassicurazione. Sussurrò il suo nome. «Elron? Ora non è il momento di parlare di cose del genere. P-più tardi, dopo che saremo fuggiti, io darò al mio nobile, coraggioso, intrepido salvatore... il mio affetto, il mio rispetto e la mia gratitudine. Ma adesso abbiamo un lavoro da fare. Avanti, grande e forte Elron, sollevami più in alto per farmi salire sulle tue larghe spalle. Ci siamo quasi; credo di vedere la cima.» Lentamente, sollevando il viso inondato di lacrime dalle sue gonne, lui le sorrise con gratitudine. Rannicchiandosi, sbuffando ed asciugandosi le guance e il naso sulle spalle, sbuffò un'altra volta e la sollevò senza scosse verso l'alto. Mentre lei gli saliva sulle spalle, ondeggiò e barcollò leggermente.
«Lei vedo! Solo un po' di più, un po' di più in alto...» Esplose un ruggito che le paralizzò ogni pensiero, e si sentì un odore di carne marcia e palude stagnante che la soffocò. Da parte di Elron ci fu un suono a metà strada fra un gemito e un grugnito e lei si trovò a cadere, scivolando lungo la colonna, quando Elron saltò via. Sbucciata e ferita, la caviglia si piegò sotto di lei e dolorose fitte le salirono su per la gamba. I suoi denti si chiusero con forza sul labbro inferiore e sentì il sapore salato del sangue. Il gran numero di dolori la distrasse un momento, e poi si trovò a guardarsi intorno convulsamente in cerca della fonte del ruggito e del puzzo. Elron aveva afferrato la torcia e la stava agitando intorno, voltandosi per guardarsi alle spalle così rapidamente che inciampò sui suoi stessi piedi. Da qualche parte nell'oscurità l'orco ruggì ancora, ma stavolta il ruggito era composto di parole, parole rozze piene di grugniti, gorgoglii e ringhi. «Io adora vergine. Dammi vergine. Io fame. Tanto male.» Era una voce, pensò Delois convulsamente, da far cagliare il latte nelle mucche ed ululare i cani di terrore. Rannicchiando i piedi sotto di sé deglutì, soffocò, e fu seccata di trovarsi la bocca asciutta. Si schiarì la gola tentativamente prima di provare la voce. La bestia invisibile continuava il suo rumoroso avanzare, sbuffando e sbavando. «Elron, ora voglio che tu fugga. Avanti, svelto. È meglio così.» Sfortunatamente la sua voce, tesa e un po' tremante, sembrò destarlo dalla posizione di statua con una torcia in mano che aveva assunto alle parole della bestia. Scuotendosi, gettò la torcia in una pozza di acqua piovana ed estrasse il suo coltello da cintura, un'arma misera più adatta alla tavola che al combattimento. Il ragazzo lo brandì selvaggiamente verso l'oscurità. «Vergine, carina vergine, vedo io. Vieni, carina vergine. Io fame!» Se si poteva dire che quella voce disumana aveva delle emozioni umane, allora l'orco doveva essere allegro... e bramoso. «Addio, Delois. Vorrei averti baciato almeno una volta.» La torcia si spense con uno sfrigolio e l'ultima cosa che Delois vide fu la sua carica urlante giù per i gradini del tempio verso un'ombra mostruosamente grande. «Elron, no! Non fare il pazzo. La tua morte non servirà a niente. Torna indietro! Almeno prendi la torcia.» Ci fu un'altro ruggito, un'esplosione di suono avviluppante, poi il grido di un topo preso da un gatto e, infine, il tintinnare acuto del metallo sulla pietra. Il ruggito si abbassò a un brontolio come di tuono lontano, ed Elron
singhiozzò di paura. Delois pianse il ragazzo stupido ma coraggioso e desiderò di poter cancellare i suoi ultimi, orribili momenti. Comunque, il brontolio ed i singhiozzi si fecero sempre più deboli, come se la distanza aumentasse. Anche l'aria aveva un odore più pulito. Dimenticando la sua situazione, Delois chiamò. «Elron?» Rispose un ruggito esplosivo e lei si interruppe subito. Col cuore che le batteva, cercò di interpretare gli strani eventi degli ultimi minuti. «Attenta. Ne dubito, ma potrebbe tornare.» Delois si voltò di scatto con uno sferragliare di catene, cercando quella voce fredda, divertita. «Chi è là?» Una torcia si accese, rivelando una faccia liscia e tonda dominata da un grande naso e coperta da un cappuccio di maglia di ferro. Un profondo inchino beffardo scostò un lungo mantello nero da un corpo massiccio rivestito da un'armatura di maglia ed una spada logora. «Dakra, la Reclutatrice Reale, al tuo servizio. Se stai ferma, vedrò di toglierti quei ceppi. A meno che non ti piaccia la gioielleria pesante.» Si avvicinò e si chinò sui ceppi con una rozza chiave. Che cosa sapeva lei di Dakra? Niente. La sera prima era stata soltanto una figura piuttosto grande e indolente in mezzo agli altri viaggiatori che si erano rifugiati nella buia locanda. Almeno Dakra, bisognava riconoscerglielo, non aveva preso parte alla sua cattura. L'ultimo ceppo cadde in un clangore metallico e Delois lo allontanò con un calcio. «E Elron? Perché non l'hai aiutato?» «Quello sciocco ragazzino?» rise lei. «Non avevo il minimo interesse per lui. Era te che volevo salvare. Tu sei molto più... attraente... per me. A proposito, ti ricordi di quello che hai promesso a Elron? Qualcosa a proposito del tuo affetto, il tuo rispetto e la tua gratitudine?» Delois abbassò la testa e fece una smorfia. «Sì, e io pago i miei debiti, ma non posso andarmene senza prima cercare di salvare Elron da quel mostro.» «Oh, è del tutto al sicuro per quanto riguarda l'essere ucciso o mangiato. Ad onta della loro terribile reputazione, gli orchi non uccidono né mangiano uomini. Comunque, se insisti ad andarlo a cercare, non posso garantire per la tua sicurezza.» «Ma se l'orco non l'ha preso per ucciderlo o mangiarlo, perché l'ha fatto?» «Era un'orchessa, non un orco. Mi sono presa la libertà di guardare da una fessura della persiana ed ho notato certe, ah, caratteristiche che a una
donna di mondo come me indicavano che si trattava della femmina della specie.» Delois si riprese in fretta. «Così era una femmina e non un maschio. E che differenza fa per Elron?» «E chiaro che non capisci come va il mondo e come vanno le orchesse. La razza orchesca è solitaria e in via di estinzione. Mi figuro che la poveretta non vedeva un maschio della sua specie da un bel po' di tempo. In più, la sua padronanza della lingua umana è scarsa. Ma è stata chiara su un punto, però: voleva una tenera vergine. E ne ha avuta una, del resto.» «Vuoi dire... Elron?» «Sì, io credo che questo dovrebbe fargli passare il suo acne. Ma non preoccuparti. Le orchesse sono dei tipi volubili, e lui se ne tornerà a casa zoppicando tra qualche giorno. Però, se tu o qualcun'altro li insegue, è capace di uccidere il ragazzo ed i soccorritori. Quando sono in amore, sono estremamente gelose.» Delois, comprendendo inorridita, fu presa da un folle desiderio di ridere, quel genere di riso che viene quando si è troppo imbarazzati per fare qualsiasi altra cosa. «Povero Elron» boccheggiò. Poi si indurì. «Ma tu? Che ricompensa reclami per il mio salvataggio?» Dakra ebbe uno sguardo cupido. «Il tuo corpo e quattro anni della tua vita.» Delois barcollò, sentendosi l'amaro in bocca «Tu... E così sia. Sarò la tua schiava e dividerò il tuo letto ma niente di più.» «Oh be', non si può avere tutto. Ma non è per me.» Mise la mano nella sua borsa e ne tirò fuori un pezzo di pergamena. «Basta che tu metta il tuo segno qui, ed io mi terrò l'argento del Re... grazie... per il mio disturbo.» «Cosa?» «Firma il tuo foglio di reclutamento, cara. Sei appena in tempo per l'offensiva del Re contro il drago. Non è schiavitù; è un'avventura.» Titolo originale: Hunger Traduzione di Marina Nunzi LA PRIMA VOLTA CHE LESSI LE INDICAZIONI DELLA BRADLEY, OVVERO STORIE CHE NEANCH'IO VORREI LEGGERE
di Elizabeth Thompson Nel lavoro di preparazione per questa antologia ho stabilito una serie di indicazioni per i collaboratori. Oltre a ricordare agli scrittori le regole per una presentazione professionale, ho elencato circa dodici raccontibase già fin troppo sfruttati. Mi pare di aver aggiunto, comunque, che avrei infranto qualsiasi regola se lo scrittore fosse riuscito ad evitare da parte mia la reazione "Oh no, basta con questi racconti". Uno dei divieti che avevo sottolineato era "Niente poesie", ma questa si è rivelata così divertente che ho voluto condividerla con i lettori. C'è una storia che mi fa annoiare di una ragazza discinta e il suo signore la ragazza, che non vale niente se ne sta lì mentre lui con la spada i cattivi abbatte. Credo di aver letto anche questa: c'è una maga sexy e bella con bianche e abbaglianti cosce ed un vecchio mago astuto che tutti i trucchi conosce. E che dire di questa? Gratuite violenze, un mucchio di sangue una strega vecchia e zitella un Conan in gonnella e una Dea in persona; ho letto anche quella. C'è una principessa che parte un giorno a cercar qualcosa con il suo unicorno. Lei è dolce e pura e ha tanta paura e l'eroe... ma il resto si sa. C'è una donna che è un porco sciovinista con un aiutante grosso e casinista. È stupido e maldestro
e obbedisce ciecamente a quella lestofante. C'è una donna risoluta che deve trovare un eroe in cui credere. La morale della storia è che la libertà non dà gioia quanto l'amore (o la lussuria). C'è una comunità idealistica, una sacerdotessa sadica e lesbica, e una donna che può annullare la Magia del suo oppressore. Sfida al maschio caratteristica. E poi le solite romanticherie: uno stupido in una storia piena di fesserie la cui sola soluzione è una grande istituzione del Romanzo - ed altro non v'è. C'è poesia epica, scadente e pretenziosa; e poi ce n'è a iosa di roba rozza e pomposa falsa, preistorica e fantasmagorica. Donne che odiano gli uomini, e polemica femminista mascherata da storia di come delle donne la gloria fare a meno degli uomini è. Vorrei leggere nuove storie eccitanti o serie magari leggere e divertenti ma pur se non sono portenti esser ben scritte dovranno.
Titolo originale: On First Looking Into Bradley's Guidelines, or Stories I Don't Want to Read Either Traduzione di Marina Nunzi LA FANCIULLA PRESCELTA di Raul Reyes Quando ero una bambina che cominciava appena a leggere fantascienza e fantasy sulle riviste "pulp" di avventura, le copertine mostravano invariabilmente la figura di una fanciulla discinta che veniva osservata vogliosamente «o famelicamente» da qualche tipo di mostro con occhi da insetto. A causa di questa vergine così poco vestita, i miei genitori non approvavano che io leggessi quel genere di cose. Inutilmente cercavo di convincerli che quelle storie erano immancabilmente pure come Elsie Dinsmore; la loro risposta era "Allora perché ci mettono quella copertina?". Non avevo una risposta allora e non l'ho adesso, eccetto che forse, in quei giorni, la lettura del fantasy era considerata poco virile, ed una "donna sexy" sulla copertina significava che un uomo poteva farsi vedere a leggere quelle pubblicazioni senza timore di essere deriso, dato che quella era "roba da uomini" piena di sesso e sangue. Nei decenni che sono trascorsi da quando ero bambina, le riviste "pulp" sono scomparse, e le edizioni economiche che le hanno sostituite sono consapevolmente dirette ad un pubblico per metà femminile; non cercano più di attirare i lettori con false promesse di delizie pornografiche. E nemmeno il mostro voglioso dagli occhi da insetto è più ricomparso. Ma anche allora non ci credevo; conoscevo abbastanza la biologia per sapere che, se il mostro dagli occhi da insetto aveva un qualche interesse nella fanciulla, era per considerarla come cena piuttosto che come oggetto di desiderio. Questa che è la terza delle nostre storie sulla "Fanciulla Prescelta" pone direttamente la domanda sul perché un drago, o qualsiasi altro mostro divora-fanciulle, dovrebbe preoccuparsi della moralità della sua vittima sacrificata. Raul Reyes è un giovane scrittore di Berkeley, che ha lavorato per il corpo dì polizia. Questo è il suo primo racconto professionale.
«Ma io non voglio essere vergine!» gridò Stephanie. «Lo detesto, lo detesto!» «Smettila» la rimproverò sua madre. «Cosa credi di essere? E poi che penseranno i vicini se ti sentono?» «Non mi importa» gridò ancora Stephanie. «Non mi piace. Anika è già incinta di tre mesi e deve sposare il suo ragazzo la prossima festa. E Tormira è già andata con metà dei ragazzi del villaggio e forse con altrettante ragazze, mentre io sono qui, mai toccata in tutta la mia vita. Perché dovrei essere punita per la virtù? E mi hanno detto che sono carina!» «Ma davvero?» chiese Lauranne malignamente. La sorella più piccola aveva una faccia paffuta, ed un carattere placido che ben si adattava. Stava leccando un cucchiaio metà coperto di sciroppo dolce. «Io credo» disse lentamente, con malizia, «che tu abbia paura di finire dal drago la prossima festa.» «E allora?» chiese Stephanie per tutta risposta. «Tu ci vorresti finire nella pancia di un drago come sacrificio?» «Non parlare così» l'ammonì la madre. «Come fai a sapere che toccherà a te? Quest'anno ci sono più di trenta nomi in ballottaggio; non è molto probabile che tu venga scelta. Abbiamo un buon raccolto di vergini quest'anno.» Stephanie non rispose. Restò imbronciata, portando alla bocca cucchiaiate di minestra e fissando accigliata la sua ciotola. Sapeva che le sue possibilità di essere scelta erano più che uguali a quelle delle altre. Tutti sapevano che a volte la lotteria era truccata, come tre stagioni prima quando Jaimy era stata la favorita in tutte le scommesse. Quest'anno il nome di Stephanie sarebbe stato sopra più della metà dei bigliettini, e per la stessa ragione. E così come aveva fatto Jaimy, aveva resistito alle proposte di Ottar, Gran Sacerdote del tempio. Ottar, che differiva dal resto degli altri preti del tempio del villaggio solo perché era più spregevole di loro. Meglio la pancia del drago! «Allora, continuò Lauranne con voce dolce e appiccicosa come lo sciroppo che stava leccando» se ti preoccupa davvero c'è sempre qualcosa che puoi fare in proposito. «Fece un sorrisetto malvagio alla sorella più grande, poi strillò quando il pugno della madre le scosse la testa.» «Che razza di linguaggio!» sbottò la madre. «Ma che fine farà questa nuova generazione? Non stare a sentire le sue malignità» continuò, rivolta a Stephanie. «Essere una fanciulla virtuosa è una cosa molto bella. Non badare a chi ti dice il contrario. Quando troverai marito ti accorgerai che tutto quel vizio non è così piacevole come lo presentano a parole» conclu-
se con sussiego. «Sembra che a te piaccia!» ribatté Stephanie, e poi strillò a sua volta quando sua madre la schiaffeggiò. «Allora hai ascoltato di nuovo dalla serratura!» gridò. «Per questo te ne andrai a letto senza cena.» Stephanie alzò la testa per guardarla, con gli occhi fiammeggianti, poi si alzò stizzita ed uscì a precipizio per andare in camera sua. Stesa sul letto, sola, gli occhi fissi verso l'alto nell'oscurità, rifletteva sulle vie del destino. Già nel suo sedicesimo anno, con un giovane corpo snello e saldo ed un viso piuttosto grazioso, non aveva nessun innamorato in un villaggio dove l'annuale sacrificio di una vergine rendeva l'essere in questo stato una benedizione piuttosto dubbia. Per come andavano le vergini, lei era già una vecchia zitella! Ma lei non era stata veramente graziosa fino a che il suo viso non era sbocciato durante l'anno passato. Come fortuna aveva voluto, era stato Ottar a notarla per primo. Fissò minacciosamente gli occhi nell'oscurità, e prese la sua decisione con una risolutezza più grande di lei. Non sarebbe finita dentro la pancia di un drago. Il giorno successivo spuntò bello e luminoso. Il cielo azzurro chiaro e l'aria frizzante di primo autunno facevano una bella combinazione. Si vestì con cura, con abbastanza modestia perché sua madre non dicesse nulla, ma con la camicetta coi bottoni davanti, che avrebbe potuto lasciare aperti in modo da far vedere la rotondità superiore dei suoi giovani seni sodi. Con un po' di fortuna, alla fine della giornata non sarebbe più stata cibo per draghi. Aveva già scelto la sua preda: Neil, che aveva capelli neri e lucidi, chiari occhi azzurri, ed una figura giovane e forte per il lavoro nei campi di suo padre. Poteva andare, pensò lei. Poteva andare proprio bene. «Stephanie» disse il ragazzo, scosso. «Ma che dici? Pensi forse di essere una comune ragazza del villaggio, da prendere sconsideratamente? Ho troppo rispetto per te per non trattarti come una fanciulla virtuosa.» Si chiamava Eric, era quasi la fine della giornata, e Stephanie stava diventando piuttosto impaziente. «Ma non troppo rispetto per salvarmi da un destino peggiore delle tue goffe effusioni?» avvampò lei. Il viso in fiamme, pestò i piedi, con uno sguardo che trapassava. Neil era rimasto indifferente al suo fascino, perché il suo interesse era tutto rivolto al suo nuovo amico, un ragazzo piuttosto bello di una fattoria vicino, con capelli come fili di granturco ed occhi blu quasi come i suoi. Eric era stato la sua seconda scelta. Non aveva previsto un attacco di cavalleria.
«Stephanie» disse lui, cercando di essere comprensivo. «Sei fuori di te. Lo sai che con più di trenta fanciulle quest'anno hai poche probabilità di essere scelta per quell'onore.» Era sorprendente come poteva essere blu il cielo, pensava lui. Anche visto con un occhio solo era di un azzurro autunnale chiaro e brillante che gli toglieva il respiro. L'altro occhio si stava già gonfiando a causa del pugno di Stephanie, e lui era disteso sulla schiena, molto conscio che una pietra stava lasciando un grosso segno sul suo rene sinistro. «Era così ottuso» diceva Stephanie. Sedeva insieme alla sua amica Lisette, una graziosa ragazza di quindici anni già al sicuro ben oltre lo stato verginale. «Ho fatto di tutto eccetto legarlo, e lui si mette a parlare come fossi la dama di qualche signore che bisognava salvaguardare per qualche matrimonio diplomatico.» «Non è tanto ottuso» replicò la ragazza più giovane. La vergine del sacrificio non deve essere per forza una ragazza. Certi anni è stato anche un ragazzo. E tutto il villaggio sa che hai respinto Ottar. «Stephanie alzò gli occhi, esterrefatta. Lisette annuì saggiamente.» Più piccolo il villaggio, più grandi i pettegolezzi «citò.» I ragazzi sanno che se impediscono la meschina vendetta di Ottar potrebbero essere loro a saltare la tavola la prossima festa. E dato che non hanno un mezzo per provare che non sono vergini, non osano offenderlo. Non puoi biasimarli se lo spavento li irrigidisce. «Magari fosse!» pianse Stephanie. «Questo è il problema!» Soffiò rumorosamente nel suo fazzoletto. «Non è giusto» disse. «Non avrò nemmeno una scelta.» «La vita non è giusta» citò ancora Lisette. «Ecco quello che ha detto il nostro re Cartoris.» Alzò la testa al suono delle campanelle della cena che squillavano per tutto il villaggio. «Ora di mangiare» disse. «Ci vediamo domani.» in un attimo se n'era andata, lasciando Stephanie a tornare lentamente a casa, sconsolata. «Ho saputo che hai avuto poca fortuna oggi.» Lauranne fece un sorrisetto mentre la madre voltava loro le spalle. Il padre aveva finito il pasto ed era uscito per chiacchierare con gli altri uomini del villaggio, com'era sua abitudine. A parte la madre c'era solo il vecchio Zio Willis nell'angolo a tenere loro compagnia. Stephanie era accigliata, parlava poco. «Sembrava che dopotutto dovrai saltare dalla tavola» proseguì Lauranne. Il sorrisetto svanì quando la madre tornò con il budino per dolce. Stephanie toccò appena la sua porzione. Questo fece accigliare il viso di solito placido della madre.
«Sei ancora preoccupata di venire scelta?» chiese, accarezzando le trecce lucenti di Stephanie. «Non devi. Ed anche se lo fossi, è un onore. Non vorrai che il drago lasci il suo antro nel vulcano e distrugga le campagne?» chiese. «Tutti dobbiamo avere le nostre occasioni e qualcuno deve impedire questa calamità. Pensa alla tua prozia Gwennis, che fece un bellissimo volo del cigno quando è stata scelta, o alla figlia di Torrin dodici anni fa, che fece una tripla piroetta saltando dalla tavola.» Guardò lontano. «No» disse, «di vergini così non ce ne sono più.» «Ne so qualcosa io» sghignazzò il vecchio Zio Willis dall'angolo. «Lo so io.» «Zitto» l'ammonì la madre, colpendolo forte sulla testa con un pesante mestolo di legno. «È questo il modo di parlare a delle fanciulle? Dovresti vergognarti di te stesso.» Stephanie finì la cena, il germe di un'idea nella mente. Il vecchio Zio Willis non era l'unico vecchio sporcaccione del villaggio. C'era il Vecchio Sam, il marinaio, che si diceva in gioventù fosse stato un pirata e che certamente nessuno dei sacerdoti poteva accusare di verginità. Era orbo, volgare, rozzo e sporco, ma certamente era un'alternativa migliore di un drago. Era un'altra limpida giornata d'autunno quando Stephanie si mise di nuovo alla ricerca. Qualche passeggiata davanti alla baracca del Vecchio Sam nel corso delle sue commissioni bastò per attirare la sua attenzione, e alla fine della giornata lui sedeva su uno sgabello fuori dalla baracca, con l'occhio libidinoso che seguiva ogni suo movimento. «Ah, bella mia» biascicò perversamente mentre lei passava con una brocca d'acqua in equilibrio sulla testa. «Sei maestosa e con tutte le vele al vento, sei. Come una corvetta che taglia le onde dei Mari del Sud, sei.» Lei gli sorrise, fermandosi con un fianco maliziosamente in fuori. «Mi fai girare la testa con un discorso come quello» disse. «Ah» rispose lui «tu mi fai girare la testa, come l'ago della bussola nella tempesta mi fai girare.» Stephanie posò la brocca a terra accanto a lui, e guardò il vecchio pirata con un sorrisetto impertinente sul viso. «Oh» disse, «tu sei un vecchio malvagio, che può facilmente portare una fanciulla sulla cattiva strada.» «Già» sghignazzò lui. «Già, e poi seguirei dritto quella rotta anch'io.» Lei gli sorrise ancora, ignorando il puzzo di rum del suo alito. Certamente era meglio dello zolfo dì un drago! «Può anche essere stato un pirata in gioventù» si lamentò Stephanie più
tardi con Lisette «con una ragazza in ogni porto. Ma non c'è più vento nelle sue vele fin da prima che nascessi!» soffiò nel suo fazzoletto, che certo ultimamente era stato usato molto. Lisette gliene diede uno pulito. «Tutti hanno giornate storte» commentò. «Forse domani andrà meglio.» Stephanie soffiò rumorosamente nel fazzoletto pulito. «No» pianse. «Sono condannata al drago di sicuro!» Quella sera la cena fu silenziosa. Anche la madre sembrava aver avvertito il senso di disperazione. Cucinò una torta di mirtilli che normalmente a Stephanie piaceva moltissimo. Lauranne prese la sua parte, ed anche quella di Stephanie, quando lei mostrò scarso interesse. «Tutti abbiamo il nostro destino» disse la madre mentre si sparecchiava. «Proteggere la valle dalle scorrerie del drago è un buon destino.» «Questo è tutto quello che sono per te?» gridò Stephanie all'improvviso. «Cibo per draghi?» gettò il tovagliolo e corse in camera sua, chiudendo a chiave la porta e gettandosi sul letto a piangere tutte le sue lacrime. Saggiamente sua madre non la seguì. Più tardi quella notte, sola nella sua stanza buia, Stephanie considerava le sue alternative. C'erano altri ragazzi, ragionò, fuori dal villaggio e fuori dalla portata dei sacerdoti. Uno di loro doveva andare bene. Ultimamente c'era stata un'abbondanza di limpide giornate d'autunno, ed il giorno seguente non fece eccezione. Stephanie si allacciò il mantello contro il freddo del mattino e prese in mano il suo cestino, annunciando che andava a raccogliere bacche. Una volta uscita prese la strada che conduceva fuori città passando per un bosco fuori dal villaggio sul fianco del torreggiante vulcano dove dimorava il drago. Si diceva che il taglialegna avesse un figlio giovane e bello. Lui poteva andare molto bene. In breve tempo Stephanie dovette ammettere che era riuscita a perdersi. Il bosco era in realtà una piccola foresta, e lei non era mai andata così lontano dal villaggio. Si guardò intorno. Tutti gli alberi sembravano uguali. Respirò lentamente. Pensa, si disse. E adesso? Socchiuse gli occhi, osservando un mucchio di rocce parzialmente arrampicate su per la collina, dominato da un massiccio affioramento di opaca pietra marrone. Quello poteva essere un buon punto d'osservazione. Si incamminò in quella direzione. Al limitare della distesa di rocce si fermò per riprendere fiato, guardando l'erba marrone e il terreno roccioso intorno a lei. Proprio deprimente, davvero, pensò. Più in su c'era la grossa roccia verso cui si stava dirigendo.
Raccolse il suo cestino per rimettersi in marcia quando il cuore le si fermò all'improvviso. La grossa roccia si era mossa. Per lungo tempo rimase ferma come le rocce intorno a lei. Poi lentamente cominciò a rifare il cammino all'indietro. Con la stessa perseveranza che aveva mostrato fino ad ora, la sfortuna seguitò ad accompagnare i suoi passi: calpestò un rametto. Con tutta la minacciosità di una nube in tempesta il drago alzò la testa, occhieggiandola da una maestosa altezza. «Salve» disse lei. «Come va?» «Bene» replicò il drago. «E a te?» «Bene» rispose Stephanie, piuttosto contenta di essere riuscita a non balbettare. Si guardò intorno, erano tutti soli. «Bella giornata, vero?» proseguì. Non era un dialogo molto originale, ma cosa si dice a un drago? Lui sembrava rendersi conto della mancanza di argomenti di conversazione in comune e si limitò ad annuire, mettendosi poi a perlustrare il terreno roccioso circostante. «Mi scusi» continuò Stephanie. Il drago si voltò a guardarla. «Uh, cosa sta facendo?» chiese. «Cerco la mia cena» rispose lui. Con una facilità che era allarmante rovesciò una roccia della grandezza della capanna di un contadino scoprendo una tana di marmotte di montagna, ognuna grande la metà di una pecora e grassa dopo una estate rigogliosa. Come un lampo guizzante la sua lingua forcuta scattò una volta, due, tre, ogni volta facendo di una grossa marmotta un succulento bocconcino da drago. Stephanie dovette ammettere che era rapido, il che le diede un po' di sollievo. Almeno non doveva preoccuparsi del dolore, se e quando sarebbe stato il suo turno. «È questo quello che mangia?» chiese, incuriosita dallo spettacolo. Lui annuì, guardandola un po' alla maniera di uno zio. Veramente, pensò lei, non era tanto male per essere un drago. «Tra le altre cose» disse il drago. «Cose come le vergini?» chiese Stephanie, raccogliendo il suo coraggio. Lui la osservò dall'alto. «Quando e se vengono offerte» rispose. «Ma non sono quello che preferisco.» «Non lo sono?» chiese Stephanie, sorpresa. «Fuoco e fiamme, no» sbuffò lui. «Quelle cosette magre, con appena un po' di carne sulle ossa.» «Ma i sacerdoti dicono che lei vuole delle vergini» disse lei. A questo il drago sbuffò disgustato. «Che vuoi che m'importi della vita privata di una giovane donna?» disse.
«Ho già abbastanza guai per conto mio. Non che io abbia una vita privata» continuò. «Tutti i miei amici e tutti i draghi femmina sono lontani a Sud, in terre più calde. Ed io sono bloccato in questo miserabile posto, dove è difficile che ti capiti un pasto decente e tutto quello che mi portano sono vergini ossute. Ora, se vuoi scusarmi.» Si allontanò da lei, rovesciò un'altra roccia, e mangio un'altro po' di marmotte. Lei osservò il drago mangiare, ed un'idea cominciò a prendere forma della sua mente. «Uh, signor drago» disse. «Possiamo parlare?» Lui tornò a guardarla a lungo, poi si mise seduto sulle zampe posteriori e le fece cenno di cominciare. Il giorno della festa furono rallegrati da un'altra giornata limpida. Proprio come si aspettava, il suo nome era stato estratto nella lotteria, e tutte le altre fanciulle avevano espresso il loro sollievo congratulandosi con Stephanie per la sua selezione a quell'onore. Ora, tutta vestita di bianco e oro, guidava la processione su per i pendii del vulcano portata su un palanchino sorretto dai giovani del villaggio. I sacerdoti del tempio in abiti rosso e oro dondolavano incensieri e cantavano inni, guidati da Ottar, la sua massa ballonzolante oscena nei suoi paludamenti. Giunsero abbastanza presto al bordo del vulcano, dove il trampolino li aspettava. Molto più in basso potevano sentire il rumore del drago che saliva le pareti interne del cratere. Ottar dirigeva i canti e le preghiere. «Noi ti invochiamo, o maestosa viscidezza» intonò, «per accettare la nostra umile offerta nello spirito con cui la offriamo.» Fu bruciato altro incenso, e cantati altri inni. Il rumore di scaglie sui sassi diventò più forte. Sotto la sua calma esteriore, il cuore di Stephanie batteva a precipizio. E se il drago aveva mentito? con studiata compostezza lasciò che Ottar la aiutasse a scendere dal palanchino; ma invece di andare da sola sul bordo del cratere e poi sulla tavola fece cenno che lui stesso doveva accompagnarla al trampolino. Con un'alzata di spalle Ottar le fece strada, seguito da dodici sacerdoti salmodianti. Il rumore di scaglie strofinate sulle rocce si alzava dal cratere fumante. Ottar e gli altri rimasero sul bordo mentre lei salì da sola sul trampolino, col cuore che le batteva forte. Guardò in basso nel fumo e nella polvere roteanti; un'ombra più scura divenne più visibile, prese forma in un'immagine distinta. Era il drago. «Signor drago» chiamò lei. «Sono io. Sono qui.» «Lo so» borbottò lui in risposta. All'improvviso eccolo sul bordo del cratere, appoggiato sugli avambracci, a guardare con interesse verso la folla. Il suo sguardo si fermò su Ottar e il suo gruppo. La lingua scivolò fuori, le
due punte come serpenti ondeggianti davanti al flauto dell'incantatore. «Potente drago» intonò Ottar «accetta la nostra offerta.» «Grazie» rispose il drago, la sua voce come un rombo di tuono. Continuò a guardarli. «Uh, speriamo che tu gradisca la vergine» proseguì Ottar, meno sicuro di sé. Cos'è che non andava alla bestia? «E perché dovrei?» chiese il drago placidamente. Ottar sembrava sconcertato. «Allora» chiese «cosa ti piacerebbe?» Il drago sorrise. «Qualcosa di grasso» disse. «Grasso?» squittì Ottar. «Grasso» confermò il drago. Con la velocità di un airone che cala dall'alto e infilza il pesce la sua lingua guizzò, afferrando la massa di Ottar fra le estremità forcute. In un attimo Ottar era in aria, ed ebbe appena un momento per gridare prima di sparire mentre la lingua guizzava un'altra volta, intrappolando il secondo sacerdote della fila. Anche lui sparì, poi quello dopo e quello dopo ancora. A quel punto i rimanenti inquilini del tempio si erano dati alla fuga, ma pagarono il prezzo per gli anni di vita comoda e il grasso accumulato, e la lingua li raggiunse tutti riunendoli al loro capo di una volta, Ottar. Con un rigurgito soddisfatto il drago osservò gli abitanti del villaggio che fuggivano, e guardò Stephanie con la coda dell'occhio. «Davvero un buon pasto» disse. «Grazie tante.» La sua lingua si allungò, stavolta più lentamente ma sempre troppo rapida da evitare, la sollevò dal trampolino alzandola nell'aria e la depositò sul terreno solido. Con un'ultima strizzata d'occhio il drago scivolò giù nell'oscurità. Fu una cena di bentornato molto allegra quella che le imbandì la sua famiglia quando Stephanie tornò quella sera. Gli abitanti del villaggio si stavano ancora abituando all'idea di non dover più sacrificare giovani vergini, anche se alcuni dei cittadini più corpulenti sembravano un po' preoccupati per il loro futuro. Sua madre le aveva preparato la sua torta di mitilli preferita, e per una volta sua sorella non cercò di prenderle la sua porzione. «Forse potremmo attirare qualche sacerdote dal villaggio in fondo alla strada per l'offerta dell'anno prossimo» diceva Lisette. «Forse» rispose Stephanie con la bocca piena di torta di mirtilli. «Ci dovremo pensare.» Furono interrotte da un grido proveniente da fuori. Posando le forchette si precipitarono tutti fuori per trovare tutti gli abitanti del villaggio che guardavano verso l'alto. Non appena i loro occhi si abi-
tuarono al crepuscolo videro la causa delle grida: il drago stava lasciando il cratere, con le ali gigantesche che battevano l'aria mandando un fragore di tuono in ogni direzione. Volò intorno al villaggio, abbassando le ali in saluto, poi virò verso sud e presto scomparve nel cielo notturno. «Se n'è andato» disse Lauranne inutilmente. Tutti annuirono in assenso, e all'improvviso si misero a chiacchierare per il sollievo. «Se n'è andato!» gridavano tutti. «Se n'è andato!» Spuntarono sorrisi, si udirono risate. In un attimo tutto il villaggio faceva le capriole come un branco di stupidi. Lisette e Stephanie si abbracciarono. Lisette fu sorpresa di vedere lacrime negli occhi dell'amica. «Non dirmi che ti manca!» esclamò. Stephanie alzò le spalle. «Non era tanto male per essere un drago» rispose. «Bene» disse Lisette con fare burbero. «Se n'è andato, e ora forse potremo cominciare a cercarti un innamorato!» «Domani» rispose Stephanie. «Oggi è stata una lunga giornata.» Titolo originale: The Chosen Maiden raduzione di Marina Nunzi PERLE ROSSE di Richard Corwin Da un nuovo scrittore, la storia di una maga e della sua vendetta, fantastica e pittoresca. Richard Corwin è un giovane laureato, artista/fotografo, e lavora attualmente nel campo dell'educazione nella prima infanzia, ma questo racconto decisamente non è adatto ai bambini. "Per le cinque persone che mi hanno detto che avrei dovuto scriverla in ogni caso". Iniziò col battito dei tamburi. Un battito lento, sonoro, ritmico, ipnotico, nell'aria immota della notte. Mani segnate dal tempo stringevano bacchette segnate dal tempo; spesse come il polso di un uomo, lisce e consumate a forza di battere su pelli di cavallo tese. Segnavano un tempo lento come un battito di cuore che guidava i danzatori del circolo nei loro fluidi movimenti sincroni. Piedi nudi battevano leggermente al tempo del ritmo ag-
graziato, mentre i danzatori tracciavano sulla sabbia un disegno a stella accuratamente coordinato. Il secco turbinare di maniche di seta circoscriveva archi ondeggianti, gettando ombre su volti dipinti di bianco, che balenavano rossi alla luce del fuoco. Il battito di tamburi raddoppiò e crebbe d'intensità. Con il contrappunto di tamburi supplementari dal suono più acuto, i danzatori volteggiavano, sollevando polvere rossa. Turbinante e girando vorticosamente intorno al circolo, il Kojiro-Dahaka vestito di bianco fece battere le mani a coloro che si trovavano oltre il cerchio, a ritmo sincopato con quello dei tamburi. L'incantesimo divenne ipnotico. Avvolgente. Attanagliante. Accecante. La polvere-fumo si congelò sotto forma di colonna al centro del cerchio. Piegandosi, turbinando e contorcendosi giunse a prendere la forma di polvere di sangue. E la trasfigurazione ebbe inizio. I canti si condensarono in un lamento mentre l'incantesimo si rafforzava, fino a che la polvere diventò color cremisi in un'esplosione di luce e colore, lasciando una forma al centro della nebbia che si diradava. La figura di Ranghi apparve avvolta in seriche ragnatele, eccetto una mano femminea tesa in un gesto congelato di attesa. Il battito dei tamburi svanì fino a che solo un paio di mani battevano il ritmo della musica. Il Kojiro entrò nel cerchio dei danzatori portando un paio di guanti di cuoio tinti del colore del sangue, ricamati con fili d'argento e perle rosse. Avvicinandosi al bozzolo, mise i guanti nella mano aperta. Unghie color rubino si chiusero lentamente e con rigidità intorno ad essi. Un sospiro leggero e lontano si udì dall'interno del bozzolo prima che si disintegrasse in migliaia di frammenti di filamento fluttuanti. E lentamente, la forma all'interno venne rivelata. Racchiusa in un'armatura brunita di rosso e adorna di rubini, perle rosse e filigrana d'argento che segnavano delle curve accentuate; lisce superfici color del sangue che a volte ricordavano draghi, a volte leoni. L'elmo cesellato color rubino si adattava comodamente alla testa, e portava scolpito il simbolo di un drago che stringeva fra gli artigli una sottile luna d'argento. Una coda di capelli rosei fluiva da un'apertura dell'elmo ricadendo oltre le spalle. I suoi occhi erano d'oro, la pelle d'argento. Labbra color del corallo si mossero. «È primavera, vero?» «Sì, Houri-Ranghi» rispose il capo Dahaka. Ranghi era stata il capo della sua tribù per trecentocinquanta anni. Ricordava tempi passati quando i Dahaka erano stati a migliaia. Ora ne erano rimasti solo ventisette. Al tempo di suo padre era iniziata una guerra fra lo-
ro e gli Asana; era degenerata in una faida di estinzione in cui lei era rimasta la loro ultima maga sopravvissuta. Nel freddo Inverno dell'anno prima aveva ingaggiato la sua battaglia all'ultimo sangue contro Ameshet, l'ultimo mago degli Asana, nel deserto di cenere vicino al Fiume Nero. Si erano battuti per tre giorni, assumendo le forme di orchi, mezze-bestie, demoni, usando qualsiasi arma potevano evocare. Ma Ameshet era più forte. Aveva assunto una forma più potente di tutte quelle che poteva assumere Ranghi. Aiutato dalla fortuna, l'aveva intrappolata ed aveva tagliato il suo corpo in cinque pezzi, fino a che non aveva trovato il cuore. Poi glielo aveva strappato, ed eseguito un rituale per rafforzarsi mangiandolo; così era diventato un cuore in più che batteva per lui. Ranghi era morta lentamente: aveva impiegato nove giorni. Dopo che Ameshet l'aveva lasciata a morire, aveva iniziato a tessere un ultimo incantesimo che le avrebbe permesso di tornare sulla terra per ottenere la vendetta su Ameshet. Prima di morire, Ranghi aveva chiamato Gabbath, il suo Kojiro-Dahaka, e gli aveva detto di seppellire il suo corpo nel deserto di cenere, dove le spalle della terra erano forti. Gli aveva dato istruzioni di tornare da lei alla luna nuova dell'inizio di primavera, e richiamarla con i tamburi tribali. Poi aveva dato i suoi guanti a Gabbath e gli aveva detto di restituirglieli quando avrebbe ripreso forma in un corpo di polvere. «Mi ridaranno un po' del mio potere» gli aveva detto. «Per mezzo dei tamburi sono stata riportata in vita» disse alla sua gente. «È per mezzo dei tamburi che posso essere sostenuta quando la magia non può essere di aiuto. Battete i tamburi per cento anni se ce ne sarà bisogno, ma non venite meno. Io sono l'unica speranza che hanno di Dahaka per sconfiggere Ameshet. Io sono debole. Il potere della mia magia non è forte senza un corpo di carne. Il mio corpo è di polvere, quindi voi dovete essere la mia forza. Le vostre mani debbono essere il filo che mi tiene su questa terra. Io non vi deluderò. Vi prometto di tornare da voi, come ho già promesso di tornare una volta.» Mentre parlava, la polvere dell'aria si raccolse intorno a lei, formando un paio di bellissime ali d'oro. Senza peso, si alzò da terra e cominciò a volare verso nord, verso la sua battaglia finale. Dietro di lei i tamburi facevano coro in ritmi complessi, sfumando lentamente in suoni deboli, distanti nella notte lontana. Muovendosi attraverso il cuore dei venti notturni del deserto giunse nel luogo dove torri d'alabastro si innalzavano su bianche sabbie. Atterrando
nel pergolato dei giardini, fatto di colonne di basalto lucido coperte di rampicanti pieni di fiori azzurri, si avvicinò ad una porta di avorio scolpito. Due muscolose sentinelle taciturne si trovavano davanti ad essa, le mani appena strette intorno a lance dall'asta di cristallo e la punta di ammonite. Con un solo gesto, anche le solenni guardie diventarono cristallo, le loro mani unite per sempre alle loro armi. Sorrise leggermente mentre le oltrepassava, avvicindosi alla porta. Disintegrandosi di nuovo in polvere con grazia, cominciò a filtrare nelle fessure intorno alla tavola d'avorio, passando con facilità attraverso una barriera invisibile che fermava sia armi magiche che normali. Entrò in una stanza ottagonale dalle pareti bianche, interrotte da grate scolpite ornate da tendaggi ricamati verdi e azzurri. Scivolò sulla brezza al di sopra di un tappeto con un disegno labirintico ornato di rune magiche. La funzione del tappeto era di distruggere o rallentare aggressori di carne mortale... ma non quelli di polvere. Al centro della stanza c'era un'alta piattaforma di lapislazzulo, sormontata da un seggio di smeraldo squisitamente cesellato a forma di ventaglio. Sul seggio, fra rilievi immobili di grifoni e aquile danzanti, sedeva lui: armatura verde e blu di acciaio e seta ornata di cerniere d'oro, capelli di onice annodati in cima al capo, la pelle bianca incipriata che accarezzava occhi di giada. Ameshet. In ginocchio davanti a lui su un cuscino di stoffa c'era un uomo vestito di bianco ed anche lui incipriato di bianco, chino in avanti a parlare con voce calma. Aggirando la piattaforma, Ranghi gettò dei granèlli di polvere negli occhi di Ameshet, offuscandogli la vista con un velo di lacrime mentre si riformava davanti a lui. Riapparve, con i capelli uniti alla coda dei suoi abiti color fiamma. «Oh, quanto dovresti piangere, Ameshet» disse con condiscendenza. L'uomo vestito di bianco estrasse un pugnale ingioiellato e balzò in piedi. Il sorriso di lei divenne di ghiaccio. Afferrando il suo aggressore per il braccio alzato, lo scagliò all'altro capo della stanza come un giocattolo vecchio. Lingue crepitanti di fuoco azzurro lo lambirono mentre volava sui disegni del tappeto, avvolgendolo mentre urtava la parete e frantumando il corpo in migliaia di frammenti esplosi e fumanti. Ameshet si pulì gli occhi semi-accecati, e si alzò dal seggio. «È Ranghi tornata dalla tomba, o forse un fantasma?» «Nessun fantasma» rispose lei. «Allora puoi essere uccisa ancora...» la sua voce si smorzò in un sibilo mentre raggiungeva una parete imbiancata per sguainare una spada di opa-
le da un fodero tempestato di gemme, «... e sarai uccisa ancora.» Danzando sulle rune che la polvere non avrebbe attivato, Ranghi andò alla parete opposta verso una lama argentea che prese nelle sue mani snelle. Si voltò per affrontare Ameshet. Era diventato più alto di tutta una testa. Le sue spalle erano diventate più ampie, i denti più lunghi. Si gettò su di lei come un'onda di marea. Nel clangore dell'armatura, roteò il braccio con la spada in movimenti circolari, fino a che la lama non sembrò una scheggia iridescente nel mezzo della spuma bianca delle sue mani. Con un grido stridulo lei parò, fermando un attimo la lama, poi spostando il punto d'appoggio mandò l'attacco a perdersi dietro di lei. Si voltò per fronteggiarlo. Era diventato quasi due volte l'altezza di prima, la testa che quasi toccava il soffitto, i denti che erano diventati zanne ghignanti. Nelle mani trasformate in artigli dentellati la spada ora sembrava appena un pugnale. Lei arretrò con movimenti da gatta, con i lunghi capelli che diventarono pelliccia ondeggiante, i muscoli snelli e felini. Lo colpì con la spada, spezzandogli la lama per l'impatto. Ruggendo, si slanciò a spada tesa contro la faccia bianca e ghignante. Ma la faccia non era più là. Ranghi cadde con un ululato di disappunto su una grossa armatura vuota. «Da questa parte, Bestia» chiamò lui con tono di scherno dalla parete opposta. Brandendo una lancia con una lama a doppio taglio per punta, chiese: «Dato che non so perché sei tornata, vorresti dirmelo prima che ti distrugga?» «Per guardarti soffrire» fu la risposta. Avvicinandosi a lui, Ranghi cominciò a roteare la lama sopra la testa. Lui iniziò il suo contrattacco fintando a sinistra, poi colpendo verso l'alto nel turbinare della lama, illuminando entrambi in uno spruzzo di lampi gialli quando la disarmò. Poi ruotò la punta della lancia verso il suo collo, decapitandola quasi senza un rumore. La testa di Ranghi emise una risata vuota, lontana, mentre rotolava sul pavimento. Il corpo senza testa si chinò per recuperare la parte perduta, cercando a tentoni quello che sembrava non riuscire a trovare. La risata di Ameshet si unì a quella di lei mentre infilzava la testa con la lancia e la prendeva nella mano sinistra. Sollevando per i capelli il volto ancora felino, lo esaminò attentamente ma in fretta. Gli occhi aperti di Ranghi lo guardavano con pallida furia. Ameshet sorrise. «Sembra che lo smembramento non ti abbia uccisa. Eppure, sospetto che il tuo corpo sarà inutile senza gli occhi a guidarlo» osservò. «E non penso nemmeno che la tua testa sopravviverà molto a lun-
go senza il corpo.» La testa di Ranghi rispose: «Io credo che tu ti sopravvaluti.» Con la coda dell'occhio destro, Ameshet vide una macchia che divenne oscurità quando passò graffiando sul suo occhio, lasciandosi dietro un rivolo di sangue che gocciolò come lacrime. Semiaccecato, Ameshet colpì il corpo con la lancia, ma non fece altro che spingerlo indietro mentre lui arretrava verso la più vicina porta aperta. Scivolando attraverso l'uscita, chiuse e serrò col chiavistello la porta di bronzo dietro di sé, e fuggì per un corridoio verso una porta laccata. Aspettandosi di guadagnare solo poco vantaggio dall'ostacolo ora fra sé ed il corpo, Ameshet poggiò sul pavimento accanto a sé la lancia e la testa recisa e si voltò per affrontare l'avversario che sarebbe presto giunto. Togliendosi dal dito un anello, iniziò a tessere un frettoloso incantesimo. Mentre la porta di bronzo cominciava a piegarsi verso l'interno, Ameshet lanciò una tumultuosa sfera di fuoco che sfrecciò lungo il corridoio ed esplose come un tuono mentre la forma umano-leonina si faceva strada nel passaggio. Chinandosi per raccogliere il suo carico gli occhi di Ameshet, irritati dal fumo, videro quello che non si aspettavano. La bestia si stava avvicinando a lui attraverso il denso fumo caliginoso. Un'ondata di paura lo investì. Afferrò la testa con dita nervose e oltrepassò correndo la porta dietro di lui, senza preoccuparsi di chiuderla. In fondo al corridoio successivo, Ameshet svoltò in una piccola stanza quadrata con tre porte, arredata con scaffali contenenti vari tipi di attrezzatura. In fretta scorse la stanza cercando qualche arma da adoperare. Da un tavolo prese una piccola fiala marrone e tre anelli per le sue dita, rispettivamente onice, smeraldo e zaffiro. Poi la sua mano si tuffò in un recipiente di erbe, prendendone per metterle sul suo occhio ormai inservibile. Presa una borsa da trecento anelli, vi mise dentro la testa di Ranghi e se la legò al fianco. Quando il corpo senza testa apparve sulla porta ringhiando dalla gola inesistente, Ameshet prese una fiala di pozione marrone e la gettò fra loro sulle mattonelle azzurre. Una grossa lingua di terra marrone balzò fuori tra loro, si inarcò sul corpo di Ranghi e lo avvolse in una stretta sfera. Ameshet sospirò e si appoggiò pesantemente alla parete vicina per un attimo. Si asciugò dalla fronte il miscuglio di cenere, sudore e cipria bianca, riprese la lancia e si avvicinò alla prigione sferica. In un batter d'occhio, una zampa felina scattò dalla sfera e slogò una spalla di Ameshet con un colpo secco. La creatura di polvere si riformava utilizzando la terra che era stata intesa per imprigionarla. Ameshet rimase a guardare un momento, poi
fuggì dalla porta alla sua sinistra. In fondo a quest'altro corridoio spalancò la porta e fu accolto da un coro di nitriti sorpresi. Gettò le briglie sul muso di uno stallone e lo montò a pelo. Toccandolo sui fianchi con i talloni, guidò il destriero nella stalla e attraverso il cancello aperto nella notte. La lancia nella mano destra, la testa recisa appesa al fianco sinistro, galoppò verso Ovest. Ad un centinaio di metri dalla stalla udì dietro di sé il suono dei cavalli che nitrivano. Non c'era bisogno di voltarsi. Lo sapeva. Incitò il cavallo ad un'andatura più veloce. Molto lontano, i tamburi battevano... Afferrando le redini con i denti, Ameshet si infilò la lancia nella cintura. Poi morse le redini ancora più forte mentre si rimetteva a posto la spalla slogata. Quando il suo grido uscì sibilando attraverso il cuoio, una risata soffocata si alzò dalla borsa appesa al suo fianco. Ameshet si guardò alle spalle dopo qualche minuto e vide che il corpo di Ranghi aveva perso tutti i suoi attributi umani, diventando completamente leonino... eccetto per la testa mancante. Cavalcò più in fretta, mettendo gradualmente un certo distacco fra sé e le zampe che correvano silenziosamente dietro di lui. Mentre le ore della notte passavano, il suo vantaggio crebbe lentamente. Nel calore ancora debole dell'ora prima dell'alba, Ameshet si guardò di nuovo alle spalle. La bestia lo stava ancora seguendo, ma era diventata solo una sgradita macchia al limite del suo raggio visivo notturno. Col suo occhio sano calcolò che doveva essere a circa una lega dietro di lui. Diresse il cavallo verso un lontano pozzo nel deserto con l'intenzione di riposare un poco, sperando alternativamente che i raggi del sole dissolvessero la sua inseguitrice in uno spettro irreale. Ma non fu così. Al sorgere del sole, l'ombra ancora lo seguiva. Ameshet si avvicinò al pozzo e lasciò che il cavallo si abbeverasse. Si tolse la borsa dal fianco e tirò fuori la testa. Gli occhi di Ranghi si aprirono con uno sguardo divertito. «Anche morta sei ancora una maga potente. Dimmi, come hai fatto?» le chiese. «Chiamiamolo un ultimo incantesimo, Ameshet. Quando mi hai ucciso, ho giurato un giorno di vendetta per ogni pezzo del mio corpo che hai tagliato.» Sorrise, compiaciuta della sua impresa. «Questo vuol dire che mi darai la caccia per sei giorni, no?» «Se resisti così tanto...» la sua voce si smorzò. «Ma io ho la tua testa. Senza di essa vedo che il tuo corpo può solo ince-
spicare e dibattersi a casaccio seguendola, e danneggiandomi ogni tanto a caso» rispose lui. «Però continua a incespicarti dietro» ribatté Ranghi. «E fino ad ora non sei riuscito a dimostrare sufficiente forza per fermarlo. Il più grande mago è riuscito soltanto a sfuggirlo terrorizzato.» «Sono abbastanza forte per fermarlo. Ho i miei mezzi» ringhiò lui, ricacciando con indifferenza la testa nella borsa. Considerò un momento i modi con cui poteva fermarla. La necromanzia avrebbe funzionato difficilmente su una già morta. Considerando la sua forza, ed il loro incontro precedente, un combattimento aperto poteva rivelarsi inutile. Non aveva potuto prendere quasi nessun attrezzo utile per le magie potenti, a causa della rapidità della sua fuga. Comunque, aveva tre anelli. Sarebbero stati utili. Eppure, gli sembrava di aver già guadagnato un piccolo vantaggio impossessandosi della testa e cavalcando davanti al corpo di Ranghi. Questo vantaggio avrebbe potuto diventare una vittoria se lui fosse rimasto sempre davanti alla sua avversaria e l'avesse tenuta in vista, evitando sorprese, sottraendosi all'incantesimo. Il suo cavallo lo avrebbe aiutato per un poco, e questi gli avrebbe dato abbastanza tempo per pensare ai modi migliori di usare le risorse di cui disponeva. Alle sue spalle, Ameshet notò che Ranghi era ora ad un terzo di lega da lui. Allora ridusse in polvere il primo dei suoi anelli, e cominciò a tessere un incantesimo. Batté le mani e il piede una volta. La terra in mezzo a loro si gonfiò, creando un'alta montagna di sabbia dove prima non c'era. Ritornò al cavallo, vi risalì, e riprese la sua fuga quasi a casaccio. Molto lontano, i tamburi battevano... Quasi al cadere della notte, Ameshet arrivò galoppando ad un'altro pozzo, stavolta con un vantaggio di due leghe. Il cavallo stava morendo; lo aveva stremato. Calcolò che avrebbe resistito soltanto poche ore ancora. Riposarono per un poco mentre lui batteva le mani e il piede due volte, facendo sorgere un'altra montagna. Di nuovo in groppa allo stallone, colpì coi talloni la sua carne ormai insensibile. Il destriero arretrò ed una debole tosse gli gorgogliò nella gola; barcollò per qualche passo e cadde. Ameshet imprecò sottovoce per l'inopportunità del momento della morte della sua cavalcatura. Si voltò verso la montagna ed evocò una tempesta di vento per rallentare la bestia-gatto ancora di più. Poi, guardando il cavallo, ridusse in polvere il secondo anello e ne sparse i verdi cristalli sul corpo. Tessé un complicato incantesimo grazie al quale il cadavere avrebbe continuato a portarlo ricavando energia dalla sua stessa carne in decomposizione. La
forza della sua cavalcatura l'avrebbe trasportato anche dopo la morte. Si tolse la borsa dalla cintura ed estrasse la testa. Gridando al di sopra del vento disse, «Vedi, Ranghi? Ti sconfiggerò di nuovo! Continuerò a proseguire, e tu sparirai prima di aver ripreso la tua testa!» Gli occhi di Ranghi si aprirono, e le sue labbra di corallo si curvarono in un sorriso. «Ecco quello che ho sempre ammirato di te, Ameshet. Ti fai manipolare così facilmente.» Sottolineando le sue parole con una risata né malvagia né compiaciuta, la testa si dissolse in polvere nel vento. In cima alla collina, il corpo felino di Ranghi apparve con un ruggito di soddisfazione. Dal punto in cui si trovava, Ameshet riuscì solo a distinguere la forma di una testa di leonessa al suo posto in mezzo alle spalle. Guardò le spalle generare ali d'aquila e provarle nel vento. Con un secondo ruggito, stavolta di sfida, Ranghi distese le ali al sole di mezzogiorno e cominciò a planare verso di lui. Ameshet montò sullo stallone rianimato e galoppò via dal grifone alle sue spalle, con la tempesta di vento che lo seguiva direttamente dietro. La tempesta di vento rimaneva dietro di lui, soffiando incessantemente contro Ranghi. Nonostante ciò, lei volava a mezza lega di distanza, imperterrita, sfruttando il vento. Mentre la luna calava alla fine del primo giorno di fuga di Ameshet, la sua sicurezza e spacconeria cominciavano a trasformarsi in terrore e paura. Molto lontano, i tamburi battevano... Sorse l'alba del secondo giorno. Il destriero di Ameshet cominciava a mostrare segni di notevole decomposizione; il mantello, l'epidermide e la carne erano stati consumati, lasciando i muscoli superficiali chiaramente visibili. I suoi occhi sembravano perle bianche. A sera, anche i muscoli si erano consumati. L'attenzione di Ameshet era divisa tra mantenere l'incantesimo che sosteneva il movimento del cavallo, e valutare la sua situazione. Ora le prospettive non sembravano più tanto buone. Non aveva abbastanza tempo per fare un incantesimo potente per fermare Ranghi. Ora sembrava solo il momento di fuggire, sperando che venisse un'idea per fermarla. La mattina del terzo giorno, Ameshet giunse ad un'oasi ed interruppe per poco la sua fuga per prendere acqua e rinfrescarsi. Non aveva mangiato né dormito per tre giorni, e non beveva da due. Avvicinandosi all'acqua, si fermò per guardare un momento il suo riflesso. Le sue lucenti sete ricamate erano del grigio opaco della polvere del deserto. La cipria bianca sul suo viso era già da tempo scivolata via con il sudore, sostituita da uno spesso
strato di fanghiglia secca. L'occhio sano era screziato da un velo e punteggiato da furiosi lampi rossi. L'altro occhio era gonfio e quasi del tutto chiuso. Il deserto l'aveva trasformato. Mentre si chinava per lavare via la sporcizia, vide riflessa nell'acqua la forma di grifone di Ranghi che calava dall'alto su di lui. In un attimo fu divorato dal panico. Balzò di lato mentre gli artigli in discesa graffiavano la spalla già slogata. La lancia che aveva in mano gli cadde nelle acque prima tanto desiderate. Un ruggito di frustrazione sfrecciò verso l'alto davanti a lui, e poi virò per attaccare ancora. Istintivamente, Ameshet mosse il braccio in un gesto verso l'alto, ed una pioggia di pietre balzò fuori dal lago, scagliandosi contro Ranghi. I missili colpirono il suo corpo con tale velocità che la stordirono momentaneamente, obbligandola a cambiare direzione per evitare altri proiettili. Volteggiò intorno all'oasi, alterando la sua forma mentre volava: dalla vita in su tornò in forma umana in tutta la bellezza della nudità, ma dalla vita in giù le zampe da leone divennero artigli di ottone che terminavano in unghie di rubino, e le ali di aquila divennero una cacofonia di piume di ottone. Quando terminò il giro intorno all'oasi, Ameshet si stava allontanando al galoppo, lasciandosi dietro un sottile nastro di polvere. La tempesta di vento era cessata; non poteva più mantenerla. Ranghi emise uno strido gioiosamente bellicoso. Il suo piano procedeva bene. Batté le ali nell'aria improvvisamente calma del deserto, e lo seguì. La luna si levò alla fine del terzo giorno per vedere un uomo lacero cavalcare un destriero di ossa putrescenti. Dietro di lui, in un turbine come il suono di campane in una tempesta, una donna-uccello di ottone e rubini lo seguiva zigzagando come un pipistrello oscenamente ingioiellato. Molto lontano, i tamburi battevano... All'alba del quarto giorno, l'emaciata cavalcatura si sgretolò in polvere. Ameshet si alzò da terra dove era stato gettato e sì guardò dietro. Ranghi lo seguiva ancora. Sapeva di dover andare avanti. Nonostante le piaghe per il cavalcare, la spalla gonfia e ferita, l'occhio infiammato, i lividi, le escoriazioni, la fame e il caldo, doveva andare avanti. In qualche modo raccolse le forze sufficienti a trasformarsi in un lupo nero,, ma la polvere del deserto faceva sembrare opaca la sua pelliccia. Ora avrebbe corso con le sue forze. Raccogliendo il suo coraggio emise un lungo ululato di sfida. Gli fece eco un grido che era come il tormento dei dannati. «Sono stata là» sembrava dire. «E presto, anche tu ci andrai.» Ameshet si voltò verso le basse dune davanti a lui e si mise a correre su zampe dagli artigli di onice. All'alba del quinto giorno le piaghe erano terribili, ma Ameshet prose-
guiva nonostante esse. Correndo a balzi sul terreno che aveva percorso il giorno prima, gli era almeno concessa qualche occasionale macchia d'ombra. Avvicinandosi alle terre del sole calante, il caldo divenne più intenso, mettendolo a durissima prova. Aveva bisogno di acqua e riposo, cose che a Ranghi sembravano non servire. Incurante del caldo, Ranghi volava alta nel cielo, apparendo a volte come un corvo di ottone, a volte soltanto come uno scintillio nel sole. Ogni tanto, le sue grida ululanti formavano nell'aria delle figure che calavano su di lui ed artigliavano senza danno i suoi orecchi. Ora sembrava che fosse lei ad avere tutti i vantaggi... ma se riusciva a resistere un altro giorno Ameshet sapeva che l'avrebbe sconfitta... Molto lontano, i tamburi battevano... Venne il sesto giorno. Da tre giorni non si incontravano più pozzi. La sete di Ameshet stava diventando quasi un delirio. Le dune e l'ombra da loro prodotta erano scomparse, lasciando solo il deserto aperto in cui correre. Ora davanti a lui c'era solo la visione del cadavere smembrato. Si fece forza per la corsa finale mentre il tramonto si avvicinava, sperando di guadagnare un considerevole vantaggio. Aveva bisogno di tempo per polverizzare l'ultimo anello, per chiamare l'ultimo spirito a difenderlo. Al dissolversi della notte, avrebbe dissolto Ranghi con la furia di un ultimo uragano. Lentamente, Ameshet cominciò ad aumentare la velocità, avanzando mentre le ore scorrevano nella notte. Quando la luna giunse al suo apice, segnando la fine del sesto giorno, Ameshet si fermò e si voltò per affrontare Ranghi che si avvicinava. Fece tornare il suo aspetto a quello di un uomo vestito di un'armatura di guscio di tartaruga verde e giada. Si tolse dal dito l'ultimo anello, un lapislazzulo venato di fili d'oro. Ridusse la pietra in polvere azzurra nel palmo della mano e la soffiò nella brezza notturna. La polvere formò una nube che si alzò nel cielo, gonfiandosi ed allargandosi fino a che non coprì tutto l'orizzonte, oscurando nel buio la luna. Ranghi accorciò la distanza di un quarto di lega. Ameshet vide che era di nuovo umana, nella sua armatura di rubini, e volava con nuove ali bianche. Agitò le mani, facendo soffiare il vento intorno a sé in un vortice torreggiante. Ranghi restò presa nella forza dei venti, e lentamente fu spinta lontano dal suo bersaglio. La forza dei venti rendeva difficile alla polvere di cui era fatta restare unita. Ameshet sorrise. Solo pochi minuti e il sesto giorno sarebbe terminato, e lei sarebbe tornata nell'oscurità a cui apparteneva. Serrò i pugni gonfi e la pioggia cominciò a scendere copiosa dalle nuvole, trasformando il tornado crescente in un uragano. Ranghi sembrò disorientata nel volo. Lui era certo che pre-
sto sarebbe stata costretta a terra. Il tempo era quasi scaduto. «Tutto quello che devo fare è aspettare.» La pioggia cominciò a percuotere il suolo. Agli orecchi di Ameshet era la musica della vittoria. Era il suono della vittoria anche per Ranghi. Il cadere della pioggia sul terreno produceva un suono: un tambureggiare. Il battito di diecimila tamburi. La forza che l'aveva richiamata e sostenuta. Non era mai stata una questione di sei giorni, era stata una questione di tamburi. Qui c'erano più tamburi di quelli che poteva darle la sua tribù. Ameshet aveva scioccamente fatto esplodere il suo incantesimo. Nutrendosi avidamente di quel potere, Ranghi cominciò ad espandersi; le sue ah divennero più lunghe e più sicure nel vento. Ora più forte, batté le ah più in fretta, prese i venti e virò dentro di essi. Si gettò in un lungo, rapido arco che la catapultò nell'occhio dell'uragano, ed atterrò davanti ad Ameshet in un turbinare di piume. Ranghi crebbe fino all'altezza di dieci metri. Ameshet fece la stessa cosa, generando corna da ariete, chele da scorpione ed ali membranose. La tempesta era cessata: non era abbastanza forte per mantenerla. Quando le sue chele scivolarono afferrando con forza Ranghi alla gola, disse «Il tuo sesto giorno è quasi terminato. L'incantesimo che hai gettato sta per svanire.» «I morti non son legati alle leggi dei vivi. Ho mentito.» Le braccia di lui allentarono momentaneamente la presa. Un attimo, non di più. Ma in quell'attimo di tempo le braccia di Ranghi scattarono verso l'alto, spezzando la presa; i suoi pugni alzati si abbatterono sul capo di Ameshet, rovesciandolo da un lato con lo schianto di una quercia abbattuta. Ferito e stremato, Ameshet cadde a terra, quasi indifeso. Le mani di Ranghi piovvero ancora su di lui, trasformando la metà inferiore del suo viso in carne sanguinante ed ossa spezzate. Gli aveva tolto la possibilità di pronunciare un'ultima maledizione. «Sei stato così sciocco a contare sulla tua forza, Ameshet. Pensavi che saresti stato sempre forte?» La sua unica risposta fu uno sguardo pieno di terrore impotente. «Sfortunatamente con avrai modo di imparare dal tuo errore, come ho fatto io. Però, c'è qualcosa di te che mi serve, prima che ti riduca nella polvere che sono stata... il tuo cuore. Come tu hai preso il mio, io prendo il tuo perché batta con forza per me. Mi renderà di nuovo parte di questo mondo.» Sorrise. Fece un gesto con la mano, e la cassa toracica di Ameshet si aprì senza un rumore. Il suo cuore si liberò e volò da solo nella mano di lei. Quindi fu spinto delicatamente attraverso l'armatura, trasformando la polvere in carne soda al suo passaggio. Fra i seni, un tamburo cominciò a battere. Il vero Potere le ritornò di nuovo. Ranghi inalò il suo primo respiro con i nuovi
polmoni, e lo esalò. L'aria del deserto era dolce. Non più un fantasma, agitò le mani sul corpo di Ameshet e la sua carne fu lentamente disseccata in polvere. Mentre cominciava a dissolversi, un ultimo grido gli sfuggì rauco dalla gola distrutta. Quando di Ameshet rimasero solo ossa bianche come porcellana, Ranghi gli si inginocchiò accanto per ispezionare la sua opera. Prese una perla rossa da ciascun guanto e le mise nelle orbite vuote che una volta erano stati gli occhi; quando gli Asana avrebbero trovato il cadavere, avrebbero saputo che l'aveva ucciso. Ora sarebbe tornata dalla sua gente. Presto avrebbero sterminato gli Asana. Alzò le ali verso il cielo, sollevando una piccola nube di polvere grigioazzurra quando si alzò in volo verso casa. Titolo originale: Red Pearls Traduzione di Marina Nunzi FERIRE LA LUNA di Vera Nazarian Uno dei più grandi piaceri nella vita di un editor è scoprire un nuovo talento. In questa raccolta sono compresi racconti d'esordio di Charles Saunders, Charles De Lint e Jennifer Roberson, i quali nel frattempo hanno visto pubblicati i loro primi romanzi; Imaro di Charles Saunders che usa un'ambientazione africana nei suoi racconti di Dossouye; Riddle of the Wren di De Lint, un fantasy cupo di grande fascino e bellezza, e Shapechangers di Jennifer Roberson. Ciascuno di loro ha già un secondo romanzo pronto per la pubblicazione (nel caso di Saunders un terzo). Vera Nazarian è la più giovane collaboratrice a questa antologia. Nel gennaio del 1985 mi mandò un racconto per questa antologia, dicendo che altri editor avevano ritenuto che fosse troppo lungo, ma sperava che io mi dimostrassi più flessibile. Dato che il racconto superava di circa diecimila parole la lunghezza massima che avevo stabilito nelle mie indicazioni, normalmente l'avrei restituito con un vago "non soddisfa i requisiti di lunghezza", ma visto che l'autrice era una ragazza di sedici anni, lessi il racconto e lo trovai eccellente; comunque, fui costretta a dirle che non c'era mercato per un racconto così lungo (quasi 20.000 parole) anche se sarebbe stato perfetto come "racconto principale" nei vecchi pulp. Le suggerii di provare con qualcosa di più breve, e direi che lei non ha perso tempo.
Questo è un bel racconto secondo tutti i parametri. Vera Nazarian ha diciotto anni ed ora sta per entrare all'università, e questo pezzo suggestivo mi ricorda i primi lavori di Tanith Lee. Trovare opere come questa è la ragione per cui gli editor si lasciano sommergere da mucchi di cartacce; di tanto in tanto si scopre un nuovo scrittore di sorprendente talento. In questo volume c'è un certo numero di racconti di esordio, ma pochi di scrittori così giovani. Il cielo del tardo pomeriggio era lavanda e oro sopra la grande città quando la ladra fu imprigionata per il peggior crimine che ci fosse. La straniera aveva alzato gli occhi e guardato l'Al-Eralir, signore di Aerhadel-Raas, mentre passava cavalcando in corteo circondato da schiavi obbedienti, orgoglioso, bellissimo, e freddo come la morte. La grande moltitudine tutt'intorno era sprofondata a terra in adorazione, le facce di uomini e donne nascoste, gli occhi strettamente chiusi per non rischiare uno sguardo sacrilego all'Al-Eralir, signore demone. Ma lei, una straniera, aveva guardato con curiosità prima i magnifici, aggraziati stalloni che andavano al passo, ingioiellati, e controllati a stento dai guerrieri cremisi della guardia dell'Al-Eralir. E poi il suo sguardo era salito più in alto, dalla scintillante bardatura del grande cavallo nero al centro del corteo alla figura in arcioni dal portamento statuario. Era rimasta colpita alla vista di vacui occhi d'ambra in un volto perfetto. Dopo che lui era passato i guerrieri rosso-sangue della sua guardia l'avevano brutalmente catturata e ammanettata, senza lasciarle un istante per reagire. In circostanze più normali la ladra poteva reagire, con rapidità e ferocia. Poteva, se provocata fino alla violenza fisica, muoversi agile come l'acqua per colpire senza lasciare traccia. Solo che questa volta aveva guardato e si era attardata troppo, come se qualcosa in questa enorme città le avesse ottenebrato i sensi. Quando l'avevano catturata, non aveva nemmeno voluto resistere. Fin dall'inizio, non aveva mai ammesso di essere una ladra. Doveva essere stata la vivacità degli occhi ed il loro splendore che l'aveva fatto pensare, e lei li aveva seguiti, passiva e senza protestare. Erano di un intenso color grigio-azzurro, quei suoi occhi, e a modo loro particolari. Particolari, forse, perché né il secondino né le guardie avevano mai visto prima occhi del genere in un comune cittadino, e ancor meno, in un ladro. Il secondino notò anche il suo aspetto stranamente piacevole mentre la perquisiva cercando oggetti di valore. Lei allora, per facilitare i suoi sforzi,
aveva consegnato due anelli ed una collana di metallo prezioso, ed una pronta informazione sulla natura delle sue occupazioni. Tutto questo per mettere fine alle ricerche di quelle dita impudiche. La gioielleria prese posto in permanenza nella collezione del secondino, ma lui rise solo quando lei gli disse che era una guerriera. Così la ladra fu trasferita per un'altra ispezione dal diretto superiore del secondino. Una delle guardie cremisi pensò di vedere lo scintillio di un pugnale nel suo stivale. Ma questo pensiero venne per secondo, dopo che il suo desiderio si era decisamente destato alla vista di una gamba snella inguainata in calzoni maschili. Il corpo della ragazza era agile e ben fatto. Il pugnale venne confiscato. E poi riuscirono ad ottenere un nome da lei, Lyren, a forza di minacce. Quella era stata una cosa che aveva dato malvolentieri. Comunque, le minacce erano minacce, e per una che era già fuori dalla legge la cooperazione significava fare o no una fine facile. Sapendo cos'era meglio per lei, Lyren non fece resistenza quando la spogliarono e le diedero da indossare gli stracci da penitente. In questo modo doveva apparire davanti al signore demone in persona, le cui labbra dovevano pronunciare la sua condanna. «Quando verrai chiamata, cagna, fango sotto i Suoi piedi, dovrai stenderti a faccia in giù. Poi striscerai fino al Suo Trono, senza mai alzare gli occhi dal pavimento» le dissero, e come promemoria una guardia le diede una frustata; la colse su una guancia, lasciandole un sottile segno scarlatto che bruciava come carbone ardente. Lei non batté ciglio. Dopo la gettarono in una cella scura che aveva odore della putrefazione notturna. E quando la notte vera venne a posarsi sulla città lei si addormentò, sapendo cosa l'aspettava. Dicevano che Aerhad-el-Raas, perla delle città, era la prima sul cammino del sole nascente davanti a tutte le terre degli uomini, ad Est di ogni est. Era il Trono consacrato dell'ampio, invincibile impero che prendeva il nome dalla città. In tutto l'impero di Aerhad non c'era altra città uguale, un lusso così splendido, una simile decadenza. Dovunque prevalevano i contrasti: mendicanti e lebbrosi fiancheggiavano gli squallidi bazaar coi loro corpi coperti di mosche, stracci che nascondevano uomini si accoccolavano in vicoli sporchi o sotto i ponti che attraversavano Urthad, il Fiume dei Profumi; nel quartiere ricco le strade erano lastricate in oro, fontane di cristallo brillante gettavano vino, e dai palazzi e giardini dei nobili venivano musiche dolcis-
sime e le risate teneramente modulate dei cortigiani. Su tutto questo regnava Sahtiel, il bellissimo signore demone, la cui madre si diceva che fosse nientemeno che la luna stessa. Il precedente AlEralir, il suo genitore mortale, aveva costruito Aerhad-el-Raas, città delle città, e suo figlio vi aveva aggiunto l'Impero. Sahtiel si circondava di bellezza nel senso più vero. Lui stesso di aspetto divino, con capelli dorati fluenti come miele giù per le spalle, la carnagione di un pallido color olivastro, fattezze che ricordavano le statue dei santuari di Cxeris e gli occhi ambrati dei gatti di montagna, Sahtiel aveva visto ventitre estati, conquistato l'est in altre tre, così che fiumi di sangue avevano bagnato il paese, e poi aveva deciso che non desiderava più vedere qualsiasi forma di bruttezza. Nelle lussuose stanze del palazzo degli Al-Eralir muschio e incenso bruciavano giorno e notte, e il dolce profumo si spandeva nei giardini a coprire la fragranza delle rose con la sua sensuale delicatezza. Bellissimi giovani servivano l'Al-Eralir, che notoriamente prendeva soltanto uomini come amanti. Era la sua guardia, composta dei migliori guerrieri che servivano il loro inflessibile padrone con fanatica lealtà, perché il suo fascino aveva conquistato le loro anime. Comunque, fra la gente si diceva che l'attuale Al-Eralir, avendo sangue di demone, teneva strane feste orgiastiche ed occulte dove si praticavano terribili perversioni. Sahtiel aveva decretato che nessun cittadino comune doveva mai alzare gli occhi direttamente su di lui e nessuna donna avvicinarglisi senza strisciare a terra, per non profanarlo con la loro bassezza. Aveva anche dato ordine di tenere sempre i malati ed i brutti lontani dalla sua vista. Tutto questo sotto la pena di morte, perché l'Al-Eralir non aveva pietà. E le punizioni che infliggeva erano tali che la morte istantanea non poteva essere che una benedizione... Era davanti al signore demone che Lyren, ladra e straniera doveva essere condotta. Al mattino Lyren si svegliò nella sua cella, e la coscienza di come stavano realmente le cose la colpì. Il giorno prima era come in una nebbia, nella quale ricordava soltanto due freddi occhi color ambra, più belli di qualsiasi paio di occhi umani avesse mai visto, e terribili. Ma ora la sua praticità era tornata. Imbecille! Per Aldiz, che cosa mi ha fatto attardare così? Somiglia a qualcuno «non finì quel pensiero, le cui implicazioni erano troppo oscure
da seguire. Invece si sforzò di riflettere sullo scopo della presenza in quella maledetta città di corrotti.» In qualche punto di Aerhad-el-Raas c'era Haderi, vivo, lo sapeva, perché la pietra corniola che portava all'orecchio era ancora calda e pulsante insieme al suo cuore. Il suo patto di sangue con lui era ancora intatto, così come l'amore semicosciente che si era insinuato nella sua relazione con lui fin dall'ultima estate in cui avevano viaggiato insieme. Haderi, a differenza di lei, non era un guerriero sehjir rinnegato ma un ladro, uno dei più sofisticati ed in vista della Gilda. Le aveva insegnato tutti i trucchi e l'agilità che ora la aiutavano a passare facilmente per uno dei membri della Gilda. Lyren ricordò la strana zuffa nella taverna di una cittadina che aveva coinvolto lei e Haderi contro un gruppo di uomini provenienti dalla città. Haderi ne aveva ucciso uno lanciandogli un coltello, lei ne aveva abbattuti altri due. Avevano lasciato quel posto in fretta, ma non prima che lei notasse un pezzo di tessuto stranamente ricco spuntare dalle pieghe del mantello di una degli uomini caduti. Il sospetto che quelli fossero nobili travestiti era sorto come un'ondata di freddo; in effetti dovunque correva voce che nobili di Aerhad-el-Raas spesso andassero e venissero vestiti come gente comune, per una sorta di perverso divertimento. E se in quel caso era così, allora erano tutti e due in grave pericolo. I suoi sospetti si erano rivelati come veri, perché la mattina dopo Haderi l'aveva lasciata per qualche faccenda privata e non era più tornato. Mai del tutto sicura dei suoi intenti, Lyren l'aveva aspettato una settimana. E poi aveva capito che il rischio di andare in quella città era inevitabile. Una volta si era ripromessa di non avvicinarsi mai e Aerhad-el-Raas a più di un tiro di freccia. Era come se qualcosa come una sensazione interiore la mettesse in guardia dal richiamo di quella trappola decadente. Solo ora era giunto il momento della verità. Il contratto d'affari che all'inizio li aveva legati ora era solo di secondaria importanza. Lyren doveva salvare l'uomo che era stata ingaggiata per proteggere, ma soltanto per amor suo. La curiosità ha ucciso la mosca, diceva un proverbio popolare. Soltanto che Lyren non si era mai accorta di quanto fosse vero, nemmeno quando era entrata in quella città dove c'erano molte cose pericolose di cui essere curiosi. Che male c'era, aveva pensato mentre si trovava tra la folla davanti al corteo, dare un'occhiata all'Al-Eralir? Come avrebbero potuto notarla fra la folla, ed anche allora, perché non avrebbe potuto fuggire in fretta? Lyren, comunque, non sapeva che i guerrieri cremisi sapevano di dover sorvegliare con più attenzione di altri. Lei, essendo straniera, non si era
prostrata con la necessaria correttezza, o abbastanza in fretta. Aveva esitato. E questo aveva attirato la loro attenzione. Lyren pensò alla morte mentre dei passi echeggiavano nel corridoio della prigione e la porta della sua cella veniva spalancata. Entrarono due guardie, la sollevarono rudemente dalle fredde lastre di pietra del pavimento e la portarono fuori. Prima di essere condotta alla presenza del signore demone, Lyren fu resa più presentabile da due schiavi che le rassettarono i corti capelli neri, che le arrivavano alla base del collo, e le diedero acqua per sciacquare lo sporco dal viso e dalle mani. Gli stracci rimanevano, tanto per umiliazione, ma l'Al-Eralir non doveva vedere polvere o disordine. Le grandi porte ad arco si aprirono davanti a lei, e fu spinta da dietro e fatta cadere a faccia in giù in una sala illuminata fiocamente. Per diversi istanti fu troppo sorpresa per fare qualcosa, solo giacere con la sensazione di freddo del bellissimo mosaico di mattonelle del pavimento contro la guancia. Da qualche parte nelle vicinanze venne un aspro sussurro: «Striscia!» sibilò. Lei aprì gli occhi e vide, dal livello del pavimento, i piedi delle guardie allineate lungo le due pareti. Per Aldiz, che figura da idiota sto facendo, pensò, mentre cominciava a strisciare sul pavimento. Aveva molta strada da fare. «O Eccelso» disse una voce da qualche parte «questo niente prostrato a terra davanti a te, umile e penitente, ha commesso il supremo crimine di guardare il tuo Volto. Pronuncia, se vuoi, le condizioni della sua morte.» A Lyren questo non piacque affatto. Non sono né "prostrata", pensò né penitente «perché penso che lo farei ancora, se ne avessi l'occasione, soltanto con più cautela. E ancora meno sono "umile". Lo sa Aldiz, io non mi umilio. Questo bastardo presuppone troppo. E, improvvisamente, senza aspettarselo neanche lei, sbuffò per il disprezzo in modo percettibile.» Raramente era successo che una cosa così semplice come quella potesse avere un significato così grande o un effetto così particolare su una sala piena di gente. Quasi poteva sentirsi l'eco di quell'unico suono, tanto in silenzio era piombata la grande sala. E poi qualcosa spinse Lyren a ripetere l'immenso crimine, il terribile crimine che l'aveva portata là. Alzò gli occhi. Il giovane dai lunghi capelli dorati, semisdraiato sul grande trono filigranato, la osservava blandamente da sotto la pigra curva dei suoi occhi annoiati, ombreggiati da lunghe ciglia scure. Occhi troppo belli anche per una fanciulla, pensò Lyren.
Ai suoi piedi sedeva un ragazzo dai capelli scuri, con gli occhi neri di una gazzella, la pelle bruna, la figura delicata. Osservava le varie azioni con aria assonnata, la testa poggiata languidamente contro il ginocchio dell'Al-Eralir. La mano elegante di Sahtiel giocherellava distrattamente con le ciocche dei capelli serici del ragazzo. Gli occhi di Lyren incontrarono lo sguardo di quelli dorati, vacui. E all'improvviso, la scintilla dell'interesse si accese nei gialli occhi ambrati. Sahtiel aveva gettato uno sguardo disinteressato al mendicante ai suoi piedi. Quella cosa era umana, di sesso indefinito. Il Cancelliere aveva promesso che doveva essere l'ultimo della giornata, da non poter rimandare a causa della grandezza del suo crimine. Il Cancelliere Razd aveva proceduto a descrivere il crimine con la sua solita voce servile. Era un altro di quelli che aveva "guardato". Sahtiel ascoltava in silenzio, con indifferenza, accarezzando distrattamente i capelli di Jieri. Jieri. Quella notte non avevano dormito molto, perché l'Al-Eralir aveva provato verso il giovane un riaccendersi di passione, che dalla scorsa settimana aveva cominciato ad affievolirsi. Ora Sahtiel voleva soltanto chinarsi e respirare nel profumo dei dolci riccioli serici di Jieri, ma si tratteneva tanto per salvare l'atmosfera formale della sala delle udienze. Razd aveva terminato il suo discorso. L'essere umano sul pavimento all'improvviso si era divincolato, decisamente sbuffando di derisione. E poi aveva alzato la testa di sporchi capelli scuri. In un viso giovane due sorprendenti, penetranti occhi grigio-azzurro avevano incontrato i suoi. Involontariamente, Sahtiel si era sentito percorrere dal ricordo di qualcosa. Il suo interesse si era risvegliato. «Dei di Aerhad!» esclamò Razd. «La ragazza osa guardarti un'altra volta, O Glorioso! Ordina che venga storpiata membro a membro, i seni tagliati, il grembo riempito di piombo fuso...» La donna sul pavimento voltò leggermente la testa in direzione di Razd, ed i suoi occhi notevolmente chiari si riempirono di fredda collera. «Ti storpio io, diavolo spelacchiato, scimmia, figlio di...» sibilò lei, senza più curarsi delle conseguenze. Razd rimase a bocca aperta. E Sahtiel si mise a ridere. Tutte le guardie cremisi guardavano in silenzio mentre l'Al-Eralir rideva, la sua voce fredda come cristallo, inumana, echeggiante nella grande sala.
Anche la donna guardava. Solo che sul suo viso non c'era timore. Sembrava decisamente seccata. «Quando avrai finito, grande Al-Eralir,» disse con voce stranamente calma, «procedi a condannarmi per il vostro crimine idiota. Che Aldiz mi aiuti se resto qui ad ascoltare dell'altro senza passare alla violenza. Mi chiedo, la razza dei demoni può sopportare uno strangolamento?» «Qual è il tuo nome?» disse Sahtiel, e lei vide che i suoi occhi ambrati ora erano vivi e brucianti. «Il mio nome è mio. Da dare o serbare. Ma perché quel ragazzo mi fissa in quel modo?» Jieri stava fissando quasi esterrefatto quel mucchio di stracci qualsiasi, che all'improvviso aveva cominciato a rispondere al suo signore. La sua insolenza era così nuova che involontariamente Sahtiel si raddrizzò nel suo seggio. «Alzati» disse con calma. «Vieni qui.» «Questi sono ordini che mi piacciono. Il pavimento stava diventando freddo.» Ora che era in piedi davanti a lui, avvolta in ingombranti stracci indefiniti, vide che era alta e snella. E poi, quei suoi occhi erano davvero notevoli. Sahtiel non aveva mai visto prima una tale sfacciata insolenza in una donna. Lei inclinò leggermente la testa di lato. «Be', e adesso?» «Già, e adesso?» disse lui. «Non ti farò ancora uccidere. Chi sei?» «Sono Lyren.» «Mi dici il tuo nome, mentre prima ti sei rifiutata.» «Ti sto deliberatamente provocando.» Lyren scoprì i denti in un sorriso irato. Sahtiel scorse la sala con lo sguardo. «Lasciateci, tutti quanti.» Il suo sguardo includeva Jieri. «O illustre...» cominciò Razd. Gli occhi d'ambra avvamparono. Quando la sala fu vuota, l'Al-Eralir si rivolse a Lyren. «Non conosco i tuoi motivi, ma tu mi interessi.» «Io interesso molta gente... ma è permesso sedersi?» «Siedi, qui, vicino a me. Raccontami delle cose.» «Per Aldiz, non sei così sanguinario e crudele come pensavo. Mi aspettavo di venire straziata e storpiata... immediatamente.» Lyren sedette davanti al trono accoccolandosi leggermente, i suoi occhi chiari fissi in quelli di lui. A dispetto del suo aspetto sgradevole, c'era grazia nei suoi movi-
menti. «Spero, o Al-Eralir, che tu non faccia caso al mio fetore. In genere le persone fatte uscire di prigione emanano un certo odore. Hai mai pensato a far ripulire il posto?» «Le tue parole sono troppo argute» rifletté lui. «Devi essere una ladra.» «Hm, stavamo parlando di odori...» Un sorriso gli sfiorò le belle labbra, pallide e sensuali. «Nonostante tutto, ti chiamerò ladra.» La osservò con attenzione, in silenzio, apparentemente studiando ogni cosa di lei. «Interessante?» chiese Lyren. Questo la faceva sentire sconcertata. «Allora, ladra» disse lui. «Allora, stai accennando con la massima sottigliezza che desideri un bagno. Ed un cambio di abiti. Ed io mi chiedo, dovrei permetterlo? O forse sarebbe più interessante farti decapitare?» «Ma niente affatto. Da quel che ho sentito, questo metodo l'hai già usato troppo. E poi, non sarebbe affatto gradevole. E so che a te non piacciono le cose che non sono gradevoli.» «Tu non hai un aspetto gradevole.» Gli occhi ombreggiati d'oro la guardavano, fissi. «Ah, ma ancora, a questo si può mettere rimedio...» «Chi lo sa.» Lo scherno era molto sottile sotto l'espressione indefinita del viso bellissimo, ma ancora una volta lei capì, dal leggero curvarsi delle sue labbra, che la schermaglia verbale che stavano giocando lo divertiva. «Ma se tu, o grande Al-Eralir, non mi provi, non lo scoprirai mai.» «E va bene, hai destato la mia curiosità» disse Sahtiel, e chiamò degli schiavi nella sala. Lyren era davvero strana a vedersi più tardi, dopo aver fatto un bagno ed indossato un elegante abito maschile. I suoi capelli prima opachi ora le circondavano in soffici onde scure il viso pallido dai bei lineamenti con quegli intensi occhi chiari ed evocativi. Il tessuto scuro e costoso del caffetano e dei calzoni metteva in risalto la sua statura slanciata, quasi troppo alta per una donna. Mentre si dirigeva verso gli appartamenti di Sahtiel, quelli che la vedevano passare spesso la scambiavano per un giovane e bel nobiluomo che si occupava delle faccende dal signore demone. Sahtiel l'aveva invitata a cenare con lui quella sera, un onore particolare. Lyren sperava che il suo interesse per lei non svanisse prima di poter essere utile a lei ed alla sua ricerca di Haderi. Mentre Lyren si avvicinava agli appartamenti del signore, mai ostacolata
(aveva avuto il permesso di circolare liberamente), i suoi pensieri erano diffidenti. La gente raccontava strane cose sull'attuale Al-Eralir. Non era umano, si diceva. Non aveva compassione. E molti dubitavano che avesse un'anima. La sua raffinatezza era così acuta che era diventata perversione. Prendeva come amanti bellissimi giovani dalle migliori famiglie dell'Impero, mettendo a morte quelli che non lo compiacevano. E dicevano che faceva altre cose anche peggiori. Lyren si fermò davanti alle porte sorvegliate degli appartamenti privati, guardando le guardie cremisi con la fronte corrugata (a loro probabilmente sarebbe piaciuto ricambiare lo sguardo «i favoriti dell'Al-Eralir, di vita breve, erano invidiati e disprezzati, spesso con buone ragioni). Le porte vennero aperte per lei, e si trovò in una stanza arredata lussuosamente, ancora una volta appena illuminata, come era caratteristico di Sahtiel.» Ricchi tappeti esotici pendevano dalle pareti e coprivano il pavimento, mentre mosaici decoravano il soffitto ornato. Lyren, comunque, volse subito la sua attenzione ad una grande collezione di armi appese ad una delle pareti tappezzate. Si voltò, e vedendo che nella stanza non c'era nessuno, si avvicinò subito per esaminare gli oggetti più da vicino. In mezzo a picche forcute, lance, asce da battaglia, spade, coltelli Ahri, pugnali, dardi e dischetti da lancio, vide una spada che le piacque. Lyren si era abituata, da quando era stata assunta da Haderi e dalla Gilda dei Ladri, a non portare mai armi più appariscenti di un pugnale. Ora, non avendo più nemmeno il suo piccolo coltello da lancio confiscatole dal secondino, si ricordò con involontaria invidia della sua spada che aveva dovuto consegnare alla Gilda in "custodia" prima di cominciare a lavorare con loro. Questa spada che aveva davanti, sottile e di fattura semplice, le fece tornare in mente ricordi di tempi sia brutti che belli. E Lyren, secondo un'abitudine della Gilda imparata da poco, non esitò a staccarla dalla parete. Fece scivolare la lama fuori dal lungo fodero, la soppesò tra le mani, poi provò a sentire la presa dell'elsa con tutte e due le mani (era ambidestra). Poi vennero i colpi di pratica che si sentì spinta a provare. Lyren era profondamente assorta in un piacevole duello finto con un avversario immaginario, quando una voce risuonò alle sue spalle. «L'eleganza dei tuoi movimenti si addice all'arma. La spada è tua.» Lyren aveva pensato, fin dall'inizio, che la voce di lui fosse stranamente memorabile ed ora, ancora una volta, la qualità limpida del suono l'aveva strappata dalla concentrazione. Come cristallo che si infrange... bellissima, pensò mentre si voltava, un
po' imbarazzata dalla sua esibizione. Sahtiel, con i capelli dorati come una cascata di pallido miele in penombra, era entrato da una piccola porta nascosta e la stava già osservando da diversi momenti. Indossava un lungo manto bianco ed un'alta cintura ricamata su calzoni lunghi fino alla caviglia, ed il suo corpo perfettamente proporzionato era diritto e snello. A dispetto dell'apparenza di fragile delicatezza, Lyren si rese conto che era più alto di lei. Non riuscì a trattenere le parole: «È vero quello che dicono, che sei figlio di Ilenvis, la luna?» Gli archi scuri delle sue sopracciglia si alzarono leggermente. «E cos'è che dicono, ladra... o dovrei dire, guerriera?» Lyren abbassò la spada e gli si avvicinò. «Dicono, o Al Eralir, che tu prendi sangue, sangue umano, e lo bevi da un recipiente d'argento quando la luna è piena. E poi tua madre scende dal cielo, lasciando la sfera incustodita. Viene a te, per amore, per dirti le verità di questo mondo e di altri. E tu ti inginocchi davanti a lei...» Si fermò. «E poi ci sono altre cose che fai, più oscure, che io non capisco...» Sahtiel la guardava, in silenzio, la sua espressione indefinibile. Così da vicino lei poteva esaminare meglio i dettagli del viso, e provò un'ondata di apprensione. La sua particolare aura carismatica stava cominciando a fare effetto} su di lei. «Devo dirti tutto, mia ladra?» lui disse allora, ed abbassò il viso verso quello di Lyren, in modo che i loro occhi fossero distanti solo pochi centimetri. E poi la sua mano le toccò il lobo sinistro; le sue dita sfiorarono la pietra corniola, calda e vivente. «Questo cos'è?» Lei batté le palpebre, come svegliandosi da un sogno ad occhi aperti. «Niente. È un orecchino.» «No. È di più, lo sento. È qualche genere di comunicatore vivente. Con chi?» Lyren ne fu sorpresa, poi diffidente. «Che cosa vuoi dire?» Gli occhi ambrati bruciarono. «Non cercare di tenermi nascosto niente. Tu sai che cosa intendo. Con chi?» «Che importa? Con un amico.» «Perché?» «Per Aldiz, ma che t'importa?» esclamò, adirata. E poi sentì un'ondata di paura alla vista di un'ira ancora più grande, fredda, e strana, negli occhi dorati.
Lyren abbassò lo sguardo. «Sto cercando un uomo» disse, «un uomo della Gilda dei Ladri. Io sono la sua guardia del corpo assoldata. Questo» indicò il suo orecchio «è per stabilire un contatto permanente. So che è qui in città.» «Ed è tutto?» Gli occhi erano ancora freddi. «Sì! Che altro potrebbe esserci?» «Hai detto, "un amico".» «Ho mentito. È il mio datore di lavoro.» «No, tu menti adesso.» «Che i demoni siano dannati, ma perché insisti? Che te ne importa?» «Il suo nome è Haderi-e-Relavis. Lo conosco... bene.» «Tu... come hai fatto a...» Sahtiel la osservava attentamente. «Come hai visto quello che stavo pensando?» chiese Lyren. «Non lo sapevi? Ho guardato nella tua anima. Mia Madre me ne ha dato il dono insieme al Suo sangue.» «E suppongo ti abbia dato anche il diritto di assumere liberamente il potere su tutti?» disse lei, adirata da quella arroganza diffidente. «Io non assumo. Io ho il potere.» «Aah!» sbuffò Lyren e si allontanò da lui. Ci fu una pausa. Lyren camminò per la stanza. «Bene, allora trovalo. Trova Haderi per me, se ne sei capace.» Non vide Sahtiel sorridere. «L'ho già trovato» disse. Lyren si immobilizzò. E poi sentì un brivido gelido percorrerle la schiena quando una mano si posò sulla sua spalla sinistra da dietro. «Avrai Haderi domani» disse lui a bassa voce, vicino al suo orecchio «in cambio di... di questo...» La sorpresa per lei venne troppo tardi, quando sentì la pressione languida eppure ferma di labbra calde sul suo collo. Mentre l'altra mano le scivolava intorno alla vita, stringendola, riuscì a dire: «E come faccio a sapere... che dici la verità?» «Hai la mia parola» rispose Sahtiel, Al-Eralir, mentre per la prima volta in vita sua si sentiva incendiare dal desiderio per una donna. L'usignolo aveva già smesso il suo canto, sostituito dagli uccelli del mattino, quando Sahtiel aprì gli occhi. Nel timido bagliore rosato dell'alba che filtrava attraverso le grandi finestre ad arco della terrazza, Lyren dormiva,
il corpo snello nudo sotto le leggere coperte di seta del grande letto. Lui si avvicinò per guardarne il viso a riposo, illuminato dalle ultime ombre azzurre della notte che se ne andava. Non aveva solo dei bei lineamenti, era davvero bella, lo vedeva ora. i tratti aristocratici del viso gii ricordavano qualcosa; cosa, però, non riusciva a rammentare. Sotto le sopracciglia scure, le lunghe ciglia si posavano sulla pelle pallida della guancia, e le soffici onde scure dei suoi capelli erano sparse in disordine sul cuscino. Le sue labbra pallide e piene erano leggermente socchiuse. Così pallide... Era così bella e bruna e pallida... Per un attimo la mente gli si offuscò e credette di vedere, nel forte angolo del mento e nella folta linea delle sopraccigli, un giovane. Era come se accanto a lui ci fosse un uomo, non una ragazza. Ed era così che l'aveva vista fin dall'inizio, con la sua aria di sfida, quel suo comportamento di disinvolta noncuranza, le sue risposte pronte e argute. Anche il modo in cui vestiva aveva facilitato l'illusione, particolarmente la sera prima quando si stava esercitando con la spada. Sahtiel era infatuato di lei, dell'illusione, finché le due cosce si erano intrecciate in un complesso oggetto di desiderio. E quando aveva scoperto il corpo della donna, la novità aveva acceso ancora di più il suo desiderio, che aveva bruciato per tutta la notte, una passione forte come non ne aveva provate mai prima d'ora. Sahtiel la guardava e pensava a quello che aveva fatto. Fin dal principio aveva capito, a dispetto di tutte le sue parole, che lei amava Haderi, e gli era tornato in mente il ricordo del ladro dai capelli corvini che una volta gli aveva rubato il cuore e l'anima con un solo sguardo. Haderi aveva avuto su di lui lo stesso, quasi lo stesso effetto di Lyren. Haderi era pronto, astuto, brillante, e la sua bellissima eleganza bruna si notava dunque anche da lontano. E Haderi, anche se la bellezza dorata ed ipnotica del signore demone l'aveva toccato, non aveva ceduto alle sue proposte. Di solito non aveva rapporti con uomini. E anche le donne, come ben sapeva Lyren, non lo interessavano molto in una vita che era tutta ambizione ed intraprendenza. Allora Sahtiel lo aveva odiato, dopo che il bellissimo ladro bruno l'aveva respinto. Questo era successo diversi anni prima, quando l'Al-Eralir era ancora in preda al fuoco della conquista dell'est. In qualche modo Haderi era sfuggito alla sua ira, forse perché Sahtiel non aveva provato con troppo impegno a prenderlo. Ma adesso, ancora una volta, Haderi era a portata di mano. Era stata una
strana scoperta per Sahtiel venire a sapere che il ladro era tutt'ora imprigionato nei sotterranei della città per un insensato omicidio ai danni di un nobile. Sahtiel aveva riflettuto poco prima di fare quello che aveva fatto; aveva pensato molto poco a quanto aveva amato Haderi un tempo e poi a quanto Lyren amava Haderi ed a quanto lui stesso desiderava Lyren. Così, ancora amando Haderi ed ora amando anche Lyren, aveva chiamato una guardia nel bel mezzo della notte, mentre lei dormiva fra le sue braccia, e gli aveva ordinato di strangolare con un laccio di seta un bellissimo uomo bruno nella trentasettesima cella a destra, quella con una piccola finestra rivolta ad est, verso il sole sorgente... Lyren si svegliò per il freddo. Era un freddo che strisciava dall'orecchio sinistro per tutto il resto del corpo, insinuandosi innaturalmente nel suo sangue, come rallentando nelle sue vene. La pietra corniola bruciava di freddo. Spalancò gli occhi e balzò a sedere sul letto. Accanto a lei Sahtiel era sdraiato sui cuscini, le ciglia che ombreggiavano gli occhi ambrati, a guardarla pigramente, con indifferenza. Lei lo fissò, fissò quell'indifferenza, e all'improvviso una marea di emozioni si gonfiò dentro di lei, come un'ondata di rabbia. «È morto» disse, ed i suoi occhi chiari brillavano. Lui non parlò, ma in qui momento qualcosa curvò verso gli angoli della sua bocca. Un piccolo sorriso cinico. Lyren ricordò quel piccolo sorriso. Fu come un catalizzatore. E allora si rivoltò contro di lui, si rivoltò contro l'Al-Eralir di Aerhad-el-Raas. «È morto!» gridò, «Mi hai tradito!» «Non ti ho tradito.» «Cosa?! Osi dirlo adesso, dopo che mi hai dato la tua parola...» «La mia parola è ancora tua. Avrai Haderi come ho promesso.» Lei lo fissò, improvvisamente fredda per l'ira e la consapevolezza. «Sì» disse lui. «Ora hai capito. Non hai specificato come lo volevi. Io te lo do morto.» «Ma perché?» Lui allungò una mano per sfiorare la sua guancia con le dita. Lyren non si tirò indietro, ma sussultò. C'era una piccola cicatrice, il segno di una frustata. Durante la notte era guarita con incredibile rapidità. Fece scorrere le dita lungo la cicatrice. «Perché sei bella» disse. «Ed anche Haderi era... bello. Non dovrebbe esserci una tale bellezza insieme,
come la tua e la sua. Nero col nero. No...» «Tu sei pazzo...» Lyren disse piano. «No» proseguì lui. «Il nero dovrebbe andare con l'oro. Io sono l'oro...» «Per Aldiz e tutti gli dei, che tu sia dannato se non sei pazzo!» E Sahtiel rise. Una risata fredda e chiara come cristallo. «No. Non sono pazzo. Sono onnipotente. Che di per sé è una sorta di follia per gli altri che non possono capire cosa so o cosa posseggo...» «E cos'è che sai e possiedi?» disse Lyren mentre lo fissava negli occhi più da vicino. Erano dorati e freddi e vuoti. E lui non rispose. Improvvisamente Lyren balzò fuori dal letto, scansando le coperte, e restò in piedi, nuda, davanti a lui. «Allora, tu credi di sapere ed avere cose più grandi del resto di noi comuni mortali?» Poi corse verso il terrazzo aperto, oltrepassando le leggere cortine color lavanda fluttuanti nella brezza del mattino. Prima che lui potesse reagire alla sorpresa era già sul terrazzo, in alto sulla città, a guardare verso il basso, il bel corpo snello tinto di lilla e oro dal sole nascente. Nel punto in cui si trovava la brezza era forte, e scure macchie di uccelli volavano intorno a torri e torrette dei palazzi vicini, grigio-azzurri contro il cielo che si illuminava. Aerhad-el-Raas, immersa nella pallida nebbiolina lattea del mattino, si estendeva tutt'intorno a lei, immensa, sconfinata, brulicante della confusione della vita ordinata. Lyren, coi capelli svolazzanti nel vento, si guardò intorno, poi sollevò entrambe le braccia al cielo e gridò, mandando grandi echi a risuonare contro le pareti di pietra ed il vuoto del grande abisso: «Ascoltami, o Aerhad-el-raas, città del folle e dell'umile. Io, Lyren, sfido a duello Sahtiel Al-Eralir! Che l'Ar-Eralir si batta contro una donna, se ha coraggio! Che mi combatta con la spada, in un duello d'onore! Tu, o corrotta e putrida città, ascoltami bene! Sii testimone di questa Sfida Formale!» Gli echi risuonarono e svanirono in un silenzio vivente. Lyren abbassò le braccia e respirò l'aria pura. L'atto era compiuto. Sulla soglia del terrazzo c'era Sahtiel, nudo come lei, la sua espressione piena di sorpresa, ira, ed uno strano dolore. «Che cosa hai fatto?» sussurrò. «Che cosa hai fatto, stupida? Ora dovrò ucciderti...» Lei voltò appena la testa al suono della sua voce, gli occhi chiari calmi
ed intensi mentre rispondeva: «No, signore demone. Ora è tempo di ferire la luna. Si è dimenticata, credo, che pena mortale contiene la vita. Ricorderà attraverso Suo figlio.» A mezzogiorno tutta la città si era radunata per assistere al duello fra Sahtiel Al-Eralir e la donna guerriera sehjir. Per legge, una Sfida Formale non poteva mai essere ignorata o rifiutata, sia che venisse dal mendicante che dal signore, altrimenti colui che si asteneva veniva per sempre considerato un vigliacco e meno di un uomo. Di solito un Duello Formale era all'ultimo sangue, ma questo non era mai specificato dalla legge; il vincitore determinava le condizioni finali. Sul Campo di Combattimento, proprio fuori dalla città, era stato fatto spazio ed eretta un'ampia piattaforma quadrata, perché tutti potessero vedere. Tutto intorno si erano radunati a migliaia, irrequieti, in attesa. I due avversari avevano soltanto l'armatura e la spada lunga, secondo le regole del duello. Sahtiel, snello ed elegante, confrontava Lyren, maneggiando abilmente la spada. Un elmo con piume bianche gli nascondeva il volto sotto la visiera. Lyren lo fronteggiava ugualmente armata di spada. Vestiva in nero. «Sciocca ladra» disse Sahtiel. «Non volevo che morissi.» E mentre il Duello cominciava Lyren rispose, fredda e impassibile, alzando la spada per colpire: «Combattimi ora, signore demone. Combatti finché puoi.» Si avventarono l'uno sull'altra, come due rapaci, per strapparsi il cuore. Lyren era abile, ma Sahtiel era fuoco. Le loro spade brillavano bianche al sole, scontrandosi e separandosi, lasciando scie di luce abbagliante nello spazio vuoto. La folla osservava, silenziosa. Mai Lyren aveva incontrato un avversario così abile e forte. E ricordò a frammenti quello che si diceva della bravura dell'Al-Eralir; al tempo della Conquista cavalcava alla testa del suo esercito, distruttore spietato, brillante spadaccino. Tagliava la carne umana come un mietitore di un campo di grano, eppure non era mai stato ferito. «La luna deve amare davvero Suo figlio!» gridò Lyren, ansimando, in un piccolo momento di pausa. Una risata fu l'unica risposta mentre lui aumentava i suoi attacchi, avanzando, obbligando Lyren ad arretrare di diversi passi. «Comunque» boccheggiò lei «non ti ama abbastanza. Si dice... si dice che anche il sole ami i suoi figli...»
«Risparmiati le forze, mia ladra» disse la voce chiara e fredda, mentre Lyren riceveva un colpo che quasi le spezzò la spada. «Il sole» gridò Lyren «il sole ama i Suoi figli! Il sole, Arev, ama le Sue figlie. Ed ama la sua unica figlia così tanto che le ha fatto un dono...» Sahtiel avanzava su di lei, passo dopo passo, leggero, instancabile. «È un dono grande e raro» proseguì lei. «Il dono di sentire il dolore dei mortali, di sentirsi stanchi e riposare, dell'ignoranza e dell'esperienza, dell'indifferenza e poi dell'amore. È il dono di vivere, di essere mortali. Ecco, guarda questa cicatrice che ho sulla guancia... io sanguino e posso essere ferita! Perché io, Lyren-e-Arev, figlia del sole, ho ricevuto questo dono da mio Padre... E la luna... la luna, Ilenvis, ha dimenticato. Ha dimenticato di amare Suo figlio abbastanza da dargli la vera vita.» Sahtiel sembrò esitare un istante, e la sua spada descrisse un arco incerto prima di colpire quella di lei. «Tu, o Al-Eralir, non sei mai stato realmente vivo. Non hai mai amato. Hai distrutto Haderi, come ora cerchi di distruggere me, perché siamo entrambi vivi, più vivi di quanto tu non sia mai stato, e così, avendo nulla, hai voluto senza saperlo quella vita per te. Io non ti combatto per vendetta, ora... non può esserci vendetta contro l'atto di chi non è vivo, non umanamente vivo. Combatto per darti il dolore dei mortali, in modo che tu senta, in modo che la luna sappia quello che ha fatto... Questa città... la sua oscurità è opera delle Sue mani, il Suo misfatto. Io vi libero entrambi. Che il torto sia riparato!» All'improvviso, rapida come il lampo, Lyren colpì con la spada, la stessa spada che lui le aveva regalato in quel suo attimo di amore, di vita. In qualche modo, per un solo istante, Sahtiel rimase pietrificato, la sua reazione troppo lenta. La spada di Lyren spezzò la sua a metà, e calò oltre, penetrando attraverso la leggera armatura d'argento della spalla destra, tagliando la carne. Il sangue, rosso sangue umano, sgorgò come una fontana. Scorreva e macchiava l'argento, come un grande fiore roseo che apriva i suoi petali. La ferita non era mortale ma profonda. Lentamente, senza un lamento, Sahtiel cadde in ginocchio. L'elsa della spada spezzata gli cadde dalla mano inerte. Lyren lo sovrastava, né trionfante, né dispiaciuta. «È un modo duro. Per imparare la vita» disse piano, quasi gentilmente. Tutto intorno, il silenzio era totale, profondo. Poggiando a terra la spada, Lyren allungò le mani per togliergli dal capo l'elmo d'argento. I capelli do-
rati ricaddero in una cascata di luce per spargersi sulle sue spalle. Il suo viso era di un pallore marmoreo, gli occhi abbassati a terra. La crudeltà era assente dal suo viso, insieme alla forza. «Se quel che dici è vero...» mormorò, e poi rimase in silenzio. «Guarda, o popolo di Aerhad-el-Raas!» gridò Lyren. «Guarda il Suo viso! Guarda liberamente, perché adesso sei libero!» Come un grande brontolio di tuono le voci si alzarono tutto intorno a loro. Lyren tornò a rivolgersi a Sahtiel. «Non ti ucciderò,» disse. «Una volta ti ho quasi amato, signore. Te, come Haderi. Ma ora non posso. Ora che so cosa avresti potuto essere... mi fai pena...» All'improvviso lo afferrò per i capelli, glieli raccolse insieme, e prendendo la spada con l'altra mano gridò ancora: «Guarda, o Aerhad-el-Raas, libera città! Che questo ne faccia un uomo!» La lama si abbatté, tagliando la grande massa dorata. Lei l'alzò perché tutti potessero vedere. E Sahtiel, Al-Eralir, pianse, perché insieme ai capelli recisi se n'era andato anche il suo orgoglio. *
*
*
Il cielo era lavanda e oro sopra Aerhad-el-Raas mentre un cavaliere lasciava la città su un grande stallone nero. Immediatamente dietro, un convoglio trasportava il corpo composto di un bellissimo uomo bruno con segni di strangolamento sul collo. Il cavaliere, Lyren, guerriera, straniera, e qualcos'altro, non si voltò mai per vedere il giovane signore demone osservarla dalla più alta torre della città. La sua spalla ferita era bendata, i capelli tagliati, ed il suo viso era pallido di dolore e pena mortale. Quella notte, racconta la gente, si vide la macchia di una ferita rosso sangue sulla faccia della pallida luna piena. Titolo originale: Wound on the Moon Traduzione di Marina Nunzi FINE